GIANLUIGI ZUDDAS STELLA DI GONDWANA (1983) E siamo giunti al secondo appuntamento con Gianluigi Zuddas ed il suo affasci...
14 downloads
617 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
GIANLUIGI ZUDDAS STELLA DI GONDWANA (1983) E siamo giunti al secondo appuntamento con Gianluigi Zuddas ed il suo affascinante mondo delle Amazzoni. Non era difficile prevedere che il volume Le Amazzoni del Sud, da noi recentemente pubblicato, avrebbe suscitato tanti consensi: Zuddas infatti è una vecchia conoscenza degli appassionati italiani di fantascienza e, sin da quando apparve il suo primo romanzo nel 1979, il successo presso i lettori fu rapido ed immediato. Successo che peraltro venne subito ribadito quando completò il Ciclo di Solomon Kane di R. E. Howard (che costituisce il 2° volume della collana Il Libro d'Oro della Fantascienza); infatti, la resa espressiva nell'esecuzione di questo lavoro fu tale che non è assolutamente facile capire quali siano gli episodi frutto della penna del nostro autore livornese, e quali invece quelli scritti dal grande maestro americano. Tuttavia, anche se il plauso conseguente all'uscita di Solomon Kane fu unanime ed entusiasta, permettetemi di dire che non è in quel volume che noi riscontriamo uno Zuddas al meglio delle sue qualità espressive. Infatti, il dover forzatamente seguire la traccia di un altro autore, non gli consentiva di poter esprimere appieno quelle che sono le sue doti - del tutto personali e caratteristiche - che ne fanno a mio parere uno scrittore tra i migliori che la fantascienza di casa nostra abbia creato. E forse non solo quella di casa nostra... Nel Ciclo delle Amazzoni, del quale Stella di Gondwana costituisce il secondo volume, la pienezza e la maturità di Zuddas balzano fuori prepotentemente dalla lettura delle pagine. Ho già detto in occasione della presentazione al romanzo Le Amazzoni del Sud, come nel delineare queste simpatiche guerriere Zuddas non abbia nessuno che possa stargli alla pari: orbene, a questa definizione concernente la tipologia e la resa caratteriale dei personaggi, vorrei ora aggiungerne alcune altre relative all'ambientazione, alla trama e al modulo narrativo. Circa l'ambientazione potrei trovare un mucchio di aggettivazioni; colorita, varia, interessante, eccetera, ma a tutte queste connotazioni - comunque sempre presenti e valide - ne anteporrei un'altra a mio avviso molto più importante e che denota la bravura del nostro scrittore: realistica. I contesti infatti nei quali sono solite muoversi le sue eroine, non sono mai eccessivamente strani od inconsueti. Pur muovendosi nell'ambito della
fantasy, Zuddas riesce sempre a creare un'atmosfera fantastica basandosi su paesaggi e genti non molto dissimili da quelle che abitavano il nostro pianeta circa duemila anni or sono, per cui la lettura delle sue storie non risulta mai ostica o di difficile comprensione. La trama è sempre corposa, e sorretta abilmente da delle "linee secondarie" nelle quali l'autore diluisce l'ordito basale della narrazione. Infatti, in ogni romanzo del Ciclo delle Amazzoni, le eroine di Zuddas, partendo da un assunto che deve trovare il suo compimento alla fine del volume, affrontano una serie estremamente variata di avventure diverse, dimodoché l'attenzione del lettore è tenuta sempre desta e non recepisce l'idea di ripetitività che un altro autore - meno bravo di Zuddas - potrebbe dare nell'usare sempre gli stessi personaggi. Il modulo narrativo infine, è scorrevole e di facile lettura. Né questo è l'unico pregio che, contraddistingue gli scritti di Zuddas. La facilità di eloquio infatti, è unita ad una perfetta padronanza della lingua e delle aggettivazioni che rende il narrato sempre gradevole e mai "fuor di misura". Non è raro infatti il caso di autori - anche di un certo nome - i quali, per dare forza alle immagini dei loro scritti, sono soliti usare termini ed aggettivazioni ridondanti o comunque eccessivi. Ritengo comunque che sia giunto il momento di entrare più a fondo nel merito di questo Stella di Gondwana, anche perché ho sempre detto che funzione prima di ogni buona introduzione è quella di non sottrarre ai lettori del tempo eccessivo alla lettura di quanto viene loro proposto, per cui veniamo a Goccia di Fiamma ed Ombra di Lancia per vedere cosa combinano di nuovo. Il romanzo è un insieme di varie storie che si intrecciano sullo sfondo dell'antichissimo continente di Gondwana, una terra di alta civiltà che sta vivendo i suoi ultimi giorni di vita. È la storia di Babeeri, la misteriosa schiava la cui mano significa la salvezza di un intero continente; quella di Yaan Valgard il quale, destinato dalla Legge a sposare una Khoinè, ne cerca le tracce per anni e anni; quella del Principe Sumerico Valdek, spietato nemico delle Amazzoni, che ottiene una strana arma chiamata sparafiamma ed organizza una spedizione nel continente di Gondwana per impadronirsi del segreto di una polvere misteriosa che sappia far funzionare l'arma della quale è entrato in possesso. Ed ancora è la storia di Ombra di Lancia, fuggita dalla sua terra per aver perso la ragione in seguito all'ingestione di una droga, che si è trasformata in una sanguinaria piratessa; ed è la storia di Alybrea, la
Stella Nera, i cui fantastici poteri sottomettono un intero continente e la conducono alla follia distruggendole l'anima. Ma è soprattutto la storia di Goccia di Fiamma, l'avventurosa Amazzone dal carattere allegro e scanzonato che tutti voi conoscete, la quale parte dalla sua terra alla ricerca dell'inseparabile amica e compagna Ombra di Lancia. E dovrei ancora parlarvi dei Dottori dell'Oscuro, delle Cinque Nazioni, della Strada Sommersa, della Stella d'Oro, ma non credete sia molto meglio che vi leggiate da voi tutto quello che succede in questo romanzo? Io penso di sì per cui, senza perdere del tempo ulteriore, giro con voi la pagina per godermi quello che è successo 10.000 anni fa a Gondwana e dintorni... Gianni Pilo UNA SCHIAVA E UNA STELLA Nell'Oasi di Al Kwantara sorgeva il turrito palazzo di Sua Eccellenza Hatay Balbèk, detto il Giusto, Khajman dell'arida terra di Bad Yazira e prediletto del Dio Marduk. La lussuosa residenza era illegiadrita da laghetti e da palmizi, all'ombra dei quali si tenevano i banchetti e gli spettacoli di tortura per cui Hatay Balbèk andava famoso in tutto il Golfo di Bandai. Al di fuori dell'Oasi, dove il deserto spingeva lingue di terreno sabbioso a lambire le polle d'acqua, c'era invece la città di Al Kwantara vera e propria, una distesa di catapecchie in sassi e fango pressato dove sopravviveva, più che vivere, la popolazione. Davanti al palazzo s'apriva un grande circolo di colonne marmoree pavimentato in piastrelle, dove il Khajman teneva udienza a vantaggio dei possidenti, degli stranieri, degli sciamani e dei mercanti che viaggiavano lungo la strada carovaniera. Lì egli faceva eseguire le condanne a morte, fungeva da giudice per le cause penali, dirimeva le controversie, e distribuiva dietro congruo pagamento la sua personale e indiscutibile versione della giustizia. Come tutti sapevano, ma nessuno osava dire apertamente, la vera padrona di Al Kwantara era in realtà Dama Luria, l'amante ormai non più giovane di Hatay Balbèk, la quale reggeva fra le sue mani ogni trama occulta della politica nel territorio di Bad Yazira. Mosse politiche alla luce del sole non se ne svolgevano molte, dato il carattere abitualmente subdolo di cui facevano sfoggio i cortigiani e gli ufficiali dell'esercito, e per questa ragione Dama Luria era l'eminenza grigia attraverso la quale gli avvenimenti di
qualche importanza finivano per tradursi in conclusioni di vario genere. La preoccupazione maggiore della donna, e quindi il suo più vasto campo d'intervento, era però costituita da una quantità di piccoli intrighi destinati a tener lontano dagli occhi del Khajman ogni femmina appena passibile d'esser considerata graziosa, ed in questo compito Dama Luria era senz'altro un'esperta: chiunque, in Al Kwantara, osasse per calcolo o per eccesso di zelo condurre nelle vicinanze del Palazzo ragazze troppo avvenenti, scopriva a sue spese che Hatay Balbèk era circondato da una sorta di sbarramento difensivo costruito da Dama Luria col passar degli anni. Alcuni mercanti di schiavi s'erano vista piombare sul collo la spada di Sadducin il Nero, il Maestro Carnefice, mentre le fanciulle che essi avevano sperato di far acquistare al Khajman venivano dirottate altrove. Un paio di Reggitori di Palazzo miopi o incauti che avevano assunto abili cameriere, sfortunatamente troppo carine, erano andati incontro a una sorte non meno spiacevole. L'ultimo eunuco salito a quella carica, Rothaar, era però abbastanza sottile da saper intuire e prevenire le necessità di Dama Luria in modo davvero acconcio. Ultimamente s'era spinto fino a presentare ad Hatay Balbèk un gruppo di carnose danzatrici nomadi tutte ben oltre la menopausa, spacciandogliele per giovinette ovunque osannate per la loro bellezza. Ed il Khajman, il quale da quindici anni non riusciva a posare gli occhi su un'autentica ventenne, s'era lasciato menare per il naso da quella manovra, ordita allo scopo d'alterare sempre più i suoi già collassati canoni estetici, mentre la truccatissima Dama Luria era uscita ancora una volta vittoriosa dal paragone fra lei ed altre femmine. Si può quindi immaginare a quale tipo d'esame era stata sottoposta Babeeri, allorché un paio d'incaricati di Rothaar l'avevano condotta a palazzo con altri schiavi destinati ai mestieri più umili. La fanciulla era stata messa in vendita una decina di giorni addietro al mercato di Cranach, nella Terra di Junghad, lo stesso nel quale due anni prima era stata acquistata dal Sacerdote Ianos. Essendo deceduto il suo vecchio padrone ella s'era vista rimettere all'asta, ma come la volta precedente il suo soggiorno lì era stato brevissimo, perché le schiave più belle trovavano immediatamente compratori malgrado il loro prezzo elevato. Subito dopo era partita verso la desertica terra di Bad Yazira, diretta ad un futuro che non aveva neppure provato a figurarsi. Durante il viaggio sul carro non era stata trattata male, ma aveva faticato molto per riprendersi dallo scoramento. Ianos era stato come un secondo padre per lei, e degli avvenimenti terribili culminati con
la sua tragica morte, al tempio di Eleuse, conservava solo ricordi da incubo e assai confusi. Ora cosa le sarebbe accaduto? Non lo sapeva. La sua vita s'era stravolta del tutto, ed ella accettava quella sorte con la rassegnazione caratteristica dei miseri e dei diseredati, non potendo far diversamente. In Al Kwantara il carro aveva percorso un dedalo di viuzze strette fino a un ingresso secondario dietro il Palazzo. Qui gli schiavi erano stati fatti scendere ed esaminati uno per uno da un colosso calvo. L'uomo, un eunuco riccamente vestito e unto di olii profumati, nel vedere Babeeri l'aveva squadrata con tale disapprovazione e ostilità che ella s'era sentita tremare le gambe. Poi s'era rivolto a uno dei due individui che l'avevano comprata all'asta: «Molto bene, Zobull. Vedo che i tuoi gusti in fatto di femmine sono sopraffini. Quanto l'hai pagata?». «Cinquanta piastre, Eccellenza. Un vero affare, credimi. Questa biondina dagli occhi cerulei sarebbe il fiore d'ogni harem, anche vestita d'un cencio e coperta di fango. È una fata». Gli occhi dell'eunuco s'erano fatti di ghiaccio. «Sono d'accordo, e non dubito che sia stata la tua lascivia a suggerirti un tale acquisto. Ora dimmi, Zobull: quale mano sei solito usare per accarezzarti nelle tue parti più sporche?». L'uomo era impallidito spaventosamente. «La destra, Eccellenza...». «Guardie, scortate il nostro amico Zobull in prigione», aveva ordinato l'individuo a un paio di militi presenti. «Darò istruzioni a Sadducin di mozzarti per l'appunto la mano destra, affinché tu impari ad usare il cervello invece dei tuoi stupidi istinti bestiali, quando ti affido una commissione. Come vedi, so essere pietoso». Zobull era stato condotto via, e Rothaar s'era rivolto all'altro, con un sospiro. «Suppongo di conoscere il motivo per cui tu non hai messo sull'avviso il tuo compare. Non è vero, Ekren? Va bene, d'ora in poi sarai tu l'addetto all'acquisto del personale, Ma attento: se la tua ambizione finisse con l'infastidirmi sai cosa ti accadrà». Ekren s'era inchinato. «Eccellenza, non vi è stato alcun rischio. Sapevo che questa schiava non avrebbe oltrepassato la soglia del Palazzo, grazie ai tuoi controlli. Zobull era uno sciocco, ed è giusto che le sue delicate mansioni siano svolte da chi meglio saprà accontentarti. Devo farla accludere alla prossima carovana diretta in Sumer? Nella Terra dei Due Fiumi una ragazza così bella potrà fruttare almeno trecento piastre d'oro». «Va bene. Nel frattempo conducila alle lavanderie, e disponi che non
venga mai fatta uscire dai cortili del retro». «Certo, Eccellenza». Lo sguardo dell'uomo aveva assunto una luce di complicità. «Vuoi che mi occupi allo stesso modo dell'Amazzone?». «Cosa? Non sapevo che qui ci fosse un'Amazzone!» s'era stupito l'eunuco. «Chi l'ha catturata? È per caso una femmina giovane e attraente?». «Immaginavo che quell'incauto di Serpin non ti avesse informato. Sì, è una rossa di belle fattezze, anche se troppo robusta e selvaggia per il gusto comune. Tuttavia è assai più piacente di... di quella persona che noi conosciamo come assai gelosa. Sukadvar, il Comandante della guarnigione, l'ha catturata nel deserto, mentre viaggiava da sola, proveniente forse da Mitanni. Mi hanno detto che è stata stupidamente messa nelle prigioni». «Che idiozia colossale!» aveva ringhiato Rothaar. «Qualcuno pagherà per questo. Ti ringrazio d'avermi avvertito». «Conosco il mio dovere. E tutti sanno che il Khajman, Marduk rimeriti la sua bontà d'animo, visita giornalmente le prigioni. Ho giudicato altamente inopportuna l'eventualità di fargli trovare laggiù una femmina troppo fresca e ben fatta. Mi si dice che andrà presto nelle mani di Sadducin il Nero». «Falla legare presso la stalla, Ekron. Resterà là provvisoriamente, e poi mi occuperò io di lei». L'eunuco li aveva congedati, e Babeeri era stata condotta lungo una serie di cortili già invasi dall'oscurità fino ad una rustica costruzione vicino ai pollai. Dal mattino dopo ella s'era vista adibita ai compiti più infimi e faticosi, sia nelle lavanderie che nei pollai, ed aveva subito scoperto che fra le sue incombenze ce n'era una ancor meno piacevole delle altre: doveva infatti recare il cibo all'Amazzone che i soldati avevano fatta prigioniera e sistemata in uno dei cortili posteriori, e vuotare il bugliolo nel quale ella espletava le sue necessità corporali. Ben conscio delle sue responsabilità, Rothaar l'aveva tolta dai sotterranei fin dal primo giorno, facendola incatenare ad uno degli anelli del muro ai quali si legavano i cavalli. Il retro del Palazzo era una specie di zona franca, per quanto riguardava il soggiorno e lo smistamento di donzelle troppo avvenenti, perché il Khajman era convinto che i cattivi odori che vi stagnavano provocassero una prematura vecchiaia e molte malattie, e non vi metteva mai piede. Dalle manovre di Dama Luria e dell'eunuco venivano quindi a trarne fugaci godimenti i servi e gli schiavi che lavoravano in quei cortili, e ad otto giorni dall'inizio della sua nuova vita Babeeri era stata edotta nel
modo più rude su quella situazione. Occuparsi dell'Amazzone s'era infine rivelato il meno ingrato dei suoi compiti, grazie ai momenti di relativa liberta che ciò le procurava, benché ella non avesse ancora superato la paura che le dava la vicinanza di quella femmina imponente dai verdi occhi di felino. «Ecco a te», brontolò Sirrush, il secondo assistente del Maestro Cuoco. «Una scodella di buona zuppa sprecata per quella carogna di un'Amazzone. Portagliela, e augurale da parte mia che si possa strozzare con una scheggia d'osso». Ad occhi bassi Babeeri scivolò fra la mole lardosa del cuoco e il bancone e, mentre prendeva la scodella, le mani avide dell'individuo la palpeggiarono lascivamente attraverso il vestito. Sirrush rise, ma poi la lasciò filar via senza pretendere altro da lei. Fra i tanti membri della servitù il cuoco era pur sempre quello che si prendeva meno libertà con lei, tanto che ella aveva fatto l'abitudine a rifugiarglisi accanto quando uno degli altri la insidiava troppo. Dopo intere nottate trascorse a difendersi affannosamente da uomini puzzolenti di sudore, nel dormitorio degli schiavi, era giunta al punto di considerare un amico quello che le si mostrava appena meno crudele degli altri, ed era convinta di aver ormai pianto tutte le sue lacrime. Uscì nei cortili, oltrepassò il vasto pollaio e si diresse alle scuderie reggendo con cautela la scodella in cui nuotavano frammenti di osso. Qui s'avvide, con sorpresa e un po' di timore, che due persone riccamente vestite stavano interrogando l'Amazzone incatenata al muro. Uno di essi era il Reggitore di Palazzo, l'eunuco dagli occhi duri che l'aveva accolta il primo giorno. L'altra era una donna molto truccata, avvolta in un abito di seta ricamato in oro, e per averla già vista una volta da lontano ella sapeva che si trattava della perversa amante del Khajman, la subdola e temutissima Dama Luria. S'avvicinò timidamente, e notò che Rothaar sottolineava le domande poste all'Amazzone con maligni colpetti del suo frustino fornito di aculei. La ragazza aveva trecce rosse spettinate, stava seduta a terra nella polvere e rispondeva a monosillabi con aria sfottente, ignorando orgogliosamente le sevizie dell'eunuco. Quando Dama Luria si volse e vide Babeeri, i suoi crudeli occhi neri ebbero uno scintillio d'interesse. Diede di gomito a Rothaar. «È questa la schiava di cui mi hai parlato?». «Sì, mia Signora. Ho già preso accordi con Vilas el Moluk perché sia unita alla prossima carovana di schiavi diretta in Sumer. Nel frattempo è
mia cura tenerla nascosta nei cortili interni, come l'Amazzone». «Davvero molto bellina». Dama Luria s'accostò a Babeeri, che s'era immobilizzata, e sorrise con distorto compiacimento. «Se la si sgrumasse un po' dal sudiciume, forse scopriremmo d'avere qui un autentico gioiello». «Non permetterò che sia venduta per meno di trecento piastre», s'affrettò a rassicurarla Rothaar. «Certo. Ma senza dubbio la piccola dovrà esser sistemata come si conviene, perché Vilas el Moluk ne tragga il prezzo più alto. E nel frattempo avrei un mio progettino...» Dama Luria le sollevò il mento con un dito, e sotto il suo sguardo Babeeri impallidì per l'apprensione. «Una bambina docile quanto bella», commentò l'amante del Vasarca. «Mi chiedo se entro stasera non la si potrà trasformare in una personcina civile. Dopo le udienze del pomeriggio consegnala alle mie ancelle e falla condurre nei miei appartamenti privati». «Sarà fatto, mia Signora. E con la riservatezza necessaria affinché io possa meritare il tuo grazioso compiacimento». Dama Luria passò un dito sul collo a Babeeri e parve soddisfatta nel vederla rabbrividire. «Falla vestire di lino bianco. E più tardi dimentica il tuo frustino uncinato nelle mie stanze. Bianco e rosso... un accostamento di colori che io ho sempre trovato eccitante». Il Reggitore di Palazzo approvò l'idea con una risata chioccia. Dopo l'ultima occhiata da intenditrice al corpo flessuoso di lei, Dama Luria s'allontanò, seguita dappresso dall'eunuco, e Babeeri rimase lì con la ciotola in mano, stentando a capire quali eventi le andasse preparando la torbida immaginazione della cortigiana. Era sicura che non sarebbe stato nulla di piacevole, e il suo sguardo smarrito le attirò un'occhiata ironica da parte della prigioniera dalle trecce rosse. «Avanti, tesoro, non incantarti. L'odore di cavoli marci di quella fanghiglia non è un balsamo per l'appetito, ma ho i crampi alle ginocchia dalla fame. Diamo inizio al banchetto». Babeeri le mise la ciotola fra le mani, e l'Amazzone se la portò alla bocca. Aveva i polsi legati, ma s'era fatta abile a non versarne nemmeno una goccia. Masticò e bevve, e intanto fissava la giovane schiava con una certa malizia. Poi riprese fiato e si leccò la labbra. «Ehi, mi pare che quella cagna profumata non ti stia preparando una notte molto affascinante. Lei e il maiale castrato sono degli specialisti in sevizie. Se fossi nei tuoi panni e se potessi procurarmi un cavallo mi darei alla macchia... se qui ci fosse macchia!».
Al gioco di parole la ragazza rise, ma Babeeri non rispose. Non osava parlare con quella femmina, ben sapendo quanto le Amazzoni fossero terribili e inumane. Ianos, il suo defunto padrone, le aveva narrato che quelle donne guerriere abitavano nelle Terre Basse, sulla costa settentrionale di Afra, e che spesso spingevano la loro scelleratezza fino a compiere sanguinose incursioni nelle nazioni alleate coi Sumerici. Per la verità ben poche di esse mettevano piede nella Terra di Junghad o in Al Kwantara, dato che sarebbero state costrette ad attraversare territori in mano alle Teste Nere di Sumer. Babeeri non ne aveva mai vista una in carne ed ossa, e dopo che il Sacerdote di Eleuse gliene aveva parlato s'era augurata con fervore che ciò non le accadesse mai. A detta di Ianos, ben pochi erano coloro che avevano avuto a che fare con quelle belve umane ed erano potuti tornare a raccontarlo, ed essi ne riferivano come se più volentieri si fossero visti di fronte i demoni dell'Oltremondo. Era risaputo che le Amazzoni mettevano al palo della tortura donne, bambini e vecchi, e bruciavano e massacravano. Con le mani dei cadaveri facevano amuleti da portare al collo, e coi loro denti bracciali e collane. Prima di uccidere gli inermi, inoltre, cavavano gli occhi a tutti. Si raccontava che Shalla, la loro Regina salita al trono l'anno prima, avesse cento barili di occhi umani conservati nell'aceto, e che le sue selvagge guerriere bevessero il sangue direttamente dalla gola dei bambini che catturavano vivi. Questo era ciò che Babeeri sapeva delle Amazzoni, ed era convinta che fosse verità sacrosanta anche se s'era accorta, non senza stupore, di come quella ragazza non corrispondesse per niente all'immagine della mostruosa divoratrice di neonati che Ianos le aveva fornito. Anzi il più delle volte essa le si rivolgeva con frasi gentili, quasi che volesse ingraziarsela. «Però... questa potrebbe essere un'occasione per piantare un coltello nel ventre di quella megera», propose l'Amazzone. «Te la sentiresti di farlo stanotte, prima che cominci a lavorarti col frustino? Sarebbe facile e perfino divertente». Babeeri la fissò sbalordita, al che l'altra ridacchiò. «Ma no, tu non sapresti schiacciare una zanzara senza metterti a piangere di compassione, si vede subito. Dimmi, ti faccio tanta paura, che non mi rivolgi mai la parola? Qual è il tuo nome? Il mio è Goccia di Fiamma. Lo sai che assomigli molto a una mia amica? Si chiama Fiore, e lavora in una taverna nella Capitale della mia terra, ma lei è la loquacità in persona: ride e canta tutto il santo giorno».
«Mi chiamo Babeeri», rispose lei, badando bene a starle lontana. Pazientemente attese che vuotasse la ciotola e gliela ridesse, ma la rossa sembrava non aver fretta. «Babeeri? Qui nella penisola di Ahrab è un nome insolito», commentò Goccia di Fiamma. «E anche tu hai qualcosa di esotico, nell'accento e nell'aspetto. Non sei originaria di queste zone. Sembri addirittura una nordica delle Terre Fredde. Vieni da Helgoland?». «Non so dove sia», mormorò lei, senza guardarla. «Io provengo da sud. Dal Gondwana». «Vuoi dire che sei nata su un'isola? Comunque... per te sarebbe meglio avere le gambe storte e il naso a becco. In Ahrab la bellezza porta solo disgrazie a una ragazza d'animo semplice. So che il nostro Rothaar progetta di rimetterti nelle grinfie degli schiavisti. È un peccato. Se verrai portata in Sumer, scoprirai che anche lì le donne sono considerate solo ammali e oggetti di piacere, e i loro diritti umani vengono ignorati del tutto». La fanciulla aveva ascoltato a capo chino quelle dichiarazioni, troppo intimidita per poterle valutare e rispondere a tono. Le sembrò strano che quella femmina pericolosa discutesse di diritti umani, e fu certa che volesse prenderla in giro. «So che voi Amazzoni odiate gli uomini e li uccidete», osò infine dire. «Siete crudeli... Non riducete in schiavitù i vostri nemici, come il Khajman o il Tiranno di Junghad: voi li torturate a morte». «Non dire mai che le Amazzoni odiano gli uomini, ragazza mia. Questa è una voce messa in giro dai Sumerici. Alcune delle persone a me più care sono di sesso maschile, anche se non ci credi. Ma sono uomini di Mitanni, gente civile e onesta, che non disprezza il lavoro manuale e considera illegale la schiavitù. Se tu fossi stata nella mia terra, o in Mitanni, sapresti che dove la Regina Shalla ha influenza politica, non esiste il commercio di schiavi, non c'è l'oppressione del ricco sul misero, le leggi sono uguali per tutti e vengono applicate con giustizia. Uomini e donne dispongono d'identica libertà personale. E ora guarda te stessa: sballottata da una parte e dall'altra, senza casa, senza un cane che ti aiuti quando il primo fetente che incontri decide di violentarti e di venderti schiava. Ah!... davvero non chiedi nulla di meglio dalla vita?». «Babeeri muoveva la punta di un piede sulla polvere del cortile tracciando linee dritte con accuratezza, incapace di capire l'argomentare dell'altra. Diritti uguali, libertà e ricchi che rispettavano i poveri: chi mai aveva osato dire sciocchezze simili nella penisola di Ahrab? Come poteva un misero
pretendere il rispetto di un ricco? Era un controsenso, questo per la fanciulla era ovvio. E tuttavia, da ciò che rammentava della sua infanzia, si rendeva conto che altrove c'era davvero più giustizia. «Io sono povera e schiava», mormorò. «Che altro potrei fare, se non accettare il mio destino? Se avessi potuto restare nel Gondwana, forse oggi sarei libera e godrei di grande rispetto. Ma ne venni portata via che avevo appena nove anni, e ora vivo qui». L'Amazzone la guardava con interesse. «So che il Gondwana è un mare immenso che s'estende a meridione di Ahrab. Come successe che i mercanti di schiavi ti rapirono dalla tua isola?». «Io non abitavo su un'isola», disse Babeeri, «ma nel grande continente di Gondwana, da cui prende nome il mare. Si trova nel suo centro, assai lontano, ma è dieci volte più vasto del deserto di Bad Yazir, ed è potente. Là vive il mio popolo, che ha un grande esercito invincibile e la cui sapienza non teme confronti. E fu nella bianca città di Lahaina che io nacqui, quasi diciannove anni or sono». Goccia di Fiamma apparve stupita. «Non ho mai sentito parlare di questo tuo paese. Ma devo ammettere che sapevo poco o niente anche delle nazioni di Ahrab, prima di cacciarmi come una stupida in bocca agli scherani del Khajman. Ignoravo che vi fosse un regno potente in mezzo al Mare di Gondwana. Dunque i pirati vanno là in cerca di schiavi?». «Io non fui rapita dagli schiavisti, poiché nessuna nave pirata osa avvicinarsi al Gondwana. Le sue coste sono protette da una barriera di scogli che fa naufragare ogni vascello, e dai soldati le cui armi gettano il fuoco contro i nemici. Non vi è alcuno che abbia il coraggio di avventurarsi oltre la Collana degli Atolli, e quella barriera protegge da sempre la mia terra». «Armi che gettano il fuoco... Vuoi dire stregoneria?». La rossa ebbe uno sguardo scettico. «Noi Amazzoni non crediamo a queste cose, carina. E infine, se questo misterioso continente è tanto ben difeso e agguerrito, come spieghi che te ne abbiano fatto lasciare le spiagge con tanta facilità? Certo i pirati vi compiono regolarmente delle razzie». «Oh, no. Perfino i crudeli pirati del Warnalore evitano le acque intorno al Gondwana, altrimenti le loro navi si spezzerebbero sulla Collana degli Atolli. Nessuno vi può passare», la corresse Babeeri un po' più vivacemente. Scoprì che parlare dei luoghi dove aveva trascorso l'infanzia la eccitava, e riuscì a sorriderle. «Ma esiste una via che unisce il Gondwana alle terre del nord, ed essa ha nome di Strada Sommersa, poiché giace nel più profondo del mare e non ricompare alla superficie se non per volere degli Dei
Senza Nome, ma assai di rado. È una strada magica, selciata di pietra, e furono i miei lontani antenati a costruirla. Io venni condotta via dalla mia terra su di un carro, e ricordo come fosse ieri con quale velocità esso correva, mentre ai lati si stendeva il mare immenso e sterminato. Fu molto bello, anche se ebbi paura, perché il mio tutore diceva che sulla Strada Sommersa è necessario correre come il vento. Se avessimo esitato, le acque l'avrebbero nuovamente ricoperta e ci avrebbero fatti affogare prima di raggiungere il Wadabra, le paludi dove scorre il fiume chiamato Hynd». «Straordinario», ammise l'Amazzone. «Un percorso che emerge solo quando si verifica una marea eccezionalmente bassa, dunque. E dev'essere lungo centinaia di leghe. Ma perché questo tuo tutore ti portò a nord? E cosa ne è stato di lui?». «Io non lo so». Babeeri abbassò gli occhi. «Ma egli era un uomo buono, e non voleva permettere che io venissi uccisa. Capisci? Fu per questo motivo che mi condusse lontano, in un luogo dove potessi essere salva. E giunti nel Wadabra mi affidò agli Shang, che erano cortesi con gli esseri umani. Vissi con loro fino a due anni fa, sull'isola del Clan dei Faragoj, e poi gli uomini di un pirata a nome Shadu mi rapirono insieme con altri». Goccia di Fiamma la fissava accigliata, quasi che il significato delle sue parole stentasse a penetrarle nella mente. «Aspetta un po', ragazza», disse. «Stai andando un po' troppo svelta per me. Che razza di storia è la tua? Una strada sotto il mare, un continente dove i soldati hanno armi che gettano il fuoco, un tutore che ti salva la vita affidandoti a gente che tratta bene gli esseri umani... Ma insomma, non stai esagerando?». «Che vuoi dire?» mormorò Babeeri. «Non ti comprendo. Gli Shang erano gentili con me, e dopo che i pirati mi ebbero portata in Junghad per vendermi al mercato degli schiavi piansi molto. Per fortuna trovai un buon padrone, Ianos il Sacerdote, che mi tenne con sé due anni. Ed ora è morto». «D'accordo!» sbuffò l'Amazzone, incrociando le gambe davanti a sé e riempiendosi i polpacci di polvere. «Ma tutto questo mi sembra abbastanza fantasioso, ragazza mia. Intanto, perché mai il tuo tutore ti portò altrove? E chi diavolo voleva ucciderti, nel tuo paese?». «Io... non ricordo bene», balbettò lei, di nuovo intimidita dal suo tono. «Ero appena una bambina, e non capivo ciò che accadeva, per questo non so rispondere alle tue domande. Ma vi era stata la guerra, credo, e i miei genitori purtroppo morirono. Il mio tutore disse più volte che dovevo
fuggire lontano, poiché in Lahaina era salito al trono un Re crudele, e costui non avrebbe permesso che la Khoiné restasse viva. E pur avendo solo nove anni, io ero destinata ad essere la Khoiné nel Gondwana. Fu a questo modo che andai via per sempre dal mio paese, affinché potessi vivere, e perciò non posso lamentarmi anche se ora sono povera e schiava». Goccia di Fiamma rise incredula, seppure con una nota di nervosismo. «Al tuo posto io invece mi lamenterei, eccome! Ti giuro che stipendierei un paio di persone per maledire notte e giorno tutti gli Dei dell'Oltremondo. Sempreché... tu non abbia inventato questa favola di sana pianta. E cosa sarebbe una Khoiné? Sentiamo». Babeeri sbatté le palpebre. Avrebbe desiderato che quella ragazza le ridesse la ciotola e la lasciasse andar via, invece di farle tutte quelle domande. Grumlde si sarebbe irritata se non l'avesse vista tornare nelle cucine, dove c'erano pile di terraglie da lavare. «La Khoiné», spiegò con pazienza, «è colei che fa accendere la Stella d'Oro sul grande Palazzo Bianco di Lahaina, e mi fu detto che persino il Re deve ascoltarne con rispetto la parola. Prima di me la Khoiné era mia madre, che adesso è morta ormai da nove anni. Aveva i capelli biondi molto lunghi, ed era tanto buona. Anche mio padre era biondo come lei. Spesso mi prendeva in braccio e mi portava in una vasta piazza di marmo bianco... Mi diceva che da grande avrei salito anch'io gli scalini dell'Altare della Stella, davanti a tutto il popolo come mia madre, e che allora anche la mia stellina si sarebbe accesa di luce d'oro come la sua. Guarda!». Davanti agli occhi sbalorditi dell'Amazzone, Babeeri tese la mano sinistra e mostrò il palmo. Nel centro di esso, piccola come una moneta da una piastra, c'era una macchia bianca dai contorni nitidi la cui forma era quella d'una perfetta stella a cinque punte. Goccia di Fiamma la fissò a bocca aperta, ingoiando di colpo le frasi ironiche con cui stava per commentare quella sintetica storia. «Per le corna di Marduk!» esclamò. «Non ho mai visto una cicatrice simile. Certo t'hanno marchiata a fuoco con un ferro rovente, quand'eri bambina. Devo ammettere che è singolare, e quasi m'hai convinto che non stai fantasticando come per un po' ho pensato». «Ma l'avevo anche quando nacqui, sebbene fosse più piccina», asserì lei. «Ianos il Sacerdote diceva che era un segno di Eleuse. Però tutte le Khoiné, da mille generazioni, hanno la stella bianca sulla mano sinistra, e quando salgono sulla vetta dell'Altare, essa brilla come una luce d'oro. Io
questo lo so, poiché da bambina assistevo alla cerimonia annuale di mia madre. Ianos non ci credeva... Ma questo ormai che importa? Se io potessi, tornerei più volentieri nel Wadabra, poiché gli Shang erano gentili e talvolta mi regalavano i vestiti delle loro dame. Dimmi, è molto lontano il Wadabra?». «Cosa? Non ne ho la minima idea, tesoro. Se non lo sai tu che ci sei stata, figurati io», disse l'Amazzone distrattamente. «Ieri ho sentito due schiavi parlare di te. Qui corre voce che tu e il tuo padrone siate stati puniti per aver dato asilo a quella famigerata piratessa, Laune la Cagna. È vero?». La fanciulla annuì. «Sì. Il Tempio di Eleuse sorge sulla riva del mare, e la piratessa venne a domandare aiuto a Ianos. Era sfinita a malridotta, perché il suo vascello era stato circondato dalle navi del Tiranno di Junghad. Soltanto lei s'era salvata, gettandosi a nuoto. La mettemmo a giacere in un letto. Ma quel pomeriggio giunsero al Tempio quattro ladroni di Dall Tharka, per derubarci». «Cosa accadde?». «Assalirono Ianos nell'orto dietro la casa, e lo uccisero, poi dissero che mi avrebbero portata via con loro. Ma Laune li udì, si alzò dal giaciglio e uscì nell'aia con la spada per affrontarli. Fu terribile... non avevo mai visto una donna combattere in quel modo, ed alla fine li uccise tutti. Però fu ferita, e quando il giorno dopo arrivarono i soldati che la cercavano lungo la costa, non poté difendersi e venne catturata. Ora è in prigione a Cranach, e presto la metteranno a morte, perché ha commesso delitti spaventosi». «Strano», mormorò l'Amazzone. «Non capisco perché si sia giocata la pelle per aiutarti. La gente dice che neanche il demonio ha addosso il puzzo di zolfo infernale come Laune la Cagna. Batte i mari da appena un anno, e sulle coste dov'è sbarcata in caccia di schiavi e di oro, ha mietuto più vittime della pestilenza, ma nessuno sa chi sia in realtà e da dove provenga. M'interessa. Che altro sai di lei?». «È alta quanto te, bruna di capelli. I suoi occhi sono ardenti come la brace, e quando si batte con la spada in mano fa impressione. Ma è incomprensibile e taciturna, e non sorride mai. Con me fu gentile e generosa... Io prego ogni giorno Eleuse che la salvi dal capestro». Goccia le restituì la ciotola. «Difficile che accada. Ma non disperare, bambina. Forse un giorno avrai la fortuna di rivedere la tua terra. Devo dire che tutto mi aspettavo, salvo che una schiava mi raccontasse una storia tanto singolare». «Forse troverò un altro padrone buono come Ianos, un altro Sacerdote di
Eleuse», mormorò lei. «Ma a te cosa accadrà?». «Niente di buono. M'ero fermata al Santuario di Cempoalla per indagare su una persona che sto cercando, e li devono aver capito che ero un'Amazzone. Mi hanno fatta inseguire dai soldati del Vasarca, nel deserto, e mi sono lasciata raggiungere come una stupida». «Finché si è vivi bisogna sempre sperare», sentenziò saggiamente Babeeri. «Ebbene, in tal caso potrò continuare a sperare per altre cinque o sei clessidre. Oggi pomeriggio il Khajman ha messo in programma alcune esecuzioni capitali, fra cui la mia. È appunto questa la notizia che l'eunuco è venuto a comunicarmi: voleva godersi la mia reazione». La fanciulla trasalì, inorridita. «Ma è terribile!». «Oh, dal suo punto di vista è un'applicazione di luminosa equità: io non gli ho fornito una spiegazione soddisfacente su ciò che stavo facendo nella sua terra, e lui mi fornisce una lama fra capo e collo. Rothaar mi stava magnificando l'abilità di Sadducin il Nero, il Maestro Carnefice. Qui in Al Kwantara le esecuzioni sono un gioco a cui partecipiamo tutti per fare scommesse sulle prestazioni di questo boia, e pare che il bravo Sadducin sia un vero fenomeno: è capace di tagliare i condannati in due parti con un sol colpo di spada, vuoi verticalmente come orizzontalmente. Le scommesse vertono sulla riuscita della sua opera». «Tagliata in due!...» ansimò Babeeri. «Questo ti accadrà?». «Già. Magari potrai assistere ai miei ultimi momenti di vita, se ti nascondi dietro la siepe. Mi si dice che lo spettacolo si terrà nel grande colonnato circolare dove hanno luogo le udienze, e che dopo ci sarà un allegro banchetto». Le ciglia della fanciulla s'erano inumidite di lacrime. Se le asciugò in fretta e distolse lo sguardo, imbarazzata. Goccia di Fiamma le sorrise. «Non rammaricarti troppo per me, Babeeri. E grazie per aver versato una lacrimuccia pietosa sulla mia sorte. Tu sei buona, e spero che la vita non sia crudele con te». Babeeri cercò di mormorare qualcosa per consolarla, ma le mancavano le parole: cosa mai si può dire a chi è incorso nell'ira degli Dei ed è atteso dalla morte? Infine si volse e andò via, ma di nuovo il pianto le offuscò la vista. Non capiva perché quella ragazza doveva vedersi troncare la vita così spietatamente. Era giovane, bella e simpatica, e sebbene fosse un'Amazzone, meritava di vivere più di chiunque altro avesse mai conosciuto. Perché il mondo era così malvagio? Perché l'unica persona che in Al
Kwantara le si fosse mostrata amica era destinata al boia? Non riusciva a farsene una ragione, e quando ebbe svoltato l'angolo oltre il muretto del pollaio lasciò cadere la ciotola e si coprì il volto con le mani. A metà del pomeriggio, proprio mentre nelle cucine ferveva l'attività più intensa, Babeeri abbandonò di soppiatto il suo lavoro per dileguarsi nel dedalo dei cortili assolati. Sapeva che al suo ritorno Sirrush l'avrebbe fatta frustare, ma non le importava nulla, e corse a nascondersi nell'interno della siepe alta e ben potata che circondava lo spiazzo delle udienze. Da quel posto d'osservazione la fanciulla s'accorse che riusciva a vedere entro l'imponente circonferenza di colonne di marmo rosa. Hatay Balbék si trovava a una cinquantina di passi da lì, assiso su un trono di legno dorato, ed ella lo giudicò un privilegiato che la ricchezza rendeva superiore e distante dai problemi umani. Non le piacque molto, ma fu colpita dall'aria dignitosa con cui accoglieva le leccornie che alcune ancelle anzianotte gli recavano alla bocca. Due eunuchi gli facevano vento con giganteschi ventagli di piume verdi. Dinanzi al trono c'era parecchia gente, e il disinteresse che Hatay Balbék ostentava verso i postulanti, sembrò a Babeeri sintomo di saggezza ed equità di giudizio. Ai lati un centinaio di seggi ospitavano cortigiani, funzionari e ufficiali dell'esercito, e molti altri erano dislocati lungo l'intero circolo di colonne. I camerieri s'aggiravano dovunque, e le guardie intascavano mance da chi voleva esser condotto con più solerzia alla presenza del Khajman. Prima dei postulanti che invocavano giustizia, erano stati introdotti alcuni personaggi importanti: un capotribù del Barragas che aveva portato un cestone colmo di mani mozzate a contadini ribelli, un messaggero del Tiranno di Junghad, un ambasciatore sumerico altero e sprezzante, ed un possidente di dromedari venuto ad offrire le sue figlie per l'harem di Hatay Balbék. L'arrivo di costui aveva subito rivelato a Dama Luria che qualcuno la tradiva, dato che il Khajman non possedeva un harem, e dietro il trono c'era stato un certo movimento allorché s'era alzata per prendere le contromisure necessarie. Da li a poco la fila dei condannati a morte, legati fra numerose guardie oltre le colonne, s'era allungata di altre due unità, e Dama Luria aveva ripreso posto soddisfatta accanto all'amante. Babeeri non sapeva distogliere gli occhi da Goccia di Fiamma, che occupava il quinto posto della fila. I commenti captati fra la gente in sosta dinanzi al suo nascondiglio, le avevano fatto capire che non era insolito
vedere Amazzoni condotte dal Maestro Carnefice, perché sovente se ne catturavano di vive o di ferite presso i confini di Mitanni. Era però risaputo che non le si poteva ridurre in schiavitù, visto il loro carattere feroce, e si prevedeva che la sua morte non avrebbe offerto uno spettacolo apprezzabile. Buona parte del divertimento era dovuta infatti a coloro che invocavano pietà, piangevano e strisciavano, o s'aggrappavano freneticamente alle gambe delle guardie. Le Amazzoni invece giungevano davanti al boia tenendosi erette, ed esibivano sfrontatezza e disprezzo per tutti prima che la lama di Sadducin calasse su di loro. Quando terminò la sfilata dei postulanti, da dietro il trono sbucò l'impressionante figura d'un colosso in armatura, e l'attenzione del pubblico si fece più viva. Sadducin il Nero doveva il suo soprannome al colore della sua bardatura irta di punte metalliche, ideata allo scopo di rappresentare il buio del Fato in attesa oltre la morte e la terribile giustizia terrena del Khajman, ed il bellicoso accessorio dotava il Maestro Carnefice di un'apparenza fisica che annichiliva. Babeeri lo osservò con sgomento. L'uomo aveva un volto segnato e brutale, e sul capo issava un cimiero fornito di due lunghe corna d'antilope erette verticalmente. Alla sua cintura era appeso un fodero da cui sporgeva l'elsa d'uno spadone del tipo a due mani, usato nei tornei. Dalla fila dei condannati non tardarono a levarsi gemiti di terrore, intanto che l'individuo andava a piazzarsi a gambe larghe davanti al trono. Il Khajman mosse pigramente una mano, accennando di dare il via allo spettacolo, ed il primo dei detenuti fu condotto nello spiazzo. Era un ometto dal volto affilato, magro come un topo di fogna e altrettanto sudicio, che si lasciava trasportare passivamente sbarrando attorno due occhi vacui. La mancanza della mano sinistra indicava che si trattava d'un ladro già condannato in precedenza per furto, ed il fatto che ora venisse privato della vita rivelava che era un recidivo nella sua professione. Sadducin il Nero l'osservò criticamente, dall'alto della sua statura monumentale. Poi fece un gesto col taglio della mano per informare gli scommettitori che calcolava di poterlo dividere in due tronconi verticalmente, dalla sommità del cranio al pube. Il pubblico fece udire un eccitato brusio di commento. Quando però le guardie si scostarono dal disgraziato, lasciandolo solo davanti al boia, egli cadde in ginocchio per la debolezza e fu necessario farlo rialzare. Prima che altri contrattempi intervenissero a seccarlo, Sadducin estrasse la sua lama scintillante. La spada strisciò sul bordo d'ottone del fodero, mandando una nota argentina e vibrante, poi
essa venne calata in basso con selvaggia violenza. Babeeri si ficcò le dita in bocca per non gridare, vedendo l'arma del Maestro Carnefice che sbatteva sulla pavimentazione come se non avesse incontrato alcun ostacolo. Dopo un momento, e con lentezza da incubo, una metà dell'uomo s'inclinò a destra e l'altra metà a sinistra. Un fiume di sangue ruscellò a terra, e sugli spettatori piovvero schizzi rossi. Applausi, fischi d'incitamento e grida d'approvazione si levarono dappertutto, a commento della perfetta riuscita dell'esecuzione. Hatay Balbék agitò un cosciotto d'agnello arrostito per segnalare a Sadducin il suo blando compiacimento; quindi, da dietro i tavoli dov'era imbandito il rinfresco, corsero fuori alcuni servitori, che gettarono in una cesta i resti dello sventurato e asciugarono alla meglio le piastrelle per preparare la scena al turno successivo. Fra coloro che avevano fatto puntate circolarono gli scommettitori autorizzati, e borse colme di piastre cambiarono mano. Sadducin volse nuovamente le spalle al trono, poggiando a terra la sua pesante spada. Sembrava sdegnosamente soddisfatto, ed ignorava con alterigia le voci di quanti lo lodavano e gli gridavano le cose più diverse. La fila dei condannati venne fatta spostare in avanti, ed il primo fu afferrato dalle guardie. Stavolta esse dovettero lottare, perché era un individuo robusto che non si mostrava per nulla convinto di dover morire quel giorno e in quel modo. Come il precedente aveva le gambe libere ed i polsi legati, ma urlava e scalciava più che se fosse posseduto da un demonio per cui risultò impossibile lasciarlo a se stesso. Sadducin il Nero scosse la testa, facendo ondeggiare minacciosamente le affilate corna dell'elmo, contrariatissimo da quella scarsa volontà di collaborare. Grugnì un ordine per far accorrere altre guardie. Infine i militi riuscirono a sollevare l'uomo in posizione orizzontale, reggendolo due per le gambe e due per le braccia. Il Maestro Carnefice accennò che lo avrebbe spaccato in due trasversalmente all'altezza della cintura, cosa forse più facile o resa inevitabile dalle circostanze. Babeeri non poté vedere cosa accadde subito dopo, perché alcuni invitati s'erano mossi ad occludere il campo visivo. Colse però il lampo dell'arma che saettava nell'aria in un rapido semicerchio, e sentì levarsi un coro di grida acute e sconvolte. Ci fu movimento e agitazione, e la giovane schiava poté alfine capire cos'era successo: all'apparenza il condannato aveva avuto un ultimo scatto selvaggio e s'era contorto con forza sovrumana, facendo perdere l'equilibrio alle guardie che lo tenevano sollevato da terra. Era quindi stato uno dei militi a ricevere su una spalla il terribile fendente del boia. Adesso al suolo giaceva un braccio, reciso di
netto all'imprevista vittima, ed il criminale s'agitava cercando d'approfittarne per fuggire. Sadducin fece balenare ancora la sua lama e completò l'esecuzione spiccandogli via la testa d'un colpo, mossa decisamente abile dato che il bersaglio era in movimento. Le guardie trasportarono altrove il collega mutilato, i cui gemiti penosi fecero finalmente comparire un sogghigno contorto sul volto duro del boia, ed i servi vennero a ripulire lo spazio antistante il trono. Tuttavia il risultato di controversa interpretazione fece sorgere fra gli scommettitori una discussione accalorata, alla quale Hatay Balbék mise termine percuotendo rabbiosamente un piccolo gong. Babeeri si volse a cercare con lo sguardo l'Amazzone e la vide calma, quasi che lo spettacolo non fosse destinato a riservarle la spiacevole parte di protagonista da lì a pochi momenti. Sembrava ignorare quanti le stavano intorno ed aspettava la fine con dignità, forse già distaccata dalle cose terrene e intenta a preparare il suo animo per il trapasso. Il suo coraggio così evidente strappò alla fanciulla un singhiozzo di pietà, e subito dopo ella trasalì nel timore che qualcuno l'avesse udita. Sadducin il Nero stava adesso deludendo il pubblico, perché il prigioniero trasportato davanti a lui manifestava una ritrosia identica a quella del precedente candidato: il gesto che fece informò gli scommettitori che s'apprestava semplicemente a decapitarlo, senza incedere ad esibizioni inutili agli effetti del risultato. L'uomo fu gettato in ginocchio e costretto a piegarsi faccia a terra da alcuni feroci calci nell'addome, che lo fecero vomitare. Stavolta le guardie s'allontanarono in anticipo, con una frettolosa prudenza che procurò loro un'occhiata di disprezzo da parte di Sadducin. Poi, mentre il condannato espettorava il contenuto del suo stomaco, il percorso fra questo e la bocca venne interrotto dal guizzo della lama che gli fece volar via la testa. Lunghi getti di sangue eruttarono dalle carotidi recise, e alle orecchie di Babeeri giunse il rintocco della spada sulla pavimentazione, nitido come quello d'una campana. Mentre il cadavere veniva tolto di mezzo, Sadducin si voltò verso i banconi dei rinfreschi ed emise un sordo grugnito, che uno dei camerieri s'affrettò ad interpretare come la richiesta d'un calice di vino. Il Maestro Carnefice bevve fra il rispettoso silenzio degli astanti, ed il prigioniero successivo scelse quel momento per dare il via ad una serie di suppliche agli Dei dal tono fastidiosamente acuto. Le guardie lo mandarono avanti a spintoni, facendolo rotolare ai piedi di Sadducin, e la lama gli calò addosso prima che qualcuno avesse avuto il tempo di fare scommesse. Babeeri
sentì mormorii e voci contrariate levarsi dagli spettatori. Nell'interno della siepe la ragazza stava tremando e aveva gli occhi sbarrati. Non s'accorse neppure che una quantità d'insetti le si stavano arrampicando sulle gambe e fra i capelli, tanto era stretta dalla morsa dell'apprensione. Adesso sarebbe toccato all'Amazzone. Cinque passi dietro le spalle del boia, Hatay Balbék mordicchiava un grappolo d'uva che una cameriera sulla sessantina gli teneva sospeso all'altezza della bocca. Dama Luria si faceva vento con un ventaglio d'argento. Accanto a lei era seduto Sukadvar, il Comandante della guarnigione locale, il quale stava cercando d'ignorare un ginocchio della donna che gli premeva su una coscia con pericolosa insistenza. L'eunuco Rothaar sorvegliava che il lavoro dei camerieri filasse via liscio. Goccia di Fiamma non oppose nessuna resistenza alle guardie quando due di essi la condussero avanti. Teneva gli occhi bassi e camminava in silenzio, coi polsi legati dietro la schiena. La sua docilità piacque a Sadducin il Nero, che stavolta si degnò di comunicare il programma della sua prestazione e mosse una mano in senso orizzontale. Piazzato saldamente a gambe larghe alzò lo spadone di lato per menare un fendente obliquo, e nella sua posa vi fu un istante di statuaria immobilità mentre il sole strappava barbagli dalla lama affilata. Quindi essa piombò sul corpo della ragazza con tale violenza da far sibilare l'aria... e trovò il vuoto! Babeeri non capì bene quanto stava succedendo, già rassegnata com'era a veder schizzare il sangue; ma adesso Goccia di Fiamma era distesa a terra con le gambe ripiegate fin quasi sotto la schiena, ed il boia stava barcollando goffamente da una parte, sbilanciato dal colpo andato a farfalle. Poi l'Amazzone parve balzare in alto come scagliata da una molla, e si vide la spada di Sadducin volar via dalle sue mani: un calcio della ragazza gli aveva colto in pieno i polsi, facendogliela sfuggire. Solo a questo punto lo stupore dei presenti prese a manifestarsi, con rauche esclamazioni di sorpresa e grida scandalizzate. Il Maestro Carnefice espresse la sua incredulità con un ringhio e si chinò a raccogliere l'arma, ma Goccia di Fiamma non aveva nessuna intenzione di permetterglielo e lo fermò con un tremendo calcio in bocca. Le guardie emersero dal loro sbalordimento e corsero avanti per agguantarla. Babeeri vide Sadducin il Nero allargare le braccia muscolose e scaraventarsi contro l'Amazzone con l'impeto d'un toro infuriato. Nello stesso momento però, ella si lasciò andare di schiena a terra sotto il suo assalto e alzò i piedi uniti puntandoglieli nell'addome. Il boia venne sollevato sulle robuste gambe di lei, ed il
suo slancio lo costrinse a proseguire con un tuffo a testa in avanti. Ciò che accadde l'istante successivo fu troppo imprevisto e sconvolgente perché Babeeri potesse afferrare la scena in tutti i particolari, ma una visione le rimase impressa nella mente come un marchio, ed al centro di essa c'era Hatay Balbék che sussultava seduto sul trono, mentre una figura dalle lunghe corna volava nell'aria dritta verso di lui. Ci fu un tonfo, e il Khajman sbarrò gli occhi con un grido simile ad un latrato orrendo. Poi Sadducin rotolò al suolo, ma il cimiero non ornava più la sua testa: le corna d'antilope del bellicoso accessorio avevano sfondato il torace di Hatay Balbék, di netto, inchiodandolo saldamente alla spalliera del suo trono. Dalla bocca dell'uomo sfuggì un rivolo di sangue, le pupille gli si fecero vitree e la testa gli ricadde sul petto. Nella confusione che venne a crearsi, Babeeri s'avvide che Goccia di Fiamma s'era inginocchiata sul pavimento. Tutto si poteva dire dell'Amazzone, ma non che ella si confondesse o sprecasse attimi preziosi quand'era in gioco la sua vita. Infatti s'era impadronita della spada di Sadducin e la teneva fra i polpacci; i polsi di lei si muovevano avanti e indietro lungo il filo della lama. Fu libera dalle corde in un batter d'occhio e balzò via da dove si trovava, appena in tempo per evitare un colpo di picca. Almeno otto guardie le stavano correndo incontro, brandendo le armi e gridando forsennatamente. I presenti s'agitavano, si scostavano, rovesciavano le loro seggiole e mandavano urla di spavento, accrescendo il putiferio che s'allargava attorno al trono dove campeggiava il cadavere infilzato del Khajman. I cortigiani e le donne che cercavano di togliersi via dalla mischia erano altrettanto numerosi di quelli che invece s'avvicinavano di corsa. Babeeri vide i capelli rossi dell'Amazzone in rapido spostamento, perché la scatenata femmina saltellava con la frenesia d'una pazza in tutte le direzioni: nelle sue mani la spada del carnefice era un arcobaleno dai riflessi metallici che volteggiava in micidiali semicerchi di morte, ognuno dei quali trovava un bersaglio umano. I militi sembravano incapaci di raggiungerla, ed era chiaro che ella stava correndo fra gli spettatori indifesi per sfruttare il caos a tutto suo vantaggio, tattica che aveva risvolti spietati. Un enorme tavolo colmo di vassoi e di cibarie venne ribaltato con gran fracasso, e vari oggetti furono sbalzati in aria dalla foga dei partecipanti alla zuffa. Tre militi ed il Reggitore di Palazzo, l'eunuco Rothaar, erano stesi fra i piedi di coloro che calpestavano le pietanze e i cocci. Altri scivolavano a terra o estraevano le armi per contrastare l'Amazzone, oppure si allontanavano da lei.
Sbigottita, Babeeri si rese conto che bastava la selvaggia vitalità di Goccia di Fiamma per trasformare il ricevimento in un parapiglia di dimensioni sempre più vaste, nel cui epicentro non si scorgeva altro che un groviglio di corpi in agitazione, oggetti tolti di mezzo furiosamente, ed armi che s'abbattevano in cerca di qualcuno da trafiggere. La lotta si spostava adesso fra le colonne, oltre le quali i servi avevano atteso alla miscelazione dei vini, ed a soffrirne furono le preziose anfore allineate sui tavoli. Una figura dai capelli rossi svolazzanti, emerse indenne da quella baraonda e cominciò a correre sulle tovaglie ricamate, scalciando via le terraglie, mentre decine di militi e di cortigiani sfasciavano il resto in vani tentativi di colpirla o di raggiungerla. Il metallo risuonò ancora contro il metallo, quando la ragazza saltò giù dalla serie di tavoli per fronteggiare due guardie armate di spada, ed ella ferì uno degli avversari con un affondo che gli trapassò una coscia. Poi fuggì in direzione di un'apertura nella siepe esterna e scomparve alla vista. Babeeri chiuse la bocca, che fino a quel momento le era rimasta scioccamente spalancata, e deglutì saliva. Le gambe le si piegavano per l'emozione, e dovette aggrapparsi a un ramo per non afflosciasi. Si fece forza e tornò a guardare nel vasto circolo di colonne marmoree: alcune guardie stavano uscendo dalla parte opposta all'inseguimento dell'Amazzone, incitate dagli ordini degli ufficiali. Fra gli ospiti non ce n'era uno che non emettesse grida in vari toni o stesse fermo dov'era, al punto che il posto sembrava un pollaio nel quale fosse appena passata una volpe. A terra erano stesi sette cadaveri, e altri feriti si lamentavano presso il trono, a testimoniare che quella bellicosa ragazza non s'era limitata a difendersi ed a fuggire, ma aveva attaccato indiscriminatamente tutti quelli che le s'erano parati davanti. Il Comandante Sukadvar era andato ad aiutare Sadducin, che con espressione allucinata stava cercando d'estrarre il proprio elmo dal petto del Khajman. Rothaar non s'era alzato dalla devastazione delle cibarie sparse dietro il trono, ed a Babeeri parve che l'eunuco sanguinasse dalla faccia. Dama Luria, pallida come se fosse morta tre giorni addietro, era distesa al centro d'un gruppetto di cortigiane e rifiutava di riprendersi da uno svenimento, sebbene la si schiaffeggiasse e le si versassero liquori fra le labbra. Le grida dei militi s'erano intanto allontanate verso il retro del Palazzo, e Babeeri decise d'uscire dal nascondiglio per far ritorno alle cucine prima che qualcuno la scoprisse. Scostò le frasche della siepe e saltò al di là del fossatello che la separava dalla strada, oltre la quale si stendeva calmo e
azzurro uno dei laghetti dell'Oasi. La fanciulla cadde in ginocchio, perché le membra rifiutavano d'ubbidirle pienamente a causa della troppa emozione. Scioccamente, e senza capirne lei stessa il motivo, cominciò a piangere. Si rialzò e barcollò via per la strada, guardando tutto attraverso un velo di lacrime ed ogni tanto fermandosi per togliere i rametti secchi e le ragnatele rimasti fra i suoi biondi capelli spettinati. Il cuore le batteva con forza, ed i pensieri le si rincorrevano nella testa come uccelletti impazziti. Confusamente si sentì sollevata nel riflettere che nessuno avrebbe pensato a punirla per la sua scappatella, adesso che l'intera corte del Khajman era stata messa a soqquadro da avvenimenti tanto gravi. Goccia di Fiamma sarebbe stata di certo raggiunta e uccisa, ella si disse, ma il pandemonio da lei creato non si sarebbe placato tanto presto, e difficilmente i cuochi si sarebbero ricordati di castigare una creatura insignificante come lei per una mancanza dappoco. Sulla strada non c'era nessun altro, neppure in fondo dove si apriva l'ingresso ai giardini del Palazzo. A lato c'era un passaggio fra due muriccioli, che conduceva ai cortili posteriori e all'ala della servitù. Ma Babeeri era destinata a non arrivarci mai: aveva fatto solo pochi passi quando un cavallo comparve dalla curva delle scuderie, lanciato ad un galoppo tanto veloce che sbandò fin dentro le aiuole scagliando in aria ghiaia e zolle con gli zoccoli. In sella c'era una figura piegata in avanti, i cui capelli rossi sventolavano più lunghi della criniera dell'animale. La giovane schiava restò paralizzata, incapace di pensare per lo stupore improvviso. Un momento più tardi Goccia di Fiamma era chinata sopra di lei e protendeva un braccio robusto per afferrarla. «Salta su, ragazza. Svelta!» gridò con voce concitata. Il cavallo non s'era neppure arrestato del tutto. Babeeri sentì il terreno mancarle sotto i piedi e venne tirata in arcioni a viva forza. Di nuovo l'Amazzone gridò, affondando i talloni nei fianchi della cavalcatura, ed il panorama dell'Oasi prese a ballare su e giù davanti agli occhi della fanciulla. Li chiuse, e s'aggrappò con tutta la sua energia alle spalle dell'altra. «Tienti forte!» la esortò Goccia. «E stai attenta a non ferirti con la spada. L'ho infilata nel coprisella, a destra. Se ce la facciamo a oltrepassare quelle collinette rocciose laggiù, è difficile che ci ritrovino. Hai paura?». «Sì», gemette lei, stringendolesi addosso. «Non c'è motivo. Quando saremo fra le alture, so io come far perdere le nostre tracce. Crederanno che siamo fuggite verso nord, come sarebbe
logico, e invece faremo un bel giro e andremo dalla parte opposta. Presto saremo al sicuro». «Al sicuro?». Babeeri stentava a parlare, con tutti quei sobbalzi. «Ma a meridione ci sono le terre fertili e la Capitale, dove abita il Tiranno Laibek!». «È appunto là che stavo andando, quando mi hanno catturata. Tu conosci Cranach, no? Vedrai che ce la caveremo!». Babeeri la udì ridere soddisfatta, e non ebbe voce per rispondere. Non era ancora trascorsa mezza clessidra, che il tambureggiare degli zoccoli del cavallo divenne ovattato e soffocato dalle sabbie roventi. Il vento che le scompigliava i capelli era caldo, e non si udivano rumori di alcun genere. Ai lati delle due ragazze in fuga si stendevano vasti tratti di deserto sabbioso punteggiato di rocce, mentre sulle colline più avanti si levavano grossi cactus e cespugli spinosi. Alle loro spalle l'Oasi di Al Kwantara era un'immagine di verde e di bianche costruzioni che l'aria afosa già rendeva fluttuante come un lontano miraggio. Quella sera, quando scese il tramonto, Babeeri aveva assistito alla messa in pratica d'una quantità di quelli che Goccia di Fiamma chiamava «giochetti», consistenti nella cancellatura delle tracce, nelle repentine deviazioni, nella scelta del percorso e del terreno, tutti tesi a mandar fuori pista eventuali inseguitori. L'Amazzone le aveva spiegato che la cosa migliore era di comportarsi in un modo che un cercatore di tracce considerasse astuto, ma non troppo. Era vitale far sì che l'avversario si trovasse davanti ad un certo numero di ottimi tentativi di fargli perdere la pista, sventati i quali costui si sarebbe fatta un'idea della direzione presa dai fuggiaschi. Solo a questo punto, disse Goccia, si poteva cominciare ad ingannarlo sul serio. Da tutto ciò la fanciulla aveva capito soltanto che la sua nuova compagna desiderava soprattutto non aver gente alle calcagna, e s'era domandata cento volte cosa stesse cercando nella Terra di Junghad. Si fermarono a poche leghe dalla costa, in vista dei boschi e non molto distanti da una casa colonica. Il suolo era fertile, seppure ancora un po' sabbioso, e lì vicino scorreva un ruscello nel quale Babeeri si lasciò cadere in ginocchio, avida d'acqua come poche altre volte in vita sua. «Fra poco andremo a procurarci qualcosa da mangiare», affermò la rossa Amazzone, accennando alla fattoria. Conficcò la spada nella sabbia e sorrise. «Naturalmente, essendo senza soldi, dovremo pagare i contadini usando una moneta di bronzo affilato. A questo modo compreremo nuovi
vestiti, cibo, una buona bisaccia, e ci daranno anche qualche piastra di resto. A Cranach avremo bisogno di denaro». «Vuoi rapinarli come fanno i ladroni?». Babeeri sedette sull'erba, osservando il cielo che si tingeva di viola e azzurro cupo. «Ci sono costretta. Quando son partita dalle Terre Basse avevo con me ventimila piastre d'oro, tre cavalli e un sacco di rifornimenti. Ma questo accadeva un anno fa. Un po' alla volta ho speso o mi hanno rubato tutto, perciò da ora in avanti dovrò arrangiarmi». «Ventimila piastre d'oro!» esclamò l'altra. «Che Eleuse mi aiuti... Neppure in tutta Cranach potresti trovare una cifra simile, a meno di non aprire gli scrigni del tesoro del Tiranno. E tutti quei soldi erano tuoi?». «Li avevo avuti dalle casse di Shalla, la nostra Regina. E da quel giorno non mi sono fermata un momento. Sono stata a Mitanni, in tutto il nord di Afra, e poi su fino in Hyktos e nell'Argolide. Ho girato Akkad e Sumer, travestita da contadina o da Sacerdotessa di Ishtar. Sono scesa al sud oltre Surao con una carovana, e infine ho varcato il Mare di Porpora arrivando in Ahrab, sulla costa occidentale». L'Amazzone scosse il capo con una smorfia malinconica. «Ne ho fatta di strada, tesoro mio, puoi credermi». «Ma perché lo fai? Voglio dire... È la tua Regina a inviarti in queste terre?». La curiosità di Babeeri era adesso notevole, e si spostò al suo fianco ansiosa di conoscere la risposta. Goccia le cinse le spalle con un braccio. «Vedi... Ti sembrerà sciocco, ma da quando mi hai mostrato la stellina bianca che hai sul palmo, mi sono convinta che la mia storia è banale al confronto della tua. Tu hai perso un regno, sei nata in un continente lontano e misterioso dov'eri destinata a diventare la Khoiné, e hai vissuto come una schiava. Eppure sei rimasta semplice e buona come se queste sventure non t'avessero mai sfiorata. Che strana sorte è la tua! Dimmi, non rimpiangi mai ciò che avresti potuto essere, nel paese di Gondwana?». «Parlami di te, ti prego», insistette Babeeri. «D'accordo. Devi sapere», cominciò Goccia di Fiamma, «che noi Amazzoni abbiamo usanze diverse dagli altri popoli. Nelle Terre Basse la legge vuole che non abitino uomini, se non poche migliaia di Mitannesi che tengono i loro piccoli commerci nelle nostre città. Ed è in Mitanni che mandiamo i bambini di sesso maschile dopo averli svezzati, poiché abbiamo con loro questo tipo di accordo. Da noi vivono circa un milione di donne, per lo più contadine che non sono in grado di dedicarsi ai mestieri della guerra come faccio io, e nessuna può unirsi agli uomini se non nel
periodo delle Cerimonie dell'Accoppiamento. Di conseguenza durante il resto dell'anno viviamo come se essi non esistessero. Ciò è necessario, visto che la nostra società è ormai strutturata in questo modo da moltissime generazioni. Capisci? Ebbene, molte di noi, quando cominciano a pensare di farsi una vita, sanno che essa sarà meno dura se avranno accanto a sé una buona compagna, o delle amiche sincere». «Ianos, il Sacerdote, mi ha detto che odiate gli uomini e vi accoppiate fra voi», affermò Babeeri senza alcun imbarazzo. La rossa ridacchiò. «Stavo solo cercando di farti capire che anch'io ho una compagna, ma in modo da non urtare la tua sensibilità. No, tesoro, non odio affatto gli uomini, e anzi ne ho incontrati alcuni che mi hanno dato affetto e amicizia. Il fatto è che la solitudine esiste ovunque, ed è la cosa peggiore che ci sia. Anche le Amazzoni la fuggono. Io l'ho sempre saputo, e fu così che quand'ero appena una ragazzina decisi di trovarmi una compagna. Fui fortunata, perché la ragazza che scelsi era sincera e mi volle bene, ed assieme stabilimmo che avremmo vissuto senza mai separarci per invecchiare in reciproca compagnia. Il suo nome era Ombra di Lancia». «Era?» mormorò Babeeri. «Vuoi dire che... è morta?». «No. Non posso esserne sicura, ma tutto mi fa pensare che sia ancora ben viva. O almeno lo spero. Tuttavia... non so dove sia. Da un anno ormai la cerco, e in un paio di posti ho avuto notizie di lei, ho trovato tracce del suo passaggio. Ombra è una ragazza notevole, e difficilmente chi l'ha incontrata si dimentica di lei, anche se l'ha vista solo per poco. Sono certa che ha preso la via del sud, e che la troverò non distante dalla Terra di Junghad, sebbene abbia fatto di tutto per scomparire senza lasciare traccia. Di sicuro avrà cambiato nome, ma il suo aspetto fisico, quello non lo può mutare». «Dunque è fuggita dal tuo paese? Ma perché, Goccia?». L'Amazzone si morse le labbra per un istante, e non cercò di mascherare l'amarezza del suo tono: «Ha perduto la ragione», rispose. «È impazzita completamente... del tutto! Subito dopo ha ferito di brutto Shalla, la Regina, che era sua amica fin dai tempi in cui ci allenavamo insieme nei recinti-scuola. È montata a cavallo e si è data alla fuga, diretta la Dèa sa dove. L'ultima volta è stata vista sui confini di Mitanni, l'estate scorsa, che galoppava a rotta di collo verso oriente». Babeeri era perplessa. «Ha ferito la vostra Regina, eppure dici che essa ti ha dato molti soldi perché andassi a cercarla. È strano». «Per nulla, mia cara. Ombra di Lancia non era in sé quando ha colpito
Shalla, e questo è avvenuto a causa di quel maledetto vino drogato che le ha sconvolto la mente. Ha bevuto qualcosa... un veleno, una pozione sconosciuta, non so cosa fosse. Quella bevanda era destinata a Shalla, e sono certissima che sono stati i Sumerici a tentare d'avvelenare in quel modo la Regina. Il caso ha però ,voluto che Ombra fosse a Palazzo, in quel momento, e così fu lei a bere il primo boccale da quell'anfora del demonio». «Com'è accaduto?». «Te l'ho detto, una combinazione. Il vino proveniva da Mitanni, ed era il solito che il Re Bal Kadur manda appositamente per la mensa del Palazzo Reale. Tuttavia, qualcuno, certo in Mitanni, doveva avervi aggiunto una droga pericolosa, sapendo che a berla sarebbe stata forse la Regina stessa. Da quell'anfora vennero versati due boccali, uno ciascuno per Shalla ed Ombra, che stavano chiacchierando nei giardini. Io non c'ero e la cosa mi è stata raccontata in seguito. Da quanto disse Shalla, Ombra bevve prima di lei; subito dopo rovesciò il boccale della Regina e le disse di non toccare il vino, perché aveva un sapore strano. Poi si mise a ridacchiare e a barcollare, come se quel sorso fosse bastato ad ubriacarla, e cominciò a tirare nel laghetto le seggiole di vimini e i tavolini. Diede un pugno terribile a una cortigiana, sfregiandola con un anello, quindi estrasse il pugnale e colpì Shalla a un braccio, e rubò un cavallo, prendendo per i boschi e le stradicciole secondane. Da allora non è più tornata indietro». «È terribile», commentò la fanciulla. «Mi dispiace. È una storia molto triste e dev'esser stato ben maligno l'uomo che mise quel veleno nel vino». «Forse non scoprirò mai la sua identità. E non posso neanche essere del tutto certa che l'ordine d'avvelenare Shalla sia venuto da Sumer, visto che non è solo il Triarca ad esserci nemico. Nella città di Ebla, in Mitanni, ho indagato a lungo allo scopo di chiarire le responsabilità. Il Re Bal Kadur era sconvolto, voleva far giustiziare sia il proprietario della vigna che il fornitore, ma poi è risultato che costoro erano innocenti. Infine i sospetti si sono puntati su un vecchio stregone, a dire il vero un ciarlatano il quale se l'intendeva molto con i veleni di tutte le specie. È stato lui a fornirmi almeno un indizio». «Era il colpevole?» volle sapere Babeeri. «No, neppure lui. Ma la sostanza che Ombra aveva ingerito gli era nota, e disse che provocava la pazzia. Secondo quell'uomo, si trattava d'una droga chiamata Xian, rarissima e mai usata da nessuno nel settentrione di Afra. Sembra che, mescolato ad una bevanda innocua anche in piccola
dose, lo Xian annienti i ricordi di una persona e ne stravolga il carattere, mutandolo permanentemente in quello d'un selvaggio folle e sanguinario. Chi lo beve prova l'impulso di fuggire via dalle persone care, e di commettere le peggiori nefandezze e atrocità, dimenticando del tutto il suo passato. Che ti succede? Ho detto qualcosa che ti ha sconvolta?». Le parole di Goccia avevano fatto impallidire la fanciulla, che la fissava ad occhi sbarrati. «Lo Xian...» balbettò. «Lo Xian è un veleno che usano i nobili di Achelòs, nel settentrione del Gondwana, quando vogliono sbarazzarsi dei loro avversari. È una droga del mio paese, Goccia. Io lo so. Lo ricordo!». «Sul serio?». L'Amazzone s'era accigliata. «Sì. I cortigiani di Achelòs lo fanno bere a qualcuno, ed egli commette invariabilmente qualche terribile delitto. Dopo di che, se i soldati lo catturano, il disgraziato non può fuggire alla forca. Ma non è pericoloso, se l'avvelenamento viene fermato per tempo da un amico che lo costringa a non compiere atti scellerati. Il mio tutore stesso, quand'era appena un ragazzo, ne cadde vittima». «Spiegati meglio! Vuoi dire che esiste un contravveleno?» esclamò Goccia, tesa. «Sì... cioè, no. Io non lo so», disse la fanciulla, mordendosi le labbra. «Egli mi narrò che per alcuni armi dovettero segregarlo in una stanza della sua casa, poiché provava l'impulso di darsi ad una vita di violenza e di crimini. Ma infine in qualche modo dovette esser curato, perché quando io lo conobbi era un uomo retto e stimato. Forse fu soltanto l'amore dei suoi parenti, a farlo tornare buono...». Goccia di Fiamma l'aveva ascoltata con estrema attenzione, e per un poco rimase a fissarla senza dire una parola. Poi sbuffò, delusa. Il sole era scomparso del tutto dietro le colline che avevano oltrepassato poco prima, e in distanza un paio di finestre della casa colonica s'erano illuminate dei gialli riflessi d'un focolare acceso. Nei boschi che confinavano con i campi si udivano i versi striduli di alcuni volatili notturni. «Fammi capire bene, tesoro: hai detto che questa droga è comune nel Gondwana, mentre in altre terre è praticamente sconosciuta. Questo può significare che il tuo paese tiene commercio via mare con qualche nazione di Ahrab, o di Afra, e che a mettere il vino drogato fra quello destinato alla mensa della Regina fu qualcuno che aveva avuto contatti col tuo paese natale», rifletté l'Amazzone. «Oh, no. Prima della guerra il Re delle cinque nazioni proibiva alle navi
di attraversare l'immensità del mare verso le terre del nord. Questa era la legge, da molte migliaia di anni». «Invece è evidente che un commercio c'è stato», la corresse Goccia. «E se i tuoi ricordi sono esatti, credo che solo laggiù potrò avere informazioni sullo Xian e sul metodo necessario a smorzarne gli effetti maligni. Questo, beninteso, a patto che io riesca un giorno a ritrovare Ombra. Bene... Se non altro devo dire che mi hai almeno fornito una pista da seguire». «Una pista?». «Un'informazione che potrò sfruttare, quantomeno. Domani penseremo a travestirci da contadine, e poi proseguiremo verso Cranach. So che quella città ha un porto assai grande, e non c'è posto migliore per cercare le notizie del tipo che m'interessa. E tu verrai con me. Chissà... Può anche darsi che io sia costretta ad imbarcarmi per il Gondwana, se vorrò aggiornarmi un po' su quella maledetta droga. Ed in questo caso, bambina, tu potrai rimettere piede nella terra che hai dovuto abbandonare nove anni fa». Babeeri scosse il capo con aria infelice e contrariata. «Ma non capisci, Goccia? Nessuno, né pirata né comandante di nave, fra quanti hanno osato avventurarsi verso la Collana degli Atolli, è mai tornato indietro vivo. Soltanto un pazzo potrebbe voler spingere il suo vascello su quella rotta infernale!». LAUNE LA CAGNA Yaan Margraf Lakhmar stava affogando il suo malumore in un boccale di birra scadente piena di semi, seduto a un tavolo di fondo nell'Osteria del Riccio e del Coltello. Il locale s'apriva dirimpetto al vasto e male attrezzato porto di Cranach, ed era pieno di marinai barbuti e vocianti, la cui vicinanza lo stava rendendo sempre più tetro e meno incline alla socievolezza. Anche un altro motivo contribuiva a deprimergli il morale e ad infastidirlo: da dove si trovava infatti, poteva vedere l'angolo del porto in cui era venuto ad attraccare il vascello da guerra sumerico, e ciò rendeva del tutto vano il suo tentativo di scacciare dalla mente il pensiero del Principe Valdek, che Yaan detestava enormemente. Il giovanotto s'era recato un paio di clessidre prima a far visita al comandante di quella nave, come l'etichetta ed il suo dovere imponevano, ma non lo aveva trovato a bordo. Un marinaio ringhioso e strafottente lo aveva informato che Cuhman era andato al Palazzo del Tiranno Laibek per affari,
mentre il Principe Valdek s'era chiuso nella sua cabina con la propria amante e non intendeva ricevere nessuno né scendere a terra. Il marinaio aveva aggiunto che lui avrebbe potuto attendere a bordo il ritorno di Cuhman, purché desse una mano a scaricare alcune casse di merci ed a stivarne altre. Dal suo tono si sarebbe anzi detto che Yaan Margraf Lakhmar, come addetto commerciale sumerico nella Terra di Junghad, aveva il preciso dovere di faticare con l'equipaggio della nave nelle sue mansioni più gravose. Irritato il giovanotto era sceso a terra, preferendo aspettare un altro momento per cercare il comandante. Rivestendo la carica di addetto commerciale aveva certo dei doveri anche verso le navi della flotta da guerra, dato che quei comandanti approdavano spesso nei porti alleati per imbarcare viveri e verdure fresche. Tuttavia in passato s'era trovato costretto a far loro in pratica da servitore, allorché costoro facevano scalo a Cranach, e lo innervosiva il pensiero che forse stavolta sarebbe stato anche peggio, visto che a bordo c'era il figlio del Triarca in persona. Di Valdek si sapeva che era un fortissimo guerriero, spietato in battaglia quanto brutale nei suoi rapporti coi nobili ed i funzionari; ma era anche dotato d'intelligenza e d'astuzia tali da farlo prevalere su chiunque ostacolava i suoi interessi privati. Di ciò aveva fatto le spese un contadino amico di Yaan, che aveva avuto la sfortuna di possedere pascoli troppo belli nella provincia di Hatti: l'uomo s'era rifiutato di venderli a un emissario di Valdek che gli aveva offerto un prezzo irrisorio, e come risultato il Cayyali di Hatti lo aveva accusato di commerci illegali col Regno di Mitanni. Le sue terre erano state confiscate dallo stato, e successivamente donate al Principe come riconoscimento per le sue vittorie contro alcune tribù nomadi di Hus Nur. A consolare il giovanotto c'era la constatazione che il Comandante Cuhman non s'era affrettato a mandarlo a chiamare, per usarlo come galoppino, e s'era recato alla corte del Tiranno per conto suo. Questo gli aveva almeno sollevato dalle spalle il peso di metà dei suoi obblighi. S'era perciò limitato a spedire alla nave uno dei soliti fornitori con la lista aggiornata dei prezzi, aveva comunicato al Comandante del Porto d'inviare un doganiere per controllare lo scarso movimento di merci che ci sarebbe stato, e poi s'era ficcato in una taverna augurandosi che quel vascello incappasse in una tempesta. Il motivo per cui il Principe Valdek viaggiava via mare verso meridione non lo interessava minimamente. All'ora di pranzo la maggior parte dei marinai sfollò il locale per far ritorno alle navi o alla mensa dei portuali, e Yaan ordinò all'oste un piatto di
gamberi, delle ostriche e del vino. L'unico pregio che la città di Cranach aveva ai suoi occhi erano appunto le pietanze di mare che si servivano in simili osterie, le quali costavano tuttavia piuttosto care. La paga semestrale che gli arrivava dalla capitale sumerica, Ectabana, sita nel nord-est della Terra dei Due Fiumi, bastava a malapena a fargli sbarcare il lunario ed a consentirgli ogni tanto i servizi di qualche prostituta di basso rango. Spesso si rimproverava che, se non avesse cominciato a prepararsi i pasti in casa, non sarebbe mai riuscito a mettere da parte una sola piastra. Stava ripulendo coscienziosamente il piatto di zinco, allorché la porta semiaperta si spalancò del tutto con un gran fracasso facendo sussultare buona parte degli avventori. Due militari, vestiti con uniformi di cuoio ed elmetti neri, entrarono e si piazzarono ai lati dell'ingresso tenendo una mano sull'impugnatura della spada. Fra essi venne dentro un uomo sui quarant'anni, armato fino ai denti, i cui occhi freddi percorsero i tavoli e gli avventori dell'osteria come se fossero spazzatura a galla sulle acque marce del bacino. Yaan non mostrò eccessivo stupore, perché in quello ed in nessun altro modo le Teste Nere di Sumer facevano il loro ingresso dovunque, perfino alla stessa corte del Tiranno. Intuendo che si trattava di Cuhman, e che l'uomo poteva esser lì solo per cercare lui, Yaan s'alzò in piedi e gli fece un cortese cenno di invito. L'uomo avanzò fra i tavoli a passi lunghi, tenendogli puntati addosso due occhi duri». «Sei tu l'impiegato del nobile Graybex?» domandò; sedendosi pesantemente di fronte a lui. «Sono Yaan Margraf Lakhmar, Comandante. Prego, serviti pure del mio vino». Il giovanotto fece cenno all'oste di portare un secondo boccale, ma questi era già comparso al suo fianco con espressione deferente ed un'anforetta in mano, che offrì a Cuhman come omaggio del locale. L'uomo accettò con un grugnito, e Yaan continuò in tono discorsivo: «Come sta Sua Eccellenza il Nobile Graybex? Forse ti ha consegnato un messaggio per me?». «No. Non ho il dubbio piacere di conoscere quel damerino, e non sono qui per spettegolare a vuoto, signor mio. Ti hanno detto che sulla mia nave c'è il Principe Valdek?». «Naturalmente, lo so già. Poco fa sono andato a bordo per presentargli i miei rispetti, ma non mi ha ricevuto». Yaan era cauto, rendendosi conto che qualcosa stava bollendo in pentola. Cuhman era un tipo senza peli
sulla lingua, e voleva qualche servizio da lui. «Il Principe non ha tempo da perdere con gli scribacchini come te, e neppure col Tiranno in persona. Sono io che devo districare questa stupida faccenda, capisci?» sbottò l'uomo. Yaan sorrise educatamente. «Devo dedurne che hai un problema. Ebbene, può darsi che io non sia l'uomo più adatto a risolverlo; ma forse potrò indicarti le persone adatte o la linea di condotta che meglio si confà ai tuoi bisogni. Conosco quasi tutta la nobiltà di Cranach, e non pochi elementi della malavita, spesso utili in molte circostanze». Cuhman batté il boccale sul tavolo, seccato. «Non farmi ronzare le orecchie con discorsi improduttivi e disfattisti, Lakhmar. Tu hai l'incarico di regolare i rapporti commerciali fra il nostro paese e questa chiavica di città. Ad aiutarmi dovrai esser tu e nessun altro. È chiaro?». «Non hai che da chiedere, Comandante, e vedrò di usare tutta la mia influenza per darti soddisfazione. Come sai, da me dipendono i contratti commerciali fra Sumer e la Terra di Junghad, e parecchie pedine si muovono ai miei ordini. Presso chi desideri essere introdotto?». «Non si tratta di questo. Sono già introdottissimo alla corte del Tiranno, e sono stato fin'ora a Palazzo. È con quel porco di Laibek che dovrai contrattare, visto che a me si è rifiutato di dare ascolto. Maledetta feccia di Junghad! Se dipendesse da me, penserei io a ficcargli in capo un po' di rispetto!» ringhiò Cuhman. Afferrò l'anfora del vino e se ne versò ancora, spargendone un bel po' sul tavolo. «Mi si è seccata la lingua, a forza di discutere con lui». «Col Tiranno, dici?» si stupì Yaan. «Vuoi che io vada a chiedere a Laibek qualcosa che tu non sei riuscito ad ottenere, malgrado l'appoggio di tutta l'autorità del Principe Valdek? Ma di cosa si tratta?». «Non dire idiozie!» sbuffò Cuhman. «Lo sanno tutti che Laibek e il Principe non si possono vedere, da quando litigarono su una questione di confini. Il Tiranno è un uomo astuto e subdolo, mentre Valdek è un guerriero forte e non s'abbassa a contrattare come un mercante di cavalli. Per questo motivo la cosa è stata affidata a me». «Ho capito. Occorreva qualcuno capace di condurla con fine diplomazia», commentò Yaan, e subito se ne penti, perché l'altro aveva afferrato la lieve ironia del suo tono. Gli occhi del sumerico si strinsero come fessure. «Proprio così. Con Laibek bisognerà usare sia le paroline dolci, sia un argomento persuasivo. La faccenda sta in questo modo: due giorni fa, incrociando un mercantile
che faceva rotta per il settentrione, ho chiesto al suo comandante notizie della situazione esistente nella Terra di Junghad. Mi piace essere informato di tutto, capisci? Così sono venuto a sapere che quella piratessa, Laune la Cagna, è stata catturata dal Tiranno e gettata nelle sue prigioni. Poco fa ho avuto la conferma di questo dallo stesso Laibek». «È vero. Ho sentito dire che sarà messa a morte fra qualche giorno. Il Tiranno la sta torchiando per farle rivelare dove tiene nascosti i suoi soldi. Si sa per certo che ha accumulato un bottino favoloso». «Ah!» Cuhman annuì con aria cupa. «Dunque è per questo che è stato così reticente. Ora capisco meglio il suo atteggiamento: mira ai gioielli e al denaro di quella donna. Comunque, si è rifiutato di consegnarmela. E questo è un guaio, perché il Principe Valdek vuole la piratessa». «Tu hai intenzione di.... di far liberare Laune la Cagna? Oh, Dèi! Non lo dire ad alta voce, perché questo locale è pieno di uomini che aspettano solo di vederla impiccare per festeggiare l'avvenimento. La Cagna ha mietuto vittime fra parenti e amici di chiunque da queste parti,, e il Tiranno rischierebbe un tumulto se la lasciasse andare. Come pensi d'ottenere questo scopo, e perché Valdek la vuole viva?». «A raggiungere lo scopo penserai tu, egregio. In quanto ai motivi, sono affari che non ti riguardano. La versione ufficiale dovrà essere che la Cagna subirà la pena di morte per mano di chi le ha dato la caccia da più tempo e con maggiore impegno, vale a dire noi Sumerici. Perciò dovrà esser trasferita a Ectabana quanto prima». Il giovanotto aveva già messo in moto il cervello, ma scosse la testa pensosamente. «Bisognerebbe smuovere le montagne, per convincere Laibek a cederla ad altri. Perché dovrebbe farlo? La sua cattura gli è valsa le lodi del popolo più che se avesse tolto metà delle tasse». «Lo farà, invece, altrimenti il commercio fra i nostri due paesi cesserà del tutto con effetto immediato. Ed è appunto questo che tu andrai a comunicargli adesso», affermò con durezza Cuhman. «Cosa? Ma tu non sai quello che dici! Tu non hai un'idea del volume degli scambi annuali fra Sumer e la Terra di Junghad, e si tratta di un commercio tutto a nostro vantaggio. Se avesse da diminuire, o da cessare... con che faccia potrei presentarmi al Nobile Graybex, che è a capo della Corporazione Mercantile del nostro paese? Per Ophir! Non posso trattare con Laibek in questi termini!». «No?». Lo sguardo dell'uomo si fece minaccioso. «Allora statemi bene a sentire, bel damerino: voglio quella donna a bordo della mia nave stasera
stessa. Dovrai sfoderare tutta la tua abilità per usare col Tiranno il solo argomento che quel serpente avido è disposto a prendere in considerazione, ovverosia il denaro che entra nelle sue casse personali. Se non ti dimostri all'altezza... Ebbene, forse hai sentito come il Principe Valdek tratta chi non collabora. Chiaro?». . Yaan rimase qualche momento in silenzio, poi disse: «Sul serio la cosa è importante fino a questo punto? Voglio dire, io dovrei saperne di più, se non altro per giustificare il mio comportamento davanti al Nobile Graybex. Non posso illudermi di persuadere Laibek senza promettergli grosse concessioni sui nuovi prezzi che dovremo stabilire a fine anno. Ma in che posizione verrei a trovarmi, in questo caso? Per ora i commercianti che s'affidano alla mia competenza guadagnano molto bene, ma...». «Piantala di cianciare! Cosa vuoi che importi al Principe di te e della tua stupidissima posizione? Se sarà necessario rinnoverai questa schifezza di accordo col Tiranno oggi stesso, e anche a suo vantaggio. Non me ne importa un accidente!». «Ebbene, c'è anche il caso che dopo qualche giorno d'attenta riflessione egli decida che per quella donna esser giustiziata qui o altrove è infine la stessa cosa», borbottò il giovanotto. «Non abbiamo tempo da sprecare qui. Domattina al più tardi voglio essere in mare. Quindi paga il conto e andiamo da Laibek». «Subito? E vuoi esser presente anche tu?». Per tutta risposta l'uomo s'alzò in piedi, e Yaan fu costretto ad. imitarlo. Fece avvicinare il garzone e gli pagò il conto, poi con un sospiro seguì all'esterno il comandante sumerico e i due militi. Nei vicoli circostanti il porto la calura ristagnava, rendendo le strade di terra battuta aride e polverose come il deserto. Le uniche creature in attività a quell'ora erano le mosche, nere e feroci, che ronzavano dappertutto. A passo di marcia i Sumerici si diressero alla loro nave, e bastarono quei pochi passi sotto il sole per far sudare abbondantemente Yaan. Poco più tardi, dopo che Cuhman ebbe sbrigato alcune faccende urgenti di bordo, la stessa scorta lo seguì verso la collinetta su cui s'ergeva il Palazzo del Tiranno, simile ad una vera e propria fortezza. L'afa era tale che da lontano i bastioni sembravano tremolare e sfumarsi nella luce intensa. Nelle sottostanti prigioni, rifletté il giovanotto, non c'era dubbio che Laune la Cagna stesse sospirando la morte come una liberazione. Quando il sole tramontò dietro le colline che circondavano Cranach dalla parte di terra, le fogne e le prigioni situate nei sotterranei del grandioso
palazzo erano già immerse nel buio da un pezzo. Non c'era una netta distinzione fra i locali delle fognature e quelli dove languivano i detenuti, dato che la prigione era stata ricavata ampliando gli scarichi degli oltre cento bagni e gabinetti della corte sovrastante. Di conseguenza, in alcune grosse celle si poteva respirare il profumo dei sali da bagno di qualche dama; in altre, ci si vedeva passare sotto gli occhi la preziosissima spazzatura proveniente dalle cucine ancora buona per riempirsene lo stomaco; infine, i prigionieri meno favoriti dalla sorte stazionavano presso le condutture aperte dei gabinetti o più in basso ancora dove, alle fogne del palazzo, s'aggiungevano i liquami molto più pestilenziali prodotti dai detenuti. La piratessa conosciuta come Laune la Cagna, non aveva però potuto farsi un'idea della vastità di quel labirinto sotterraneo, né delle relazioni sociali che rendevano un inferno di violenza la vita, di solito comunque breve, dei detenuti. Da venticinque giorni era isolata in una minuscola cella di segregazione, ed il solo genere di comunicazione che aveva con gli altri galeotti consisteva nei lamenti, emessi sia da lei come da costoro, per cause varie e tutte spiacevoli. Il suo desinare era monotono: una poltiglia avente l'aspetto di qualcosa raschiato via dal pavimento delle stalle e una ciotola d'acqua nella quale galleggiavano insetti morti. Il buco in cui era stata rinchiusa a catenaccio aveva il pavimento fortemente inclinato, e prendeva luce solo dallo spioncino della porta, ma presentava uno spettacolo così deprimente che ai suoi occhi le tenebre erano sempre benvenute. Col buio assoluto c'era anche un altro vantaggio: ragni, topi e scarafaggi finivano per accanirsi fra loro più che contro di lei, e la ragazza poteva abbandonarsi ad altri incubi, di carattere esclusivamente onirico. Era debole per la fame. La facilità con cui le sue ferite s'erano rimarginate non le era di consolazione, ed anzi avrebbe preferito avere la febbre e l'infezione, così forse lo stordimento le avrebbe reso meno doloroso l'intervallo fra la cattura e il capestro. Da quando era stata incarcerata la ragazza s'alimentava con l'odio, e bruciava di rabbia sia nei confronti dei militi che l'avevano sorpresa sia verso se stessa, vergognandosi d'esser stata così stupida nell'invischiarsi nel combattimento coi ladroni al Tempio di Eleuse. Erano sentimenti che avrebbe voluto sfogare uccidendo e incendiando, e si sentiva fremere al pensiero di non poterlo fare. Per molti mesi aveva vissuto una vita esaltante, libera e avventurosa,
appagando quell'incalzante bisogno d'agire che l'aveva mossa a cercar sul mare il suo destino sfidando ogni legge. In piedi sulla prua della sua nave, con la spada in mano e gli occhi fissi sull'orizzonte in cerca della preda, aveva assaporato l'inebriante sensazione di giocare con la sorte dominando gli eventi: era stata lei a far accadere le cose, non a farsene trascinare come gli insetti e i vigliacchi, non a restarne vittima. Lei era Laune la piratessa, capace di far cantare la spada contro un'altra spada meglio di qualsiasi uomo, con più ferocia, con più audacia, per riscuotere un premio sempre elevato. E quando aveva saputo che i suoi stessi uomini l'avevano soprannominata la Cagna ella aveva riso, soddisfatta, conscia che si trattava d'un complimento. Aveva messo in rispetto quella ciurma con la frusta e col pugnale, e fin dal suo primo sbarco nell'Arcipelago del Warnalore era stata costretta a guadagnarsi alto rispetto avventando la spada contro chi aveva commesso l'errore di considerarla soltanto una donna, e ciò le aveva dato soddisfazione. Ma adesso non le restavano che i ricordi. L'inattività finiva col far sfumare quelle passioni nel grigiore, mentre la mente seguiva l'indebolimento delle membra offuscandosi, spegnendosi pian piano. Era stata imprigionata, e lì dentro lei era una cosa, un oggetto, un niente. Ecco ciò che le era accaduto. Quando il consunto battente di legno e rame s'aprì cigolando, ella quasi non se ne accorse, perché si stava addormentando. Qualcuno con una torcia accesa era forse sulla soglia? La domanda le attraversò fugacemente il cervello, priva di vera importanza. Voleva soltanto dormire ed esser lasciata in pace. Ma una pedata in un fianco la fece gemere. «Alzati, schifosa. Togliti i capelli dalla faccia e guardami: sono il tuo caro amico Buto». Era Buto, senza dubbio, rifletté confusamente Laune. Solo dalla crepatura piena di denti marci che fungeva da bocca al capo-carceriere poteva uscire un ringhio tanto bestiale ed antipatico. Un altro calcio le tolse ogni incertezza sull'identità di lui. «Che cosa vuoi da me, amico Buto?» rispose. «Abbiamo visite, Cagna. Gente altolocata è qui per vederti». Dietro la luce che le abbacinava gli occhi c'era infatti una seconda figura, e fu costui ad afferrarla mentre si tirava su dalla paglia marcia, aiutandola a drizzarsi in piedi. Uno spintone di Buto le fece indovinare la porta, e la vicinanza della torcia le strinò una ciocca di capelli: quindi l'uomo venuto col capo-carceriere la fece dirigere a destra, sostenendola per un braccio. Aveva l'aria di rendersi conto che lei si reggeva male sulle gambe,
e questa sua premura la sorprese. Una pedata proveniente da dietro le fece tuttavia comprendere che Buto giudicava la sua andatura troppo lenta. Per un momento i loro piedi ciancicarono entro un liquido che scorreva via veloce, poi furono su un passaggio asciutto e in salita. «E dove mi porti, amico Buto?» mormorò lei, ancora sbalordita. «Caro essere umano... Hai una madre tu, Buto? Magari una dolce vecchietta. La immagino che ti culla bambino, avvolto in candide fasce...». Tossì raucamente, e sputò a terra un grumo di catarro. «Fa ancora la spiritosa», commentò l'uomo che la fiancheggiava, volgendosi indietro. «Buon segno. Oppure è così fuori di sentimento che ti vuol bene davvero?». Il capo-carceriere non possedeva spirito sufficiente per rispondere a tono a una tale domanda, così tacque. Laune si girò ad esaminare il suo accompagnatore e vide un volto mascolino, giovane e decisamente piacevole, fornito d'una barbetta corta e ben curata. «È forse possibile non amare Buto?» gli chiese. «Qui dentro no, bel signorino, specialmente se hai la disgrazia di conservare un aspetto ancora femminile sotto lo strato di lerciume. Esser femmina ti rende doppiamente usabile da lui, quando ti costringe a dirgli che lo ami. Gli uomini, invece, Buto li può amare da un lato soltanto. Ha ha!». La ragazza rise, poi tossì ancora a lungo. Il giovanotto che la conduceva era arrossito. Dopo non molto Laune s'accorse che stavano procedendo in un corridoio dalle pareti in pietra grezza, ben illuminato. Corrugò le sopracciglia. «Ehi, la sala di tortura l'abbiamo già passata, lo sai? Dove mi stai portando?». «Il Tiranno ti ha fatta torturare?» domandò l'altro, in tono di commiserazione. «A volte, quand'è di buonumore, mi affida al suo aguzzino e se ne va. Però poi torna a sogghignarmi in faccia, e questo proprio non lo sopporto. Ma... siamo fuori dalla prigione, o mi sbaglio? Cosa succede adesso?». «Io mi chiamo Yaan Margraf Lakhmar, e sono l'addetto commerciale sumerico. Per adesso ti conduco nella Sala delle Udienze». «Buffa situazione». Laune s'era raddrizzata e camminava con maggior coordinazione, resa più lucida dalla novità. «Per un momento ho creduto che tu fossi finalmente il boia, e avrei voluto baciarti. Non sei mica un maschietto antipatico, tesoro. Ce l'hai la ragazza?». Yaan fu costretto a sorriderle. «Come ti senti?». «Non male, ora. Forse mi si è sciupato un po' il trucco, in questo am-
biente umido. Ma dimmi: lassù c'è forse qualcuno che vuol divertirsi a vedere in faccia un'autentica piratessa? Mi si racconta che il popolino è già in piazza a litigarsi i posti migliori, per quando sarò issata sul capestro. Chi è interessato a esaminarmi in anticipo? Un ammiratore?». Il giovanotto non rispose. Dietro di loro non s'udivano più i passi di Buto, e neppure c'erano in vista altre guardie a sorvegliare la sua persona. Sebbene ciò la stupisse, Laune cominciò a riflettere sulle possibilità di fuga che le si potevano presentare. «Mi hanno detto che sei malconcia», la incoraggiò Yaan. «Ma fra poco potremo curarti e rimetterti in sesto. Ci sono volute sette clessidre per convincere Laibek, dannazione. Marduk lo maledica! Ho dovuto sudare l'anima tutto il pomeriggio, ragazza mia». «Lo hai convinto? E a far cosa?». «Ma a lasciare che ti portino via dalla città, naturalmente. Che altro?» brontolò lui. La fissò un momento. «Ah, scusa. Dimenticavo che tu puoi certo immaginare in che termini sta la situazione». La voce di Laune divenne rauca. «Via dalla città? Oh, cavolo!». Non riuscì a dir altro finché, dopo esser saliti per numerose rampe di scale ed aver percorso altri corridoi sempre più eleganti, passarono oltre un portale sorvegliato da militi impettiti. Ma la prima parola che le uscì di bocca una volta introdotta nella grande Sala delle Udienze fu una bestemmia oscena, in piedi in mezzo alla sala indorata dalla luce delle lampade ad olio c'erano tre Teste Nere di Sumer, uno dei quali era ben noto. La ragazza s'arrestò, divincolandosi dalla mano di Yaan con uno scatto violento. «Tu! E che accidenti ci fai qui? Cosa vuoi?». Il Comandante Cuhman le venne incontro, esaminandola con le mani sui fianchi ed una smorfia aggrondata. «Dunque ci rivediamo, come ti promisi l'inverno scorso, vero? Laune, ora detta la Cagna. Già comandante in seconda sulla lercia nave di Arloch il Nero. Ne hai fatta di strada, da quando hai assassinato quel bastardo per togliergli il comando. Non sei più tornata a gozzovigliare nei bassifondi di Saarna? Da quei giorni ho spesso pregato gli Dèi perché facessero comparire la tua nave in vista delle mie... per incontrarti sul filo di una spada. Ecco cosa mi avrebbe dato un vero appagamento!». Laune era in brutte condizioni, ma gli si fece così vicina che i loro nasi si sfiorarono e lo fissò con occhi simili a fessure di brace, rigida per l'ira. «Se hai ancora le budella in pancia, Cuhman, ringrazia il tuo Dio protettore di non avermi mai tagliato la strada!» sibilò.
Quasi subito però comprese che il sumerico non era venuto lì per altercare con lei, e che i suoi pensieri dovevano essere altrove, perché l'uomo non raccolse la provocazione. «Presto conoscerai la scure del boia di Ectabana, razza di carogna», si limitò a dire, e le voltò le spalle. Laune rise sprezzante e sputò a terra. L'incontro con il Comandante della flotta da guerra delle Teste Nere sembrava averle ridato energia, come se l'ostilità contro di lui fosse bastata a spingerle più veloce e frizzante il sangue nelle vene. Si guardò attorno e solo allora vide che nel locale c'era anche il Tiranno. Laibek era un ometto calvo di mezz'età, e sedeva su uno scranno intarsiato una decina di passi più in là. Aveva l'aria più subdola e indecifrabile del solito. La ragazza cercò di costringersi a ragionare. Quel Yaan aveva parlato di contrattazioni, e gli avvenimenti facevano supporre che Laibek avesse rinunciato sia a metterla al capestro che a strapparle di bocca il segreto dell'ubicazione di Hatoll, l'isoletta dove aveva nascosto le sue sudate ricchezze. Il Tiranno doveva sapere che anche in mano ai Sumerici ella sarebbe stata messa a morte, ma per la sua consegna aveva certo preteso una contropartita non indifferente. E chi pagava tale contropartita, non lo poteva fare solo per l'effimero piacere di vederla giustiziata altrove. Fu sicura che Cuhman macchinava qualcosa, ma non riuscì ad immaginare cosa. E tuttavia non era la giustizia ciò a cui l'uomo mirava, ad un tratto ne fu sicura. I Sumerici avevano tutta una lista di motivi per volerla veder morta, ma non avrebbero fatto lo sforzo d'alzare una paglia se ci fosse già stato qualcun altro ad accollarsi la spesa del boia. Questa riflessione la lasciò interdetta un istante. Quali reconditi motivi spingevano Cuhman ad impadronirsi di lei? Cosa era venuto a fare veramente, in un paese straniero, che richiedesse tali macchinazioni! Laune tacque, ma una cosa le era arcinota: il Comandante della Flotta del Triarca non si muoveva mai invano, né per futili motivi. Dietro di lei avevano preso posto i due della scorta, a render chiaro il concetto che era prigioniera. Il Comandante e l'elegante giovanotto dall'aspetto di un mercante s'erano avvicinati a Laibek, il quale s'era alzato in tutta la sua sperimentata dignità. Era abile a volgere la sua scarsa statura se non in un vantaggio quantomeno in un pregio, e Cuhman dovette quasi inchinarsi per stringergli la mano. «Sasso gettato,, patto compiuto. Terra alla terra, viva Marduk!» esclamò l'ometto.
La formula, recitata solitamente dai contadini per suggellare i baratti al mercato del bestiame, suonò assurda e ridicola dalla sua bocca. Ma Cuhman non rise di certo. Le loro mani s'agitarono in cerchio tre volte, secondo lo stesso cerimoniale da sensale di campagna, quindi toccò a Yaan nell'identico modo. Laune assistette alla scena senza capir molto, ma non più abbacchiata come lo era stata in quei venticinque giorni. Si sentiva eccitata. Era pronta a scommettere che, lontana dalla prigione del Tiranno, in un modo o nell'altro l'avrebbe scampata. Finire adesso ai ferri su una nave sumerica era già un progresso, e la forca s'allontanava nel suo futuro di almeno quaranta giorni, tanto era il tempo necessario per salire a settentrione lungo il Golfo di Bandai e viaggiare poi via terra fino ad Ectabana. Laibek agitò un dito ammonitore. «Come d'accordo, fra quattro mesi aspetterò di ritorno la sua testa, a prova irrefutabile che giustizia è stata fatta» ricordò ai presenti. Prese poi una pila di tavolette d'argilla fresca, stampigliate coi simboli che nella Terra di Junghad sostituivano la scrittura vera e propria, e le consegnò a Yaan. Dal canto suo il giovanotto gli mise in mano un rotolo di papiro finemente decorato, a confermare l'ipotesi di Laune che la sua consegna era stata pagata con la stesura di qualche accordo sulle importazioni. Fra il giovanotto ed il Tiranno ci fu uno scambio di piccoli doni, amuleti a forma d'animale dal valore simbolico. A questo punto la ragazza si sentì attanagliare le braccia da due mani robuste. Non s'oppose e lasciò che le Teste Nere le legassero le mani dietro la schiena, ma fissò trucemente Laibek e Cuhman. Quest'ultimo accennò verso il portone. «Portatela via», ordinò. «Un momento!» gridò lei divincolandosi. «Ho una cosa da dire. Tu, Laibek, che da giovane facevi il mio stesso mestiere, ricordati questo: la piratessa Laune va a morire, ma tu, quando salirai a bordo di una delle tue navi, abbassa lo sguardo sotto la murata e vedrai che io non avrò ancora cessato d'insidiare i tuoi mari come tutti s'illudono. Laune la Cagna tornerà fuori dagli inferi, reincarnata nel corpo di un rettile marino, per fare a brandelli il tuo corpo e ingoiare la tua anima dannata. Questo io lo giuro oggi, davanti a te e al tuo Dio!». «Più che giusto», concesse il Tiranno, che non mancava d'un certo spirito, e sogghignò con aria saputa. Tuttavia, quando il gruppetto s'allontanò verso la porta, egli si affrettò a fare segni di scongiuro incrociando le dita, tanto per prudenza. Coi malefi-
zi e gli anatemi lanciati in punto di morte da tizio o da caio, e specialmente dalle peggiori carogne, era preferibile non scherzare mai. Il vascello da guerra sumerico era una delle navi più grosse che solcassero quei mari caldi e pericolosi, nei quali le tempeste improvvise s'alternavano a bonacce non meno temute dai naviganti. Era fornito di sessanta rematori, tutti schiavi scelti per la loro robustezza, e Laune s'accorse che a bordo c'era un numero insolitamente elevato di guerrieri Sumerici dal caratteristico elmetto di rame nero. Sul ponte erano accese diverse torce, e da un boccaporto uscivano gli odori non troppo invitanti della cucina. Cuhman invitò Yaan a seguirli sottocoperta, e poi spinse la ragazza verso una scaletta. Appena furono scesi l'uomo estrasse il pugnale e le recise i legami rapidamente. «Non fare la furba», la avvertì con voce dura. «Entra là». La ragazza si massaggiò i polsi indolenziti. «Una cabina tutta per me?» cercò di scherzare. Cuhman non si prese la briga di rispondere. Aprì la porta e fece segno a Yaan di seguire la piratessa nell'interno, ordinò alla scorta di tornare sul ponte ed entrò anch'egli. Laune si trovò in una spaziosa ed elegantissima cabina, illuminata da lanterne d'argento e contenente un'alcova sulla quale era distesa languidamente un bionda cortigiana. Ma l'uomo che sedeva al tavolo centrale aveva l'aria d'essere tutt'altro che un damerino: alto e robusto quanto Cuhman, vestito con un'uniforme da ufficiale borchiata di rame, portava appesa alla cintura una spada che certo non era soltanto un bellicoso ornamento. Il suo volto glabro era accuratamente rasato, ma gli occhi simili a carboni rivelavano con chiarezza che in lui l'assenza della barba non era un'affettazione decadente. La piratessa aveva incontrato di rado un uomo tanto truce e virile. «Sono Valdek», si presentò brevemente, spregiando di aggiungere i suoi titoli nobiliari. «Siediti, mangia e bevi. Avrai fame. Tu, Cuhman, le cederai la tua cabina personale. Dama Laune sarà nostra ospite, e non voglio che abbia di che lamentarsi». La bruna sbatté le palpebre perplessa, e lanciando un'occhiata a Yaan vide che il giovanotto non era meno sorpreso di lei. Dalla bocca le uscì una risatina divertita e soddisfatta, poi sedette al tavolo e afferrò un cosciotto succulento. Qualunque cosa i Sumerici stessero architettando, un fatto era certo: dopo venticinque giorni di galera avrebbe potuto uccidere, per un cibo di quel genere. «Dama Laune, eh?» bofonchiò, a bocca piena. «Dunque sono salita di
rango. Parla pure, uomo, non formalizziamoci troppo. Posso ascoltarti anche mentre mi aggiusto lo stomaco». Valdek le rivolse un sorriso freddo. «Vedo che la mia ospitalità non ti dispiace, e ne sono lieto. So che tu badi al sodo, e immagino che avrai già capito almeno in parte la situazione. Da persone pratiche, non dubito che noi due c'intenderemo perfettamente». «Perché no?». Laune si versò un boccale di vinello frizzante. «Io sono una donna adattabile, e non mi tiro certo indietro quando c'è odore di un buon affare. Mi hai levato la corda dal collo, no? Benone: vuol dire che hai bisogno di me. Sentiamo se il resto è altrettanto promettente, Valdek». Il sorriso dell'uomo s'allargò. Con un gesto inaspettatamente cordiale accennò a Yaan d'accomodarsi su una poltroncina imbottita, poi ordinò a Cuhman di porgergli un largo rotolo di pergamena. Quando la distese in verticale contro una parete, fermandone gli angoli con laccetti di seta, Laune vide che si trattava d'una carta nautica a scala molto grande, rappresentante lo sterminato mare di Gondwana. A sinistra era visibile un tratto della costa di Afra, in alto apparivano il meridione di Ahrab e la regione dell'Hyndos, e nel mezzo era accuratamente disegnato il contorno d'un continente tondeggiante. «Dove l'hai avuta?» chiese la piratessa. «Non ho mai visto una carta tanto precisa. Non c'è uomo al mondo che conosca l'esatta forma di queste terre, e specialmente del Gondwana». Valdek batté un dito sull'enorme isola circondata dal mare. «Ti assicuro che è autentica e precisa. Pochi hanno visto questo disegno, e per tutti gli altri Gondwana è soltanto un regno misterioso di cui non si sa niente. Da esso non partono mai vascelli, e sulle sue spiagge non è permesso sbarcare, né al nord né al sud, ormai da migliaia di generazioni. E tuttavia io ho questa carta». «Avvicinarsi al Gondwana è un'impossibilità materiale», borbottò lei, annuendo. «Guarda tutti quei puntini che lo attorniano come uno sciame d'api: è la Collana degli Atolli, una barriera invalicabile. Se anche qualche comandante di nave volesse far rotta per quella terra dovrebbe fermarsi lì... e per sempre!». «Già!» Valdek strinse i denti. «La Collana degli Atolli: un anello di scogli acuminati come denti di pescecane lungo migliaia di leghe, un intreccio di secche micidiali, di bassifondi, banchi di sabbia, gorghi e correnti vorticose. Si direbbe che tutti gli Dèi del mare abbiano teso lì le loro trappole più feroci, per far sì che il Gondwana rimanga irraggiungibile.
Eppure, molti ardimentosi hanno tentato di spingesi fra gli atolli in cerca d'una rotta agibile, in passato». Ignorando le smorfiette disgustate della cortigiana bionda, Laune prese ad affettare un prosciutto ben stagionato. «Certo, hanno tentato, ma nessuno li ha più visti tornare. Le carcasse delle loro navi sono state ingoiate dalle secche, e i cadaveri sono finiti in pancia agli squali. Se ti è preso il capriccio di far l'esploratore, Valdek, t'informo che col mare non si scherza. E laggiù c'è in attesa solo la morte». «Eppure mi si dice che un passaggio esiste». «È una favola da marinai», ridacchiò lei. «E non è la prima volta che io stessa la sento. Tutti coloro che sono andati alla ricerca di quel passaggio hanno trovato uno scoglio a spaccargli la chiglia e nient'altro. E non erano dei novellini, stanne certo». «Erano esperti navigatori», intervenne Cuhman. «Gente capace. Io ne ho conosciuti alcuni». Valdek lo fece tacere con un gesto seccato. «Forse. Ma in questi casi la sola abilità non basta. Occorre qualcosa di più, occorre fegato, sprezzo del pericolo. E io conosco una persona che è stata capace di ridere in faccia alla morte finché la fortuna non l'ha premiata facendole trovare la rotta giusta. Non è un segreto, che questa persona sia stata capace d'avventurarsi nel bel mezzo delle acque più pericolose del mondo, per cercare un'isoletta su cui far base per le sue imprese. Occorre che ne dica il nome!». Laune non aveva fatto una piega. «Dunque siamo arrivati al punto, Valdek. Ma le tue affermazioni non sono troppo esatte. E se vuoi saperlo, mi meraviglia che un uomo come te miri al mio oro. Il Tiranno Laibek potevo capirlo, è un bastardo avido, un piccolo pirata arrivato al trono e interessato solo al denaro. Ma tu sei ricco, e non ti ci vedo a sbavare su pochi spiccioli messi da parte da una piratessa». «Parla chiaro, Laune! Esiste o non esiste questo passaggio? Bada che se da te non ricavo nulla, stasera stessa ti rimando dove stavi. O tu mi guidi nel Gondwana attraverso la Collana degli Atolli, o ti rassegni al capestro di Laibek. Mi capisci?» Valdek s'era teso in avanti, con occhi accesi d'ira. «Non è il tuo oro che cerco. Quello te lo puoi tenere. Voglio che tu mi porti su quella rotta. In cambio avrai quel che ti ho già dato: la libertà, e anche un bel po' di piastre. Dimmi subito se accetti o meno, donna!». La bruna scattò in piedi gettando indietro la seggiola, e lo fronteggiò con furia non minore. «Non usare questo tono con me, Valdek! Io non sono uno dei tuoi leccapiedi!» esclamò. Dopo qualche istante tuttavia si rilassò e
gli indirizzò perfino una specie di sorriso. Raddrizzò la seggiola e vi si lasciò cadere sopra pesantemente. «E va bene, affare fatto, uomo. Avrei accettato anche se tu m'avessi detto di consegnarti quei quattro soldi, del resto. La mia vita vale assai di più». «Otto casse di piastre d'oro e di gioielli non sono quattro soldi», brontolò Cuhman con aria ostile. «Tale è il bottino che hai fatto da un anno a questa parte, a quanto mi risulta». Laune ignorò il commento. Bevve ancora il vino, fissando Valdek dritto negli occhi con sguardo pensoso. L'uomo le piaceva. Avrebbe potuto essere un ottimo pirata se fosse nato nel Warnalore, ed era certa di potersi fidare di lui. Fidare, ovviamente, nel senso in cui un tagliagole può aver fiducia in un altro tagliagole. D'improvviso si sentiva eccitata, viva, al punto che non avvertiva più il dolore delle ferite riportate quasi un mese addietro, né la debolezza causata dagli stenti. Era libera, per Ishtar e per Marduk! Di nuovo sul mare, con l'orizzonte aperto davanti a sé. Al pensiero rise, brevemente, in un tono gutturale che fece apparire una smorfia sul volto barbuto di Cuhman. Anche Yaan sembrava contrariato, nel vederle assumere quell'espressione ferina. «Siamo intesi, uomo», disse a Valdek. «Ma non illuderti che sia facile metter piede nel Gondwana. Uno solo è il passaggio fra gli atolli, e gli uomini di quel regno lo sanno bene, tant'è vero che a guardia di esso hanno costruito una fortezza imprendibile». «Spiegati meglio», fece l'altro, contrariato da quella novità. Laune s'alzò e andò davanti alla carta. Indicò un punto, nel settentrione dell'anello di minuscole isolette. «Qui si può passare. C'è un canale interamente coperto dall'acqua, che scorre fra i bassifondi e le secche per circa dieci leghe, e sbocca oltre la Collana degli Atolli dopo un percorso tortuoso. Chi non conosce il fondale passo per passo finisce sugli scogli sommersi che lo costeggiano e spacca la nave. Inoltre, l'imboccatura del canale è protetta dalla fortezza». «E tu come sei riuscita a passare?» obiettò Cuhman, di malumore. «Mi si dice che vai avanti e indietro a tuo piacimento, in quel mare maledetto. Ma se le cose stanno davvero come dici, sarà peggio che impossibile». «È fattibile, invece. Io scopersi il modo per caso, quando stavo già pensando di rinunciare all'idea. Accadde una notte, mentre mi aggiravo all'esterno della Collana tenendomi fuori vista della fortezza. Gli uomini della ciurma se la facevano addosso, da quei cani superstiziosi che erano, e dovetti fargli passare la paura a colpi di frusta. Eppure non avevano tutti i
torti: nessuno di noi conosceva quei fondali, e da lontano avevamo scorto i bastioni del forte. Si raccontava che i soldati del Gondwana possedessero armi magiche, capaci di gettare a fondo una nave anche da lontano con una stregoneria spaventosa, e neppure io avevo voglia di sfidarli. Però sentivo che quella notte gli Dèi erano con me, e avevo bisogno di un posto sicuro dove poter nascondere il mio oro tranquillamente. Battevo il mare già da un mese e avevo la stiva piena di merci e oggetti preziosi. Ma ad un tratto m'accorsi che sarebbe stato il mare stesso a darmi la soluzione». «Cosa accadde?» domandò Valdek, eccitato. «Venne la corrente». Laune fece un sogghigno. «Vedi, nella Collana degli Atolli il mare penetra con difficoltà, due volte al giorno, con la marea crescente, ed in quei momenti l'acqua si precipita all'interno attraverso i bassi fondali. La mia nave venne presa dalla corrente di marea come da un fiume in piena, e filò avanti da sola dritta dentro il canale. La ciurma era terrorizzata, perché malgrado il buio c'era il pericolo che le vedette ci scorgessero, e intorno a noi gli scogli sembravano denti di drago che si levavano dappertutto. Ma io ordinai di abbattere il pennone e di stendere la vela nera sul ponte. Poi lasciai che a portarci avanti fossero le mani degli Dèi del mare. Il canale faceva svolte continue, penetrando fra i bassifondi invisibili e le rocce, ma dopo due clessidre ne uscimmo e ci trovammo in acque libere. La mattina dopo, avvistammo la costa del Gondwana, e ne restammo al largo prudentemente. Cercai un'isoletta deserta, fra quelle più interne della Collana, e sbarcai lì. Da allora vi sono tornata otto volte, sempre di notte, usando la corrente di marea come guida e forza motrice per passare avanti e indietro lungo il canale». «Pazzesco!» sbottò Cuhman. «Se è così, le tue informazioni non ci servono a niente. Solo un deficiente metterebbe a repentaglio la sua nave giocando a rimpiattino con la morte, e la nostra è molto meno manovrabile di quella che avevi tu». «Taci!» ordinò Valdek senza guardarlo. «Voglio sentire cosa ne pensa lei. Tu hai visto la nave, Laune. Passerà oppure no in quel canale? Rispondi». La ragazza emise una secca risata, poi annuì. «Certo che passerà, anche se gli scogli leveranno un po' di catrame dalla chiglia. Bisognerà dipingerla di nero da cima a fondo. Ma quando salirà la marea attraverseremo quel canale come fantasmi, Valdek. Stanne certo». «E allora andremo», decise il sumerico. Gli occhi gli lampeggiavano di soddisfazione. «Cuhman, domattina controlla i rifornimenti e fai scannare
un capretto per tranquillizzare la ciurma. Dì al Sacerdote che voglio un auspicio favorevole, e metti in giro la voce che ci sarà oro per tutti. Oro facile, e belle donne. Capito?». Laune gli rivolse un'occhiata scettica. «Non che io mi preoccupi, Valdek, ma sulle spiagge di Gondwana sarà facile che i tuoi uomini campino appena il tempo sufficiente per maledirti. Cosa pensi di poter trovare laggiù di tanto interessante? Quei soldati hanno armi terribili. Non è una frottola, credimi». «L'hai detto, donna: armi. E armi tali che quando ne sarò in possesso gli eserciti del Triarca sciameranno vittoriosi in ogni terra. Dammi quel tubo d'ottone, Cuhman», ordinò Valdek con vivacità. Il comandante della nave aprì uno stipo e ne estrasse un pesante oggetto tubolare, lungo poco più d'un braccio e interamente fuso nell'ottone. A un'estremità aveva un meccanismo semplice, simile ad un comune acciarino a pietra focaia, ed era forato per tutta la sua lunghezza. Laune lo osservò incuriosita, e quando Valdek glielo porse s'avvide che non era certo leggero. Se si trattava di un'arma, per maneggiarla occorreva un uomo di mani robuste. «Non ho mai visto niente del genere», commentò. «Questa dunque è la canna da cui i soldati del Gondwana gettano la fiamma magica? Come funziona?». «Se lo sapessi», brontolò Valdek riprendendogliela, «non avrei certo bisogno di rischiare la pelle come sto facendo. L'hanno vista funzionare una volta sola, ed ha ucciso uno schiavo dalla distanza di ben cento passi, con un gran rumore e uno sbuffo di fuoco. Ma non è per nulla magica. So che dentro la canna si deve mettere una polvere di colore nero, ben pressata, e dopo di essa un pezzo di piombo lavorato in forma sferica. Quando l'acciarino s'abbassa, la scintilla va a contatto della polvere e il piombo esce con la violenza d'un fulmine. Basta il solo effetto a far scappare gli uomini, ed è micidiale». «Allora basterebbe costruirne altre uguali. Non capisco dov'è la difficoltà», constatò la ragazza. «Il segreto sta nella polvere. È impossibile sapere come la si ottiene, e quella poca è stata consumata dall'uomo che usò l'arma. Ma in Gondwana io avrò quel segreto. E poi... Bene, tu sai che noi Sumerici non siamo mai riusciti a espanderci verso ponente, per causa dell'esercito delle Terre Basse che protegge Mitanni. Sono le Amazzoni il nostro nemico più agguerrito, e sarà contro di loro che rivolgerò armi simili appena saprò
come produrre la polvere nera. Le Amazzoni... quelle serpi d'inferno! Entro un anno avrò la loro Regina ai miei piedi, le faremo a pezzi, e il Settentrione di Afra sarà nostro!». «Capisco», mormorò Laune. D'un tratto le parole del Principe Valdek le erano suonate spiacevoli, quasi che ridestassero in lei confuse memorie. Per un motivo che non riusciva ad afferrare, l'idea che i Sumerici fossero dotati di armi tanto tremende, da rivolgere contro il popolo delle donne guerriere, provocò in lei un impulso d'ostilità. Respirò a fondo e cercò di controllare quella sensazione inspiegabile. A lei cosa poteva importare se il Triarca intendeva conquistare territori nel settentrione di Afra? Nulla. Del resto, c'erano altre domande che ora si poneva. «Se ho ben capito, Valdek», disse, rimettendosi a sedere davanti al tavolo e servendosi ancora un po' di carne, «qualcuno ha lasciato il Gondwana portandosi dietro quell'arma. Quando è accaduto?». Il sumerico sembrava esser di buon'umore, adesso, dopo aver visto che lei non aveva esitato ad accettare le sue richieste. Sedette e si versò del vino, accennando a Cuhman di prenderne un boccale per sé ed uno per Yaan, il quale ascoltava con grande attenzione. «Circa due anni fa», raccontò, «quest'uomo fece la sua comparsa a Ectabana, proveniente dal sud. Io mi trovavo in Hus Nur, all'epoca, e ciò che accadde mi venne raccontato in seguito. Sembra che costui fosse in cerca di qualcuno, e si portava dietro oggetti di fattura straniera che non tardarono a destare i sospetti di molti. Fra gli altri c'era anche l'arma che hai visto, e che egli usò quando un drappello di guardie fu finalmente mandato a catturarlo nell'ostello dove alloggiava. Lo sciocco colpì invece uno schiavo, durante la fuga. Riuscì a scappare e scomparve, ma dovette lasciare tutto ciò che aveva con se nelle mani dei soldati. Abbiamo indagato a lungo su di lui, scoprendo chi era e quali relazioni aveva stretto con vari nobili, ma è indubbio che fosse un uomo del Gondwana. Con sé portava anche strane droghe e veleni, oltre alle armi. Un individuo astuto e pericoloso». «Veleni!» borbottò Laune, a disagio. «Sì. Molto efficaci. Mio padre seppe far uso anche di quelli», sogghignò Valdek. «Ma ciò che ci interessò fu l'arma». «Cosa andava cercando quest'uomo? Che io sappia, non si è mai sentito dire che qualcuno abbia lasciato il Gondwana». «Vero», proseguì Valdek. «Le sole notizie su quel regno sono circolate grazie agli Shang, una tribù di strani selvaggi dalla pelle verdolina come
quella dei rettili, che abitano la foce dell'Hynd e hanno avuto contatti col Gondwana in passato. Questo straniero stava cercando di ritrovare una ragazza giovane, e in vari posti s'era fermato a domandare informazioni su di lei. Non so per quale motivo, e neppure mi interessa, comunque lo hanno sentito dire che costei era una specie di Sacerdotessa nella sua terra. Voleva rintracciarla, capisci?». «È un peccato che vi sia sfuggito. Forse lui avrebbe potuto farvi da guida meglio di me». «Ne dubito», affermò Valdek con sicurezza. «Più probabilmente ci avrebbe trascinati in una trappola, oppure non avrebbe saputo come farci oltrepassare la Collana degli Atolli nascostamente dai suoi concittadini. Tu mi sei assai più utile, e sarai tu a farmi da guida». La ragazza annuì. Cominciava ad aver sonno, e l'idea di sdraiarsi in una comoda cuccetta la attraeva sempre più. Il sumerico tuttavia sorrideva con incomprensibile malizia, quasi che assaporasse qualche altra sua riflessione piacevole. «Cuhman», disse. «Riempi ancora il boccale del nostro amico Lakhmar. Oggi ci è stato molto utile. È grazie a lui che possiamo viaggiare verso quella terra forniti di un pilota sicuro». «Questo tale di Gondwana», domandò Laune. «Era giunto su una nave di certo. Che fine ha fatto il suo vascello?». «Nessuno lo sa. Ma in seguito si è scoperto che ha proseguito le ricerche di quella sua compatriota. Ha mutato identità, e quindi si è sistemato nel posto migliore per avere notizie di lei. Infatti sembra che la ragazza fosse finita in mano ai mercanti di schiavi. Quale luogo, dunque, sarebbe stato più adatto alle sue indagini di un grande porto, dove il traffico degli schiavisti e dei marinai reca con sé un'ingente quantità di informazioni? L'uomo era un tipo pieno di risorse, e riuscì a trasferirsi in una grande città di mare. Oltre a ciò, certe amicizie che aveva contratto in Ectabana gli permisero addirittura di assumere proprio le mansioni più adatte, per avere libero accesso al traffico portuale ed alle navi dei vari paesi. Sono lieto di poter dire che proprio grazie a questi traditori, persuasi con gli opportuni metodi, oggi conosciamo l'identità sotto cui s'è celato per quasi due anni. Il nobile Graybex è stato giustiziato, caro Lakhmar. Una notizia che senza dubbio ti dispiacerà». Sbalordita Laune si girò e vide Yaan balzare in piedi, pallidissimo, portando una mano all'elsa del pugnale. Ma Cuhman aveva già estratto la spada, e gliela stava puntando nel petto con una faccia che prometteva la
morte. «Bastardo!» esclamò il giovanotto, tremando di furia repressa. «Il nobile Graybex era cugino di tua madre!». Valdek non aveva smesso di sorridere. «Era un traditore e un idiota. E tu farai la stessa fine. La tua avventura si concluderà domattina, dopo che avremo salpato le ancore, e a questo modo ti accorgerai che a scherzare con la giustizia del Triarca si trova solo un pennone e qualche braccio di corda insaponata. Portalo nella stiva, Cuhman». «Un momento!». Malgrado lo stupore, Laune era tutt'altro che d'accordo con la decisione del sumerico. «Aspetta un po', Valdek. Quando saremo nel Gondwana ci serviranno informazioni, altrimenti non faremo un passo più in là della spiaggia. Se ci tieni ad arrivare da chi ti può dare il segreto di quella polvere, Yaan Lakhmar dovrà collaborare e farci da guida dopo lo sbarco. Gettare via questa possibilità sarebbe uno sbaglio. E gli sbagli si pagano sempre, tanto più in situazioni già piene di pericoli sconosciuti. Capisci cosa intendo?». Il Principe Valdek aveva stretto i denti, seccato dal suo intervento. Per un poco tacque, riflettendo di malavoglia su quell'osservazione, poi annuì un paio di volte. «D'accordo», stabilì. «Non hai torto. Ma intanto lo mettiamo ai ferri, eh, Cuhman? Sistemalo di sotto, coi rematori, e domani fallo vogare. Un po' di lavoro vero gli gioverà». IL DRAGOCARRO La Locanda Pekorhasj era un fatiscente ostello a due piani, situato giusto sulla piazza del mercato di Cranach. In essa trovavano alloggio sia i pellegrini meno abbienti, diretti al Santuario di Cempoalla, sia i nugoli di cimici nere che aspettavano solo l'arrivo delle tenebre per sciamare entro i giacigli di costoro, avide di sangue. Affacciata ad una stretta finestra del secondo piano, Babeeri attendeva il ritorno di Goccia di Fiamma che quel mattino era andata a caccia di notizie fra le taverne dopo averle raccomandato di tener la porta chiusa a catenaccio, ed intanto ingannava il tempo osservando la caotica attività del mercato. Le bancarelle erano varie centinaia, e presentavano ai suoi occhi un variopinto panorama di tende fra cui s'aggiravano individui della più diversa specie e provenienza, tutti però egualmente vocianti e confusionari. Mescolati alla gente c'erano Sacerdoti di Marduk dalla tonaca gialla, che
guardavano in cagnesco gli adepti di Ishtar ammantellati di rosso, numerose guardie del Tiranno, gli esattori delle tasse spesso camuffati nei più diversi modi, e moltissimi animali sciolti o trainati da qualcuno. Per Babeeri, che non aveva niente di meglio da fare da quando lei e Goccia erano arrivate in città, quello spettacolo aveva aspetti affascinanti e pieni di sorprese. In un angolo della piazza c'erano i venditori di incenso, cupi nomadi di Dall Tharka armati di pugnali ricurvi, i quali sedevano dietro i rispettivi mucchietti di polvere gialla e granulosa rifiutandosi sprezzantemente di contrattare con chiunque. Ogni tanto qualcuno si fermava a toccare la merce e proponeva loro un prezzo, ma se questo era tanto basso da esser considerato insultante, il nomade interpellato estraeva rabbioso la sua arma, con un ringhio belluino. Quando invece capitava un mercante con un'offerta accettabile, il nomade balzava in piedi con un grido terrificante e si precipitava a baciarlo sulla bocca, secondo l'usanza del deserto occidentale. Dalla parte opposta c'era la piattaforma sulla quale venivano fatti sfilare gli schiavi, e che lei stessa aveva calcato per ben due volte in passato allorché era finita nelle grinfie degli schiavisti. In quel momento Wilmer Sawagaile, il banditore, stava presentando al pubblico un gruppo di sparuti ragazzini del Khalabar, tutti privi della lingua ed ancora dipinti col ghaloe, evidentemente smerciati alla Casa degli Schiavi da qualche pirata. Gli sarebbe stato difficile cavare un buon guadagno da quei piccoli selvaggi, famosi per la loro innata testardaggine. Seduti o in piedi davanti alla piattaforma c'erano artigiani e possidenti della città alta, capitribù del Barragas e di Ambraine dai caratteristici stivaloni di legno nero, cortigiane dalle unghie dipinte con l'henné, nobilotti di Larsa e del Daghness alteri ed armati con sottili stocchi da duello, ed alcuni attenti funzionari dei Cayyali che tenevano sotto controllo le province del settentrione e dell'ovest. Dalla parte della città bassa, dove lavoravano maghi itineranti, astrologhi diplomati ed ingioiellate chiromanti venute dallo Yag Dag, c'era poi un colossale e stupefacente animale di legno dipinto, la cui forma era quella d'un orrendo drago lungo oltre venti passi. La fanciulla aveva fissato quell'apparizione con un ansito di spavento, qualche sera prima, avendo creduto per un attimo di trovarsi davvero di fronte un mitico mostro sbucato dagli inferi. Solo quando Goccia di Fiamma le aveva fatto notare, con una sonora risata, che dietro alle zampe c'erano delle solide ruote, ella aveva capito che si trattava d'un veicolo fantomatico quanto bizzarro; ma
ancora non era riuscita a comprendere a cosa mai servisse, né perché il suo costruttore l'avesse posteggiato sulla piazza. Negli stretti camminamenti fra i banchi di vendita, oltre alla popolazione di Cranach sudata e malvestita, c'erano dozzine di mendicanti che s'aggrappavano senza requie alle tuniche dei passanti, supplicandoli o maledicendoli a seconda dei casi, e una quantità imprecisata ma non indifferente di ladri e tagliaborse di tutte le età. Fu in mezzo a quella folla tumultuosa che, poco prima dell'ora di pranzo, Babeeri vide farsi largo una figura alta, intabarrata in un lungo shaari a strisce viola e col capo coperto dalla tipica pezza di lino verde delle contadine. Era Goccia di Fiamma, di ritorno dal suo giro, e la fanciulla sospirò di sollievo. Da quando il Sacerdote Ianos era morto, soltanto in compagnia di quella rossa Amazzone dagli occhi scanzonati e allegri provava un senso di confortante sicurezza, sebbene non avesse dimenticato quanto sapeva esser temibile con una spada fra le mani. La attese sulla soglia della stanzetta e quando ella apparve, sorridente e sudata, le gettò le braccia al collo. «Salve, tesoro», la salutò lei, tirandola subito dentro e chiudendo la porta. Gettò sul tavolo una borsa tintinnante. «Trecento piastre: ecco quanto mi ha fruttato la vendita del cavallo e della spada. E in più mi sono procurata un buon pugnale col fodero. Ho anche pagato quel pidocchio di Sharmak, mentre salivo. Mi aspettava al varco sulle scale». «Hai avuto notizie della tua amica?». «Niente, purtroppo». Goccia fece una smorfia d'impotenza. «Ma ho domandato a diverse persone di quella piratessa di cui mi hai parlato, Laune la Cagna. Sto convincendomi sempre più che costei e Ombra di Lancia potrebbero essere la stessa persona». Babeeri le strinse un braccio ansiosamente. «È in prigione? Dimmi, hai saputo che ne sarà di lei?». «Ti dirò una cosa, ragazza mia: ne ho sentite tante che non so più a chi dar retta!». Goccia si lasciò cadere a sedere sull'unica seggiola rosa dalle tarme e si levò il copricapo verde, col quale s'asciugò la fronte. «Fa un caldo!... Comunque sembra accertato che ventisei o ventisette giorni fa il Tiranno l'ha fatta gettare in qualche cella, sotto il suo palazzo. Prima o poi sarà messa al capestro». «Oh, no! Non è possibile che questo avvenga, Goccia! Lei non è malvagia come dicono. Io non posso dimenticare che mi ha salvato la vita e che è stata pietosa con me».
«Che sia una santa animuccia c'è da dubitarne, bambina. Mi hanno raccontato di lei cose da far gelare il sangue. Tuttavia questo s'accorda bene col genere di pazzia che s'è impossessato di Ombra, e coincide anche il momento in cui ha cominciato la sua brillante carriera. Inoltre, tu me l'hai descritta abbastanza bene». «Cosa intendi fare, adesso?» volle sapere Babeeri. «Devo saperne di più». Goccia prese una giara di birra da sotto il tavolo e se ne versò un poco in una ciotola. «Ho sentito dire che il Tiranno Laibek le sta facendo confessare i suoi crimini con la tortura, o forse è solo interessato ad estorcerle informazioni sul nascondiglio del suo bottino. D'altronde, fino a ieri c'era una forca pronta a riceverla, nella piazzetta sul fiume, e adesso è stata smontata senza che nessuno ne abbia capito il perché. Dovrò indagare... O magari tentare addirittura il colpaccio». «Il colpaccio?». La fanciulla sbatté le palpebre. «Tirarla fuori dalla prigione, voglio dire. Non ho chiaro cosa medita di fare Laibek, ma una cosa è certa: se quella Laune è in realtà Ombra di Lancia, io non la lascerò là dentro. La libererò, anche se dovesse costarmi la vita!». Quella sera, poco prima del tramonto, Goccia di Fiamma andò a sedersi su un muretto sgretolato sulla riva di un fiumiciattolo che attraversava i bassifondi di Cranach. Dall'altra parte del corso d'acqua, si ergeva la rupe in cima alla quale era costruita la fortezza del Tiranno, e le pareti di roccia scabra cadevano quasi a picco nell'acqua torbida. Dalla sua posizione non poteva vedere l'ingresso del palazzo, che s'apriva dietro la massiccia collinetta, ma in compenso poteva godersi la vista dei numerosi scarichi delle fognature che, a quanto le era stato riferito, comunicavano ampiamente con la prigione. A malincuore ora doveva riflettere che la sua idea di penetrare nella roccaforte attraverso di essi era irrealizzabile. Gli sbocchi di quei condotti erano troppo stretti per consentirle il passaggio. Stava domandandosi che altro poteva escogitare, quando vide un individuo miseramente vestito che procedeva lentamente lungo la riva del fiumiciattolo, immerso fino alle ginocchia nell'acqua fangosa. Aveva l'aria di esplorare fra i sassi del fondale con i piedi, ma i suoi occhi sembravano persi lontano quasi che contemplasse misticamente il tramonto. Ciò che attrasse di colpo l'attenzione dell'Amazzone fu però lo strano colore verdolino della sua pelle, anormale e malaticcio. Perfino la sua testa, liscia e completamente calva, era verde come la superficie di una mela acerba. Che
fosse affetto da qualche morbo ripugnante? L'Amazzone fece una smorfia al pensiero. Subito dopo però, sussultò per lo stupore nel vederlo estrarre svelto un piede dal fango: fra le dita aveva un pescetto, catturato con incredibile destrezza, e quindi se lo ficcò in bocca cominciando a masticarlo. Quella scena aveva fatto dimenticare alla ragazza le sue preoccupazioni. «Ehi, tu!» lo interpellò. «Chi ti ha insegnato a pescare in quel modo? Non ho mai visto niente di simile». L'uomo si volse a fissarla poco amichevolmente, seccato dalla sua intrusione. Dovette poi capire che la ragazza non era di Cranach, perché la esaminò con una circospezione che sfumava nella curiosità e si decise ad avvicinarsi. «Non mi meraviglia», bofonchiò a bocca piena. Si tolse le spine del pesce dalla bocca e le gettò, con un gesto altero e schifiltoso che si sarebbe adattato meglio a un cortigiano decadente. «Voi esseri umani siete ben lungi dal possedere le necessarie doti di destrezza e intuito. Penosi e goffi, vi sorprendete allorché altri vi superano in abilità. Ti divertivi ad osservarmi?». «Sto solo prendendo una boccata d'aria», fece lei. «Tu non mi sembri di queste parti. Da dove vieni?». L'altro ebbe uno sguardo incredulo. «Vuoi dire che non sai riconoscere un appartenente all'eletta stirpe degli Shang? Davvero la tua ignoranza merita un encomio, o femmina. Potrei perfino esserne offeso, se non comprendessi che tale domanda si giustifica con un livello culturale meschino, quindi indegno della mia ira». Goccia di Fiamma ridacchiò, annuendo. «Oh, scusami. Avrei dovuto capire subito che appartieni a una civiltà nobile e superiore, osservando l'eleganza delle tue vesti ed il modo in cui sguazzi leggiadramente nella melma. Perdona la mia riprovevole imbecillità, signor Shang». «Ti fai gioco di me, femmina?» sbottò lui. «Al momento sono costretto in evidenti angustie, alle quali so tuttavia adattarmi in virtù di una filosofia preclara e caratteristica degli spiriti indomiti. La tua ironia è quindi sciocca. Sappi che hai di fronte a te Cobal Gavelord, che in tempi migliori fu il Gulorjm Bushé del Clan Gavelord Solander, nel Wadabra. Vedi la rosa azzurra che ho tatuata sui lobi delle orecchie? Essa indica che chi la porta è uomo d'ingegno, di nobilissime origini, puro negli atti e nei propositi». Alla ragazza tornò in mente ciò che aveva detto Babeeri, seppure brevemente, circa il suo soggiorno fra una tribù di quel nome presso la foce
del Fiume Hynd, e l'osservò con maggiore interesse. L'individuo era umano in tutto, a parte il colorito verdastro e la faccia forse un po' troppo allungata. I suoi occhi erano rotondi, la bocca piccola, ed era molto snello. Da come si esprimeva lo giudicò colto ed istruito, benché presuntuoso in modo quasi insopportabile. «Io mi chiamo Goccia di Fiamma», si presentò. «Vengo dal nord ovest, dalla riva del Mare Interno. Dalle mie parti non si sa nulla delle razze che abitano il meridione e l'oriente». «Avevo infatti immaginato che tu fossi straniera. Indossi vesti da contadina, ma sei singolarmente alta e robusta per essere una popolana dello Junghad, e qui nessuno ha le chiome rosse. Bene, un giorno o l'altro visiterò anche il Mare Interno, forse. Devi sapere che io viaggio allo scopo d'esplorare terre barbare, ampliando così la vastità dei miei orizzonti e le mie conoscenze, anche se così facendo incorro spesso nell'ostilità delle razze incivili. Qui nella Terra di Junghad, noi Shang siamo ben conosciuti, e tuttavia veniamo considerati con un'assenza di rispetto davvero deplorevole». «Le guardie del Tiranno ti hanno per caso maltrattato?» volle sapere Goccia. Cobal Gavelord s'accigliò. «Tu usi un eufemismo, femmina. Pensa che questo governante selvaggio mi ha fatto gettare nella prigione, un luogo ripugnante oltre ogni immaginazione, dove ho trascorso ben trenta giorni, e tutto perché non ho pagato ai suoi scherani non so quale stupida tassa. Ora sono ansioso d'allontanarmi dalla città e di riprendere il mio viaggio, ma purtroppo non ho più mezzi finanziari». L'accenno alla prigione fece scattare l'attenzione dell'Amazzone, che si disse subito disposta ad offrirgli la cena e lo invitò alla Locanda Pekorhasj. Lo Shang sembrò assai lieto della proposta, e uscì dall'acqua del torrente senza esitare. Era alto quanto Goccia di Fiamma, e le camminò al fianco con andatura impettita. Mentre transitavano per i bassifondi, già invasi dalle ombre della sera, si guardava attorno con sufficienza. «In questa città regna la miseria più avvilente», commentò. «E gli abitanti se ne pasciono, sudici e ignoranti quali sono. Ma tu mi sembri più elevata di costoro, a dire il vero. Quasi sarei tentato di chiederti un prestito, per comprarmi un abito decente». «Quanto ti serve?». Cobal tossicchiò, imbarazzato. «Devi capire che non mi abbasserei mai a domandare del denaro a questi popolani venali e meschini. Tu invece
m'ispiri fiducia, e spero che lo apprezzerai. Dieci piastre basteranno, direi». Goccia si rassegnò ad accompagnarlo in una specie di bazaar, dove lo Shang acquistò dei sandali e un vestito. Ignorando sprezzantemente i suggerimenti ed i consigli del proprietario, scelse pantaloni a sbuffo di lino di Saarna, violetti a strisce grigie, e un'aderente giubba di velluto color sangue. Contrattò poi l'acquisto di una cintura con borchie di vetro bianco e d'un tondeggiante cappello di cuoio fornito di paraorecchie penduli. Con sorpresa dell'Amazzone si dimostrò assai abile nel far calare il prezzo, ed ottenne il tutto per sole sei piastre. Poco dopo, mentre s'avviavano verso la piazza del mercato già semideserta, la ragazza ebbe modo di porgli le domande che le premevano. «Sì, ho avuto occasione di vedere quella piratessa», rispose Cobal, «il giorno stesso in cui la incarcerarono. In seguito la fecero uscire dalla sua cella più volte per condurla in sala di tortura. Una femmina efferata, se vuoi il mio parere». «E non le hai mai parlato?». «No. Andava avanti e indietro sempre sotto scorta. Fra i detenuti si diceva che il Tiranno volesse conoscere i suoi segreti, in specie il luogo dove aveva celato ingenti somme di denaro. Tutto mi fa pensare che costui abbia saputo ciò che voleva, alla fine». «Spiegati meglio, Cobal». «L'uomo fece un gesto vago. «Si tratta di questioni che per me non rivestono interesse, cerca di capirmi. Solitamente non presto attenzione alle vicende di cui sono protagonisti indigeni poco civili, badando invece agli aspetti più generali e rivelatori delle vostre società». S'accorse che la ragazza sbuffava innervosita, e continuò: «Comunque, visto che ti aggrada saperlo, ho appreso che la malafemmina s'è accordata col Tiranno. Doveva esser stanca di farsi slogare le giunture sul tavolo estensibile. Dimmi, è ancora lontana la locanda? Non ti nascondo che ho fame». «Che genere di accordo ha raggiunto con Laibek? Ne hai un'idea?» domandò Goccia, costringendolo a fermarsi. «È abbastanza evidente, secondo me. La piratessa avrà acconsentito a consegnargli il suo bottino, in cambio di una morte rapida e pietosa. Ma fra i detenuti ci si diceva abbastanza sicuri che questa Laune sarebbe riuscita a fuggire, durante il viaggio da qui alla segreta isola dov'è il suo covo. Sono partiti ieri mattina». Goccia di Fiamma rimase senza parole. Non faticava a credergli, visto
che ciò rendeva chiaro il motivo per cui il capestro già pronto era stato smontato, ma sebbene la notizia non fosse cattiva sospirò di delusione. Ombra di Lancia era più lontana che mai, e diretta chissà dove. «Partita», mormorò. «E c'è da scommettere che nessuno sa per quale destinazione, salvo il Tiranno stesso». «È così», disse lo Shang, indifferente. «La nave ha preso il largo ieri mattina all'alba. Questo posso dirtelo con certezza, dato che mi trovavo al porto e l'ho vista allontanarsi». La ragazza tacque per il resto della strada, cercando di digerire quelle informazioni. Di fronte alla Locanda Pekorhasj alzò gli occhi e vide che Babeeri la aspettava, affacciata alla finestrella del secondo piano. Le fece un cenno di saluto, commossa dalla sua ansia perenne e dal sollievo che il suo volto grazioso rivelava. Nell'interno si fermò davanti alla cucina ed avvertì Sharmak, il padrone, che facesse portare la cena per tre persone nella loro stanza. Sulla soglia diede un bacetto su una guancia a Babeeri, la quale le rispose però distrattamente e senza abbracciarla com'era solita fare. La fanciulla aveva dapprima accolto la comparsa dello Shang con un sorriso lieto, ma subito dopo il suo viso s'era fatto inspiegabilmente ostile. «Watarj she cajn el vaste, itubra?» gli domandò secca, in una lingua che l'Amazzone non aveva mai udito in vita sua. «Watarj ae!» le rispose altrettanto sgarbatamente Cobal, entrando, e fece spallucce. Quando Goccia ebbe richiuso la porta l'individuo si rivolse a lei, con una smorfia scontenta: «Non mi avevi avvisato che insieme a te c'era una steghe, una cucciolata umana cresciuta in seno ad uno dei Clan!» la accusò. «Non mi chiamare steghe, tu!» esclamò Babeeri, tenendosi lontana da lui. La fanciulla tremava. «Goccia, perché hai portato qui questo individuo?». «Ma... tesoro, credevo che ti avrebbe fatto piacere», rispose lei, stupefatta. «Non mi hai detto che con gli Shang t'eri trovata molto a tuo agio?». Babeeri parlò ancora a Cobal nella sua lingua, in tono fra spaurito e contrariato, e l'altro le replicò con un paio di brevi frasi, voltandole poi le spalle con fare sprezzante. «Insomma!» sbottò l'Amazzone. «Si può sapere cos'avete da litigare? E fatemi il favore d'esprimervi in modo che io possa capirvi». «Ma non vedi che costui è un pericoloso criminale, Goccia? Guarda la
rosa che gli hanno tatuato sui lobi delle orecchie: il Clan dei Solander usa marchiare così quelli che si rendono colpevoli di omicidio e tradimento, prima di esiliarli per sempre», rispose la fanciulla. «Ed io lo so bene, perché l'isola dei Solander era assai vicina a quella dei Faragoj, il Clan che mi ospitò per oltre sei anni». «Non voglio degnarmi di ribattere alle inconsulte parole di una piccola steghe», borbottò acido lui. «Sarai anche stata allevata come gli omonimi animaletti domestici nel Clan di quegli arroganti Faragoj, ma da quando in qua ciò ti autorizza a calunniare stupidamente Cobal Gavelord, che fu un Gulorjm Bushé dei Solander? Noto che il contatto con una razza superiore ha giovato assai poco alla tua educazione». Goccia lo invitò a sedersi, dopo aver fatto una carezza a Babeeri per calmarla un poco. Prese la giara della birra e riempì le uniche due ciotole che c'erano, poi s'accomodò al tavolo. «Non m'importa chi sei né cos'hai fatto nel Wadabra, Cobal. Dopotutto sono fatti tuoi». Lo Shang esitò, quindi sedette anch'egli e bevve. «Infatti sono cose mie. Tuttavia... uhm! Devo ammettere di aver arricchito un momentino la verità, quando ti ho spiegato la ragione per cui viaggio in terre straniere». «In altre parole, mi hai mentito sfacciatamente. Ma ti ripeto che non fa differenza; questa sera sei mio ospite. E tu, cara, non guardarlo come se stesse per mangiarti viva e mettiti seduta. Fra poco ci porteranno la cena. Più tardi andremo a passeggiare un po' sul lungoporto. Qui a Cranach fa fresco solo la sera». «Ma è un delinquente capace di tutto», mormorò lei a disagio. «Soltanto Antjmao il Massacratore, centoventi anni or sono, si meritò d'essere scacciato dal Wadabra col marchio della Rosa Azzurra. E di certo quest'individuo deve aver commesso qualche atto terribile». «Dici delle sciocchezze!» esclamò vivacemente Cobal. «Mi sono limitato ad infliggere una ben meritata punizione al Nobile Kanjbal Throta, il quale aveva spudoratamente dichiarato al Consiglio che io non potevo vantare alcun diritto di successione alla guida del clan». «Ma il Nobile Kanjbal Throta in persona ne era a capo!» lo accusò Babeeri. «Credi forse che io non lo sappia? Dunque è quel poveretto che hai assassinato». «Punito, è la parola che preferisco. Ma egli osò di screditarmi pubblicamente, spingendosi fino a dire che avevo meno diritto a succedergli del suo gatto. Allora una giusta ira mi accecò, e gridandogli che ciò sarebbe invece accaduto quella sera stessa mi precipitai su di lui, brandendo una
lama affilata. Immediatamente dopo tenni un discorso ai Consiglieri, dimostrando loro in modo cristallino la piena e luminosa legalità del mio agire. Purtroppo nel Clan si scatenarono gelosie e subdoli intrighi ai miei danni, ed io venni ingiustamente incarcerato. Come quindi vedi, posso dire d'esser stato la vittima innocente d'una fosca congiura, o femmina!». L'uomo dalla pelle verde s'interruppe, perché la moglie di Sharmak e lo sguattero di cucina stavano bussando alla porta. I piatti della cena vennero deposti sul tavolo, e Goccia diede cinque scudi al ragazzo della locanda perché andasse in fondo alla piazza a comprare una torta d'albicocche e del vino di qualità migliore. Quel pomeriggio Babeeri s'era fatta dare una seconda sedia, ma ora ne occorreva un'altra. Appena il garzone l'ebbe portata la giovane ex schiava sedette, tenendosi il più vicino possibile a Goccia di Fiamma e gettando occhiate ostili e preoccupate allo Shang. L'uomo però mangiava a quattro ganasce, ostentando nei suoi confronti un'alterigia che finì con l'indispettirla. Allora mutò atteggiamento e stabilì di ignorarlo, ma ciò la costrinse a tenersi in bocca le domande che desiderava porre a Goccia di Fiamma sul motivo per cui s'era rimorchiata alla locanda quell'uomo vanesio e indisponente. Al termine del pasto, la rossa Amazzone s'era fatta pensierosa. Centellinò il vino rimastole nel bicchiere con l'aria di non gradirne molto il sapore, ma più probabilmente erano le sue riflessioni a riuscirle poco piacevoli. «Dunque la piratessa Laune è stata fatta imbarcare, e per destinazione ignota», mormorò. «Ne sei certo, Cobal? Per me è una cosa di grande importanza». «Non vedo perché avrei dovuto mentirti», rispose lui pigramente. «Al momento della partenza era certo in qualche cabina sottocoperta, ma sul ponte c'erano gli stessi soldati stranieri che l'avevano presa in consegna la sera prima. Individui minacciosi e dall'aspetto fosco». «Stranieri?» Goccia di Fiamma lo fissò, allibita. «Stai dicendo che non era una delle navi del Tiranno Laibek? E hai notato quale vessillo inalberava?». Cobal agitò una mano in un gesto vago ed annoiato. «Come posso sapere a quale sciocco regnante apparteneva il vascello? Ben di rado mi curo di domandare informazioni tanto irrilevanti, quando sono già oberato da pensieri che...». L'Amazzone lo afferrò per un braccio Con forza tale da strappargli un mugolio di dolore. «Descrivimi le loro uniformi!» gli ordinò, spazientita.
Lo Shang le aveva appena riferito che quei militi portavano elmetti dipinti di nero, che Goccia s'alzò in piedi di scatto e prese a camminare intorno al tavolo nervosamente. La sua espressione era così aggrondata che Babeeri s'impressionò. «Sumerici!» ringhiò l'Amazzone, stringendo i pugni. «Teste Nere di Sumer, dannazione. Peggio di così non poteva andare. Se solo sospettassero che Laune la Cagna è in realtà Ombra di Lancia... Demoni! Dopo la stessa Regina Shalla, è proprio Ombra quella di noi che odiano di più». Babeeri le fece notare che forse era proprio per quel motivo che l'avevano tolta di prigione, ma Goccia scosse il capo, osservando che per i Sumerici Ombra di Lancia era soltanto un nome. La bruna Amazzone comandava la temutissima Cavalleria della Dèa, ed essi avevano con lei più di un conto aperto, tuttavia non potevano conoscerla di persona. Ma anche in questo caso sarebbero stati assai più ansiosi di vederla salire sul capestro che di portarsela dietro. «Può darsi che lei non sia affatto la tua compagna, Goccia», puntualizzò la fanciulla in tono persuasivo. «È lei, invece. Lo sento. Sarei pronta a giocarmici la pelle, su questo. Cobal, hai visto in che direzione è salpata la nave? Verso nord o verso sud?». «Ha fatto vela a meridione, o femmina. Tu, piccola steghe, passami il vino». «Serviti da te, signor mio!» esclamò Babeeri, offesa, e si girò dall'altra parte. «Meridione!». Gli occhi verdi della ragazza ebbero un lampo soddisfatto. «Quand'è così, significa che costoro sono partiti di recente dalla Terra dei Due Fiumi, e per una missione che non è delle solite. Mirano ad un obiettivo ben preciso, e tanto inconsueto che non hanno esitato a contrattare col Tiranno la liberazione di Laune. Dunque hanno bisogno di lei, e quando hanno saputo che era stata catturata hanno deciso che i loro progetti sarebbero stati facilitati dalla sua presenza a bordo. Intendono usarla... Ma per cosa?». «Amazzoni, piratesse...» Cobal si permise un blando sorriso. «Ti confesso che questa storia stuzzica la mia innata curiosità, o donna. Perché non ti siedi e non mi racconti tutto dall'inizio? Noi Shang sappiamo essere buoni ascoltatori. Ricordo che spesso, sull'isola dei Solander, amavo indugiare sulla spiaggia con altri dotti, a disquisire degli strani costumi degli umani selvaggi dalla pelle bianca».
«Selvaggi?» s'indignò Babeeri. «Tu che porti il marchio della Rosa Azzurra e sei stato scacciato con disonore dal Wadabra, credi di aver il diritto di criticare così gli altri popoli?». «Io non critico, bensì puntualizzo dei dati di fatto, ed uso i termini appropriati a definire voialtri barbari. Inoltre, mi sono testé riproposto di non parlare con te». «E con chi altri stai parlando, allora?» replicò la fanciulla. «Che domanda irritante! È ovvio che sto parlando con la tua amica, no? Ti assicuro che le mie parole sono infatti dirette a lei, e non già a te». La logica distorta di quella risposta fece ammutolire Babeeri, che lì per lì non seppe cosa ribattere. Goccia di Fiamma stava però sbuffando, e fece loro cenno di chetarsi un momento. «Lasciatemi riflettere, per la Dèa! Se litigate così non riesco neppure a sentire quello che penso. Devo capire cosa accidenti stanno macchinando quei Sumerici, e soprattutto Qual è la loro destinazione». «Elementare», la informò Cobal. «A sud del Golfo di Bandai, un vascello non ha che due direzioni da prendere, a meno che non voglia finire sperduto nel mezzo del Mare di Gondwana: può far rotta a occidente, verso Afra, oppure a oriente». «Tante grazie», brontolò acidamente l'Amazzone. «Ma ad oriente c'è l'Arcipelago del Warnalore, e cioè una zona di mare ostile ai Sumerici, piena di pirati. Loro hanno un vascello soltanto, quindi è escluso che vogliano approdare in quelle isole o anche solo navigare in acque così pericolose». Lo Shang constatò che, se così era, la nave sumerica era diretta dalla parte opposta, lungo la costa meridionale di Ahrab fino in Afra, ed eventualmente poi su verso il sottile Mare di Porpora. «No. I Sumerici vogliono sapere qualcosa che solo Laune sa, e perciò è difficile che abbiano fatto vela per coste che conoscono già fin troppo bene. Cercano un luogo ed una rotta per giungervi. Lo giurerei... un luogo dove nessuna delle loro navi si è mai spinta». «Forse vogliono sapere l'ubicazione dell'isola in cui ella nascondeva il suo bottino», disse Babeeri, esitante. «Che ipotesi assurda!» esclamò Cobal. «Tale informazione interessava al Tiranno, ed egli non avrà rinunciato ad averla senza essersi fatto pagare una somma almeno equivalente al tesoro della piratessa. Di conseguenza l'azione dei Sumerici non risulterebbe essere di nessun guadagno, alla fine».
«Sei meno sottile di quanto credi», lo apostrofò la fanciulla. «Tu non hai pensato che Laune è in possesso d'un segreto più importante dell'oro e dei gioielli. Tutti lo sanno, nella Terra di Junghad». «Spiegati meglio, tesoro», la incoraggiò Goccia. «Ianos, il Sacerdote, mi raccontò che Laune è di certo l'unica persona vivente a conoscere il modo di oltrepassare la Collana degli Atolli. E ci sono marinai disposti a giurare che la sua isola segreta sia laggiù, presso il Gondwana. L'uomo dalla pelle verde rise raucamente e batté una mano sul tavolo. «Questa è buona! Solo dalla bocca di una sciocca donnetta umana poteva uscire una tale insulsa affermazione. Ti informo, o credula femmina, che non esiste alcuna rotta agibile per penetrare nella Collana degli Atolli. Nessuno meglio di noi Shang può dichiararlo in tutta sicurezza». «Per la verità ho sentito parlare anch'io di questa supposta isola», mormorò Goccia di Fiamma. «Da quando Laune è stata catturata in città si parla molto di lei, e le dicerie di una rotta segreta attraverso gli Atolli vengono ripetute da molti». «Credi a me», sorrise Cobal. «Da mille e mille generazioni, una soltanto è la via per accedere al continente di Gondwana, ma nessuno la può percorrere. Si tratta della leggendaria Strada Sommersa, il fantastico e mitico percorso lastricato in pietra che corre sul fondo del mare. Esso collega il Gondwana con la mia terra, il Wadabra. Questa è la verità, o Amazzone. E ti assicuro che tale strada esiste davvero». «Esistono anche persone che l'hanno percorsa», disse Babeeri con un sorrisetto enigmatico. L'altro la fissò, accigliato. «Può essere, ma a me non risulta. Al tempo dei tempi, spesso la Khoiné usava il suo magico potere per consentire agli uomini e agli Shang di comunicare tramite quella via. Sappi che nel Gondwana esistono leggende e misteri favolosi, e potenze arcane ignote agli uomini che dormono dimenticate da millenni. La Strada Sommersa è la più prodigiosa di tutte, ed essa è governata dal sortilegio terribile di una grande Sacerdotessa detta la Khoiné, la quale è adorata come una Dèa vivente nella lontanissima e fiabesca capitale di quel regno». «Non sapevo che la Khoiné avesse qualcosa a che fare con questa Strada Sommersa», disse Goccia di Fiamma. «E tu, Babeeri?». La fanciulla aveva l'aria stupita. «Neppure io, a dire il vero». Lo Shang annuì con un sorrisetto ironico. «Si tratta di cose che voi barbari umani non potete neanche immaginare, e tuttavia esistono e sono ben
reali». «Non ne dubito», replicò Babeeri, seccata. «Guarda caso, l'avevo sentito raccontare anch'io. E posso perfino aggiungere che codesta Khoiné ha una stella sulla mano sinistra». Cobal la gratificò di un'occhiataccia. «Certo, o così almeno si dice. E di tale potere è fornita quella stella che tu grideresti di spavento e cadresti a terra esanime se ne vedessi appena i cenni. Pensa che essa governa le forze misteriose del cielo e della terra, e ti basti sapere che se appena la Khoiné alza la sua mano sinistra verso il Mare di Gondwana, le acque si aprono miracolosamente e la Strada Sommersa si leva dai fondali con un rombo di mille tuoni. Questo è il modo in cui le potenze celesti ubbidiscono alla Sacerdotessa del Gondwana e alla sua stella incantata». Babeeri sorrise maliziosamente a Goccia di Fiamma e come per caso alzò la mano sinistra, muovendola qua e là con ostentata indifferenza. «È una notizia che mi giunge nuova, e ti sono grata d'avermela data», disse. «Ora che mi rammento, ci fu un tempo in cui mi capitò di dover fare un viaggio in compagnia d'una certa persona, e questi mi disse di compiere un gesto. Ciò accadde proprio quando io mi domandavo come mai avremmo fatto per lasciare quel luogo e recarci in un altro». «Immagino che quella strada serva solo a chi voglia viaggiare dal Gondwana al Wadabra, e viceversa», osservò Goccia. «E se vogliamo esser pignoli si deve credere che l'atto di alzare la mano sinistra non sia sufficiente a provocare l'emersione della strada, da solo. Altrimenti tutte le volte che la Khoiné distrattamente compisse quel gesto, accadrebbe un avvenimento dalla portata ciclopica e sconvolgente». «Forse... forse c'entra anche l'altare di pietra che si trova in un tempietto all'inizio della strada», disse Babeeri, seguitando ad agitare la mano per aria. Cobal, che s'era versato un altro bicchiere di vino, la fissò dapprima perplesso e poi come seccato da quell'improvviso gesticolare. Stava per domandare di cosa parlassero, quando ad un tratto i suoi occhi assunsero una luce vitrea, opaca, ed egli sbatté le palpebre cinque o sei volte quasi che la bevanda gli fosse andata di traverso. «Cosa... Che cos'è quella?» gorgogliò. «Quella cosa? Non comprendo la tua domanda», disse la fanciulla. «Forse ti senti poco bene? Goccia, sembra proprio che il misero cibo di noi umani selvaggi poco giovi al delicato stomaco di un nobile Shang, abituato a chissà quali prelibatezze da degustarsi in compagnia di colti commensali.
Il suo volto ha assunto una tinta verde pallido». «Quella macchia che hai sul palmo... Non ha per caso la forma di una stella?» esclamò Cobal, ansiosamente. Babeeri si ficcò svelta le mani nelle tasche del vestito, con un'espressione che strappò un risolino a Goccia, e volse altezzosamente la testa da un'altra parte. «Certo la vista ti gioca strani scherzi, illustre Gavelord Solander. Come può una piccola steghe ignorante avere stelle sulle mani? O per un attimo hai bizzarramente creduto che proprio io fossi quella Khoiné da te nominata?». «No. Naturalmente no», borbottò Cobal, corrugando le sopracciglia. Si sporse tutto da un lato per cercare di vederle la mano sinistra sotto il bordo del tavolo, ma la fanciulla la teneva cocciutamente affondata nella tasca. «Eppure avrei giurato che... Ma dev'essere il vino. Non ho ancora fatto l'abitudine a questo genere di bevanda, e talvolta mi gioca degli strani scherzi alla mente». Goccia di Fiamma era andata ad appoggiarsi al davanzale della finestra e guardava fuori, nella piazza buia. Da lì a poco sentì accanto a sé la presenza di Babeeri e si volse a sorriderle, circondandole le spalle con un braccio. Lei le si strinse al fianco; i suoi occhi vagarono nell'oscurità esterna, qua e là punteggiata dai lucignoli di qualche lampada ad olio. Cranach era silenziosa, a quell'ora. L'Amazzone le fece girare la mano sinistra a palmo in su. «Ma cosa ci sarà mai di tanto notevole, in questa tua stellina!» la prese in giro affettuosamente. «Io non lo so bene». Babeeri si girò un momento a guardare Cobal Gavelord, che era rimasto seduto al tavolo e sembrava di pessimo umore. «So che il mio tutore mi raccomandò di non mostrarla mai agli Shang, perché essi ne conoscevano il significato. Non fu difficile tenerla nascosta: quando abitavo all'isola del Clan Faragoj portavo spesso i guanti. Facevo la sguattera nelle cucine». «Ti piacerebbe tornare nel Gondwana?» domandò l'Amazzone sottovoce. «Forse ora non c'è più pericolo per te». «No, ti prego». D'un tratto la fanciulla la abbracciò, con un tremito. «Tu non mi lascerai Goccia, vero? Io non saprei cosa fare, se tu mi abbandonassi. Voglio stare con te, sempre!». «È ora che io vi saluti», disse lo Shang, scostando la sedia. «Urgenti affari mi attendono altrove».
«In altre parole, andrai a rincantucciarti in qualche vicolo per fare mattina al riparo dal vento», ridacchiò Goccia. «Benissimo. Non voglio trattenerti oltre, Cobal. E grazie per le informazioni». L'individuo s'accostò alla finestra, riallacciandosi gli spessi bottoni della giubba. «Per tua conoscenza, o femmina», proclamò orgogliosamente, «sappi che Cobal Gavelord è ben lungi dall'infimo stato in cui tu sembri crederlo. Io posseggo infatti una residenza tale che finanche il Tiranno scambierebbe le sue stanze con le mie, se ne fosse così intelligente da apprezzarle». «Ah! E dove sarebbe il tuo palazzo marmoreo!» rise Goccia. «L'hai avuto davanti agli occhi tutto il giorno». Lo Shang fece scostare Babeeri dal davanzale e indicò verso un'estremità della piazza immersa nel buio. «Guarda laggiù, e vedrai il veicolo più prodigioso che abbia mai solcato le terre e i mari, quello che agli occhi del volgo inetto ha l'apparenza di un mitico e gigantesco animale». «Per l'aurea coda di Marduk!» esclamò l'Amazzone. «Vuoi dire che abiti nell'interno di quel drago di legno?». «E l'hai trainato fin qui dal Wadabra?» si stupì Babeeri. Cobal concesse loro un sorriso altero. «Comprendo la vostra meraviglia. Sono ormai abituato alle ingenue manifestazioni di sorpresa dei profani, allorché essi spalancano gli occhi dinanzi al prodotto di un intelletto civile. Ma quello che tu chiami un drago è in realtà un veicolo di superba concezione tecnica, costruito da me stesso allo scopo di viaggiare per ogni dove. Non vi è affatto bisogno di trainarlo rozzamente con bovi o cavalli, poiché è fornito di una mobilità autopropulsiva scientifica ed efficiente. Come vedi, non ti avevo mentito dichiarando d'essere un uomo d'ingegno. Il dragocarro è appunto l'inimitabile frutto della mia inventiva applicata». «Il Dragocarro!...». Goccia di Fiamma fissava lo Shang a bocca aperta. «Stai dicendo che quel... sì, quell'affare si muove da solo? Come un golem demoniaco animato da un incantesimo!». «Per mare e per terra, sorpassando con irrisoria facilità boschi, colline impervie, paludi e deserti», si vantò l'altro. «Naviga sulle onde come il pesce balena, e né tempeste né eserciti a cavallo possono ostacolarne l'invitto procedere. Volete visitarne l'interno?». Goccia di Fiamma accettò immediatamente l'invito, curiosa com'era di ogni novità fuor del comune, e mise a tacere le proteste di Babeeri che non si fidava dello Shang ed ancor meno del suo veicolo. Usciti dalla Locanda Pekorhasj i tre attraversarono la piazza, e l'Amazzone alzò la lampada a
becco d'anatra che s'era portata dietro per esaminare la mole del fantastico oggetto. Il dragocarro era alto una quindicina di braccia e lungo più di venticinque passi, cioè all'incirca quanto un vascello di piccole dimensioni. Cobal l'aveva verniciato interamente a scaglie verdi, montandovi quattro spesse zampe e una testa zannuta, ma per il resto sembrava simile ad un'imbarcazione dalle assi ben incatramate a cui fossero state aggiunte tre ruote massicce per ogni lato. Se era davvero in grado di navigare, rifletté Goccia, non usava né la vela né i remi. Il suo peso poi doveva esser tale che una dozzina di buoi avrebbero faticato per spostarlo sul terreno. «Salite a bordo», disse Cobal, indicando una scaletta verticale presso la zampa anteriore sinistra. «Io non toccherò questa macchina infernale!» dichiarò Babeeri, facendosi indietro. «Avevo già udito raccontare che sull'isola dei Solander qualcuno si dilettava con marchingegni animati da alchimie stregonesche. Tu hai certo compiuto un patto coi demoni, ponendo qualche magia oscura nel ventre di questo drago di legno». «Sciocchezze!» ridacchiò lo Shang, arrampicandosi. «Non è stato necessario scomodare folletti e negromanti per costruire il dragocarro. È solo un apparecchio di fattura complessa e geniale, non più magico di quanto lo sia un torchio per le olive». L'Amazzone placò la ritrosia dell'amica e la incoraggiò a salire dietro Cobal, poi la seguì agilmente. La parte superiore del veicolo era chiusa, a parte la piattaforma della timoneria, e lo Shang. scomparve nell'interno buio attraverso una botola. Quando le due ragazze furono scese, vennero a trovarsi in una piccola cabina arredata con un letto, un tavolo e un paio di stipetti. L'uomo aveva acceso una lampada ad olio. «Di là c'è il magazzino per il legname», disse, indicando verso poppa. «Sotto invece ci sono i meccanismi dell'apparato propulsore. Venite a vedere, ma attente agli scalini». Tutta la parte inferiore del dragocarro era occupata da un congegno di legno e bronzo che fece sbarrare gli occhi alle due ragazze. Attorno ad esso c'erano tubi di rame e d'ottone, e alberi orizzontali di legno duro collegati alle ruote esterne. Cobal assaporava soddisfatto lo stupore dipinto sui loro volti. «Quello sembra un forno a legna», osservò l'Amazzone. «Il suo nome tecnico è Atanor, o Casa del Fuoco. Sopra di esso vi è la Crisopea, o Casa dell'Acqua. Il funzionamento del dragocarro avviene
mediante l'uso scientificamente controllato dell'Etere Acqueo, ovverossia della potenza cinetica derivante dalla superbollitura dell'acqua ottenuta tramite impulsi calorifici». «Vale a dire che fai bollire l'acqua con l'astuto espediente di accendervi un fuoco sotto», riassunse Goccia. «E se ho capito bene, ciò produce un fenomeno scientifico che potremmo chiamare vapor d'acqua». «Esatto», approvò Cobal. «Per quanto l'eccessiva semplicità dei termini da te usati sia inadatta a descrivere un concetto filosofico invece assai complesso». «Vedo che la caldaia... cioè la Crisopea, è collegata con tubi al marchingegno retrostante. Il vapore bollente va a finire lì?». «L'Etere Acqueo, vorrai dire. Certo. Quelli che tu chiami tubi sono i Conduttori di Rubefazione, che lo convogliano verso i Vasi Proiettivi... i pistoni di bronzo, direste voi profani. Infatti, secondo la Formula dell'Assoluto Sostanziale descritta nella Poemica Alchimistica Nobile, l'Etere Acqueo genera una forza inversamente proporzionale al rapporto Rubefazione-Velocità, fungendo da catalisi motrice entro dieci cilindri di bronzo, da cui la risultante di potenza viene trasmessa alle ruote». «Stregoneria, e del genere più nefasto e pernicioso!» si lamentò Babeeri. «Andiamo via, Goccia!». L'Amazzone si guardava attorno con estremo interesse. «Insomma, sfrutta la forza del vapore, quella stessa che fa ballare il coperchio della pentola. Ingegnoso, Immagino che i cilindri là dentro vadano su e giù sotto la spinta del vapore, facendo così girare gli assali delle ruote. Ma per navigare come fai, Cobal?». «Stacco gli ingranaggi delle ruote, collegandone altri. Osserva l'Albero Solare, quell'assale spesso che esce dritto dalla poppa: al di fuori c'è l'Argiropea Rotante, che può girare in modo vorticoso producendo un effetto di spostamento autoindotto. Se avessi un po' di legna, sarei lieto di mettere in funzione il dragocarro e di portarvi a fare un giro, nelle campagne o in mare». Mentre la giovane ex schiava affermava che mai e poi mai avrebbe consentito a viaggiare su quell'ordigno, Goccia di Fiamma esaminò con attenzione il singolare apparato e notò che era ben tenuto, per quanto sporco d'olio di pesce soprattutto. Cobal le spiegò che si trattava di lubrificante, riempiendole le orecchie di discorsi circa i lunghi studi e le meditazioni che gli era costato il progetto di questo o di quel particolare. «Sfortunatamente», terminò, «nel momento attuale sono costretto a so-
stare nella Terra di Junghad. Qui la legna è scarsa, usata solo dai fabbricanti di mobili, e costoro pretendono cifre esagerate per tagliarne un poco. Oltre a ciò, per abbattere alberi occorre avere un permesso e pagare una tassa». «Quanta te ne servirebbe per un lungo viaggio?» volle sapere l'Amazzone. «Intendo un percorso per mare, di almeno mille leghe». «Dovrei averne il magazzino pieno, o donna. Senza parlare dei viveri e delle altre spesucce, direi che per intraprendere una navigazione di questo genere occorrerebbe un capitale di almeno duecento piastre». «Io ne ho duecentosessanta. Una volta pagato il locandiere, ne resterebbero abbastanza per comprare del cibo non deteriorabile e qualche indumento», calcolò Goccia. «Che ne pensi, Babeeri? Te la senti di fare un bel giro per mare su questo barcone? A me sembra un modo fantastico di viaggiare». L'espressione della fanciulla rivelava chiaramente con quale stato d'animo aveva accolto l'improvvisa decisione dell'Amazzone, e non seppe far altro che fissarla a bocca aperta, sbigottita. Goccia di Fiamma le scarruffò i capelli sorridendo, per farle coraggio, e vide che Cobal Gavelord non sembrava contrario ad accettare seduta stante quella proposta. «Io la trovo un'ottima idea», dichiarò infatti l'uomo. «L'unico commercio di legname della città è gestito da un abbietto individuo sordidamente attaccato al denaro, ma se tu acconsenti a placare la sua ingordigia sarò ben lieto d'abbandonare questa terra. Domani stesso provvederemo ai rifornimenti, e poi partiremo diretti verso oriente. Ho sempre desiderato visitare la costa di Afra». «Niente affatto, mio caro Cobal!» esclamò allegramente l'Amazzone, afferrando Babeeri per le spalle ed abbracciandola per consolarla. «Sarà verso meridione che noi dirigeremo il tuo dragocarro anfibio, dritti nell'immenso e azzurro Mare di Gondwana. Con questo veicolo non ci sarà da temere nulla laggiù, né le secche né gli scogli. Passeremo come fulmini di guerra attraverso la Collana degli Atolli, e raggiungeremo quella nave sumerica dovunque essa sia andata!». LA COLLANA DEGLI ATOLLI Il ventesimo giorno di navigazione, col sole alto nel cielo il Principe Valdek uscì dalla sua lussuosa cabina e salì sul castello di poppa strizzando gli occhi nella luce abbagliante. Era insonnolito, avendo dormito appe-
na mezza clessidra dopo il pasto di mezzodì; ma a fargli abbandonare l'alcova erano stati i lamenti queruli di Angelore, la bionda cortigiana sumerica che s'era portato dietro, la quale aveva protestato per l'insolito baccano che proveniva dal ponte dei rematori. Lo sguardo dell'uomo corse d'istinto oltre la prua: all'orizzonte stazionavano banchi di foschia, tuttavia fra essi erano ben visibili i puntini scuri degli atolli, distesi da oriente a occidente in un'apparente linea retta. Gli parvero poco più vicini di quella mattina, quando la vedetta li aveva segnalati. La nave correva veloce sul mare liscio come una tavola, e dal sottoponte giungeva l'incessante battito del tamburo di voga. Ai lati, i sessanta remi andavano avanti e indietro con frenetica rapidità, facendo schizzare alta l'acqua. Le infrastrutture del vascello scricchiolavano sotto lo sforzo violento. «Che accidenti sta succedendo?» ringhiò il sumerico, rivolto a Cuhman. Il Comandante aveva la faccia scura. «La Cagna sta facendo battere il ritmo di battaglia, Principe. Ha preso una frusta e la usa come una pazza, là sotto». «Il ritmo di battaglia?» esclamò Valdek. «Che Ishtar possa accecarla! Vuole forse farmi schiattare i rematori? E tu perché non l'hai fermata, idiota!». Cuhman non poté rispondergli, perché l'altro era sceso in fretta in un boccaporto. Lo seguì, raggiungendolo nel locale dove la luce entrava a fiotti dalle aperture laterali. I sessanta robusti schiavi stavano dando fondo alle loro energie e grondavano di sudore, mentre l'addetto al tamburo di voga batteva un colpo assordante ad intervalli pari a tre battiti di cuore. In piedi sul passaggio centrale, Laune stava manovrando una frusta lunga sei braccia con satanica ferocia. La ragazza era lucida di sudore, abbronzata, e indossava un corto vestito di pelle che le lasciava nude le braccia robuste. Alla cintura portava un pugnale di bronzo, e s'era fermata i capelli nerissimi con una fascia di pelle attorno alla fronte. Sebbene per lo più si limitasse a far schioccare a vuoto il micidiale nerbo, ogni tanto questo s'abbatteva sulla schiena curva di qualche rematore, lasciandovi una striscia di sangue gocciolante. Valdek le si avvicinò a lunghi passi. «Che ti prende, ti stai divertendo?» la investì. «Da quando in qua si batte il ritmo di battaglia senza un maledetto motivo? Anche i poppanti sanno che gli uomini non lo possono reggere per più di una clessidra senza crepare sul remo!». Laune lo guardò rabbiosamente, con occhi che sprizzavano lampi di luce nera; poi si volse e lasciò andare un colpo di frusta su una schiena a caso,
strappando un grido di dolore al disgraziato vogatore. «Bada a come ti rivolgi a me, Valdek!» sbottò. «Io sono una comandante di nave, capito? So benissimo fin dove posso spingere i rematori, e non è per mio gusto che li faccio sudare!». «Io dico invece che ci provi soddisfazione», intervenne Cuhman, ostile. «E uno che ammazza i rematori stupidamente non è un buon capociurma. O forse nel Warnalore gli schiavi te li vendevano gratis?». «Non venire a insegnarmi il mestiere, tu!» ribatté la bruna con feroce tono di sfida. «Startene a cuccia di sopra. Eravamo intesi che al momento buono avrei diretto io il comportamento della nave, e adesso quel momento è venuto. La Collana degli Atolli è dritta davanti alla prora, e io voglio la velocità massima. Se ordino il ritmo di battaglia, dev'essere il ritmo di battaglia. Chiaro?». Valdek spinse indietro Cuhman, che stava per darle una rispostaccia, e la fissò con durezza. «Questi rematori dovranno riportarci indietro, non dimenticarlo. Se ne muore qualcuno, non abbiamo con chi rimpiazzarlo». «Oh, non temere. Sputeranno sangue, ma non al punto di rendere l'anima. E so io come mettergli la voglia in corpo, a questi bastardi», brontolò la ragazza, calmandosi. «Ma il vento non tiene, e dobbiamo evitare a tutti i costi di arrivare alle secche con l'oscurità. Quando la vela non basta, caro Valdek, bisogna andare col remo. Se no, a cosa serve avere sessanta figli di puttana incatenati agli scalmi?». «Voglio solo esser sicuro che sai quello che fai». Il sumerico si sentì sbollire la collera, colpito suo malgrado dalla sicurezza di quella femmina singolare. Essendo egli stesso un carattere ferino e crudele, sapeva apprezzare chi mostrava le stesse doti. Per un attimo si domandò di che razza dovessero essere gli amanti che la piratessa si portava a letto. Fisicamente non era il suo tipo preferito, essendo troppo alta e robusta, ma nelle vene doveva scorrerle fuoco liquido invece che sangue. «Non aver paura», lo rassicurò lei. «Ho fatto questa stessa rotta per ben sette volte quest'anno. E una cosa ho imparato: per passare in quel canale si deve giostrare con tre diversi elementi, e cioè l'oscurità, il tempo calcolato per l'avvicinamento, e la corrente di marea che è molto forte. Se arriviamo là al momento sbagliato ci giochiamo la vita, perciò voglio essere a tre leghe di distanza dalla fortezza prima che scenda il buio. Oggi è luna piena, e la marea si alza al tramonto. Una clessidra più tardi porterò la nave nel canale». «Non c'è poi tanta fretta. Nulla ci impedisce di tentare l'impresa domani
sera». «No. Gli uomini della fortezza mandano fuori delle barche di pescatori ogni mattina, e potrebbero avvistarci. Passeremo stanotte. Tu tieni pronti gli uomini per tirar giù il pennone, e vedrai che andremo avanti lisci e silenziosi come ombre nel buio». Valdek annuì, e la ragazza si allontanò sul tavolato agitando la frusta. «Dagli dentro, animale schifoso!» gridò, rivolta ad un africano nero come il carbone che vogava sulla sinistra, in seconda fila. E per sottolineare l'ordine gli lasciò andare una nerbata sulle spalle. Poi urlò all'addetto al tamburo di tenere il ritmo. Il volto del sumerico si contrasse spiacevolmente, nell'osservare la brutalità con cui la piratessa badava alla ciurma di schiavi. Il tamburo batteva con assordante monotonia e gli uomini ansimavano come mantici. La seguì, e la vide fermarsi accanto al remo a cui era affrancato Yaan Margraf Lakhmar. Laune gli indirizzò un'occhiata d'ironica approvazione, vedendo che s'impegnava al massimo delle sue possibilità. «Continua così, uomo», lo apostrofò. «Mi dispiacerebbe doverti sciupare quella bella schiena gagliarda, sai?». Fra un ansito e un mugolio di fatica l'altro la guardò appena, di traverso. «Ti credevo diversa», sbuffò. «Che cosa non va, bel signorino? Ti lamenti d'esser vivo? Eppure lo devi a me se il Principe non ti ha fatto saltare dalla murata sulla punta di una spada. O forse preferivi fare una nuotata fra gli squali?». «Non mi lamento», ansò il giovanotto. «Però adesso capisco perché ti chiamano la Cagna!». Laune rise forte e passò oltre, dirigendosi a poppa. Poi gridò a voce altissima: «Tamburo! Batti il ritmo di traversata e facciamo respirare un po' questa feccia. E voi non ringraziatemi, canaglie, che fra una clessidra si ricomincia». «Sgualdrina d'inferno», la insultò una voce non identificabile, proveniente da qualche punto presso la prora. Laune si girò a cercare con gli occhi chi aveva parlato, rigida per l'ira. «Benone. Quand'è così, vi giuro che al tramonto non vi resterà neanche il fiato per maledire le madri che vi hanno messo al mondo. Tu, cambusiere, portami un boccale di quel fondo di cantina che passi per vino. Fa un caldo impestato, e questi cani puzzano!». Valdek le girò le spalle e si allontanò, salendo con Cuhman sul ponte di poppa. La nave era stata dipinta alla meglio di nero, e così anche la vela,
fatto questo che aveva provocato il malumore dell'equipaggio e dei militari. Il Principe lasciò Cuhman ad occuparsi della rotta e fece ritorno nella sua cabina, dove Angelore lo attendeva seminuda nell'alcova bevendo vino profumato. Anche la formosa e capricciosa cortigiana, estremamente superstiziosa, aveva accolto male la decisione di riverniciare il vascello di quel colore. Detestava enormemente la piratessa, e davanti a lei rizzava il pelo come una gatta selvatica. Il quel momento, nel sottoponte, Laune stava ordinando al capovoga di togliere i ferri a Yaan. Quando il giovanotto le venne portato davanti gli offrì il vino rimastole nel boccale. «Bevi, ragazzo. Da ora non faticherai più», lo informò. «Sardal, metti al remo lo schiavo che c'era prima e bada che la ciurma non batta la fiacca. Io e Lakhmar andiamo a respirare un po' d'aria». Immusonito Yaan seguì la bruna su per la scaletta, e quando fu sul ponte si guardò attorno. A poppa c'era Cuhman, che li gratificò di un'occhiata perplessa e scrutatrice, ma la piratessa lo ignorò del tutto e accennò al giovane di starle dietro. Giunta sulla prua si fermò a fissare il mare con occhi cupi e intensi. «Dunque quella è la tua terra», disse. «Un continente isolato dal mondo, del quale non si sa nulla se non favole e leggende. Eppure tu non sembri affatto diverso da noi del settentrione. Fra il tuo accento e quello dei Sumerici non c'è quasi nessuna differenza, e anche questo è strano. È vero che possedete armi tremende?». «Tu ne hai vista una», borbottò l'altro. «Ma sbagli se pensi che siano le armi a tenere lontani gli stranieri. Anzi è il contrario. Guarda Valdek: credi forse che sarebbe venuto fin qui, se non fosse per il miraggio della polvere nera?». Con sua sorpresa Laune rise, annuendo. «Hai ragione. È un segreto che per il Principe significa potere. Ma è come tentar d'entrare nella bocca del drago per vedere come fa il suo stomaco a produrre la fiamma. Valdek ha del fegato, tu stesso devi ammetterlo». Yaan non le rispose subito. Da quando l'aveva vista per la prima volta, nella prigione di Laibek, aveva provato nei suoi confronti una ridda di sentimenti sempre diversi e contrastanti. Era passato dalla simpatia all'odio, dal rispetto a un'incomprensione venata di rancore sordo. In quei venti giorni di spossante fatica al remo c'erano stati dei momenti in cui aveva pregato gli Dèi di poterla uccidere, mentre subito dopo una battuta pungente di lei imprevedibilmente gliela faceva quasi amare. Era una femmina
dura come il ferro e ringhiosa, colpevole di violenze atroci, eppure a tratti capace di occhiate calde come il vento d'estate. Il giovanotto aveva concluso di non aver mai conosciuto una persona di quel genere, e di non riuscire a giudicarla in alcun modo. Laune era qualcosa di assolutamente nuovo per lui. «Perché continui a dire a Valdek che io vi servo vivo?» domandò. Lo sguardo di lei rimase beffardo e indagatore. «Lo sai, Yaan». E poi aggiunse: «È guarito il tuo braccio? Mi auguro di sì. Purtroppo il Principe ha insistito che fossi io a manovrare quel ferro rovente, ma devi ammettere che aveva diritto a provarci: sapere il segreto di quella polvere nera dalle tue labbra gli avrebbe risparmiato questo viaggio». Il giovane alzò il braccio sinistro, mostrandole una trentina di cicatrici larghe come un'unghia disposte in fila perfetta lungo la sua parte interna. Le croste delle ustioni s'erano già staccate, lasciando macchioline di pelle rosea. «Una per ogni parola che mi hai strappato di bocca», le disse. «Quando ti tolsi dalle fognature di Laibek non immaginavo che mi avresti scritto addosso questa lettera d'amore. Ma non illuderti: il segreto dello sparafiamma non uscirà mai dal Gondwana». «Sparafiamma, è così che chiamate quell'arma? Comunque, a Valdek basterà un po' di fortuna. Appena sbarcato si metterà in cerca di un Mastro Armaiolo, per torchiarlo e fargli rivelare come si fabbrica quella polvere. Questo sempre che... la Casta dei Mastri Armaioli esista, davvero, cosa di cui dubito. Ma non ha molta importanza». «Mentre mi torturavi avevi l'aria di divertirti», borbottò Yaan, riabbassando il braccio. «Valdek non mi ha creduto?». «Credo di sì. Ma secondo me la tecnica per produrre quella sostanza è troppo importante perché la si possa tenere segreta e circoscritta ad un gruppo di eletti. Dunque la tua Casta dei Mastri Armaioli è una pura invenzione. Hai mentito sfacciatamente... Ma con stile». «E tu che ci guadagni a non esporre i tuoi dubbi al Principe?». «Fra me e Valdek c'è un accordo: la mia vita in cambio di un certo servizio. Se dovesse accorgersi che non gli servo più, forse gli tornerebbero in mente le navi sumeriche che ho colato a picco e mi riporterebbe a casa appesa a un pennone. E adesso veniamo a noi. Forse ti torturerà un po', prima di sbarcare, se non altro per farsi dire dove si trovano i paesetti muniti di scarse difese. Tu glielo rivelerai». «Sei pazza. Io non dirò proprio niente».
Gli occhi di Laune si fecero tempestosi. «Gli indicherai una direzione da prendere, non importa quale. Valdek andrà in cerca di questi Armaioli da te inventati, e ti risparmierà la vita finché non sarà giunto a destinazione, mi capisci? Ma prima di quel momento, tu ed io ce ne andremo per conto nostro». Solo in quell'istante Yaan si rese conto che Laune aveva seri motivi per temere per la propria vita, non meno di lui. Stava per sussurrarle una domanda, quando lei lo fermò con un calcetto irritato. «Taci! Cuhman ci sta guardando, e abbiamo parlato anche troppo. Nei prossimi giorni non avremo occasione di stare da soli, perciò cerca d'essere astuto e di restare vivo finché puoi. Alla prima occasione ti aiuterò a fuggire, te lo giuro. Ora vattene e torna di sotto. Fai la faccia arrabbiata, come se mi odiassi a morte». La piratessa aveva appena terminato di parlare, quando scattò con la ferocia d'una pantera: Yaan barcollò all'indietro, colpito in pieno viso da un pugno violento. «Maledetto sciacallo!». Laune estrasse il pugnale. «Come osi parlarmi così? Io valgo cento volte più di un burattino come te!». Il giovanotto si chinò appena un istante prima d'essere sfregiato da una coltellata, e bestemmiò sbigottito. Poi corse giù dalla scaletta e s'infilò nel boccaporto. Alzando gli occhi fece giusto in tempo a vedere il pugnale scagliato dalla ragazza che volava verso di lui. Si lasciò andare nel ponte di voga e rotolò sul tavolato, mentre l'arma si conficcava nel legno dove aveva la testa proprio un momento prima. «Smidollato! A questo modo mi sei riconoscente per averti levato dal remo?» la udì berciare, più sopra. «E voialtri che avete da guardare, farabutti!». I militi Sumerici che oziavano in coperta stavano ghignando, convinti d'aver capito il motivo della sua ira. Cuhman s'era sporto dal casseretto di poppa e la interpellò con aria disgustata: «Al Principe non andrà giù, se lo ammazzi proprio ora. Cosa ti ha fatto di tanto offensivo? Se hai solo voglia di sollazzarti un po', magari fra i miei uomini un imbecille disposto a levarti la voglia lo trovi». Laune lo guardò di sbieco, andando a recuperare il pugnale. «Grattati la rogna tua, Cuhman», ringhiò. La ragazza si mosse lentamente verso prua. Sotto ai suoi piedi il calore rendeva appiccicosa la vernice nera del ponte. Nel passare davanti a una decina di Teste Nere che avevano assistito alla scena colse le loro occhiate
pigre e sfottenti, e si fermò. «Avanti, coraggiosi soldati del Triarca: il vostro Comandante ha chiesto un volontario disposto a esser gentile con una signora. Nessuno è in vena? Tu, riccioli biondi, sei del nord?». «Sì, sono di Ectabana», rispose il sumerico interpellato. Laune trovò un sorriso quasi cordiale. «Mi hanno detto che è una città splendida, ma nessuno me l'ha mai descritta. Mettiamoci un poco a sedere laggiù, ragazzo. È vero che ha ben tre cinte di mura?». Il soldato la seguì volentieri, facendo tacere i commenti pesanti di un paio di commilitoni. Laune chiacchierò con lui per circa una clessidra, poi tornò nel sottoponte e si mise lei stessa al tamburo di voga. La nave filò sulle onde per tutto il pomeriggio, verso le scogliere e le isole coralline circondate dai bassifondi. Al tramonto, quando il Principe Valdek tornò in coperta, la trovò che discuteva con Cuhman accanto al timone. S'era alzato il vento, e la piccola vela quadra spingeva ora il vascello verso est, in una rotta parallela alla Collana degli Atolli. «Non siamo troppo vicini agli scogli? Vedo frangenti sulla dritta», brontolò, studiando il mare. Fu Cuhman a rispondergli. «Dovevamo accertarci dell'altezza della marea, osservando le erbe marine rimaste allo scoperto sulla scogliera. Ma la nostra esperta dice che qualcosa non va». «E cosa?». Armato di tutto punto e sbarbato di fresco, il Principe aveva una faccia simile a una maschera di bronzo. «Quanto è lontana la fortezza?». «Questa zona è irriconoscibile», disse lei, accigliata. «Guarda le due isole dai bordi a picco, laggiù: il passaggio si trova fra esse, e il forte è sulla cima di quella a destra. Ma l'ultima volta che sono stata qui le loro vette erano molto più alte. Adesso si sono abbassate di almeno trecento braccia». «Abbassate? Ma che mi racconti, si può sapere?». Laune gli indicò di guardare verso sud. «Stavo facendo notare a Cuhman che in distanza, sembra sulla costa del Gondwana, ci sono dei fuochi strani. Credo che siano due vulcani in piena eruzione. E in questa zona tutta la Collana degli Atolli è stata sommersa dal mare. Prima c'erano leghe e leghe di banchi di sabbia affioranti, e ora sono scomparsi». Il sumerico non disse verbo. Con le mani piazzate sui fianchi esaminò le masse scure degli atolli, stagliate contro l'orizzonte violaceo e azzurro
cupo. Cuhman gli si fece accanto. «Vulcani e sconvolgimenti tellurici! In queste condizioni, il canale dove scorre il fiume di marea sarà sparito. Non lo troveremo più». «Taci», ordinò il Principe. «Voglio sentire cosa ne pensa Laune». La ragazza bruna era indifferente. «Secondo me, non ci sono difficoltà. Anzi, il fatto che i fondali si siano abbassati ci favorisce. Tuttavia fra gli atolli si saranno aperti molti altri passaggi, e questo significa che la marea non scorrerà all'interno della Collana con la solita violenza. Saremo costretti ad usare la vela e sfrutteremo questa brezza settentrionale. Io starò al timone». «Un accidente!» protestò Cuhman. «Se si sono aperti altri varchi tenteremo domani, alla luce del giorno. Affrontare questa zona così infida in piena notte è un suicidio». Valdek si volse verso il ponte e vide che le sessanta Teste Nere osservavano le isole in un silenzio carico d'apprensione. Il tamburo di voga taceva, e i remi erano stati ritirati entro lo scafo. La vela quadrata, appena tesa dal vento, sembrava un nero drappo funebre gonfio di cattivi presagi. «Andiamo avanti!» ordinò con decisione. Laune afferrò la ruota del timone e si piazzò dietro di essa a gambe larghe, rivolgendo un sogghigno a Cuhman. «Bada che tutta la ciurma stia pronta alla manovra, Comandante», gli disse. «E informa questa feccia che voglio il silenzio assoluto. Fra due clessidre passeremo sotto alla fortezza». Il cielo si fece sempre più scuro, mentre la nave costeggiava lentamente i lunghi tratti di scogli affioranti. Lontano c'erano delle isolette, e fra esse sembravano aprirsi vasti spazi di mare libero; ma sebbene a Laune apparisse chiaro che la barriera corallina s'era abbassata di molto, essa restava sempre piena d'imprevisti. Al di là delle poche scogliere che riusciva a vedere, il mare aveva inghiottito le isole e i banchi di sabbia. La ragazza si chiese cosa ne fosse stato di Hatoll. Se la risposta era quella che cominciava a farsi strada nella sua mente, la grotta contenente otto casse d'oro insanguinato si trovava ora a più di duecento braccia sott'acqua. Il pensiero era così spiacevole che quel misterioso sconvolgimento le appariva una sorta di punizione celeste diretta contro di lei personalmente. Quando l'oscurità fu assoluta, poté osservare in lontananza le fiamme rosse e gialle eruttate dai due vulcani, e sul fianco di uno di essi un'imponente colata lavica.
La ragazza governò la nave con prudenza fino all'imbocco del canale, e qui fece notare a Valdek che il tratto iniziale s'allargava enormemente. Le masse di due isole s'alzavano davanti alla prua, e nella debole luce lunare Laune ne calcolò la distanza a circa una lega. Sulla cima di quella di destra era evidente la linea dritta di un bastione. Più sotto, il passaggio fra le due masse di roccia si restringeva fin quasi a scomparire, dando l'impressione che esse si unissero. «Il fondale è un'incognita», sussurrò, rivolta al sumerico. «Ora stiamo navigando dove fino a poco tempo fa spuntavano degli scogli enormi. Dobbiamo averli giusto sotto la chiglia. Più avanti il canale fa alcune curve fra pareti a picco, e quel posto non dev'essere cambiato troppo». Dopo un poco la piratessa disse a Cuhman di tener pronti i rematori. Quando Valdek volle saperne il motivo, ella spiegò che in caso d'attacco da parte degli uomini del Gondwana sarebbe stato più semplice proseguire sulla stessa rotta che tentare un'inversione in spazi ristretti, e ovviamente sarebbe occorsa la massima velocità. «Non hai mai visto in azione le grandi canne che gettano fiamma?». «No, per grazia degli Dèi, e spero di non vederle mai. Non ho idea da quale distanza Ci potrebbero colpire, né se siano precise, ma si dice che affondino le navi anche da molto lontano». «Darei non so cosa per averne una», mormorò Valdek, stringendo i pugni. «Se solo si potesse attaccare questo forte di sorpresa...». Laune non rispose. Il canale si stringeva, e la tenebra si fece fittissima fra le alte pareti a picco delle due isole. Sul ponte i militi tacevano. Ad un tratto la chiglia stridette contro uno scoglio sommerso e la ragazza imprecò. Ci fu una serie di urti leggeri sulla sinistra del vascello, che tuttavia proseguì senza diminuire la velocità. Mentre Cuhman correva nella stiva a controllare i danni Laune diede un giro di barra verso babordo. «La corrente si fa forte», borbottò. «E non si vede un accidente. Fai ammainare la vela, Valdek». La ragazza riportò il vascello al centro del canale, rendendosi conto che esso curvava a destra. Dopo pochi momenti le parve d'essere in una strettoia, e negli scarsi riflessi delle acque appena mosse vide che la prua non alzava neppure un'onda: si stavano muovendo alla stessa velocità della marea che penetrava all'interno della Collana degli Atolli. Guardando in alto, scorse solo i profili di rocce nere come il carbone stagliarsi sulla debole luminosità d'una striscia di cielo stellato. Valdek era tornato al suo fianco, e alla piratessa parve che stesse per
ringhiarle qualche commento irritato. Ma proprio allora davanti alla prua vi fu uno sciacquio che s'udì nitido nel silenzio, e dall'acqua emerse una lunghissima fune orizzontale contro la quale il vascello impattò. La velocità scese bruscamente, le strutture di assi scricchiolarono, e gli uomini persero l'equilibrio mandando esclamazioni di sorpresa. «Un cavo!» gridò Cuhman, aggrappato alla murata. «E canale è sbarrato da un canapo teso fra le sponde!». «In acqua i remi!» ordinò Laune. «Svelti, figli di cani, torniamo indietro subito. Valdek, fai muovere la ciurma!». Il sumerico si volse per scendere, e in quel momento vide un secondo grosso cavo emergere gocciolando acqua giusto dietro la poppa. Dalla bocca gli uscì una bestemmia oscena, e ringhiò come un lupo nel vedere che su entrambe le rive rocciose del canale si stavano accendendo torce e falò. «È una sporca trappola, e ci siamo caduti come idioti!». La voce di Cuhman non si udì quasi, nel coro di grida spaventate che s'erano alzate dal ponte di coperta. Pochi istanti dopo fu drammaticamente chiaro che la nave era stata attesa al varco da un gran numero di uomini armati, i quali avevano predisposto il tranello con micidiale efficacia. Il pesante vascello si girò di traverso, spinto dalla corrente contro il cavo anteriore, e non fu possibile tentare di tagliarlo. Le rocce pullulavano di soldati dalle uniformi bianche, con elmetti piumati, e nella luce dei fuochi si vide che imbracciavano lunghi tubi d'ottone. Gli sparafiamma puntati sulla nave dovevano essere oltre duecento. Sulla destra del canale, appostato con altri Ufficiali sopra uno spiazzo granitico, un individuo dall'aspetto di un Comandante si portò le mani ai lati della bocca. «Arrendetevi, stranieri!» urlò con voce brutale. «Nel nome di Sua Maestà Re Sevano Brelthur, gettate subito le armi o sarete sterminati. Gettate a terra una corda. Muovetevi!». L'uomo aveva parlato in lingua perfettamente comprensibile, con accento appena un poco diverso dal sumerico in uso nella Terra dei Due Fiumi, e per tutta risposta Valdek sguainò la spada con un gesto di sfida belluina. Ma Laune gli fermò il braccio, accennandogli di guardare più in alto. I falò gettavano una luce rossigna fra le rocce scoscese, facendo risaltare la ripida parete di una fortezza dalle mura inespugnabili situata ad una cinquantina di braccia d'altezza. Dai merli che le sovrastavano sporgevano
tre massicce canne di metallo brunito, grosse come tronchi d'albero e minacciosamente puntate sulla nave sumerica. LA STELLA NERA Goccia di Fiamma scaraventò la legna nel forno e richiuse lo sportello con una pedata, imprecando. Nel capace ventre del dragocarro faceva un caldo soffocante, che unito all'infernale frastuono del macchinario rendeva il posto simile ad una caverna da incubo. La sola luce era data da due piccoli oblò laterali, dai quali l'aria di mare entrava a stento, e l'Amazzone grondava di sudore. Era mattina, e lo sconcertante mezzo di trasporto anfibio stava navigando a buona velocità nelle acque del Mare di Gondwana da una ventina di giorni. Cobal Gavelord si trovava sullo stretto ponte di coperta, intento alla manovra del timone, e difficilmente sarebbe comparso dabbasso se non per elargire alla ragazza ordini e raccomandazioni in tono dotto. Dopo la partenza lo Shang aveva informato l'Amazzone, con una sfacciataggine sbalorditiva, che disponendo di lei come fuochista sarebbe stato assurdo per uno studioso del suo rango sporcarsi egli stesso le mani. In quanto a Babeeri, non c'era stato verso di convincerla che nel poderoso marchingegno non s'acquattavano i dèmoni dell'Oltremondo: la fanciulla s'era rifiutata fermamente di metter piede nella sala macchine, e trascorreva il tempo osservando l'orizzonte con occhi tristi e preoccupati. Goccia di Fiamma non le dava tutti i torti. La velocità di propulsione dell'Argiropea Rotante, ovverosia dell'elica, non finiva di meravigliarla; ma Cobal l'aveva spesso avvisata che la caldaia poteva scoppiare per eccesso di pressione, e ciò la teneva costantemente sulle spine. Navigare a vela, pensò per la centesima volta, era assai più tranquillo e meno faticoso. La manutenzione di quel rumoroso congegno era un lavoro che aveva imparato a detestare. Dalla parte di poppa salì di tono uno stridio insistente, e voltandosi vide che l'Albero Solare stava fumando. «Di nuovo?» si lamentò, alzando gli occhi al cielo. Andò a prendere un'anforetta d'olio e versò il liquido intorno agli anelli dentro i quali l'albero dell'elica girava rapidissimo. Il rumore cessò d'infastidirla. Scavalcando i pali orizzontali collegati alle ruote, in quel momento fermi, tornò al cassone bronzeo contenente i pistoni e fece gocciolare altro olio negli appositi fori. Poi sedette su un panchetto e si versò un boccale di
birra, in attesa che il macchinario manifestasse il prossimo allarmante sintomo d'inefficienza. Dalia poco la botola sul soffitto si spalancò, e lo Shang si calò dabbasso lungo la scala a pioli. «Siamo in vista della terra, o Amazzone!» annunciò. «Come avevo esattamente calcolato sei giorni fa, l'errore di rotta ci ha portati sulla costa occidentale del Gondwana. Adesso davanti a noi c'è la Collana degli Atolli». «Alla buon'ora!» si eccitò Goccia. «Credi che questo ordigno ce la farà a oltrepassare i bassifondi?». «La tua sciocca mancanza di fiducia è irritante. Non solo hai l'insperato privilegio di viaggiare a bordo del più notevole...». «D'accordo, d'accordo!» lo interruppe lei. «Senza contare il sublime piacere della tua compagnia. Ma abbiamo finito l'acqua potabile, e sono stanca di mangiar gallette. Quanto distano le isole?». «Forse otto leghe. Ma che... cosa diavolo hai fatto là?». L'uomo corse alla caldaia e con gesti rabbiosi tolse lo straccio che lei aveva strettamente arrotolato intorno a un tubetto verticale. Quando lo gettò via, la naturale tinta verdolina del suo volto era stata sostituita da un colorito paonazzo. «Femmina senza cervello!» strillò. «Ti ho spiegato dieci volte cos'è la valvola di sicurezza e tu, invece di sorvegliarla con scrupolo, osi addirittura otturarla!». «Non sopportavo il vapore che ne usciva continuamente», brontolò lei, seccata. Si pulì le mani in un cencio e s'avviò alla scaletta a passi svelti. «Bada tu alla macchina, Cobal. Io vado a respirare un po' d'aria». Mentre lo Shang estendeva le sue imprecazioni all'intero genere femminile, chiamando in causa gli Dèi colpevoli della sua esistenza, Goccia di Fiamma raggiunse il ponte di coperta. Era una giornata molto luminosa, e il mare s'estendeva piatto a perdita d'occhio. Sebbene l'orizzonte fosse in parte celato dal denso fumo bianco che usciva dalla bocca del drago, posta a prua e avente la funzione di fumaiolo, notò che ad oriente era visibile una lunga fila di isolette. Più oltre doveva esserci la costa occidentale del Gondwana, velata di foschia rosata. L'Amazzone sedette sulla panca dietro la ruota del timone e si mise alla guida del natante, che nel tagliare le onde sembrava un veloce e orrendo mostro marino. Poi strizzò l'occhio a Babeeri, che s'era distolta dalle sue riflessioni per venirle accanto. «Eccoci alla tua fiabesca terra natia, tesoro», disse allegramente. «Isola
incantata, regno di misteri perduti e di leggende... E di taverne dove i pellegrini possono rinfrancarsi con un vino degno di questo nome, mi auguro. Qual è il nome esatto dei tuoi compatrioti, cara? Gondwanesi?». «Gondwanaer. Ma fra loro si definiscono coi nomi regionali». «Bene. Converrà loro mostrarsi ospitali, per la Dèa! Noi Amazzoni sappiamo diventare molto antipatiche, se c'impediscono di procurarci cibo fresco e bevande ben fermentate. A questa velocità raggiungeremo le isole verso il mezzodì. Sei contenta?». «Ho paura, Goccia», le confessò invece la fanciulla. «Avrei preferito non doverci tornare mai più». L'Amazzone le diede un buffetto. La loro partenza da Cranachi era stata molto frettolosa, dato che il Tiranno aveva proibito a Cobal di uscire dalla città finché una certa tassa o multa non fosse stata pagata. S'erano quindi visti costretti a mettere in movimento il veicolo prima dell'alba, e nessuna guardia era comparsa ad ostacolarli mentre raggiungevano il mare. La soddisfazione di Goccia non aveva però trovato eco in Babeeri, che si faceva ogni giorno meno desiderosa di rivedere la sua patria. «Non dire così, bambina», cercò di consolarla l'Amazzone. Le fece ruotare la mano sinistra a palmo in su. «Bianca piccola stella, stellina dell'altare, perché Babeeri d'oro non vuol farti brillare?». La sua rima riuscì a strappare un sorriso alla fanciulla. «Se solo mi accadesse di salire sull'Altare della Stella, l'alta piramide che domina tutta Lahaina, diventerebbe dorata e luminosa. Ricordo quella di mia madre... Vista dalla grande piazza, splendeva come l'astro della sera. Molti pellegrini venivano per quella cerimonia, una volta all'anno, perfino da terre lontane». «Se il tuo popolo rispettava tua madre come una potente Sacerdotessa, che motivo hai di temere? Vedrai, sarai accolta festosamente». Babeeri scosse il capo con mestizia. «Mia madre e mio padre vennero uccisi senza pietà. Anche il vecchio Re fu assassinato, e sul trono salì il Principe della terra di Achelòs. Quell'uomo crudele mi riserverà la stessa sorte, se oserò tornare a Lahaina. La Stella di Khoiné mi condannerà a morte». Goccia le promise che avrebbero agito con prudenza. In realtà aveva ancora le idee assai confuse su ciò che le sarebbe convenuto fare. Il suo proposito era sempre quello di raggiungere la nave sumerica su cui era imbarcata Laune, sulla vera identità della quale non aveva ormai alcun dubbio, e fatto ciò la sua ricerca si sarebbe conclusa. Tuttavia la rotta
seguita li aveva portati troppo ad ovest, mentre c'era da scommettere che Laune aveva guidato le Teste Nere a qualche approdo situato sulla costa settentrionale del continente. Ritrovare quel vascello avrebbe richiesto tempo e non poca fortuna. «Cosa pensi di fare?» le domandò Babeeri. «Se ho capito bene, all'interno della Collana degli Atolli dovrebbe esserci una striscia di mare libero che circonda per intero il continente. Noi la seguiremo facendo rotta per il settentrione, e cercheremo la nave sumerica in ogni insenatura». «Ma la costa del nord è la nazione di Achelòs», obiettò la giovanetta. «E gli uomini di quella terra sono armati con gli sparafiamma. Se ci vedono passare, di certo ci attaccheranno». Goccia non seppe cosa rispondere. Dalla botola comparve la testa di Cobal, che gridò verso di lei: «Tieni d'occhio il fondale, Amazzone. Fra poco verrà il momento di mettere in azione le ruote, e dovremo stare attenti a non spaccarne una sui banchi di sabbia». L'acqua era limpidissima, e da blu scuro si fece verdolina quando la profondità diminuì. In trasparenza si potevano vedere le sagome sinuose e lente degli squali, stagliate contro il grigiore perlaceo e il verde intenso. Sull'ondeggiante vegetazione sommersa si muovevano fittissimi banchi di pesci, che a tratti si disperdevano in guizzi d'argento all'avvicinarsi dèi predatori. Poi comparvero nude rocce di corallo prive di erbe acquatiche, e il dragocarro filò sopra di esse tagliando le onde cristalline in direzione della Collana. Ma Goccia di Fiamma sentiva crescere in sé lo stupore. Dov'erano le secche tanto temute dai naviganti? E cosa ne era stato delle distese acuminate scogliere percorse da correnti e gorghi, fra i quali neppure una barchetta avrebbe potuto avanzare? Lei non vedeva neppure l'ombra di rocce e bassifondi ed anzi, davanti alla prua, si presentava un panorama che avrebbe allietato il cuore d'un marinaio. Le isolette erano moltissime, ma così ben distanziate e separate da bracci di mare che perfino un'inesperta come lei avrebbe potuto navigare nella zona in tutta tranquillità. Su di esse la vegetazione abbondava, e sembravano incantate oasi fiorite per magia in quelle acque di smeraldo. «Non capisco». Babeeri era ancor più perplessa di lei. «Guarda all'orizzonte, Goccia: si vede già la costa del Gondwana. Laggiù c'è il Tall-Varna, una delle Cinque Nazioni Confederate... Ma la Collana degli Atolli non
esiste più!». Al di là delle ultime isole verdi e marroncine una linea scura si stendeva da nord a sud, e l'Amazzone comprese che avrebbero potuto raggiungerla senza trovare il minimo ostacolo. Ne fu lieta, ed ignorò l'espressione preoccupata di Babeeri per concentrarsi sullo studio di una nuova rotta. Mandò la fanciulla ad informare Cobal dell'imprevista novità, poi diede un giro di barra facendo volgere la prua a settentrione. Nel primo pomeriggio accostarono a una grande isola, lunga circa una dozzina di leghe, e cercarono un approdo nella speranza che vi fossero sorgenti d'acqua dolce. La riva era verde di palmizi fra i quali sciabordavano debolmente le onde, ma ovunque la vegetazione appariva sommersa come se vi fosse in corso una marea eccezionalmente alta. All'Amazzone sembrò impossibile che il Mare di Gondwana fosse salito di livello a quel punto, tantopiù che sulla costa di Ahrab non c'erano state neppure le avvisaglie d'un tale fenomeno. Ne dedusse perciò che era stata la Collana degli Atolli ad abbassarsi. Presso la riva vide che i fondali erano composti di alberi e palme sommerse, mentre i tratti di terreno una volta erboso che adesso fungevano da spiagge mostravano chiara l'erosione da parte delle onde. «Lo sconvolgimento tellurico dev'essere stato recente», commentò, rivolta alla biondina. «Questa che adesso è una piccola baia, fino a un mese fa era una valle circondata da collinette. Sul fondo si vedono ancora i cespugli dei sempreverdi». Stava per aggiungere qualcos'altro quando da sotto provenne un grido di Cobal. Subito dopo nel rumore del macchinario s'inserì una nota stridula e acutissima, alla quale seguirono alcuni schianti. Dalla bocca del drago emerse una breve e violenta fumata di vapor bianco, poi il marchingegno s'arrestò e lo scafo dipinto a scaglie verdi avanzò verso la riva nel più completo silenzio. Con un'imprecazione l'Amazzone corse alla botola e saltò nel locale sottostante, invaso dal vapore caldo. A tentoni cercò l'altra scaletta, già aspettandosi di trovare in sala macchine lo sfacelo più completo ed il corpo di Cobal Gavelord steso esanime fra i rottami. Ma prima di poter scendere s'avvide che l'uomo ne stava uscendo faticosamente. L'aiutò a risalire. «Cos'è successo? Sei ferito?». Lo Shang rantolò che aveva bisogno d'aria, e s'inerpicò sulla scaletta superiore. Quando furono all'esterno Goccia seppe che i danni erano i seguenti: l'albero dell'elica s'era incrinato, la caldaia ballava sui supporti, e
tre ingranaggi di legno duro erano finiti in schegge. Il tutto era accaduto quando Cobal, vedendo la riva da un oblò, aveva deciso di mettere in funzione le ruote ed una leva gli era rimasta in mano. Con aria abbacchiata l'uomo ammise che i guasti erano irreparabili, almeno senza gli utensili adatti. La chiglia del dragocarro strisciava sui rami di alcune palme sommerse, e Goccia tornò al timone. Ma la velocità era ormai tanto bassa che se pure avessero urtato nel terreno non sarebbe successo nient'altro. Poco dopo erano immobili all'estremità più interna della stretta baia, attorniati da bassifondi sui quali la lieve risacca faceva ondeggiare decine di alberi ancora radicati al fondale. Babeeri commentò saggiamente che erano stati fin troppo fortunati, dato che il possesso di macchine stregonesche di solito era solo fonte di sventure, ed ignorò il borbottio cupo con cui le rispose lo Shang per ringraziare Eleuse d'averli fatti giungere salvi a terra. Fu Goccia a riassumere in poche parole la situazione: «La costa del continente dista una decina di leghe da quest'isola. Potremo raggiungerla costruendo una zattera a vela. Intanto suggerisco di cercare una sorgente. Abbiamo bisogno d'acqua». «Che cosa vai farneticando, o femmina!». Cobal la fissò con ira. «Stai dicendo che secondo te dovremmo abbandonare qui il dragocarro? La proposta è così sciocca che mi comporterò come se non l'avessi udita». Fra l'Amazzone e lo Shang vi fu una breve ma animata discussione, durante la quale Cobal espose in tono cattedratico quale sarebbe stata la sua linea di condotta per rimettere il veicolo anfibio in condizioni di funzionamento. A suo dire si sarebbe dovuto cercare sul continente un fabbro abile, ricostruire i pezzi andati distrutti e quindi tornare a montarli. Goccia rispose con frasi ironiche, spalleggiata da Babeeri, e invitò l'uomo ad esplorare l'isola con loro. «Andate da sole, donne scriteriate e futili», borbottò lui, ostile. «Io esaminerò il macchinario. Se trovate indigeni selvaggi informateli che mi urge la loro collaborazione per tirarlo in secca, ed ammoniteli a mostrarsi solerti». L'Amazzone scese a prendere la spada e lo scudo, oltre ad una grossa borraccia di pelle floscia, reprimendo a stento la voglia di mettere un po' di giudizio in corpo allo Shang a suon di ceffoni. Poi sfogò la sua rabbia staccando via la porta della legnaia ed usandola come galleggiante per portare a riva i loro vestiti. Quando lei e Babeeri ebbero raggiunto a nuoto
la terraferma si rivestirono, poi si misero in cammino su per un pendio erboso. Giunte sul dorso di quella che era stata una collinetta, adesso trasformatasi in un promontorio, videro che lungo la costa la vegetazione abbondava. Nell'interno c'era un territorio ondulato e spoglio, che a qualche lega di distanza si sollevava a formare una catena di alture. Gli insetti ronzavano dovunque, e fra le fronde degli alberi svolazzavano stormi di pappagallini variopinti. A Goccia di Fiamma il posto piacque, dopo mesi trascorsi a vagare in zone secche ed aride, inoltre la quasi totalità delle piante le riusciva nuova. S'era messa in testa un rotondo casco di cuoio, e alla cintura aveva appeso anche un pugnale. Prima di partire da Cranach aveva acquistato robusti vestiti per sé e per Babeeri, più vari oggettini che l'amica aveva ritenuto indispensabili alla sua toeletta. Adesso la fanciulla la seguiva portando la borraccia e raccomandandole di stare bene attenta ai serpenti, ai ragni, alle spine, agli insetti velenosi ed a quanto altro la riempiva di timore; ma non osava più accennare alla sua paura principale, e cioè il pericolo di trovare gente ostile o addirittura soldati di Achelòs. Quando videro in distanza dei terreni che sembravano campi coltivati, il suo volto grazioso espresse soltanto preoccupazione. Goccia di Fiamma aveva nel frattempo cominciato a notare che nella zona c'era qualcosa di strano: qua e là giacevano carogne di pecore o cani ridotte a scheletri, e resti mummificati di piccoli roditori, mentre al livello del suolo non si muoveva più nulla di vivo. Sembrava che la sola fauna superstite fosse quella fornita di ali. Che all'abbassamento dell'isola avesse fatto seguito un'epidemia fra gli animaletti dei boschi non le sembrò probabile, visto che a morire erano state le creature di molte specie diverse; poi rifletté che le dozzine di piccoli scheletri dovevano giacere nel sottobosco da parecchi anni. Decise che sull'isola era accaduto qualcosa d'inspiegabile, che aveva generato conseguenze su vasta scala. «Questo arcipelago fa parte della nazione che tu hai chiamato TallVarna», disse alla fanciulla. «Se c'è un villaggio, credi che la popolazione si mostrerà amichevole con degli stranieri?». Babeeri si morse le labbra, incerta. «Non lo so. Io non ricordo nulla del Tall-Varna, se non il nome». Per la verità, se vi fosse stato un villaggio c'era da scommettere che era sorto sulla costa, e che perciò adesso si trovava sotto molte braccia d'acqua; ma chi vi aveva abitato certo non aveva seguito la stessa sorte delle case. Goccia s'aspettava d'incontrare gente ben presto.
In quei giorni aveva spesso cercato di far rammentare all'amica qualcosa dei suoi primi nove anni di vita, ma Babeeri aveva saputo fornirle solo notizie scarse e imprecise, perché fino al giorno della fuga dalla Capitale aveva vissuto un'infanzia ignara e spensierata negli agi d'un grande palazzo nobiliare. A detta della fanciulla, il Gondwana era una Confederazione di cinque Nazioni dai costumi profondamente diversi, teoricamente sottoposte all'autorità di un unico Re ma ciascuna assai gelosa della propria indipendenza. Nel settentrione c'era l'Achelòs, dominato da una dinastia di Principi molto bellicosi; l'ovest era il Tall-Varna, una terra di liberi mercanti e agricoltori governata dal Re Schiavo, decadente ma pacifico; all'est c'era lo Yaya Dhuba, una Nazione isolata da alte montagne dove si praticavano con efferatezza le arti occulte; il selvaggio Aladjr e l'operosa terra di Falheire occupavano la parte meridionale del continente. Lahaina sorgeva nel bel mezzo di una sterminata pianura centrale, vi si coniava la moneta, il reale d'oro e il forato di bronzo, e lì si riunivano i rappresentanti delle Cinque Nazioni per decidere leggi comuni o accordi di vario genere. Ma se pure vi risiedeva, il Re non possedeva alcun territorio, venendo a trovarsi nel punto d'incrocio dei cinque confini, ed ognuno degli altri stati aveva la sua propria capitale. Era una città splendidamente bella, antichissima, sottoposta all'autorità del Sovrano e di quelle che Babeeri chiamò le Dodici Famiglie. A Goccia era parso evidente che il Re del Gondwana era stato tale solo di nome, e che fuori da Lahaina doveva aver goduto d'un potere appena convenzionale. Ciò malgrado il suo trono aveva fatto gola al Principe Achelòs, l'usurpatore che nove anni addietro aveva fatto strage dei suoi oppositori per impossessarsene. La fanciulla non fu in grado di dare alcun particolare su quel colpo di stato, né sulle sue premesse o sui fatti collegati ad esso. Si mostrò comunque sicura nell'affermare che in tutto il Gondwana si parlava un'unica lingua, seppure con accenti diversi da luogo a luogo, e che questa era praticamente uguale al basso-sumerico in cui s'era espressa durante il suo soggiorno biennale nella Terra di Junghad. Le due ragazze s'addentrarono sui falsipiani, e prima della metà del pomeriggio attraversarono una zona paludosa dove l'acqua sembrava infetta e sporca. A destra avevano le colline rocciose, dalle quali scendevano fiumiciattoli che si perdevano fra le marcite. Più avanti c'erano invece distese che dovevano aver conosciuto l'aratro, e fu lì che goccia scorse il primo cadavere, un mucchietto di cenci scoloriti e terrosi dal quale spuntavano ossa e brandelli di carne mummificata. Era steso in mezzo ad una stradic-
ciola invasa dalle erbacce. «Ma cos'è?... Oh, Eleuse!» rantolò Babeeri. L'Amazzone le accennò di proseguire. «È soltanto un corpo. Il decesso deve risalire a otto o dieci anni fa, direi all'epoca in cui questi campi vennero abbandonati. Vieni via, cara». Il terreno era stato una volta coltivato a segale. Più oltre trovarono piante di cotone e di tabacco che crescevano stentatamente, ed alberelli di spezie che Goccia non aveva mai visto, zafferano, pepe, cannella e noce moscata. La strada girava intorno a una rupe massiccia e terminava in mezzo a una dozzina di case miserabili, con muri a secco e tetti di legno mezzo crollati. Nei pressi giacevano altri corpi umani ridotti a scheletri, come se fossero caduti fulminati da una misteriosa malattia, e sulla scena gravava il silenzio. «La pestilenza!...» gemette Babeeri, rabbrividendo. Bastò quella parola a fermare Goccia, che perse subito ogni desiderio di curiosare nelle catapecchie e nei cortili arsi dal sole. Stava per cedere alle mani della fanciulla, che la tiravano indietro, quando s'avvide che nello spiazzo centrale fra le costruzioni c'era una statua di legno nero, raffigurante una donna con la mano destra alzata a palmo avanti, e decise d'esaminarla più da vicino. «Aspettami qui. Non avvicinarti alle case e non toccare nulla», le raccomandò, avviandosi. In contrasto con la rustichezza di quel paese sperduto, la statua denotava grande capacità artigianale e chiare concezioni artistiche. Le intemperie l'avevano appena scolorita qua e là, ed era poggiata sul terreno nudo come se qualcuno l'avesse tolta da qualche tempietto, finendo per abbandonarla nel primo posto che gli era capitato. Raffigurava con ottima tecnica una giovane donna bruna, avvolta in un mantello che le nascondeva anche i piedi. Aveva scoperti solo il volto, dipinto in un rosa naturale, e la mano destra, che teneva sollevata come per mostrarla agli adepti del suo culto. Al centro del palmo c'era una macchia scura, che solo quando le fu vicina Goccia Di Fiamma identificò per una stellina nera a cinque punte. Per lo stupore rimase a bocca aperta. «Una stella nera...» mormorò, incapace di capire il significato di quell'effige così perfetta. Ma dovette esaminarla a lungo e da tutti i lati prima di rendersi conto, con un senso d'irrealtà, che assomigliava in modo incredibile a Babeeri. C'erano delle differenze che le avevano impedito in un primo tempo di
coglierne i dati somatici più determinanti, ma queste erano rappresentate solo dai capelli corvini e dall'espressione malevola del volto. Era come se un ignoto artista avesse ritratto Babeeri dipingendole le chiome di nero e conferendole un'espressione perversa, cosa che bastava a rendere la statua irriconoscibile dato che Babeeri aveva un viso ingenuo e dolcissimo. Inoltre, mentre la biondina aveva sul palmo della mano sinistra una stella bianca, quest'oscura Sacerdotessa del Gondwana ne possedeva una nera sul palmo della destra, come un'immagine speculare al negativo. Goccia s'accorse che Babeeri l'aveva affiancata e fissava la statua con occhi tristi. «Che cosa significa? Chi è questa donna?» le domandò, tesa. «Io non lo so... Davvero non lo so, chi è». «Non ti sei mai accorta che quando dici le bugie arrossisci come una paperotta di cinque anni? Avanti, tesoro, mi hai parlato tanto della Khoiné, della Stella d'Oro, dell'Altare, ed ora non vuoi dirmi altro? Questa statua testimonia che nella tua terra esiste una specie di culto parallelo a quello della Stella d'Oro, forse una religione eretica e rivale che...». «No, non è così. Ho paura, Goccia. Ti prego, andiamocene. Voglio andar via da qui!» mormorò lei, torcendosi le mani. L'Amazzone la prese per le spalle e le fece alzare il viso, cercando di contenere il nervosismo che si sentiva dentro da quando aveva messo piede in quel borgo silente e pieno di cadaveri. «Guardami», disse con fermezza. «Dimmi la verità, cara: tu sai chi è quella donna bruna, vero? Lo sai, ma ne hai tanta paura che non sei neppure capace di confidarti con me. E giurerei che la statua è in qualche modo legata a quel che è successo qui. Ho ragione?». La fanciulla aveva le lacrime agli occhi. «Ma non è vero! È soltanto una favola... una storia brutta, una fantasia. Quella persona non esiste, credimi. Non esiste! Io non capisco perché gli uomini di questo paese hanno scolpito la statua. Lei è... è solo una leggenda!». «Un corno!» esclamò Goccia. Poi raddolcì il suo tono. «Senti, tesoro mio, come pretendi che io possa...». La voce le si strozzò in gola, quando vide ciò che stava accadendo al livello del suolo: la polvere del piazzale aveva assunto una bizzarra colorazione bianca, e dai piedi le stava lentamente salendo lungo le gambe un'ondata di freddo. Babeeri abbassò lo sguardo ansimando. «Il potere!» sussurrò. «Dèa che mi vuoi bene, questa è brina! Brina densa e alta come neve!» «La Magia Nera!» Babeeri le si strinse al petto, spaventatissima. «Oh,
Goccia, è lei... è lei!» «Lei chi, per la coda mozza di Marduk?» Non ebbe risposta, perché la fanciulla le aveva nascosto il volto contro una spalla e stava tremando. Il freddo salì come un mantello invisibile che le avvolgeva entrambe con le sue gelide pieghe, mentre lo strato d'umidità congelata si faceva magicamente più alto. Lontano, il sole splendeva sul resto dell'isola arroventando le rocce e facendo evaporare l'acqua dai pantani, ma sul paese abbandonato era sceso un inverno improvviso e stregato, e la temperatura s'abbassava sempre più. Goccia di Fiamma si volse a guardare la statua, i cui occhi sembravano fissare il vuoto con imperscrutabile malizia. In quel momento sentì risuonare sopra le case circostanti un verso isolato, che avrebbe potuto essere tanto il gracidio d'un corvo quanto una breve risata sarcastica. La ragazza dai capelli rossi imprecò. «Togliamoci da qui, prima di congelare», decise, stentando a mantenere il controllo dei nervi. L'Amazzone non credeva alla magia, e continuava a non crederci anche immersa in quell'evento inspiegabile dal sapore arcano, ma aveva paura. In quell'isola c'era una forza ostile agli uomini, che agiva usando mezzi incomprensibili e spaventosi, una forza che evidentemente ce l'aveva con loro. Imbracciò saldamente lo scudo ed estrasse la spada, accennando a Babeeri d'incamminarsi su quella che era divenuta neve vera e propria. Giusto allora però, il gelo allentò la sua morsa e dal mare arrivò un vento caldo. Per il brusco sbalzo di temperatura le due ragazze ansimarono, trovarono difficoltà ad adattarvisi, e venne loro la pelle d'oca. Fra sbalordite e sollevate videro che la neve si scioglieva molto rapidamente, forse anche più in fretta di quanto sarebbe stato naturale al ristabilirsi della temperatura estiva. Dopo qualche istante a terra restava solo una distesa di fango. Da lontano venne il suono d'una risata ironica ed amara, e Babeeri si guardò attorno vacillando per lo spavento. «Fuggiamo da qui!» gemette. «Hai paura di me, sorellina?» esclamò alle loro spalle una voce femminile, trionfante e maliziosa. «Eppure hai osato dire che io non esisto!» L'Amazzone si voltò con un guizzo, sollevando la spada, e ciò che vide la fece immobilizzare come se un'improvvisa paralisi le avesse gelato ogni muscolo: la statua sembrava essersi raddoppiata per incanto, e al suo fianco era comparsa una figura viva e fremente di donna avvolta in un
mantello argentato, la cui fronte era cinta da una coroncina punteggiata di gemme, che teneva alzata la mano destra a mostrare con minacciosa arroganza una stella di colore nerissimo e intenso, rilucente. La misteriosa bruna era il modello vivente da cui era stata copiata l'immagine lignea, ma più che una tenebrosa Sacerdotessa ora appariva come una Strega-Regina, una creatura semidivina dai poteri occulti e incomprensibili. Il suo viso era arrossato di malevola soddisfazione, e gli occhi le splendevano come braci. Davanti a quella sconcertante apparizione Goccia e Babeeri erano rimaste mute, agghiacciate, e la loro reazione fece sorridere la sconosciuta d'un sorriso contorto. «Povera sciocchina», disse a Babeeri. «Tu stai tremando. Non ti fa piacere incontrarmi, finalmente? Oppure... oppure ti si è fermato il cuore, nel vedermi viva?» D'un tratto nelle sue pupille da esaltata brillò una luce di follia, e la sua voce s'alzò in un grido: «È così, e lo spavento ora ti toglie la favella. Ma sappi che io, Alybrea, non sono morta come nostra madre voleva e ordinò. Io vivo... vivo! E dopo mille generazioni di orrendi omicidi, alfine la Stella Nera torna a regnare invincibile sul Gondwana. Guardala!» Con un sorriso d'esultanza la giovane donna ammantellata alzò ancora la mano destra, in un gesto che tremava di terribile soddisfazione. Goccia di Fiamma cercò d'imporsi la calma. «Sei stata tu a sterminare gli abitanti dell'isola?» domandò, accigliata. La biondina le s'era fatta accanto, quasi per cercare riparo dietro al suo scudo. Alybrea la degnò di un'occhiata sprezzante. «Una selvaggia del settentrione vestita in armi da guerriero... Che misero spettacolo offri. Potrei distruggerti, e forse lo farò. Il mio potere proviene dalle profondità della terra, e tu ne hai visto solo una parte. Io posso dare la morte a mio piacimento, e nulla mi si oppone. Guarda questa stupida isola: lo stesso spettacolo lo offrono altre terre che nove anni fa osarono resistermi. Il gelo che ferma ogni vita è l'arma suprema. Capisci ciò che dico, straniera?» «Certo, certo», rispose lei, cautamente. «E affermi che Babeeri è tua sorella?» «Più che sorella. Osserva come mi rassomiglia. Nascemmo quasi diciannove anni or sono nello stesso istante e dallo stesso ventre, quel ventre che io ho cento volte maledetto. Ma la Khoiné assassina non mi ebbe morta! No... la piccola neonata destinata al coltello trovò chi seppe evitarle di finir nella fossa, com'era accaduto alle mille sventurate portatrici della Stella Nera prima di lei. Quella neonata indifesa visse, a scorno dei suoi
carnefici. Visse, e giurò la vendetta!» La bruna rise, annuendo più volte. «Tu... tu hai fatto uccidere nostra madre!» balbettò Babeeri. «Non io» gridò con furia Alybrea. «Non io! Fu quello sciocco di Sevan Brelthur a trafiggere lei e nostro padre nel palazzo. Io ero lontana, in Tor Vanora, quando il Principe mio alleato portò le sue truppe in Lahaina. La mia vendetta sarebbe stata ben più lenta e spietata, se a far giustizia non fosse stata una spada di Achelòs!» Alybrea ricompose l'espressione del viso in un sorriso crudele, e fissò la fanciulla. «Ma forse devo ringraziare il tuo tutore d'aver tenuto in vita almeno te, sorellina. È una fortuna che tu sia rimasta in grado di scontare la pena che per anni sognai d'infliggerti. Anni nei quali io vissi esule in una terra piovosa e triste, mentre tu ti trastullavi gioiosa nel grande palazzo senza immaginare che la tua gemella esisteva e soffriva». «Ma io non sapevo nulla di te. Io non ho colpa se tu...» La voce di Babeeri si smorzò, spezzandosi. Goccia di Fiamma s'era riappesa la spada alla cintura. Cinse con un braccio le spalle della giovanetta e la strinse a sé. «Guarda che stai dicendo delle sciocchezze, Alybrea. Non ti permetterò di toccare Babeeri. E in quanto al tuo potere, credo che se tu potessi ucciderci davvero lo avresti già fatto». «Non ti ho fatto nulla», ripeté la fanciulla bionda. «Perché vuoi essere cattiva con me?» Alybrea aveva fulminato Goccia con un'occhiata. Rispose a Babeeri con voce incrinata dall'odio: «Tu saresti dovuta divenire la Khoiné. E un giorno, quanto ti fossi unita col Nobile destinato ad esserti marito, avresti generato anche tu due gemelle stellate. Poi, come nostra madre e tutte le Khoiné prima di lei, ne avresti soppressa una... quella che innocente avrebbe portato sul palmo la Stella Nera. Di tale crimine ti saresti macchiata tu pure. Ma d'ora innanzi non vi saranno più Stelle d'Oro in Lahaina. La tradizione verrà dimenticata... Anzi, ho già fatto il necessario perché il cambiamento sia irreversibile e definitivo». «Ma la Stella Nera reca con sé la maledizione e la disgrazia per il popolo», obiettò Babeeri timidamente. «Ed è per questo che la Legge esige di ucciderla. Nostra madre dovette ubbidire. Nessuno poteva opporsi alla Legge del Re. E la gente sarebbe insorta, se si fosse permesso a una Stella Nera di vivere col suo potere malefico». Gli angoli della bocca della bruna si piegarono ancora in un sorriso divertito, che subito si trasformò in una risata.
«Ingenua Babeeri! La gente miserabile non può che ubbidire, quando io emetto un comando. La punizione per chi mi osteggia è la morte. Tutti lo sanno, e perciò tutti chinano il capo. Avete visto la statua: ve ne sono di uguali a migliaia, sparse in ogni cittadina del Gondwana. Sono un simbolo e uno strumento del mio potere, ed ogni castello, ogni borgata, ogni isola le venera, perché tramite i loro occhi io posso osservare ciò che accade dovunque. Come credi che abbia scoperto la tua presenza? Attendevo il tuo ritorno con impazienza, sai? E sapevo che saresti approdata un giorno o l'altro su qualche spiaggia, in segreto, nel perverso tentativo di nuocermi. Ma ora sei inerme nelle mie mani». «Che intenzioni hai?» cercò di sondarla l'Amazzone. Alybrea ignorò la domanda sdegnosamente, ma quando a ripeterla fu Babeeri le rispose in tono altero: «Ho dei progetti su di te. Quando ti avrò resa docile, e non mi ci vorrà molto, ti potrò usare per rendere il mio potere ancor più completo. Sarà facile». «E questo Sevan Brelthur sarebbe il nuovo Re del Gondwana?» chiese Goccia di Fiamma. «Dunque fu lui a farti salvare, progettando di utilizzare le tue capacità per impadronirsi del trono». «Tu mi stai annoiando, e qui fa caldo», disse la bruna, in tono improvvisamente frivolo. «Che luogo detestabile! No, non fu merito di quel vanitoso se restai viva, bensì dei Dottori dell'Oscuro. Molti anni prima essi avevano concepito un piano astuto, e fui io a goderne i benefici. Da allora vissi in Sothana e in Tor Vanora, finché non ebbi l'età per agire. Solo a quel tempo i Dottori mi consigliarono l'alleanza con Sevan, che aveva un buon esercito». «Hai abitato con gli Stregoni di Yaya Dhuba!» esclamò Babeeri. «Tu eri nata per scegliere il demonio, se fossi vissuta!» «Sono stati loro a scegliere me, e a proteggermi», la corresse Alybrea. «Ma adesso i loro poteri non sono nulla, al confronto dei miei. Io sola governo le forze del sottosuolo, quelle stesse su cui anche tu hai una certa potestà, benché le tue capacità siano risibili. La tua stupida stellina infatti può soltanto comandare la comparsa della Strada Sommersa, e null'altro. Metterai questa facoltà al mio servizio, e t'insegnerò ad essermi grata d'ogni attimo che ti permetterò di vivere». Goccia di Fiamma faticava ancora a convincersi che non stava sognando, tanto la presenza di quella bruna strega le appariva inesplicabile. Era comparsa lì come per incanto, e dalle sue parole intuiva che probabilmente se ne sarebbe andata con lo stesso sistema dopo aver agito ai danni di
Babeeri. Ma cosa intendeva farle? Forse aveva il modo di portarla via con sé? Ed in tal caso, sarebbe stato possibile sventare quella manovra? Non riuscì ad immaginare neppure un barlume di risposta, e sentì che la situazione le sfuggiva di mano. Per guadagnare tempo cercò di farla parlare il più possibile. «Vuoi dire che i Dottori dell'Oscuro riuscirono ad ingannare chi doveva sopprimerti? Ma perché ebbero bisogno di studiare un piano per molti anni, e come fecero a portarti via da Lahaina?» «Sì, come accadde?» chiese anche Babeeri. Alybrea sbuffò, ma sul suo viso si poté leggere che non trovava spiacevole raccontare un avvenimento che l'aveva vista sopravvivere trionfante. «I Dottori sapevano benissimo cosa fare», disse, «quando decisero di sostituire una neonata con un'altra esattamente simile. Essi riuscirono a leggere sul Libro di Ferro i comandi degli Antichi, perciò sapevano in quale momento nostra madre e nostro padre avevano istruzione di concepirci, sapevano quando saremmo state partorite, e perfino quali sarebbero state le nostre sembianze. La loro opera s'accentrò dunque sul come far nascere nel momento adatto una bambina dai capelli neri, di fattezze talmente simili alle mie che nessuno avrebbe potuto distinguerci. Quando ciò fu ottenuto, bastò dipingerle sul palmo una stellina nera, la sola caratteristica che era impossibile da falsificarsi. Subito dopo fu fatto lo scambio di persona: un'altra neonata morì al mio posto, ed io vissi all'insaputa di tutti. Ma se pensate che questo fu facile vi sbagliate...» La ragazza proseguì, esponendo a Goccia ed alla gemella l'estrema complessità degli incroci e degli accoppiamenti necessari perché una Khoiné potesse partorire neonate dotate del suo stesso potere. «Oltre ventimila anni or sono», spiegò, «nel Gondwana vivevano i nostri lontanissimi antenati, gli Antichi. Essi erano potenti e invincibili, e conoscevano i segreti dell'universo. Per molte epoche dominarono le terre e i cieli, ma infine la loro razza decadde. Non è dato sapere come avvenne, tuttavia essi dimenticarono pian piano la sapienza tanto faticosamente conquistata ed il mondo ricadde nella barbarie. Di tale scienza oggi rimangono solo pochissimi frammenti, dei quali la Strada Sommersa e l'Altare della Stella sono forse i minori. Nelle profondità del suolo, invece, esiste ancora molta potenza magica e misteriosa... quella che risponde al comando della Stella Nera, la mia. E ciò malgrado essi furono così sciocchi da stabilire che mai una portatrice di questo simbolo dovesse vivere».
«Per quale motivo?» la interrogò Goccia. L'altra ebbe un lampo d'astio nello sguardo. «Per un motivo insulso! Essi erano sommi conoscitori di un'arte antica che ha nome Genetica, e in base ad essa predisposero molte istruzioni scritte perché ad ogni generazione vi fosse una Khoiné dotata della Stella d'Oro. Ma lasciarono detto ai posteri che le bambine stellate sarebbero nate sempre in coppia con una gemella di segno contrario. E nella loro stupidità dichiararono che la neonata con la Stella Nera avrebbe portato una tara mentale non eliminabile con alcun incrocio programmato. Io stessa ho letto questa menzogna sul Libro di Ferro che comanda gli accoppiamenti delle Dodici Famiglie di Lahaina: una tara mentale! Inetti e maligni, essi stabilirono che la gemella indesiderata e pericolosa venisse uccisa appena partorita, per far sì che il mondo non ne conoscesse il potere!» «Arte Genetica? Incroci programmati? Cosa vuol dire ciò?» chiese Babeeri. «Sono parole arcane». «È una delle Arti Perdute. Sappi che la nostra nascita non fu un evento guidato dal caso, come succede per i comuni popolani. Se nostra madre non avesse seguito alla lettera le istruzioni del libro scritto su pagine di ferro temprato, né tu né io avremmo mai visto la luce. In tali pagine io ho letto molte cose... Ho compreso perché esistevano le Dodici Famiglie, e per qual motivo esse dovevano seguire rigidamente gli accoppiamenti ordinati dal Libro. I Nobili delle Famiglie leggevano in esso con quale coniuge si dovevano sposare, ed a quale età e quanti figli dei due sessi dovevano avere. Fra di loro vi erano incroci complessi oltre ogni immaginazione, lo scopo dei quali era di far nascere l'uomo che sposando la Khoiné avesse ancora da lei le due gemelle stellate. Talora le regole imponevano alla Knoiné di sposare un Laherbrel, talaltra un Deoghar o un Lakhmar, o un giovinetto Sharlja di appena dodici anni. Vi sono persino rarissime generazioni in cui è detto che la Khoiné non nascerà, e che le gemelle saranno partorite da una dama della famiglia Alytari trent'anni dopo, ed allora il popolo attende il miracolo col fiato sospeso. E vengono previste altre generazioni in cui si ordina a un Nobile di cercare fra la gente misera una sposa a caso, purché dotata di occhi verdi, per avere da lei un figlio da inserire negli incroci delle Famiglie. Nessuno ha mai compreso queste regole, ma per migliaia d'anni è stato il Libro di Ferro a governare infallibilmente gli sposalizi dei Dodici Casati Nobiliari». «È singolare», ammise Goccia di Fiamma, intanto che cercava di far lavorare il cervello su una via d'uscita.
Alybrea inarcò un sopracciglio. «Ma che fatica inutile fu la loro! E quanto tragicamente sono oggi terminati gli sforzi delle Dodici Famiglie per rispettare gli incroci programmati. Perché ora... ora una Stella Nera finalmente vive! E tu, sciocca sorellina, sei ormai l'ultima che sia nata con quella che sull'Altare diviene d'oro. L'ultima, senza fallo, perché nove anni or sono Sevan Brelthur ha sterminato le Famiglie chiudendo per sempre un criminoso capitolo della nostra storia. La mia vendetta è stata terribile e completa, e oggi il Gondwana ubbidisce a me». Babeeri sembrava aver seguito a stento quelle spiegazioni, ed il suo viso mostrava che non ne aveva capito molto, ma nel sentire le ultime frasi della sorella le era sfuggito un ansito: «Il mio tutore... Anch'egli era uno di quei Nobili. Che ne è stato di lui?» «Ma mia cara», Alybrea sorrise. «Chi pensi che sia stato a rivelare che tu eri al sicuro oltre l'oceano, nelle incivili terre del settentrione? Quel brav'uomo fu tanto ingenuo da ritornare, e trovò a attenderlo un tavolo da tortura. Ma ora basta parlare. È l'ora di andare». «Andare dove?» domandò Babeeri. «A Shorn, sorellina, sulla costa dell'Achelòs. La città che Sua Maestà Sevan Brelthur ha scelto come nuova Capitale». D'un tratto la ragazza ebbe l'atto d'estrarre qualcosa di tasca. Goccia di Fiamma, che quasi se lo aspettava, fece un salto di lato alzando lo scudo, e nel movimento colpì senza volerlo la statua lignea. Il simulacro piombò al suolo, nel suo interno vi fu il rumore di qualcosa che si spezzava, ed uno dei suoi occhi esplose come una vescica producendo uno sbuffo di fumo. «Stupida selvaggia, che fai?» sbottò Alybrea. Si volse a Babeeri, rigida. «Non importa. Adesso ho qui un regalo per te, sorella. Prendi!» E così dicendo le gettò una piccola sfera di cristallo. D'istinto la biondina alzò una mano per afferrarla al volo, ma Goccia fu più svelta e se ne impadronì con un guizzo insospettita da quella manovra. «Cosa diavolo è?» domandò. Non poté udire la risposta, perché appena il piccolo oggetto fu chiuso fra le sue dita una forte vibrazione le percorse tutto il corpo. Fece in tempo a vedere Alybrea che sollevava i pugni davanti alla bocca, come se lo stupore e la rabbia la stessero soffocando, poi tutto ciò che le stava intorno parve ondeggiare e disciogliersi in una nebbia tremolante: il piazzale fra le decrepite case dell'isola scomparve d'incantò, ed ella gridò. Davanti ai suoi occhi sbigottiti si materializzarono le pareti di un vastissimo locale, un salone così lussuoso che sembrava appartenere a una reggia.
L'Amazzone ne fu spaventata al punto che fece un balzo indietro. Un attimo dopo si trovò a vacillare in malcerto equilibrio sull'orlo di un'enorme piscina marmorea incassata nel pavimento. La spada e lo scudo le sfuggirono dalle mani, poi ella cadde con un gran tonfo in un liquido profumato dal colore verdolino. Cosa le stava succedendo? Oltre le bolle che le sfuggivano gorgogliando dal naso e dalla bocca vide una turba di esotici pesciolini multicolori che le nuotavano attorno. Nei suoi pensieri c'era il caos più completo. IN CERCA DELLA KHOINÈ Dall'alto dei bastioni di Castel Trebus, Laune poteva contemplare per intero la città di Shorn, distesa da un capo all'altro della vasta baia a mezzaluna. Sullo sfondo del mare i suburbi lontani e le fortificazioni del porto le apparivano velati di rosa e di amaranto, di toni cuprei come il bronzo, rossicci, a tratti d'un intenso color rubino, mentre le case e i palazzi più vicini ergevano mura di un nitido cremisi, o si stagliavano scarlatte e sanguigne in una quantità di sfumature fulve o accese. Alla mente della ragazza, però, la Capitale della terra di Achelòs appariva ancora d'un solo colore, come l'aveva vista arrivandovi dal mare dieci giorni prima: Shorn era rossa. Rossa dalla torre più alta del castello, dove risiedeva il Re, all'ultimo muretto sbrecciato al quale un mendicante aveva appoggiato la sua tenda lacera. E rosse erano le ramificatissime fognature, rosso il selciato delle strade e dei cortili, gli argini del fiume, gli stretti ponti e le arcate del lungo acquedotto, perché dalle fondamenta fino ai tetti Shorn era costruita in mattoni. Laune la trovava brutta e senz'anima, antiestetica al massimo grado. Eppure Sua Maestà Sevan Brelthur di Gondwana risiedeva lì, a Castel Trebus, ed in quel luogo Laune era stata portata insieme a tutti i Sumerici in attesa che si stabilisse quale sarebbe stato il loro destino. La ragazza non era tuttavia considerata una prigioniera, ed in realtà la sua libertà di movimento era piuttosto quella d'un ospite, a patto che si limitasse a circolare nella caserma della Guardia Reale e nei cortili riservati ai soldati. Nella grande mensa di solito sedeva ad uno dei tavoli dove si riunivano le sessanta Teste Nere, che Cuhman costringeva a mangiare nel più assoluto silenzio, ma non di rado s'era mescolata ai militi biancovestiti di Achelòs per consumare il pasto insieme a loro, perché desiderava conoscerli. Quella terra e quella gente la interessavano, ed ella era abile ad adeguarsi al loro cameratismo da caserma per discutere con loro davanti a
un bicchiere di vino. Li prendeva per quel che valevano, mostrandosi con alcuni franca e spudorata, con altri sprezzante e ostile. E sapeva sogghignare ai loro inevitabili commenti quando cercavano di capire che razza di pesce fosse una femmina che girava armata di pugnale come un uomo. L'ambiente era prosaico e villano, ma questo alla ragazza non faceva né caldo né freddo. Anzi, c'erano dei momenti in cui la vicinanza di tanti individui incolti e puzzolenti di sudore riusciva perfino a distrarla dai suoi pensieri. E siccome non si trattava di pensieri molto confortanti, la compagnia di costoro talvolta le riusciva gradita. La sua maggiore preoccupazione riguardava i continui abboccamenti che il Principe Valdek aveva con Sua Maestà Sevan, l'uomo che nove anni addietro aveva riunito sotto il suo scettro tutto il continente. I due, infatti, s'erano intesi fra loro in un modo che a Laune non piaceva per nulla, con la strana mescolanza di diffidenza e comprensione di due lupi affamati incontratisi per caso sulla pista di un cervo ferito, e da dieci giorni trascorrevano molto del loro tempo insieme, mettendo a punto chissà quali progetti o accordi, oppure recandosi a ispezionare il porto e le altre caserme di Shorn. Questo irritava Laune, che si sentiva impotente ed in balia degli eventi, ma nello stesso tempo ella doveva riconoscere al duro e spregiudicato sumerico il merito d'aver saputo volgere a suo favore una situazione che all'inizio era sembrata drammatica. Dopo la loro cattura, avvenuta senza colpo ferire la notte in cui avevano tentato di forzare l'ingresso al canale, Valdek era riuscito a convincere il Comandante di quella fortezza che sarebbe valsa la pena di farlo condurre alla Capitale, tirando fuori tutti i suoi titoli nobiliari e adducendo come pretesto la volontà di stringere un'alleanza militare. Alla piratessa la scusa era parsa idiota, essendo noto che gli uomini del Gondwana non volevano aver nulla a che fare con le nazioni d'oltreoceano; ma con sua immensa sorpresa aveva scoperto che al Comandante della fortezza quella prospettiva era giunta gradita. Cosa poteva significare ciò? Forse che dopo millenni d'isolazionismo fanatico quella gente provava interesse umano o desiderio di conquista, nei confronti delle terre del settentrione? Il giorno successivo, comunque due grossi vascelli armati di sparafiamma assai minacciosi li avevano scortati alla Capitale di Achelòs. Era stato durante quel tragitto che la ragazza, scrutando verso ovest, aveva potuto mettersi definitivamente il cuore in pace per quel che riguardava il suo bottino: dove una volta erano sorte Hatoll ed altre due dozzine d'isolette consimili, ora il mare s'estendeva libero ed assolutamente deserto.
Shorn s'era rivelata come una città costiera molto popolosa e affaccendata, i cui abitanti vivevano di pesca e di commercio. Sorgeva fra la baia ed una catena di alture, e ben tre diverse cinte di mura distanti un paio di leghe l'una dall'altra testimoniavano che negli ultimi secoli s'era allargata molto lungo la costa, senza rinunciare al proprio carattere fiero e bellicoso. Castel Trebus, un fortilizio poco attraente ma di dimensioni impressionanti, la dominava dal lato delle colline, ma un grande palazzo era in via di costruzione su una rocca granitica, e Laune aveva saputo che presto la corte si sarebbe trasferita là, perché Sevan intendeva fare di Shorn la nuova Capitale del continente, in sostituzione della bellissima ma lontana e scomoda Lahaina. Nei primi tre giorni l'equipaggio della nave sumerica era stato tenuto sotto stretta sorveglianza, nella caserma della Guardia Reale. Solo in seguito, quando era giunto l'ordine di lasciarlo uscire nelle strade purché rientrasse al tramonto, la ragazza aveva capito che Valdek aveva saputo accordarsi in qualche modo col Re. Ma su quale terreno d'intesa s'erano potuti incontrare? Un'ipotesi valeva l'altra. In quanto a Yaan Margraf Lakhmar, il giovanotto era stato condotto via dalle Guardie al momento dello sbarco, e da chiacchiere raccolte alla mensa Lamie sapeva che il Re l'aveva fatto gettare nelle prigioni. A quanto sembrava gli si preparava un destino breve, eufemismo che un milite aveva usato passandosi significativamente un pollice lungo la gola. Cospirazione contro il trono, tradimento, appartenenza ad una banda di rivoluzionari e infine furto di una nave da carico erano i crimini che gli si imputavano. A parte le disgrazie di Yaan, che sebbene le dispiacessero non erano dopotutto fatti suoi, a riempirla di pensieri foschi c'era la stranissima atmosfera che sembrava regnare ovunque in quella terra sconosciuta. Dappertutto, perfino in alcune sale di Castel Trebus, sorgevano statue di legno a grandezza naturale raffiguranti una giovane donna bruna, e di esse i militari e la gente del popolo mostravano d'avere un sacro terrore, al punto che tutti le evitavano accuratamente. Laune aveva saputo che non rappresentavano una Dèa, bensì una specie di potentissima maga di nome Alybrea, e la notizia le era stata data da un Ufficiale delle Guardia in un tono così timoroso da stupirla. Aveva cercato di saperne di più, scoprendo che i cittadini di Shorn osavano appena nominarla o vi si riferivano chiamandola «Lei», oppure «la Stella Nera», parlandone a sussurri e guardandosi attorno come se paventassero d'esser sorpresi a menzionare un argomento proibito. E tutti giura-
vano che quella maga riusciva a vedere tramite gli occhi delle sue statue. Qualche giorno addietro sulle mura di Castel Trebus era calato un silenzio funereo, che in poche ore s'era allargato a macchia d'olio su tutta la città, e Laune era venuta a sapere che Lei era lì, in visita a Re Sevan Brelthur. Com'era potuta arrivare in città così all'improvviso? Di quali argomenti aveva discusso col Re, che si diceva la temesse non meno degli altri? E chi era in realtà quella donna? La piratessa non era riuscita ad avere una risposta a queste domande, solo sguardi preoccupati, occhi che evitavano i suoi, ed un cocciuto mutismo. Ma l'intera Shorn era parsa tirare un respiro di sollievo, quando s'era saputo che Lei se n'era andata. C'erano anche altre riflessioni che gravavano sull'animo di Laune, mentre i suoi occhi scivolavano sulla baia punteggiata di vele multicolori, ma erano i soliti pensieri indesiderati e i frammenti di ricordi risalenti ad un lontano passato. Un passato in cui ella aveva vissuto altrove e s'era chiamata con un nome diverso. Nei momenti d'ozio, e con suo grande dispetto, strane cose le tornavano alla memoria. Quel volto, ad esempio: la ragazza dai capelli rossi e dal sorriso scanzonato, un sorriso che lei aveva amato... No! Non amato, urlò Laune a se stessa. Odiato! Odiato! Mille volte odiato! E quei luoghi, quegli avvenimenti, quelle facce che risalivano a galla dal suo passato, lei li odiava in blocco, tutti. Ogni pezzo di quei ricordi era odio. Voleva distruggerli e cancellarli, dimenticarli per sempre. Ma ora che le stava succedendo? Perché lei, così fredda, si lasciava tanto vincere dall'emotività a quei pensieri? Doveva controllarsi, rifletté, e del resto che importanza aveva mai il suo passato? Nessuna. Trasse un profondo respiro e fissò gli occhi sul porto di Shorn. In quel momento la voce ben nota di Valdek la chiamò dal basso, e voltandosi ella vide nel cortile della caserma il Principe sumerico che le faceva cenno di scendere dalle mura. Indossava un'alta uniforme da Ufficiale della Guardia, e sembrava più seccato e ruvido del solito. Quando Laune l'ebbe raggiunto dovette seguirlo sotto una tettoia di legno e rampicanti presso le cucine, e solo dopo che l'uomo si fu seduto a un tavolo, all'ombra, si decise a parlarle: «Dobbiamo far quattro chiacchiere», disse. Si volse verso una finestra del pianterreno e gridò: «Questo vino, viene oppure no? Muovetevi, cialtroni d'inferno!» «Finalmente ti decidi», brontolò Laune. «Sono giorni che aspetto di sapere cosa stai architettando». L'uomo annuì, si passò una mano sul mento ben rasato e la fissò acuta-
mente. «Qualcuno dei miei uomini ha chiacchierato di quello che sai, con questa gente?» «Non credo. Cuhman non fa altro che prenderli da parte e ripetere che la nostra vita dipende dal saper tenere il segreto. Se gli Achelòs sapessero che siamo qui per la loro polvere magica, non uno di noi tornerebbe vivo a casa sua». Valdek ridacchiò un attimo. «Sevan sa benissimo che miravo alla polvere nera». «Cosa?» La ragazza s'alzò in piedi di scatto. Poi notò l'espressione dell'altro e si rimise a sedere, sbuffando. «Dovevo immaginarlo. E scommetto che sei stato tu a fargli quest'astuta confessione. Valdek l'onesto, il franco... Capisco. Vedo che sai aggiogare al tuo aratro anche i leoni». «Dici il vero, signora mia», fece lui, tornando serio. Attese che uno sguattero avesse deposto sul tavolo un'anforetta e due boccali, poi mesce il vino per entrambi. «Sevan Brelthur è di certo un leone, e potrebbe essere un magnifico nemico... ma preferisco averlo per amico. Tuttavia è molto ambizioso, e vuole che il suo nome rimanga scritto nei secoli. Mi spiego?» Laune bevve e riempì di nuovo il boccale. Come al solito Valdek non le si mostrava troppo amichevole, e non lo avrebbe fatto mai. Però, da guerriero autentico, spregiava le moine inutili anche quando era chiaro che voleva qualcosa da lei. Alla ragazza non importava assolutamente nulla d'essergli antipatica, finché era di modi diretti ed espliciti. Tutto si poteva dire del sumerico, salvo che fosse un ipocrita. Lo fissò dritto negli occhi. «Dunque la sua stessa ambizione è il manico che tu ti proponi di usare per manovrarlo. Ma lascia che indovini il tuo gioco, Valdek: al Re tu interessi solo per quel che puoi offrirgli, e la sola cosa che puoi offrirgli è l'impegno che tuo padre, il Triarca di Sumer, terrà chiusi gli occhi se Sevan Brelthur conquisterà terre a settentrione del Mare di Gondwana. È così?» «L'hai detto. Nient'altro può destare il suo interesse. Ed in cambio avrò le armi che gettano il fuoco, a migliaia di esemplari». «Però tu gli hai certo chiarito che dovrà tenersi nell'oriente, vale a dire che dovrà rivolgere le sue mire sulla grande penisola di Hyndos. A lui l'oriente ed a te l'occidente». Il sumerico fece una smorfia d'indifferenza. «È ovvio. I nostri patti sono chiari, e Sevan ha apprezzato la mia franchezza quando gli ho rivelato lo scopo del mio viaggio». «Ha apprezzato il fatto che tuo padre controlla tutta Ahrab», lo corresse
lei. «E quindi si tratta di un'alleanza militare? Bene, naturalmente tu sai quel che succederà, quando questi Achelòs scopriranno che schifo di terre hai rifilato loro. Hyndos è una distesa d'argilla e di deserti larga migliaia di leghe, a quanto ne so, e non l'acquisterei in blocco neppure se me la vendessero per cento piastre». «Può darsi. Un po' di terra buona c'è anche là, mi hanno detto. Ma questo non importa. Sevan ci metterà qualche anno prima d'accorgersene, e nel frattempo noi Sumerici avremo l'esercito più forte che si sia mai visto. Del resto al Re occorre una testa di ponte fuori dal Gondwana, ed io sono l'unico in grado d'offrirgliela su un piatto d'argento. Si accontenterà di quanto saprà ricavarne». «E la flotta? Questi Achelòs non hanno una flotta da guerra, e neppure navi attrezzate per portare un intero esercito oltre il mare». Valdek alzò le spalle. «Non pensare a questo. Sevan Brelthur non ha bisogno di una flotta. Per attraversare il mare ha... o meglio avrà ben presto, un sistema assai migliore. Non so dirti quale, perché io stesso non lo so con precisione, tuttavia stai certa che le sue armate andranno a settentrione senza che vi sia alcuna necessità di navi». «È mai possibile?» Laune trattenne a stento un sorriso di scherno, incredula. Ma intuiva che il sumerico non stava mentendo. «Niente navi... Qualcosa mi dice che dietro tutto ciò c'è quella donna, la maga Alybrea. Le hai parlato di persona? È stata lei a rivelarti che potrà far varcare ai soldati il Mare di Gondwana senza le navi?» «Credo d'averti sottovalutata», mormorò il Principe inarcando un sopracciglio. «Sì, lei ha molta parte in questo gioco. Ed ora veniamo a noi, o per meglio dire a te: c'è in ballo una faccenda molto delicata, d'importanza vitale, e di un tale genere che Sevan e Alybrea non possono fidarsi di nessuno che sia nato nel Gondwana, per condurla a termine. Essendo stranieri, e stretti da interessi comuni, noi siamo i soli che se ne possono occupare». Valdek fece una pausa per bere ed imprecò contro il caldo, poi spiegò: «Qui in Achelòs la situazione non è tranquilla come sembra. La gente comune è scontenta, si lamenta, ascolta i soliti uccelli del malaugurio che predicono sventure e disastri mai visti a memoria d'uomo. E il fatto che la Collana degli Atolli sia sprofondata, ha messo in corpo a tutti una paura dannata. Poi ci sono le altre quattro Nazioni, ovvero il Tall-Varna, Falheire, l'Aladjr e lo Yaya Dhuba, dove sono rimasti al potere dei governanti fantoccio che chinano il capo malvolentieri dinnanzi a Sevan Brelthur. Al
fianco di lui c'è Alybrea, che è molto temuta per i suoi poteri magici, ma so per certo che Sevan non farebbe paura a nessuno se quella donna non lo sostenesse». «Dunque è vero che è stata lei a vincere la guerra, nove anni fa!» esclamò Laune, meravigliata. «Sì. L'Achelòs è l'unica nazione a disporre di un esercito interamente armato con gli sparafiamma, e per di più agguerritissimo. Tuttavia mi è stato detto che in Falheire e nell'Aladjr vi sono uomini di tale tempra che, se non fosse per il timore ispirato dalla Stella Nera, insorgerebbero con furore. Il fuoco cova sotto la cenere ovunque, Alybrea è odiata da tutti, e perfino qui a Shorn Sevan non gode più del rispetto di un tempo, essendosi alleato con costei. Alybrea lo ha usato come uomo di paglia per vincere quella guerra, ed ora stai pur certa che a dare gli ordini è lei. Suo è ad esempio il progetto di conquistare terre a settentrione. Dico tutto questo per farti comprendere il quadro politico in cui ci muoveremo». «Parlami di questa missione», lo incitò lei. «Hai usato il termine esatto», approvò il sumerico. «Una missione. Non difficoltosa, però tanto delicata e segreta che io stesso ho udito Alybrea rifiutare l'idea di Sevan d'affidarla ai Dottori dell'Oscuro, che pure sono suoi alleati. La donna voleva incaricarne me, dapprima, ma io ne ho viste troppe per fidarmi a star lontano da due volponi simili per trenta o quaranta giorni. No, io starò appiccicato a loro, a curare i miei interessi. L'unica altra persona possibile sei tu. Porterai con te Cuhman e al massimo una decina dei miei soldati, tutti ai tuoi ordini. E stai sicura che la ricompensa sarà adeguata». «Perché Cuhman? Non ti fidi di me?» sbottò lei. «Mi prendi per un idiota?» ghignò Valdek. «Ho fiducia nella tua astuzia, nella tua abilità, nella tua mancanza di scrupoli e nella tua sete di soldi. Soltanto in questo. Finché ti lasci comprare, parli la mia stessa lingua. Ma non sarei contento d'averti alle mie spalle in un vicolo buio, chiaro? E ora la faccenda: dovrai partire verso sud-ovest al più presto, in cerca di una persona. Si tratta di una ragazza giovane, che fino a qualche giorno fa era nell'isola di Thielne ma ora è scomparsa. Tu hai l'incarico di rintracciarla e di condurla qui, al massimo in una trentina di giorni. A quanto ho capito, Alybrea è stata sul punto di catturarla, ma se l'è vista sfuggire dalle mani ed in seguito non è più stata capace di localizzarla. Non chiedermi perché la vuole. Non lo so. Più tardi ti farò vedere una carta della costa del TallVarna dove Si presume che si trovi, e ti darò altri particolari. Viaggerete
per via di terra, con carri e cavalli». «Ritrovare una ragazza?» Laune annuì. «Molto bene, Valdek. E adesso, prima che andiamo nel tuo alloggio a chiarire i dettagli della cosa e il mio compenso, parlami di quello che sai. Qui non c'è nessuno che origlia». Il sumerico si fece ironico. «Dì un po', per caso non starai pensando che io voglia fare un gioco troppo pericoloso?» «Poche chiacchiere, Principe: tu vuoi sapere perché la maga cerca quella ragazza, e se dietro tutto ciò c'è qualcosa che tu possa usare come arma contro di lei, all'occorrenza. Ti conosco. Voglio essere informata di tutti i tuoi sospetti, di tutto quel che sai a questo proposito, altrimenti né tu né io potremo giocar bene questa partita!» «Sai?» mormorò lui, osservandola. «Prima di conoscerti mi domandavo come mai, a una donna, fossero bastati pochi mesi per diventare famosa come il peggior pirata di tutti i mari. Ora lo capisco». Quella sera, al tramonto, un servitore informò Laune che avrebbe cenato in privato con Sua Maestà Sevan Brelthur e con Valdek, negli appartamenti reali. La bruna piratessa era stata alloggiata in una misera stanzetta presso le scuderie, di fronte alle camerate in cui dormivano le sguattere e i servi inquadrati nella complessa organizzazione della caserma, e nel rientrare trovò ad aspettarla un'elegante cameriera di Castel Trebus che le consegnò alcuni bellissimi vestiti e dei monili di splendida fattura. Ma anche dopo essersi lavata, profumata e addobbata come una ricca cortigiana, il suo umore rimase tetro. I motivi d'esser pessimista non le mancavano, ora che s'era accorta d'essere invischiata in avvenimenti di vasta portata. Aveva l'impressione d'essere stata attirata entro una ragnatela tessuta da ragni quantomai velenosi. Lei stessa stava filando la sua debole trama: il suo scopo era di restare viva per potersene un giorno andare da lì, possibilmente con una nave al suo comando per riprendere la sua vita libera e avventurosa, padrona di sé e del suo destino. Dover agire al servizio di altri la riempiva d'amarezza, di ostilità e di rabbia, e peggio ancora sentiva che qualcosa d'incomprensibile stava accadendo dentro di lei: dal momento in cui era giunta come naufraga sulla lontana costa di Junghad, quella terribile sete di battersi e di colpire gli inermi, di distruggere e saccheggiare, s'era placata e non la faceva più fremere come un tempo. A poco a poco la ragazza si sentiva divenire sempre più fredda e riflessiva, più incline a giudicare se stessa, e questo la spaventava, perché la sua identità le sembrava orribilmente spezzata in due. Allora doveva stringere con forza l'elsa del suo pugnale e rammentare
che se voleva vivere le restava una sola scelta: rabbia, astuzia, capacità d'uccidere e tensione continua. Il desiderio di poter condurre una vita normale, d'essere una donna come tante altre, di avere un uomo e dei figli, l'avrebbe uccisa così come l'acqua spegne la fiamma, lasciando solo cenere morta. Fu con queste riflessioni spiacevoli a farle compagnia che la ragazza terminò di pettinarsi e seguì la cameriera fuori dalla caserma. Lo spirito tuttavia le si risollevò quando mise piede nell'altissimo e turrito edificio riservato alla corte: qualcosa le faceva prevedere che quella sera si sarebbe giocata le sue carte migliori, e che per trarne il massimo vantaggio avrebbe dovuto esser sottile e pronta d'intuito. Sevan Brelthur aveva certo insistito per conoscerla di persona prima d'affidarle quel compito così importante, e la ragazza disse a se stessa che se Valdek avesse immaginato quanto le ronzava nella testa ciò non gli sarebbe affatto piaciuto. , Il salone da pranzo di Castel Trebus era d'una severa magnificenza che ben s'accordava con le tradizioni militari della Nazione di Achelòs, e ad adornarne le pareti, più che opere d'arte, c'erano stendardi ed arazzi di chiara ispirazione bellica. Il tavolo era quadrangolare ed occupava l'intero perimetro del locale, ma Laune fu sorpresa nel vedere che attorno ad esso sedevano almeno duecento commensali, per lo più Ufficiali dell'esercito con le loro dame, mentre s'era attesa ben altra accoglienza. Fu condotta da un cameriere impeccabilmente vestito al posto accanto a Valdek, e la prima cosa che gli domandò nell'accomodarsi fu: «Non doveva essere una cena intima, a tre?» «Sì. Più tardi ci riuniremo con Sevan in qualche saloncino privato», borbottò lui. «Ma l'etichetta esige che la cena sia data sontuosamente. A dire il vero queste esibizioni mi disturbano. Inoltre, sembra che Lei sia tornata stasera. Cenerà con il resto della corte». Laune notò che ben pochi dei presenti parlavano ad alta voce, ed avvertì nel salone un'atmosfera d'attesa piuttosto rigida. Non le dispiacque affatto: era curiosa di conoscere la donna che faceva tremare tutto il Gondwana con la sua sola presenza. Alla loro sinistra c'erano sette scranni liberi, che Valdek disse essere quelli del Re, della Regina sua moglie e dei quattro Principi del Sangue, oltre a una sorta di piccolo trono riservato ad Alybrea. Sul lato destro della tavolata sedevano dieci individui completamente calvi, vestiti di nero, che stavano impalati come statue e fissavano il vuoto con occhi inespressivi. Un Ufficiale della Guardia Reale seduto alla destra di Laune, un giovanotto cordiale ed espansivo, la informò che si trattava di
Dottori dell'Oscuro, strani Sacerdoti provenienti dallo Yaya Dhuba che Alybrea aveva disseminato nei punti nevralgici del continente, e che si diceva praticassero con efferatezza le arti occulte. Le risultarono odiosi a prima vista. Quando entrarono i membri della Famiglia Reale, tutti gli invitati s'alzarono rispettosamente in piedi, e Laune dovette sporgersi di lato per vedere che tipo fosse Sevan Brelthur. Non le risultò affatto simpatico: dimostrava circa cinquant'anni ed era corpulento, robusto, con una barbetta grigiastra e capelli tagliati corti per mascherarne l'incanutimento. Aveva una faccia larga che neppure il sorriso salvava dall'essere brutale, ed i suoi due figli maschi sembravano truculenti ed azzimati gaglioffi del peggior tipo che si poteva incontrare nelle taverne. Le femmine assomigliavano invece alla madre, bovine e sprizzanti alterigia. Nessuno di loro sedette, quasi che attendessero controvoglia un ospite del massimo riguardo, ed infatti pochi momenti dopo fece il suo ingresso una ragazza bruna al cui apparire l'intera sala parve congelarsi. E Laune sbarrò gli occhi, con la stessa espressione di Valdek e degli altri duecento commensali, perché Alybrea era vestita soltanto dei suoi lunghi capelli corvini. L'unico suono che si udì attorno alla tavolata fu l'ansito d'una cortigiana che s'afflosciò a terra svenuta. Ma nessuno si mosse per soccorrerla e pochi le fecero caso, perché lo sguardo dei presenti era fisso sulla giovane donna che stava raggiungendo il suo seggio con la massima tranquillità, nuda, scalza, ed impassibile al massimo grado. Sedette con un movimento aggraziato, e subito dopo nel locale vi fu il fruscio di duecento ricchi vestiti mentre tutti la imitavano rigidamente. Non una persona aveva osato aprir bocca, ma Sevan Brelthur aveva la faccia così rossa e gonfia che gli occhi sembravano sul punto di schizzargli dalle orbite. Senza girare il capo verso la ragazza bruna il Re fece un gesto, ed i camerieri cominciarono a darsi da fare con le portate. «Fa sempre così?» domando Laune a Valdek. «Va in giro tutta nuda?» L'altro rispose a mezza bocca, sottovoce. «Mi hanno riferito che quando è di buon'umore si diverte ad offendere la gente. Qui a Shorn la vista delle nudità e considerata offensiva, più che impudica». «Ti sbagli, straniero. È di pessimo umore, invece», intervenne l'Ufficiale della Guardia. «L'anno scorso, quando il mio reggimento era di stanza in Lahaina, si presentò a cena senza niente addosso come ora. Il Re le domandò se aveva proprio tanto caldo, forse per tentare un motto di spirito, ma fu uno sbaglio. Sapete cosa successe?»
Laune scosse il capo, interessata, e l'altro proseguì: «La Stella Nera non disse nulla, però scomparve... sapete, nel suo solito modo. Si dice che possa apparire e svanire per magia solo nelle immediate vicinanze di una delle sue statue. E appena si fu volatilizzata, nel salone cominciò ad arrivare la neve, una vera e propria bufera gelida. Fu un incantesimo terribile, così improvviso che nessuno ebbe tempo di reagire. Poco dopo la neve giunse all'altezza di quasi quattro braccia e seppellì tutti quanti, compreso Sua Maestà. Tre persone morirono assiderate, prima che i soccorritori riuscissero a sfondare le porte e a disseppellirci, scavando in quell'inferno bianco». «Allora questa sera vi sta mettendo alla prova», commentò la piratessa, riflettendo che nell'animo di quella ragazza bruna albergava il pericoloso germe della pazzia. L'idea la eccitava. «Auguriamoci che nessuno sia così idiota da provocarla», borbottò l'Ufficiale, annuendo. Laune non disse altro. Però, quando i commensali avevano già attaccato la prima portata e l'atmosfera sembrava essersi schiarita almeno di un tantino, scostò la sedia e si alzò in piedi. Poi balzò all'interno del vasto quadrilatero di tavoli, saltando agilmente i vassoi colmi di cibarie disposti sulla tovaglia. Valdek imprecò per lo stupore e l'Ufficiale, nell'intuire le sue intenzioni, emise una specie di gemito di raccapriccio; ma la bruna piratessa non fece loro caso e andò a fermarsi proprio di fronte ad Alybrea, che stava spilluzzicando svogliatamente un'ala di fagiano ben rosolata. «Salute a te!» esclamò, piazzandosi le mani sui fianchi. Alybrea alzò gli occhi, la guardò con faccia assolutamente priva d'espressione e depose il boccone nel piatto. Il silenzio calato nel salone in seguito all'iniziativa di Laune era qualcosa di più che una semplice assenza di rumori, perché sul volto della misteriosa e potente maga i presenti stavano ora leggendo l'addensarsi dell'ira, un sentimento che con tutta certezza avrebbe significato spavento e morte per qualcuno di loro. Ma Laune non diede alla ragazza il tempo di riflettere, e disse a voce altissima: «Dunque è così che stanno le cose? Tu ti presenti qui completamente vestita, mentre noi tutti siamo stati tanto pazzi da intervenire nudi a una cena nella casa del Re. È una situazione insopportabile, e bisogna porvi rimedio». «Che cosa...» rantolò Sevan Brelthur, alzandosi. «Ma che stai dicendo, sciagurata? Domanda subito scusa, prima che...» «Taci, Sevan!» Il sussurro di Alybrea si udì fino all'altro lato della sala.
«Lasciala parlare. Tu sei la forestiera venuta con i Sumerici, vero? M'incuriosisci. Quale straordinario demone si agita nel tuo corpo, per farti parlare così a me?» «Chiamiamolo il demone dell'improvvisa lucidità», rispose Laune, cominciando a spogliarsi anch'ella. «E suggerisco che tutti questi indecenti individui si vestano, perché la vista delle loro nudità è intollerabile. Questa gente ti sta offendendo!» Gli occhi glaciali di Alybrea si strinsero, diventando due fessure nere come la brace spenta, e per qualche interminabile momento non disse verbo. D'un tratto però quello sguardo stregato riprese vita, ardendo d'una luce che fece rabbrividire i commensali. «Nella tua follia c'è una logica che nessuno ha compreso, straniera. Hai ragione, infatti. E voi tutti... vestitevi! Vestitevi immediatamente, turpi e vergognosi sudditi d'un Re senza pudore. Coprite subito le vostre nefandezze, o pagherete il prezzo di questo scandalo. Vestitevi, ho detto!» Pochi secondi bastarono perché anche i più tardi di comprendonio afferrassero il significato di quell'ordine. Gli invitati, i membri della Famiglia Reale, i Dottori dell'Oscuro e lo stesso Re imitarono Laune, spogliandosi in tutta fretta. I camerieri di ambo i sessi ubbidirono con l'identica velocità, e qualcuno uscì dal salone per avvertire quanta più gente possibile che quella sera sarebbe stato poco prudente farsi vedere vestiti da Lei. Sempre ferma davanti ad Alybrea, Laune faticava a trattenere una risata. Aveva sentito dire che più volte, quando qualcuno aveva preso poco sul serio gli ordini della maga, la falce della morte era scesa sibilando a tagliar colli a destra e a sinistra, senza far distinzioni fra gli innocenti e i colpevoli. Il destino di quegli uomini era di vivere nella continua paura, ed ella provò un misto di divertimento e di disprezzo per loro. Gettando un'occhiata a Valdek lo vide livido in faccia, unico forse fra i presenti che temesse non per sé ma per i risultati delle sue manovre, in quanto il sumerico era come lei capace di ridere in faccia alla morte e di scherzare con essa. Sevan Brelthur invece, a giudicare dalla sua espressione era sul punto di soffocare per l'ira, perché vedeva la sua autorità ridicolizzata in pubblico. Il Re sapeva tuttavia bere la sua coppa di fiele con stoicismo, e la nudità non lo metteva certo in imbarazzo. Quando fu trascorso qualche momento Laune s'accorse che diversi Ufficiali stavano però sorridendo, come se intuissero che Alybrea provava un suo contorto compiacimento a quello sviluppo della situazione. L'umore della pericolosa ragazza s'era infatti rasserenato.
«Ed ora cosa devo farne di te?» domandò alla piratessa. «Sei stata molto ardita, forse troppo. E l'ardimento ha un prezzo». «I mortali pagano sempre un prezzo agli Dèi», rispose Laune. «Ma talvolta sono loro a domandare un premio. Concedimi di sedere al tuo fianco, Alybrea, e non ti chiederò altro». Prima che la ragazza rispondesse, la robusta bruna appoggiò le mani sul tavolo e si piegò in avanti, sussurrandole: «Inoltre soltanto io sono in grado di riconoscere e di portarti quella persona... colei che è l'esatto contrario di te. Dirò di più: io sola godo della sua fiducia, perché un giorno le salvai la vita». Alybrea s'irrigidì e le mise una mano sulla bocca per farla tacere. Senza voltare il capo fece un gesto secco, ed il minore dei figli del Re sloggiò dal suo posto, dileguandosi. «Sia come vuoi, straniera», disse. «Siediti. E voialtri mangiate e bevete, divertitevi. Sevan, sii gentile e fai entrare i musicanti, che suonino le mie canzoni preferite. Quest'orribile palazzo è così tetro e noioso di sera, se non c'è un po' di musica». Alybrea non pronunciò parola per tutta la durata della cena, ma Laune sapeva d'averla colpita con la sua ultima frase. Dal colloquio avuto quel pomeriggio con Valdek, nell'alloggio di lui, la piratessa aveva ricevuto un'informazione così inaspettata e stupefacente che ancora faticava a capacitarsene, ma che l'aveva riempita d'interesse nuovo: il sumerico, nel descrivere la ragazza di cui si cercavano le tracce, aveva potuto dirle solo ciò che lui stesso aveva saputo dal Re, e cioè che costei sicuramente parlava la lingua del Gondwana con accento diverso, dato che aveva abitato a lungo nel settentrione, che era una graziosa giovanetta bionda e... che aveva sul palmo della mano sinistra una macchia bianca a forma di stella! Per un poco Laune non aveva fatto altro che domandarsi cos'era quell'agitazione, quel lavorio della mente che l'immagine di una stella bianca su un palmo femminile aveva messo in moto dentro di lei. Ma allorché, di colpo, davanti ai suoi occhi era ricomparso il ricordo del volto di Babeeri, la sorpresa l'aveva quasi istupidita. Laune aveva praticamente dimenticato la delicata fanciulla incontrata per caso nelle Terra di Junghad, la bionda schiava che aveva salvato dai briganti pagando quel gesto con varie ferite e con la sua stessa cattura. E la strana macchia che aveva notato quella notte sulla sua anima calda di febbre le era svanita dalla memoria. Eppure non potevano esserci al mondo due persone con quelle caratteristiche e con
quel segno, s'era detta, perciò una sorte interessante e bizzarra stava facendo sì che lei e Babeeri fossero destinate a incontrarsi nuovamente. Questa notizia, più che il resto, l'aveva spinta ad accettare la missione propostale dal Principe sumerico, ma s'era ben guardata dal rivelargli quel che sapeva. Ora si domandava se le convenisse parlarne con Alybrea. Decise di sì. Al termine della cena la bruna maga dagli occhi folli le fece segno di seguirla fuori dal salone. Con un gesto secco e altero fermò Sevan Brelthur e Valdek, che s'erano subito messi alla loro costole, facendo capir loro che adesso desiderava avere un colloquio a tu per tu con Laune, quindi la precedette in un salottino appartato in fondo ad un lungo corridoio. Giunta qui comandò a una delle cameriere di portare loro due dei suoi mantelli ricamati in filo d'argento, e quando si furono rivestite cominciò ad interrogare Laune con voce fredda e tagliente. La piratessa dovette raccontarle per filo e per segno quel che era accaduto al Tempio di Eleuse, e rispose a un fuoco di fila di domande riguardanti la persona di Babeeri. Ne fu lieta, perché ciò le diede modo do sottolineare il fatto che la fanciulla, dovendole la vita, provava per lei gratitudine e amicizia, e soprattutto fiducia. Al termine del colloquio Laune aveva raggiunto con poca fatica due obiettivi preziosi: s'era proposta ad Alybrea come un'utile e fidata esecutrice di ordini, e nello stesso tempo aveva scavalcato Valdek riuscendo a entrare nelle grazie di colei che deteneva il potere. Adesso non aveva più bisogno d'essere nella manica del Principe sumerico, ed intendeva sfruttare a fondo quel vantaggio. A rafforzare la sua posizione completò quella manovra rivelando alla bruna ciò a cui Valdek mirava, le sue ambizioni e i suoi inganni, compreso il fatto che il continente di Hyndos era un obiettivo privo di qualsiasi valore per i soldati del Gondwana. A quelle notizie vide brillare gli occhi di Alybrea, e i modi di lei si fecero inaspettatamente più gentili. «Valdek ha detto che sei un'astuta avventuriera, quando ho proposto d'affidare a te la missione», disse infine. «Bene. Lascerò che quel sumerico pensi di potermi ingannare, finché mi sarà utile. Ma tu ubbidirai ai miei ordini d'ora in avanti. Diverrai un mio strumento, e se sarai saggia come ti sei mostrata stasera, confidandoti con me, non avrai a pentirtene». «Stai certa che ti porterò quella ragazza», promise Laune. «E ora vorrei chiederti altre cose su di lei, ma sarebbe opportuno che a questa discussione partecipassero anche Sevan Brelthur e il Principe Valdek. Vuoi che li chiami?»
Alybrea annuì seccamente, e Laune andò ad aprire la porta. Il Re e il sumerico erano in piedi nel corridoio, ancora del tutto nudi, e stavano confabulando fra loro con aria scontenta. Nel vedere che la piratessa era vestita compresero che per quella sera Alybrea l'aveva fatta finita con i suoi capricci, e prima d'entrare si fecero portare anch'essi dei larghi mantelli. Era evidente che quel colloquio privato li aveva contrariati, e che s'erano scambiati i loro sospetti su quello che poteva esserne stato il contenuto, ma fecero finta di nulla. Durante la discussione che seguì, Laune volle sapere i particolari dell'arrivo di Babeeri ed il motivo per cui Alybrea l'aveva perduta di vista, dopo lo sbarco della fanciulla su un'isoletta del Tall-Varna. La Stella Nera le riassunse l'avvenimento, dandole tutti gli indizi che avrebbero potuto esser necessari per il ritrovamento della sua bionda gemella. Da quel che disse risultò indubbio che le sue statue fossero straordinari strumenti tramite i quali era possibile vedere, ma da un suo accenno Laune capì che non era lei in persona ad usare quell'insolito sistema di sorveglianza, bensì i Dottori dell'Oscuro. Era stato appunto uno di costoro, sei giorni addietro, ad osservare l'arrivo di Babeeri e di un'altra straniera nel villaggio abbandonato sull'isola di Thielne. Laune prese atto dell'esistenza di quegli strumenti sovrumani con una certa dose di scetticismo. La riempivano di meraviglia, eppure rifiutava il pensiero che la magia potesse entrarci per qualche verso. Non aveva mai creduto nei dèmoni, nella stregoneria, nell'occultismo e neppure negli Dèi. Talvolta non credeva del tutto neanche a quel che le rivelavano i suoi stessi sensi. Ma ora non sapeva cosa pensare, e la sua mentalità pratica ne risultava disturbata. Anche Valdek ascoltava accigliato. Alybrea raccontò che lei non sapeva nulla sul modo in cui Babeeri era giunta là, e che non le sembrava d'aver scorto alcuna nave. Ma certo ve n'era una. Disse d'aver portato con sé un piccolo oggetto dotato della facoltà di trasportare chi lo teneva in mano in luoghi lontanissimi, in un solo istante, e d'aver cercato di usarlo per far sì che Babeeri venisse proiettata in una sala di Castel Trebus. Ma a subirne l'effetto era stata invece la sconosciuta che aveva viaggiato fin lì con lei. Sconfitta in questo suo tentativo, mentre la fanciulla fuggiva, Alybrea aveva subito fatto ritorno a Shorn per procurarsi un altro di quegli oggettini e ripetere l'impresa. Stavolta non era stato tanto semplice, perché la sua statua aveva subito un grave danno e la bruna era stata costretta a riapparire altrove, nel luogo più vicino all'isola dove ve n'era una simile e intatta. Da lì s'era recata in barca
a Thielne, accompagnata da alcuni Dottori dell'Oscuro e decisa a non fallire, ma quell'intervallo di tempo era evidentemente servito a Babeeri per dileguarsi, e neppure una vasta battuta eseguita sulla vicina costa del Tall-Varna era valsa a rintracciarla. La fanciulla era scomparsa. «E l'altra ragazza?» s'informò Laune. «Dove si trova?» Fu Sevan Brelthur a risponderle, in tono noncurante: «Quella è affogata. Ad attendere Babeeri, nel salone del castello dove avrebbe dovuto comparire, c'erano due guardie. Costoro hanno riferito d'aver visto l'arrivo di una donna, ma non hanno potuto agguantarla perché la stupida è scivolata in una delle grandi vasche che le cortigiane usano per nuotare. Prima che avessero il tempo di tirarla fuori, la corrente l'ha trascinata nello scarico. Doveva esser svenuta altrimenti non avrebbe fatto quella brutta fine, perché la corrente è debole e lo scarico è in alto, presso la superficie. Ma tanto peggio per lei. Fra qualche giorno ripescheremo il suo cadavere nel fiume, o in mare». «Ho capito», disse Laune. «Bene. La prima cosa da fare, adesso, è di avere notizie sui gruppi di ribelli che agiscono nel Tall-Varna. Se infatti la ragazza è approdata bisogna pensare al peggio, e cioè che qualche sovversivo le abbia offerto un nascondiglio sicuro». «Questo non deve accadere!» gridò Alybrea, mandando lampi dagli occhi. «Guai, se la gente sapesse che la Khoiné è vivai Sevan, voglio che la ragazza venga trovata prima che circoli la notizia della sua presenza. Lo esigo. Lo ordino! Avete capito?» Il Re le fece cenno di placarsi. «D'accordo, ma sai che i ribelli sono molti e che non è facile identificarli. Nei primi anni ne abbiamo giustiziati a migliaia, però adesso si sono fatti più furbi». «E allora bisogna superarli in astuzia», affermò Laune. «Uno dei loro capi lo abbiamo in mano: Yaan Lakhmar, che sa certamente molte cosa. Come mai non si è pensato a torturarlo un po'?» «A dire il vero, per questo Lakhmar abbiamo un altro progetto», borbottò il Re, lanciando un'occhiata nervosa ad Alybrea. «Comunque non è importante come puoi credere». «Dèmoni!» esclamò la piratessa». «Se ha cercato Babeeri per ben due anni, rischiando la vita cento volte, vuol dire che persegue scopi molto precisi. È di certo un capo dei ribelli, e nessuno meglio di lui può dirci quali sono i loro nascondigli». Alybrea esitò a lungo prima di rispondere. Infine annuì. «Va bene. Ma quell'uomo è un fanatico. Preferirà morire piuttosto che tradire i suoi compari. Come pensi di riuscire a farlo collaborare?»
«Mettetemelo su un tavolo da tortura», propose Laune, «e vedrete che saprò farlo cantare su tutte le note. Entro domattina ci dirà dove può essere Babeeri, se i ribelli del Tall-Varna l'hanno aiutata. Sarà Yaan Lakhmar a condurmi direttamente da lei, ve lo giuro!» LA SFERA DI CRISTALLO Quando Goccia di Fiamma era precipitata nella grande vasca rettangolare, lo sbalordimento l'aveva a tal punto istupidita che ci mise un po' a capire d'essere a mollo, attorniata da un nugolo di pescetti e con la bocca piena d'acqua. La chiuse, e girò uno sguardo assolutamente vacuo sulle pareti verdoline dove la luce giocava in mille riflessi. Mentre già cominciava a tornare a galla ebbe un solo pensiero lucido e cosciente, il primo da quando l'isola le era scomparsa da sotto ai piedi: cosa diavolo e maledizione le stava capitando? E ad esso ne seguì un secondo: dove, per tutte le potenze del cielo, era finita? Un'ultima immagine del vasto locale che stava sopra di lei le era però rimasta nella retina, ed era l'immagine di due tipi biancovestiti che avevano preso a correre nella sua direzione. La ragazza alzò gli occhi verso quel cielo d'onde tremolanti e vide i loro contorni fisici più vicini di quel che le sarebbe piaciuto, in attesa della sua emersione. Fra pochi istanti quattro mani robuste e decise l'avrebbero estratta dall'acqua a viva forza, impadronendosi di lei con intenzioni su cui non aveva nessuna voglia d'indagare. Girò la testa e scorse dietro di sé quello che sembrava uno scarico, chiuso da una sottile reticella per non far passare i pesci ed abbastanza largo da consentire l'uscita a chi volesse suicidarsi per quella via. Non stette a riflettere oltre: si puntellò con le mani alla parete e si spinse via trasversalmente, con tutta la forza che poté. I suoi piedi sfondarono la reticella con più facilità del previsto, seguiti da tutto il resto del corpo, e un momento dopo ella comprese d'aver fatto uno sbaglio spaventoso, perché sotto di lei ci fu soltanto il vuoto: l'acqua scrosciava in basso entro un pozzo verticale, così buio e profondo che le parve la gola del demonio stesso. Con uno scatto disperato Goccia artigliò le mani al bordo interno dello scarico, e lo sforzo di far presa su quel cornicione liscio le costò un singhiozzo d'agonia mentre una cascata d'acqua la accecava, soffocandola. Sbatté con tutto il corpo sulla parete, e per alcuni istanti d'incubo e di spavento ella concentrò tutta la sua forza e la sua voglia di vivere nella
punta delle dita, conscia che se ossa e tendini avessero ceduto, l'aspettava un volo terribile verso la morte. Poi il suo piede destro trovò un appoggio scivoloso, e si contorse per farvi presa. Urtò la faccia e le ginocchia contro delle sporgenze che la graffiarono, senza neppure sentire il dolore, ed infine riuscì a ficcare in un buco anche il sinistro. Soltanto allora poté girare il volto fuori dal liquido che le scrosciava sulla testa, e trasse un respiro simile a un rantolo. «Dèa, aiutami tu!» pensò, stordita. «Aiutami tu, o finirò come un topo in questa maledetta chiavica d'inferno!» Doveva spostarsi da lì, e presto, altrimenti il peso dell'acqua che le precipitava addosso l'avrebbe avuta vinta sulla sua fortuna, se poteva chiamarsi fortuna l'essere in una posizione tanto precaria. Guardando in basso non vide nient'altro che un gran buio, ma era un buio dove l'acqua cadeva a perpendicolo per non meno di trenta o quaranta braccia, a giudicare dal rumore. La scarsa luce che spioveva dallo scarico le permise tuttavia di notare che l'interno di quel pozzo era fatto in mattoni, e che molti di essi sporgevano dalla parete alla sua destra. Si trattava d'una scala, comprese con un fremito di sollievo, una rozza ma pur sempre ottima scala costruita da qualche capomastro che aveva previsto l'eventualità di dover mandare i suoi lavoranti a compiere riparazioni in quel budello. Radunò le forze e si spostò dalla sua posizione; poi ebbe due solidi mattoni sotto ai piedi e altri due fra le mani. Nel locale fastoso dov'era comparsa, risuonavano le voci di varie persone, che le giunsero confuse e lontane. L'intera situazione in cui si trovava le appariva ancora stupefacente ed irreale: pochi minuti prima era in compagnia di Babeeri, sotto la calda luce del sole e con di fronte a sé quell'improbabile creatura che s'era materializzata a minacciarla, ed ora stava lottando per la vita nella fognatura d'un luogo misterioso. C'era una logica, un significato, in avvenimenti così intrisi di terribile stregoneria? La ragazza rinunciò a pensarci e si tenne stretta ai suoi appigli finché le parve d'aver ritrovato un po' di forza. «La sferetta di vetro», mormorò a se stessa. «Cielo, che trucchetto fantastico!» L'oggetto le era sfuggito di mano, e forse adesso si trovava sul fondo di quella piscina insieme alla sua spada e allo scudo. Ed a Babeeri cos'era accaduto? Sola, senza nemmeno un barlume di speranza che Cobal Gavelord intervenisse in suo aiuto, la fanciulla doveva esser rimasta in preda della sua paranoica gemella e dei suoi poteri. Goccia mormorò un'imprecazione. Ricordava l'espressione delusa e irritata di Alybrea quando lei
aveva preso al volo la sferetta, e s'augurò che la bruna strega trovasse adesso qualche ostacolo alle sue manovre. Intanto era chiaro che a comparire in quel salone avrebbe dovuto essere Babeeri, e che ad attenderla erano state messe due guardie. Due guardie armate di strani tubi di un metallo simile all'ottone. Alzando gli occhi, l'Amazzone vide che il pozzo non era del tutto buio, sopra lo scarico. Ad intervalli d'una decina di braccia s'aprivano dei piccoli fori, certo comunicanti con qualche stanza da bagno, e dall'odore sentì che non pochi cessi scolavano nelle fogne per quella stessa via. I mattoni sotto le sue dita non erano sporchi di fanghiglia, dunque, ma incrostati di sterco. Prima ancora d'essersi chiarita quel concetto, Goccia aveva cominciato a salire energicamente, passando da un mattone all'altro e maledicendoli uno per uno come poco prima li aveva benedetti. Il pozzo era un luogo quantomai insano, e avrebbe dovuto combattere con lo schifo e la fatica per uscirne fuori al più presto. All'altezza dello scarico superiore si fermò. Era così stretto che avrebbe potuto infilarvi dentro appena un braccio, e dava in un minuscolo locale da bagno dove una cortigiana si stava lavando i piedi. Goccia s'arrampicò in fretta fino al successivo, rendendosi conto che si trovava all'interno di un palazzo enorme a molti piani. L'abbondanza d'acqua corrente che aveva trovato al suo arrivo poteva far supporre che il salone fosse situato al pianterreno, mentre più in alto dovevano esserci alloggi privati dotati di bagni molto meno capienti. E la logica avrebbe voluto che lei provasse a scendere, invece che a salire. Ma l'Amazzone era dotata d'un tipo di logica tutto suo, in base al quale presagiva che qualcuno sarebbe stato inviato nelle fognature alla ricerca del suo cadavere. Alla cintura le era rimasto saldamente fissato il fodero del pugnale, e di cadaveri ve ne sarebbe stato più d'uno, rifletté rabbiosamente, ma intendeva sceglier lei il posto ed il momento per una resa dei conti. L'ultimo di tutti gli scarichi, circa cento braccia più in alto, era angusto come i precedenti ma con una differenza che la ragazza notò con soddisfazione: la parete era costituita da un solo strato di mattoni allineati verticalmente, cosicché aveva appena lo spessore di un pollice. Si tenne salda ed estrasse il pugnale, cominciando a scavar via la calcina umida. Dopo qualche momento s'accorse che i mattoni si staccavano meglio colpendoli con una sola botta forte e secca, e ne buttò giù una decina che tonfarono rumorosamente sul fondo di una larga vasca marmorea. Con una contorsione uscì dal pozzo di scarico, pronta ad affrontare chiunque vi fosse nei
locali adiacenti a quel bagno. Ma dal silenzio che era seguito al suo arrivo comprese che quell'alloggio era deserto. Meglio così, si disse con una smorfia. Stava tremando di fatica, era bagnata e disgustosamente sporca, ma l'animava la ferrea decisione di vender cara la vita, la cieca voglia di battersi che nella mischia rendeva il suo corpo simile ad un'addestratissima e micidiale macchina per uccidere. Con un'occhiata osservò che il locale riservato ai lavacri personali di cui aveva rovinato una parete era molto lussuoso, segno che lì abitava un personaggio importante. Ne uscì svelta come un felino e attraversò due grandi stanze dai soffitti dipinti a scene floreali. C'erano armadi di legno pregiato e cassapanche intarsiate; dappertutto giacevano vesti da camera e asciugatoi di tessuto finissimo, insieme a vaschette di spugne colorate e vasi contenenti profumi e salì da bagno. Passò oltre e si trovò in una stanza da toeletta larga almeno venti passi, contenente tutto ciò che poteva servire ad una regina per la sua igiene intima e tappezzata di specchi d'argento lucido. Uscita da lì vide un corridoio, con cinque porte sulla destra ed altrettante finestre sul Iato sinistro. Si sporse da una di esse, e fu meravigliata nell'accorgersi che quell'appartamento era all'ultimo piano di una fortezza molto più alta di quanto aveva supposto. Sotto di lei la parete cadeva a perpendicolo per almeno centocinquanta braccia, e più in basso c'erano terrazze, mura merlate, giardini pensili pieni di fiori e vastissimi cortili pavimentati in mattoni. Quell'insieme di opere d'ingegneria sorgeva su una collinetta, e denotava enorme potenza e ricchezza. A destra si stendeva una città, anch'essa costruita in mattoni rossi e più vasta di quante ne avesse mai visto, e nel suo porto c'era una quantità di piccole barche da pesca. A sinistra Goccia scorse una catena d'alture brulle. Il corridoio in cui era penetrata era adorno di statue d'alabastro e lampade ad olio d'oro e di cristallo, pavimentato da un lungo tappeto di spessa seta. I suoi passi non causarono alcun rumore quando andò a sbirciare nelle camere da letto. Ce n'erano cinque, ciascuna degna di un sovrano e diversissime l'una dall'altra. Sbuffando d'impazienza corse avanti. L'alloggio era davvero vasto, e quando s'accorse che stava girando a destra per la terza volta capì che aveva percorso l'intero perimetro d'una poderosa torre quadrangolare. Probabilmente, rifletté, le scale si trovavano nella parte interna, che ancora non aveva esplorato. Tornò nel locale da bagno e si spogliò nuda; poi cercando di non far chiasso vuotò alcune anfore d'acqua di rose in una bacinella e si lavò da capo a piedi.
Gli armadi erano colmi di vesti femminili, così belle e preziose che una sola sarebbe bastata ad arricchire un uomo, ma le scartò senza rammarico perché le andavano tutte assai strette. Con sua sorpresa scoprì però biancheria intima d'un genere che le piacque, fatta d'un tessuto elastico e cedevole, e per la prima volta in vita sua indossò un paio di mutandine da cortigiana, ben diverse dal rustico indumento in uso fra le Amazzoni. Trovò anche degli assorbenti igienici fatti d'una sostanza ignota, sottili e leggeri, che le sarebbe piaciuto provare, ma in quei giorni non ne aveva alcuna necessità. Poi si distrasse ammirando una fantastica collezione di anelli e di bracciali, di cinture ingemmate e di collane. Su uno scaffale d'avorio sorretto da zanne di elefante costellate di zaffiri scoprì una dozzina di coroncine identiche a quella che ricordava d'aver visto sui capelli di Alybrea, e si accigliò. Che fosse capitata proprio nell'appartamento privato della strega? Un'ulteriore esplorazione la portò alla scoperta di molti mantelli intessuti d'argento, anch'essi più o meno uguali a quello che la bruna indossava sull'isola. Di nuovo tesa come una corda d'arco, la ragazza stabili che non le conveniva farsi trovare lì, quando la gemella di Babeeri fosse tornata. Doveva cancellare le tracce del suo passaggio e lasciare che quella gente la credesse precipitata nelle fognature. Poi avrebbe pensato al da farsi. Trovò una corta gonna e una blusa senza maniche, di tessuto pesante filigranato d'oro, e riuscì a farsele stare addosso sforzando al massimo le cuciture. Lavò poi i suoi stivaletti e la cintura col fodero, e terminò l'opera aggiustando e ripulendo alla meglio il muro del bagno. Prima di rimettere a posto i mattoni gettò il vestito vecchio nello scarico, nella speranza che il suo ritrovamento valesse a convincere le guardie che era morta nelle viscere di quel castello. Ora le si poneva il problema di filarsela da lì senza che nessuno la vedesse, cosa più facile a dirsi che a farsi. Non aveva dubbi che il luogo pullulasse di militi armati, a tutti i piani e specialmente intorno alle uscite. Fu mentre s'inoltrava nella semioscurità delle stanze interne, dove la luce non giungeva, che trovò la statua a grandezza naturale di un unicorno, e subito s'irrigidì. Il fantastico simulacro aveva qualcosa di minaccioso nell'atteggiamento, di oscuro e di magico, e negli occhi rossi come il rubino gli brillava una luce demoniaca che impressionò l'Amazzone. Sorgeva nel centro d'un locale spoglio dalle pareti di marmo nero, ed all'apparenza era scolpito in un sol blocco d'avorio bianchissimo. Almeno, al tatto ella ebbe l'impressione che fosse avorio, pur conscia che doveva
essere qualche altro materiale. Ne accarezzò la superficie levigata e tiepida, chiedendosi cosa stesse a significare e quale valore avesse per Alybrea. Che fosse un oggetto collegato ai suoi fantastici poteri? Decisa a saperne di più tornò indietro, prese una lampada ad olio e la portò accesa nella stanza di marmo. Dopo aver girato più volte intorno all'unicorno scoprì che la mandibola era fornita di un'articolazione. Tastando tutta la testa della statua sentì che uno degli orecchi cedeva come una leva, e lo mosse: subito la bocca dell'unicorno s'aprì, mettendo in mostra dieci sferette di cristallo allineate su altrettanti alveoli al posto dei denti. La ragazza fece quasi un salto indietro, nell'accorgersi che erano identiche a quella il cui potere l'aveva scaraventata via dall'isola. Non aveva il minimo desiderio di toccarle. Si limitò a constatare che due degli alveoli erano vuoti, segno chiaro che Alybrea aveva usato di recente un paio di esse e non le aveva ancora rimesse al loro posto. Nel locale aleggiava la presenza di una forza oscura che la metteva a disagio, ed ella comprese che si trovava di fronte a qualcosa di arcaico e al di fuori delle sue possibilità di comprensione. Quelle sfere erano frutto d'una sapienza che non s'accordava affatto col resto dell'appartamento e del palazzo, e neppure con la città che aveva visto dalla finestra. Goccia di Fiamma ne fu sicura: Alybrea sfruttava ed usava oggetti ben solidi e per nulla stregoneschi, come le sue statue e le sferette cristalline, e tali oggetti dovevano quindi esser stati costruiti da artigiani dotati di straordinaria sapienza. La ragazza non poteva averli fabbricati lei stessa, folle e superficiale com'era. Dunque in quelle terre esisteva o era esistito un popolo la cui dottrina sovrastava immensamente quella degli altri, un popolo di artisti e di sapienti quasi sovrumani nella loro conoscenza d'ogni mistero della natura. Per Goccia arrivare a questa conclusione fu cosa d'un momento, e l'idea la fece rabbrividire di gelida paura, perché se avesse voluto rischiare il tutto per tutto per salvare Babeeri dalla morsa che nel Gondwana le si chiudeva attorno avrebbe dovuto cimentarsi contro un nemico terribile, forse invincibile. E se anche fosse riuscita a ritrovare la fanciulla, fra lei e questo nemico non avrebbe potuto metter altro che il suo pugnale, un'arma rozza, assolutamente inutile contro quei poteri. Con un sospiro di sconforto l'Amazzone s'allontanò dalla statua dell'unicorno. Come tutte le donne della sua terra era stata abituata a cercare di ogni cosa la causa e l'effetto, badando al lato pratico e nella ferma convinzione che tutto aveva una spiegazione. La sua filosofia era tanto positiva che le consentiva d'esaminare la propria ignoranza obiettivamente, come
una semplice assenza d'istruzione circa le meraviglie della natura. Non credeva al magico, se non per scherzo, e si limitava a prender atto che il mondo era mosso da forze che l'uomo era lontanissimo dal poter indagare. E adesso si rendeva conto d'avere a che fare con gente che quelle forze aveva studiato e fatto proprie. Se la magia e la stregoneria la facevano ridere, la sapienza portata a livelli così alti la lasciava indifesa, disarmata e destinata alla sconfitta. Che ne sarebbe stato di lei e di Babeeri in quel paese sconosciuto? E Ombra di Lancia dov'era finita? Fu il pensiero della compagna a ridarle forza. Da oltre un anno non la vedeva, e spesso le s'inumidivano gli occhi quando la sua lontananza la faceva soffrire. Ma l'avrebbe ritrovata, si disse con rabbia. Nulla poteva spaventarla o distoglierla da quello scopo, e meno che mai la semplice idea di dover morire nel tentativo. Non aveva il minimo dubbio che l'avrebbe ritrovata viva, perché Ombra di Lancia era forte e astuta, prontissima di mente e capace di cavarsela in ogni situazione. Con questa riflessione a rinfrancarla, Goccia di Fiamma cercò l'uscita del grande appartamento. Come aveva previsto, proprio nel locale più interno c'era una porta, al di là della quale doveva esserci la tromba delle scale. Era un battente interamente fuso nel metallo, dai riflessi argentei e privo di maniglia, liscio e splendente come uno specchio. Ma aveva appena allungato una mano per toccarlo quando una violentissima scossa di dolore la scaraventò all'indietro, quasi che un fulmine silenzioso fosse d'improvviso scoccato sulle sue dita. L'Amazzone rotolò sul pavimento e giacque stordita, ansimando. Le forze le tornarono nello spazio di pochi momenti, e s'accorse di non essere ferita, tuttavia i peli dell'avambraccio le s'erano drizzati come spilli e si sentiva la mano intorpidita. «La maledetta ha messo delle trappole», gemette, rialzandosi. «Serpe d'inferno!... Dovevo immaginarlo». L'effetto che l'aveva colpita non era dissimile da quello prodotto da certe grosse anguille di palude, con le quali aveva avuto a che fare più d'una volta, con la sola differenza che nelle anguille era assai meno potente. E se proteggeva la porta dall'interno, non c'era da dubitare che avrebbe agito anche su chi avesse tentato di forzarla dall'esterno. La Stella Nera non voleva che altri venissero a curiosare fra le sue cose. Goccia si tenne lontana dal battente e cercò di capire in qual modo Alybrea poteva neutralizzare quella trappola, quando era lei a dover oltrepassare la porta, ma non riuscì a veder nulla che potesse darle un'idea. Al
centro della superficie metallica c'era una stellina nera, il suo simbolo, e nient'altro. Tornò allora nella stanza dell'unicorno e per un poco non fece altro che girare intorno alla candida statua, sperando in un'intuizione. Niente. Quel che riuscì a pensare fu solo che le sarebbe convenuto riempirsi le tasche di gioielli, prima di andarsene da lì. Mosse ancora l'orecchio dell'unicorno, ed osservò le sferette. Con cautela ne sfiorò una e la sentì liscia al tatto. Vedendo che non accadeva nulla di allarmante la prese e l'avvicinò alla lampada per esaminarla meglio. Sembrava divisa in due emisferi, e nell'interno c'era un nucleo di materiale scuro, forse metallico. Era chiaro che l'oggetto si poteva adoperare in un modo ben preciso, dato che Alybrea ne aveva usata una identica con l'intenzione di far comparire Babeeri in quel palazzo; ma se pure serviva a trasportare altrove in un baleno un corpo umano era necessario saperla manovrare. E come si doveva fare per prestabilire il luogo d'arrivo, la destinazione di quel viaggio istantaneo? Goccia di Fiamma se lo domandava ora con un fremito d'interesse, allettata dalla possibilità di far ritorno sull'isoletta. Tenne ferma con due dita la metà inferiore della piccola sfera e cercò di staccar via quella superiore, per vederne l'interno. Non riuscì neppure a smuoverla. Allora la girò, accorgendosi subito che i due emisferi ruotavano l'uno sull'altro. Ci fu uno scatto appena percettibile e dall'oggetto emerse un cilindretto del diametro d'una pagliuzza. Goccia lo premette di nuovo dentro. Era un pulsante, una cosa cioè del tutto estranea alla sua esperienza in fatto di marchingegni meccanici, ma anche spingendolo di nuovo entro la sfera ella non aveva provocato alcun effetto. Perplessa lo lasciò, e lo vide risbucare fuori. Tempo perso, mormorò fra sé, delusa. Si mise la sfera in tasca e fece ritorno nella stanza dove aveva visto i gioielli, con l'idea di farne un'utile provvista. Ce n'erano tanti che difficilmente Alybrea si sarebbe accorta subito del furto. Notò però un cofanetto, nel quale era deposto un anello il cui castone d'opale nero aveva la forma di una stella. Colta da un'intuizione se lo infilò a un dito e andò alla porta d'uscita. Poi, pian piano, avvicinò l'anello alla stella dipinta in mezzo al battente, che aveva dimensioni identiche a quelle del castone. Appena le due stelle nere furono in contatto, la porta si spalancò verso le scale, da sola e senza che la forza invisibile scoccasse a trafiggerla come in precedenza. L'Amazzone si guardò bene dall'uscire. Restò dove si trovava, tendendo le orecchie ai rumori che giungevano dal basso. Ai piani inferiori del
castello c'era troppa gente, almeno in quel momento. Tentare la fuga prima di notte sarebbe stato un azzardo, rifletté, e pazienza se ciò avrebbe significato il rischio d'esser sorpresa lì da Alybrea. La porta si richiuse molto lentamente e di sua iniziativa, cosa questa che Goccia osservò con malinconico interesse. Di nuovo si chiese chi poteva aver costruito e montato un macchinario tanto complesso e singolare. Forse i Dottori dell'Oscuro, quelli che la bruna aveva detto essere i suoi complici e protettori? La chiave comunque l'aveva trovata, e questo era già qualcosa. Ora avrebbe potuto uscire quando avesse voluto. Tolse di tasca la sfera di cristallo, dicendosi che sarebbe stato meglio rimetterla al suo posto. Quel minuscolo pulsante però la incuriosiva. Lo premette di nuovo, poi lo lasciò, e stavolta vide distintamente una fioca luminosità nascere nel nucleo. Un istante più tardi comprese che era riuscita a far funzionare l'oggetto, e la paura fu tale che fece l'atto di gettarlo via. Ma non ne ebbe il tempo: una vibrazione che sembrava nascere dalla sua mano la percorse da capo a piedi, i contorni della stanza si dissolsero, ed ella aprì la bocca in un grido che non ne uscì mai mentre una mano enorme la sollevava e la scaraventava di colpo nell'ignoto. La prima cosa di cui si rese conto fu il freddo intenso, e quando aprì gli occhi vide un biancore abbagliante che la circondava da ogni lato. Neve, pensò. Neve dovunque, gelida e profonda, ed un vento tanto freddo che i suoi capelli ancora umidi erano già diventati rigidi come ghiaccioli a contatto del collo. Affondava fino alle ginocchia nella coltre candida, e intorno a lei si levavano montagne dirupate che il ghiaccio rivestiva come una crosta, chiazzate di nero e grigio. In quell'immenso e sconfortante silenzio si udiva solo la voce del vento, e la ragazza rabbrividì con violenza, domandandosi ancora una volta dove fosse finita. Si ficcò la sferetta cristallina in una tasca della gonna e cercò di fare qualche passo, col solo risultato di sprofondare ancor più nella massa nevosa. Aveva le gambe e le braccia nude, e fino a qualche momento addietro ricordava d'aver sudato per il caldo. Adesso rischiava invece l'assideramento. «Che razza di dannata sfortuna», balbetto, battendo i denti. «Questo non è posto per te, Goccia, oh no!» Cominciò a muoversi faticosamente, conscia che doveva mantenersi attiva o perfino il sangue le sarebbe gelato nelle vene, e girò gli occhi su quel panorama. Il luogo in cui era apparsa era il crinale d'una montagna più bassa delle altre, e alla sua destra c'era un lunghissimo declivio che qualche lega più sotto terminava in una vallata. A sinistra invece il terreno
scendeva ripido e impraticabile. Una rupe grigia attrasse però la sua attenzione quando vide alla sua base le linee dritte d'una fortezza imponente, cinta di mura merlate e aggrappata con tutta la sua parte posteriore alla montagna. Anch'essa appariva mezzo sepolta dalla neve e distava da lì circa due leghe. Ce l'avrebbe fatta ad arrivare lassù prima che il freddo le paralizzasse le gambe? Forse sì, rifletté continuando a muoversi, se sul crinale correva una strada. La neve aveva infatti l'aspetto liscio e regolare, e pur essendo alta fino alle sue cosce non pareva nascondere ostacoli. Dunque era almeno presso una strada, pensò. Si volse nella direzione opposta e scorse numerose macchioline nere che dapprima non aveva notato: case di tronchi, non molto distanziate l'una dall'altra e piccole, ciascuna fornita del suo esile pennacchio di fumo scuro che il vento spazzava instancabile di lato. Erano più vicine della fortezza, e per di più situate a un'altitudine inferiore, Stringendosi le braccia al petto, e desiderando più d'ogni altra cosa una coperta, la ragazza cercò d'affrettarsi in quella direzione. Fra le case non si vedeva alcun movimento, e ben presto Goccia di Fiamma ne capì il motivo: il minuscolo e sperduto paese sorgeva su un passo montano leggermente incavato, e la neve era più alta là che altrove. Alcune di quelle abitazioni erano sepolte fin quasi all'altezza del tetto. Come potevano degli esseri umani vivere in un posto simile? E di cosa campavano? A lei risultava d'essere in piena estate, e sempreché nel Gondwana le stagioni non fossero stravolte rispetto al resto del mondo, lì l'inverno doveva essere qualcosa di ancora peggiore. Annaspando nella neve alzò gli occhi al cielo, e calcolò che mancava appena mezza clessidra al tramonto. Adesso stava soffrendo e sentiva d'avere i piedi rigidi come sassi. Non mangiava da quel mattino, da prima cioè di sbarcare dal dragocarro per esplorare l'isola insieme a Babeeri, e gli avvenimenti accaduti in seguito l'avevano stancata molto. Nella morsa del freddo, la sfinitezza fisica che aveva accumulato si trasformò presto in torpore ed i suoi passi si fecero lenti, dolorosi. Presso le case gli abitanti avevano scavato dei profondi camminamenti, simili a corridoi dalle pareti di neve, ed ella barcollò avanti lungo il primo che trovò su un terreno composto da ciottoli e fanghiglia. Bussò ad una robusta porta d'assi piallate, scivolosa per l'umidità e il ghiaccio, e si alitò il fiato sulle mani. Quando rialzò gli occhi il battente si stava già aprendo. Un uomo barbuto, vestito di panni spessi e rustici, la osservò con stupore e poi la prese per un braccio facendola entrare.
«Che gli Dèi ci assistano... una ragazza mezza nuda!» esclamò «Vieni dentro, e fammi chiudere la porta. Mahery, ravviva il fuoco e prendi una coperta, presto!» Goccia balbettò un ringraziamento e si lasciò condurre presso il caminetto acceso, anelando la vicinanza delle braci calde. Nel locale, l'unico di cui era composta la casa, c'erano due bambinetti cenciosi e spettinati, una giovane donna altrettanto malmessa, ed una quantità di roba accatastata. L'arredamento era dei più umili, tipico dei montanari rassegnati alla loro vita semplice, ma in quella casetta c'erano calore e umanità. La ragazza sedette su un panchetto e si chinò verso i ceppi, massaggiandosi le braccia per riattivare la circolazione, ed intanto due mani le drappeggiarono una coperta sulle spalle. «Grazie», mormorò, tentando un sorriso verso la montanara. «Va già meglio». La donna aveva un volto pallido e smunto, dagli occhi cerchiati, e dimostrava circa trent'anni. Si limitò ad annuire con aria schiva. L'individuo che le aveva aperto s'era inginocchiato accanto a lei e smuoveva le braci con un ramo. Ridacchiò, fissandola con evidente curiosità. «Un freddo boia, eh? Come ti senti, hai i geloni?» «Non so cosa siano. Dalle mie parti la neve è sconosciuta». L'Amazzone era conscia che la sua comparsa in quel borgo destava meraviglia e interesse, ma apprezzò il fatto che quella gente si mostrasse innanzitutto ospitale invece di seppellirla di domande. I due bambini, una femminuccia di circa cinque anni e un maschio sui nove, la osservavano ad occhi spalancati, seduti su un mucchio di pelli a lato del camino. «Ne è caduta un bel po'», disse. «Avete avuto una bufera?» I due adulti non risposero subito. Per un motivo che non comprese, la loro cordialità era svanita. Ad un tratto la donna, Mahery, emise un ansito e fece qualche passo indietro. «Lojk... guarda! Viene dal Trendig!» gridò, puntando un dito verso di lei. Tremava di paura. Anche l'uomo indietreggiò, facendosi bianco in faccia come se avesse visto uno spettro, e la fissò ad occhi sbarrati. «Una serva della strega!» esclamò. «Oh, Dèi! Una serpe del Trendig in casa mia!» Goccia di Fiamma era rimasta a bocca aperta, e ci mise un po' a capire che i suoi ospiti avevano notavo l'anello con la stella nera. La sola vista di quell'emblema li aveva terrorizzati. L'uomo, Lojk, fece due passi di lato e allungò una mano verso un coltellaccio appeso a una parete, mentre il suo
spavento si trasformava in subitanea e rabbiosa decisione. «No!» protestò l'Amazzone, senza accennare ad estrarre la propria arma. «Per favore, no. Calmatevi. Sono vostra amica. Non vengo dal Trendig, dovunque sia questo posto. Vi chiedo solo ospitalità». La moglie del montanaro s'era precipitata ad abbracciare i bambini come se temesse per loro, e sul suo viso si leggevano la paura e l'ira dell'animale selvatico che vede minacciata la propria tana. «Sei una creatura di Yaya Dhuba! Vattene... Cosa vuoi da noi? Vattene, torna dai tuoi. Noi non vogliamo aver nulla a che fare coi servi della Stella Nera!» gridò ancora, con voce rotta. Gli occhi di Goccia erano però rimasti fissi in quelli dell'uomo, la cui mano era ferma a pochi millimetri dal coltello affilato. «Non prendere quell'arma, Lojk», lo esortò. «Sono entrata per chiedervi aiuto, e fuori di qui c'è solo morte per me. Voglio esservi amica». «Amica? Una donna che porta quello al dito?» L'altro fece un gesto vibrante di furia e di odio in direzione del suo anello. «Questo l'ho rubato, Non è mio, credetemi». Goccia li guardò entrambi. «L'ho rubato in un nascondiglio di quella donna, Alybrea. È di lei che avete timore, non è vero?» «Di lei, e di tutti i suoi servi dal capo raso che abitano nel Forte di Trendig!» ringhiò Lojk. «E tu vieni di là. Non puoi venire altro che di là!» «È una strega anche lei», gemette Mahery. «Vai a chiamare Gileon, che la cacci via. Questa donna porta con sé il malefizio!» «Non so nulla di malefizi». Goccia di sfilò l'anello dal dito e lo depose a terra, presso il montante del caminetto. «Vi prego di credermi, brava gente: io non sono affatto un'amica di Alybrea, anzi è il contrario. E non vengo da quella grande fortezza. Mi sono perduta fra la neve, e non so neppure dove mi trovo. Fino a qualche clessidra fa ero... bé, molto lontano da qui. Ve lo giuro». Lojk era rigido, però riabbassò la mano. «Solo una creatura del male porterebbe quel simbolo al dito», la accusò. «Te l'ho detto, l'ho rubato. Perché dovrei mentirti? Ma se la sua vista ti disturba puoi gettarlo fuori, così sarai più tranquillo». «Non lo toccherei neanche con la cima d'un bastone», sbottò lui. «Che cosa vuoi da noi? Perché sei venuta qui a Passo Hollar?» «Stavo congelando, e questo era il posto più vicino». La ragazza allargò le mani con gesto amichevole e riuscì a sorridere. «Tutto qui. Vi giuro sulla mia vita che non ho niente da spartire con Alybrea e coi suoi alleati».
«Non nominare quel nome, in casa mia», borbottò l'altro, rabbonito. S'accostò alla moglie e le poggiò una mano su una spalla, per rassicurarla, senza togliere gli occhi di dosso all'Amazzone. «Ma dici bene: perché dovresti mentire a dei miserabili come noi, da cui non puoi cavar niente di utile? Parlerai con Gileon, lui saprà cosa fare». Goccia di Fiamma annuì, poi si presentò. Solo allora notò che il fagotto di cenci a sinistra del focolare era un essere umano, una vecchia incartapecorita il cui volto era quasi del tutto nascosto da un cappuccio, probabilmente mezza sorda e cieca. Tornò a voltarsi verso la moglie del montanaro e stese le mani verso le braci ardenti. Poi fece un largo sorriso ai bambini, che la fissavano imbambolati, per nulla influenzati dai sentimenti allarmanti dei genitori. La femminuccia era molto graziosa. «Salve, tesoro», disse. «Chi te li ha dati quegli occhioni blu?» S'inginocchiò, ed ignorando il moto di ripulsa della madre allungò una mano a farle una carezza. «Ma che bella bambolona bruna sei! Come ti chiami? Oh, ... non vuoi dirmelo? Un uccellino ti ha rubato la lingua?» Lojk stava in piedi al suo fianco e teneva gli occhi abbassati su di lei con espressione indecifrabile. A bella posta Goccia gli volse le spalle, per dimostrargli che non intendeva temere nulla da lui, e con un dito accarezzò il mento tenero della bambinetta. Poi scarruffò i capelli scuri del fratello, chiedendo il nome anche a lui e facendogli qualche complimento. Erano le solite frasi banali e rassicuranti che si dicono per ingraziarsi i ragazzini, ma all'Amazzone i bambini di quell'età piacevano molto. Le braccia della madre li stavano ancora circondando entrambi. «Io mi chiamo Cayle», le rivelò infine il maschio, timidamente. Goccia gli fece l'occhiolino, poi si volse all'uomo. «Bene, Lojk sarò felice di parlare con questo Gileon. È il capo del villaggio? Racconterò a lui chi sono e da dove vengo. Se vuoi; puoi chiamarlo». L'altro fece cenno di sì, ma restò dov'era. Con un brusco cenno del capo incitò la moglie a rialzarsi e le disse di riempire una ciotola di latte per l'ospite. Goccia prese le mani della bambina fra le sue e le rivolse una buffa smorfia di finta serietà. «Sai», disse, «se mi dirai il tuo nome, io lo scriverò sulle ali di una farfalla e lo porterò alla regina delle Fate, che si chiama Nivea Lulubel ed è una mia grandissima amica. Così, quando sarai più grande, ti verrà dato il permesso di volare fino ai giardini di zucchero di Eldorèt, che sono sulla cima di una nuvola incantata». La piccola sbatté le palpebre, impressionata. «E tu sei davvero sua ami-
ca?» si decise a mormorare, esitante. Goccia cominciò a spiegarle come stavano le cose fra lei e Nivea Lulubel, la Regina di tutte le Fate, dove l'aveva conosciuta, ed in quali straordinarie circostanze s'erano giurate eterna amicizia. Con la coda dell'occhio vide che la vecchia la osservava con uno sguardo quasi spento di vita, come se si considerasse ormai distaccata dagli eventi e già oltre la soglia che separa il mondo dall'aldilà. Mahery mise sul tavolo un pentolino di rame battuto e una pagnotta, girando al largo dall'anello con attenzione e ribrezzo. Tanto lei che il marito s'erano fatti silenziosi. «Se hai fame, puoi sederti», disse Lojk in un borbottio. L'Amazzone guardò la donna, ma lei distolse gli occhi. Allora non si mosse, anche perché il ragazzino e sua sorella le stavano esaminando con molto interesse la filigrana d'oro e gli eleganti ricami del vestito. Aveva raccontato loro che si trattava di un indumento magico, ed il suo splendore li aveva affascinati. «Accetta il nostro cibo, ti prego», la invitò Mahery dopo qualche istante. «Te lo offriamo di cuore». Goccia di Fiamma sorrise e andò a sedersi su una seggiola impagliata. Prima di toccare il pane e il latte, però, domandò al montanaro se avessero fatto un raccolto di qualche genere, e se possedessero animali da stalla e scorte di foraggio. Lojk s'accigliò subito, riferendole che gli animali c'erano, in una stalla comune, ma non mangiavano nulla da dieci giorni. La nevicata era stata improvvisa e li aveva colti senza scorte di alcun genere, seppellendo orti e campi. Il paese se la stava vedendo brutta, e nella tormenta era andato perso un intero gregge di pecore. «Ma non è strano che abbia nevicato in questo periodo dell'anno?» volle sapere lei. Lojk fece una smorfia dura. «Strano? Vuoi dire che non lo sai? O credi forse che sia normale vedere la neve a mezza estate, qui a Passo Hollar? A chiamare il gelo sono stati gli alleati della strega, quei diavoli di Yaya Dhuba che sono venuti a rintanarsi nel Forte di Trendig nove anni fa. Loro hanno fatto questa stregoneria... Hanno seppellito l'intera Falheire sotto la neve, per punirci, per sterminarci, quei cani rabbiosi del demonio!» Dalle parole secche e irose del montanaro Goccia ebbe la conferma che Passo Hollar si trovava in una situazione altamente drammatica, perché il poco cibo che avevano si stava esaurendo e il gelo aveva distrutto i raccolti già maturi. Ricordava lo straordinario effetto provocato da Alybrea sull'i-
sola, e non ebbe difficoltà a credere che la grande tormenta abbattutasi sulla Nazione di Falheire era stata creata ad arte, con mezzi ignoti, da lei stessa o dai Dottori dell'Oscuro. Lojk asserì che quello era il loro modo di somministrare le punizioni, e disse che s'erano comportati così spietatamente già altre volte. «A Ellady, la Capitale, può esser successa qualunque cosa: la scoperta di un gruppo di ribelli, un ordine della strega disobbedito, un Dottore dell'Oscuro preso a sassate in un vicolo. Non lo so. Forse la Principessa Yanora ha dimenticato d'inchinarsi fino a terra, mentre passava davanti a una di quelle maledette statue nere... Basta un niente, e i servi di quella creatura del male la chiamano per farci punire. Ellady è di certo sepolta sotto la neve, e purtroppo laggiù in pianura non sono abituati al freddo come noi». «Dunque il vostro cibo sta finendo», mormorò lei, evitando di toccare quello che aveva davanti. «Razionandolo, ne avremo abbastanza per cinque o sei giorni. In questa stagione non abbiamo scorte, e se pure sopravviveremo ci aspetta un inverno durissimo. Due di noi sono andati a domandare aiuto. Speriamo che siano almeno arrivati vivi in pianura». L'uomo andava avanti e indietro per lo stanzone, scuotendo il capo con aria abbattuta. «Una volta noi tutti adoravamo gli Dèi Senza Nome, che abitano nella terra al di là della vita. Ora non abbiamo intorno che il male e la dannazione. Maledetto sia il giorno in cui la Stella Nera ha visto la luce! La morte e il terrore sono scesi su Falheire come un drappo funebre, e tutto il Gondwana è condannato alla perdizione!» «Taci, Lojk!» gemette la moglie, stringendogli un braccio. Goccia di Fiamma stava per domandare altri particolari quando sentì una manina posarsi timida su una delle sue, e si voltò. La bambina era venuta presso il tavolo e la guardava con aria grave. «Io mi chiamo Babeeri, lo sai?» le confidò finalmente. «Ma davvero?» L'Amazzone sentì un'involontaria risata salirle in gola. Prese in braccio la piccola e se la mise a sedere sulle ginocchia, sorridendo. «È interessante!» esclamò. «Adesso lo sai cosa faremo, noi due? Prima di tutto, quando questa brutta neve se ne sarà andata, ti regalerò un bel vestito tutto di seta e di pizzo bianco, e poi andremo dalla fata che abita nel ruscello più vicino e le ordinerò di fare un incantesimo sul tuo nome». «Sulle ali di una farfalla?». «Certo. Così diventerà un nome fatato. Va bene?». Si volse alla donna.
«Babeeri dev'essere un nome molto comune nel Gondwana. Ne conosco una anch'io». Mahery annuì, volgendosi poi a guardare qualcosa in fondo al locale, e Goccia s'accorse che appeso alla parete c'era un pezzo di corteccia con sopra dipinta una stella d'oro. All'istante comprese perché la piccola si chiamava così: la stellina dorata della Khoiné doveva essere un simbolo sacro per loro, tanto venerata quanto quella nera era detestata. E certo tutti dovevano essere a conoscenza della scomparsa della piccola Babeeri, avvenuta quando i soldati di Achelòs avevano occupato la città di Lahaina, nove anni addietro. Inzuppò il pane nel latte e cominciò ad imboccare la bambina. Lojk e Mahery notarono che evitava di mangiare un solo boccone, ma non fecero commenti. Da lì a poco all'esterno si udirono avvicinarsi voci confuse e passi. La porta si spalancò rumorosamente e un individuo barbuto e robusto, intabarrato in una folta pelliccia, fece il suo ingresso. Un secondo montanaro, più basso ma d'aspetto altrettanto duro, lo seguì e richiuse la porta per tener fuori il vento. Goccia di Fiamma depose a terra la piccola Babeeri e si alzò subito, intuendo nei nuovi venuti una violenta ostilità. «Hanno visto qualcuno venir giù dal Forte di Trendig», disse il più alto, parlando a Lojk ma fissando l'Amazzone. «È questa donna!». «Ha detto che non viene di là», rispose Lojk, conciliante. «Menzogna!» sbottò l'uomo, con ferocia. «Le sue impronte scendono dritte lungo la strada. Costei è uscita dal Forte!». L'Amazzone sostenne senza fare una piega lo sguardo dell'uomo. Era armato d'un pugnale e ne stringeva l'elsa minacciosamente, pronto ad estrarlo dal fodero, ma lei finse di non farci caso anche quando se lo vide venire di fronte. Lojk tuttavia l'aveva seguito, e gli bloccò il polso afferrandoglielo con decisione. «Non è come pensi, Gileon, calmati!» esclamò. «Ha giurato di non essere in combutta con quei serpenti, e io le credo». «Giurato!». Gli occhi irosi del montanaro restarono fissi in quelli della ragazza. «Costei è una straniera. Guardala: non vi sono in tutta Falheire donne così alte e con simili lineamenti. Come puoi fidarti di un suo giuramento?». La ragazza seguitò ad ignorare il coltello di Gileon, che sembrava andar dentro e fuori dal fodero come seguendo gli impulsi della sua mente. «È vero», ammise. «Nel Gondwana io sono una straniera. Vengo dal settentrione, da oltre il mare. Laggiù ho conosciuto una ragazza nata qui, e l'ho
riaccompagnata nella sua terra». «Stai mentendo», affermò Gileon. «Nessuno può sbarcare sulla costa del Gondwana. Non senza passare nel canale del nord che è sorvegliato dai soldati del traditore, almeno. E se tu sei venuta di là, vuol dire che sei in combutta con gli sciacalli di Achelòs!». Goccia gli fece cenno di placarsi, e scosse il capo. «Ma niente affatto, signor mio. La Collana degli Atolli è sprofondata nel mare, e ora per una nave è possibile prender terra ovunque con facilità. Io sono sbarcata su un'isola presso la costa del Tall-Varna». «Dice il vero», rincarò Lojk. «Sai anche tu che la Collana si è in parte inabissata. A Ellady lo raccontavano già il mese scorso». Gileon non replicò, mentre Goccia dal canto suo si stava domandando se non fosse il caso di rivelargli in poche frasi l'intera storia del suo viaggio. Se quella gente osteggiava Alybrea, sentire il resoconto di avvenimenti di cui era protagonista Babeeri li avrebbe certo interessati e resi più amichevoli. Questo, ovviamente, a patto che avessero l'animo disposto a crederle. «Però parli la nostra lingua», constatò Gileon, sospettoso. «Le antiche storie dicono che oltre il Mare di Gondwana la gente si esprime con linguaggi incomprensibili». «Parlo sumerico», spiegò lei. «Non è la mia lingua, ma ne conosco tre o quattro piuttosto bene. Per un motivo che ignoro, la vostra è la stessa che si parla in un paio di nazioni del settentrione. Comunque, prima del mio arrivo io non sapevo neppure l'esistenza della Stella Nera che tanto odiate. E ti giuro che, sebbene io sia scesa lungo la strada, non ho mai visto quel Forte da meno di due leghe di distanza». Gileon fece una smorfia incredula. Prima però che potesse ribattere si sentì bussare alla porta, e qualcuno che stava all'esterno la aprì per far passare un vecchio. L'uomo che aveva seguito Gileon richiuse ancora e s'affrettò a sostenere il vegliardo, che camminava appoggiandosi ad un bastone e ansimava. Sembrava assai agitato. «Il Testimone!» esclamò Mahery, correndo ad aiutarlo anch'ella. Il nuovo venuto la scostò, avanzando verso il caminetto, poi mosse il bastone con fare eccitato e tremante. «Lì a terra... I miei occhi ciechi non possono vederlo, ma c'è un oggetto che appartiene alla strega», disse. «L'anello, infatti», lo informò Lojk. «Lasciatelo stare!». Il bastone dell'uomo si alzò, fermando Gileon e l'altro montanaro che s'erano subito fatti avanti per esaminare il gioiello. «Lasciatelo lì. Non è per questo che sono venuto. Io ho sentito che nel
paese è arrivata una straniera. Una straniera i cui pensieri mi hanno detto...». Il vecchio s'interruppe, girandosi verso Goccia di Fiamma e fissandola con orbite vuote e raggrinzite. Nessuno poteva averlo informato che al di là del tavolo stava in piedi un'estranea, ma egli dava l'impressione di vederla benissimo. E sul suo volto grinzoso si leggeva una tale emozione che i presenti, notandola, s'azzittirono del tutto. «Chi sei? Chi sei, tu che hai visto la fanciulla che si credeva perduta? Dillo... Nella tua mente io scorgo l'immagine del suo volto benedetto!». Ansimò, vacillando, e dovette appoggiarsi al tavolo mentre Mahery lo sorreggeva per un braccio. «Io scorgo il volto di lei dentro di te... un volto che io stesso vidi in Lahaina quindici anni or sono. Ma ora è quello d'una fanciulla. È viva! È diventata donna!». «Ma che dici, Odemish», sussurrò Gileon, pallido. «Tu vaneggi». «Sì, vaneggio», balbettò il vegliardo. D'un tratto le lacrime presero a sgorgargli dagli occhi ciechi. «Vaneggio per la gioia, perché vedo ciò che voi non potete vedere. Sciocchi, voi non sapete quanto siete fortunati. Lei... la bambina, la figlia di colei che fu uccisa dal traditore... Oh, Dèi! La piccola Khoiné è tornata, è tornata, capite? La Stella d'Oro è di nuovo nella terra dei suoi avi, ed è viva!». «La Khoiné!» sussurrò Mahery, in tono di adorazione. «Vuoi dire... la piccola Babeeri? Non è possibile!» gridò Gileon, afferrando il Testimone per le spalle. «Tu stai sognando, Odemish. La fame ti dà le allucinazioni». «Taci Gileon». Il vecchio lo fece scostare e prese a muoversi a tentoni intorno al tavolo, verso Goccia. «Taci. Io ho avvertito la comparsa di questa donna, quando camminava nel freddo diretta alle nostre case, e intanto sentivo nei suoi pensieri la presenza di colei che è nel cuore di tutti noi. Ed è stata lei a ricondurla qui. Tu, straniera, dillo... Tu hai riportato fra noi la Stella d'Oro. È così?». Le ruvide mani del Testimone stavano sfiorando il volto dell'Amazzone, che lo fissava stupita, e ne percorrevano i lineamenti come per imprimersene l'immagine nei polpastrelli tremanti. Gli scesero attorno alle braccia e gliele strinsero con forza insospettata. «Sì, Babeeri è tornata nel Gondwana con me», disse lei, sottovoce. «La tua strana vista non ti ha ingannato, Odemish». Nella misera casupola di montagna ci furono alcuni momenti di completo silenzio. Gileon, Lojk e l'altro uomo avevano l'espressione vacua, quasi
che faticassero a capire. Poi risuonò un grido, e Mahery si gettò con un grido ai piedi dell'Amazzone, abbracciandole le gambe e singhiozzando parole prive di senso. Goccia di Fiamma dovette prenderla e tirarla in piedi a viva forza, imbarazzata. La costrinse a sedersi, poi si volse verso gli altri e vide i loro volti barbuti cominciare ad illuminarsi lentamente di sorrisi increduli. D'un tratto nella stanza ci furono molte altre persone, che dovevano esser state fuori dalla porta fin'allora e adesso entravano l'una dietro l'altra, spingendosi e parlando confusamente. Le voci s'intrecciarono, crebbero di volume; le facce arrossate dal freddo sembravano deformarsi in espressioni di gioia e qualcuno gridava per l'entusiasmo. Poi tutti presero ad abbracciarsi fra loro, e Goccia di Fiamma si trovò mezza sepolta sotto le pellicce di quanti s'accalcavano per arrivare a stringerla, a darle pacche sulle spalle, a baciarle le mani in modo commovente, o a cercare di parlarle per farsi confermare la notizia dalla sua viva voce. Il villaggio intero sembrava essersi riunito attorno alla casa di Lojk. Fuori era sceso il tramonto. La ragazza dovette raccontare le sue peripezie e parlare di Babeeri fino a notte inoltrata, davanti a un pubblico silenzioso ed attento, e quando rivelò loro in quali circostanze aveva lasciato la fanciulla si levarono commenti e preghiere diretti agli Dèi. Ma la notizia che Babeeri stava già subendo le insidie di Alybrea non abbatté nessuno, perché quella gente semplice era certa che il bene avrebbe inevitabilmente trionfato sul male. Era solo questione di tempo e di confidare negli Dèi. Ci volle un bel po' prima che nella casa tornasse una parvenza di tranquillità. Gileon se ne andò raccomandandosi che l'ospite venisse trattata con ogni riguardo, e dichiarò che per la prima volta in molti giorni Passo Hollar aveva dimenticato la sventura che gli incombeva sopra. A quei montanari perfino la morte per fame appariva sfrondata di ogni implicazione stregonesca, ora che la Stella d'Oro era tornata a ristabilire l'equilibrio fra il bene e il male. Più tardi, quando Mahery ebbe messo a dormire i bambini e si fu ritirata nell'angolo dello stanzone riservato a lei e al marito, Goccia si trattenne accanto al caminetto a parlare col vecchio Odemish, che per l'emozione s'era sentito male e aveva chiesto di passare la notte lì. Nel paesetto l'uomo aveva le funzioni di Sacerdote, ma la sua era una carica che non comportava nessuna attività pratica, salvo confortare i dolenti e discutere d'argomenti religiosi con chi ne avesse voglia. A lui l'Amazzone chiese qualche informazione, soprattutto sull'importanza e sul significato della stella d'oro
della Khoiné, circa la quale la stessa Babeeri, gli rivelò, non aveva saputo dirle quasi nulla. «La piccola saprà pure della Strada Sommersa», sorrise l'uomo. «Molti, nel lontano settentrione, videro accadere quel fenomeno quando il suo tutore la condusse via, lontano dalle mani degli assassini». «Sì, ma non aveva l'età per capire cosa accadeva. E ancor oggi ricorda ben poco dei suoi primi nove anni di vita». «È comprensibile. Nessuno ha potuto istruire la fanciulla. Eppure ha la salvezza delle Cinque Nazioni nella sua piccola mano. In Achelòs non tutti ne sono convinti, e in Yaya Dhuba si sono venduti al demonio. Ma altrove la gente sa, le antiche leggende sono tramandate e profondamente credute vere. Non c'è errore nella saggezza degli Antichi. E oggi... oggi purtroppo puoi vedere tu stessa cosa accade». Odemish fece un sospiro, e dopo una pausa riprese: «Le isole della Collana s'inabissano, le terre tremano al sorgere di nuovi vulcani, e la gente sente avvicinarsi il momento finale della profezia. Eppure mille e mille anni or sono fu detto chiaramente che questo giorno sarebbe venuto: il giorno in cui una forza maligna avrebbe giocato con le grandi macchine sepolte nelle profondità del Gondwana... Il giorno in cui qualcuno avrebbe risvegliato quelle fonti terribili di potere per la sua cieca ambizione, scatenando così l'inizio della fine». «Macchine sepolte? Che vuoi dire?» domandò lei, sorpresa. «Non ne so nulla. Ma si dice che gli Antichi abbiano lasciato strane cose entro la terra, macchine con cui per millenni sostennero il Gondwana per impedirgli di affondare nel mare. Forze dormienti, oggetti di potere... Ma oggi ogni sapienza è dissolta. Oggi le Cinque Nazioni conoscono la loro condanna, una condanna da cui non c'è scampo alcuno. Gli Antichi stessi predissero che le acque del mare si sarebbero infine riversate sul continente, facendolo sprofondare per sempre. Ed è quanto sta accadendo, straniera! Essi dissero: guardatevi dal giorno in cui le fonti del potere verranno toccate da mani maligne, perché quel momento verrà e le terre saranno gettate nel profondo. Tuttavia dissero anche: quando il Gondwana conoscerà il suo destino, che gli uomini e le donne seguano la Stella d'Oro della Khoiné, che sola potrà condurre il popolo in salvo dalla furia delle acque!». «Vuoi dire che la Strada Sommersa è il solo motivo per cui adorate la Khoiné?». Goccia cominciava a capire. «E ti sembra poco? Il Gondwana è destinata a scomparire nel mare, ma
la Strada Sommersa è la via che la gente potrà seguire, a patto che vi sia una Khoiné per renderla agibile agli uomini». «Una via di salvezza... ma certo!» esclamò l'Amazzone. Poi si aggrondò. «Però, se questo cataclisma è tanto vicino, il popolo dovrà agire compatto e senza perder tempo. Grandi masse di persone saranno costrette a spostarsi fino alla costa settentrionale del continente. Santo cielo! Sarà mai possibile un'impresa simile?». «Chi crede, potrà», sentenziò il vecchio. «Chi crede andrà. E qualcuno dovrà condurre la fanciulla lassù, sulla costa di Achelòs dove prende inizio la Strada Sommersa, perché nel momento del bisogno il popolo possa migrare al di là del mare. Vi è là una pietra, si dice, simile all'Altare della Stella... anch'essa collegata in modo misterioso con la potenza degli Antichi che è nel sottosuolo». «E se Babeeri non facesse in tempo a recarsi in quel luogo? Per quel che ne sappiamo, potrebbe già essere troppo tardi. E per far muovere la gente occorrono tempo e mezzi. Inoltre c'è Alybrea. «Goccia si morse le labbra. Era certa che il Testimone avesse visto giusto, ma se così era quel popolo si trovava di fronte a un avvenimento spaventoso e irrevocabile. «Se Alybrea riuscirà ad impedire l'intervento di Babeeri, ogni abitante del Gondwana è atteso dalla morte, noi compresi. Quella femmina è pazza, e chissà a cosa mira. Tuttavia è certo che per lei la vita d'un intero popolo non vale nulla», commentò, irritata. Odemish si distese nel suo rozzo giaciglio. «Ora la Stella d'Oro è tornata, quando tutti la credevamo morta o scomparsa in terre lontane. Non è un miracolo questo? Gli Dèi penseranno a guidare la piccola, stanne certa». Goccia di Fiamma si sdraiò fra le pellicce che Mahery aveva disposto a terra, lieta che il Testimone non potesse vedere la smorfia di disapprovazione con cui aveva accolto le sue parole. Gli Dèi, avrebbe voluto dirgli, stanno sempre dalla parte del più forte, nel Gondwana come altrove. LE MACCHINE DI YAYA DHUBA Goccia di Fiamma rimase a Passo Hollar quattro giorni, durante i quali non uscì quasi mai dalla casa di Lojk e trascorse il tempo osservando le scorte di cibo che diminuivano sempre più. La ragazza tentò più volte di azionare la sferetta di cristallo che l'aveva portata lì, assillata dal pensiero della sorte toccata a Babeeri e desiderosa di andarsene da quelle montagne nevose, ma l'oggetto si rifiutò di funzionare.
Era conscia che il potere racchiuso in quel grumo di materia inerte avrebbe potuto spedirla chissà dove, e che per usarlo a ragion veduta sarebbero occorse ben altre conoscenze che le sue, tuttavia avrebbe preferito affrontare l'ignoto che oziare e sprecar tempo in quel paesetto sperduto. Alla fine si decise a spaccarla in due, e poté constatare che il suo nucleo metallico era completamente fuso. La mattina del quarto giorno fu svegliata da un notevole clamore e da suoni di corni di montagna, e quando uscì insonnolita sullo spiazzo centrale del borgo, quasi urtò addosso a Gileon che stava arrivando di corsa. «Ci mandano i soccorsi dalla pianura!» la informò l'uomo, eccitato. «Cibo, finalmente. E questo significa che a Ellady la situazione non è drammatica come temevamo». L'Amazzone lo seguì fin dove s'erano radunati gli altri, e vide che dal fondovalle stava salendo una lunga fila di uomini e di cavalli, con numerose grosse slitte semiaffondate nella coltre nevosa. I due che li precedevano reggevano sventolanti stendardi rossi, e buona parte degli altri le parvero soldati appesantiti da lucenti armature. «È la Principessa Janora!» esclamò Lojk, allegramente. «Nientemeno! Ed è venuta qui in persona dalla capitale?». «Non c'è dubbio. Quella è la sua bandiera. La Principessa è un forte guerriero, un vero uomo, vedrai. Scommetto che stavolta tenterà di attaccare il Forte di Trendig». Goccia pensò d'aver sentito male e non domandò chiarimenti. Un paio di clessidre più tardi la spedizione giunse a Passo Hollar, ed i soccorritori furono accolti da giubilanti manifestazioni d'entusiasmo. Si trattava d'una cinquantina di militi bardati in arme da campagna bellica, con lunghissime picche e spadoni di ferro, scudi di cuoio martellato e archi a tracolla, tutti a cavallo. Con loro venivano numerosi valligiani cenciosi, che s'occupavano dei bufali messi al traino delle slitte cariche. Invaso da quella folla di gente il paese sembrò ancor più piccolo, pieno di voci e di rumori, e la ragazza si tenne in disparte. In tutta quell'agitazione non le parve di scorgere alcuna donna. Vide però Gileon ricevere con ampi inchini e sorrisi un guerriero alto e biondo, fornito d'un paio di arroganti baffetti all'insù, e di fieri occhi azzurri. Costui, non appena smontato da cavallo, aveva fatto tirar giù da una slitta una coppia di leopardi e li aveva messi al guinzaglio, riempiendoli di carezze per calmarli. I due felini dovevano essere piuttosto nervosi, perché si guardavano attorno col pelo ritto e le orecchie abbassate, e gli tennero
dietro assai di malavoglia mentre lui si degnava di seguire il capo del villaggio nella sua dimora. Goccia di Fiamma lo osservò andarsene al caldo con una smorfia, non essendole mai piaciuto chi manifestava passione smodata per i grossi carnivori. «Chi è? Un Comandante dell'esercito?» chiese a Lojk. Il montanaro sbatté le palpebre. «Vuoi dire lui... cioè, lei? Ma è la Principessa Janora, naturalmente. È un onore averla qui». «Capisco», borbottò l'Amazzone, con un'espressione che esprimeva il concetto diametralmente opposto. «Insomma, questo lui è una lei. Bene, è la prima volta che vedo una Principessa coi baffi. Non che le stiano male, s'intende». Lojk fece una risata. «Ma che stai dicendo? Oh... dimenticavo che tu non puoi saperlo. Fisicamente la Principessa è un uomo. Solo che, come impone la tradizione, Falheire dev'essere sempre governata da una Principessa, anche quando capita che l'unico erede sia un maschio. Di conseguenza a Janora spettano un nome femminile ed attributi e titolo femminili. In altre parole, per avere legalmente diritto al trono Janora dev'essere una donna. Capito?». «Interessante», commentò l'Amazzone con un sorriso. «A questo proposito», continuò Lojk. «Visto che certo fra poco vorrà parlare con te, ricorda di rivolgerti a lei come a una donna. In senso giuridico lo è, infatti, e se tu commettessi l'errore di trattarla da uomo sarebbe un insulto mortale, perché Janora potrebbe pensare che metti in dubbio il suo diritto a portare il titolo di Principessa». Goccia gli avrebbe volentieri domandato qualcos'altro sulla faccenda, ma in quel momento s'accorse che la piccola Babeeri, approfittando del fatto che sua madre aveva le mani cariche di pagnotte, stava correndo con entusiastica incoscienza dritta fra le zampe dei cavalli. S'affrettò a portarla in salvo e la ricondusse in casa, restando poi a giocherellare con lei accanto al fuoco. Evidentemente Gileon s'era assunto l'incarico d'informare la Principessa - così Goccia si sforzava di pensare a quell'uomo - sulle ultime vicende accadute alla Stella d'Oro, perché prima che un montanaro venisse a chiamarla si fece il mezzodì. La casa del capo del villaggio era più spaziosa e meglio arredata di quella di Lojk, e presso il caminetto scoppiettante era stata sistemata una bella poltrona di legno. Janora, ancora armato e intabarrato nei ricchi abiti da montagna sotto ai quali riluceva un corpetto di bronzo, sedeva in posa altera. Ai suoi piedi i due leopardi avevano l'aria d'essersi calmati e fissa-
vano pigramente le fiamme, ed un alto Ufficiale gli stava al fianco in atteggiamento marziale. Gileon parve intuire che l'Amazzone era un po' seccata, perché l'accolse con estrema gentilezza e fece un'ampollosa presentazione formale. «Mmh! Mmh!» borbottò poi Janora, arrotolandosi uno dei baffetti. «Questa vecchia capra di Gileon non si è preso gioco di me, straniera? È vero che hai ricondotto qui la Khoiné?». «Proprio così... signora», rispose lei, cautamente. «Corpo d'un dèmone, questa è una notizia!» esclamò l'uomo, battendo un pugno su uno dei braccioli. «Sicuro... mmh! Inaspettata, anche. Non è così, mio buon Zobull? Sempre che corrisponda a verità. Brava, molto brava. Da dove vieni tu? Dal settentrione, mi pare». «Dalle Terre Basse di Afram sulla costa del Mare Interno». Janora annuì tre o quattro volte, pensosamente. «Terre Basse, giusto, Terre Basse. Mai sentito nominare, questo posto. Dev'essere lontanuccio, eh?». Gileon si fece avanti rispettosamente. «È al di là del Mare di Gondwana, Principessa. Ti ricordi che te l'ho detto?». «Già... mmh! Nei paesi barbari. Dunque la piccola Babeeri viveva lassù come una schiava. Drammatico, veramente drammatico! E tu l'hai riportata qui via mare? Intendo dire, con una nave?». Goccia di Fiamma confermò il fatto. Aveva l'impressione che l'uomo, malgrado il suo aspetto solido e bellicoso, fosse un po' svanito oppure assorto in pensieri suoi. Ma non le importava molto, purché tenesse saldo il guinzaglio. Da qualche secondo uno dei leopardi le stava osservando le caviglie con fissità preoccupante. Rispose brevemente ad alcune domande, e poi fu svelta a fare un passo indietro, perché una zampa unghiuta era scattata all'improvviso verso i suoi stivaletti. «Giù, Munk. Buono!» ridacchiò la Principessa. «A Munk le donne non piacciono. Hanno uno strano odore per lui. E a te piacciono i felini? Mi auguro di sì». «Non è che ne vada matta», bofonchiò lei. Ringraziò con un cenno del capo Gileon, che le aveva avvicinato una seggiola, e sedette a prudente distanza dai due animali. «Per tornare all'argomento che ci sta a cuore, Principessa: ora che la fanciulla è di nuovo nel Gondwana, capirai che si preparano avvenimenti di portata molto vasta». «Portata vasta... mmh! Capisco cosa stai pensando. Certo, hai compiuto un'impresa meritoria, ed è mia intenzione darti un adeguato premio, non
temere. Stavo appunto riflettendo se conferirti il titolo di Dama degli Empirei oppure il Blasonato di Falheire al valore. Tu cosa suggerisci, Zobull?». «Direi di lasciare a lei la scelta. Principessa», rispose l'Ufficiale. «Dopotutto è una straniera e... be', una donna, se mi spiego. Può darsi che preferisca, che so, una casetta, o magari cento misure d'argento, o simili cose». «Non dici male, corpo della coda di un drago!» approvò vigorosamente Janora. «Falheire saprà compensarti degnamente, stanne pur certa. Puoi chiedermi qualunque cosa». L'uomo rise con aria soddisfatta, annuendo verso Gileon e l'uomo chiamato Zobull, ma l'Amazzone fece un sospiro. Intuiva che Janora doveva aver già preso le sue decisioni, e che non riteneva necessario discuterle con lei. «Ti ringrazio, signora», disse quindi. «In effetti un po' di moneta mi farebbe comodo, e vorrei anche un buon cavallo. So che il Tall-Varna dista qualche centinaio di leghe verso nord, e intendo recarmi là al più presto». «Nel Tall-Varna? E perché mai? No, no... mmh! Sarei davvero lieto se tu stabilissi la tua residenza qui, credimi. Potrei anche concederti un buon pezzo di terra fertile, esente da tasse, alla periferia di Ellady», rispose lui, in tono discorsivo. La ragazza lo fissò sbalordita. «Permetti una domanda, Principessa: forse non hai intenzione d'ordinare al tuo popolo di spostarsi a settentrione? A mio avviso è vitale agire subito, nel caso che la Khoiné possa far comparire la Strada Sommersa in tempo per evitare le conseguenze del cataclisma che si va preparando». Janora sorrise con sufficienza. «Capisco. Ti riferisci alle storie degli Antichi. So tutto, so tutto, tranquillizzati. Ma le cose non sono affatto così semplici come tu, una straniera, puoi ingenuamente pensare. L'arte del governo è complessa, cara mia. Tientelo per detto». «Che cosa significa?» fece lei, seccamente. «È necessario ponderare ogni mossa», spiegò con pazienza Janora. «Inoltre, purtroppo, siamo tutti sottoposti all'autorità suprema di Re Sevan Brelthur e... e di Lei. Capisci?». «Un accidente di no, che non capisco!» sbottò la ragazza. «Tanto per cominciare, quando la gente saprà del ritorno della Khoiné la smetterà d'aspettare passivamente la morte. Ci sarà un'autentica corsa al settentrione, verso la Strada Sommersa, e tu ti troverai a dover affrontare una migrazione in massa di carattere spontaneo. Il continente si sta scuotendo come
se tutti gli Dèi lo stessero prendendo a calci, non lo vedi?». «Dèmone e poi d'un Dèmone!» esclamò l'altro, piegandosi in avanti. «La senti, Zobull? Senti cosa sta dicendo? Spiegale tu come stanno le cose!». L'Ufficiale si erse, accigliato. «Sua Maestà la Principessa vuol dire che non è opportuno per una donna mettersi a parlare di politica. Questo è anche il mio parere». «Insomma, ve ne starete lì senza far niente mentre si avvicina il disastro», osservò lei. «Conoscendo i vostri montanari m'ero fatta un'idea che a Falheire ci fossero dei veri guerrieri... Peccato che non sia così. Vedo che vi si prepara un futuro molto incerto». «Per tutti gli Dèi Senza Nome! Stai insinuando che io non sono un guerriero? La senti, Zobull? Giuro che questo è un insulto!». L'Amazzone si alzò in piedi. «Niente affatto, Maestà. L'insinuazione era diretta agli uomini, non alle signore. Ma se tu non fossi una rispettabile gentildonna coi baffetti forse t'avrei detto più chiaramente quello che penso. E ora, col vostro permesso, vi do il buongiorno!». Goccia di Fiamma uscì di fretta, sbattendo la porta. Pochi momenti dopo, però, mentre stava andando a passi lunghi e rabbiosi verso la casa di Lojk, fu raggiunta da Gileon. Con modi concilianti il capo del villaggio la convinse a tornare indietro, assicurandole che la Principessa non voleva accomiatarsi da lei in termini tanto bruschi e desiderava riconciliarsi. Tornata dentro, la ragazza sedette di nuovo davanti a Janora e rivolse una smorfia ringhiosa ai due leopardi. Zobull era chinato e stava parlando in un orecchio alla Principessa, ed ella colse un paio di sussurri: «Sì, un tipetto permaloso...» e «... necessità politica di tenercela buona». Annuì fra sé, cercando di tenere a mente che anche lei aveva bisogno di loro e dei loro soldati. «Dunque, Principessa», disse, quando i due ebbero terminato di confabulare. «Cosa intendi fare per la Khoiné? La ragazza ha bisogno di aiuto, e presto». «Comprendo benissimo le tue preoccupazioni. Ovviamente il benessere della Khoiné ci sta a cuore. Appena rientrati a Ellady daremo la grande notizia del suo ritorno alla gente, e indiremo un giorno di preghiera nazionale per supplicare gli Dèi che la proteggano», asserì Janora con aria convinta. «Questo te lo prometto sul mio onore». «Ma sventuratamente si deve constatare», aggiunse Zobull, «che per la fanciulla si potrà fare ben poco, visto che tu stessa affermi d'averla lasciata in una situazione pericolosa. C'è la possibilità che Alybrea l'abbia già
catturata, oppure... addirittura uccisa». «È tutto qui quel che sapete dirmi?» esplose Goccia, disgustata. «Badate, signori miei, che se Babeeri dovesse morire nessuno di voi arriverà alla vecchiaia, perché questo continente diventerà la vostra tomba. In conclusione: o facciamo di tutto per cercarla, o cominciate pure a raccomandarvi l'anima». «Ma abbiamo le mani legate», protestò Janora, a disagio. «Alybrea sorveglia ogni angolo della Nazione, con quelle sue statue magiche, e non possiamo muovere gruppi di armati senza il suo permesso. Ad esempio, credi che sia stato facile ottenere l'autorizzazione di farmi scortare fin qui da appena cinquanta uomini?». Goccia di Fiamma aprì la bocca per ribattere, ma poi la richiuse. Ascoltò Janora e Zobull lamentarsi ancora delle difficoltà, delle circostanze, e ribadire la decisione che si poteva fare assai poco, ovvero che sarebbe stato meglio non far niente del tutto. I due, per quanto scontenti e preoccupati, non sembravano forniti dello spirito d'iniziativa sufficiente a scacciarsi le mosche dalla faccia, questo era chiaro. L'idea di far muovere un intero popolo li spaventava, sarebbe costata sangue, lacrime e fame, e chissà come sarebbe andata a finire, ripeterono più volte. Oltre a ciò, Alybrea non avrebbe permesso che le forze occulte con cui si trastullava portassero alla rovina il Gondwana: viveva lì anche lei, no? «Senti, signora», domandò l'Amazzone infine. «Posso chiederti per quale motivo hai portato questo gruppo di armati a Passo Hollar? I montanari sembravano credere che tu avresti attaccato il Forte di Trendig, ma ora che ti conosco direi che non l'avevano azzeccata». «Attaccare il Forte? Sangue d'un pidocchio, sei forse impazzita? Nossignora: è mia ferma intenzione rivolgere ai Dottori dell'Oscuro una supplica, perché facciano sciogliere presto questa maledetta neve. Ecco cosa farò, e domani stesso. Gli uomini costituiscono la mia scorta». «Bene, è un progetto che approvo senz'altro», affermò lei. «Credo che non avrai nulla in contrario se mi unirò a voi. Ci metteremo tutti quanti in ginocchio nella neve, e speriamo che questa dimostrazione di ferma ubbidienza e d'incrollabile umiltà li renda comprensivi». Goccia di Fiamma si alzò, salutò cordialmente i due uomini di Ellady e poi uscì per andare a mangiare qualcosa in casa di Lojk. Raccontò della discussione avuta con Janora al montanaro e a sua moglie, e le loro reazioni la incoraggiarono a stabilire un abbozzo di piano per l'indomani. Più tardi mandò a chiamare Gileon, e dopo essersi accertata che nessuno dei
soldati della Principessa fosse a portata d'orecchio gli spiegò quel che intendeva fare. Vide subito che l'uomo era con lei. «Dunque, Gileon», riassunse poi. «Da quanto hai detto, c'è da credere che il Forte di Trendig sia la principale roccaforte di Alybrea in Falheire, una vera e propria base d'operazioni. Nessuno vi entra e ne esce mai, il che vuol dire che i Dottori usano per i loro spostamenti sferette di cristallo uguali a quella che ti ho mostrato. È poi molto indicativo il fatto che vi abbiano montato la porta metallica, quando vi si sono insediati». «È la porta che lo rende inespugnabile», si preoccupò Gileon. «Se un uomo osa solo sfiorarla, la forza magica di quel metallo lo stordisce come una mazzata». «Sì, ho già sperimentato quell'effetto. Ma la mia ipotesi è questa: i Dottori dell'Oscuro hanno certo portato nel Forte una quantità di altri oggetti, mediante i quali estendono il loro potere all'intera Falheire. Ad esempio, sono certa che Alybrea non può eseguire di persona il lavoro di sorveglianza tramite le statue distribuite ovunque, e perciò ad occuparsi di questo devono essere i Dottori, grazie a qualche marchingegno costruito dagli Antichi che si trova nel Forte. Il nostro compito sarà di distruggerlo». «Molto azzardato», obiettò Gileon. «E se Alybrea intervenisse?». «Sarà la benvenuta», ringhiò Lojk. «Tanto, peggio di così...». «Le azioni offensive di Alybrea avvengono con l'uso del gelo,» puntualizzò Goccia. «Non le si conoscono armi d'altro tipo. A mio avviso, i Dottori potrebbero avere lì strumenti capaci di scatenare il gelo su larga scala. Faremo a pezzi anche quelli. Alybrea sarà ugualmente potente e pericolosa, ma intanto senza le statue e gli altri oggetti demoniaci potrà nuocere molto meno. Tutto si basa sui tuoi montanari, ragazzo mio. Stanotte dovrai istruirli a dovere». «Stai tranquilla. Tu piuttosto sei certa di...». Goccia sorrise. «Voi stessi avete detto d'aver visto una piccola stella nera incisa al centro di quella grande porta, no? Fidati di me, e fai affilar bene tutte le spade che avete. Domani sarà il nostro giorno, amico!». Il mattino successivo una colonna di uomini lasciò Passo Hollar e si mise in marcia su per il crinale, seguendo il percorso della strada che la neve alta nascondeva alla vista. In testa a tutti procedevano dieci montanari guidati da Gileon, tallonati dai cinquanta soldati a cavallo venuti da Ellady, due dei quali recavano stendardi il cui significato era stato spiegato a Goccia di Fiamma da Zobull. Al vederli, i Dottori dell'Oscuro avrebbero dovuto capire senza equivoci che la Principessa di Falheire desiderava
umiliarsi davanti a loro e chiedere clemenza. La ragazza camminava dietro al cavallo di Janora, e con una mano si teneva aggrappata alla coda dell'animale, mentre nell'altra reggeva una pesante spada di ferro nascosta fra le pieghe del mantello. La lama era in realtà in una lega d'acciaio scadente, un metallo che nel Gondwana era diffuso più che in altre terre, e il suo freddo contatto le dava una sensazione di sicurezza. A mezzodì avevano superato le quattro leghe di salita che portavano al Forte di Trendig, e quando l'Amazzone poté osservarlo da vicino s'accorse che era di dimensioni davvero imponenti. All'interno della cinta di mura c'erano alti edifici in pietra grigia, separati da cortili, e garitte dal tetto conico s'alzavano dai merli in più punti. Alcune figure vestite di nero si muovevano lente sulle mura, e la ragazza comprese che i Dottori non davano eccessiva importanza alla loro venuta, come se volessero ostentare disprezzo e superiorità. Il portone era costituito da due battenti di metallo argenteo, e a lato di esso c'era una statua raffigurante Alybrea, identica a quella che Goccia aveva visto sull'isola. La Principessa Janora fece arrestare gli uomini a una ventina di passi dalla porta e avanzò da solo, a cavallo. Poi si rivolse direttamente alla statua, alzando un braccio in segno di pace. «Insigni Dottori!» gridò. «Nel nome del popolo di Falheire vengo a voi per domandare una grazia. Siate benigni e ricevetemi con amicizia, concedendomi di recare omaggio al Grande Maestro!». L'uomo attese, tenendo fermo il suo cavallo che scalpitava nella neve e mandava bianchi ciuffi di fiato dalle nari. Da lì a poco una figura ammantellata di nero comparve fra due merli, proprio sopra l'arcata del portone, e si sporse. «Che cosa vuoi, Principessa Janora?», gridò. «Desidero esporvi un'istanza, o Nobili e Potenti Signori. Il Grande Maestro può farmi l'onore di ricevermi personalmente?» «Il Grande Maestro Siptah non è qui», rispose l'altro, in tono ostile e seccato. «Aspetta lì dove sei, Principessa». Il Dottore dell'Oscuro scomparve senza dir altro. Goccia scelse quel momento per fare un cenno a Gileon, e s'incamminò al suo fianco. I due raggiunsero Janora, e il montanaro afferrò il suo cavallo per il morso. «Lascia che ti aiuti a tenerlo, Principessa. Mi sembra nervoso», disse in tono servizievole. Janora stava però seguendo con gli occhi l'Amazzone che si avvicinava al grande portone, e d'un tratto s'accigliò. «Ehi tu, donna! Cosa stai facen-
do? Torna indietro!» ordinò, irritato. Invece di rispondergli Goccia tolse di tasca l'anello dal castone a forma di stella e lo accostò all'identico simbolo inciso nel metallo facendovelo combaciare con precisione. Un attimo più tardi i due battenti si spalancarono da soli verso l'interno, come se mani invisibili e silenziose li stessero muovendo. «Nel nome della Principessa!» urlò Gileon con quanto fiato aveva in corpo. «All'attacco, soldati! Viva Falheire! All'attacco!». Mentre gridava aveva estratto uno spadone, e con esso colpì fortemente il posteriore del cavallo di Janora, che s'impennò nitrendo di dolore e prese il galoppo. Goccia di Fiamma era già corsa dentro sguainando la spada, ed il baffuto cavaliere la sorpassò d'impeto. Dietro di loro i montanari mescolati ai militi rieccheggiarono il grido del loro capo, estraendo le armi: «Seguiamo la Principessa, uomini! All'attacco!... Morte ai cani di Yaya Dhuba! Viva Janora! Per Falheire... vendetta!». I soldati non se lo fecero ripetere, dopo aver visto con quale ardore la loro Principessa s'era precipitata nella fortezza nemica, e lo stesso Zobull non ebbe modo di dubitare un momento di quanto gli accadeva davanti agli occhi. Sessanta uomini corsero attraverso l'ingresso aperto agitando picche e spade, urlando come ossessi ed ansiosi soltanto di versare quanto più sangue potevano. Goccia di Fiamma non aveva atteso di vedere se il suo piano prendeva l'avvio come aveva sperato: appena entrata nel vasto cortile s'era diretta a una piccola costruzione addossata alle mura, spalancandone la porta con un calcio. Si trovò in un locale stretto, il cui unico arredamento era costituito da un tavolo d'aspetto bizzarro su cui erano incastonate delle minuscole teste d'animale, foggiate in metallo e dagli occhi luminosi. Parecchi cordoni lisci s'arrampicavano sulle pareti e sparivano in fori del soffitto, e un individuo in tunica nera s'era girato a fissarla con un'esclamazione irosa. L'Amazzone non attese di scoprire se fosse armato e con un balzo gli fu addosso, affondandogli l'intera spada nel ventre. L'uomo cadde, e il suo sangue sgocciolò sul pavimento. Subito dopo ella cominciò a colpire con la pesante lama tutto ciò che le sembrava facile da spaccarsi: le teste d'animale vennero via dal tavolo con pochi colpi, e dai fori che avevano lasciato si levarono spirali di fumo e scintille colorate. I cavi sembravano indistruttibili, ma uno strano globo di vetro verde esplose da solo, e dopo un attimo il tavolo pieno di congegni prese fuoco. Un po' spaventata, ma
vibrante d'eccitazione, la ragazza corse fuori, sperando che quanto aveva fatto fosse bastato a rovinare il meccanismo che comandava l'apertura del portone. Nel cortile regnava già il caos, e buona parte dei soldati erano smontati da cavallo per entrare negli edifici più vicini. Altri usavano gli archi, tirando a tutti coloro che vedevano sulle mura. Cinque o sei Dottori dell'Oscuro giacevano a terra in pose scomposte, altri stavano fuggendo in cerca d'un riparo e la neve mostrava già chiazze rosse in più punti. Da varie finestre uscivano grida strazianti o inferocite: «Tradimento!... Viva Janora! Vendetta!... Difendiamoci da questi selvaggi! Fuggite!...». Ma la Principessa dov'era? Goccia di Fiamma girò l'angolo dell'edificio principale e lo vide in fondo al cortile, che stava scendendo di sella. Un Dottore dell'Oscuro armato di picca sbucò da una porticina e lo assalì urlando, ma fallì il bersaglio perché l'uomo s'era scostato con un guizzo felino. Un attimo dopo fu la spada di Janora a piombargli sul collo, staccandogli di netto la testa. Alla vista di quel fendente magistrale e terribile l'Amazzone fece un fischio d'ammirazione. Corse avanti, vedendo che dalla stessa porta uscivano altri individui armati di spade e di pugnali. «Per Falheire!» gridò, affiancando la Principessa. «Sono con te, Janora! Morte alle belve di Alybrea!». Ringhiando e bestemmiando Janora si batté con foga insospettata, rivelandosi tanto forte nella mischia quanto indeciso era stato nell'arrovellarsi con le preoccupazioni politiche. Ma Goccia sapeva benissimo che l'uomo era folle di rabbia nei suoi confronti, e stava soltanto sfogando l'ira che gli aveva gonfiato il petto nel vedersi costretto a un'azione di quel genere. Ebbero ben presto ragione dei tre difensori che li avevano impegnati, e quindi la ragazza indicò la porticina. «Da questa parte, Principessa. Cerchiamo il cuore di questo covo di dèmoni. Presto!». «Sì, che tu possa bruciare negli inferi!» esclamò lui, tenendole dietro. «Adesso non mi resta altro da fare, brutta sgualdrina!». La ragazza percorse un lungo corridoio, a metà del quale si trovò di fronte due Dottori dell'Oscuro che venivano in direzione opposta. Colpì il primo con un gran fendente dall'alto in basso che gli maciullò una spalla e poi ferì a una gamba l'altro, che si volse e fuggì urlando. L'individuo cercò di scampare alla morte correndo in un locale adibito a mensa, pieno di tavoli e seggiole, ma Janora gli andò dietro e lo raggiunse, spaccandogli il cranio con una tremenda botta della spada. Goccia lo attese, poi proseguì
con lui su per una scalinata di pietra. Usciti in un salone trovarono lì Zobull e cinque soldati, i quali avevano appena finito di trucidare sei Dottori dell'Oscuro. In un largo e lussuoso corridoio erano stesi a terra altri cadaveri. «Maestà», ansimò l'Ufficiale. «In questo edificio abbiamo fatto piazza pulita. Ma qualcuno di loro dev'essere scappato fuori dal Forte, e ce ne sono cinque o sei giù nelle cantine». «Quasi tutti erano disarmati», aggiunse un milite. «Li abbiamo colti di sorpresa, questi porci!». Janora annuì e si precipitò fuori, incitandoli a seguirlo. Tornati nel cortile sentirono clamori levarsi dall'interno della torre principale, e Goccia corse dentro di essa tallonata da Zobull e da qualche altro. Saliti al piano superiore videro Gileon, Lojk e due montanari che stavano difendendosi accanitamente da una dozzina di Dottori. L'Amazzone aveva voglia di battersi, e nella mischia gridò con furia ed esultanza, lasciando che nelle sue vene scorresse ardente la linfa vitale. Tutto l'addestramento e l'indottrinamento della sua giovinezza, trascorsa ad allenarsi nei recinti-scuola della Capitale delle Terre Basse, veniva alla luce in quei momenti concitati e drammatici. I clangori delle spade ed i gemiti di rabbia o di morte erano la musica terribile che accompagnava quel ballo, e nella foga del battersi ella riusciva a dimenticare tutta la sua umanità, trasformandosi in uno strumento di nervi e muscoli collegato a una spada lampeggiante. Lojk riportò una grave ferita a un braccio, e Zobull uno sfregio che gli avrebbe segnato la fronte per tutta la vita, ma al termine dello scontro furono i loro avversari a restare al suolo privi di vita. Uscirono dalla torre e videro che gli altri si stavano radunando nel cortile. La battaglia era finita. Alcuni militi s'aggiravano ancora sulle mura merlate in cerca di eventuali superstiti da eliminare. «Il Forte di Trendig è nostro, Principessa!» strillò uno degli uomini, alzando i pugni fieramente. «Vendetta è fatta!». «Viva Janora!» urlarono gli altri, esultanti. Goccia di Fiamma e Gileon si unirono al coro, seguendo Janora nello spiazzo cosparso di fanghiglia e neve semidisciolta. Poco dopo dei soldati vennero a riferire che non era rimasto vivo nessun Dottore dell'Oscuro. Trentanove di essi erano stati uccisi, mentre la truppa di Falheire aveva avuto soltanto due morti e sette feriti. Il combattimento era durato appena una clessidra. Un'occhiata alla Principessa bastò a Goccia per capire che l'uomo si sta-
va tormentando per le conseguenze che quella vittoria, per lui inutile e spiacevole, avrebbe scatenato. D'impulso saltò in piedi sopra il pianale d'un carretto e alzò le braccia, richiamando l'attenzione dei soldati. «Uomini!» gridò. «Vi hanno già detto che la Khoiné è tornata nel Gondwana. Le forze del male non hanno potuto far nulla per impedire questo grande avvenimento!». La ragazza fece una brevissima pausa e colse un'espressione di fastidio dipinta sul volto del guerriero dal titolo femminile. Gli stava rubando il mestiere, e ciò allo scopo di forzargli la mano sempre più, ma non le importava niente. In tono eroico continuò: «Il suo ritorno è un segno degli Dèi... È la luce dell'alba che sorge tenera e bruciante dopo una lunga notte di paura! Falheire insorge con tutta la fierezza millenaria del suo popolo!... Sì, uomini, Falheire ora si batte per la sua sacra libertà, sotto il vessillo della giustizia che non conosce sconfitta. La nostra sola arma è il coraggio, la nostra sola speranza è un futuro senza oppressione, ed un nemico duro ci attende. Ma a questo nemico io dico che non s'illuda. No, uomini, che non s'illuda, perché la nostra guida luminosa è la Stella d'Oro, la stella che gli Dèi hanno messo per sempre al nostro fianco!». Sessanta gole strillarono d'entusiasmo e di giubilo a quelle frasi, ed a gridare più forte di tutti furono Gileon e lo stesso Zobull, che ancora si stava fasciando la testa. Seguirono poi altre urla di vittoria indirizzate a Janora, che per la sua struttura aveva in quel momento un aspetto assai combattivo, e la Principessa fu costretta a levare in alto la sua arma ancora insanguinata ed a sorridere ampiamente. Soddisfatta, Goccia di Fiamma saltò giù dal carretto e si allontanò. Adesso Janora sembrava aver capito che non gli restava molta scelta visto che, bene o male, le cose s'erano messe in movimento su una strada ben precisa. Domandandosi quale forma avrebbe preso la reazione di Alybrea, sali la breve scalinata di pietra ed entrò nel più vasto degli edifici. Da una prima occhiata s'era resa conto che lì c'era una quantità di strani oggetti, e che probabilmente non aveva sbagliato nell'ipotizzare che il Forte di Trendig fosse una specie di base d'operazioni, ma per esaminare tutte quelle diavolerie le sarebbe occorsa l'intera giornata. La prima cosa che fece, comunque, fu di cercare un cesso, e con suo compiacimento ne trovò uno tutto di marmo bianco. Un paio di clessidre più tardi Gileon e Zobull vennero a cercarla. La trovarono che stava mangiando un pezzo di pane riempito di carne, in
quella che lei aveva battezzato la Sala degli Unicorni. Il locale era vasto, in penombra, e allineate intorno alle pareti c'erano venti statue di materiale bianco assolutamente identiche fra loro, raffiguranti il mitico quadrupede. L'Amazzone annaffiava i bocconi col vino di un'anforetta metallica, anch'essa prelevata dalla cucina del Forte, ed accolse con un pigro cenno del capo l'arrivo dei due uomini. «Fantastico», commentò Zobull, guardandosi attorno in atteggiamento reverente. «Mai visto niente di simile. Ah, ti porto l'invito della Principessa. Sua Altezza è rimasta molto ammirata del tuo modo di batterti, e stasera vuole cenare con te». «Mmh!» annuì lei, con la bocca piena. «Hai scoperto qualcosa d'interessante?» domandò Gileon. «Venite con me». I due la seguirono in un locale altrettanto ampio, fitto di colonne che sorreggevano le arcate del soffitto. La mobilia che i Dottori dell'Oscuro vi avevano trovato otto anni prima era stata tolta, e sostituita con un'attrezzatura che Goccia, poco prima, aveva esaminato a bocca aperta e senza capirci nulla. Si trattava di una fila di marchingegni chiusi, tutti più o meno simili a cassoni rettangolari, sulla superficie dei quali c'erano centinaia di levette, finestrelle di vetro, e lucette colorate dietro cui ella aveva supposto esservi delle candele accese. Dall'interno dei misteriosi oggetti proveniva un ronzio leggero e continuo. «Cos'è questa roba, per tutti i draghi di Sanferoine?» sbottò Gileon, perplesso. «Forse la macchina diabolica che serve a provocare l'incantesimo del gelo», rispose lei. Accennò verso un locale adiacente. «Là dentro c'è un grosso cubo nero, da cui escono tutti quei cordoni che vedete sul pavimento. Secondo me il cubo è una fonte di potere costruita dagli Antichi. Il potere scorre dentro ai cordoni, come l'acqua dentro a un tubo, e poi si versa in quei cassoni lì». Gileon borbottò che la cosa puzzava molto di magia nera, e la seguì di malavoglia quando lei lo invitò a toccare i marchingegni. «Queste sono leve, Gileon. Guarda: si possono muovere avanti e indietro. Quando abbasso questa, la piccola sfera verde comincia a girare». «E allora?» mugolò il montanaro. «A che cosa serve?». «Non ne ho idea». La ragazza sorrise, alzando le spalle. «Però funziona. È roba degli Antichi. Non credi anche tu, Zobull?». «Può darsi», fece lui. «Ci sono dappertutto delle scritte, e vi giuro che
non le capisco. Io so leggere, ma quella scrittura lì è sbagliata. Neppure in Yaya Dhuba scrivono in questo modo». «Sul serio?» esclamò Goccia. «Allora è sicuro che queste macchine non le hanno costruite i Dottori. Ora sono certa che le hanno trovate... O forse è stata Alybrea a trovarle per loro, in qualche nascondiglio. Nel sottosuolo». «Cosa te lo fa credere?». La ragazza gli riassunse la breve discussione avuta con Alybrea stessa, sull'isoletta, concludendo che se i Dottori dell'Oscuro avevano tramato tanto per salvare la vita alla Stella Nera ciò era stato fatto perché volevano ricavare qualcosa da lei. Se ne poteva dedurre che la bruna gemella di Babeeri, in un modo possibile a lei soltanto, aveva messo nelle mani di quegli uomini i segreti degli Antichi ed i loro macchinari. «Bisogna distruggere tutto», affermò poi. «Sarebbe assai meglio imparare a servirci di questi oggetti, ma la cosa è al di fuori delle nostre possibilità. Ed è necessario evitare che qualche Dottore torni qui e se ne serva a nostro danno. Prima però voglio mostrarvi un'altra cosa. Al piano di sopra c'è proprio quello che sospettavo, e cioè un meccanismo che i Dottori adoperavano per vedere attraverso gli occhi delle statue». Goccia di Fiamma e i due uomini s'avviarono su per le scale, e giunsero in un salone largo almeno cinquanta passi. Sul pavimento giacevano ancora i corpi di cinque Dottori dell'Oscuro, che i soldati avevano sorpreso lì disarmati e trucidati spietatamente. La scena che si presentò loro aveva qualcosa di fantastico e d'incredibile: fino all'altezza di sei piedi le pareti erano tappezzate da finestrelle di vetro larghe due palmi, e dentro di esse si vedevano immagini più nitide e perfette di un quadro. Centinaia di immagini, molte delle quali raffiguravano gente che si muoveva nei luoghi più diversi. «Dei dipinti animati!» esclamò Gileon, esterrefatto. «Niente affatto, amico. Osserva con attenzione: ognuna di queste magiche finestrelle è aperta su una scena di vita ben reale. In questo momento tu stai guardando come attraverso gli occhi delle statue di Alybrea disseminate in tutta Falheire». Sopra ciascuno dei piccoli schermi era stato incollato un pezzo di pergamena, vergato di caratteri scritti a inchiostro, e la ragazza disse che erano i nomi dei luoghi dove sorgevano le statue corrispondenti al quadro. «Ma certo!» esclamò Zobull. «Riconosco molti di questi posti. Guarda, Gileon: Lanaire, Castel Crozon, Villajosa, la contrada Sangranze, Porto Heybrel, il mercato di Shirne, Valmorta... e moltissimi portano scritto
Ellady. Quello è l'interno del Palazzo Rosalohe, dèmoni!». «Appunto. È da qui che i Dottori tenevano sotto controllo Falheire, con le statue e con l'arma del gelo», affermò l'Amazzone. «È necessario fare a pezzi tutto, e subito». «Perché subito?» Zobull era eccitato. «Non capisci che da qui potremo addirittura dirigere l'evacuazione delle città? Tu stessa hai capito che vi saranno enormi difficoltà da superare, e per far emigrare quasi due milioni di persone verso nord. E questo è un sistema di comunicazione fantastico, più veloce degli eliografi. Si potrebbe...». «Ammiro la tua mentalità pratica», lo interruppe Goccia. Ma non scordare che i Dottori potrebbero tornare qui in forze, grazie al loro sistema di trasporto. Sarei pronta a scommettere che qualcuno di loro si è salvato, grazie alle sferette di cristallo, e che adesso si trova in Yaya Dhuba a far rapporto al loro Grande Maestro. Dovremo sgombrare da qui, caro Zobull, e lasciare dietro di noi soltanto macerie. Daremo alle fiamme il Forte entro stasera». Poco dopo Goccia dovette spiegare daccapo la stessa cosa a Janora. La Principessa protestò e recalcitrò, innervosito dal trovarsi così d'improvviso a dover fronteggiare eventi di tale portata; ma infine la logica dell'Amazzone lo convinse che essendo in ballo doveva ballare. Cupo in volto lo ammise egli stesso, ripetendoselo più volte quasi per ficcarsi meglio in capo quell'idea spiacevole. «Dovremo risalire lungo la costa fino al Tall-Varna, e poi continuare la marcia lungo il Sao Satél», borbottò. «Quasi due milioni fra uomini, donne e bambini. Per il demonio... Sarà un viaggio duro. Molti saranno costretti a tagliare il Bassopiano Ringel fino in Achelòs, e Alybrea ci attaccherà lungo la strada. Oh, la mia povera gente!». «Se le cose andranno come spero», cercò di consolarlo lei, «i Dottori dell'Oscuro e Alybrea non potranno ostacolare molto la migrazione del tuo popolo. Intendo dar loro del filo da torcere». «E come, per tutti gli Dèi?» ringhiò lui. Goccia gli mostrò le dieci sferette di cristallo che poco prima aveva tolto dalla bocca di uno degli unicorni bianchi. «Con queste. Ancora non so quel che potrò fare, ma proverò ad usarle. Finora le ho adoperate due volte, e ogni volta il loro potere mi ha trasportata in uno dei punti nevralgici della loro organizzazione. Se riuscirò a colpirli duramente, distrarrò la loro attenzione da Falheire». Al tramonto i montanari e i soldati abbandonarono il Forte di Trendig
lasciando dietro di loro la devastazione più completa. Le apparecchiature provenienti dallo Yaya Dhuba erano state fatte a pezzi, e si era appiccato il fuoco all'arredamento in ogni locale. Sul crinale nevoso gli uomini si fermarono ad osservare l'incendio e videro che le fiamme divampavano con violenza soddisfacente. L'allegria aumentò quando Goccia di Fiamma fece notare che, se qualche Dottore fosse apparso nella fortezza sfruttando il potere delle sfere cristalline, si sarebbe trovato immerso in un inferno di fuoco con ben poche possibilità di uscirne vivo. La spedizione tornò a Passo Hollar. Goccia accompagnò Lojk in casa e poi andò a chiamare Odemish e sua figlia Rilke, che avrebbero pensato a curare il braccio ferito del montanaro. Poi riposò per circa una clessidra e mangiò un boccone. Il buio era già sceso da un pezzo sulle immense montagne coperte di neve, quando decise di fare il suo tentativo. La ragazza baciò sulle guance i suoi ospiti, abbracciò con affetto il vecchio Odemish e si strinse al petto la piccola Babeeri, pensando che probabilmente non l'avrebbe rivista mai più. Al dito medio della sinistra s'infilò l'anello con la stella nera, prese una delle sferette che aveva portato con sé e chiuse le altre nove nel fazzoletto, che si ficcò in tasca. Alla cintura s'affibbiò la spada e il pugnale. Gileon entrò proprio allora, e vedendo quel che Goccia stava facendo si limitò a chiudere la porta e ad annuire pensosamente. «Dovunque tu stia andando», disse a bassa voce, «sappi che non ti dimenticheremo mai. Buona fortuna a te, guerriera che venisti fin qui da terre lontane e sconosciute!». Lei gli sorrise e gli strizzò l'occhio. Poi girò con cautela le due metà della sferetta. Il piccolo pulsante scattò all'esterno, ed ella lo premette una prima volta. Sapeva che quello era soltanto un movimento di preparazione, così trattenne il fiato e lo spinse dentro una seconda volta. Il nucleo del piccolo oggetto s'accese d'un bagliore rossastro. Un momento più tardi la vibrazione ormai ben nota le corse dalla mano alla testa, ottenebrandole i sensi e mozzandole il fiato. Chiuse gli occhi e attese quel che le sarebbe successo. Subito comprese sbigottita d'aver peccato d'eccessivo ottimismo, presumendo di finire in un'altra base segreta di Alybrea, perché s'era invece materializzata in un luogo buio ed alla superficie d'un pantano semiliquido, nel quale affondò istantaneamente fino agli occhi. Annaspò intorno a sé, e le sue dita si strinsero su delle erbe di palude che non potevano offrirle alcuna presa. Sabbie mobili, pensò sgomenta, ecco
dove l'aveva fatta comparire quella maledetta sfera. Per qualche attimo le violente pulsazioni del cuore le annebbiarono la mente e le tolsero le forze, ma quando riuscì ad emergere con la bocca dal fango ricordò come doveva comportarsi per non venirne inghiottita. Fece un ampio respiro riempiendosi d'aria i polmoni, e questo bastò ad impedirle d'affondare ancora, poi si contrasse in posizione fetale con grande attenzione. Intorno a lei, non molto distanti, si levavano le masse scure di alcune collinette. Poté vedere i rami scheletrici di molti alberi, che affondavano le loro radici morte nella palude ed alzavano rami spogli verso un cielo colmo di stelle. Si sganciò la spada, poi pian piano sì allungò in posizione orizzontale lasciando che tutto il suo corpo fosse coperto dalla fanghiglia ad eccezione del viso. Sapeva che le sabbie mobili non erano una trappola mortale, a patto di conservare la calma e di giocare con esse una partita fatta di movimenti lenti, studiati. L'essere riuscita a mettersi orizzontalmente senza finir sotto con la testa era già moltissimo. Agitando appena le mani per remigare, e compiendo la spinta di galleggiamento, riuscì a spostarsi sul micidiale miscuglio di sabbia e d'acqua con la lentezza di una mosca nell'olio. Dopo un poco le sue dita incontrarono uno stecco, e quando fu certa che era l'estremità di un ramo lo usò come guida. Soltanto quando ebbe infine afferrato il tronco d'un albero semisommerso poté permettersi il lusso d'imprecare. Non era possibile capire se abbandonare quell'appiglio in cerca del terreno solido sarebbe stato prudente, così preferì arrampicarsi sull'albero e sistemarsi comodamente a sedere su una biforcazione, per attendere lì la luce del giorno. La guerriera venuta da terre lontane, come l'aveva definita poeticamente Gileon, rifletté rabbrividendo che avrebbe preferito non dover mettere mai piede da quelle parti e restarsene tranquilla a casa sua. Quel pensiero stizzito le fece tornare a mente la casetta di tronchi che Shalla, la Regina, aveva regalato a lei e a Ombra di Lancia un paio d'anni addietro, e nella quale lei e la compagna avevano potuto trascorrere solo pochi mesi. Prima di partire alla ricerca di Ombra l'aveva affidata a Maani, una caposquadra della Cavalleria della Dèa, che era stanca di abitare in caserma e aveva promesso di tenerla con cura. L'avrebbe mai più rivista? Vi sarebbe mai ritornata insieme ad Ombra? E Shalla cosa stava pensando della sua assenza dopo più d'un anno che non si faceva viva? Adesso la ragazza rimpiangeva di non essersi messa in contatto con qualche carovaniere, nella Terra di Junghad, per fargli portare un messaggio almeno in Mitanni. E cosa stava accadendo nelle Terre Basse, più che mai circondate
da nazioni ostili al popolo delle Amazzoni? Quegli interrogativi la assillavano. Ricordava ancora vividamente il momento della partenza dalla Capitale, le raccomandazioni di Shalla, gli auguri delle Ufficialesse e delle donne del popolo che le s'erano affollate intorno, e la speranza generale che Ombra finisse col tornare. Malgrado il suo carattere scontroso Ombra era assai popolare fra le Amazzoni, ed aveva da poco sostituito l'anziana Mirina al comando della Cavalleria della Dèa, dopo che per anni tutti l'avevano considerata la sua logica erede. In realtà la bruna guerriera deteneva responsabilità ancor più ampie, dato che la Regina e le Comandanti della Milizia e della Flotta da Guerra non facevano un passo senza averne la sua approvazione. In caso di conflitto contro i Sumerici, o contro Haydukstan o Coralyne, la sua assenza avrebbe avuto gravi conseguenze. Rimuginando i suoi ricordi e le sue preoccupazioni, Goccia di Fiamma lasciò trascorrere il tempo. Quando sorse l'alba poté vedere che il panorama attorno a lei era proprio come le era parso fin da prima: una sterminata palude fangosa che occupava il fondo di una valle arida, circondata da collinette spoglie e sassose. Prima del mezzodì la ragazza riuscì a raggiungere le alture e vi s'inerpicò lungo sentieri tracciati dai pastori. Sporca di fango dalla punta dei piedi fino ai capelli, stanca e insonnolita, lasciò vagare lo sguardo su una costa sconosciuta che si stendeva più in basso, a circa tre leghe di distanza. Si trovava nella parte occidentale del continente, dunque, giusto sulla riva del mare, ma dove di preciso? Un biancore lontano le fece stringere le palpebre: era una città, distante da lei almeno un giorno di cammino e molto vasta, situata su un golfo azzurro. Presso la costa si scorgevano numerosissime isolette sfumate ed immerse nella foschia. Goccia si frugò nelle tasche della gonna rubata nell'appartamento di Alybrea, ormai ridotta a un cencio. Le piccole sfere di cristallo arrotolate nel fazzoletto non c'erano più. Le aveva perse nella palude. Con un sospiro s'avviò, aguzzando gli occhi in cerca di qualche casolare, ma la zona era impervia e poco adatta alle coltivazioni. Tuttalpiù, rifletté, avrebbe potuto trovare un pastore disposto a regalarle un po' di formaggio. Aveva fame. Solo a metà del pomeriggio, quando l'atmosfera si fu un po' schiarita, la ragazza s'accorse che quelle isolette avevano qualcosa di familiare: sebbene viste dalla parte opposta, erano le stesse che aveva trovato sulla rotta del dragocarro qualche giorno addietro. Si trovava nel Tall-Varna quindi, e
forse non troppo lontano dal luogo in cui erano approdati in cerca d'aiuto i suoi due compagni di viaggio. LA CASA DELLE FANCIULLE La Taverna Shloag era un vasto locale d'angolo che s'apriva da un lato sulla piazza del porto di Esperdale e dall'altro sul Molo dei Mercanti, fitto di pittoresche bancarelle assiepate sul lungomare e frequentato da gente d'ogni ceto. La caratteristica peculiare della taverna erano le enormi vetrate color topazio, esposte a mezzogiorno, attraverso le quali il sole fiottava all'interno inondando i tavoli d'una violenta e livida luce giallastra. Cathur Yssarian, il proprietario, aveva infatti scoperto anni addietro che gli avventori, sottoposti al costante influsso di quel bagliore, soccombevano per qualche imperscrutabile motivo ad una sete cronica ed inestinguibile, dando così un gran daffare ai numerosi camerieri che servivano ai tavoli. Un altro geniale espediente con cui l'astuto Yssarian stimolava la mucosa gastrica della clientela consisteva nella musica del suonatore di cornofischio, un malinconico nomade del Ringel che traeva dal suo strumento note acute e snervanti, il cui effetto si sommava in modo strano a quello della luce gialla rendendo secche come il deserto le gole degli avventori. Sulla sinistra della taverna e adiacente ad essa, sorgeva la Pensione Bastri, mentre a destra, sul lato del molo, c'era la sede della Lega dei Dissidenti. Più oltre c'erano molti bordelli frequentati in prevalenza dai marinai, due bazar dove si poteva entrare a discutere verbosamente sui prezzi pur senza acquistare nulla, un fabbricante di casse da morto d'alabastro, un recinto destinato alle aste pubbliche ed alle esecuzioni capitali, e diverse bettole in cui si vendeva solo birra non fermentata. Sulla piazza e sul lungoporto s'aggiravano passanti del più diverso aspetto. C'erano cortigiani del Re Schiavo vestiti con ricche bluse viola e mezzebraghe azzurre con lo sbuffo, calvi Preteunuchi addetti alla Casa delle Fanciulle avvolti nelle tuniche marroni del loro Ordine, guardie dai baffi solidamente incerati ed ornati con nastrini rossi, decine di marinai della Cooperativa del Pesce Secco, ed inoltre cittadini le cui vesti variopinte li classificavano come appartenenti alla Coalizione Allevatori, all'Unione dei Servi Pubblici, all'Alleanza Artisti e Frutticoltori, alla Gilda dei Mendicanti Armati, alla Brigata Conciatori Itineranti, al Collegio dei possidenti, ed a moltissime altre associazioni del genere. Tutte le donne, senza alcuna eccezione, indossavano la tradizionale ve-
reconda, un pesante copricapo di legno che ricopriva interamente la testa e poggiava ai lati sulle spalle, fornito nella parte anteriore di due fori per gli occhi e di uno più grande per la bocca. Vedere in Esperdale - ed in tutto il Tall-Varna - una donna priva della vereconda, era cosa concessa solo ai mariti nel letto coniugale, ed ai Preteunuchi che accudivano le minorenni nella Casa delle Fanciulle. In altre occasioni l'esibizione d'un volto femminile poteva suscitare soltanto scandalo e generale riprovazione, e tali fatti erano seguiti sempre dalla comparsa delle Guardie. Nel Tall-Varna il comportamento erotico era punito dalla Legge del Re Schiavo, ed essendo noto che l'erotismo del volto femminile è più pericoloso e provocante di quello d'ogni altra parte del corpo, non di rado accadeva che una donna venisse denunciata e condannata a morte come provocatrice colposa, reato considerato secondo solo al furto d'arredi sacri e all'omicidio. La donna che in quel mattino d'estate scese le scale di cedro della Pensione Bastri, indossava la tunica gialla della Compagnia dei Pezzenti, e si nascondeva la testa entro una vereconda a forma di zucca in pessimo legno non rifinito. I suoi zoccoli da contadina tonfarono sonoramente sull'assito del pianterreno, richiamando l'attenzione dell'oste Jarraduf, e l'uomo s'affrettò ad uscire dalla cucina piena di scarafaggi dove s'era attardato a palpeggiare il sedere della sguattera, una ringhiosa brunetta di nome Bula. Jarraduf aveva un volto magro e foruncoloso, perennemente atteggiato ad un'espressione di sospetto, e portava un larghissimo paio di brache color carota rimastegli dal tempo in cui faceva parte della Carovana dei Funamboli. Dai suoi clienti era soprannominato Jarraduf il Gatto, a causa della sua sveltezza nel piombare su coloro che tentavano di uscire dalla pensione senza aver pagato il conto. Con un sorriso melenso e diffidente si fece incontro alla donna alta e dallo strano accento che aveva trascorso lì la notte. «Felice mattino a te, sorella. Hai riposato bene? Sei soddisfatta della mia umile locanda?» la interpellò, bloccandole abilmente l'uscita. «Sono soddisfatta della camera, ma non altrettanto delle pulci che la infestano», brontolò lei, frugandosi in una tasca della tunica malandata. «Ecco quanto ti devo, Jarraduf: due forati di bronzo. Avrei potuto pagarteli anticipatamente ieri sera, se volevi». «La fiducia nell'onestà altrui allieta il sonno del locandiere», sentenziò l'ometto, scostandosi per farla passare. «Hai intenzione di tornare stanotte, sorella? T'informo che se mediti di recarti al dormitorio della Campagnia dei Pezzenti troverai le stesse pulci ed un conto più salato».
La ragazza, che altri non era se non l'amazzone Goccia di Fiamma, lo fissò con due occhi verdi e imperscrutabili da dietro i fori della vereconda. «A parte gli insetti, stanotte, mentre tu eri di sopra a far cigolare il letto della sguattera, un marinaio ubriaco ha cercato di entrare nella mia stanza». «Che la Stella mi salvi!» sogghignò Jarraduf, fingendosi esageratamente scandalizzato. «Vuoi dire che un bruto avvinazzato ha insidiato la tua preziosa castità proprio in casa mia? Dimmi chi è costui e lo denuncerò alle Guardie». «Non so chi sia», disse lei, uscendo. «Ma tu domanda a chi appartengono i due denti rimasti a terra nel corridoio. Quel brav'uomo li ha smarriti mentre gli indicavo la via della sua camera». Quando fu sulla piazza del porto, Goccia si trovò subito immersa nel fitto viavai della gente e dei carretti che transitavano sul lungomare e nell'intreccio di vicoli retrostanti. Esperdale era una città, operosa, caotica, perfino più grande di Shorn. Malgrado le usanze bizzarre, la spiacevole presenza delle statue lignee raffiguranti Alybrea e la molestia recatale dall'obbligo di portare la vereconda, all'Amazzone Esperdale piaceva moltissimo. Il popolino era incolto ed ignorante, ma formato da gente vivacissima e dall'eloquio spesso elegante. Lo stesso locandiere Jarraduf, rozzo com'era, sapeva esprimersi con una gentilezza di linguaggio che testimoniava d'un retaggio culturale vecchio di millenni, sebbene ciò non lo rendesse meno perfido e astuto di un qualsiasi oste sumerico abile a derubare nottetempo i clienti. La ragazza gettò un'occhiata attraverso i finestroni gialli della Taverna Shloag, dov'era entrata la sera prima a bere un boccale di vinsacro, e la vide affollata di clienti. Dietro il bancone, Cathur Yssarian stava agitando in aria i biglietti d'una lotteria il cui premio consisteva in una botte di birra d'importazione, e gridava per imbonire gli avventori. Benché fosse mattino le grosse lampade ad olio erano accese, senza dubbio col solo scopo d'aumentare il caldo nell'interno del locale, e Goccia perse all'istante la Voglia d'entrarvi in cerca d'informazioni. Sforzandosi d'ignorare l'afa ed il disagio causatole dal mascherone, e sperando che le cinghie degli zoccolacci non le si spaccassero intorno ai piedi, s'incamminò sul Molo dei Mercanti addentrandosi fra le bancarelle colme di merci. La ragazza s'era procurata ciò che indossava il mattino addietro, in un casolare di campagna, da una famiglia di contadini ai quali aveva dappri-
ma domandato soltanto un po' d'acqua da bere. La vista del suo volto nudo li aveva fatti arrossire per l'imbarazzo, ed ella aveva dovuto spiegare che non aveva familiarità con le usanze del Tall-Varna, essendo appena giunta lì dai confini di Falheire. Avendola quindi identificata come una straniera ignorante, quei poverissimi popolani s'erano affrettati con impegno commovente ad istruirla sul comportamento che una donna morigerata doveva tenere nella loro terra, e le avevano perfino prestato qualche moneta. Come accadeva ovunque, aveva riflettuto l'amazzone con un sorriso, era sempre la gente più misera a sapersi mostrare più larga di cuore e disposta ad aiutare i viandanti. S'era ripromessa di ripagarli con generosità, se avesse potuto. Ora le sue preoccupazioni erano rivolte al destino toccato a Babeeri. Non aveva dubbi che la fanciulla e Cobal Gavelord fossero riusciti ad approdare sulla costa nei pressi di Esperdale, e s'augurava che avessero evitato d'aggirarsi nelle vie circondariali, i cui punti nevralgici erano certo tenuti sotto sorveglianza dai Dottori dell'Oscuro. Anche in città c'erano centinaia di quelle statue attraverso i cui occhi i servi di Alybrea spiavano i passanti, piazzate nelle zone di maggior traffico, ma l'affollamento e la struttura complessa dei quartieri popolari avrebbero costituito una buona protezione per la giovane Khoiné. In aggiunta a ciò, Babeeri non avrebbe potuto circolare senza la vereconda. Goccia aveva già concluso che quell'assurda e scomoda maschera aveva i suoi lati positivi, dei quali era decisa ad approfittare. Percorse tutto il lungoporto sbirciando ogni passante. Gli abitanti del Tall-Varna erano assai chiari di pelle, e fra essi Cobal Gavelord sarebbe balzato all'occhio come un pisello fra i chicchi di riso. Domandando qua e là non avrebbe tardato a sapere se in Esperdale s'era visto uno Shang dalla caratteristica pelle verdolina. E il dragocarro che fine poteva aver fatto? Certo, si disse, qualche marinaio doveva aver notato quel singolare mezzo anfibio, a patto che lo Shang fosse riuscito a farlo navigare fra l'isoletta e la riva. Quando fu giunta al cancello dei cantieri navali, una Guardia del Re Schiavo le impedì di passare oltre, ed ella tornò indietro fermandosi a sbirciare in ogni bettola. Di nuovo s'attardò a guardare attraverso le vetrate delle Taverna Shloag, ma tutti i clienti che sedevano all'interno le parvero dell'identico colore malaticcio, giallastro. Frugandosi nelle tasche trasse fuori i cinque forati di bronzo che le erano avanzati, una somma ridicola bastante appena per due pasti. Se avesse cominciato a spenderli per far
parlare gli accattoni, o i frequentatori delle bettole, sarebbe rimasta al verde in meno d'una clessidra. Con un sospiro decise di guardarsi attorno ancora per un poco, e si diresse a caso per i vicoli stretti della zona portuale. Verso il mezzodì, e piuttosto affamata, si trovò a camminare nelle strade spaziose della città alta, dove sorgeva il monumentale palazzo di Sua Umiltà Tharma Ganovash, il Re Schiavo, l'uomo che Alybrea aveva lasciato al governo del Tall-Varna tanto per tener buona la popolazione. Intorno all'edificio c'erano prati, giardini, viali alberati fiancheggiati da eleganti case appartenenti alla nobiltà ed un paio di grosse caserme. Le statue nere di Alybrea erano più fitte lì che altrove, fatto che all'Amazzone apparve logico, ed ella si domandò se anche lì esisteva una base sul genere del Forte di Trendig dalla quale gli accoliti della Stella Nera sorvegliavano la gente sulle strane finestrelle vitree delle loro macchine. Sul palmo della mano delle statue, volto in avanti, spiccava nitida e minacciosa la stellina nera, ed i passanti che erano costretti a transitarvi accanto tiravano via svelti, a capo chino. C'era un traffico notevole di portantine, sorrette da quattro ed anche da sei uomini, e le ricche dame che si scorgevano in quei veicoli portavano vereconde artisticamente decorate e di foggia varia, spesso fantasiose al massimo. Goccia ne vide una, che sbirciava fra le tendine, la cui maschera era senza dubbio d'oro zecchino finemente cesellato. Con la sua tunica da Compagnia dei Pezzenti e la vereconda in legnaccio grezzo, ella non faticò a sentirsi ben presto più derelitta e depressa di quanto non le sarebbe piaciuto. Sedette all'ombra d'un grosso cedro e restò un poco ad osservare pigramente la strada. I suoi pensieri vagarono malinconici sugli avvenimenti passati, ed ella si domandò cosa ne fosse stato di Ombra di Lancia, la persona che più d'ogni altra le stava a cuore. Era giunta anche lei sana e salva nel Gondwana? O piuttosto, era veramente quella la destinazione della nave sumerica salpata da Cranach oltre un mese addietro? Le mancavano le prove perfino per stabilire quel semplice fatto, e nel rendersene conto le sfuggì un sospiro di sconforto. Quante volte ormai, dal giorno in cui era partita dalle Terre Basse di Afra, era arrivata in città straniere e s'era seduta a guardare la gente sperando di vedere il volto severo e attraente, duro, e tuttavia tanto caro della ragazza al fianco della quale era cresciuta e divenuta donna! Quante cittadine sperdute, quante oasi frequentate da pastori e cammellieri, quante
strade polverose aveva percorso a piedi ed a cavallo! Quanti piccoli porti del nord-est e di Ahrab aveva visitato in quel lungo, lunghissimo anno di ricerche infruttuose! In alcuni di quei luoghi ella era giunta con vesti di gran lusso ed un ricco bagaglio, in arcioni ad un bel cavallo o su un carro, ed in altri aveva fatto la sua comparsa malmessa e senza una piastra nelle tasche. Spesso era stata costretta ad usar la spada per difendere la sua vita, come nell'Oasi di Al Kwantara dove aveva incontrato Bebeeri. In un paio d'occasioni s'era risvegliata in un fossato con un bernoccolo sulla testa e spogliata d'ogni avere, e s'era presa sia le febbri di palude che un'infezione intestinale causata dall'acqua cattiva. Ma non aveva trascorso una notte senza sognare Ombra: la sua espressione facile ad incupirsi, la sua voce calma, e l'infernale vitalità? Ed in tal caso, sarebbe stato possibile farla rinsavire dalla follia che s'era impadronita di lei trasformandola da una fredda Comandante della Cavalleria nella più feroce piratessa di tutti i mari? L'Amazzone era lì che si rodeva l'anima da circa una clessidra, allorché fu distolta bruscamente dalle sue meditazioni da un vocio crescente, e vide che nell'ampio viale alberato i passanti mostravano una certa agitazione. La gente s'assiepava ai lati sotto i cedri, e tutti stavano guardando dalla parte del grande palazzo reale. Goccia s'alzò, andando a mettersi al fianco di un mendicante che teneva al guinzaglio una scimmietta, e notò che si. stava avvicinando un corteo. Nel mezzo della strada venivano avanti molti personaggi elegantemente vestiti, che procedevano con una sorta di maestosa alterigia occupandone tutta la larghezza, e dietro di loro seguiva almeno un centinaio di portantine sorrette da schiere di servi in livrea. Più oltre c'erano file e file di Guardie. «È una soddisfazione che non capita tutti i giorni!» esclamò il mendicante, senza rivolgersi a nessuno in particolare. «Che cosa sta succedendo?» gli domandò Goccia. L'altro fece un sogghigno fra la barba. «Tieni gli occhi bene aperti, sorella, perché questa sarà la prima e l'ultima volta che potrai vedere la faccia nuda di Damigella Raire Nazarine. Proprio lei in persona, e senza la sua vereconda di diamanti azzurri». «E chi sarebbe costei?» Il mendicante la gratificò d'uno sguardo ironico, col quale valutò lei, la sua veste e la sua ignoranza. «Chi è, mi chiedi, o sorella che vieni dalla campagna? È come se tu domandassi ad un topo di fogna chi è la Luna.
Certo io non ho mai avuto l'onore di vederla prima d'ora, e neppure da lontano. Ma tutti sanno che Damigella Raire Nazarine è l'orchidea della corte di Sua Umiltà, è la gemma della sua corona aurea ed il lume dei suoi occhi. La fanciulla è l'unica figlia femmina di Tharma Ganovash, il nostro sovrano, che gli Dèi lo salvino sempre!» Goccia di Fiamma osservò incuriosita la processione. Davanti venivano dieci preteunuchi anziani e grassocci, quindi una ventina di nobili armati di spada che facevano ala ad una figuretta di fanciulla, la quale camminava in splendida solitudine al centro del viale. Nelle portantine c'erano dame dalle vesti preziose, col capo coperto da meravigliose vereconde d'argento, d'oro, d'avorio ingemmato e di fattura tale da lasciare a bocca aperta. Ma Damigella Raire Nazarine, che dimostrava appena tredici o quattordici anni, vestiva semplicemente di bianco e senza alcun ornamento. Il suo volto infantile era scoperto, nudo, piuttosto pallido nella cornice dei capelli corvini. All'Amazzone sembrò che tanta gravità nel procedere e tutte quelle espressioni serie stessero ad indicare una circostanza non certo piacevole, e questo le fu confermato quando poté leggere in viso alla figlia del Re Schiavo una mestizia quasi funerea. «Non mi sembra una festa molto allegra», commentò. «Allegra, dici? Sorella, fai che Sua Umiltà non veda due occhi divertiti dietro la tua contadinesca vereconda, altrimenti potrebbe far cenno alle Guardie di mandarti a ridacchiare nelle prigioni. Questo non è un lieto giorno per la sua famiglia, sappilo». «Ma dove stanno conducendo la piccola?» «Che la Stella d'Oro mi preservi da tanta ottusità!» esclamò l'altro, disgustato. «Dove credi che la stiano scortando, se non nello stesso luogo dove anche tu hai trascorso dieci anni filati? La Damigella ne ha compiuti trédici oggi, e come tutte ha l'obbligo di restare chiusa nella Casa delle Fanciulle finché non ne avrà ventitré. Fino a quel giorno non vedrà nessuno, salvo il preteunuco che le recherà il cibo. Ecco perché l'intera corte le sta dando l'ultimo saluto». Goccia non domandò altro. Da lì a poco la processione scomparve oltre la curva del viale, ed i capannelli di gente si sciolsero. Molti seguirono i cortigiani tenendosi a rispettosa distanza, compreso il mendicante che se ne andò tirandosi dietro la sua scimmietta, e l'Amazzone decise di tornare nella zona del porto. Di Damigella Raire Nazarine e dei suoi crucci non le importava nulla, ed ella se n'era già dimenticata da un pezzo quando arrivò alla Taverna Shloag.
Nel locale c'era soltanto una ventina di avventori, buona parte dei quali stavano terminando di pranzare, e sul fondo elle vide un paio di prostitute alle quali evidentemente la cucina del proprio bordello non andava a genio, che inzuppavano il pane in una costosa pietanza mista di gamberetti e di ostriche. Goccia di Fiamma avrebbe volentieri commesso un delitto per un piatto simile, dopo un mese trascorso in mare e cinque giorni di fame sul Passo Hollar; ma la sera prima s'era informata sui prezzi ed ora sapeva di cosa avrebbe dovuto accontentarsi. Fermò uno dei camerieri e gli disse di portarle una ciotola di stufato ed un boccale della birra meno costosa, poi sedette accanto alle due prostitute ed aspirò l'aroma di mare che saliva dal loro vassoio fumante. Le ragazze la sbirciarono attraverso i vetri azzurri delle loro vereconde in candido legnavorio, e commentarono qualcosa fra loro a bassa voce, ridacchiando. Indossavano tunichette rosa, di una stoffa lucida e frusciante che Goccia non aveva mai visto, e certo il suo aspetto rustico le divertiva. Si portavano il cibo alla bocca, attraverso il foro delle belle maschere leggerissime, con modi studiati e leziosi, facendo sfarfallare nell'aria le dita dalle unghie ovali dipinte d'argento. Gli altri clienti, in quella luce gialla, sembravano tutti malati d'itterizia. In un angolo il suonatore di cornofischio stava facendo riposare i polmoni e fissava cupamente il fondo di un boccale di vinsacro. Stanca per la lunga camminata, l'Amazzone non riuscì a tenere i pensieri sui suoi problemi e si limitò a guardarsi attorno svogliatamente, finché s'accorse che uno dei camerieri le stava deponendo davanti una ciotola di modeste dimensioni. «Fanno tre forati», disse l'uomo, mettendo giù anche il boccale. Goccia di Fiamma alzò il viso e rimase un istante come paralizzata, riconoscendo anche in quel forte lucore giallastro la faccia familiare di Cobal Gavelord. «Che mi colga un male!» esclamò, balzando in piedi ed afferrando lo Shang per le spalle. «Cobal! Mai mi sarei aspettata di trovarti così facilmente, ragazzo mio. Questa sì è una fortuna!» «La fortuna e la sfortuna sono due concetti soggettivi», replicò l'altro con una smorfia. «Dipendono dai punti di vista, ed i nostri punti di vista non coincidono». «Sono Goccia di Fiamma, idiota!» sussurrò lei, avvicinando molto la vereconda alla faccia verdolina di lui. «Non mi hai riconosciuta? Cosa accidenti stai facendo qui? Siediti, che ho da parlarti».
Lo Shang gettò un'occhiata nervosa verso la porta della cucina, poi si decise a sedersi, seccato dall'impazienza con cui lei lo tirava per una manica. «Yssarian non mi risparmierebbe un salace rimprovero, se mi vedesse oziare», bofonchiò. «Io devo lavorare per vivere, o femmina, e da queste parti la vita non è facile. Sì, quando sei entrata ti ho riconosciuta, malgrado la tua mascheratura. Mi sembra d'averti visto anche ieri sera, mentre t'ingozzavi di pessima birra». La ragazza rimase muta per qualche momento, sbalordita da quella dichiarazione, quindi l'atteggiamento contrariato e noncurante dell'uomo le fece comparire negli occhi una luce rabbiosa. «Ma insomma!» sbottò. «Io vi ho cercati come una pazza per tutta la città, ed ora che vi ritrovo sai dirmi soltanto questo? Se ieri mi hai vista perché non m'hai chiamata, dannato imbecille? Dove hai lasciato Babeeri?» «Non mi strattonare così, o tutti ci noteranno. Non ho potuto mettermi in contatto con te solo per colpa tua, visto che porti abiti rozzi e meschini. Ho dovuto raccontare a Cathur Yssarian d'aver fatto pratica di cameriere presso nobili d'alto lignaggio, e di conseguenza come avrei potuto spiegare che conoscevo una della Compagnia dei Pezzenti? Tu potevi rovinarmi le referenze, o donna scriteriata!» «Dèa che mi proteggi!» mugolò la ragazza, frenando a stento la voglia di mollargli un ceffone. «Stai a sentire, Cobal: tu adesso lasci perdere immediatamente questa stupida idea del lavoro e mi porti da Bebeeri. Chiaro?» L'altro s'agitò, sbuffando. «Immediatamente? Che vorresti dire con questo? Qualsiasi sciocco capirebbe che non è possibile, visto che ciò mi costerebbe il posto. Ti suggerisco di riparlarne domani o posdomani. Inoltre, cosa ti fa presumere che io sia tenuto a sapere dov'è quell'irritante fanciulla?» L'Amazzone gli afferrò un polso con forza tale da paralizzargli le dita della mano, ringhiando: «Guarda che posso diventare molto antipatica, signor mio! Ti ho chiesto dov'è Babeeri». «Per gli Dèi, quanto sei suscettibile», si lamentò lui. «Possibile che tu non comprenda la delicatezza della mia situazione? E va bene... Se insisti ti dirò dove si trova, ma il saperlo non ti servirà a nulla. La piccola sciocca è in un luogo dove né tu né io potremo mai avvicinarla. E se vuoi sapere come la penso, tanto vale che rimanga laggiù». Lo sguardo della ragazza ebbe un lampo così intenso che lo Shang s'af-
frettò a continuare: «D'accordo... Non irritarti così inutilmente. Quella femmina screanzata è stata catturata dai preteunuchi, dopo che fummo sbarcati in questa terra incivile, e condotta in un luogo che ha nome la Casa delle Fanciulle. Là avranno cura di lei in modo acconcio, non temere». Goccia di Fiamma non allentò la stretta attorno al suo polso, ed il riluttante Cobal fu costretto a dimenticare i suoi doveri di cameriere per rispondere ad una serie d'incalzanti domande sui fatti accaduti dal momento del loro arrivo. A quanto disse, dopo che Goccia e Babeeri se n'erano andate ad esplorare quell'isoletta abbandonata, egli s'era messo al lavoro sui meccanismi danneggiati del dragocarro anfibio, riuscendo a far sì che almeno le ruote funzionassero. Al tramonto, quando aveva ormai rinunciato ad accomodare l'elica, s'era tuttavia reso conto che il solo movimento delle ruote sarebbe bastato a far navigare l'imbarcazione, seppure lentamente, e così s'era scostato dalla riva con l'idea di raggiungere la costa. «Vuoi dire che te ne andasti senza preoccuparti di noi?» esclamò lei, incredula. «Niente affatto, credimi», precisò lo Shang. «Era mia ferma intenzione tornare a riprendervi una volta fatto riparare l'Atanor e l'Albero Solare, credimi. Una cosa di dieci o venti giorni al massimo. Nel frattempo non dubitavo che avreste saputo badare a voi stesse, in un'isola così accogliente. Comunque, fu proprio allora che vidi tornare Babeeri, da sola, e la stupidella tanto si sbracciò e gridò che fui costretto a far macchina indietro per prenderla a bordo». Cobal raccontò di non aver capito niente di quanto la fanciulla gli aveva detto, poiché ella era sconvolta e singhiozzante. S'era però reso conto che se Alybrea era riuscita a sorprenderle ed a portarsi via Goccia di Fiamma con l'uso di uno strumento straordinario, anche lui si trovava in pericolo, ed aveva deciso di cambiare aria senza indagare oltre. Giunto ad una decina di leghe a settentrione di Esperdale aveva poi ormeggiato il dragocarro in una piccola insenatura, al riparo dagli sguardi indiscreti. Subito dopo lo sbarco i due avevano avuto una discussione aspra circa la miglior condotta da seguire, e quindi Babeeri se n'era andata per conto suo verso la città, allontanandosi impermalita per una stradicciola. «E perché mai avete litigato?» volle sapere Goccia. «Per una sciocchezza. Eravamo in un paese straniero, senza denaro, ed a me sarebbe occorsa una somma non indifferente per far riparare il dragocarro, capisci? Così le chiesi d'impiegare utilmente le sue doti femminili
allo scopo di raggranellare in breve tempo la cifra bastante. Ma quanto più un argomento è ragionevole, tanto meno voi femmine riuscite a comprenderlo». «Le hai proposto di mettersi a far la prostituta, insomma», borbottò l'Amazzone, incapace di disgustarsi ancor di più. «Vai avanti». Lo Shang proseguì riferendo che verso sera l'aveva ritrovata alla periferia della città, seduta sul ciglio della strada e piangente. A quanto sembrava, Babeeri aveva ingenuamente domandato un passaggio ad un carrettiere, il quale non aveva esitato a condurla invece in un boschetto. Per sfuggire alle sue grinfie la ragazza aveva dovuto correre a lungo fra gli sterpi, e s'era tutta graffiata. «Quasi non la riconoscevo, tant'era impiastricciata di tinta rossa da capo a piedi. Disse d'aver rubato una tinozza di henné in un casolare». «E a che scopo?» si stupì Goccia. «Ma per tingersi i capelli, no? Aveva paura d'esser individuata da non so chi, e voleva rendersi irriconoscibile. Così aveva usato quell'henné per farsi le chiome di un rosso mogano. Io la rimproverai d'essersi macchiata del reato di furto». I due s'erano avviati verso Esperdale, e Cobal aveva suggerito alla fanciulla di mostrare alla gente la stellina bianca che le ornava il palmo della mano, facendosi così riconoscere come la Khoiné, ma ella s'era rifiutata con fermezza e lo aveva insultato con tutte le parolacce in sumerico ed in lingua Shang che conosceva, ordinandogli di tacere sulla sua identità. Quel pomeriggio però la giovanetta era stata notata da alcuni contadini, e qualcuno di costoro doveva aver avvertito i preteunuchi. Prima ancora d'entrare in città, infatti, erano stati raggiunti da una coppia di religiosi in saio marrone, robusti e dai modi molto decisi. «Un momento», lo interruppe l'Amazzone. «Babeeri non portava la vereconda, ed in questi casi la gente chiama le Guardie. Perché sono arrivati questi preti, invece?» «Che domanda insulsa! La tua amichetta è minorenne, basta guardarla in faccia per accorgersene. Del resto lei stessa ammise d'aver appena diciott'anni, quando i preteunuchi le ordinarono di dichiarare la sua età. Diede loro un falso nome, ma la bugia non le servi a niente, perché i due l'accusarono d'esser fuggita dalla Casa delle Fanciulle di qualche altra città. Subito dopo la condussero via con loro». «Ed è stata una fortuna per lei», asserì Cobal, convinto. «Pensa che cercava appunto un luogo sicuro dove nascondersi, e ora l'ha certo trovato.
Puoi scommettere che la svanitella non avrà più occasione di cacciarsi in qualche guaio, e che per cinque anni trascorrerà una vita tranquilla, lontana da ogni minaccia esterna. Per quanto io non le sia affezionato, ti confesso che sono contento per lei. Meglio di così non le poteva andare». Goccia fece udire un versaccio come tutto commento, e per un poco si limitò a fissarlo in silenzio. Avrebbe voluto chiedergli subito dov'era la Casa delle Fanciulle, ma ne fu impedita da una figura che comparve quasi all'improvviso accanto al tavolo. Era Cathur Yssarian, che fece un sorriso untuoso allo Shang e s'inchinò sprizzando ironia da tutti i pori. «Perdona se interrompo un colloquio galante fra te e questa... uhm, chiamiamola una dama dall'aspetto strano, o cittadino!» esclamò con voce sardonica. «Consenti che vi offra due boccali di vinsacro, con gli omaggi della casa. Garzoni, venite a servire il vostro collega Gavelord, che parla da una clessidra ed ha certo la gola secca!» Lo Shang s'era affrettato ad alzarsi. «C'è un equivoco, cittadino Yssarian. Posso spiegarti tutto. Avevo un affare in sospeso con costei, ma capisco d'aver commesso un'infrazione. Scusami... Ora vedo laggiù un cliente che vuole ordinare una consumazione. Più tardi ti fornirò un'ottima giustificazione, che sarai così magnanimo da accettare senz'altro». Yssarian gli premette una mano su una spalla, costringendolo a sedersi di nuovo, e gli sorrise ampiamente. «Per carità, accomodati e sbriga il tuo affare importante, caro Gavelord. Immagino che con una cittadina della Campagnia dei Pezzenti debba trattarsi di cosa giust'appunto rilevante e sostanziale. Hai tutto il tempo che desideri, prima di passare a ritirare la tua paga». «Vuoi dire che sono licenziato? Se è così, potevi annunciarmelo con minore cinismo e brutalità!» replicò lo Shang, impettito. «Oh, mi accusi d'aver ferito i tuoi sentimenti, cittadino? Allora diciamo che le vicissitudini di questa vita mortale m'impongono di separare la mia sorte dalla tua, se ti piace di più. Senza contare che le referenze da te fornitemi sono risultate del tutto fasulle». «Molto bene!» Cobal si erse in tutta la sua persona. «Ed ora, cittadino Yssarian, permettimi di dire davanti all'intera clientela ciò che penso di te e della tua bettola. La mia opinione, formatasi attraverso un'attenta indagine sui tuoi sordidi...» «Farai meglio a tenertela in bocca!» lo fermò l'altro, indicando quattro camerieri che si stavano avvicinando con aria minacciosa. «A meno che tu non preferisca andarla a raccontare ai pesci, nelle acque del porto».
Da lì a poco, quando Goccia di Fiamma ebbe terminato di mangiare, lei e Cobal Gavelord uscirono sulla piazza assolata e s'incamminarono fianco a fianco lungo il Molo dei Mercanti, ciascuno immerso nelle proprie meditazioni personali. Il pomeriggio era caldo, luminoso, ed essendo l'ora della pausa del mezzodì le bancarelle erano chiuse. I passanti erano scarsi. Una grossa barca da pesca scaricava dozzine di ceste d'aringhe, e i due sedettero sulla banchina con le gambe penzolanti ad osservare il lavoro dei marinai. «Senti un po', Cobal», disse l'Amazzone in tono pensoso. «Credi che sia possibile far marciare il dragocarro sulla terraferma, così com'è?» «E a quale scopo?» brontolò cupamente lui. «Certo, le ruote funzionano. Ma l'Atonor e la Crisopea... insomma, la caldaia e il forno a legna, non saranno mai più quelli di prima. Occorrerebbe rivedere tutto il Sistema di Rubefazione del Vapore, prima d'affrontare un viaggio lungo». Vi fu una pausa di silenzio, poi lo Shang distolse gli occhi dalla spazzatura che galleggiava sull'acqua e fissò la ragazza. «Perché me lo domandi? Forse che ti è venuta un'altra delle tue folli idee? Se è così sappi che non desidero esservi immischiato». «Fai come ti pare. Ma avrei giurato che tu avessi ben altre ambizioni. Fare il cameriere in una lercia bettola ti piaceva tanto? Allora vai pure a cercare un altro Yssarian che ti faccia sgobbare e ti maltratti. Non ti trattengo». «Uhm!» sbuffò l'uomo, seccato. «Questo disprezzo per lo spirito d'adattamento di cui sanno dar prova solo gli ingegni più validi è tipico delle femmine vane e superficiali. Tuttavia ammetto che una persona quale io sono merita obiettivi più elevati. Cosa mi proponi? Sentiamo». Goccia di Fiamma glielo spiegò. Secondo il suo piano Cobal avrebbe dovuto tornare a recuperare il mezzo anfibio, e quindi dirigerlo verso un punto della costa dove fosse possibile farlo inerpicare sulla riva. A questo punto, evitando le strade principali e tagliando per i terreni incolti, avrebbe cercato di raggiungere la Pista Deoghar ad oriente di Esperdale, aggirando la città. «Ed una volta lì, troverò te ad aspettarmi?» «Diciamo che sarai tu ad aspettare me, Cobal. Difficilmente riuscirò a portare a termine il mio progetto prima dell'alba di domani. Credi che avrai qualche difficoltà?» «Una sola, o femmina: se l'azione che ti proponi è quella che io sospetto, allora non potresti intraprendere nulla di più illegale.
Cosa ti fa scioccamente supporre che io desideri essere incarcerato come tuo complice in un crimine sacrilego?» Lo Shang tergiversò e protestò ancora, ma doveva esser stanco quanto lei d'indugiare in quella città senza un vero scopo e finì con l'accettare, seppure di malavoglia. Goccia gli ripeté ciò che aveva saputo dall'oste Jarraduf sulla Pista Deoghar: la strada conduceva ad oriente, attraversando prima la Catena del Sao Satél e poi una landa sterminata chiamata Bassopiano Ringel, ed ella intendeva seguirla fino alla città di Lahaina, centro nevralgico del Gondwana. Era la pura verità, anche se l'Amazzone non aveva la minima idea di cosa avrebbe fatto una volta arrivata laggiù. «Ma non riuscirai a liberare quella ragazza», obiettò lui, scuotendo la testa. «Da quanto ho udito, la Casa delle Fanciulle è una vera e propria prigione, e nessuno può uscirne. Lo sapevo che mi avresti trascinato ancora in un progetto folle ed irrealizzabile!» «Tu fai il possibile per aspettarmi là dove ti ho detto, Cobal, e vedrai che ti raggiungerò. D'altronde, se è difficile uscire da una prigione, può invece esser molto facile entrarvi». Quel pomeriggio il Kharg e il Sanferoine entrarono in eruzione, gettando l'intera città nella costernazione più profonda. I due vulcani si trovavano a circa trenta leghe a sud di Esperdale, ed a memoria d'uomo non s'erano mai verificati cenni d'attività nei loro immensi crateri di pietrisco lavico. Adesso emettevano altissime fumate nere come l'inferno, visibili a grande distanza, ed i cittadini che raggiunsero i tetti delle case per osservare quel lontano ed impressionante spettacolo asserirono di vedere lave ardenti e piogge di lapilli rosseggiare sulle loro pendici. Goccia di Fiamma, dopo essersi separata da Cobal, colse di passaggio una quantità di discorsi fatti in tono allarmato, e comprese che la gente stava mettendo l'avvenimento in relazione con la Profezia degli Antichi. Il nome di Alybrea veniva pronunciato ad alta voce, salvo che nei pressi delle sue statue, ed i popolani stavano soccombendo ad un'atmosfera di paura mista a rabbia, al punto che alcuni osavano maledire la Stella Nera con un furore troppo a lungo trattenuto. Dappertutto c'erano facce scure e capannelli di cittadini, e presto sulla città sembrò calare una cappa di silenzio carico di timore superstizioso. La Casa delle Fanciulle, a cui giunse verso il tramonto, era un edificio basso, ad un sol piano, ma di lunghezza sorprendente, ed occupava non meno d'una lega quadrata di terreno fra i campi della periferia. Non c'erano
finestre, ed all'amazzone parve d'accostarsi ad una muraglia liscia lunga oltre mille passi. Sulla facciata rivolta verso la città s'apriva soltanto una porta, mentre nell'interno s'intuiva l'esistenza di un cortile enorme. Davanti all'ingresso c'erano alcune persone, e dal loro atteggiamento capì che stavano aspettando di vedersi aprire. Quando s'accostò li sentì discutere di vulcani, di terremoti, e di ciò che sarebbe successo all'intero continente se la sete di potere di Alybrea avesse accelerato l'avverarsi della Profezia. Sempre più spesso la gente si mostrava incline a dar credito alle leggende, in special modo a quella che narravano di come il Gondwana fosse sostenuto sul suo letto di lava dalle misteriose macchine sepolte dagli Antichi nel più profondo della terra, e l'ipotesi che la perversa gemella di Babeeri attingesse i suoi poteri da esse, distruggendo l'equilibrio di quelle forze occulte, trovava molti sostenitori. Goccia s'appoggiò pigramente con le spalle al muro ed ascoltò le loro chiacchiere. Non tardò a capire che si trattava di due famiglie, venute lì al completo per riprendere nel loro seno le figlie affidate ai preteunuchi dieci anni prima. Una tale usanza le appariva fuori posto in una nazione civile, ma sapeva che anche in diversi paesi di Afra e delle Terre Fredde le ragazze appena puberi erano costrette ad un periodo d'assoluto isolamento. Talvolta s'appartavano per poche decine di giorni, talaltra per anni, e dovunque ciò era causato dalla credenza popolare che le fanciulle potessero contaminare col loro tocco una quantità di cose, dal cibo ai pozzi ed ai campi coltivati. La paura del sangue mestruale era una superstizione universale, ed i sistemi con cui la contaminazione femminile veniva evitata si rivelavano spesso eccezionalmente complessi. Allorché il sole fu tramontato, si udì un catenaccio scorrere rumorosamente oltre la porta massiccia e le due famiglie dimenticarono le loro preoccupazioni sull'eruzione. Il battente si spalancò con un cigolio e comparve un preteunuco, grasso e calvo, che fissò i presenti con aria ingrugnita e ordinò ai capifamiglia di farsi avanti. I due uomini, non più giovani e visibilmente emozionati, dichiararono le proprie generalità e confermarono d'essere in attesa delle rispettive figlie. Il preteunuco consultò un foglio di papiro vergato con inchiostro verde. «Rosalde Liselan Sakron, figlia di Gothar Sakron», lesse ad alta voce. «E Caltris Phebea Baslét, figlia di secondo letto di Serpin Baslét. Esatto. Queste sono le giovani donne che io riconsegno, monde d'ogni impurità e santificate dal loro isolamento, alle mani amorevoli dei loro parenti. Siano esse degne d'uscire alla luce del sole».
L'individuo aggiunse qualche altra frase di rito, pronunciata in tono piatto e svogliato, poi si volse a chiamare un collega. Un secondo preteunuco condusse fuori due ragazze incredibilmente magre, vestite con tunichette viola e vereconde di modestissima fattura, che vennero spinte avanti verso i familiari. La breve cerimonia era tutta lì, e la porta fu chiusa di botto, ma nessuno di quanti erano rimasti all'esterno si mosse d'un passo, e Goccia comprese che i due capifamiglia non avevano idea di quale delle ragazze fosse la loro figlia. Le poverine, peraltro, se ne stavano lì con aria abbacchiata e spalle curve, quasi che l'esser finalmente tornate alla vita normale fosse un avvenimento che le stordiva. «Babbo!» singhiozzò poi una di esse, muovendo avanti qualche debole passo. «Oh, madre... madre!» gemette l'altra, vacillando verso i suoi parenti con gambe del tutto prive di forza. Ci furono abbracci, lacrime ed esclamazioni soffocate. Nessuno parve trovare insolite o stupefacenti le tristi condizioni fisiche delle due ventitreenni, che furono prese in braccio e portate via dai loro padri, ma quando le famiglie se ne furono andate Goccia rimase davanti alla porta a riflettere. Non riusciva a capire perché mai quelle ragazze fossero state ridotte a creature pelle ed ossa, in uno stato di debolezza quantomai pericoloso e difficile da superarsi. Che cosa combinavano i preteunuchi, in realtà, all'interno della casa delle Fanciulle? Il loro comportamento era criminoso e sospetto, ed ella si meravigliò che una cosa simile venisse tollerata. Decisa a trovare un modo d'entrare, s'incamminò lungo l'interminabile facciata in cerca di uno spunto sfruttabile. Il sole era ormai scomparso, ed ella poté vedere i bagliori del Kharg e del Sanferoine stagliati contro il cielo scuro. Ognuno dei vulcani stava eruttando lente colate di lava. Poco distante dal grande edificio la ragazza vide un paio di case coloniche, masse d'ombra immerse nel silenzio dov'era cessata ogni attività, e decise d'attraversare i campi in quella direzione. Ciò che le occorreva era una robusta corda e qualcosa che fungesse da gancio. Per procurarsene una fu costretta a rubarla, aggirandosi alla cieca in una stalla, e nella legnaia trovò un pezzo di radice fornito di spunzoni che bene o male poteva essere usato come uncino. Alla luce della luna tornò indietro, gettò in un cespuglio la tunica e la vereconda, restando vestita solo della malconcia blusa senza maniche e della gonna piena di fango che s'era procurata durante l'incursione negli appartamenti privati della Stella Nera, e si strinse bene la cintura di cuoio da cui pendeva il fodero col pugnale. Poi si mosse a piedi
nudi sulla strada in terra battuta che girava intorno al lunghissimo edificio. Lanciare la corda sul tetto non fu facile, ed ella dovette ripetere l'operazione un paio di volte prima di sentire che il gancio aveva fatto presa in qualcosa; ma infine poté arrampicarsi agile e silenziosa, e quando riuscì a calarsi nel vasto cortile interno fu un'ombra fra le ombre che neppure un'attenta sentinella avrebbe saputo scorgere. Aveva voglia d'agire e di muoversi. Tutti i suoi istinti di Amazzone addestrata al pericolo e alla vita dura venivano alla luce, ed il fatto stesso d'essere immersa in una situazione che avrebbe richiesto l'uso delle armi le procurava un fremito non spiacevole. Ciò che vide, tuttavia, la costrinse a restare del tutto immobile. Sullo spiazzo, dieci volte più largo della piazza del porto, s'affacciavano centinaia di finestre di forma ovale, ognuna delle quali era debolmente illuminata, ma da esse non usciva neppure il più piccolo rumore. Cobal Gavelord le aveva detto che nella Casa delle Fanciulle dovevano esservi fra le cinque e le ottomila giovani donne, la cui presenza avrebbe normalmente causato un sottofondo di mormorii anche nei momenti di massima tranquillità, ed invece a Goccia sembrava d'esser penetrata in un cimitero. Se non fosse stato per quella gran quantità di lampade ad olio accese, ella avrebbe giurato che lì non c'era nessuno. Al centro del vastissimo cortile vide un edificio di mattoni a pianta quadrata, ad un solo piano. Da quel lato c'erano dieci finestre dello stesso tipo senza imposte, illuminate molto più delle altre, ed ella opinò che i preteunuchi abitassero lì. Per circa mezza clessidra la ragazza restò accovacciata contro il muro, cercando di stabilire un piano d'azione, ed in tutto quel tempo non vide muoversi un'anima, quindi decise che doveva entrare. Sguainò il pugnale e saltò dentro dalla finestra più vicina, pronta a cacciare la lama nella gola al primo preteunuco che avesse visto. Si trovò in un locale quadrato, spoglio, ed alla luce della lampada posta in un angolo esaminò ad occhi sgranati per la meraviglia il suo singolare contenuto: al centro del pavimento era fissato un argano, attorno al cui asse cilindrico erano avvolte venti spesse funi di canapa. I cavi andavano dritti fino al soffitto, dentro un cerchio metallico murato lassù, e poi si dipartivano in tutte le direzioni passando in altrettante carrucole. All'altra estremità delle funi erano appese venti grosse ceste di vimini, che pendevano scure ed immobili poco sotto il soffitto. L'Amazzone s'aggirò sotto di esse, perplessa, e quando capì quale doveva esserne il contenuto le sfuggì un'esclamazione stupefatta. Cos'altro poteva esserci, in quelle ceste, se non le fanciulle affidate alle
cure dei preteunuchi? La presenza dell'argano testimoniava che esse venivano regolarmente abbassate e rialzate, operazione necessaria per accudire le più elementari necessità corporali delle ragazze, ma ella stentò a capacitarsi che degli esseri umani potessero sopravvivere in quelle condizioni. La porta del locale dava in un corridoio, e Goccia vi sbirciò con cautela. Era lungo non meno d'un migliaio di passi, cioè quanto tutta la facciata della Casa delle Fanciulle, ed anche lì non c'era nessuno. Tornò allora presso l'argano e lo esaminò. Il sistema di ingranaggi dal ritorno bloccato era ingegnoso, e certo consentiva di sollevare il gran peso delle venti ceste senza sforzo. Stabilito questo diede di piglio alla manovella e cominciò a girarla, facendo scendere pian piano la serie di gabbie fin sul pavimento. Ciascuna aveva uno sportello, ed ancor prima d'averne aperta una a caso ella si rese conto che la sua ipotesi corrispondeva alla realtà, perché numerosi fiochi gemiti le rivelarono che le disgraziate fanciulle s'erano accorte del movimento ed ora chiamavano per le loro necessità, chi lamentandosi sottovoce, chi pregando d'esser tirata fuori, chi limitandosi a battere sulle pareti di vimini con le deboli mani. Ringhiando imprecazioni rabbiose Goccia di Fiamma spalancò la porticina d'una gabbia, e nella scarsa luce vide una giovinetta sui sedici anni, smunta e pallida, che giaceva sul fondo avvolta in una tunichetta scolorita. La prese per le braccia e la trasse fuori, mettendola a sedere sul pavimento. «Ho fame...» mormorò la fanciulla. «Per favore, ho fame». L'Amazzone non rispose. Corse ad aprire tutte le gabbie e si rese conto che non contenevano altro se non un vaso di coccio nel quale le prigioniere facevano i loro bisogni. Il puzzo di orina e di sudore malaticcio le fece storcere il naso; ma la morsa fredda che si sentiva attorno al cuore non era pietà per quelle giovani donne tenute lì come animali, bensì feroce voglia d'uccidere e di distruggere. Ancor prima d'aver tirato fuori dalle ceste le venti ragazze, per controllare se fra di loro c'era Babeeri, ella aveva deciso che non se ne sarebbe andata da lì senza aver scritto il suo nome col sangue sull'intera organizzazione dei preteunuchi. «State zitte!... Fate silenzio!» sibilò, preoccupata dai lamenti e dal vocio delle fanciulle. «Per piacere, non fatevi sentire». Alcune si chetarono, più spaventate che altro, e la fissarono senza capire chi fosse e cosa ci facesse lì. Altre seguitarono a chiedere da mangiare, forse credendo che a tirarle giù fosse stato un preteunuco e girando attorno occhi storditi. Una s'era alzata e vacillava verso la porta, e l'Amazzone dovette fermarla, mentre due o tre dovevano esser malate perché continua-
rono a giacere come prive di vita. Con un sospiro Goccia rinunciò a farle calmare e cercò di metter ordine nei suoi pensieri. Liberare dai loro contenitori diverse migliaia di ragazze era un'idea da scartare, se prima non avesse eliminato dal primo all'ultimo gli individui che le sorvegliavano, e costoro erano senza dubbio molte decine. Però ogni cesta aveva un cartellino con il numero d'ordine, e quando aveva guardato nel corridoio aveva visto che anche i locali erano numerati. Ciò le suggerì che da qualche parte doveva esserci un registro, nel quale era annotata la collocazione delle ragazze. Dunque doveva mettervi le mani sopra, se voleva ritrovare Babeeri alla svelta. Uscì dallo stanzone e corse avanti nel corridoio, dove l'illuminazione era data da lampade piccole e molto distanziate. In ogni locale in cui guardò vide l'identico spettacolo, e ad occhio e croce calcolò che in quell'ala del caseggiato ve ne fossero cento. Se ognuno ospitava venti ragazze, in un totale di quattrocento stanze dovevano essercene ottomila. Una vera folla di disgraziate condannate ad un'esistenza miserevole, rifletté con indignazione. D'un tratto s'arrestò, udendo cigolare uno degli argani. Il rumore proveniva da una porta che non seppe identificare, fra le molte che aveva davanti, e proseguì in punta di piedi. Nel quarto locale in cui guardò vide un uomo in tonaca nera, che stava facendo scendere al suolo le ceste appese al soffitto. Probabilmente intendeva rifornire d'acqua le fanciulle, dato che aveva deposto lì accanto una grossa giara ed un mestolo di rame, ed il suo atteggiamento era quello di chi compie da anni un lavoro monotono. Ma il colore della sua tunica aveva fatto irrigidire l'Amazzone, che sbarrò sulla sua schiena due occhi colmi d'orrore: calvo e vestito di nero l'uomo non era altri che un Dottore dell'Oscuro, e se pure aveva mai messo la tunica marrone dei preteunuchi ora appariva esattamente simile ai seguaci di Alybrea che lei ed i montanari di Falheire avevano massacrato al Forte di Trendig. La ragazza rimase paralizzata da quella scoperta. Cosa stava facendo un Dottore dell'Oscuro nella Casa delle Fanciulle? Si ritrasse nel corridoio e s'appoggiò con le spalle al muro. Se l'uomo lavorava lì era necessario trarne immediatamente la deduzione peggiore, rifletté con un brivido, e cioè che l'ordine dei preteunuchi era una facciata dietro la quale si nascondevano gli accoliti della Stella Nera. L'edificio era dunque la base d'operazioni da cui i Dottori con le loro macchine capaci di produrre il gelo tenevano sotto controllo la regione del Tall-Varna, ...e Babeeri era finita
proprio nelle mani dei suoi peggiori nemici! Goccia di Fiamma deglutì saliva un paio di volte, mentre tutti i suoi pensieri andavano in stallo. Una sola cosa le era chiara: le difficoltà che s'era prospettata ora le apparivano un gioco da bambini, se confrontate alla realtà di quella situazione. L'Amazzone dovette respirare a fondo una ventina di volte, per ritrovare un po' di lucidità. Quando si fu calmata strinse forte l'elsa del pugnale e balzò nel locale con la velocità d'una pantera. Il Dottore dell'Oscuro si voltò a mezzo, chino sull'argano, e tutto ciò che vide fu un lampo metallico: la lama lo colse sotto il mento e gli affondò nel cranio dal basso in alto, con tale violenza che sfondò cervello ed ossa in un solo istante. Goccia di Fiamma corse nel corridoio esterno a passi felpati, tendendo le orecchie. Uccidere quell'individuo le aveva dato una sorta di terribile soddisfazione, ed ora le cellule del suo corpo reagivano chiedendo altro sangue, altra ferocia, ma capiva che ad ogni passo poteva scontrarsi con un tipo di pericolo che forse non avrebbe saputo affrontare. A Passò Hollar era stata messa al corrente con ampiezza di particolari sulla strana arma a forma di tubo chiamata sparafiamma, e seppure durante l'attacco al Trendig non ne avesse visto neppure un esemplare, ella sapeva che i Dottori dell'Oscuro potevano farne uso. Come avrebbe potuto comportarsi davanti ad un uomo capace di uccidere da molti passi di distanza? Tutta la sua abilità nel combattere con le armi da taglio non sarebbe valsa a nulla, contro un simile avversario. Gileon le aveva appena detto che l'unica difesa consisteva nello spostarsi qua e là a saltelli, nella speranza d'evitare la pallottola, e che la pesante canna d'ottone emetteva un rumore tonante. Arrivata all'estremità del corridoio vide che questo voltava ad angolo retto e proseguiva interminabilmente, forse girando intorno all'intero perimetro dell'edificio. Ma nel primo locale c'era qualcuno che parlava a bassa voce, ed ella avanzò con cautela. Si fermò a lato della porta, evitando di sporgere il capo per sbirciare all'interno, ed attese di capire quanti avversari si sarebbe trovata a dover affrontare. Le voci erano due, e l'argomento di cui discutevano era la presenza alla Casa delle Fanciulle della figlia del Re Schiavo, cosa che avrebbe creato qualche problema organizzativo. Quegli individui si stavano preoccupando delle visite, in altri casi assolutamente vietate, che un funzionario della corte avrebbe fatto ogni mese per controllare il trattamento riservato alla giovanetta. Ovviamente Damigella Raire Nazarine non era stata ficcata in un cestone a languire, e per lei s'era dovuta arredare una camera appartata, fatto questo che i due deprecavano. Goccia li sentì alludere alla presenza di un ospite, un Princi-
pe straniero alleato con Alybrea, che in quel momento si trovava nella costruzione isolata al centro del cortile, ma non venne fatto alcun cenno a Babeeri. L'ipotesi che la giovane Stella d'Oro non fosse stata ancora identificata cominciò a sembrare più solida a Goccia, che fino a quel momento avrebbe giurato il contrario. Alybrea aveva senza dubbio ordinato di far cercare la sua gemella lungo tutta la costa, ed anche un idiota avrebbe capito che quella ragazza catturata a nord di Esperdale non poteva essere altri che lei. Tuttavia un tale argomento sarebbe stato mille volte più importante delle noie causate dall'arrivo di Damigella Raire Nazarine, e se i due lo ignoravano significava che il nuovo colore delle chiome di Babeeri aveva funzionato, almeno fino a quel momento. Era possibile ciò? L'Amazzone decise che c'era un solo modo per togliersi il dubbio: allargò saldamente i piedi scalzi a far presa sul pavimento, e poi si precipitò nella stanza come scagliata da una molla. Entrambi gli uomini indossavano la tonaca nera, ed il più vicino di essi sedeva su un panchetto di legno davanti ad un rustico tavolo addossato al muro. Fu lui ad essere investito in pieno dalla carica dell'Amazzone, ed il boccale da cui stava bevendo volò fuori dalla finestra quando tutto il peso delle ragazza lo travolse a terra. Goccia rotolò via con una contorsione, scalciando per togliersi di dosso il corpo inerte nel quale aveva affondato due volte la lama dell'arma. Il secondo Dottore dell'Oscuro era lontano da lei, al lato opposto del locale, e fino a quel momento era stato occupato ad aspirare il fumo di un grosso narghilè, ma adesso s'era alzato e correva verso uno scaffale su cui era deposto un lungo tubo di ottone. L'Amazzone saltò in piedi con un colpo di reni nello stesso istante in cui l'uomo afferrava lo sparafiamma e glielo puntava contro. Con un sogghigno crudele il Dottore dell'Oscuro sollevò l'acciarino a pietra focaia, che fece uno scatto, e quella fu l'espressione che gli rimase dipinta sul volto quando il pesante coltello della ragazza volò più rapido del lampo a conficcarglisi sotto lo sterno, con precisione fulminante. Lo sparafiamma cadde dalle sue mani irrigidite ed egli annaspò sulla superficie liscia d'un canterale, facendo finire a terra un vaso d'alabastro ed alcuni rotoli di papiro, poi si piegò in due e rotolò sul pavimento. Il possesso di un'arma mortale non gli era servito a molto, contro un'Amazzone capace di centrare qualunque bersaglio a breve distanza, ed il coltello di lei era stato più veloce e micidiale della bizzarra canna da fuoco. Ignorando i due cadaveri Goccia raccolse lo sparafiamma e lo esaminò.
Farne uso le sarebbe piaciuto, ma sapeva d'essere troppo ignorante per provarcisi lì per lì; e preferì lasciarlo stare. Intanto aveva provocato un certo rumore, e non s'illuse di poterla far franca ancora per molto. Qualcuno sarebbe accorso a controllare cos'era successo, e sarebbe stato dato l'allarme. Sul tavolo c'erano altri fogli di papiro, rotoli di pergamena dai contorni irregolari ed il necessario per scrivere. Un pesante tomo cucito in pelle di vitello attrasse la sua attenzione, ed ella lo aprì. Come aveva sperato si trattava di un registro delle presenze, e le pagine erano fitte di nomi e numeri ordinatamente incolonnati. Visto che nel cortile e nel corridoio non si sentiva alcun suono di voci, sfogliò le pagine in cerca dell'ultima. I nuovi arrivi erano elencati lì in inchiostro verde, e poté infatti leggere quello di Damigella Raire Nazarine, alla quale era stata assegnata la stanza 299. Babeeri non vi compariva affatto, ed ella guardò sotto le date di tutti gli ultimi venti giorni prima di rammentare che la fanciulla aveva fornito ai preteunuchi false generalità. Tornò alla data in cui era stata catturata. Quel giorno quattro ragazze avevano fatto il loro ingresso nella gabbia che le avrebbe ospitate per i prossimi dieci anni, ed i nomi che vide non le dissero niente; tutte quante però erano state messe nella stanza 298. Goccia uscì e s'incamminò alla ricerca di quel numero, non prima d'essersi appropriata d'una grossa e succosa mela che tolse da un vassoio. Aveva fame, e non trovava niente di male a riempirsi lo stomaco anche in una situazione tanto precaria. Ci mise poco a raggiungere la stanza 298, e lungo il percorso non incontrò nessuno, ma il pericolo costituito dai cadaveri che s'era lasciata dietro la rendeva tanto nervosa che mentre alzava gli occhi alle ceste la voce le uscì in un sibilo rovente: «Babeeri!... Babeeri, sei qui?» chiamò. Non ebbe risposta. Imprecando contro la sua stessa stupidità ella capì che stava perdendo tempo. Se la fanciulla non era finita fra le grinfie di Alybrea fin dal primo momento, rifletté, voleva dire che gli uomini di Yaya Dhuba erano una banda d'incapaci. «Babeeri! Maledizione, sei qui? Sono Goccia di Fiamma!» esclamò ancora. Una delle ceste si scosse, oscillando all'improvviso, e da essa venne un grido straziante: «Goccia!.... Oh, Goccia!» gemette la voce alterata dall'emozione della fanciulla, spezzandosi in un singhiozzo disperato.
Un attimo dopo l'Amazzone dovette ripeterle più volte di stare zitta e quieta. A peggiorare le cose, anche altre delle ragazze facevano baccano. Babeeri stentava a tenersi dritta, ma più per l'emozione che per i disagi patiti in quei pochi giorni, ed appena si fu tranquillizzata ritrovò le forze. «Non mi lasciare più!... Non mi lasciare più!» era capace di dire soltanto. Goccia dovette abbracciarla di nuovo, intenerita, poi la prese per le spalle. «Adesso ascoltami, tesoro. Nella stanza accanto a questa c'è una persona, e bisogna parlare con lei. Ma subito, perché ogni secondo può esserci fatale. Vieni con me». Lasciando perdere le rimanenti ceste, nelle quali le fanciulle seguitavano a domandare chi del cibo e chi qualcos'altro, Goccia condusse Babeeri nel locale numero 299. Si trattava d'una lussuosa camera da letto, e seduta su una poltroncina c'era una giovanetta bruna di piccola statura, che nel vederle entrare assunse un'aria spaurita ed esclamò: «Chi siete? Cosa volete da me?». L'Amazzone le fece cenno di tacere. Poi afferrò il polso sinistro di Babeeri e le girò la mano, mostrando all'altra la stellina a cinque punte che occupava il centro del suo palmo. «Dimmi, Damigella Raire Nazarine, conosci questo simbolo?». La brunetta sbatté le palpebre, fra insospettita e perplessa. S'avvicinò per guardare meglio e d'un tratto si portò le mani alla bocca. In pochi istanti il suo viso fanciullesco perse ogni colore, ed ella alzò gli occhi verso quelli di Babeeri come se davanti a lei ci fosse una divinità. Cadde di colpo in ginocchio, farfugliando: «La Signora Khoiné! La Stella... la Stella d'Oro! Ed è viva!». Fu Babeeri che dovette farla alzare, prendendola per le mani, e poi guardò Goccia senza saper cosa fare. Ma l'Amazzone non era in vena di perdere tempo in convenevoli. Fece girare verso di sé la tredicenne e le piantò gli occhi in faccia. «Ascoltami, Damigella: questa che vedi è Babeeri, la Khoiné, ed è tornata nel Gondwana per sconfiggere il potere malefico della Stella Nera. Ma è urgente agire subito o saremo perduti, perché in questo luogo ci sono i Dottori dell'Oscuro. Mi capisci?». Goccia dovette tappare la bocca della ragazzina, che a quella notizia stava per mandare un grido, e continuò: «Non aver timore. Dimmi ora se la tua famiglia crede nella Profezia degli Antichi. Voglio sapere se il Re Schiavo ha fiducia nella Stella d'Oro».
«Ma tutto il popolo la credeva morta!» ansimò Damigella Raire Nazarine. «Fiducia, dici? Oh, Signora, tu non sai che i nostri antenati giurarono eterna obbedienza alla Stella d'Oro delle Khoiné? È per questo motivo che vollero chiamarsi i Re Schiavi. Ed alla Signora Babeeri mio padre s'inchinerà come me, per renderle omaggio!». «Bene». L'Amazzone fissò Babeeri, che sembrava spaventatissima e si torceva le mani. «Tesoro, devi per forza accettare questa situazione. Il tuo destino è segnato: nessuno all'infuori di te può far emergere dal fondo del mare la Strada Sommersa. Quella è l'unica via di scampo che la gente avrà quando questo continente s'inabisserà, e tu ne sei la custode. Solo a questo devi pensare. Ricorda la volontà dei tuoi antenati, le speranze del popolo, e fatti coraggio, perché sembra proprio che il momento d'agire sia ormai venuto. Capisci?». La fanciulla annuì più volte. «Sì, Goccia. Io conosco Qual è il dovere della Khoiné, e lo compirò a costo della vita. Ma ho paura... Dimmi tu cosa devo fare, ti prego!». «Non distante da qui c'è l'uscita, ed ora vi accompagnerò ambedue fin là. No, Babeeri, non protestare. Uscirete insieme e correrete fino alla casa più vicina. Giunte lì vi farete riconoscere dai cittadini e domanderete aiuto. Tutte e due, chiaro? Essi devono capire chi siete senza equivoci». «Ma perché?» mormorò Babeeri, tremando. «Voglio che vi facciate dare una scorta di cittadini armati, che vi conduca di corsa al Palazzo Reale. Arrivate là tu, Damigella Raire, riferirai al tuo signor padre che nella Casa delle Fanciulle si nascondono i servi di Alybrea con le loro macchine stregate. Tu invece, Babeeri, ordinerai al Re Schiavo d'intervenire in questo luogo con tutta la milizia che potrà radunare, e gli dirai che il volere della Stella d'Oro è di far sì che i Dottori dell'Oscuro e i loro ordigni siano distrutti, subito e ad ogni prezzo. Mi sono spiegata?». Attese finché le vide far cenno di sì e poi le condusse nel corridoio. Nessuno comparve a fermarle, tuttavia Goccia di Fiamma quasi non tirò il fiato fino al momento in cui ebbe tolto il catenaccio alla porta. «E tu non vieni?» gemette Babeeri, terrorizzata dall'idea di separarsi da lei per fuggire nel buio. L'Amazzone le diede un bacetto, fece una carezza alla figlia del Re Schiavo e le spinse fuori. «Io so quel che faccio, cara. Ora andate, correte e fate presto. E dite ai cittadini che ogni istante è prezioso. Svelte!». Quando le due fanciulle furono sparite nell'oscurità verso la periferia di
Esperdale, Goccia chiuse la porta e cercò di capire se la sua incursione fosse già stata scoperta. Non sentendo grida e altri rumori, disse a se stessa che un po' di fortuna finalmente non guastava. Adesso avrebbe potuto mirare all'altro obiettivo, quello, che maggiormente la riempiva di timore: era sicura che in qualche locale dell'immenso edificio si trovavano gli arcani congegni ritrovati da Alybrea nelle caverne degli Antichi, quelli che i Dottori usavano come terribili strumenti di potere e distruzione. Poco dopo la ragazza era nel cortile, accanto ad una delle finestre della costruzione centrale. Da vari punti della Casa delle Fanciulle provenivano confuse voci femminili, ed ella capì che le giovani dame da lei liberate si stavano dando da fare per tirar fuori dalle ceste altre prigioniere. La loro iniziativa non le dispiacque, perché a quel punto un po' di baccano le sarebbe stato d'aiuto; tuttavia non si vedevano ancora accorrere preteunuchi né Dottori dell'Oscuro. Guardando dentro la finestra scoprì che, come aveva previsto, lì c'erano numerosi di quegli enigmatici marchingegni il cui aspetto cominciava ad esserle familiare. Sulle loro superficie palpitavano lucette colorate, cavi del materiale flessibile che aveva già esaminato perplessa giorni addietro correvano sul pavimento, alcune strane sfere di vetro giravano lente sui loro supporti, mentre da una spirale cristallina s'effondeva nell'aria una lieve luminosità. Abbondavano le leve foggiate a testa d'animale, le scritte incomprensibili, e le sporgenze che ella non aveva ancora capito se fossero semplici motivi ornamentali oppure congegni con una propria funzione. Nella stanza non c'era nessuno, eppure la sentiva vibrare come se contenesse potenze vive e fluidi occulti, e non fu capace di trattenere un brivido di paura. Scivolò lungo il muro esterno e scoprì che in tre locali adiacenti c'erano altri strumenti: il massiccio cubo a cui affluivano tutti i cavi, identico a quello del Forte di Trendig e dal quale Goccia sapeva che i macchinari assorbivano potere, ed un gran numero di finestrelle vitree collegate agli occhi delle statue di Alybrea, sulle quali si riflettevano magicamente immagini di vita colte in tutto il Tall-Varna. Al lavoro su di esse c'erano cinque Dottori intonacati di nero, più due grassi preteunuchi in saio marrone. L'Amazzone si chiese cos'avrebbero fatto, quando e se avessero visto Babeeri e Damigella Raire Nazarine correre verso il Palazzo Reale. La notte era chiara, e le statue della Stella Nera sorvegliavano certo perfino l'interno della dimora del Re Schiavo. I congegni emettevano ronzii come se fossero pieni di api, e questo era il solo motivo che aveva impedito ai sorveglianti di sentire i rumori sospetti provocati da lei.
L'Amazzone capì che avrebbe dovuto danneggiare quegli ordigni in un punto vitale. Tornò indietro di qualche passo e saltò attraverso la finestra nella stanza contenente il cassone cubico. Un attimo più tardi dovette gettarsi a pesce dietro di esso, perché nel corridoio passarono due Dottori in compagnia di un terzo individuo. Pur senza vederlo Goccia intuì che quest'ultimo indossava armi da guerriero, sentendo il tintinnare delle fibbie metalliche e del fodero della spada contro i suoi gambali di bronzo. Nell'angoletto in cui s'era accovacciata, il buio era maggiore che altrove, però sulla superficie del cubo metallico c'era un riflesso, e poté scorgere i contorni d'uno sportelletto ermeticamente chiuso. Al centro di esso era incisa una piccola stella nera, e questo le diede un'idea. Si frugò in tasca in cerca dell'anello rubato negli appartamenti di Alybrea a Shorn, lo stesso con cui aveva spalancato l'insuperabile portale del Forte di Trendig, ed applicò il castone a forma di stella al simbolo identico. Come aveva sperato, il meccanismo di apertura funzionò nel solito modo e lo sportello si dischiuse. Se Goccia di Fiamma avesse saputo ciò che i Dottori dell'Oscuro sapevano sulle loro macchine, non sarebbe mai stata così pazza da fare ciò che fece subito dopo, neppure con un pugnale puntato alla gola, ma invece ella ci provò: infilò tutto un braccio nell'apertura e cominciò a frugare alla cieca nell'interno, in cerca di qualcosa da spaccare. Trovò un fascio di quelli che le parvero cordoncini rigidi, e dopo averlo afferrato saldamente diede uno strappo. La sua mano emerse dall'apertura con una dozzina di cavetti stretti nel pugno, e nello stesso istante accaddero tre cose: in tutto il resto della costruzione il ronzare dei marchingegni cessò, varie luci si spensero, e molte voci allarmate presero a berciare contemporaneamente. L'Amazzone gettò i fili fuori dalla finestra e corse nel corridoio, girò a destra e si cacciò nella prima stanza vuota che vide, ansimante ed eccitata. Mentre stava lì con le spalle schiacciate contro il muro qualcuno passò in fretta al di fuori, ed il vocio crebbe ancora, dandole la conferma che gli strani ordigni di quella combriccola avevano subito un danno serio. Nel locale comunicante con quello in cui s'era rifugiata, due uomini stavano parlando ad alta voce, e Goccia stabilì che costoro erano troppo vicini. Stava per filarsela dalla finestra, quando nella sua mente ci fu una specie di scatto simile al balenare di un pensiero improvviso, ed ella si fermò, irrigidendosi come una statua di sale. Una delle voci, quella più maschia e virile, parlava con un accento che anche un'Amazzone mezza sorda avrebbe riconosciuto ovunque, un accen-
to nel sentire il quale ogni donna guerriera delle Terre Basse si sarebbe immediatamente girata con un'arma in mano, cercandone il proprietario con istintiva ferocia: a parlare era un sumerico d'alta casta, un militare, ed ogni sillaba portava chiaro il marchio d'origine della Terra dei Due Fiumi, il Triarcato di Sumeri «Ti ripeto che a darmi questi ordini è stata Alybrea in persona!» stava dicendo il sumerico, irritato. «Ho capito, ho capito», rispose l'altro, probabilmente uno dei Dottori dell'Oscuro. «Ma ora fammi la gentilezza di attendere qui, Principe Valdek. Devo andare a controllare cos'è successo ai macchinari». «Abbiamo già perso un pomeriggio senza combinare niente. Possibile che sia così difficile cominciare una ricerca casa per casa? Quella maledetta ragazza non può essere sparita!». «Abbiamo pochissimi uomini, Principe», obiettò l'uomo. «E del resto stiamo già sorvegliando tutta Esperdale. Conosco anch'io gli ordini della Stella Nera, e sei giorni fa le ho detto... Ma chi è questa donna?». Goccia di Fiamma era infatti entrata nella stanza, con le braccia rilassate lungo i fianchi ed il pugnale tenuto mollemente nella mano destra. Dalla porta fissò i due uomini, perfettamente calma, poi spostò lo sguardo sul volto del sumerico. Costui aveva stretto gli occhi come due fessure gelide, duro e teso quasi che il suo corpo robustissimo fosse colato di bronzo. «Un'Amazzone!» sussurrò. «Non posso sbagliarmi. Ne ho viste troppe di voi. Che cosa stai facendo qui, nel Gondwana?». «Dunque tu sei il Principe Valdek», disse Goccia, senza muoversi dalla soglia. «Potrei fare la stessa domanda a te, uomo. Ma c'è un'altra cosa che va fatta prima. Tu sai quale». «Vuoi batterti?». Valdek sollevò un sopracciglio, divertito. «Due anni fa», disse lei, «Nell'Oasi di Al Sabaha, in Mitanni. Ricordi quella carovana di profughi, quasi tutti donne e bambini, scortati solo da venti miliziane e da una dozzina di soldati di Bal Kadur? Furono raggiunti da trecento dei vostri carri da guerra, che li massacrarono dal primo all'ultimo. E al comando di quei carri c'era un sumerico di nome Valdek». «Proprio così!» sogghignò l'uomo, estraendo la spada con un ampio gesto. «E magari qualcuna di quelle cagne era tua amica, vero? Vuol dire che ti manderò a raggiungerle subito!». Goccia di Fiamma si piegò in avanti di scatto, lanciando il pugnale, e la lama si conficcò nella gamba destra di Valdek proprio sotto il bordo del suo gonnellino borchiato di rame. Con un grido l'uomo barcollò di traverso, scaraventandole la spada addosso per tenerla indietro, ma mancò il
bersaglio. Estrasse il proprio coltello, ringhiando come un leone, però l'arma dell'Amazzone gli era penetrata a fondo sotto l'inguine, causandogli un dolore accecante, ed il suo volto si fece cinereo. «Brutta puttana... Ci rivedremo!» ansimò. La ragazza aveva già raccolto la spada di lui, ma non fece in tempo ad usarla, perché Valdek si tolse di tasca un minuscolo congegno di cristallo e lo azionò in fretta. Era una delle sferette dotate del potere di trasportare all'istante altrove un corpo umano, uguale a quella con cui Alybrea s'era liberata di Goccia sull'isoletta per scaraventarla nella lontana città di Shorn, e quando egli ebbe premuto il piccolo pulsante la ragazza lo vide scomparire di botto. Nella stanza rimasero soltanto lei e il Dottore dell'Oscuro, che stava ora sgattaiolando verso la porta. L'Amazzone gli fu dietro con un balzo e gli abbatté lo spadone su una spalla, staccandogli quasi un braccio. Poi, mentre l'individuo rotolava urlando nel corridoio, lo colpì ancora spietatamente al collo. Ad una dozzina di passi da lei risuonò l'esplosione di uno sparafiamma, e frammenti d'intonaco le schizzarono in faccia riempiendole gli occhi di polvere. Con un'imprecazione corse di nuovo nella stanza adiacente a quella in cui aveva affrontato Valdek, e saltò fuori dalla finestra. Poi girò intorno all'edificio e fuggì in una direzione a caso attraverso il cortile buio. Dietro di lei ci furono altri scoppi, ed ebbe l'impressione che alcune grosse vespe le sfiorassero la testa. Ma la mira degli uomini che usavano gli sparafiamma era poco precisa, cosicché arrivò salva all'altra estremità dello spiazzo e poté scavalcare una delle finestre. Da lì a poco stava dando alle sue gambe tutta la velocità di cui era capace, nel tentativo di raggiungere una delle porte esterne. Per arrivarci fu costretta a percorrere metà del perimetro della Casa delle Fanciulle, con qualcuno alle calcagna che gridava come un ossesso, e fu bersagliata un paio di volte da uno sparafiamma, ma sempre da distanza eccessiva. Giunse all'uscita con un buon vantaggio sugli inseguitori, e quando spalancò la porta stava dicendo a sé stessa che neppure tutte le Stelle d'Oro del mondo avrebbero potuto far intervenire i soldati del Re Schiavo prima d'un paio di clessidre almeno. Ma era destinata ad avere una sorpresa. Fuori dall'edificio era in arrivo una moltitudine di persone, con centinaia di fiaccole e di lanterne che s'avvicinavano rapide, ed ella vide agitarsi le picche e le spade, i forconi, le asce, le bipenne, i coltelli ed anche i tubi gialli degli sparafiamma. Esperdale non aveva atteso che Damigella Raire
Nazarine e Babeeri fossero giunte al Palazzo Reale per chiamar le Guardie: il popolo si stava riversando nelle strade in una massa compatta, una turba di gente che dopo aver assistito all'eruzione vulcanica di quel pomeriggio ora voleva soltanto la vendetta e la violenza. L'Amazzone si limitò a farsi da parte quando i primi giunsero, e con la spada indicò loro la porta. Circa mezza clessidra più tardi, mentre all'interno probabilmente non restava più un solo Dottore dell'Oscuro ancora in vita, ebbe un sorriso nel vedere fra gli altri anche Jarraduf il Gatto, il proprietario della Pensione Bastri, che maneggiava con truce decisione una specie di alabarda a due punte. «Al bravo Tharma Ganovash non è proprio piaciuto vederti partire in questo modo», disse Goccia di Fiamma il mattino successivo, osservando Babeeri con una luce ironica negli occhi verdi. «Quel Re è un uomo buono, e lo ricorderò sempre», rispose la fanciulla con serietà. Poi dovette sorridere. «Ma le tue maniere lo hanno messo a disagio. Non dovevi dirgli quelle parole scortesi, quando ci ha offerto una vereconda». «Gli ho semplicemente suggerito di ficcarsela in capo egli stesso», sogghignò l'Amazzone. «Col caos che s'era scatenato a palazzo, lo sciocco voleva preoccuparsi del nostro pudore. Bofonchiava qualcosa sul decoro e l'educazione. Vermi nella testa, li chiamo io!». Babeeri non replicò. Appoggiata alla balaustra, sulla piattaforma che fungeva da timoneria del dragocarro, la giovane donna guardava indietro quasi che le dispiacesse un poco d'aver dovuto lasciare Esperdale tanto in fretta. Cobal Gavelord era dabbasso ad occuparsi del macchinario, le cui precarie condizioni richiedevano la sua costante supervisione, e Goccia di Fiamma badava alla guida. La ruota del timone comandava il movimento delle quattro ruote anteriori, e finché la strada si manteneva liscia l'opera di governo era facile sulla terraferma quanto lo era stata in mare. Davanti a loro sorgevano le montagne del Sao Satél, oltre le quali, lontanissima ad oriente, si trovava la città di Lahaina. Lo Shang s'era detto certo di poterla raggiungere in cinque o sei giorni di viaggio, a patto che l'Atanor non scoppiasse. Alla decisione di partire Goccia era giunta un paio di clessidre dopo l'incursione nella Casa delle Fanciulle, quando aveva capito che per Babeeri sarebbe stato pericoloso sostare troppo a lungo in uno stesso luogo. La città di Esperdale era in fermento, e non c'era stato modo di parlare esau-
rientemente col Re Schiavo quand'ella aveva raggiunto la Khoiné a palazzo. S'era limitata a chiarirgli la situazione, e quando lo aveva visto convinto della necessità d'agire subito aveva preso da parte Babeeri, informandola del suo piano. Tharma Ganovash, un uomo azzimato e dai modi leziosi, non aveva gradito affatto d'essere buttato giù dal letto in piena notte per trovarsi alle prese con un'intera città sconvolta. Nel palazzo s'era inoltre riversata una frotta di nobili agitatissimi, e il sovrano aveva avuto il suo daffare per tenerli calmi e rispondere alle loro domande. All'alba s'era stabilito di mostrare la Khoiné ad un gruppo composto da personaggi altolocati e da rappresentanti del popolo, tanto per convincerli che la giovinetta era davvero tornata nella terra dei suoi avi. La timida Babeeri non aveva saputo spiccicar parola, tuttavia era stato sufficiente che alzasse la mano sinistra a palmo avanti perché i convenuti iniziassero a strillare che la si scortasse subito in Achelòs, allo scopo di far salire dalle profondità del mare la leggendaria Strada Sommersa. L'eruzione aveva convinto anche gli increduli che il Gondwana era condannato, e che si doveva cercare scampo al più presto. «Non sono d'accordo!» aveva protestato Goccia di Fiamma poco dopo, quando era riuscita a farsi largo fra la folla di gente che s'era assiepata nel salone delle udienze. La ragazza aveva preso Babeeri per mano, facendo allontanare il Maestro delle Cerimonie che stava per convincere la fanciulla a coprirsi la testa con una vereconda, e poi aveva detto il fatto suo anche a Tharma Ganovash su quell'argomento. S'era poi rivolta duramente all'assemblea: «Ascoltatemi bene, signori: mentre voi correte attorno come tante galline senza testa, Alybrea e il Grande Maestro dei Dottori stanno preparando la loro contromossa. Tanto voi che la gente di Falheire sarete sottoposti a un attacco, quando vi sposterete verso settentrione, e io desidero evitare che Babeeri. sia colta allo scoperto dalle armi di quella gente». «Combatteremo!» aveva affermato stizzito Tharma Ganovash. «Gli sparafiamma di quel cane di Sevan Brelthur non ci fanno paura». «E le tempeste di neve?». Il Re Schiavo aveva alzato gli occhi al cielo. «Ma insomma! Il popolo sta già abbandonando le sue case. Mi dicono che nelle strade migliaia di carri e di cavalli vengono caricati di viveri e masserizie, e che ogni barca da pesca farà rotta verso il nord trasportando profughi. La gente vuole fuggire, e fra dieci giorni nel Tall-Varna non resterà più un'anima. Certo,
certo, la Stella Nera userà l'arma del gelo, e il suo complice ci opporrà l'esercito. Ma il popolo sa che deve emigrare oppure venire distrutto. E la Khoiné ci guiderà». Goccia di Fiamma era stata costretta a gridare per farsi sentire, perché i nobili stavano acclamando Babeeri e dando ragione al Re a gran voce. Quasi ringhiando aveva ricordato loro che solo due delle Cinque Nazioni si stavano muovendo, mentre altrove nessuno sapeva ancora del ritorno della Khoiné. Bisognava pensare anche agli altri. «Quali altri?» aveva esclamato Tharma Ganovash, con ira. «Gli stregoni di Yaya Dhuba? I traditori di Achelòs? I lupi umani dell'Aladjr? È meglio che costoro periscano, credimi!». Goccia di Fiamma aveva ribattuto che si doveva procedere con minore orgasmo. A Lahaina, aveva detto, c'erano le rappresentanze al completo delle Cinque Nazioni. L'Amazzone non sapeva nulla dell'Aladjr, ma le era stato assicurato che in Achelòs e perfino in Yaya Dhuba la gente semplice avrebbe accolto con gioia la possibilità offerta dalla Khoiné. Salvarsi la vita era un diritto di tutti, anche degli increduli e dei dubbiosi. In aggiunta a questo, era molto probabile che il popolo e lo stesso esercito di Achelòs si sarebbero rifiutati di difendere i confini della loro terra, se qualcuno li avesse informati che la migrazione avveniva per ordine della Stella d'Oro e riguardava anche loro. «Mmh! Capisco», aveva bofonchiato il sovrano. «Tu affermi che Alybrea non saprà fronteggiare un intero continente in rivolta, e intendi far sì che la ribellione sia generale. A questo modo, lei e gli stregoni neri disperderanno le loro forze contro molti avversari. Ammetto che in quanto proponi c'è del buono. Ma esigo che la Khoiné venga con noi. Il popolo la esige alla sua testa». Babeeri aveva ascoltato muta la conversazione, però a questo punto s'era avvicinata all'Amazzone e le aveva posto una mano sulla spalla. Poi aveva fissato i presenti e Tharma Ganovash con gravità. «O Re», aveva detto. «Quando io ero ancora una bambina di pochi anni, mia madre mi disse un giorno che per una Stella d'Oro non vi sono nazioni. Il mio popolo sta in ogni parte del Gondwana, e finanche quelli che tu chiami traditori, selvaggi e stregoni, sono la gente fra cui mi recherò per annunciare che il momento di partire è venuto. Perciò io farò come dice Goccia di Fiamma, e andrò con lei in Lahaina». «Ma tu rischi la vita, Signora!». «Mia madre non offerse la sua, forse? Il mio tutore mi narrò che perfino
i barbari sanguinari dell'Aladjr mandavano emissari a rendere omaggio alla Stella d'Oro. Dunque anch'essi confidano d'essere salvati nel momento del bisogno. Non vi è altro da dire». Tharma Ganovash e gli altri avevano allora insistito per dar loro una scorta armata, ma Goccia di Fiamma aveva rivelato di disporre di un mezzo di trasporto veloce quanto comodo e, così sperava, sicuro. Quel mattino stesso lei e Babeeri erano state accompagnate fuori città, dove avevano trovato Cobal Gavelord in attesa col dragocarro, nascosto in un boschetto lungo la strada. Lo Shang non aveva mostrato eccessivo stupore nel vedersi raggiungere da una piccola folla di persone, con un carro di viveri, acqua e legna da ardere. Terminato di dirigere il carico del materiale aveva messo sotto pressione la macchina, e il veicolo s'era mosso sulla Pista Deoghar eruttando grandi sbuffi di fumo bianco. Il malumore di Babeeri causato dal trovarsi di nuovo a bordo di quell'ordigno, e per di più in compagnia di Cobal, se n'era andato quando aveva visto l'effetto che il dragocarro faceva sugli agricoltori delle fattorie che oltrepassavano. Le loro facce sbigottite, insieme alle battute di spirito pungenti e talvolta oscene che l'Amazzone gridava per sfotterli un poco, avevano finito per divertirla molto. Verso sera la strada aveva preso ad inerpicarsi sinuosamente fra le montagne, la temperatura era diminuita, e Goccia aveva convinto Babeeri a riposarsi nella cabina adiacente al magazzino del legname. Cobal Gavelord aveva fatto una capatina di sopra per dare un'occhiata alla zona, brontolando che in salita i meccanismi andavano sotto sforzo e si surriscaldavano troppo. Al tramonto si fermarono sul Passo di Malabranca, arido e del tutto deserto, e cenarono parcamente su uno spiazzo circondato da alte pareti di roccia. Le due ragazze si divertirono a fare un gran falò per allontanare i pipistrelli, e alla sua luce Goccia di Fiamma osservò i dintorni con attenzione e notevole perplessità. «Hai visto che strana forma ha questa collina, Babeeri?» domandò. «Si direbbe che un gigante l'abbia scavata con un badile enorme e poi lisciata accuratamente fin lassù». «Sono stati gli antichi», affermò la fanciulla. «Essi costruirono strade ovunque. Le leggende narrano che un tempo il mondo era diverso, e c'erano città di pietra con case tanto alte che per salire agli ultimi piani occorrevano giorni e giorni». L'Amazzone ridacchiò. «Ne hai di fantasia, bambina! Giorni e giorni per
salire le scale di casa? Sono controsensi». «Ma è vero... credo», insisté lei. «Quel che dici non è esatto», la corresse lo Shang. «Nel Wadabra ne sappiamo perfino più di voi sui vostri antenati. Essi usavano macchine per salire dentro l'interno di queste loro case, e quando le macchine andarono in rovina non rimasero che le scale. Cosicché la gente finì col rinunciare a recarsi nei piani più alti. Ma con il trascorrere dei secoli e dei millenni tutto diventò polvere, e poi la polvere venne spazzata via dal vento. Oggi non restano che queste rupi così immensamente scavate a testimoniare l'opera di quegli uomini». «Sì, ma qui saranno occorsi eserciti di scalpellini», disse Goccia. «Basta guardare questa montagna per immaginarsi un'immensa folla di schiavi al lavoro coi picconi, sotto la sferza d'implacabili aguzzini. Non è così, Cobal?». Lo Shang annuì. «Sono perfettamente d'accordo. E aggiungo che la scienza degli Antichi non doveva poi essere tanto grande. Osservate com'è larga la carreggiata che valica le montagne, e ditemi voi che senso ha. Per un carro di normale ampiezza sarebbe stata sufficiente una strada cinque volte più stretta. Fatica sprecata, dunque, e mano d'opera male utilizzata». «Questa è soltanto la tua opinione», replicò Babeeri, offesa. «Ma io ricordo d'aver sentito altri Shang parlare con maggior rispetto degli Antichi. Nel Clan dei Faragoj ancora si ricordava che essi possedevano macchine semoventi simili alla tua dragotrappola, ma di molto più belle e veloci». «Vedo che da quegli sciocchi Faragoj hai appreso l'inclinazione ad un miserevole senso dell'ironia. Ma mentre tu lavavi i piatti nelle loro cucine, a poca distanza io operavo d'ingegno e costruivo un veicolo destinato a destare meraviglia presso ogni popolo». Goccia di Fiamma si distese presso il fuoco ed ascoltò gli altri due scambiarsi frasi in tono fra ostile e sprezzante, senza intervenire. S'era fatta l'idea, per lei divertente, che Cobal e Babeeri traessero un certo giovamento dai loro alterchi e vi avessero preso gusto. Naturalmente si sarebbero fatti uccidere piuttosto che ammetterlo. Allo Shang piaceva vantarsi, e dal canto suo la giovinetta gli sapeva ribattere con parole mordaci, dimenticando la timidezza che la bloccava con chiunque altro. Quella notte dormirono a bordo del veicolo, e la mattina successiva si svegliarono all'alba per iniziare la discesa che portava al Bassopiano Rigel. Un paio di clessidre più tardi Goccia di Fiamma avvistò una grande foresta che s'estendeva alle pendici orientali del Sao Satél. La Pista Deoghar
scendeva costeggiando scarpate e giogaie in fondo alle quali scorrevano torrenti quasi in secca, ed ella dovette avvertire Cobal di tenere bassa la velocità. Fu a metà della discesa che li colse, improvvisa, la prima violentissima scossa di terremoto, e le montagne tremarono in modo tale che l'Amazzone vide macigni staccarsi dalle rupi. Slavine di pietrisco scivolarono giù dalle loro pendici con un rumore di tuono. Il dragocarro sobbalzò sulla strada sassosa ed ella s'aggrappò al timone con tutta la sua forza, mentre nel locale sottostante Babeeri si svegliava gridando di spavento. Poi tutto accadde troppo in fretta perché Goccia potesse mettervi rimedio: il veicolo sbandò contro la parete interna del percorso scavato nella roccia, e le ruote di sinistra si schiantarono. La sua stessa velocità lo fece rimbalzare di lato e girare a poppa in avanti, quindi uscì di strada e prese a scivolare in una scarpata. Ci fu uno schianto d'assi fracassate quando un macigno sfondò un fianco della sala macchine, e Goccia di Fiamma volò fuori dalla timoneria come un uccello, L'Amazzone non vide e non sentì altro, perché nel rotolare fra gli sterpi e le rocce sbatté la nuca e tutto quanto divenne buio intorno a lei. Dall'inizio del terremoto fino a quel momento erano trascorsi appena trenta battiti di cuore, e di quanto accadde durante le scosse successive ella non seppe mai nulla, benché il terreno sussultasse sotto di lei senza requie, perché riprese conoscenza solo tre clessidre più tardi, a metà della mattina. Davanti ai suoi occhi c'era una luminosità bianca, abbagliante, un sipario di luce oltre il quale l'universo intero poteva anche non esistere più, e nel cranio aveva un dèmone armato di mazza che sferrava colpi su colpi. La ragazza capì di non essere morta soltanto grazie a quel dolore, alle pulsazioni cardiache che le pompavano sangue nella testa, ma per un momento ebbe paura d'esser rimasta cieca. Poi la luce cambiò tonalità e divenne azzurra, e agli angoli del suo campo visivo presero forma delle ombre: era distesa supina fra i cespugli, e ciò che vedeva era il cielo. Alcuni grossi macigni spuntavano come denti spezzati intorno a lei. Quando trovò la forza d'alzarsi s'appoggiò a una roccia e si massaggiò la nuca con una mano. Cos'era successo? Cosa stava facendo in quel posto? Ricordarlo era così difficile che per un poco si limitò a guardarsi le dita sporche di sangue cercando di capire se fosse ferita gravemente. Solo appena ebbe stabilito d'essere ancora viva e vegeta, al di là d'ogni dubbio, i ricordi fiottarono nella sua mente come una cascata d'immagini ed ella si tolse da li barcollando.
Il dragocarro giaceva rovesciato su un fianco a circa duecento passi da lì, in fondo alla scarpata. La lignea testa zannuta s'era staccata, finendo in una delle polle d'acqua stagnante d'un torrente in secca, e attorno erano sparse assi fracassate ed altri oggetti. Non c'era traccia di Cobal Gavelord né di Babeeri, e fu questo a spaventarla davvero. La zona era frastagliata, piena di cespugli spinosi, mentre verso il fondovalle si scorgeva l'inizio d'una folta boscaglia, a circa due leghe di distanza. Camminando di roccia in roccia l'Amazzone raggiunse un pendio e scese balzelloni lungo di esso fino all'altezza del veicolo. «Babeeri! Cobal!», chiamò, preoccupatissima. Non avendo risposta s'arrampicò nella timoneria e passò nella piccola cabina sottostante. La parete di destra era diventata il pavimento, e su di essa s'era ribaltato tutto il contenuto del locale, ma quando scostò il lettino con mani tremanti vide che la ragazza non c'era. Guardò nel magazzino della legna e quindi s'introdusse nella sala macchine, dove la luce entrava a fiotti da uno squarcio. Chiamò ancora i due compagni, girò intorno al macchinario e spostò i rottami del grosso contenitore dell'acqua per controllare se lo Shang fosse rimasto schiacciato sotto di esso, ma non era neppure lì. Tornata nella cabina s'accorse che i due armadietti recavano i segni d'un coltello che ne aveva scassinato le piccole serrature di rame, e che ogni oggetto di qualche valore era stato asportato. Un bauletto che Babeeri aveva avuto in dono da Damigella Raire Nazarine si rivelò vuoto dei preziosi vestiti e dei gioielli che aveva contenuto; le armi erano scomparse, come anche gli indumenti di Cobal ed alcune robuste vesti di pelle che Goccia aveva avuto a palazzo. Tutto ciò che Tharma Ganovash aveva fatto consegnare loro dai suoi servi, compresa una bella borsa di cuoio colma di reali d'oro, era stato rubato. L'opera di una banda di predoni era stampata a tutte lettere nell'interno del dragocarro e l'Amazzone imprecò, correndo di nuovo all'aperto. Al suolo c'erano numerose tracce. Le esaminò con attenzione e stabilì che il veicolo era stato avvicinato da almeno sei individui forniti di scarpe dalla suola di legno, tutti maschi adulti, a giudicare dalle dimensioni e dalla profondità delle impronte. Le seguì per una trentina di passi, fra i sassi e i cespugli che rendevano il letto del torrente simile a una pista tortuosa, e poi di nuovo su verso la strada sterrata. Giunta qui fu sicura che i sei uomini avevano preso con loro Babeeri, avviandosi verso la foresta che vedeva ad oriente; ma fra le orme di tutti costoro mancavano quelle
degli stivaletti a punta di Cobal Gavelord. Che fine aveva fatto il bisbetico Shang? Bestemmiando rabbiosamente Goccia di Fiamma scese di nuovo nel canalone, cercò lungo il pendio, scostò ogni cespuglio, andò a guardare dietro ad ogni macigno, ed alla fine scorse quelle che erano senza dubbio le tracce lasciate dalle calzature dell'uomo: risalivano in direzione della Pista Deoghar a grandi passi, segno che Cobal aveva corso velocemente per allontanarsi dal pericolo, e l'Amazzone lo maledì ad alta voce per la sua vigliaccheria. Un'altra breve indagine sulla strada la convinse che lo Shang aveva preferito scappare ad ovest e riparare nella pianura di Esperdale, senza più curarsi della sorte toccata a lei e alla giovane Khoiné. «Maledetto ingrato figlio d'un cane!» borbottò, sudata e ansimante. Con un sospiro di sconforto si tastò la leggera ferita alla testa, cercando di mettere ordine nei pensieri. La Pista Deoghar scendeva a valle fra continue curve, liscia e polverosa, e su di essa erano ben visibili le impronte di Babeeri e dei suoi misteriosi rapitori. Non le restava che seguirle. TERREMOTO NEL RINGEL Il Bassopiano Ringel era una distesa erbosa vasta seicento leghe che s'estendeva fra la dirupata Catena del Sao Satél, ad occidente, e una terra malsana e paludosa chiamata le Plaghe di Roth, situata nel nord-est del continente. Trovarvi macchie di cespugli era difficile, ed imbattersi in sorgenti non inquinate era considerato impossibile, ma in compenso si poteva star certi che dovunque si volgeva lo sguardo si scorgeva sempre il saltellare d'una dozzina di yatti. L'erba grassa detta Dita di Kweola ed i piccoli topi canguri che se ne nutrivano infatti, costituivano per intero la flora e la fauna del Ringel. I viandanti che attraversavano quel monotono mare di verde, punteggiato da piccole forme gialle che saltavano, ne subivano dapprima il fascino quasi ipnotico e provavano il desiderio di fare soste frequenti. Tuttavia non tardavano ad accorgersi che l'assenza di acqua e di legna da ardere faceva del Bassopiano una trappola mortale, nella quale la temperatura scendeva pericolosamente dalla secca calura giornaliera al freddo pungente delle ore notturne. Oltre a ciò, nell'ovest del Ringel s'aggiravano tribù di cacciatori nomadi, i Grisloj ed i Piloj Zog, il cui comportamento con gli estranei era considerato imprevedibile. I tre rumorosi carri da trasporto che in quel mattino di fine estate avan-
zavano su una delle piste dirette a sud, seminando lo scompiglio fra gli yatti che brucavano l'erba, procedevano quindi a una velocità ben giustificata dalle circostanze. Ciascuno era trainato da una quadriga di cavallini grigi scattanti e volenterosi, e sormontato da un giallo tendone svolazzante che riparava i passeggeri dal sole. Alla retroguardia, impastoiati ad una lunga correggia, venivano altri quattro cavalli destinati al cambio. Alla guida del primo veicolo c'era un milite sumerico, riconoscibile per il tipico elmetto in rame dipinto di nero; sul secondo era seduto a cassetta Cuhman, sulla cui faccia rigida come la pietra il vento caldo aveva depositato uno strato di polvere; ed il terzo era condotto dalla piratessa Lamie, che le dieci Teste Nere della spedizione seguitavano a chiamare la Cagna con più convinzione che mai. Da tre giorni gli uomini erano costretti a consumare i pasti sui carri in movimento, perché l'inflessibile bruna concedeva loro appena una sosta di sei clessidre durante la notte. Ma quel che era peggio, allorché si trovavano a dover espletare un bisogno corporale non avevano altra scelta se non quella di sporgersi, tenendosi alla sponda con tutta la loro forza e accompagnando l'operazione con una serie di ringhiose imprecazioni. Uno solo dei viaggiatori non imprecava mai, per il semplice motivo che ancora le forze non gli bastavano, e costui era Yaan Margraf Lakhmar, che trascorreva il tempo disteso a pancia sotto nel carro di Laune. Il giovanotto aveva la pelle della schiena squarciata da venticinque strisce sanguinolente, tanti erano stati i colpi di frusta infertigli dalla piratessa il mattino della partenza prima che dalla bocca gli uscisse il nome della località del TallVarna dov'erano diretti. Yaan non parlava mai coi tre Sumerici che gli sedevano accanto, né si prendeva la briga di rispondere alle loro frasi mordaci: i suoi occhi stavano fissi in permanenza sulla schiena di Laune, privi d'espressione, per quasi tutto il tempo in cui li teneva aperti. Non s'era mai sentito tanto abbattuto ed umiliato in vita sua. Al tramonto del terzo giorno di viaggio, imprevedibile come sempre, la ragazza bruna urlò ai conducenti dei carri davanti al suo di fermare le bestie, ordinando la sosta con due clessidre d'anticipo sul programma di marcia. Quando Cuhman venne a domandargliene il motivo ella spiegò che i cavalli erano stremati, avendo sostenuto un'andatura troppo elevata nei due giorni precedenti. «Schiavi, uomini, cavalli!», commentò il Comandante sumerico. «Da quando ti conosco, non ho visto che schiene sudate e bocche ansimanti di fatica. Tu sembri nata apposta per sfinire gli uomini e le bestie».
«Burnabas, alza le tende. E tu Laibekin, accendi il fuoco e scalda le razioni», ordinò la ragazza. Poi si volse a Cuhman. «Ci riposeremo soltanto a Esperdale, e cioè al nostro arrivo. Nel frattempo ricorda le istruzioni del Principe: per il nostro bene è necessario collaborare al massimo con Alybrea e con Sevan Brelthur. Non possiamo permetterci di deluderli». «Mi piacerebbe sapere dove hai trovato tutto questo zelo», fece il sumerico, fissandola intensamente. «Non certo nella tua stessa mangiatoia!» sbottò lei. «A me non importa un accidente del tuo Valdek, né del progetto di fornirsi di armi e di polvere nera. Io voglio riportare via la pelle intera da questo paese, egregio. E ficcati in capo che per raggiungere questo obiettivo è necessario leccare le scarpe a gente potente e pericolosa. Ubbidire e portare a termine la missione: solo a questo devi pensare». Cuhman, che era stato messo al corrente dei retroscena della faccenda dal Principe, ma solo a grandi linee, annuì ad occhi stretti. Sapeva benissimo a quale filo fossero appese le loro vite. Poi gettò un'occhiata nel carro di lei. «Come sta il nostro ospite?» domandò in tono acre. «Se fosse stato per me, l'avrei spedito sul patibolo. Questa è la sorte di chi tradisce. E ora che sappiamo quel che volevamo sapere, trascinarcelo dietro può essere pericoloso». «Vale tant'oro quanto pesa, invece. A Esperdale sapremo se quanto ha detto sui ribelli corrisponde a verità. Ma nel caso che il covo dei suoi compari non fosse dove ha rivelato... scoprirà che quella frusta non l'ho lasciata a Shorn!». «Sì. E stavolta a maneggiarla sarò io», promise Cuhman, allontanandosi. Laune diede istruzione di abbeverare i cavalli e di farli passeggiare un poco, poi tornò presso i carri e lasciò vagare lo sguardo sulla sterminata pianura. C'era ancora molta luce, e si vedevano dovunque muoversi gli yatti, assai poco spaventati dalla presenza degli esseri umani. Questo le diede un'idea. Fece avvicinare con un cenno uno dei soldati e gli indicò i piccoli roditori. «L'occasione mi sembra buona per esercitarti all'uso degli sparafiamma. Chiedi a Cuhman se ha voglia di fare un po' di tiro al bersaglio, e togli le armi dalla cassa», gli comandò. Da lì a poco il morale delle Teste Nere si ringalluzzì alquanto, perché con quei pesanti tubi d'ottone fra le mani gli uomini avevano l'impressione d'essere armati delle folgori degli Dèi e si divertivano moltissimo. Mentre
un paio di loro scaldavano la cena, Cuhman fece schierare gli altri otto, e riepilogò con voce tonante le istruzioni ricevute giorni addietro da un Ufficiale della Guardia alla caserma di Castel Trebus. I soldati versarono la polvere nera nei misurini di zinco, la travasarono nelle canne, la pressarono con l'apposita asticciola ed inserirono il premipolvere; quindi fecero scivolare nei tubi le rotonde pallottole di piombo e gli stoppini per fissarle, sollevando i percussori sulle pietre focaie. Ad un segnale del Comandante imbracciarono e presero la mira, ciascuno su un roditore scelto fra i più vicini. Laune e Cuhman fecero lo stesso, ed a un ordine di quest'ultimo tutti premettero il grilletto di legno. Dei dieci sparafiamma ben cinque fecero cilecca, compreso quello della piratessa, il cui percussore a pietra focaia scattò a vuoto. Gli altri emisero un boato che fece dileguare gli yatti in un raggio di cinquecento passi. Due dei Sumerici vennero colti di sorpresa dal rinculo, sebbene avessero già avuto occasione di provare le armi, e caddero a sedere in terra. Nessun roditore venne colpito. Cuhman imprecò e rimproverò tutti quanti, ordinando a quelli che non avevano tirato di provare ancora finché l'acciarino non avesse funzionato. Al secondo tentativo tre di essi riuscirono a far fuoco, mancando però il bersaglio perché i pochi yatti rimasti nei pressi stavano filandosela a balzi velocissimi. Lo sparafiamma di Laune rifiutò invece d'ubbidire ai ripetuti scatti del grilletto, cosa che le fece perdere la pazienza. «Non fa la scintilla», commentò Cuhman. «Forse la tua pietra focaia è bagnata. Fammela vedere». «Davvero un'arma pericolosa... per chi la usa». Laune gliela consegnò, disgustata. «Se avessimo dovuto affrontare una torma di contadini muniti di forconi, a quest'ora saremmo tutti morti». «Impareremo a usarli meglio. Il Principe ha fiducia in queste armi, e io sono convinto che...». La frase di Cuhman venne interrotta da uno sparo al quale fece seguito un grido rauco. L'ultimo dei militi che ancora non erano stati capaci di far scattare la loro arma c'era finalmente riuscito, ma il colpo aveva sfondato il leggero pettorale bronzeo del compagno a lui più vicino, che ora si contorceva penosamente a terra. Con una bestemmia terribile il Comandante corse a inginocchiarsi presso il ferito, poi si rialzò e lasciò andare un pugno in fronte al colpevole di quella distrazione, che ne fu abbattuto come da una mazzata. «Che gli Dèi ti perdonino!» gridò. «Dieci frustate per punizione non te
le leva nessuno, idiota!». Al milite colpito venne tolta l'armatura, ma si vide subito che la pallottola gli aveva perforato un polmone, ed a giudicare dal sangue che sputava sembrava non averne per molto. Fu messo a giacere sotto un carro, con una statuetta di Ishtar fra le mani, e continuò a lamentarsi fino a tardi. Dopo cena, quando il buio rendeva il Ringel scuro come una landa primordiale senz'ombre né riflessi, Laune e Cuhman incaricarono un volontario di abbreviare l'agonia allo sventurato tagliandogli la gola. «Domattina lo seppelliremo, se avremo tempo», borbottò il Comandante sumerico, ritirandosi nella sua tenda. Laune aveva una tenda tutta per sé, ma invece di andare a dormire s'avvicinò al carro su cui giaceva Yaan. S'accertò che non vi fossero soldati a portata d'orecchio e gli domando come si sentiva. «Mi chiedo che peccati ho commesso, perché gli Dèi mi abbiano messo sulla strada d'un serpente velenoso come te!» rispose lui, iroso. «Ingenuo! Perlomeno sei vivo, un onore di cui non godresti se ti avessi lasciato in mano a chi sai tu». «Neppure in mano tua camperò a lungo. Fra tortura e frusta mi hai ridotto male. Oh... non credere che dimenticherò il modo in cui ridevi, mentre facevi schioccare il nerbo insanguinato». «Avvicinati, mettiti a sedere», lo invitò Laune. Salita sul pianale del carro, la ragazza allungò una mano a frugare nell'oscurità in cerca della sua grossa borsa di pelle. Ne tolse un cartoccio di pomata giallastra, che prese a spalmare con delicatezza sulle spalle di Yaan. «Sei un fesso, caro Lakhmar», borbottò. «Stai fermo. Quest'unguento l'ho rubato proprio per te, lo sai? Te lo avrei dato fin dall'altro ieri, ma Cuhman mi sorveglia. Valdek me lo ha messo alle costole per tenermi in riga». «Ah! Fai piano!...» si lamentò lui, irrigidendosi. Le mani della piratessa si fecero leggere nello sfiorare i lunghi squarci nella pelle di lui, e ridacchiò. «Domani copriti. Non voglio che i Sumerici capiscano che ti ho curato». «Perché ti prendi tanto disturbo?» mugolò Yaan, lasciandola fare. «Che si sappia, la Cagna non rischia mai la vita per niente». «Già. Forse avrei fatto miglior figura mostrando meno interesse per te. E sono certa che a Valdek il mio comportamento puzza. Dopotutto è la seconda volta che mi dichiaro contraria a vederti morto. Ma l'importante è
che Alybrea ora si fidi di me». Il giovanotto si contorse per poterla vedere in faccia, e la sua voce suonò soffocata per la meraviglia: «Tu godi della fiducia della Stella Nera? Mi sembra incredibile. Dunque hai conosciuto la strega?». Laune gli riassunse i colloqui che aveva avuto con Alybrea prima della partenza da Shorn, e subito s'accorse che la notizia del ritorno di Babeeri, per lui inaspettata e sorprendente, lo faceva tremare dall'eccitazione. «Lei è qui... lei è tornata!» ripeté più volte, fra incredulo ed euforico. «La Khoiné... oh, Dèi! Ma com'è stato possibile?». «Abbassa la voce», lo ammonì la ragazza. «Se mi lasci parlare te lo racconterò». Da lì a poco, messo al corrente delle disavventure toccate a Babeeri o almeno della parte di esse che era nota a Laune, il giovanotto rimase pensoso e ammutolito. La bruna gli rivolse un sogghigno ironico. «Come vedi, nei due anni che hai trascorso a Cranach l'hai avuta quasi a un tiro di sputo. Nessuno ha ancora capito cosa le sia successo dopo che la incontrai al Tempio di Eleuse, ma è chiaro che una ventina di giorni più tardi s'è imbarcata... O meglio, non è chiaro per niente. Neppure Alybrea è riuscita a capire come abbia fatto la ragazza a tornare in Gondwana. Comunque sia, non è stato certo in seguito a una serie di coincidenze. Ad esempio, giurerei che la donna con cui è arrivata...». «Non era certo una sumerica, se aveva le chiome rosse», precisò Yaan. «Cos'altro sai di lei?». Laune non gli rispose. C'erano cose che non poteva dire al giovanotto, o meglio sensazioni che non si sentiva capace di tradurre in parole. Alybrea le aveva fatto una sommaria descrizione fisica della misteriosa accompagnatrice di Babeeri, e Sevan Brelthur s'era detto certo che era affogata in uno scarico fognario, ma lei avrebbe giurato che quell'avventuriera dagli scopi indecifrabili non doveva esser stata una preda tanto facile della morte. Quali manovre aveva intessuto? Perché aveva ricondotto la Khoiné nella sua terra? E soprattutto, chi era? Una ragazza alta, agguerrita come un soldato di ventura, rossa di capelli e con occhi verdi da felino... Che cosa c'era in quell'immagine che la faceva rabbrividire fin nel più profondo del suo essere? Laune si morse le labbra: erano troppi gli interrogativi che non osava esaminare a fondo, e i suoi pensieri si ritrassero da essi come spaventati. «Che cos'hai detto?» mormorò, distratta.
«Ho detto: perché Alybrea vuole la Khoiné? La ucciderà. Tu sai che la vuole eliminare», sussurrò rabbioso lui. «È questo che desideri anche tu?». «Uccidere Babeeri?». Laune fece una smorfia. «Che sciocchezza. Non ti ho forse detto che le ho salvato la vita già una volta? Purtroppo io sono in una brutta posizione, e forse non mi basterà giocare d'astuzia. Alybrea vuole dei risultati, capisci? La sola fortuna è che la Stella Nera è pazza, perciò posso menarla per il naso come mi pare. Vedremo che accadrà». «Alybrea è l'essere più pericoloso che esista sulla faccia della terra!» sbottò Yaan. «Con l'arma del gelo ha ucciso oltre duecentomila disgraziati esseri umani, durante la rivoluzione, ed a quei tempi era appena una bambinetta. In seguito, si calcola che abbia assassinato non meno di cinquantamila persone all'anno». Laune fece spallucce. «Da una frase di Sevan Brelthur, credo d'aver capito che dietro molte delle mosse di Alybrea c'è quel Siptah, il Grande Maestro dei Dottori. Spesso la ragazza va a Sothana per consultarsi con lui. Ma adesso passiamo a noi. C'è davvero un covo di ribelli a Esperdale? «L'intera città è un covo di ribelli», disse lui di malumore. «Ancora non hai capito come sta la situazione, signora mia. Ti dirò una cosa: se la Khoiné è davvero a Esperdale, Alybrea non riuscirà a riaverla neppure minacciando di sterminare la popolazione. Mandare te con dieci uomini è assolutamente ridicolo. Ridicolo, accidenti! Ti rendi conto che se la gente sapesse dell'arrivo di Babeeri tutta la nazione le farebbe muro attorno? Difficilmente uscirai viva dal Tall-Varna». «E allora cosa dovrei fare?» esclamò lei. «Se non sarò capace di riportare Babeeri a Shorn, la mia pelle non varrà un soldo bucato. Forse dovrei rubare una nave e tornarmene nel Warnalore. Questo non è un posto adatto a me». Fra i due ci fu un lungo silenzio. I rumori del piccolo accampamento s'erano smorzati, e i soldati dormivano. Infine Laune gettò da parte le sue riflessioni poco allegre e domandò, in tono più leggero: «Ora che mi viene in mente, non ti ho mai chiesto perché t'eri messo alla ricerca della ragazza. Qualcuno te ne aveva dato l'incarico?». «Era mio dovere. Chiamalo un impegno preso», rispose lui gravemente. «Vedi, nella città di Lahaina esistevano, prima che Alybrea le sterminasse, quelle che per millenni hanno avuto nome le Dodici Famiglie. Una volta erano in tutto quasi trecento persone, ma adesso non siamo rimasti che in tre o quattro». Yaan raccontò alla ragazza come e per quali motivi avvenivano gli ac-
coppiamenti all'interno di quel gruppo circoscritto. Fu poi costretto dalle sue domande a dilungarsi alquanto, e le spiegò la complessità degli incroci genetici grazie a cui nascevano due gemelle stellate ogni generazione. Le parlò delle istruzioni lasciate scritte dagli Antichi nel Libro di Ferro, delle leggende e delle usanze del suo popolo, della Strada Sommersa, e scoprì in Laune un'ascoltatrice attentissima. Terminò narrandole dell'astuta manovra con cui i Dottori dell'Oscuro avevano sottratto alla morte la Stella Nera, e le riassunse le vicende della sanguinosa rivoluzione. A quell'epoca anch'egli aveva abitato in Lahaina e aveva appena dodici anni. Disse d'essere sopravvissuto per miracolo, e d'aver trovato rifugio proprio a Shorn. «Se oggi queste Dodici Famiglie non esistono più», osservò lei, «è evidente che gli incroci per far nascere le due gemelle sono definitivamente finiti e conclusi. Dunque Babeeri è l'ultima delle Khoiné». «Esatto», annuì Yaan. «Tuttavia la cosa non ha la minima importanza, perché il cataclisma profetizzato dagli Antichi sta accadendo proprio adesso. Le mille Khoiné vissute prima di lei, sono esistite al solo scopo di perpetuare la presenza della Stella d'Oro fino al momento in cui si fosse compiuta la profezia. E di conseguenza Babeeri rappresenta oggi il punto culminante di millenni di sforzi: è la Khoiné delle Khoiné. La vita di ogni essere umano dipende da lei. E dopo Babeeri, dopo che il continente sarà sprofondato nel mare, non importerà più nulla che vi siano o non vi siano altre Khoiné. Lei sarebbe stata l'ultima in ogni caso». «Capisco», mormorò Laune, rendendosi conto per la prima volta dell'entità degli avvenimenti che stavano per abbattersi sul Gondwana. «Dunque Alybrea ha sterminato quei nobili senza un vero motivo. La cosa non era necessaria... A meno che, non intendesse mettersi al sicuro eliminando quello di loro che era destinato a sposare Babeeri. In questo modo ha prevenuto la nascita di un'ultimissima Stella d'Oro, forse per lei pericolosa. Ma adesso che questo possibile sposo della fanciulla è morto e sepolto... Cos'hai da ridacchiare?». Yaan la stava fissando. Con uno sforzo soffocò una risata nervosa che gli era salita in gola a quella frase. «No, costui non è precisamente defunto, anche se in questi ultimi tempi si è augurato varie volte di esserlo!» sussurrò, con un fremito nella voce. «Cosa? Vuoi dire che... sei tu il nobile destinato a unirsi in matrimonio con Babeeri?». La piratessa era esterrefatta. «Per le dorate corna di Marduk! Ora capisco perché andavi cercandola per mare e per terra. Ma aspetta un momento, maledizione!».
«Che c'è?». Laune parlò seguendo il filo dei propri pensieri: «Alybrea sa chi sei, ragazzo mio. Sicuro, ci puoi scommettere il tuo ultimo forato che lo sa. Il tuo nome è scritto nel Libro di Ferro, no? E lei lo ha letto di certo. Amico, tu dovresti essere la persona più ricercata di tutto il Gondwana... o la più morta!». «Non sa nulla», borbottò Yaan. «Non può sapere nulla di me. Perché mi avrebbe lasciato in vita, se sono un tale pericolo?». «Già, perché?» mormorò la piratessa. Nessuno dei due riuscì a trovare una spiegazione a quell'enigma, e Yaan insisté che Alybrea non s'era preoccupata di consultare il Libro di Ferro, dopo la conquista di Lahaina. Essendosi fatto tardi, Laune rinunciò a cercare una risposta più convincente e decise di concedersi un po' di sonno. La notte si prospettava assai fredda. Il giorno dopo uscì dalla tenda all'alba e chiamò Cuhman a voce alta. Gli uomini si svegliarono di pessimo umore e s'aggirarono nell'aria gelida brontolando, mezzi nudi, sporchi e puzzolenti di sudore, e la ragazza comprese che due o tre di essi non avrebbero chiesto di meglio che un pretesto qualsiasi per altercare con lei. Irritata li chiamò bastardi, feccia, canaglia impestata, e fu costretta a prenderne qualcuno a spinte per metterli al lavoro. Nel far ciò dovette estrarre a mezzo il pugnale un paio di volte, minacciando i più animosi di una punizione. Cuhman si teneva in disparte con aperta malizia, come aveva fatto anche le mattine precedenti, quasi ad incoraggiare silenziosamente i soldati ad assumere atteggiamenti di sfida verso Laune. La cosa però non faceva alcun effetto alla piratessa, ed anzi quella mattina in particolar modo le sarebbe piaciuto battersi con qualcuno, tanto per dimenticare le sue preoccupazioni. Coi pugni piantati sui fianchi, le pupille fisse come punte di freccia sui militi sumerici, assistette alle loro manovre per attaccare i cavalli ai carri. «Ehi tu, Cuhman!» gridò al Comandante delle Teste Nere. «Fai subito punire quel deficiente che ha ammazzato il suo compagno. Esigo che abbia venti frustate. Ubbidisci!». «Frustalo tu, se ne hai voglia», ringhiò l'uomo. Cuhman stava per aggiungere qualcosa, quando sul volto gli comparve un'espressione stolidamente perplessa. D'un tratto, come sbucati per magia dal verde terreno coperto d'erba grassa, centinaia e centinaia di saltellanti yatti si stavano precipitando nell'accampamento, fra le ruote dei carri e le zampe dei cavalli. In pochi istanti la torma di animaletti s'infittì, e nella
scarsa luce del sole nascente Laune vide con meraviglia che il Bassopiano Ringel pullulava di piccoli roditori in corsa folle, a miriadi. «Ma che accidenti succede? Che gli piglia?» esclamò. Cuhman bestemmiava, prendendo a calci gli yatti che gli sbattevano addosso e indietreggiando verso un carro, mentre anche i quadrupedi cominciavano a manifestare segni d'inspiegabile nervosismo. «Tenete ferme le bestie, razza d'incapaci!» gridò Laune ai militi. La ragazza corse a dar loro man forte, perché i quadrupedi s'impennavano e scalpitavano nitrendo lamentosamente. La marea di yatti li ignorava del tutto, ed ella vide che si stavano dirigendo a sud come guidati da un istinto comune. Dopo un poco, però, mutarono direzione e si diedero a fuggire verso la Catena del Sao Satél, ad occidente. Era evidente che i loro sensi avevano avvertito la presenza di un pericolo, e di natura tale che ciò li aveva fatti schizzar fuori dalle loro tane all'unisono. I Sumerici s'aggrappavano ai finimenti dei cavalli con occhi sbarrati, incapaci di capire la ragione di quella repentina migrazione in massa e senza quasi sentire gli ordini urlati da Cuhman e da Laune, ai quali premeva soprattutto non perdere le loro bestie. Yaan saltò giù dal carro e corse ad aiutare la ragazza, che era alle prese con un cavallo imbizzarrito. Mentre lo impastoiavano, gli yatti cambiarono di nuovo direzione e invasero l'accampamento, come un fiumana vivente fatta di corpiciattoli fulvi che saltellavano freneticamente. «Sali a bordo», ansimò il giovanotto. «Prendi le redini. Dobbiamo andar via da qui!». Laune lo afferrò per una spalla, spaventata. «No... Ascolta: cos'è questo rumore?». Da lontano era salita di tono una vibrazione simile a un brontolio cupo, che sembrava provenire contemporaneamente da tutte le direzioni. La bruna piratessa vide il carro più vicino scuotersi in senso orizzontale fino a trasformarsi in un'immagine dai contorni indistinti, ed un momento più tardi una mano invisibile la scaraventò a terra. Rotolò sull'erba e si drizzò a sedere con uno scatto di reni, ma non fu capace di rialzarsi perché una seconda scossa violenta la gettò lunga distesa. Sotto di lei il suolo rimbombava come un tamburo immenso nelle cui viscere si fosse scatenato un dèmone deciso a far crollare il mondo, ed ora sobbalzava anche verticalmente. «Il terremoto!». Laune si volse e vide che Yaan era disteso a poca distanza da lei, ag-
grappato ai ciuffi d'erba per tenersi fermo. Il suolo si scosse dal basso in alto ed ella venne gettata in aria per almeno due braccia d'altezza. Il grido che emise, terrorizzata, non giunse neppure alle sue stesse orecchie, sommerso dall'infernale brontolio che saliva dalle profondità della terra. Uno dei carri si rovesciò, trascinando l'uno sopra l'altro i quattro cavalli aggiogati ad esso, e gli altri due veicoli si stavano muovendo lateralmente come se scivolassero lungo un pendio. Ondeggiavano e vibravano, con i teloni che si scuotevano non meno che sotto le raffiche d'un forte vento. Circa sei minuti dopo l'inizio della scossa il rumore cavernoso si smorzò e la terra cessò di tremare, lasciando un silenzio atterrito e gravido d'attesa sul Bassopiano Ringel. Gli uomini tacevano, storditi, e non ce n'era uno che fosse riuscito a restare dritto sulle gambe. Gli unici suoni erano quelli felpati delle zampine degli yatti, che avevano ripreso a correre dappertutto. Il puzzo di selvatico dei roditori appestava l'aria. «È la maledizione della Stella Nera!» gridò un sumerico. Osservando le facce degli uomini, Laune comprese che i militi dovevano aver prestato orecchio alle leggende e alle storie che si raccontavano nelle taverne di Shorn, e che avevano ancor più preso piede quando la gente aveva visto inabissarsi le isole coralline. Superstiziosi com'erano, i Sumerici non osarono dar torto a quello che aveva parlato. Ma non vi fu il tempo di commentare la cosa, perché un'altra scossa di terremoto violenta quanto la precedente percosse il Ringel. Le vibrazioni erano sia ondulatorie che sussultorie, e queste ultime così forti che uomini, cavalli e carri ne vennero gettati in aria spesso per qualche piede d'altezza. Per oltre una clessidra di tempo, l'intera pianura sussultò come il coperchio d'una pentola d'acqua bollente, e Laune mise da parte ogni dubbio sulla realtà delle forze che stavano trascinando il continente alla catastrofe. Yaan era pallidissimo e la fissava senza dir nulla; ma sul suo viso si leggevano gli stessi timori che egli le aveva rivelato la sera prima sulla tragedia che attendeva ormai il Gondwana. «Muovetevi. Raddrizzate quei carri», ordinò la ragazza ai Sumerici. «E smettetela di tremare come cagnolini. Forse stasera stessa avrete il piacere di vedere fra voi colei di cui avete tanta paura, così potrete ringraziarla del terremoto. Cuhman, portami la mappa e diamo un'occhiata al percorso». «Cosa volevi dire?». L'uomo tornò accanto a lei col grosso rotolo di pergamena. «Credi che Alybrea, la Stella Nera, venga qui?». Lei stese la mappa sull'erba e la fermò con alcuni sassi agli angoli, poi batté un dito all'incrocio di due linee sottili.
«Questa sera arriveremo a incrociare la Pista Deoghar, che attraversa tutta la fascia centrale del continente fra Esperdale e lo Yaya Dhuba, passando per il sud del Ringel e per Lahaina. Arrivati qui, la seguiremo verso occidente. Mi è stato detto che all'incrocio ci sono quattro statue raffiguranti la Stella Nera, voltate ciascuna verso uno dei punti cardinali, e scommetto che Alybrea comparirà a controllare come stiamo andando. La faccia del sumerico rimase priva d'espressione, ed ella continuò: «Lei stessa mi ha rivelato che all'interno delle sue statue c'è un oggetto costruito dagli Antichi, e che questo oggetto è collegato in qualche modo alla piccola stella che ha sul palmo della mano. Ciò le consente di apparire e sparire, viaggiando all'istante da un luogo all'altro. Adesso, è probabile che abbia notizie più recenti sulla ragazza che stiamo cercando, e forse vorrà comunicarcerle». «Preferirei non doverla vedere», affermò Cuhman. «Che venga o meno, arrivati qui all'incrocio prenderemo la Pista Deoghar e andremo a ovest verso il Passo di Malabranca. Una volta oltrepassata la Catena del Sao Satèl saremo nel Tall-Varna. Questa nazione è una lunga striscia di pianura che sta fra il Sao Satèl e la costa occidentale del Gondwana. La città di Esperdale è qui, a circa un giorno di viaggio dopo il Passo di Malabranca». «E cosa hai deciso di fare, laggiù?» la interrogò acido Cuhman. «L'idea iniziale era di suddividersi in tre gruppetti, travestiti da marinai e da mercanti di Achelòs, e di prendere alloggio in locande diverse. Da qui partire poi con indagini discrete, fino al ritrovamento della ragazza. L'ordine è di mantenere il massimo segreto, eliminando chiunque altro sia al corrente della sua esistenza. Tuttavia non so quale possa essere oggi la situazione a Esperdale. Deciderò un piano preciso solo due o tre giorni dopo il nostro arrivo in città. Ciò che ora mi preoccupa è questa boscaglia». La ragazza indicò all'uomo il tratto della Pista Deoghar che andava dall'incrocio alle montagne del Sao Satèl. «Qui termina il Bassopiano Ringel e inizia una terra fittamente boscosa, chiamata la Foresta del Bacha Bacau. Occorrerà una giornata intera per attraversarla, e mi è stato detto che vi si possono trovare delle bande di predoni in agguato». «I Grisloj», annuì Cuhman. «E hanno armi da fuoco, a quanto raccontavano in caserma». «Così pare. Ed è qui che il nostro amico Lakhmar ci verrà utile. Ieri sera gli ho domandato informazioni e...».
«Già. M'ero accorto che stavate confabulando», le appuntò l'uomo, fissandola duramente. «Non interrompermi, Cuhman. Quando ti parlo voglio che tu mi ascolti con la massima attenzione. Come stavo dicendo, ho saputo che questi Grisloj sono selvaggi strani e pericolosi. Ma esiste un modo per tenerli alla larga. Lakhmar mi ha assicurato che funziona sempre, a patto che ci si attenga a un comportamento ben preciso». Il sumerico commentò che fidarsi di Yaan avrebbe significato rischiare di finire in qualche trappola, e poi le chiese quale fosse il sistema per evitare i Grisloj. Ma la ragazza tagliò corto dicendo che glielo avrebbe spiegato al momento opportuno. Arrotolò la mappa e con un'occhiata controllò che la spedizione fosse pronta a rimettersi in movimento, poi si diresse al carro di coda. Prima di saltare a cassetta attese di veder gli uomini prendere posto sui veicoli, quindi ordinò la partenza. A metà pomeriggio, quando avevano già percorso una sessantina di leghe verso meridione, scorsero la lunga cicatrice giallastra della Pista Deoghar che tagliava la verde distesa del Ringel. All'incrocio con la strada che scendeva dal nord c'erano le quattro statue nere raffiguranti Alybrea, ciascuna volta a sorvegliare una direzione diversa, e Laune ordinò di fare una sosta. Scese a terra e si guardò attorno, domandandosi se aveva visto giusto intuendo che la bruna strega li avrebbe raggiunti lì. Aveva saputo dal Principe Valdek che i Dottori dell'Oscuro viaggiavano da un luogo all'altro grazie a dei fantastici strumenti simili a palline di vetro, fatto questo che la lasciava a dir poco perplessa. Yaan asseriva che Alybrea non ne aveva alcun bisogno, e che le sferette erano collegate a certi macchinari arcani situati in Yaya Dhuba più o meno allo stesso modo della sua stellina nera. Il giovane era riuscito ad esaminare alcune di quelle sfere, in passato, accertando che le si poteva usare una volta soltanto, dopo di che venivano gettate via. A sentir lui i poteri della ragazza erano attinti direttamente dalle macchine che gli Antichi avevano seppellito in certi sotterranei presso la città di Sothana, e non avevano perciò niente di magico, anzi affermava che gli stessi Dottori dell'Oscuro avevano avuto all'inizio delle enormi difficoltà a comprenderne il funzionamento. «Questa sera saremo nella foresta», brontolò Cuhman, venendole accanto. Laune annuì. La Catena del Sao Satèl distava circa sessanta leghe verso occidente, e alle sue pendici la foresta del Bacha Bacau era una muraglia
di fitta vegetazione color verde scuro. La Pista Deoghar vi scompariva dentro, diretta al passo fra le montagne, e lei calcolò ad occhio e croce che sarebbe occorso tutto l'indomani per attraversarla. «Questa faccenda non mi piace», continuò il sumerico. «E gli uomini sono nervosi all'idea d'incontrare la maga. Si dice che sia pazza come il demonio stesso, e che scateni delle stregonerie mortali per il solo piacere di uccidere». La ragazza spostò lo sguardo oltre le sue spalle e s'irrigidì, sibilando: «Taci. È già qui». Alybrea s'era materializzata infatti al centro dell'incrocio, all'improvviso e nel più assoluto silenzio. Un lungo mantello ricamato in argento la ricopriva dal collo ai piedi, e sui capelli corvini portava una sottilissima coroncina punteggiata di diamanti. Di lei era visibile solo il volto, e a Laune bastò un'occhiata per vedere che dietro quei neri occhi privi d'espressione si contorceva gelido e inumano lo spettro della follia. Ne provò un brivido. Ma che quel giorno fosse in condizioni mentali peggiori del solito lo si vide solo quando prese a camminare verso di loro, con passi rapidi e scattanti simili ad orrendi saltelli da golem demoniaco. «Salite sui carri!» strillò acutamente. «Salite subito, vigliacchi maledetti! Bestie! Traditori!... Dovete ripartire fra un istante!». Gli uomini non se lo fecero ripetere, e tornarono a bordo dei veicoli sbarrandole addosso occhi spaventati. Laune invece le si fece incontro con modi suadenti, e sollevò le mani in un gesto che la invitava a placarsi. «Sia come tu ordini, Signora. Riprenderemo subito il cammino. Ho comandato io di far sosta in attesa del tuo arrivo, immaginando che avresti voluto darci istruzioni», disse, con calma ostentata. «Siete buoni solo a perder tempo!» gridò ancora la ragazza, agitando rabbiosamente i pugni. «È per colpa di gente come voi se gli avvenimenti precipitano. Sono circondata da cialtroni imbelli, da serpenti velenosi che ordiscono congiure alle mie spalle, da incapaci, da idioti. Ma le punizioni per i vili che mi tradiscono saranno terribili. Sappiatelo, voi tutti!». Laune le assicurò che da lei avrebbe dovuto aspettarsi la massima fedeltà, e che avrebbe ucciso di sua mano chi non avesse ubbidito scrupolosamente. Le fece poi notare che erano in anticipo sui tempi previsti, avendo viaggiato molto velocemente. Nel frattempo s'accorse che Alybrea era sconvolta a causa di qualche altro avvenimento: s'era messa i pugni davanti alla faccia e sembrava non ascoltarla neppure, tremante e pallida come
un cadavere. La tensione che le pervadeva le membra era tale che stava sudando. Allorché rialzò il viso, tuttavia, fu chiaro che quello sforzo di concentrazione l'aveva riportata coi piedi sulla terra. «Dovrai uccidere quella straniera», esclamò. «Questo è il tuo nuovo compito. Prosegui fino alla città di Esperdale, trova la donna dai capelli rossi che ha condotto qui la mia gemella e portami la sua testa. La voglio morta!». «Certo, se me lo ordini». Laune alzò le spalle. «Ma per quanto riguarda Babeeri, dimmi, dovrò continuare a cercarla?». «Ora non più. Non serve. Purtroppo ormai tutti sanno del suo ritorno, e di conseguenza due giorni fa ho incaricato i Dottori di braccarla. Saranno loro a occuparsene. Tu invece dovrai portarmi la testa mozza di quella ribelle dannata, e andrai dov'è stata vista l'ultima volta, ovvero nel palazzo del Re Schiavo Tharma Ganovash. Se fallirai, neppure tu ti salverai dalla mia ira». «Dunque la ragazza venuta nel Gondwana con Babeeri non è morta come s'era creduto. Ma com'è potuta arrivare così in fretta ad Esperdale, dalla città di Shorn?». «Qualcuno mi tradisce, ti ho detto!» urlò l'altra. «Ho ucciso cento guardie di Sevan Brelthur col mio potere, appena ho scoperto che quella diavolessa li aveva giocati e s'era perfino introdotta nei miei appartamenti privati di Castel Trebus. E mille altri ne ucciderò ancora. Lo stesso Sevan Brelthur conoscerà la morte di ghiaccio, se le mie cose verranno nuovamente toccate da mani estranee!». «Forse», azzardò Laune, «sarebbe meglio se tu mi riferissi cos'è accaduto. Conoscendo la situazione sarò poi in grado di servirti con maggiore competenza. Cosa ha fatto di tanto grave questa straniera?». Alybrea emise un ringhio che terminò in una nota acuta, stridente, ed agitò ancora i pugni con rabbia. «Ha commesso azioni infami e nocive. Io stessa le darei una morte atroce se potessi trovarla, ma essa fugge da un luogo all'altro ed è astuta, subdola e velenosa come uno scorpione. Neppure i capi dei ribelli hanno saputo arrecarmi danni tanto vasti. Oh... io esigo che muoia. Che muoia in modo orribile!». Quando Laune chiese altri particolari, l'altra le confermò che ormai la presenza della Khoiné era diventata notizia di pubblico dominio, e che di conseguenza una missione tesa a rintracciarla in segreto non aveva più ragione d'essere. A quel punto anzi sarebbero valsi di più i mezzi di cui
disponeva Siptah, il personaggio che si stava rivelando agli occhi di Laune più sottile e minaccioso di chiunque altro e che risiedeva a Tor Vanora, la sede dei Dottori dell'Oscuro presso Sothana. Tuttavia la ragazza dai capelli rossi s'era rivelata imprevedibilmente pericolosa e capace di stravolgere gli eventi, ed eliminarla era divenuta d'un tratto una necessità vitale e primaria. «Ma come ha agito di preciso, costei?». «Alcuni giorni or sono essa diede l'assalto ad una fortezza in Falheire, dove i miei servitori avevano faticosamente istallato i congegni che a suo tempo misi nelle loro mani di sciocchi incapaci. Fui io ad aprire per gli uomini di Yaya Dhuba le inespugnabili porte metalliche che davano accesso ai grandi sotterranei degli Antichi. Io sola, grazie alla mia stella, potevo penetrare nelle caverne sbarrate da mille e mille anni, e fu così che svelai ai Dottori le meraviglie degli Antichi e le loro segrete macchine. Ma gli stupidi hanno permesso che una donna distruggesse l'opera di anni. E poi... poi costei ha incitato alla ribellione i pezzenti di Ellady. Li ha convinti ad irridere il mio potere invincibile. Ed ora tutto un popolo sta marciando verso settentrione!». Laune seppe dell'attacco al Forte di Trendig e restò stupita nell'apprendere che Falheire si stava svuotando della popolazione, la quale aveva intrapreso una migrazione in massa verso le coste del nord. Alybrea gridò che li avrebbe sterminati dal primo all'ultimo, ma a lei apparve invece lampante che con la distruzione di quei macchinari i suoi poteri d'offesa erano diminuiti di molto, almeno per il momento. La bruna proseguì riferendo che due giorni addietro la stessa cosa era accaduta di nuovo, ma stavolta molto più a settentrione, ad Esperdale. «E fu sempre lei!» strillò, imbestialita. «Come se un dèmone perverso guidasse le sue azioni. Dopo aver lasciato Falheire, soltanto l'altro ieri è riuscita a travolgere nel caos anche il gruppo dei Dottori che operava nel Tall-Varna. Come abbia potuto farlo io non lo so, ma certo vi è qualcuno che mi tradisce, perché da sola non sarebbe mai riuscita a tanto. E adesso anche Esperdale è in rivolta e quel cane del Re Schiavo rende omaggio alla mia gemella. L'assistente del Grande Maestro è stato ucciso, e perfino l'uomo con cui sei venuta, Valdek il sumerico, è stato così sprovveduto da farsi ferire da costei. Così l'ho fatto punire». Laune abbassò la voce. «Parla piano, o i suoi uomini potrebbero sentirti. Cos'è accaduto al Principe?». «Non lo so. Siptah ha condotto lui ed i suoi stolti militi in Yaya Dhuba.
Presto costui e Sevan Brelthur si pentiranno d'aver complottato insieme, e capiranno che io sola domino il Gondwana». Laune assorbì quelle notizie con faccia impassibile, ma in realtà era stupita e allarmata. Ora che due delle Cinque Nazioni erano palesemente sfuggite al controllo di Alybrea, anche la sua situazione personale non ne traeva giovamento. Le domandò quali provvedimenti stesse prendendo, ed ella urlò parole furibonde, annunciando che stava preparando una rappresaglia e che il continente si sarebbe ricoperto di cadaveri. Tuttavia lasciò capire che i suoi poteri non agivano su scala tanto vasta, e che avrebbe avuto bisogno di altre delle misteriose macchine degli Antichi. In Tor Vanora, disse, Siptah aveva messo al lavoro centinaia di Dottori per rimediare ai danni e alle perdite. «E adesso basta con le domande sciocche», concluse. «Tu ignorerai ogni difficoltà e giustizierai quella sobillatrice quanto prima. Inoltre prenderò con me il prigioniero che viaggia con noi. Chiamalo». Reprimendo a fatica la sua contrarietà Laune diede una voce a Yaan, ed il giovanotto scese dal carro. Scuro in volto s'avvicinò, mentre Alybrea lo fissava con occhi scintillanti. «Che cosa intendi farne di lui?» domandò la piratessa. «Non ti riguarda», sbottò l'altra. «Tu sei troppo curiosa e mi annoi. Ma voglio dirtelo ugualmente. Sai chi è in realtà quest'uomo. È uno di quei sordidi assassini di pargolette che avevano nome le Dodici Famiglie. Ma non solo: egli in persona è colui che secondo le istruzioni del Libro di Ferro era destinato a sposare la Khoiné. Comprendi ora la sua doppiezza? Ma tale soddisfazione non l'avrà mai». «Non ce ne sarà bisogno», fece lui, sprezzante. «Io posso anche morire, tuttavia ti dico che la Stella d'Oro brillerà sul Mare di Gondwana, e che il mio popolo passerà in salvo sulla strada magica degli Antichi. Il nostro destino è già scritto negli astri». Alybrea emise una risata stridula, e d'un tratto il volto le si contrasse in un'espressione astuta. «Sono i potenti a foggiare il destino dei popoli. Ma sappi questo, Yaan Margraf Lakhmar: se pure dovesse accadere il peggio, la Stella Nera non conoscerà mai la sconfitta. La Stella Nera vivrà per sempre, perché io non sarò certo l'ultima a recarla sul palmo della mano». «Tu credi davvero? Ma è un'illusione. Per quanto tu faccia, non sei certo immortale, e dopo di te essa verrà dimenticata». La bruna lo guardò in un modo strano, con una luce negli occhi che per un breve attimo a Laune apparve del tutto umana e femminile. Poi disse a
bassa voce: «Dimentichi che dal tuo seme possono nascere altre due gemelle stellate, uomo. E dimentichi che anch'io, esattamente come la mia gemella, posso partorire una Stella d'Oro e una Stella Nera... Capisci ora? Io ho la possibilità di far nascere dalla mia stessa carne un'altra dinastia. Una dinastia che farà sopravvivere nei millenni il mio simbolo». «Non è vero!» ansimò Yaan, ma al pensiero era impallidito. «Lo è, e tu lo sai bene. Anche se l'intero continente sprofondasse, anche se le macchine degli Antichi finissero in fondo al mare ed io fossi costretta ad andare nel settentrione, questa stella... guardala, Yaan! Questa stella continuerà a trasmettermi di lontano i poteri che di luce rossa brillano nella Sala della Potenza. Io stessa ho veduto il fluido color rubino entro le venti macchine che gli Antichi segnarono con l'emblema della Stella Nera, sepolte laggiù entro la terra. Dovunque andrò, potrò creare e distruggere i regni degli uomini. E della dinastia che io fonderò tu sarai il capostipite,. che ti piaccia o meno». «Mai!». Il giovanotto fece un passo indietro. La ragazza tolse da una tasca una pallina di vetro e gliela porse. «Bada, Yaan. Io so come accelerare la catastrofe che tu vedi incombere nella terra e nel cielo. Potrei far sì che la rovina travolga tutto e tutti fin da adesso, se non mi ubbidirai. E se rifiuti di essere il mio sposo, se rifiuti di far nascere la mia erede... allora ti dico che stanotte stessa il Gondwana precipiterà nel fondo del mare con tutti i suoi abitanti. Perciò rifletti». Yaan non replicò, e nei suoi occhi Laune lesse la rabbia e l'impotenza. Alybrea toccò la sferetta di cristallo e premette un minuscolo cilindro che era scattato fuori dalla sua superficie, poi gliela offrì sul palmo della mano. «Prendila. Spingi per la seconda volta il pulsante e sarai portato nel mio palazzo di Tor Vanora. Io verrò con te». «Ti consiglio di essere ragionevole, Lakhmar», disse Laune in tono freddo, senza guardarlo. «Questo è il tuo destino. Accettalo con buona grazia e sarà meglio per tutti». «Non esitare, via...». La bruna aveva lo sguardo torbido. «Da molti anni io so che tu eri nato per me. Insieme concepiremo colei che regnerà sul mondo dopo di me. E insieme domineremo ogni terra!». Yaan esitò, accigliato. Poi annuì con una smorfia cupa, raccolse la sferetta dalla mano dell'altra e la esaminò un attimo. Infine si volse a gettare a Laune una lunga occhiata penetrante, indecifrabile, in cui si leggevano amore e odio, speranza e rabbia, un misto di sentimenti confusi che la fece
sentire a disagio. Premette il pulsante: subito una vibrazione rese le sue membra indistinte alla vista ed egli si volatilizzò, scomparendo senza il minimo rumore. Dai carri, i Sumerici che avevano assistito alla scena mandarono esclamazioni stupefatte e spaventate. Alybrea si permise una specie di sorriso contorto. «Ricorda, Laune: attendo la testa di quella donna. Ora vai, prima che i rivoltosi del Tall-Varna comincino la loro stupida e inutile migrazione». La ragazza ammantellata non fece alcun gesto: disparve alla vista esattamente come Yaan ma senza che si capisse quale altro straordinario procedimento avesse seguito. All'incrocio fra le due piste rimasero soltanto il manipolo di Sumerici e Laune, immobili e silenziosi. «In marcia, canaglie!» gridò ella tornando al carro di coda. La spedizione viaggiò per tutto il pomeriggio verso la foresta del Badia Bacau, e la piratessa ebbe modo di ripensare a quanto le era stato ordinato da Alybrea. Vedersi sollevata dall'incarico di rintracciare Babeeri la faceva sentir meglio, ma cosa lasciava supporre a quella creatura dalla mente sconvolta che avrebbe potuto eseguire con successo il suo nuovo compito? Si stava recando in una terra sconosciuta, agitata da una rivolta popolare di vaste dimensioni, e tutto indicava che a capo dei disordini c'era proprio quella fantomatica ragazza straniera. Ucciderla si sarebbe rivelato assai problematico, rifletté, e nulla le garantiva che poi ne sarebbe uscita sana e salva. Andare a cacciarsi nella tana del lupo non le garbava affatto. In un lampo d'intuizione comprese che Alybrea li aveva contattati all'unico scopo di riavere in suo potere Yaan Lakhmar. Senza dubbio non aveva mentito rivelando il motivo per cui egli le serviva, ed aveva inteso far sì che il giovanotto non finisse in qualche situazione pericolosa. Lo voleva ben vivo e sano. Di lei dunque non le importava nulla, e mandandola a cercare quella donna nel caos che doveva essere ora il Tall-Varna le aveva detto in pratica di sparire e di arrangiarsi. Per Laune, arrivare a capirlo fu una liberazione. Decise subito che una volta giunta a Esperdale si sarebbe imbarcata, ed avrebbe preso il mare verso nord. Al tramonto erano ormai addentro nella zona boscosa in cui la strada scorreva con continue curve. La vegetazione era composta da alberi di alto fusto gremiti di sottili liane, mentre il sottobosco aveva le caratteristiche della macchia sempreverde, fitto e cespuglioso al punto che un cinghiale avrebbe stentato ad infilarcisi. C'erano volatili d'ogni specie, scimmie e scoiattoli; al suolo abbondavano le orme delle volpi, dei cervi, dei piccoli
roditori e dei serpenti. Nel cielo Laune scorse delle aquile, e vide sulla corteccia degli alberi profonde graffiature che dovevano esservi state lasciate da orsi. Il mutamento ambientale rispetto al Ringel era improvviso e drastico, ed ella capì che era dovuto alle caratteristiche del terreno, fertilissimo, mentre per tutto il Bassopiano era stato sabbioso. Le ombre della sera s'infittirono nel sottobosco prima del solito, ed ella non poté che mostrarsi d'accordo quando Cuhman fece girare il carro di testa in una radura erbosa. Le Teste Nere accesero un fuoco e tolsero dai veicoli i sacchi di carne secca e di gallette. Senza dire una parola la ragazza sedette in disparte, con una giara di vinello frizzante avuto a Castel Trebus, e bevve un sorso dopo l'altro finché cominciò a sentirsi piacevolmente stordita. Accorgendosi poi che Cuhman s'era avvicinato gli rivolse una specie di sorriso. «Bevi con me, prode soldato del Triarca, fammi compagnia. Questa boscaglia è umida, e il vino scaccia i dolori e i fantasmi», lo invitò, offrendogli la giara. «Quelli che infestano la tua anima sono fantasmi molto peggiori dei miei», bofonchiò l'altro. La fissava senza simpatia. «Cosa ti ha detto la strega, da metterti in corpo la voglia di ubriacarti?». «Mi ha detto che il tuo Principe è ferito a una gamba», ridacchiò lei senza allegria. «Chissà che il buon Valdek non vada a raggiungere quei fetenti dei suoi antenati. Stirpe di cani! Sai una cosa, Cuhman? In vita mia ho odiato molti bastardi, ma non voi Sumerici... Voialtri meritate al più il mio disprezzo?». «La tua testa è piena di vino. Dove si trova il Principe?». «Non ne ho idea. Ma credo che si sia già pentito d'esser venuto da queste parti. Doveva starsene a casa sua, l'imbecille. Ora i suoi progetti sono diventati polvere». Cuhman si limitò a stringere le palpebre. «Ti dirò una cosa anch'io, bellezza: un anno fa, quando t'incontrai per la prima volta nei bassifondi di Saarna, tu parlavi con un accento diverso. Allora non ci badai, ma adesso credo che tu sia nata nel nord di Afra, nelle Terre Basse. Ed erano in molti a dire che Laune la Cagna è in realtà un'Amazzone rinnegata». «Se è così, vuol dire che siamo nemici», sogghignò lei. «E questo spiegherebbe inoltre la nostra reciproca antipatia. Molto bene, Cuhman. Detto ciò voglio farti una proposta». «Chi è stato a ferire il Principe?» domandò invece lui. «Lascia perdere Valdek e pensa alla tua salute, egregio. Non hai ancora
capito che non torneremo mai più a Shorn? Hai sentito l'ordine: proseguire per il Tall-Varna, ovverosia andare a farci ammazzare. Ma un modo di uscirne vivi c'è, e se non siamo due sciocchi ne approfitteremo. Ascolta: una decina di uomini decisi e ben armati può facilmente impadronirsi di una nave robusta, e poi governarla a dovere, Se tu mi dai una mano, fra un mese saremo nel Golfo di Bandai, e poi...». «Non se ne parla nemmeno!» stabilì lui, deciso. «Ti fa tanto schifo la vita? Pensa al segreto della polvere nera... A Esperdale ce lo faremo spiegare ben bene, e così tornerai a casa tua con un'informazione che farà di te un uomo ricco e potente. Che ne dici? Non decidere subito, bevi un buon boccale di vino e fai i tuoi conti. Valdek è finito, credi a me. Tutto questo marcio continente è finito», asserì la ragazza, convinta. Cuhman scosse il capo. «Tu non ragioni. Il Principe è sempre alleato del Re Sevan Brelthur e della maga, e costoro dominano il Gondwana. Eseguiremo i suoi ordini e poi torneremo a Shorn. Questo faremo». Laune sputò a terra, sprezzante. «Davvero commovente la tua lealtà, Cuhman. Ma io ti ripeto di pensarci sopra. D'accordo?». «Proseguiremo», ripeté l'altro seccamente. Laune fu lasciata sola. Bevendo le era passato l'appetito, e non mangiò insieme alle Teste Nere. Con la schiena appoggiata al tronco di un albero seguitò ad ingozzarsi di vino, ed osservò il fuoco finché non le parve di vederlo attraverso una tenda tremolante. Non aveva voglia di pensare più a niente, salvo a quanto le sarebbe piaciuto essere in qualche taverna del Warnalore a giocare d'azzardo con qualche altro capo pirata, al suono d'una musichetta eccitante. Possedeva una casa, nell'Arcipelago, una bella palafitta di legno rosso vinta ai dadi, nella quale aveva dormito si e no cinque volte. Mentre si stava arrovellando col sospetto che qualcuno potesse avergliela rubata, gli occhi le si chiusero e scivolò nel sonno senza accorgersene. La prima sensazione che avvertì nel risvegliarsi fu una fitta di dolore ai polsi. Si agitò e mugolò, stordita, e le parve di oscillare appesa a qualcosa. Era buio pesto. «Vi colga un accidente!» farfugliò, con la bocca impastata e appiccicosa. «Cosa... cosa state facendo, porci?». Con uno sforzo enorme sollevò la testa ed in quel movimento la vista le s'annebbiò ancora. Poi riuscì a distinguere quelle che dovevano essere le sue mani, più in alto, legate con una corda a un palo orizzontale. Da lì a
poco mise insieme una conclusione inequivocabile: degli ignoti assalitori l'avevano appesa ad un palo come un capo di selvaggina, ed ora la stavano trasportando nella boscaglia. La sua posizione era scomodissima, e le faceva dolere tutto il corpo. Quando un ramo le strisciò sulla faccia ella emise un verso ringhioso, cercando di scacciare dalla mente i fumi del vino e di vedere chi l'aveva impastoiata a quel modo. «Bastardi», ansò. «Che gli Dèi vi facciano marcire. Chi siete?». La voce le mancò e si sentì salire in gola il contenuto dello stomaco, acido. Sputacchiò disgustata, e con le lacrime agli occhi cercò di distinguere nell'oscurità le sagome dei suoi catturatori. Vide abiti cenciosi e gambe scure, pelose, ma nient'altro. Grisloj, pensò. Era caduta nelle mani dei selvaggi come una stupida, e c'era da scommettere che la colpa era stata di Cuhman, che aveva sottovalutato il pericolo e non aveva disposto neppure una sentinella presso i carri. Dal rumore dei passi e delle frasche spostate capì che quegli individui erano un'intera banda. Si domandò se i Sumerici avessero seguito la sua stessa sorte. «Dove siete?» gridò. «Cuhman, maledetto caprone stupido, mi senti?». «Ma crepa, brutta puttana!» le rispose la voce di uno dei soldati sumerici da poca distanza. Laune lo udì a malapena, perché uno dei due Grisloj che la trasportavano le aveva sferrato una pedata in un fianco. «Chiudi la tua bocca impudica, empia miscredente senza religione!» le ordinò una voce brutale. Il cammino nella selva proseguì in silenzio lungo sentieri stretti e sinuosi, e dopo un poco ella sentì un rivolo caldo colarle dai polsi. Aveva le mani insensibili come pezzi di legno, e rifletté che con un'altra clessidra di quel trattamento non avrebbe potuto più maneggiare un'arma per mesi, sempreché i Grisloj non le avessero riservato un destino spiacevolmente breve. Ad un tratto i suoi catturatori sembrarono allarmarsi per qualche avvenimento improvviso e la deposero al suolo, fra gli sterpi. «Piloj Zog!» sussurrò uno di essi. Subito tutti quanti presero ad emettere dalla bocca dei sibili acuti, quasi che si azzittissero l'un l'altro, acquattandosi furtivi nella vegetazione umida. Laune restò a giacere indebolita, mentre lo strano verso dei Grisloj le raggiungeva a stento la mente torpida e ottenebrata. Ebbe l'impressione che la banda sostasse lì per almeno mezza clessidra, e durante tutto quel
tempo nessuno di loro cessò di sibilare come un rettile. Cos'era stato a spaventarli? Infine il loro capo diede un segnale e la banda si rimise in marcia, e Laune continuò a chiedersi il motivo di quello stranissimo comportamento finché non s'avvide d'essere giunta a destinazione. «Gli uomini siano rinchiusi nel recinto degli eretici», ordinò un vecchio alto e barbuto con voce spiritata. «La donna mettetela in gabbia assieme all'altra». Nella scarsissima luce lunare che spioveva attraverso il fogliame Laune vide le ombre di numerose grosse capanne, sormontate da uno sperone granitico, e comprese che si trovavano alle pendici del Sao Satèl. Alla base della parete rocciosa s'apriva l'ingresso di una caverna, ed era da lì che quella specie di sacerdote o patriarca era sbucato. I due che reggevano il suo palo la portarono subito nella grotta, e dopo aver percorso un cunicolo male illuminato la deposero al suolo sotto una torcia semispenta. Mentre gli uomini la slegavano, Laune vide intorno a sé le pareti d'una caverna bassa e lunga, pavimentata in un anfratto, le cui sbarre erano solidi tronchi che andavano dal soffitto al pavimento. Due mani robuste la trascinarono avanti e la scaraventarono senza complimenti dentro di essa. Quindi ci fu il rumore di un catenaccio rugginoso che scorreva. Laune non aveva ancora la forza di muoversi e rimase stesa a terra, conscia solo che il sangue tornava ad affluirle nelle mani accompagnato da una sofferenza fatta di mille acute trafitture. Sotto di lei c'era uno strato d'erba secca, e presso la parete vide un corpo umano avvolto in una tunichetta bianca che giaceva a faccia in giù. Era una donna, comprese, addormentata o svenuta. Attese d'aver ritrovato un po' d'energia e si massaggiò i polsi indolenziti, facendo smorfie nel sentire i solchi che le corde le avevano scavato nella carne. Infine si trascinò verso l'altra prigioniera e la prese per una spalla, facendola girare per vederla in faccia. La ragazza si svegliò di soprassalto ed emise un lamento. «Lasciatemi! No... lasciatemi!» supplicò, con voce debole e spaventata. Ma Laune non udì neppure le sue parole, tanto la sorpresa l'aveva lasciata di stucco, e dalla bocca la voce le uscì come un rauco soffio sbalordito: «Per il sacro ventre dell'onnipotente Ishtar! Tu sei Babeeri... Sei Babeeri, non è vero, ragazza? Come accidenti hai fatto ad arrivare qui?». IL GIUDICE DI FERRO
Verso il mezzodì Goccia di Fiamma giunse in fondo alla stretta valle che scendeva dal Passo di Malabranca alla prime propaggini della foresta. La terra non aveva più tremato, ma in direzione sud-ovest erano visibili le altissime fumate nere del Kharg e del Sanferoine in piena eruzione. La città di Esperdale e alcuni grossi paesi costieri distavano oltre settanta leghe, e la ragazza poteva solo limitarsi a sperare che non avessero subito scosse di terremoto violente come quelle che li avevano mandati fuori strada. Per fortuna già la mattina precedente gli abitanti stavano spogliando le proprie case degli oggetti di prima necessità, ed i più solerti avevano caricato le loro famiglie su carri e carretti, mentre dozzine di messi reali spargevano nelle campagne la notizia della migrazione. Ben presto la Pista Deoghar sarebbe stata affollata di veicoli e di gente appiedata, diretti all'incrocio con quella che tagliava il Ringel verso nord sebbene lungo la costa vi fossero strade che avrebbero consentito alle lunghe colonne di procedere velocemente. Goccia rifletté sull'opportunità di chiedere aiuto ai primi che avrebbe visto arrivare: l'idea di dover affrontare sola e disarmata i rapitori di Babeeri non le sorrideva troppo. Ma chi potevano essere quegli individui? Ancor prima d'essere giunta sul terreno in pianura aveva mutato atteggiamento, facendosi cauta e tesa come un felino sulle tracce della preda. Chiunque fossero, avrebbe giurato che quella vasta estensione di boscaglia ne ospitava molti, forse una tribù intera, e l'istinto le suggeriva che costoro dovevano esser diventati degli specialisti nel depredare chi transitava sul loro territorio. Le pendici inferiori del Sao Satèl erano un immenso e spettacolare gradino di rocce giallastre, che in vari punti cadevano a picco sulla pianura. Sotto quelle muraglie appena rivestite di muschio e di cespugli, la foresta del Bacha Bacau sembrava un immobile mare di verde che lambisse una costa lunga centinaia di leghe. A oriente si scorgeva il chiarore del Bassopiano Ringel, che verso l'interno del continente sfumava in una foschia rosata. Sul fondovalle l'Amazzone abbandonò la strada e prese a sinistra, lungo un boschetto che scorreva fra i boschetti e le rocce. Seguendo le impronte arrivò in una radura erbosa, e qui constatò che la sua pista terminava. Sul terreno duro le tracce sparivano, e da quel luogo si dipartivano due o tre possibili percorsi fra i quali non seppe scegliere. Andò avanti a caso, e dopo un poco si trovò a camminare sull'orlo di un cornicione granitico che sovrastava una zona di acquitrini, fitta di sottili alberelli. Fu mentre si guardava attorno alla ricerca di un sentiero per
scendere da lì che scorse i due individui, quasi sotto di lei. La parete cadeva a perpendicolo per una ventina di braccia, e alla sua base i cespugli s'aprivano in una piccola radura. In ginocchio nel fango, intenti ad esaminare le tracce d'un erbivoro, c'erano due cacciatori barbuti e malvestiti armati di lunghi archi. Goccia si distese pancia a terra e li osservò. «Risalgono a stamattina», stava dicendo uno di essi, in lingua perfettamente comprensibile. «Un bel cervo. Forse è quello che ci è sfuggito l'altro ieri, cugino Arpax». L'altro si chinò a sfiorare un mucchietto di sterco e se ne portò una ditata alla bocca, facendo poi schioccare le labbra. «È fresco, cugino Theacre. L'animale dev'essere vicino», osservò, soddisfatto. Goccia di Fiamma li giudicò tipici boscaioli, astuti, ladri e attaccabrighe. Ma il dragocarro era stato saccheggiato da dei veri e propri professionisti della rapina, appostati in attesa di viaggiatori e pellegrini su cui piombare, e questi non le sembravano dei banditi. Li vide proseguire in fretta. Qualche passo più avanti, però, quello chiamato Theacre s'arrestò con aria allarmata. «Grisloj!» esclamò. «A terra, cugino Arpax, presto!». I due si gettarono al riparo dietro al cespuglio più vicino e subito presero a sibilare come serpi spaventate, interrompendosi appena il tempo necessario a riprendere fiato. Dalla foresta sbucarono altri quattro uomini, non meno cenciosi dei cacciatori ma col capo avvolto in fazzolettoni rossi la cui parte inferiore, fornita di due fori per gli occhi, copriva loro metà della faccia come una maschera. Erano armati di pesanti sparafiamma d'ottone, ed alla cintura avevano borse di pelle contenenti polvere e pallottole. I nuovi arrivati vennero avanti a passo svelto, sfiorarono i cacciatori acquattati al limite della radura come se questi non esistessero, e si dileguarono fra le piante. I due non avevano cessato un momento d'emettere il loro strano verso sibilante, ciò malgrado il gruppetto di Grisloj li aveva ignorati nel modo più assoluto. Goccia di Fiamma fece una smorfia perplessa, incapace di comprendere il mistero di quel comportamento. Intuiva che gli uomini armati di sparafiamma ed i cacciatori appartenevano a due tribù rivali, forse addirittura in guerra l'una con l'altra, eppure Theacre ed Arpax s'erano defilati da quell'incontro spiacevole col solo stratagemma di modulare un suono che stava a metà fra un fischio ed un soffiare rabbioso, senza neppure curarsi di nascondersi troppo bene.
Ancora stupita li vide poi alzarsi e andar via tranquillamente, sulle orme del loro cervo. Nella zona tornò a calare il silenzio. L'Amazzone trovò infine un sentiero in discesa e accelerò il passo per raggiungere i quattro tipi mascherati, con l'idea di seguirli a distanza di sicurezza e sperando che la conducessero al loro villaggio. Procedeva con cautela sulle loro tracce, allorché udì un sibilare identico a quello prodotto poco prima dai due cacciatori e vide uno dei Grisloj, accovacciato dietro al tronco d'un alberello: l'individuo la fissava dritta negli occhi e soffiava l'aria fra i denti con grande impegno. «Ehilà!» disse Goccia, fermandosi. Il Grisloj aveva lo sparafiamma a tracolla, ma non accennò ad imbracciarlo. Rimase immobile dov'era e seguitò a sibilare, insistendo con incomprensibile cocciutaggine nel suo teatrale tentativo di fingersi un serpente fra l'erba. Colta da una repentina intuizione l'Amazzone riprese il cammino e s'allontanò. Dopo una cinquantina di passi uscì dal sentiero e compì un semicerchio per tornare alle spalle del bizzarro individuo, strisciando fra gli arbusti. In breve lo rivide, insieme ad un compare, ed attenta a non provocare il minimo rumore si portò a una dozzina di passi da loro. I due uomini dalla maschera rossa stavano parlando di lei. «Sei certo che non fosse una di quegli eretici Piloj Zog?» domandava uno di essi, irritato. «Non lo so, adepto Trangùlo», rispose l'altro. «Ti giuro che per un momento ho quasi creduto che mi avesse visto... Eppure stavo facendo il Fischio dell'Invisibilità». Il primo emise un ringhio di disapprovazione. «Sai bene che il Fischio dell'Invisibilità non funziona con gli stranieri miscredenti, adepto Barabìt. Ma se dici che non ti ha scorto, significa che era una Piloj Zog». «Non sono più certo di niente, adepto Trangùlo. Era una sgualdrina d'aspetto sfacciato e impudente, con una veste così corta che le sue ginocchia apparivano oscenamente ignude. C'è stato un attimo in cui i nostri occhi si sono incontrati, e come ti ho detto ho avuto la strana impressione che potesse vedermi». «Se era davvero tale avresti dovuto spararle. Vieni, andiamo a cercarla. La malafemmina non può essere lontana». I Grisloj s'avviarono nella stessa direzione che aveva preso lei, tenendo pronti gli sparafiamma, e solo allora l'Amazzone osò muoversi. Una cosa almeno l'aveva compresa, sebbene stentasse a credervi: tanto i Grisloj che i loro rivali Piloj Zog, quando accadeva loro d'incontrarsi nella selva, sfrut-
tavano un identico sistema per celarsi gli uni alla vista degli altri. Sembravano convintissimi che quel sibilo conferisse loro l'invisibilità, e Goccia disse a se stessa che l'idiozia della cosa aveva un suo aspetto interessante. Si mise in cammino dietro ai due, ma non li vide né li udì muoversi da nessuna parte. D'un tratto però trasalì, sentendo un fruscio di rami spostati alle sue spalle: Trangùlo e il suo collega avevano seguito le tracce dei suoi stivaletti lungo il percorso circolare che ella aveva compiuto per spiarli, ed ora erano riapparsi sul sentiero, ma dietro di lei. Ancora un attimo e le loro armi le si sarebbero puntate addosso. Goccia non esitò: si gettò carponi oltre un cespuglietto e cominciò a sibilare con forza, esibendosi in un'imitazione del Fischio dell'Invisibilità e aspettando di vedere cosa sarebbe accaduto. I due Grisloj comparvero brandendo gli sparafiamma e si guardarono attorno con feroce circospezione. «Dov'è finita quel vaso d'empietà?» domandò Barabìt, fermandosi ad appena un passo da lei. «Il terreno è molle, eppure le sue tracce terminano qui». «Svanita!» constatò rabbioso il compare. «Dannata selvaggia senza religione. Scommetto che conosce molto bene la foresta». L'Amazzone ce la mise tutta per produrre il suo verso in modo regolare e continuo, sbarrando gli occhi sulle loro facce mascherate e chiedendosi cosa impediva ai due di vederla, in realtà. Le stavano tanto vicini che Trangùlo avrebbe potuto toccarla allungando un piede, invece si limitavano a girare lo sguardo qua e là dandola già per persa. «Andiamocene», decise infine Barabìt. «È mutile cercarla ancora. Tuttavia, se l'infame peccatrice fosse nelle vicinanze e potesse udirmi, le direi di stare bene attenta ai suoi passi». Trangùlo annuì, incamminandosi dietro di lui. «Ed io le suggerirei di tornare laddove vivono le bestie scellerate pari suo, prima di vedersi condotta dinanzi al Giudice di Ferro». I Grisloj s'allontanarono. Goccia di Fiamma smise di fare il Fischio dell'Invisibilità, poi s'avviò in direzione opposta e cercò di riflettere su quanto aveva appreso. Non aveva dubbi che i responsabili del rapimento di Babeeri fossero costoro. I Piloj Zog erano certo individui dall'aria infida, ma questi apparivano spietati e capaci di uccidere con estrema facilità. In quanto al Fischio dell'Invisibilità, decise che si trattava d'una sorta di tabù sociale, che le due tribù osservavano per mutuo accordo e forse nel reciproco interesse. Secondo il suo parere sia Trangùlo che Barabìt l'avevano
ben vista, ma l'istintivo rispetto di quell'usanza era tanto radicato in loro che avevano preferito considerarla davvero invisibile piuttosto d'infrangerla. Le parole che avevano pronunciato prima di rinunciare alla ricerca indicavano che sapevano della sua presenza, ma ciò malgrado la forza di quel tabù aveva piegato a tal punto il loro raziocinio che nulla li avrebbe indotti ad ammettere d'averla vista. Goccia di Fiamma sapeva d'avere un solo modo per ritrovare la giovane Khoiné in tempo ragionevolmente breve: catturare uno di quegli individui e costringerlo a rivelare l'ubicazione del loro villaggio. Si inoltrò quindi in direzione della Pista Deoghar, che secondo i suoi calcoli doveva distare circa due leghe verso sud. Vagò lungo un percorso tortuoso per un bel pezzo senza incontrare alcun essere umano, ed infine si rassegnò a deviare il cammino a levante, costrettavi dalla fittissima vegetazione. Il tramonto la sorprese affamata e stanca, senza nulla da mangiare, nel mezzo di un acquitrino che andava riempiendosi di grosse zanzare. Assillata dal pensiero della sorte toccata a Babeeri, e col morale nelle scarpe all'idea di dover trascorrere la notte all'addiaccio, si fermò lì. Raccolse qualche manciata di fango argilloso e con rassegnato disgusto se ne spalmò ogni tratto di pelle scoperta, unico rimedio a sua disposizione per non essere mangiata viva dagli insetti. Poi si distese a dormire fra i cespugli. Il futuro le appariva fosco e pieno d'incognite. Il mattino successivo la giovane Amazzone fu svegliata da un rumore forte e continuo, così intenso che per un attimo si sentì rizzare i capelli sul collo. Ma non si trattava dei due vulcani sul punto d'esplodere, come la sua spaventata immaginazione le aveva fatto credere, bensì di una lunga fila di carri che transitavano assai veloci nelle immediate vicinanze. Attraversò a guado un fiumiciattolo, di cui approfittò per lavarsi alla meglio, e scopri di trovarsi sul bordo della Pista Deoghar. Centinaia di veicoli a ruote, carichi spesso fino all'inverosimile di gente e di masserizie, stavano abbandonando il Tall-Varna attraverso il Passo di Malabranca. Goccia corse avanti agitando le braccia. I guidatori di cinque o sei veicoli la videro e tirarono via diritti, ignorando le sue rabbiose imprecazioni, ma dietro a questi un bel caro da guerra su cui viaggiavano due Ufficiali e un elegante cortigiano uscì di strada bruscamente, arrestandosi al suo fianco in un gran polverone. Il dignitario, un nobile di mezz'età, balzò a terra agitatissimo. «Dov'è la Signora Khoiné?» strillò, correndo ad afferrarla per le spalle. «Lo sapevo che la tua era una pazzia. Hai fatto male a non darci retta!
Cos'è successo?». Goccia di Fiamma non ricordava minimamente la sua faccia, ma comprese che si trattava di uno dei cortigiani che avevano protestato con energia quando il Re Schiavo aveva annunciato la partenza di Babeeri senza alcuna scorta. Se lo scrollò di dosso e lo fece tacere con una succinta spiegazione, che però non calmò affatto l'individuo. Tanto lui che i due militari emisero gemiti nell'apprendere che la fanciulla era stata rapita dai Grisloj, ed ella fu costretta a riconoscere che non avevano tutti i torti, visto che le loro vite dipendevano da ciò che avrebbe potuto fare la Khoiné. Si fece indicare la direzione in cui sorgeva il villaggio degli uomini dalla maschera rossa, e poi li incitò a radunare quanti più soldati potevano. Il carro ripartì subito in direzione di Esperdale. Da lì a poco se ne fermò un secondo, sul quale Goccia ebbe la sorpresa di riconoscere fra gli altri Serpin Baslét e sua figlia Caltris Phebea la denutrita ventitreenne appena dimessa dalla Casa delle Fanciulle. L'intera famiglia si ricordava di lei, e quella parve loro un'occasione buona per scendere un momento a sgranchirsi le gambe. Furono felici di offrirle acqua e una focaccia imbottita di carne. L'uomo le confermò che l'evacuazione della capitale procedeva a pieno ritmo, e disse che il terremoto aveva raso al suolo una quantità di case ed anche il Palazzo Reale, senza però provocare vittime. L'intera corte di Tharma Ganovash aveva preso la via del settentrione lungo la strada costiera, più corta ma eccessivamente affollata. Quando volle farsi spiegare dalla ragazza perché sostava lì, ella gli raccontò una mezza verità, non osando rivelare in che razza di situazione era la Stella d'Oro. Disse quindi che un suo amico era stato rapito dai Grisloj. Serpin Baslét mostrò tuttavia una decisa disapprovazione, nell'apprendere che intendeva avvicinarsi da sola al loro villaggio. «Comportati cautamente», brontolò. «Sono selvaggi fanatici capaci di tutto. Il loro vecchio capo, l'adepto Solirio, è un pazzo furioso. Temo che per il tuo amico si metta male». «Chi è questo Giudice di Ferro, che sembrano adorare come un Dio?» volle sapere lei. «Già, il Giudice di Ferro», mugolò l'uomo. «Nessuno è mai tornato indietro vivo dopo averlo visto. Non so chi o cosa sia. Ma tu faresti meglio ad aspettare un drappello di soldati, ragazza mia, oppure venire con noi e metterti l'anima in pace. Ci attende un viaggio lungo, e non ti nascondo che siamo molto spaventati». Serpin Baslét incitò la sua famiglia a risalire sul carro, poi fissò a terra
uno sguardo abbattuto. «A Esperdale nevica», mormorò. «Stamattina sono arrivate delle navi dal sud, da Falheire, e ho sentito dire che anche laggiù la gente fugge dalle città e dalle campagne sotto la neve. Ma per fortuna si tratta di cosa dappoco, e le strade sono ancora transitabili. Si dice che in Falheire, come in Tall-Varna, la Stella Nera abbia perduto molto del suo maligno potere, se non del tutto. In passato vi sono state delle tormente terribili, quando la maledetta si scatenava ad uccidere con l'arma del gelo. Ma che ne sarà di noi, se la Khoiné non riuscisse a portarci tutti oltre il grande mare con il miracolo della Strada Sommersa? Tanto varrebbe scavarci la fossa qui dove siamo». Goccia di Fiamma aveva fretta d'allontanarsi. Rincuorò Serpin Baslét e le sue donne, ringraziandoli per la colazione, e poi li incitò a proseguire velocemente. Dopo che li ebbe salutati s'inoltrò nella foresta a meridione della Pista Deoghar. Tre clessidre più tardi, a mattino inoltrato, l'Amazzone era accovacciata sul cornicione cespuglioso d'una rupe alta una cinquantina di braccia, e da quella posizione osservava la piccola valle terrosa in cui sorgeva il villaggio Grisloj. Il luogo era chiuso per metà da un semicerchio di rocce regolari, a picco, mentre dal lato est confinava con la boscaglia. Fra le capanne, alcune delle quali erano vere e proprie case di tronchi, circolavano dozzine di donne intente alle solite attività d'una comunità pacifica, ed i bambini di ogni età erano numerosissimi. Un torrente che scendeva dal Sao Satél era stato sbarrato da tre ampie dighe di legno, in modo da ottenere altrettanti serbatoi, e sul greto sassoso le ragazze più giovani stavano allegramente lavando i panni. Altrove si conciavano le pelli, si spaccava la legna, si affumicava la carne, e c'era perfino una piccola scuola all'aperto. Non mancavano neppure un vasaio e una falegnameria piuttosto operosa. Gli uomini adulti dovevano essere per lo più fuori, nella foresta, ma ce n'erano molti occupati in attività prettamente mascoline, come la preparazione delle armi e delle trappole. Un paio di essi lavoravano sotto una tettoia a riparare sparafiamma ed a fondere pallottole di piombo. All'Amazzone sembrò che i Grisloj fossero gente ordinata e ben organizzata, cosa questa che stonava con la loro ferocia ma s'inquadrava perfettamente col loro sgradevole fanatismo religioso. Gli uomini al di sopra dei dodici o tredici anni usavano coprirsi la parte superiore della faccia col rosso fazzoletto-maschera, mentre tutte le donne indossavano vestiti informi e lunghissimi, fatto che rivelava tutta una serie di tabù sessuali e di usanze riguardanti la castità femminile.
Gli occhi della ragazza si soffermarono su ciascuna delle capanne, ma non fu capace di stabilire quale di esse fosse adibita a prigione. La cosa era seccante, dato che le impediva di mettere a punto un piano d'azione, ed il pensiero che Babeeri potesse esser già stata violentata o uccisa la faceva tremare. Cercò di mantenersi calma. Qua e là per il villaggio, nel frattempo, si stavano svolgendo delle scenette che la riempivano di stupore e di curiosità. Alcuni cacciatori Piloj Zog, infatti, approfittando della protezione offerta loro dal Fischio dell'Invisibilità, s'aggiravano fra le abitazioni della tribù rivale con l'evidente scopo di sgraffignare qualcosa. Si trattava di ladroni cenciosi ed astuti, e la loro audacia o strafottenza che fosse costituiva uno spettacolo interessante. Dall'alto della rupe a picco l'Amazzone non poteva udire nulla di distinto, ma sapeva che quei bei tipi stavano sibilando a tutt'andare per tenersi celati agli occhi altrui. Li vedeva spostarsi rasente ai muri delle casette, acquattarsi dietro cataste di legna tagliata e sbirciare attorno con cautela, oppure scivolare come furetti da un riparo all'altro senza smettere un istante di mantenersi invisibili col loro fischio. Le donne, i ragazzi e i Grisloj adulti che passavano loro accanto li ignoravano del tutto, ed a prima vista si sarebbe detto che sfruttando quel sistema bizzarro gli scalcinati Piloj Zog avrebbero potuto aggirarsi ovunque e rubacchiare a loro piacimento. Ma Goccia di Fiamma aveva già avuto il sospetto che sfruttando troppo il Fischio dell'Invisibilità s'andasse incontro a un certo tipo di pericolo, e ciò che ora vedeva la stava convincendo che lei stessa avrebbe corso non pochi rischi se avesse usato quell'espediente per avventurarsi entro i confini del villaggio. Un Piloj Zog magro e barbuto come una vecchia capra sbucò a passi felpati da dietro una staccionata, fischiando, e corse ad accovacciarsi presso un mucchio di pelli non conciate. A poca distanza da lui due donne stavano immergendo altre pelli in un calderone pieno d'acqua bollente, ed una ragazza pettinava quelle già pronte ad essere tagliate e cucite. Lo scopo dell'estraneo era chiaro, comprese Goccia di Fiamma notando che questi s'avvicinava sempre più a una bella pelle di cervo deposta su un trespolo. Dopo qualche momento il Piloj Zog decise di passare all'azione e scivolò quatto quatto intorno alla ragazza più giovane per raggiungere la pelle. Né lei né le altre due donne diedero alcun segno d'aver notato la sua manovra, perché l'individuo sibilava accanitamente per rendersi invisibile.
Tuttavia, un attimo prima che le sue mani avide agguantassero il bottino, una delle donne urtò nel calderone dell'acqua e lo rovesciò, facendo schizzare il liquido bollente sui piedi e sulle gambe del ladro. Il Piloj Zog emise un ululato di dolore e prese a balzare qua e là ora su un piede ora sull'altro, quindi corse via in direzione del torrente per mettere a mollo le parti ustionate, un po' bestemmiando e un po' fischiando nel tentativo di non tornare visibile agli occhi delle sentinelle. Le tre donne non s'erano neppure voltate, e adesso stavano raddrizzando il contenitore dell'acqua come se niente fosse successo. Goccia di Fiamma notò che i fabbri addetti alla riparazione degli sparafiamma venivano accuratamente evitati dai Piloj Zog, come anche i costruttori d'archi e di frecce. Non ebbe difficoltà a capire che nei pressi delle loro officine l'atmosfera era pericolosa per gli invisibili furbacchioni venuti dalla foresta, dato che la presenza delle armi avrebbe potuto provocare incidenti mortali. Un uomo che stesse collaudando il bilanciamento d'una lancia poteva infatti, beninteso senza farci caso, infilzare distrattamente un Piloj Zog che si fosse avvicinato per rubare qualche freccia. L'Amazzone ne vide uno sgattaiolare fuori da una capanna con un involto fra le mani, e costui riuscì a filarsela verso la boscaglia fischiando a più non posso. Un altro invece, che s'era rimpiattato fra due pile di assi per evitare un paio di Grisloj di ritorno dal torrente, rimase bloccato lì quando i due individui iniziarono senza alcun preavviso a litigare. Uno dei Grisloj estrasse un coltello, ma l'altro lo mandò con una spinta a rotolare addosso al Piloj Zog che ne venne travolto a terra. I due s'allontanarono, e Goccia vide che l'intruso si contorceva al suolo perdendo sangue da una spalla ferita. Anche in quel caso il Fischio dell'Invisibilità, pur funzionando alla perfezione, non aveva protetto il ladro da uno sfortunato incidente. Ma cosa accadeva a coloro che, per una ragione o per l'altra, cessavano di sibilare? L'Amazzone decise che evidentemente tornavano ad essere visibili, e di conseguenza venivano catturati e uccisi. In quel dannato posto, si disse con rabbia, doveva per forza esserci una prigione, e continuando a star lì non l'avrebbe certo trovata. Dunque era giocoforza scendere fra le capanne. Dapprima il suo abile fischiare le rese bene: oltrepassò due annoiate sentinelle ai limiti della spianata e attraversò a guado il torrente, senza che nessuno la degnasse d'uno sguardo. Aveva una mezza idea che l'invisibilità dei Piloj Zog, per rituale o effettiva che fosse, funzionasse bene finché costoro non si dedicavano ad attività palesemente illegali. Se non avesse
tentato di rubare nulla dunque, rifletté mentre avanzava cauta da una casupola all'altra, forse i Grisloj si sarebbero limitati a ignorarla. Giusto in quel momento, però, commise l'errore d'avvicinarsi al deposito della spazzatura quando un ragazzotto vi stava rovesciando una cesta di pattume: per una sventurata coincidenza il piccolo mascalzone riuscì ad inciampare, e la cesta gli volò via dalle mani finendo sulla schiena dell'Amazzone. Goccia non poté far altro che allontanarsi, bestemmiando atrocemente fra sé per la porcheria che le s'era appiccicata addosso ma senza azzardarsi ad interrompere il Fischio dell'Invisibilità. Aggirò alcune capanne, notando che i ragazzini del villaggio avevano tutti l'aria non molto sana. Sembravano pieni di pidocchi e croste, e probabilmente ciascuno si portava dietro due o tre affezioni croniche, contrariamente alla sana gioventù di Esperdale. Il loro aspetto malaticcio alimentò le sue preoccupazioni per Babeeri, che in quegli ultimi giorni s'era strapazzata e indebolita un po' troppo. Qualche momento più tardi vide che nella parete rocciosa sulla cui sommità era stata fino ad allora s'apriva l'ingresso di una caverna. Di guardia c'erano due uomini con gli sparafiamma a tracolla, e nell'interno si scorgeva una debole luce. Decisa a controllare se la prigione fosse quella, accelerò il passo, attenta a fischiare nel giusto modo. Le sentinelle non batterono ciglio quando le oltrepassò per metter piede nella caverna, e ciò la costrinse a pensare innervosita che quello era un luogo in cui era troppo facile entrare, tanto facile che forse uscirne sarebbe stato impossibile. Portare via da lì Babeeri si presentava come un problema di non facile soluzione. Un problema? Il cuore di Goccia di Fiamma rallentò i battiti, mentre in un lampo capiva finalmente l'imperdonabile errore che aveva commesso: non aveva pensato a fare alcun piano di fuga, neppure un vago abbozzo. La sicurezza fasulla fornitale dal Fischio dell'Invisibilità si rivelava dunque un'arma a doppio taglio, visto che l'aveva indotta a cacciarsi troppo alla leggera in una situazione che rischiava di sfuggirle di mano da un momento all'altro. Per la prima volta la ragazza capì che l'usanza di quella gente non era affatto pura idiozia, come aveva creduto, perché nel mostrarsi cosi vulnerabili a un avversario invisibile in realtà inducevano questo avversario a giocare al loro gioco, con le loro regole e per di più sul loro terreno. La stupida era stata lei! Per un attimo si sentì in trappola, la sua freddezza svanì, ed una goccia di sudore le scese improvvisa lungo una guancia. Sempre fischiando
percorse un breve corridoio scavato nella roccia lavica tenera e friabile, ed emerse in una caverna dal soffitto basso. Sul fondo, seduto presso una lampada ad olio, c'era un Grisloj che oziava. Due figure femminili giacevano semiaddormentate sopra uno strato di paglia, ed una di esse, snella e bionda era indubbiamente Babeeri. L'altra... Goccia di Fiamma si sentì balzare il cuore in petto con tale violenza che per qualche istante la vista le si annebbiò. «Dèa che mi proteggi... Ombra! Ombra!» ansimò. Non fu capace di dir altro, perché l'emozione le bloccò la voce. La bruna sembrava ancor più sorpresa di lei, ed anzi al vederla comparire aveva avuto un sobbalzo. Ma ora, pian piano, sul suo volto attraente e cupo si stava dipingendo un sentimento nuovo, un'espressione che stava a metà fra l'incredulità e lo spavento, quasi che le paresse d'aver davanti un fantasma o un incubo improvvisamente divenuto carne. Pallida e tremante la giovane donna conosciuta col nome di Laune la Cagna balzò in piedi, indietreggiò fino al muro e vi s'incollò con le spalle, più sconvolta di quanto non lo fosse mai stata in vita sua. «Ombra, non mi riconosci? Sono io!» gridò Goccia, precipitandosi alle sbarre e cominciando a scuoterle ciecamente. Furono le ultime parole che riuscì a pronunciare in quella caverna, perché un istante dopo le canne fredde di due sparafiamma le si puntarono con forza nelle costole e una voce spiacevole ringhiò: «Guarda chi abbiamo! Una miscredente delle terre barbare. Una spia. E con quale spudoratezza ella profana la prigione del tempio!». Un violento strattone la fece voltare, e si trovò a fissare le due sentinelle barbute e sogghignanti, che l'avevano seguita all'interno. «Ora tu subirai il giudizio di Colui Che Mai Sbaglia, laida creatura dalle gambe mezze ignude!» venne informata. Goccia di Fiamma li guardò con occhi vacui, faticando a rendersi conto che ormai da qualche momento aveva smesso di fischiare. I Grisloj si sentivano quindi autorizzati a vederla nuovamente, e non aveva dubbi che questo avrebbe avuto conseguenze drammatiche, ma le sembrava di vedere tutto attraverso un velo opaco. Ombra di Lancia si trovava lì in quella cella, insieme a Babeeri, e questo pensiero soverchiava in lei tutti gli altri, lasciandola stordita. Accolse passivamente il brutale spintone che la indirizzò verso un'uscita. «Cammina, peccatrice», le fu ordinato. «Ti meneremo a colloquio col Giudice di Ferro, datosi che questa è l'ora in cui l'Adepto Solirio pone a
confronto con lui le anime degli empi!». Rimettere una parvenza di ordine nel caos dei suoi pensieri le costò tutto il tempo necessario a percorrere due tortuose grotte dalle pareti lisce, sul cui fondo era stato scavato un sentiero, e di quel tragitto nelle viscere della montagna ella non captò quasi alcuna immagine. Davanti ai suoi occhi c'era sempre il volto di Ombra di Lancia così come l'aveva visto in quella cella, stranamente sconvolto da emozioni violente. Ombra non l'aveva riconosciuta, e questo era un fatto che doveva accettare, per spiacevole che fosse. Cento e cento volte aveva cercato d'immaginarsi come sarebbe stato il loro incontro, ma non aveva mai supposto che avrebbe potuto leggere nello sguardo di lei e l'odio e lo spavento, cosa che ora le dava una stretta al cuore. E tuttavia l'aveva ritrovata, disse a se stessa. D'un tratto rabbrividì e tornò cosciente della sua situazione. Una situazione poco felice, questo era quanto le dicevano gli occhi dei due scherani mascherati e le loro canne d'ottone pronte ad eruttare la morte. Davanti a lei c'erano degli scalini di marmo rosa, li discese e venne condotta attraverso una gigantesca caverna del tutto vuota. Molte migliaia d'anni prima in quei luoghi c'era stata un'eruzione vulcanica, ed il pavimento di quella cavità era formato da ondate di tenera lava che s'erano solidificate l'una sull'altra come successive colate di melassa. Ma Goccia sbatté le palpebre stupita, vedendo che la roccia nascondeva dei curiosi e antichissimi edifici quasi del tutto sepolti in essa. Li dove ora sorgeva una montagna, in un tempo indicibilmente lontano c'era stata una strana e forse splendida cittadina con case marmoree e fontane candide, scalinate artistiche e portici a colonne spiraliformi, ma tutto era adesso sommerso e ricoperto dalla fluida lava rossiccia che vi era scivolata attorno e sopra, solidificandosi a nascondere in gran parte quel mondo perduto. «Che posto è questo? Dove mi portate?» domandò. «Scendi la scala e gira a mano destra, spudorata. Tu vieni condotta laddove il sentiero dei credenti si diparte da quello dei dannati. Potrai scegliere fra due sole vie, e sarà il Giudice di Ferro a stabilire quale di esse ti compete». La risposta della sentinella venne accompagnata da un ennesimo spintone, ed ella discese una cinquantina di gradini di marmo variegato, anch'essi parzialmente coperti da pesanti masse di roccia liscia. La giovane Amazzone doveva faticare per convincersi di non avere le allucinazioni. Chi aveva costruito quella fantastica città semisepolta nell'arenaria? Forse gli Antichi, quella razza estinta e dimenticata di sapienti da cui discendeva
Babeeri? E cosa organizzavano i fanatici Grisloj in quei mal illuminati sotterranei pieni di misteri? Fu con quelle domande che ancora le ronzavano nel cervello che si trovò spinta dentro una vasta caverna dal fondo irregolare. Presso il fondo di essa c'era un'enorme cassa di metallo nerastro, rugginosa e mezzo sfasciata, che dalle torce e dalla gran quantità d'ammennicoli religiosi disposti intorno ella comprese essere il Giudice di Ferro. «Poniti alle terga dei cinque barbari», le fu ordinato. «Andrai al giudizio insieme a loro. E non tentare insolenze!». Non era sola in quel posto. Accanto alla massiccia anticaglia di ferro c'era un vegliardo privo del fazzoletto-maschera, che dalla faccia le parve l'archetipo di tutti i deliranti profetastri impegnati a castigare il mondo con sacro zelo. Non le ci volle molto per capire che si trattava di Solino, l'adepto che le era stato indicato come il pazzo furioso a capo di quella setta. Sulla destra c'erano anfratti ed altri colonnati incastrati nella roccia; a sinistra il pavimento sprofondava in un burroncello sul fondo del quale si udiva scorrere un torrente, lo stesso che fungeva da riserva d'acqua per il villaggio, e l'intera caverna era vivamente illuminata da dozzine di torce. I Grisloj erano dieci, metà di essi armati con lance e spade, mentre gli altri brandivano sparafiamma e sorvegliavano i prigionieri da più lontano. Furono però questi ultimi a sorprenderla veramente: si trattava di cinque soldati sumerici, incolonnati fra parapetti di legno, e l'ultimo di essi sembrava un Comandante. S'era voltato, e la stava fissando con estrema ostilità. «Guarda, guarda!» ringhiò. L'Amazzone dai capelli rossi, se non sbaglio. Hai scelto un brutto posto per crepare, vipera delle Terre Basse!». La ragazza era alta quanto lui e lo squadrò da un palmo di distanza con identico livore. Non ebbe però modo di replicargli a tono, come stava per fare, perché quattro Grisloj muniti di lunghe lance protesero le armi a punzecchiarli crudelmente. «Tacete, peccatori, o dinnanzi a Colui che non sbaglia arriverete già esanimi. Guardate al suolo, e vedrete che qui non si esita a versare il sangue degli indegni!». Era vero: una quantità di chiazze nerastre e grumi secchi testimoniavano che quel luogo era un vero e proprio mattatoio. Goccia di Fiamma fece una smorfia, conscia d'essere in una bruttissima situazione. Si guardò attorno, cercando di capire se le si sarebbe data almeno una possibilità di cavarsela, ma ciò che vide furono solo facce astiose ed armi pronte a colpire. Nel
frattempo due Grisloj avevano afferrato il primo dei militi sumerici, e fra spintoni e calci il disgraziato era stato gettato in ginocchio davanti allo strano marchingegno. L'adepto Solirio alzò le braccia di scatto, fissandolo con occhi spiritati. «Prostra il capo a terra, animale laido!» strillò con voce acutissima. «Come gli altri che ti hanno testé preceduto tu sei stato giudicato meritevole di udire la sentenza, ed ora saprai cosa ti attende oltre le ingannevoli ed effimere ore della tua vita. Acchina la fronte!». «Bastardi... lasciatemi andare. Possiate crepare!» gridò invece l'uomo. La punta di una lancia gli si premette nelle reni, convincendolo a starsene quieto. «Poni la tua moneta nella fessura, svelto!» abbaiò ancora Solino, indicandogli una piccola apertura sulla faccia anteriore del malridotto congegno. «Devi pagare un obolo, affinché il Giudice di Ferro si degni di rivelare il destino della tua anima. Non ti interessa sapere se essa cadrà nella nera bocca di Grunta, oppure s'involerà sugli aurei giardini di Elisio? Ubbidisci, sciacallo!». Una pressione della lancia tolse ogni velleità residua al sumerico, e Goccia lo vide infilare un dischetto argenteo entro la fessura del macchinario. All'apparenza si trattava di un altro oggetto sopravvissuto alle distruzioni che avevano cancellato dal continente l'esistenza degli Antichi, e qualcosa fece intuire all'Amazzone che i giudizi di quell'inconsueto oracolo dovevano avere un lato ineluttabile e crudele. Quanto accadde subito dopo glielo confermò. Come prima conseguenza dell'introduzione della moneta, sulla superficie scrostata dell'apparecchio s'accese una lucetta rossa e vacillante che subito si spense; poi dall'interno di esso provenne un rumore bizzarro. Uno sportello largo un paio di palmi si spalancò, e dall'apertura emerse quello che sembrava un cassettino metallico. I presenti osservarono con interesse l'adepto Solirio, che si avvicinò a grandi passi e con un gesto drammatico vi immerse una mano. Ne estrasse quello che a Goccia di Fiamma parve un sacchettino di carta semitrasparente, ornato con simboli e disegni a colori vivaci, e con uno strappo lo apri. Da esso cadde fuori una polvere impalpabile che si disperse al suolo. «Putredine!» stabili gravemente Solirio. Tese un braccio, e con un dito rinsecchito indicò il precipizio. «Ecco che il Giudice ha tracciato il cammino della tua anima, miscredente. Inviatelo al destino che gli spetta secondo la sentenza!». Tre robusti Grisloj agguantarono l'uomo, che scalciava e si dibatteva
urlando come un invasato, e con rude efficienza lo portarono sull'orlo del burroncello. Un gesto rapido, e il sumerico venne scaraventato nel vuoto. L'Amazzone udì nitidamente il tonfo del corpo che si sfracellava sulle rocce dove scorreva il torrente. Era ancora sorpresa dalla sveltezza con cui s'era svolta la brutale esecuzione, quando ebbe un sussulto nel sentirsi afferrare per una spalla. Un Grisloj le s'era accostato, alitandole in faccia fiato pestilenziale dalla bocca piena di denti bacati. «Prendi il tuo obolo, meretrice dalle vesti corte!» berciò l'individuo, porgendole una moneta. Attraverso i fori della maschera rossa i suoi occhi le guardarono le gambe con ripugnanza. «Grazie, simpaticone», borbottò lei. Soppesò la moneta argentea, cercando d'ignorare una lancia che le sfiorava il fianco destro. Sapeva che avrebbe dovuto mantenersi calma e fredda o non sarebbe uscita viva da quella caverna, ma non riusciva a scorgere neppure una via d'uscita. Il Comandante sumerico che aveva davanti era un tipo molto robusto e battagliero, e tuttavia anche lui sembrava esser pervenuto alla conclusione che non c'era modo di cavarsela. Quegli uomini dovevano esser parte dell'equipaggio della nave che lei aveva seguito fin lì, comprese, gli stessi che avevano prelevato Ombra di Lancia da una prigione di Junghad credendola una piratessa. Ma com'erano finiti in quella situazione, e dov'erano i loro compagni? Il primo sumerico dei quattro rimasti venne trascinato davanti alla rugginosa anticaglia meccanica e costretto a inginocchiarsi rispettosamente da una pedata nello stomaco che lo fece piegare in due. Solirio latrò una minacciosa esortazione, pronosticandogli una fine atroce se non si fosse affrettato a ficcare la sua moneta nella fessura. Di nuovo la luce rossa palpitò, le budella del marchingegno emisero alcuni cigolii e lo sportelletto si. aprì. La mano artritica del vecchio fanatico estrasse dal cassetto un leggero contenitore cilindrico dipinto a strisce verdi e gialle. Che cosa rappresentava? E di che genere erano gli strani oggetti che il Giudice di Ferro distribuiva dietro pagamento? A Goccia di Fiamma l'intera faccenda sarebbe parsa assurda e basata solo su una grottesca manifestazione d'idiozia collettiva, se non avesse presentato anche risvolti così sanguinosi. Con un gesto reso esperto dalla pratica l'adepto Solirio tirò una linguetta ed aprì il cilindro colorato. Ne annusò il contenuto e poi, con meraviglia dell'Amazzone, lo bevve d'un fiato. Sul volto antipatico gli si disegnò un'espressione compiaciuta.
«Miracolo!» annunciò. «Nella sua grande benevolenza Colui che decide ha scelto questo indegno barbaro fra gli Eletti. Rallegriamoci, cari fratelli, perché l'anima di quest'uomo sarà salvata!». Il sumerico sottoposto al giudizio girò attorno due occhi vacui, ma poi parve comprendere l'essenza di quelle parole perché esibì un sorriso fra spaurito e sollevato. «Alzati, miscredente! Sei tu pentito?» gridò Solino con quanto fiato aveva in corpo. «Hai core lieto nel vederti risparmiato alle nere fauci di Grunta? Rispondi con rispetto!». «Sì, sono pentito», s'affrettò a dire l'altro, annuendo più volte. «Buon per te, allora. Tu sei fortunato. Voialtri, prendetelo e inviatelo seduta stante ai giardini di Elisio, dove egli berrà il nettare e godrà dell'immortalità». I tre Grisloj presero l'uomo per le braccia e lo trasportarono di peso fino all'orlo del baratro, gettandolo di sotto esattamente come avevano fatto col precedente candidato. «Avanti il prossimo!» ululò l'Adepto Solirio, impaziente. I tre Sumerici e Goccia di Fiamma furono incitati dalle punte di alcune lance a spostarsi di qualche passo in avanti. Proprio allora l'Amazzone sentì un rumore di passi in fondo alla grande sala di roccia, si voltò e vide che quattro Grisloj stavano conducendo dentro Ombra di Lancia e Babeeri, quest'ultima più. morta che viva per la paura. La fanciulla diede un gemito e cercò di correre avanti verso di lei, ma uno dei guardiani la abbrancò rudemente e la tenne ferma. Goccia di Fiamma si sentì stringere il cuore osservando che la poverina tremava come una foglia e sbarrava attorno occhi pieni di spavento. Ombra di Lancia le circondò con un braccio le spalle delicate e la strinse a sé, scura in volto. La bruna ex piratessa esaminò l'ambiente con un solo rapido sguardo, e quindi si concentrò a fissare Goccia di Fiamma. L'incomprensibile spavento con cui l'aveva accolta poco prima era scomparso, sostituito da una calma glaciale dietro cui la sua mente lavorava a pieno ritmo. Goccia conosceva benissimo quell'espressione, e sapeva che si trattava del preludio a un'azione violenta ed allo stesso tempo calcolata in ogni più minuto particolare. Capì che Ombra non si sarebbe lasciata portare davanti all'oracolo metallico senza far scorrere il sangue, e tuttavia nelle sue pupille simili a carboni neri ella non lesse un filo dell'amicizia e dell'affetto che per anni le aveva unite. La bruna la considerava con ostilità, e seppure l'aveva riconosciuta era evidente che per lei questo non significava niente.
«Ombra... sai chi sono io, vero?» domandò, quando la compagna e Babeeri le furono fatte accostare alle spalle. «Taci e guarda innanzi a te, svergognata!» le fu ordinato. Anche le altre due ebbero la moneta argentata con cui pagarsi il tragitto nell'aldilà, e Goccia cercò d'ignorare i singhiozzi della fanciulla bionda per concentrarsi su eventuali punti deboli nelle precauzioni messe in atto dai Grisloj. Non ne vide alcuno. Balzare fuori dalle transenne fra cui erano incolonnati avrebbe voluto dire esporsi immediatamente al fuoco di cinque sparafiamma. L'unica cosa certa era che le restava ancora pochissimo tempo da vivere. Intanto altri due dei Sumerici avevano subito il giudizio. Il primo di essi, come risultato dell'introduzione della moneta, aveva provocato da parte dell'antico meccanismo la consegna d'un pacchettino di carta dura. Solirio ne aveva estratto dei frammenti di roba nerastra e umida, dichiarando che si trattava di marciume, e lo sventurato era stato spedito in direzione di Grunta. Sul fondo del burroncello giacevano senza dubbio chissà quante carogne e scheletri umani, che appestavano le acque del torrente, ma questo non pareva disturbare i Grisloj. L'altro sumerico aveva ficcato l'obolo nella fessura, ed il cassettino era sbucato fuori offrendo un oggetto metallico che Solirio esaminò da tutti i lati, fra ingrugnito e perplesso. Fu chiaro che l'uomo non ne capiva affatto la natura e non sapeva cosa farsene, tuttavia la sua indecisione fu di breve durata. Gettò l'oggetto in un cesto, assieme ad altri, e fece un gesto inequivocabile. «Grunta ti attende, bestia scellerata», decretò. «Cosi imparerai a sconfinare sul suolo del popolo eletto. E se non sei stato ucciso subito, come tutti gli stranieri, ringrazia l'alto concetto della giustizia che qui si pratica. A tutti vien data infatti la possibilità di recarsi nei giardini profumati di Elisio, dopo attenta considerazione dei meriti e delle colpe!». L'uomo non udì che la prima parte di quel concionare, perché a metà del discorso era già scomparso in volo giù nel precipizio. Ora restava davanti a Goccia di Fiamma solo il Comandante sumerico, e costui non esitò un attimo ad agire: si volse all'improvviso ed afferrò l'Amazzone per un braccio, tirandola a sé, poi la spedì avanti con un formidabile spintone che la fece arrivare di corsa al cospetto di Solirio. Prima che Goccia di Fiamma potesse maledirlo per quello scherzetto si trovò due punte di lancia ficcate a contatto delle costole, e sentì la voce del vecchio che le intimava d'inginocchiarsi. Dovette ubbidire, ancora sbalordita e ringhiando un'impreca-
zione. «Poni la tua moneta nel loculo, barbara meretrice straniera!» le gridò Solirio quasi in un orecchio. «Esegui senza timore, e se verrai giudicata meritevole di redenzione ti prometto che conoscerai la strada dell'eterna beatitudine!». Goccia di Fiamma restò in ginocchio davanti alla facciata anteriore del marchingegno, notando che quel voluminoso relitto di tempi perduti era più corroso e sfasciato di quanto dapprima le era parso. Dava l'impressione d'essere sul punto d'andare in pezzi, e tuttavia funzionava ancora nel suo modo strano. Una pedata nel sedere la informò che Solirio non gradiva le sue esitazioni, ed ella si decise ad infilare la moneta nella fessura. Vide la lucetta rossa lampeggiare. Nelle profondità rugginose qualcosa strisciò e ticchettò, poi ci furono alcuni brevi scatti e lo sportello si spalancò. Quando però ne emerse il cassettino l'Amazzone lo afferrò saldamente e diede uno strattone con tutta la sua forza, strappandolo fuori dai supporti. Una sezione larga oltre un braccio della carrozzeria venne via di netto, e prima che Solirio e i guardiani avessero modo di reagire, la ragazza si cacciò dentro il foro e scomparve alla vista nell'interno buio della macchina. «Eretica criminale!» udì gridare dietro di sé. L'Adepto aveva la voce stridula per la sorpresa e la rabbia. «Vieni fuori o morrai atrocemente. Catturatela, presto!». Le viscere del Giudice di Ferro erano così vaste che sei o sette uomini avrebbero potuto accoccolarvisi, ma l'intrico delle parti metalliche unte d'olio lasciava spazi esigui per muoversi. Ci si vedeva male e c'era una puzza disgustosa. Goccia di Fiamma scivolò avanti come una serpe, contorcendosi e insozzandosi di poltiglia nera, finché fu al riparo dietro alcuni rulli. Adesso cosa avrebbe potuto fare? Si volse e vide le teste di un paio di Grisloj che sbirciavano dentro. Uno di loro fece per puntare alla cieca lo sparafiamma, ma un urlaccio di Solirio lo fermò. «Portate una torcia! Tiratela fuori!... Sacrilegio! La straniera ha rotto la sacra armatura del Giudice!» strillavano varie voci nella caverna. La ragazza imprecò, muovendosi a tentoni e cercando qualcosa da usare come arma. C'erano solo sbarre e rotelle di ferro, angoli e spigoli dove urtò dolorosamente le ginocchia, e fasce mobili di uno sconosciuto materiale. Quando fini con la testa dentro un groviglio di cavetti simili a steli vegetali flessibili, si sentì trafiggere un orecchio da una scossa, e comprese che in quella dannata anticaglia c'era la misteriosa energia che pungeva come il
fuoco. Le sue mani incontrarono quello che sembrava un grosso tubo flessibile, ed ella decise di svellerlo dalla parete. Male che andasse, avrebbe definitivamente mandato in rovina il giocattolo della tribù. Ma quanto accadde subito dopo fu stupefacente. Appena la ragazza ebbe strappato via il tubo, da un'estremità di esso scaturì una lingua di scintille rosse simile all'alito d'un drago, che rimbalzarono ovunque illuminando a giorno le viscere del marchingegno. Con un grido di spavento ella indietreggiò, tenendo l'oggetto a braccia tese e cercando di dirigere quella pioggia di fuoco lontano da sé. Per l'impeto urtò col fondo della schiena nella paratia esterna, ed anche stavolta il metallo sottile e rugginoso cedette: Goccia di Fiamma rotolò all'esterno, stringendo fra le mani il tubo che sparava vampate di scintilloni. Si tirò sulle ginocchia, girandosi svelta, e ciò che vide fu la figura dell'adepto Solirio che agitava le braccia follemente per ripararsi dal diluvio infuocato. Con un grido d'eccitazione la ragazza gli tenne la bocca del tubo puntata addosso, appiccandogli la fiamma alla lunga veste bianca. Poi roteò attorno la sua arma improvvisata per tenere a distanza i Grisloj. Nello stesso momento s'accorse che nella caverna risuonavano urla feroci e rumori confusi: Ombra di Lancia ed il Comandante sumerico erano passati all'azione approfittando della confusione a cui lei aveva dato il via, ed ora si stavano battendo. Ombra non aveva avuto un attimo d'esitazione allorché i suoi guardiani s'erano distratti. Con un salto aveva oltrepassato la transenna di legno, allungando una pedata in faccia al Grisloj più vicino, e subito gli aveva strappato la lancia. Nello spazio di appena dieci battiti di cuore tre degli individui dalla maschera rossa avevano imparato a prezzo della vita di cosa fosse capace quella ragazza con un'arma fra le mani. Il combattimento impegnato contro i Grisloj dall'ex piratessa, Cuhman e Goccia di Fiamma fu molto breve, e dal punto di vista di Babeeri durò ancora meno. La fanciulla era caduta a sedere sul terreno duro quando l'emozione le aveva fatto afflosciare le gambe, e non ne colse che una serie d'immagini confuse, rapide, sfocate. Vide gli uomini mascherati usare gli sparafiamma, che negli scontri a brevissima distanza avevano il tragico inconveniente di non poter essere ricaricati in tempo, e vide le lame degli altri agitarsi alla ricerca della carne e del sangue. Il grosso sumerico era stato colpito da una pallottola ed urlava come una tigre ferita in mezzo ad un branco di sciacalli. Goccia di Fiamma era una figura incredibile che teneva fra le mani la coda del demonio stesso o un oggetto altrettanto
stregonesco, facendo piovere fuoco dappertutto. Vide l'Adepto Solino bruciare come una torcia ed i suoi accoliti morire l'uno dopo l'altro. Soltanto quando tutti i Grisloj furono distesi al suolo nel loro sangue la scena ricominciò a prender forma agli occhi della fanciulla, a stabilizzarsi, uscendo dai veli dell'incubo per tornare realtà. Si trasse in piedi a fatica e barcollò verso l'Amazzone dai capelli rossi, avvinghiandosi a lei finché fu sicura che la terribile mischia era davvero finita. «Ora è tutto a posto, bambina. È stato divertente, vero?» mormorò l'Amazzone, accarezzandole distrattamente una guancia. Goccia di Fiamma fece un sospiro, mentre quelle parole suonavano sciocche alle sue stesse orecchie. Non c'era nulla di divertente lì dentro, con una dozzina di cadaveri uno dei quali ardeva mandando un puzzo acre, con quel sumerico seduto su uno spunzone di lava che si stava palpando una ferita al torace da cui fiottava sangue, con un'Ombra di Lancia che le girava le spalle e si rifiutava di rispondere ai suoi sguardi ansiosi. La ragazza era stanca ed emozionata, e non aveva le idee chiare. Sentì un impulso di gratitudine verso Babeeri per la sua presenza, il suo calore umano, il suo modo impulsivo e irragionevole di tenersi stretta a lei. Tutto il resto le sembrava far parte di una realtà fredda ed estranea. Comunque era viva, proclamò a se stessa rabbiosamente. Poco più tardi nessun altro componente della tribù era ancora sceso nella grande caverna, ma Goccia avrebbe giurato che quella fortuna non sarebbe durata per molto. Uscì da un vano roccioso in parte formato dai resti di un porticato marmoreo, dove s'era appartata per i suoi bisogni, e fece cenno a Babeeri che adesso poteva entrarvi per fare la stessa cosa. Quel sumerico, Cuhman, era andato a distendersi sul pavimento alla base di una scala curvilinea in pietra verdolina, ed Ombra gli sosteneva la testa. Stava perdendo molto sangue ed aveva gli occhi velati. Ad un suo gesto di richiamo anche Goccia di Fiamma gli si avvicinò. «Non è che ce l'hai con me, vero?» ansimò l'uomo. «Prima volevo soltanto guadagnare tempo... a tue spese!». «Ti sei battuto bene», lo rassicurò lei, accorgendosi che stava morendo. Cuhman rise e annuì. «Come al solito. Peccato venire a crepare qui, però. Che ironia... battersi al fianco di due carogne Amazzoni!». La frase fece voltare di scatto Ombra, che parve ansimare. Ma il sumerico non notò l'odio che c'era nel suo sguardo ed ebbe un sogghigno triste. «L'ho sempre saputo chi eri, tu. Mi bastava guardarti... Invece il Principe Valdek è cieco. Lui non ha trascorso una vita a sudar sangue ai confini di
Sumer e sul mare, contro Voialtre jene. Che idiota,... ingaggiare per la missione proprio un'Amazzone! Ditegli da parte mia che fino all'ultimo...». La voce gli si troncò di colpo, ed i suoi occhi divennero fissi. «Bastardo!». Ombra sputò a terra in segno di disprezzo e si allontanò. «Che cosa facciamo?» fu la domanda con cui le si rivolse Goccia di Fiamma poco dopo, andandole davanti. Di nuovo la bruna le volse ostentatamente le spalle. «Tu fai pure quello che ti pare. Chi ti conosce? Vattene per conto tuo!». «Ombra... rifletti, uscire da qui sarà un problema», cercò di placarla lei. «È necessario agire insieme. E Babeeri deve arrivare a Lahaina con qualunque mezzo». «Tanto per cominciare io mi chiamo Laune, hai capito?» scattò l'altra. «E poi io andrò a Esperdale. Mi serve una nave, per sfangarmi da questo paese di matti. Tu chi sei, cosa vuoi da me? Mi perseguiti... mi vieni dietro. Perché?». «Non ti perseguito affatto». Ombra alzò un pugno fino a sfiorarle il mento, tremando di furia. Le sue pupille erano vortici neri, lampeggianti, spaventati. «Tu mi segui!... Ti ho vista, sai? Da molto tempo ti vedo, perfino negli incubi. E so che mi stai dietro da quando...». «Dillo!» esclamò Goccia, non meno tesa di lei. «Dillo, da quando! Dal momento in cui sei scappata di casa ti sto dietro, certo! E per quanto pazza e fuori di cervello tu ne eri ben sicura che non ti avrei lasciato andare. Ed ora vorresti sparire di nuovo? No, cara: ti starò appiccicata finché non sarai tornata in te!». Ombra indietreggiò. «Andrò a casa mia, nel Warnalore. Io non capisco di cosa parli, e spero di non vederti mai più. Ora taci!». Goccia scosse il capo cocciutamente. Stava per ribattere, quando Babeeri venne a prendere l'altra per un braccio e le si rivolse con espressione supplichevole. «Laune, ti prego, non fare così. Tu mi hai protetta al Tempio di Eleuse, ricordi? Io so che sei buona, che non sei una piratessa. Tu hai bevuto lo Xian, il veleno della mente. Ritorna te stessa... te ne supplico». «Sciocchezze», bofonchiò la bruna. «Lo so ben io chi sono. Ti sei dimenticata quello che ti raccontò il tuo vecchio padrone, Ianos? Laune batte i mari con la sua ciurma, ecco la realtà. E non desidero altra vita che questa». «Se verrai a Lahaina con noi ti cureremo. So che c'è il modo di guarire
dagli effetti dello Xian», insisté la fanciulla. Ombra se la staccò di dosso senza alcuna gentilezza e andò a raccogliere una spada, poi prese a spogliare un paio di cadaveri per procurarsi una cintura e delle scarpe buone. Con un sospiro Goccia di Fiamma decise di imitarla, visto che il suo vestito e gli stivaletti erano ridotti da buttar via. Babeeri accennò timidamente d'avere una gran fame e di volersene andare di lì, ma l'amica non seppe cosa risponderle. «Possiamo uscire seguendo il torrente», disse Ombra di Lancia, cupa e scontrosa. «Faremo fuori le sentinelle e poi andremo per la foresta. La Pista Deoghar è vicina». Solo allora Goccia rammentò che gli uomini del Tall-Varna avevano promesso d'intervenire, e che probabilmente non erano lontani. Pensò che forse evitare i Grisloj sarebbe stato possibile ricorrendo al Fischio dell'Invisibilità, sebbene quel sistema non le desse più molto affidamento. Era sul punto di comunicare le proprie riflessioni alle altre due, quando si sentirono voci concitate e rumori in rapido avvicinamento. «In quelle grotte, presto!» esclamò Ombra. La bruna afferrò una torcia e corse verso il lato della caverna opposto al precipizio, dove nelle masse di lava che avevano sepolto l'antica città s'aprivano alcuni anfratti. Trovò una stretta scalinata di marmo bianco che spariva nell'oscurità, e si volse a chiamare le altre due con un cenno irritato: «Che aspettate? Dobbiamo nasconderci o siamo morte!» le incitò. Goccia di Fiamma e Babeeri corsero avanti tenendosi per mano, e scesero fra due pareti di roccia che la torcia di Ombra illuminava di riflessi rossastri. Da lì a poco sentirono le urla dei Grisloj che echeggiavano fioche e lontane nella caverna del Giudice di Ferro, ma non vi fecero molto caso: attorno a loro c'era un mondo di pietra ancora quasi intatto, sopravvissuto per millenni all'interno delle colate laviche e delle grandi bolle di gas che avevano creato quella successione di antri sotterranei. LA CITTÀ SEPOLTA Per un po' di tempo Goccia di Fiamma non fece altro che gettare intorno occhiate stupite. Ombra procedeva molto svelta su un terreno tutt'altro che liscio dov'era necessario arrampicarsi, saltare da una sporgenza all'altra e scendere di corsa i pendii in fondo ai quali giacevano cumuli di detriti. Dovunque si vedevano emergere dalla roccia spigoli di edifici massicci,
tratti di colonnato attorno ai quali era fluita la lava e spunzoni metallici rugginosi. L'Amazzone non era certo un'esperta in materia, e tuttavia si stava domandando per quali motivi l'eruzione vulcanica non aveva ricoperto per intero l'antichissima metropoli. Non aveva dubbi che fosse stato un vulcano a seppellirla sotto una colata di lava ardente, perché in molti posti vedeva enormi quantità di sassi simili a ghiaia marroncina e sapeva che si trattava della pioggia di lapilli infuocati eruttata da un cratere in violenta attività. Subito dopo quella terribile grandine sulla città era arrivata un'ondata di roccia fusa e pastosa, che raffreddandosi aveva preso l'aspetto di arenaria rossa molto friabile. Ciò che la ragazza non sapeva era che durante quel drammatico avvenimento, svoltosi millenni addietro, dal suolo erano scaturiti grandi getti di gas a forte pressione, dai quali la roccia ancor semisolida era stata sollevata in bolle e sospinta lateralmente. In seguito l'acqua aveva riempito quelle cavità, corrodendo e scavando la più tenera roccia eruttiva. Poi anche l'acqua era fluita via, allorché il vicino torrente sotterraneo s'era assestato su un livello più basso, e le case costruite in quell'epoca remota erano tornate in parte all'asciutto. «Fermiamoci. Sono stanca», si lamentò Babeeri. «Dove vuoi andare?». «Lontano da quella banda di cani idrofobi», rispose Ombra. Nel voltarsi s'accorse però che la fanciulla s'era rivolta a Goccia di Fiamma. Con una smorfia cacciò la torcia in una fessura, violentemente. Goccia sedette a fianco di Babeeri. «Non aver paura, cara. Stanotte usciremo di qui. E domani troveremo un mezzo per andare a Lahaina. I soldati del Re Schiavo non devono essere lontani, e quando arriveranno da queste parti ho idea che i Grisloj se la vedranno brutta». Brevemente l'Amazzone riepilogò ciò che avevano deciso di fare a Lahaina, e non tanto per la fanciulla, che lo sapeva già, quanto a Ombra, la quale seguitava a mostrarle ostilità e ogni tanto sbuffava come se tutto ciò non le interessasse affatto. Lo scopo del suo discorso era di dimostrarle che, in quella situazione, le sue speranze di trovare un imbarco al porto di Esperdale erano vane. «E inoltre», concluse, «non ne ho vista neppure una adatta alla navigazione d'alto mare. Dubito che ve ne sia qualcuna adatta alle tue necessità, Ombra». «E dalli!» sbottò lei. «Vuoi una lezione, testarossa? Ti ho già detto che adesso mi chiamo Laune!». «Adesso, dici?». Goccia fece un sorrisetto. «Allora lo sai che prima ti
chiamavi in un altro modo. Perché insisti a negarlo?». L'altra stringeva l'impugnatura della spada come se l'arma stesse facendo degli sforzi per andare a colpire l'oggetto del suo risentimento, un prolungamento del suo subconscio che voleva abbattersi in cerca di sangue. «Goccia, non farla arrabbiare», mormorò Babeeri, a disagio. «Laune è buona... solo che non lo vuole ammettere». «Per le corna d'oro di Marduk!» esplose la bruna. «Vuoi che ti enumeri le navi che ho messo a fuoco? Vuoi sapere quanti mercanti pidocchiosi ho fatto scaraventare agli squali da un anno a questa parte? E gli schiavi che ho venduto, e i marinai uccisi. Dillo a loro che sono una santa persona, razza d'ingenua!». Goccia di Fiamma rimase pazientemente zitta, mentre l'altra rideva aspramente, poi sollevò un sopracciglio. «Non puoi negare il tuo passato. Ce l'hai ancora tutto dentro. Ad esempio, la statua d'oro di Marduk, il Dio delle grandi corna, tu l'hai vista nella città di Nedda tre anni fa. Eravamo andate là insieme a Shalla, e lei...». «Non insistere. Mi stai seccando!» la interruppe l'altra. «A quei tempi andavamo spesso in giro tutte e tre insieme, prima che sua madre morisse. A proposito, Shalla ti manda i suoi saluti. Non l'hai ferita in modo grave, quando fuggisti». «Sai quanto me ne importa!» brontolò Ombra. «E adesso falla finita. Ho altro da pensare. Guarda con che gente vado a impelagarmi...». «Non è certo per caso che ti ho ritrovata, tesoro. È più di un anno che ti cerco dappertutto». Il tono di Goccia fece uscire di bocca alla bruna un mugolio spazientito: «Ma senti questa matta! Mi cerca da un anno, dice. E mi chiama tesoro! Sono forse la tua perduta sorellina? Oh, taci per favore. Taci. Ora ti dirò io una cosa: se è vero che sei un'Amazzone, vuol dire che hai delle inclinazioni tutte sbagliate, che a me non piacciono per niente. A me le femmine non interessano, chiaro? Perciò gira al largo!». «Un anno fa», disse Goccia imperterrita, «tu hai bevuto una droga della quale si fa uso qui nel Gondwana, lo Xian. Babeeri dice che il suo effetto è di stravolgere il carattere, ma io credo che essa alteri anche i ricordi. Sono certa che tu potresti rammentare tutto, ma la tua ansia di rinnegare la tua passata personalità è tale da farti odiare queste memorie. Non vuoi ammettere neppure con te stessa di esser stata diversa da una sanguinaria assassina. È così?». Per tutta risposta Ombra s'alzò in piedi con una bestemmia furibonda e si
allontanò nell'oscurità. Babeeri aveva le lacrime agli occhi. Si appoggiò a una spalla di Goccia scuotendo il capo. «Non vuole ascoltarti», mormorò tristemente. Ombra di Lancia non ce la faceva a pensare a se stessa con quel nome, con quel marchio invisibile che aveva cercato di cancellarsi dalla mente, quella testimonianza della sua follia. Mentre camminava nel buio quasi completo sapeva che stava fuggendo, e nello stesso tempo si rendeva conto che non c'era nascondiglio in cui quella parola terribile non l'avrebbe seguita e raggiunta: follia! Un destino che si sentiva piombare addosso sempre più. Un gelido vento che le spazzava via i pensieri dalla mente, trascinandola nel nulla. Il buio che le si parava davanti divenne ai suoi occhi come uno specchio di quello che aveva dentro, un'oscurità nella quale si riconosceva, tremando di paura. E non aveva torce per far luce in quel genere di tenebra. Trovò dei gradini freddi e polverosi, e si sedette. Con tutta la sua rabbia e la sua freddezza aveva cercato d'affrontare la presenza della ragazza dai capelli rossi, di sfidare l'incubo che ella rappresentava, ed aveva perso. Nessuna persona l'aveva mai spaventata tanto. Ora capiva lucidamente che avrebbe dovuto fuggire ancora e starle lontana, altrimenti sarebbe finita in pezzi. Fece alcuni profondi respiri e cercò di calmarsi. Cosa le restava da fare? Già due mesi addietro s'era accorta di cambiare, e tutto per colpa di Babeeri. Tutto per colpa di una ragazza così stupidamente indifesa che l'impulso di aiutarla era stato automatico, così come si evita di travolgere con un carro un bambino seduto sul ciglio della strada. E quell'impulso aveva segnato l'inizio della fine per Laune la Cagna, la piratessa. Il diluvio di tremendi interrogativi era venuto dopo, con la certezza che i suoi tentativi d'essere un'altra persona erano fallaci e grotteschi. Perché lei non era affatto Laune, o meglio, non poteva esserlo più. «E allora chi sarò da ora in avanti?» disse ad alta voce, alzandosi in piedi. «Laune la contadina? Laune la sguattera in una bettola? Laune l'accattona, la pazza?». Le sue mani incontrarono una colonna liscia, a pianta squadrata, ed ella salì otto o dieci scalini fino a un'altra identica. Tenendo un dito a contatto di una parete si mosse alla cieca lungo i tre lati di un vasto locale fino a una porta, ascoltando il rumore dei propri passi. «Una città di morti», mormorò. Davanti a lei c'era una grande scalinata in discesa e la percorse fino in fondo, riflettendo che quel suo procedere era simbolico: verso il niente, e
mentre intorno a lei tutto diventava silenzio. «Dove siete, fantasmi della città?» gridò nel buio. «Vi siete sciolti nell'aria, dopo aver pianto per millenni sulle rovine delle vostre case?». Tacque, sorpresa nel sentire come gli echi della sua voce si perdevano in lontananza. Il suo udito allenato le disse che si trovava in un locale molto vasto. Per accertarsene batté le mani alcune volte, provocando altri echi. «Ma che posto allegro», brontolò. Improvvisamente quel luogo la innervosì, e per provare una sensazione di sicurezza sganciò la spada dalla cintura. Stringere la fredda elsa dell'arma la fece star meglio, ma avrebbe desiderato un po' di luce. Si volse per risalire la scalinata, e fu allora che sentì il rumore. Era un ronzio. In un primo tempo le parve quello di un'ape o di qualche altro insetto, però differiva da quel genere di suoni in un particolare importante: non mutava di tono e non si spostava nell'aria. Era un ronzio uniforme e lieve, originato da qualcosa che stava immobile. D'istinto la ragazza alzò la spada, irrigidendosi. Solitamente non aveva paura di nulla, nemmeno dell'ignoto, ma ora nelle profondità di quella città sepolta c'era qualcosa che la minacciava, un avversario di cui non capiva assolutamente la natura. «Chi è là?» intimò. «Fatti avanti!». Indietreggiò su per i gradini girando lentamente attorno l'arma protesa, e lungo la spina dorsale le scivolò qualcosa di simile a una goccia di ghiaccio sciolto. Stava ancora cercando di capire se aveva di fronte una creatura inumana, orrendamente sopravvissuta alla distruzione della città, quando sentì le voci allarmate delle altre due che la chiamavano. Goccia di Fiamma arrivò di corsa reggendo la torcia e seguita da Babeeri. «Cos'è successo? Perché hai gridato?». Ombra non rispose, stupita dalla vastità del locale che ora poteva vedere in tutta la sua estensione. Era una sala situata alquanto più in basso rispetto al selciato della metropoli, e lei si trovava su una piattaforma lunga un centinaio di passi. Più avanti la grande scalinata scendeva ancora ed il locale si faceva enorme, però l'acqua stagnante lo riempiva fino ad una certa altezza. Dal fondo iniziava un tunnel, diretto chissà dove, e non c'erano né uomini, né dèmoni, né creature minacciose. «Un'enorme piscina sotterranea», commentò Goccia, venendole accanto. «No... è un salone allagato. Forse la sala del trono». «Piuttosto una cisterna», disse Ombra, seguitando a guardare qua e là in cerca dell'origine del ronzio. La tensione le aveva fatto metter da parte ogni altro pensiero. «Ho sentito un rumore strano. Mi sembra che proven-
ga da quella galleria». Le tre ragazze restarono in ascolto, poi Goccia annuì con aria indifferente e ipotizzò che fosse il vento. Il tunnel spariva nell'oscurità, allagato fino a circa tre braccia dalla sommità ad arco, ed il fatto che l'aria avesse odore di pulito significava che lì c'era un movimento di correnti. Ombra di Lancia scosse il capo. «È un oggetto che si avvicina. C'è qualcosa che sta arrivando lungo il tunnel, nell'acqua». «Ho paura», disse Babeeri. «E di cosa?». Goccia le consegnò la torcia e saltellò giù per gli ampi scalini. «Aspettami lì». Per avvicinarsi il più possibile all'imbocco della galleria la ragazza s'incamminò lungo il bordo scuro dello stagno; mise i piedi nell'acqua e avanzò lungo altri scalini sommersi finché fu a mollo fino ai fianchi. Restò un poco con le orecchie tese a fissare il tunnel, tenendosi il vestito sollevato fino ai fianchi. Babeeri, che la guardava preoccupatissima, s'accostò ad Ombra e le si strinse a una spalla. «Questo è un posto dove gli Antichi facevano le loro stregonerie», mormorò, con un brivido. L'altra le passò un braccio intorno alla vita. Il suo istintivo disprezzo per le donnette fragili, incapaci di farsi valere e succubi delle prepotenze degli uomini, spariva del tutto davanti a quella fanciulla così buona e ingenua. Di colpo sentì acutamente il peso della violenza di cui s'era circondata, l'assurdità dei sentimenti rudi e brutali che per un anno intero le avevano riempito l'anima. Nessuno le era mai stato veramente amico, nessuno le aveva mai dato tenerezza o momenti fatti di parole gentili e di sorrisi. Non un gesto d'affetto aveva riscaldato le sue giornate: solo rozzo cameratismo e amicizie da taverna, ostilità, paura della sua capacità d'uccidere. E tuttavia Babeeri cercava in lei un'amica, sapeva di poter contare sulla sua protezione. Dunque c'era ancora qualcuno che le voleva bene, rifletté emozionata, qualcuno che malgrado i suoi delitti la considerava un essere umano e una buona compagnia. D'improvviso si sentì un po' meglio disposta ad affrontare il destino. «Il ronzio diventa sempre più forte», riferì Goccia tornando presso di loro. «Forse è in arrivo una specie d'imbarcazione, ma io non ho nessuna voglia di restare ad aspettarla. Solo la Dèa sa chi o cosa ne può scendere». «Tornare indietro non è prudente», stabilì Ombra. «Non so te, rossa, ma io sono stanca. E bisogna pensare alla sicurezza della ragazza. Cerchiamo di nasconderci qui intorno».
Le tre compagne scoprirono che i posti adatti non mancavano. Passarono accanto ai resti corrosi di un voluminoso oggetto metallico ed entrarono in un locale largo appena pochi passi. Una finestra composta da un'unica bellissima lastra di cristallo consentiva di guardare dalla parte del tunnel, e sul pavimento c'era uno strato di roba marcia, poltiglia di legno e frammenti di materiali non identificabili. Ad una parete era accostato un macchinario coperto da strati di ruggine, che Goccia esaminò incuriosita da tutti i lati e cercò d'aprire. Babeeri la esortò prudentemente a lasciar stare le diavolerie degli Antichi, e ricevette in risposta un sorriso ironico. Mezza clessidra più tardi il ronzio proveniente dalla galleria si era fatto molto avvertibile, e Goccia di Fiamma rinunciò a guardarsi intorno alla ricerca di congegni interessanti, accovacciandosi a terra insieme alle altre. Negli ultimi istanti il rumore salì di volume con gran rapidità, si mutò in un ronfare da felino amplificato mille volte, e l'acqua che ristagnava nell'enorme locale fu pervasa da un fremito. «Spegni la torcia», sibilò Ombra, col naso incollato alla finestra di cristallo. E poi assunse un'aria sbalordita. «Corpo d'un drago... Ma cos'è quello?». All'imboccatura del tunnel c'era stato un ribollire d'acque agitate, ed un attimo prima che la torcia venisse calpestata le tre ragazze avevano fatto in tempo a scorgere un oggetto cilindrico lungo almeno venti passi che ne sbucava a gran velocità. Seguì un forte sciacquio, alcuni tonfi soffocati e l'agitarsi delle onde, poi tutto tornò silenzio e buio. Passarono pochi istanti e nell'oscurità si udirono un cigolio secco ed un suono di metallo percosso. Comparve una luce, e le tre ragazze s'immobilizzarono. Solo Ombra di Lancia osò infine sporgersi: vide una figura umana muoversi sopra il cilindro, mezza dentro e mezza fuori da un portello aperto. «Chi sono?» gemette Babeeri. La bruna le fece cenno di azzittirsi. L'uomo reggeva una lanterna e si guardava attorno come ad esaminare il luogo. Allorché il suo singolare mezzo di trasporto si fu avvicinato maggiormente alla riva ne saltò giù, finendo nell'acqua che sommergeva gli scalini più bassi. Se la scosse fuori dalle scarpe e fece alcuni passi all'asciutto, tenendo ben alta la sua lanterna. «Che Ophir mi bruci le pupille se quello non è Yaan Margraf Lakhmar!» esclamò Ombra, incredula. «Lo conosci?». In poche parole la bruna mise le altre due al corrente dell'identità del-
l'uomo, riferendo che dopo due anni trascorsi nel nord alla ricerca di Babeeri era finito in mano al Principe sumerico Valdek e successivamente nelle grinfie di Alybrea, che lo aveva portato a Tor Vanora. Evidentemente il giovanotto non aveva perso tempo ad evadere, ma di ciò non c'era da stupirsi perché era sempre stato un ragazzo pieno d'iniziativa. La fanciulla bionda aveva ascoltato quelle parole a bocca aperta, così rigida per lo stupore che Goccia dovette scuoterla per farle scomparire la luce vacua dallo sguardo. Ombra era intanto uscita, ed esse le tennero dietro. La comparsa delle tre ragazze fu accolta da Yaan con alte esclamazioni di meraviglia, ed egli si precipitò a dare una gran pacca sulle spalle della bruna Amazzone, palesemente felice di rivederla. Per qualche momento non fece altro che dire quanto era felice di trovarla lì, e maledire allegramente Alybrea e tutti i Dottori dell'Oscuro. Poi trovò finalmente il tempo di rivolgere un cortese inchino a Goccia di Fiamma, che lo osservava ridacchiando, e nello stesso modo s'inchinò verso Babeeri. «Lietissimo di conoscervi, Damigella», disse. E la sua espressione cambiò di colpo. Appena gli occhi di Yaan ebbero compresa per intero la figura della giovanetta, il sorriso gli morì sul volto. Si fece pallido, le tempie gli s'imperlarono di sudore, e cadde nel mutismo più completo. Fu lei a rompere quel silenzio, facendo un passo avanti e non meno seria ed emozionata: «Signore», disse, «ho l'onore di parlare con il Nobile Yaan Margraf Lakhmar, della Casa dei Lakhmar, di Lahaina?». «Sì, Damigella», rantolò quasi lui. Come ipnotizzato seguì il movimento del braccio della giovane donna, ma ancor prima che ella gli avesse mostrato il palmo della mano sinistra era caduto in ginocchio. «La Khoiné!» sussurrò. Goccia di Fiamma ed Ombra restarono discoste, colpite dal fervore con cui Yaan aveva preso fra le dita un lembo della veste lacera della fanciulla, portandoselo alla fronte. Rimase a capo chino, come privo della forza di alzarsi. «Nobile Yaan, io sono Babeeri», mormorò lei con voce tremante. «E so che mi avete cercata a lungo, sfidando molti pericoli. Vi sono riconoscente, ed a nome della Casa dei Laherdale, a cui appartengo, vi ringrazio. Per favore... per favore alzatevi, ora». Quando l'altro si fu raddrizzato ella continuò: «Io non so molto delle nostre stesse usanze, Nobile Yaan, e vi prego di scusarmi se non vi saluto
in un modo più corretto. Ho dimenticato tante cose da quando dovetti fuggire da Lahaina, ed allora ero soltanto una bambinetta. Ma ricordo ancora che quando avevo sette anni voi mi foste presentato ufficialmente, nei giardini del palazzo. Avevate... avevate un buffo cappellino rosso». «Sì, Signora. Non ho mai dimenticato quel giorno», balbettò lui, molto teso. «Ho vissuto con il solo scopo di ritrovarvi, ed ora posso anche morire sapendo d'aver adempiuto al giuramento che feci. Voi siete qui. La Khoiné è di nuovo nella sua terra!». Babeeri annuì, impacciata. Per un attimo si morse le labbra, ed ancora la sua voce suonò esitante: «Nobile Yaan, sappiate che io fui messa al corrente del destino che mi attendeva, e che mio padre stesso mi mostrò la pagina del Libro di Ferro degli Antichi. Le istruzioni scritte in essa dicevano che io avrei dovuto divenire la vostra sposa. Questo fu il comando che mi venne dato. Questa è la legge a cui ogni Khoiné deve obbedire». «Conosco la legge, Signora», affermò Yaan, rigido. Ferma di fronte a lui, col viso alzato verso il suo, Babeeri disse con calma: «Dunque è necessario che ciò si compia, ora che il destino ci ha concesso d'incontrarci». Yaan tenne fisso lo sguardo un palmo più in alto della testa di lei, e con stupore di Ombra di Lancia e di Goccia cominciò a snocciolare una sequela di parole in linguaggio così arcaico da risultare incomprensibile. Dopo una decina di frasi tacque, e quindi fu la volta di Babeeri a recitarle di nuovo nello stesso modo. Pochi istanti prima di finire la fanciulla arrossì violentemente, e fu scossa da un lungo tremito nervoso. Sia lei che il giovanotto restarono immobili come statue. «Non ho capito una parola, tesoro», commentò Goccia di Fiamma, facendosi avanti. «Si trattava d'una formula di saluto?». «Noi... noi siamo marito e moglie, ora», la informò ella. «Che mi venga... Vuoi dire che avete contratto matrimonio formale, così sui due piedi? Vi siete sposati!». Babeeri non le rispose, perché fissava il volto di Yaan con visibile emozione. Dal canto suo il giovanotto appariva altrettanto sconvolto ed aveva le lacrime agli occhi. Lentamente alzò le braccia e cinse la ragazza, attirandola pian piano a sé. Dopo un'esitazione ella lo abbracciò con forza. «Mio sposo!» sussurrò. «Diletta mia... sposa mia!» rispose Yaan, commosso. Le altre due li fissavano con identico sbalordimento, e per un poco non
dissero verbo. Alla fine Ombra commentò che non aveva mai visto uno sposalizio tanto veloce e repentino fra due persone che non si conoscevano affatto. Babeeri si volse a sorriderle. «Il Libro di Ferro non contiene errori. Si dice che i matrimoni da esso stabiliti avvengano sempre fra un uomo e una donna il cui destino è di amarsi, di vivere felici allorché sono insieme. Ed io... io so che è vero, adesso». Né Goccia né Ombra osarono replicare, perché gli occhi della fanciulla erano colmi di timida felicità. In quanto a Yaan Margraf Lakhmar, il modo in cui egli la teneva stretta a sé ed accarezzava il suo volto con lo sguardo non lasciava spazio a dubbi: per puro istinto l'amava più della sua stessa vita. «Ebbene, tesoro, quand'è così...». Goccia di Fiamma si schiarì la voce, turbata. «Santo cielo! Ti auguro ogni felicità!». Babeeri si sciolse dalle braccia di Yaan e con un gridolino si precipitò in quelle di lei, singhiozzando. Ombra di Lancia vide che anche l'Amazzone dai capelli rossi s'era messa a piangere, accarezzando il capo dell'amica, e fece una smorfia. S'avvicinò a Yaan e gli mise una mano su una spalla. «Bene, ragazzo, finalmente l'hai avuta la tua Khoiné. Mi fa molto piacere. Ma non si può dire che la situazione sia molto allegra. So che Alybrea e i suoi scagnozzi stanno preparando una controffensiva». «Cosa? Oh, certo...» balbettò lui, distratto. «Ma non tutto è perduto. Ho atteso questo momento per molti anni. Ho pregato e sofferto e pregato gli Dèi, ed ora ho ritrovato la mia sposa». «Capisco i tuoi sentimenti», borbottò lei. «Babeeri è una cara piccina. Ma è necessario esser pratici. Hai stabilito un piano d'azione coi tuoi amici ribelli?». «Lascia perdere, Ombra», intervenne Goccia di Fiamma afferrandola per un polso. «Diamo tempo ai due ragazzi di starsene un momentino da soli, eh? Tu ed io andiamo a controllare che i Grisloj non si facciano venir voglia di capitare da queste parti». L'Amazzone strizzò l'occhio a Yaan e s'allontanò su per la grande scalinata reggendo la torcia, e l'altra le andò dietro. Quando furono sul punto di uscire fra le colonne dell'atrio superiore si volsero, e videro che i due giovani si tenevano per le mani, già dimentichi di loro e del resto del mondo. Fuori dall'edificio si trovarono nuovamente sotto le masse di lava che incorporavano quasi tutto il resto della città, creando effetti sconcertanti. I
passaggi fra le gigantesche colate di roccia erano a volte ampi, a volte strettissimi, e quasi ovunque pieni di detriti che nascondevano la pavimentazione originale. Le parti più alte delle case scomparivano entro un tetto di solida lava. Per passare da una cavità all'altra era spesso necessario entrare in una delle costruzioni da una finestra, attraversarla e sperare che dalla parte opposta vi fosse uno sbocco non ostruito, e Goccia di Fiamma trovava divertente quel modo di procedere. «È un labirinto», disse Ombra di malumore. «Guarda di non metterti a esplorare troppo, per favore». «Sediamoci un po' e facciamo due chiacchiere», propose Goccia. «Nossignore. Non mi va di parlare con te, e non mi piace come mi guardi. So benissimo cos'hai in mente, ma io non sono il tipo. Questo te lo devi ficcare in testa». La rossa ridacchiò. «Mi hai detto la stessa cosa quando avevamo quattordici anni, il giorno che c'incontrammo nei recinti-scuola. Facevi la scontrosa, e per qualche giorno mi prendesti a pugni sul naso ogni volta che mi azzardavo a dirti una parolina dolce. Ma... poi cambiasti idea». «Basta così. Torniamo indietro!» tagliò corto l'altra, dandole le spalle. Quando le due ragazze furono rientrate nel salone sotterraneo invaso dall'acqua, trovarono Yaan e Babeeri che stavano mangiando alla luce della lanterna. Il giovanotto aveva tolto dal lungo cilindro di metallo con cui era arrivato una quantità di involti e cartocci, dei tegamini di terracotta e due anfore di birra, e fece loro cenno di servirsi. «Benone!» esclamò Ombra dopo che si furono sfamati. «Vedo che indossi un bel vestito, ragazzo. Ora ci racconterai come hai fatto a liberarti da quella jena, e dove hai trovato la tua barca stregata. Yaan sorrise, porse a Babeeri un fazzolettino ricamato per pulirsi la bocca, poi si versò un altro po' di birra. «È stata una giornata molto intensa», ammise. «Ma ho seguito il consiglio che mi hai dato, e ho finto d'accettare con buona grazia le proposte di Alybrea. Come ricorderai, aveva manifestato l'intenzione di sposarmi per avere da me una figlia, o meglio due gemelle stellate, e ieri sera mi ha promesso mari e monti. A sentir lei, i Dottori le hanno assicurato che non sarà difficile ottenere una dinastia di Stelle Nere che dominino il Gondwana per sempre. E non ha ancora abbandonato il progetto di portare un esercito nelle terre settentrionali, usando la Strada Sommersa. Quando le dissi che accettavo d'essere il suo principe consorte, il mio gioco fu fatto a metà». «Dove ti trasportò con quella sferetta di vetro?».
«In Yaya Dhuba, nel grande palazzo di Tor Vanora che comunica coi sotterranei degli Antichi. La capitale, Sothana, dista appena due leghe. Fu lì che conobbi il Grande Maestro Siptah, un essere spregevole. Alybrea voleva presentarmi a lui e spiegargli i suoi piani, e ho partecipato alla loro conversazione». Yaan fece un sospiro. «Sono accaduti dei gravi fatti, e quegli sciacalli ne meditano di ben peggiori». A quanto raccontò il giovanotto, l'intero continente di Gondwana era in fermento, e si stava verificando una situazione esplosiva. La notizia del ritorno di Babeeri era addirittura volata da un capo all'altro delle cinque nazioni, quando portata da corrieri a cavallo, quando da piccioni viaggiatori, e perfino da Dottori dell'Oscuro che avevano tradito la loro padrona. La rivolta serpeggiava nella stessa città di Sothana, dove c'erano stati numerosi arresti ed esecuzioni capitali. A Lahaina gli emissari delle tribù di cacciatori nomadi dell'Aladjr recalcitravano davanti agli ordini di Alybrea e chiedevano notizie più precise. Ma quel che più contava, dichiarò Yaan con espressione sbalordita, era che le nazioni di Falhaire e del Tall-Varna s'erano messe in marcia verso la costa settentrionale. «Contadini e gente di città, a piedi o su veicoli d'ogni genere, insieme a tutto il loro esercito e guidati dai loro sovrani!» esclamò, con occhi scintillanti. «Hanno sfidato la strega e migrano compatti, a centinaia di migliaia, senza paura. E dovunque il popolo dice che i cani di Yaya Dhuba e le loro macchine malefiche sono stati sconfitti da una straordinaria guerriera venuta nel Gondwana con la Stella d'Oro!». Il giovane fissò Goccia di Fiamma con emozione, eccitato, e lei dovette schermirsi con un gesto. «A far muovere il popolo è stata la nostra Babeeri, non certo io», disse. «Può darsi», concesse Yaan, con una risata. «Però non pochi in Falheire e nel Tall-Varna ti hanno vista con quell'anello al dito, e affermano che hai usato la stessa magia della Stella Nera per annientare il suo potere in metà del Gondwana. Il Grande Maestro era furibondo. Nella montagna retrostante Tor Vanora ci sono le caverne sotterranee dove gli Antichi hanno lasciato enormi quantità di macchine, e i Dottori ne stanno portando fuori altre per sostituire quelle distrutte. Ma non è tutto qui. Reggetevi forte: Sevan Brelthur e l'intera sua famiglia sono stati uccisi da Alybrea due giorni fa, nell'Achelòs». «Cielo!» si stupì Ombra. «E perché mai?». Yaan disse che a proteggere quella mossa era stato il Grande Maestro Siptah, suggerendo che per Alybrea era ormai venuto il momento di pro-
clamarsi indiscussa Regina del Gondwana. La Stella Nera aveva creato nel Palazzo Reale di Shorn un vortice di gelo, che aveva mutato in statue di ghiaccio Sevan Brelthur, i suoi familiari e almeno altre cinquecento persone. Immediatamente dopo la ragazza aveva ordinato all'esercito di schierarsi sui confini, per sbarrare la strada con la forza agli emigranti in arrivo dal sud. «La battaglia potrà essere terribile. A meno che Babeeri non intervenga al più presto, i soldati di Achelòs continueranno ad ubbidire ad Alybrea e faranno di tutto perché la gente non arrivi nella Terra di Balkesir». In fretta Yaan spiegò che nel nord-ovest di Achelòs sporgeva in mare una penisola triangolare chiamata Terra di Balkesir, all'estremità della quale c'era Capo Vela. Come tutti sapevano, si trattava della località da cui prendeva inizio la leggendaria Strada Sommersa, e lì sorgeva un tempietto semidiroccato ancora considerato sacro dalla popolazione locale. «Lo ricordo!» esclamò Babeeri. «È sopra un piccolo promontorio, e il mio tutore mi condusse fra le colonne, il giorno della fuga. C'erano molti uccelli marmi che volarono via spaventati. Allora io alzai la mano e la strada emerse dal mare... lunghissima, così lunga che spariva fra le isole della Collana degli Atolli e verso l'orizzonte. Occorsero due giorni e due notti per arrivare nel Wadabra, e il nostro cocchio correva come il vento in mezzo alle onde». «Dovevate fare in fretta, luce dei miei occhi», disse Yaan baciandole una mano. «Infatti l'incantesimo della Strada Sommersa dura appena quattro giorni, trascorsi i quali essa torna da sola sul fondo del mare. Per tenerla alla superficie più a lungo è necessario che la Khoiné resti nel tempietto». «Dunque Babeeri deve andare a Capo Vela», concluse Goccia di Fiamma. «E a far cosa?». Ombra scosse la testa. «A ricevere i superstiti dei massacri che ci saranno? E poi neppure la metà degli abitanti del Gondwana si è mossa. In tre delle Cinque Nazioni Alybrea mantiene ben salda la sua autorità». «È vero», riconobbe Yaan. «Ma a Lahaina ci sono ancora tutti gli ambasciatori e i personaggi più importanti, e bisogna che costoro vedano la Stella d'Oro. Comunque spero che scelgano la via della saggezza, quando capiranno che la strega li sta conducendo alla rovina. Ciò che mi preoccupa sono le loro macchine. Con l'arma del gelo bloccheranno ogni resistenza, e sarebbero capaci di sterminare intere popolazioni nello spazio d'una notte».
Il giovane proseguì raccontando come aveva fatto a fuggire. Da li a un paio di giorni Alybrea aveva in programma una fastosa cerimonia d'incoronazione, che egli definì una farsa alla quale avrebbero partecipato i Nobili di Lahaina, alcuni Principi Nomadi dell'Aladjr, i più altolocati personaggi di Achelòs e dello Yaya Dhuba, e gli ambasciatori di Falheire e del Tall-Varna rimasti nella capitale. A tutti costoro Yaan avrebbe dovuto esser presentato come il futuro sposo della Stella Nera, come dimostrazione vivente che la dinastia di Alybrea si sarebbe perpetuata nel tempo. Il giovanotto s'era mostrato interessato all'idea, ed aveva verbosamente insistito nella pretesa di ottenere il titolo di Principe Consorte Sovrano, con vasti poteri decisionali. «Sono stato talmente pignolo nell'enumerare i castelli e le terre che volevo in proprietà, da convincere perfino quell'astuto demonio di Siptah», si vantò. «Ma il colpo di grazia gliel'ho dato quando ho stilato un lungo elenco di Nobili che intendevo mettere a morte per confiscarne i beni, così si sono persuasi che appartenevo alla loro stessa lurida schiatta di serpenti velenosi. Poi mi sono ritirato nei miei appartamenti. A metà della nottata ho tagliato la corda». L'impresa non era stata facile come si poteva presumere da quella frase, dato che per uscire da Tor Vanora era stato costretto ad uccidere due guardiani. Yaan raccontò che la sua intenzione iniziale era stata quella di penetrare nei misteriosi sotterranei degli Antichi, per cercare di fare a pezzi almeno alcune delle ultime armi di tipo portatile che Siptah aveva detto d'aver trovato in un deposito. Era invece finito in un dedalo di corridoi scavati sotto la montagna, con dozzine di Dottori dell'Oscuro alle costole, e fuggendo alla cieca s'era trovato nella sala da cui prendeva inizio il tunnel. «Lì c'era quel carro di ferro», disse, indicando il cilindro che galleggiava nella semioscurità. «Una cosa fantastica, amiche mie. Pensate che stava sospeso magicamente nell'aria, senza nulla che lo sostenesse, e al vederlo compresi subito che era una macchina degli Antichi. I dottori la usano per trasportare materiali a grandi distanze. Ero alle strette e non esitai a salire su per la scaletta. Poi chiusi il portello e via!» «Vuoi dire che sapevi già come manovrare quell'ordigno?» chiese Ombra. Yaan spiegò che s'era limitato a spostare una levetta posta sopra un congegno strano, l'unico comando che vi fosse in vista, e che subito aveva sentito il cilindro partire a gran velocità dentro il tunnel. Naturalmente non
sapeva dove sarebbe andato, né come fermare il veicolo una volta giunto a destinazione, ma questo non s'era rivelato un problema. Dopo molte ore di viaggio la velocità era diminuita bruscamente, e dalle finestrelle di vetro aveva visto che la galleria era piena d'acqua. L'inconveniente l'aveva spaventato molto, però il grosso cilindro aveva seguitato a procedere con energia inarrestabile, sebbene fra noiose vibrazioni ed a velocità ridotta. «E così sei arrivato fino in fondo», concluse Ombra. «È evidente che questo tunnel corre sotto l'intero continente da est a ovest. Se i Dottori lo usavano, presumo che compissero solo la prima metà del tragitto, fino a Lahaìna, dato che questa estremità è inondata. Mi chiedo se non potremmo arrivare alla capitale con questo stesso sistema». Gli altri non dissero nulla, resi pensosi dall'idea. Yaan sembrava poco convinto, e in quanto a Babeeri era bastata la sola ipotesi di viaggiare a quel modo per farla impallidire. Goccia di Fiamma approfittò del loro silenzio per chiedere un particolare che la incuriosiva: «Yaan, come hai fatto a lasciare il Gondwana due anni fa?» «Sono quasi tre anni, precisò lui». È stato semplice. A Shorn hanno sempre avuto delle ottime barche da pesca, solide e capaci di tenere bene l'alto mare. Ne rubai una e feci vela a settentrione. Venti giorni dopo arrivai nel Wadabra, e fu lì che cominciai la mia ricerca. Per fortuna avevo molte provviste, e il vento mi favorì». «Bene. Ma dimmi, a bordo di questa nave portasti con te fra le altre cose anche un veleno chiamato Xian?» Il giovanotto annuì, meravigliato. «Come lo sai? Sì, quando m'impossessai dell'imbarcazione nella stiva c'erano merci di vario genere, proprietà d'un mercante di Shorn. Arrivato in Ahrab vendetti quasi tutto ricavandone un buon prezzo, ed in particolare modo mi fruttarono bene alcune anforette di Xian. Ne vendetti tre a Saarna e altre sei ad Ectabana, la capitale sumerica». Goccia di Fiamma si grattò la testa. «Già. Immagino che sia un genere di merce molto richiesto. L'arte dell'avvelenatore è sempre stata una delle meglio pagate». Yaan si fece serio. «Vuoi dire che numerosi delitti saranno avvenuti per colpa mia? È vero, ci ho pensato. Ma non scordare che ero in una terra straniera, dominata da una casta di nobili corrotti e crudeli quanto altri mai. Lo Xian è un veleno costoso, e sapevo che quei cortigiani l'avrebbero usato fra di loro. È da escludere che esso abbia nuociuto ai poveri. Per i
miseri basta un colpo di pugnale, mentre lo Xian è un veleno da ricchi usato fra la nobiltà decadente». «Non volevo fartene un rimprovero. Scusami se ti ho dato quest'impressione. Il fatto è che quella sostanza fu usata dai sicari del Triarca per avvelenare il vino di Shalla, la Regina di noi Amazzoni». «Oh, Dèi!» mormorò lui, contrito. «Ne sono mortificato. Io... non sapevo neanche della vostra esistenza a quei tempi. Certo dev'esser stato terribile per voi vedere proprio la vostra Regina cadere sotto i nefasti effetti dello Xian. Suppongo che abbiate dovuto deporta, o peggio. È così?» «No, tranquillizzati. Shalla non bevve quella dannata droga. Tuttavia essa fece una vittima importante. Una delle nostre Comandanti, quella che molte Amazzoni consideravano la più forte e astuta guerriera delle Terre Basse, ne ebbe stravolto il raziocinio e fuggì. Essa viaggiò verso sud-est, s'impadronì di una nave e iniziò a scorrere il mare in cerca di vittime. A distanza di appena un anno da quegli avvenimenti, il suo nome era diventato sinonimo di lutti e di sciagure su tutte le coste a settentrione del Mare di Gondwana». Da pallido che s'era fatto, il giovanotto divenne verde. Quando girò lo sguardo verso Ombra di Lancia aveva gli occhi allucinati. «Amico, non darle retta», lo prevenne lei. «Io non so nulla di veleni. Questa ragazza è una mezza scimunita, altro che storie!» «Tu...» rantolò Yaan. «E pensare che ti ho maledetta cento volte quando sudavo al remo della tua nave, e sotto la tortura, e mentre mi spellavi a frustate. Laune la Cagna... Era lo Xian che mi ricadeva sulla testa. Stavo pagando il male che io stesso ti avevo fatto. Oh, Dèi!» «Bene, il destino talvolta è contorto... Ma che fai, fermo!» D'un tratto il giovane aveva estratto da sotto la giubba un pugnale e se l'era vibrato alla gola. Fu solo la felina sveltezza di Ombra a scongiurare una tragedia, perché la sua mano robusta bloccò quella di lui all'ultimo istante. Babeeri alzò le braccia con un grido di sgomento, spaventatissima. «Lasciami... merito di morire», ansimò Yaan, cercando di svincolarsi. «La mia colpa è troppo grande!» Goccia di Fiamma ed Ombra furono costrette a lottare energicamente per impedire che il giovane si ferisse. Infine la bruna riuscì a strappargli il coltello dalle dita e lo gettò nell'acqua. «Razza di stupido», brontolò. «Se le persone oneste si tagliassero la gola per la minima stupidaggine, al mondo resterebbero solo milioni di delinquenti. Guarda come hai ridotto Babeeri. Vuoi spezzare il cuore alla
piccola proprio ora?» La fanciulla bionda stava piangendo. Gettò le braccia al collo di Yaan e lo supplicò di non fare sciocchezze per amor suo. «Ombra ti ha perdonato, e anche Goccia, credimi», disse con voce rotta. «Non può essere colpa tua quel che è accaduto!» «Ho detto dieci volte che mi chiamo Laune. Nessuno qui mi sta a sentire?» la riprese l'altra, mettendosi a sedere. Yaan la osservò con attenzione, come se la vedesse per la prima volta. «Tipico dello Xian», annuì poi. «Il suo comportamento non lascia dubbi. E purtroppo non esistono contravveleni. Soltanto una donna come lei poteva sopravvivere alla vendetta o alla giustizia altrui, dopo aver assassinato tanti innocenti. Tuttavia è incredibile che non sia ancora guarita». «Dunque si può guarire!» esclamò Goccia, emozionata. «Certo, prima o poi, magari dopo molti anni. Vedi, chi beve lo Xian viene spinto a commettere atrocità senza requie, pago solo della sofferenza altrui. Ma nel far ciò la sua sete di delitti pian piano si estingue e cessa. Di solito chi sopravvive a tutto questo arriva al punto di rendersi conto delle sue colpe e impazzisce per il rimorso». La voce di Yaan si fece dolente e sconfortata. «Oh, che sorte maledetta! Oh... che disgrazia!» Ombra lo rimbeccò aspramente, consigliandolo di badare agli affari suoi e di non piagnucolare sulle disgrazie, vere o supposte, di chi se l'era sempre cavata meglio di lui. Inviperita s'alzò in piedi, dichiarando che se ne sarebbe andata per conto suo. Ma Babeeri corse ad abbracciarla e le posò la testa su una spalla. «Non mi lasciare», disse. «No, naturalmente no», si rabbonì subito lei. «Non ti ho forse promesso che puoi contare su di me? Sono i discorsi stupidi che mi irritano!» Goccia di Fiamma e Yaan la osservavano con aria preoccupata, vedendola tanto nervosa. Ma ad un tratto tutti si volsero verso la scalinata: fra gli edifici della città sepolta echeggiavano voci lontane e grida che sembravano richiami rabbiosi. «I Grisloj, maledizione!» imprecò Goccia. «Era troppo sperare che non ci cercassero». «Svelte, salite sul carro di ferro», Yaan le spinse verso il bordo dello stagno che riempiva la sala. Un po' a nuoto e un po' a guado i quattro raggiunsero la scaletta dell'inusitato veicolo e s'arrampicarono fino al portello. Il cilindro galleggiava di traverso nel vastissimo locale, e Goccia dovette restare sull'apertura con la
lanterna in mano per far luce a Yaan, che sguazzando e scivolando nell'acqua sfruttava ogni appiglio per spingerlo nell'imboccatura della caverna. Il peso da spostare era notevole, e il giovanotto dovette accanirsi con tutta la sua forza. Alla fine poté farlo entrare nel tunnel per metà e salì anch'egli, poi chiuse il portello stagno e saltò sul pavimento accanto alle altre. Erano tutti bagnati fradici, ma non fu a causa del freddo che Babeeri si guardò intorno rabbrividendo: la lunga cabina aveva un aspetto assai inconsueto. «Ho paura di questa cosa, Yaan», si lamentò, abbracciandolo. «Non temere, amore mio dolce. Se fosse pericoloso non ti avrei portata qui. Spero solo che funzioni ancora, anche se non ho la minima idea di come faccia a muoversi». «Per magia e stregoneria!» affermò lei, convinta. Ombra di Lancia era a poppa che cercava di guardar fuori da un oblò centrale. Quando si volse vide che Goccia era al centro della cabina ed armeggiava con una levetta sporgente da un marchingegno. «Ehi, tu. Lascia fare a Yaan», la rimproverò. «Abbiamo anche troppi guai, senza che tu ti metta a pasticciare con roba che non conosci». La ragazza invece spostò la leva verso il basso. All'istante l'intero cilindro parve affondare nell'acqua di almeno sei o sette piedi, come se un dèmone l'avesse attirato all'interno geometrico del tunnel. O almeno quella del dèmone fu la spiegazione che gridò Babeeri. Sotto al pavimento piatto qualcosa emise un ronzio, e ci fu uno scossone. «Cos'hai combinato, sciagurata?» esclamò Ombra. Goccia di Fiamma sorrise candidamente. «Tutto a posto, tesoro. Il nostro carro di ferro è partito. Fidatevi pure di me. Ormai sono un'esperta con questi strani meccanismi, sapete?» Nessuno le rispose, perché fuori dallo scafo metallico si udiva il violentissimo fruscio dell'acqua spostata. Dagli oblò si scorgevano i riflessi di una parete scura che scorreva via in una tempesta di bolle d'aria. L'unica ad esibire una faccia tranquilla era Goccia, che fischiettava fra sé distrattamente un'imitazione del Fischio dell'Invisibilità ed esaminava con interesse l'interno del veicolo. «Qualunque cosa accada ora», disse Ombra senza rivolgersi a nessuno in particolare, «Potevamo anche fare a meno di scappare così in fretta. Prima che questa furbona spostasse la leva ho visto degli uomini scendere di corsa nella sala. E non erano affatto Grisloj». Nessuno di loro fece commenti o si mostrò desideroso di tornare indietro, anche perché con quel nuovo mezzo di trasporto avrebbero potuto
risparmiare i sei giorni di viaggio necessari per raggiungere Lahaina. La cabina era stata arredata dai Dottori dell'Oscuro con mobiletti di legno, un lettino e alcune sedie. In un angolo c'era una piastra che emanava un forte calore, e davanti ad essa i quattro appesero i loro abiti ad asciugare dopo essersi spogliati senza troppi pudori. «Naturalmente», osservò Goccia di Fiamma, «rimane il problema di come fermare l'ordigno una volta giunti a destinazione». La difficoltà poté esser definita meglio quando Yaan precisò che non aveva la minima idea di come fare, dopo di che tutti si misero a studiare il cilindro palmo a palmo. La cassetta metallica su cui era montata la leva di comando era fornita d'uno sportellino laterale, nel mezzo del quale era incisa la stella nera ormai ben familiare a Goccia. L'Amazzone sorprese i compagni aprendolo grazie al castone del suo anello, ma allorché essi la videro frugare incautamente nell'interno si precipitarono a toglierla da li, protestando e rimproverandola. «Faremo una brutta fine», pronosticò Ombra. «Questa ragazza non ha un minimo di prudenza. Ricordo che una volta, nel mezzo degli altopiani di Hyktos, fui costretta a...» Tutti quanti la fissarono intensamente, come per incitarla a continuare, ma lei girò bruscamente le spalle e tacque. Per tutto il resto del viaggio rimase chiusa in un ostinato mutismo e si tenne discosta dagli altri, lanciando a Goccia di Fiamma occhiate risentite. Babeeri e Yaan sedettero sul lettino e si misero a chiacchierare sottovoce, guardandosi negli occhi in un modo tale che le altre due finirono per sentirsi escluse. Dopo cinque clessidre di tempo s'accorsero che nel tunnel non c'era più acqua. In apparenza lo straordinario veicolo procedeva sospeso nel suo centro geometrico, senza mai sfiorarne le pareti. Indossarono di nuovo i loro vestiti, e cercarono di capire da quali segnali si sarebbero accorti che la capitale del Gondwana era vicina. «Io so d'esser passato velocemente attraverso una vasta sala», disse Yaan. «Più o meno a metà del percorso. Era poco illuminata, e mi è sembrata deserta». «A rigor di logica questo carro sotterraneo dovrebbe fermarsi muovendo la leva indietro», stabilì Goccia. «Perciò mettiti di guardia, ragazzo mio. Faremo il tentativo appena tu mi darai il segnale». Yaan e Babeeri spostarono un paio di sgabelli davanti all'oblò anteriore e si concentrarono sull'oscurità esterna. Era trascorsa appena mezza clessidra, quando entrambi gridarono a una sola voce:
«Siamo arrivati! Ferma adesso!» L'Amazzone spostò la leva e poi sbirciò all'esterno ansiosamente. «Ferma, ferma! Muovi indietro!» avvertì ancora Yaan. «Dannazione, l'ho fatto», sbottò lei. «Ma questo accidente continua a correre più di prima». Tentativi, imprecazioni ed esperimenti d'altro genere furono inutili: il cilindro proseguì nel suo veloce viaggio sotto al continente facendosi beffe della loro cocente delusione. Se pure il luogo avvistato da Yaan era la stazione d'arrivo posta sotto la città di Lahaina, essa si allontanò sempre più indietro di loro. Alla luce della lanterna ad olio i volti delle tre ragazze e del giovanotto cominciarono a rispecchiare lo scoramento e la depressione che si sentivano dentro. «Fuori dev'essere scesa la notte da un pezzo», disse Goccia di Fiamma dopo qualche tempo. «Se arriveremo nei sotterranei presso Tor Vanora, esiste la possibilità che la sorveglianza sia scarsa e ci si possa allontanare indisturbati». Ombra di Lancia la guardò storto e ringhiò: «Adesso un'ipotesi la faccio io: piomberemo a folle velocità contro la fine della galleria e ci sfracelleremo. Laggiù non ci sarà dell'acqua ad arrestare dolcemente l'impatto». L'unico risultato di quella previsione fu che Babeeri impallidì e si strinse a Yaan, nascondendogli il volto contro una spalla. Ma le cose erano destinate a svolgersi diversamente: da lì a non molto la velocità di spostamento del cilindro prese a rallentare in modo graduale, senza che i quattro viaggiatori potessero comprenderne il motivo, finché fu inferiore a quella d'un cavallo al trotto. «Tenete pronte la armi», suggerì brusca Ombra. «Qualcosa mi dice che i nostri amici Dottori ci stanno aspettando». Dagli oblò entrarono fiotti di luce. Il veicolo era entrato in un locale non dissimile da quello di partenza, vivamente illuminato da molte lanterne, ed ora si stava fermando pian piano davanti ad un'impalcatura di legno costruita per raggiungerne il portello. Goccia di Fiamma ed Ombra sguainarono le spade. Yaan osservò la vasta sala e si volse a pugni stretti. «Sono soltanto in tre», esclamò. «Tre Dottori dell'Oscuro. Siamo nei sotterranei presso Tor Vanora». «Questo accidente del demonio non riparte», disse Goccia, muovendo avanti e indietro la levetta senza nessun risultato. «Secondo me i Dottori hanno agito dall'esterno in modo da fermare il cilindro. Ne sanno più di noi su questi ordigni, ecco la verità».
«State indietro. Uno di loro ha qualcosa in mano... una specie di tubo nero!» Ombra di Lancia spinse il giovanotto verso il portello. «Apri, Yaan. Usciamo da qui. Dobbiamo batterci con loro, invece». Non ne ebbero il tempo: l'uomo in tonaca nera che imbracciava l'arma tubolare la puntò sul veicolo sotterraneo, e dalla bocca di essa scaturì una lingua di nebbia grigia. All'interno del cilindro le pareti si ricoprirono di cristalli di ghiaccio, mentre l'aria si faceva di colpo gelida. Yaan, Babeeri, e le due Amazzoni ansimarono in preda ad un arcano terrore nel sentire che il freddo aumentava terribilmente. In pochi momenti le loro membra persero ogni forza, ed essi caddero a terra stretti nella morsa d'un rigore paralizzante. Cercarono di muoversi, di strisciare, mentre perfino la saliva nelle loro bocche si mutava in ghiaccio e lo sforzo di respirare diventava qualcosa d'impossibile, di superiore alle loro possibilità. Nessuno di essi ebbe l'energia di alzare gli occhi, quando il portello venne spalancato e i Dottori dell'Oscuro scesero nell'interno recando con sé alcune robuste corde. E dopo pochi momenti i quattro viaggiatori semiassiderati e tremanti furono trasportati via, saldamente legati e ormai rassegnati alla loro sorte. LA MACCHINA DELL'ALDILÀ La terra stava tremando. Questa fu la prima confusa sensazione del mondo esterno che penetrò nella coscienza di Ombra di Lancia, quando i suoi tormentosi sogni si dileguarono ed ella rinvenne. Sotto di lei c'era un pavimento coperto di polvere, liscio come la roccia, e da esso salivano forti vibrazioni ondulatorie. La ragazza ebbe un gemito rauco. Era svenuta subito dopo la cattura, cedendo a un torpore invincibile e adesso si sentiva le membra ghiacciate e doloranti. Rimase distesa bocconi finché capì che il terremoto non faceva parte dei suoi incubi onirici, e solo allora cominciò a domandarsi perché non l'avevano uccisa. Era in una cella, in una prigione. Ma si trattava d'un, luogo di detenzione così diverso da quelli che conosceva che dapprima faticò a identificarlo. I muri erano lucidi come il vetro, opachi, e tutta la parete anteriore era formata da sbarre verticali d'un metallo argenteo. In un angolo c'era un grosso vaso di cristallo che più tardi le sarebbe stato indicato come il cesso, e una rustica granata di stecchi. Il suolo smise di tremare, ma dalle profondità della terra salì di tono un rumore sordo e insistente che la
riempì di paura: da qualche parte e non lontano da lì, doveva esserci un vulcano nelle cui viscere si contorcevano torrenti di lave infernali. Con uno sforzo si trasse in piedi, vacillando contro il muro. «Diavolo!... Che stregoneria ci hanno fatto?» ansimò. Non avendo abbastanza fiato neppure per imprecare, tacque. La testa le girava tremendamente. Per qualche istante rimase appoggiata alla parete, chiedendosi cosa fosse accaduto ai suoi compagni, un argomento di riflessione così spiacevole che ella si costrinse a pensare ad altro. Guardò fuori dalla porta di sbarre e vide una cella identica alla sua, dalla parte opposta di uno stretto corridoio. Nei pressi dovevano esserci alcune lampade accese, e non si udivano rumori. La vista le si schiarì abbastanza da permetterle di vedere che nel piccolo locale di fronte c'era un altro prigioniero, un ometto dai capelli bianchi curvo e striminzito che la fissava con estremo interesse. «Salute a te, ragazza. Finalmente ti sei svegliata, non è così?» la salutò l'individuò, allegramente. Ombra di Lancia prese a massaggiarsi le braccia e il collo, traendo profondi respiri e facendo smorfie. Ci mise un po' prima di rispondere: «Non vedo cosa ci sia da ridacchiare. Sto male, sono in una maledetta prigione, io e i miei amici abbiamo i respiri contati, e tu stai lì a sogghignare come uno scemo. Chi sei, vecchio?» «Il mio nome non ti dirà molto, comunque sono Laerne Sakron Harzibal di Meterkem, al tuo servizio. Scusa se stavo sorridendo, ma non capita spesso che mettano qualcuno nella cella di fronte alla mia. Questo significa che potremo chiacchierare, capisci? È molto importante, e ti distrae». «Certo, certo». La ragazza esaminò il locale. Le sbarre verticali sembravano saldamente conficcate nel soffitto e nel pavimento, e non le parve che ci fosse una serratura vera e propria né un catenaccio. «E va bene, Laerne: dove siamo?» L'anziano detenuto sorrise ancora. «Oh, bella! Non lo sai? Questo è un carcere degli Antichi, scavato nella montagna retrostante il castello di Tor Vanora. Credevi forse d'essere sulla spiaggia di Calajura? Ma non fare quella faccia. Qui non si sta poi male. Guarda me: diciott'anni che sono rinchiuso e non ho di che lamentarmi. Ti danno da mangiare, ti curano se ti ammali...» «Consolante. Risparmiami il resto, per favore», lo interruppe lei. «Sai per caso dove hanno rinchiuso i miei compagni? Due ragazze e un giovanotto».
«Non qui», la informò Laerne. «Ma mettiti il cuore in pace, tanto non li vedrai mai più. Siptah mi ha detto che languirai in cella vita natural durante. Sempre che ad Alybrea non piaccia farti giustiziare, ovviamente. La Stella Nera è imprevedibile». «Ah!» si limitò a bofonchiare lei. Per un poco non fece altro che riattivare la circolazione camminando su e giù per scaldarsi. Approfittando del suo silenzio il vecchio le raccontò dell'emozione che lo aveva preso nel vederla sistemare proprio lì, un paio di clessidre prima. Disse che a portarla giù era venuto fra gli altri anche Siptah, il grande Maestro in persona, l'unico essere umano in possesso della chiave per quel genere di porte. Ombra fu inoltre informata che quel corridoio della prigione era lungo trecento passi, conteneva ottanta celle buona parte delle quali occupate, e nessuno dei carcerati poteva vantare una detenzione lunga quanto quella di Laerne. Ancora stordita e di pessimo umore dovette sorbirsi le chiacchiere del vecchietto, che in tono faceto la ragguagliò sui particolari spiccioli della vita da carcerata che l'attendeva. «Sei fortunata, Ombra di Lancia», si sentì complimentare. «Di solito chi incorre nell'ira di Siptah finisce nella Macchina dell'aldilà. Tu invece dimorerai in una comoda cella». «E credi che questo Siptah mi permetterà di baciargli i piedi in segno di gratitudine? Mi sembra il minimo che possa fare!» grugnì lei guardandolo di traverso. «Non essere amara. Io so tutto di voi», proseguì Laerne. «Siptah me ne ha parlato. Questo è un gran momento per lui. Ogni volta che ha tempo scende a vantarsi con me dei suoi successi, e sapessi con che vanagloria ama farsene bello». Ombra stava già cominciando a rassegnarsi alla presenza dell'altro, che col suo atteggiamento arzillo e ciarliero quantomeno riusciva ad irritarla, facendole scordare la brutta realtà della sua situazione. Ma quando si decise, stancamente, a chiedergli perché mai godeva delle confidenze di Siptah era destinata ad avere una sorpresa. «Prova soddisfazione ad umiliarmi», spiegò il vecchio. «Non gli basta d'aver gettato in prigione colui che fu il Grande Maestro dei Dottori, l'uomo più saggio e potente di Yaya Dhuba. Gli piace vedermi negletto e meschino, e torturarmi con le sue parole». La ragazza stentò a capire il significato della sua dichiarazione. Quell'ometto gracile e mite era davvero convinto d'esser stato il personaggio che diceva? Ma poi notò la luce un po' vacua dei suoi occhi, il modo in cui
a tratti il capo gli ciondolava di lato, il tremito nervoso delle sue mani, ed annuì fra sé impietosita. Diciott'anni di segregazione avevano crudelmente logorato la mente del poverino, riducendolo ad un rottame che vaneggiava e si costruiva ricordi di un passato mai esistito nella realtà. Per sopportare la prigione era costretto a vivere di fantasie. Laerne scambiò la sua occhiata compassionevole per malinconia, e le elargì un sorrisetto melenso. Un passero in gabbia, pensò lei: cinguetta, cinguetta, e poi un giorno lo troveranno stecchito sul pavimento. «Su col morale!» la esortò lui. «Ascoltami, ho inventato un giochetto davvero utile per scordare i guai e far trascorrere il tempo. Io mi sono sempre dilettato di aritmetica, la più pura delle scienze, ed anzi ti dirò che da giovanotto ero considerato un esperto. Dunque il gioco consiste in questo: stando l'uno di fronte all'altra, come adesso, entrambi solleviamo le mani a dita aperte. Osservava me, ed imitami. Abbiamo ciascuno dieci dita per mano, no? Mi segui?» Ombra di Lancia chiuse gli occhi. Improvvisamente si sentiva così assalita dalla depressione che avrebbe voluto stendersi per terra e tapparsi le orecchie. Che cosa stavano soffrendo Babeeri e Goccia di Fiamma? Erano ancora vive? Tutto era andato storto, nel peggiore dei modi. Deglutì saliva e vide Laerne come da mille leghe di distanza. Quanto ci avrebbe messo per scivolare anche lei nella follia e diventare una creatura delle sbarre, un morta che sognava di vivere, come quel disgraziato? «Ti seguo», disse, alzando le mani. «Dieci dita. Eccole qui». «Perfetto. E ora attenta. Inizio io il gioco, pronunciando un numero compreso fra il duecentoventi e il duecentoquaranta, e nello stesso tempo piego in avanti il mignolo della mano destra. Questa è la mia mossa d'attacco. Subito tu dividi per dodici il numero che ho detto, se è una frazione lo riporti al numero intero successivo, e aggiungi tre. Quindi abbassi a tua volta il mignolo. Chiaro fin qui? E ora viene il tuo turno...» «Laerne», sospirò lei. «Scusami, ma sono stanca. Inoltre qui nel Gondwana usate il sistema numerico basato sul dodici, mentre dalle mie parti si usa quello decimale. Sarebbe come se volessimo parlarci in due lingue diverse». L'altro emise uno strilletto d'eccitazione. «Un sistema decimale hai detto? Fantastico! Devi assolutamente insegnarmelo. Pensa a quanti giorni interessanti trascorreremo, discutendo dei vantaggi dell'uno e dell'altro». «È un programma così affascinante che quasi piango. Sentì un po' uomo, che colpa hai commesso per meritarti diciott'anni di queste feste da ballo?»
Di nuovo l'altro fece un risolino. «Ti ho detto che io ero il Grande Maestro, a quell'epoca. Sventuratamente Siptah ambiva ad avere il mio posto, e il guaio fu questo. Ora in Yaya Dhuba comanda lui». «Vuoi dire che eri il Grande Maestro?» fece lei, stolidamente. «Lo sono stato per oltre vent'anni, ragazza mia. Eh, sì, il nome di Laerne Sakron Harzibal era sinonimo di saggezza, in tempi nei quali questa parola aveva ancora un senso. Ed ora tu hai di fronte un esempio di ciò che accade agli ingenui, agli onesti, a coloro che agiscono animati dalle buone intenzioni, perché tali erano le mie allorché feci lo sbaglio di salvare la vita alla piccola Stella Nera... E che sbaglio fu quello, cara mia! Grandi uomini, grandi errori. Ma il passato è passato e io preferisco dimenticare. Dunque, per tornare al nostro gioco, direi che anche col sistema decimale...» «Un momento, un momento!» esclamò Ombra. «Cosa diavolo vuoi dire, quando affermi d'aver salvato la vita ad Alybrea? Chiariamo questa faccenda, amico!» Per un poco Laerne tergiversò, sospirò sul fatto che a prevalere sono sempre i malvagi, lamentò che la vera scienza era finita in mano a gente senza scrupoli, ed insisté che di quegli avvenimenti ormai lontani non gliene importava più niente. Quando però si rese conto che ciò gli avrebbe dato modo di parlare lungamente ad un'ascoltatrice interessata, si decise a raccontare i fatti che l'avevano visto protagonista molti anni addietro. Sfrondata delle divagazioni e delle considerazioni filosofiche, la sua storia si rivelò tale da sbalordire la ragazza che ben presto divenne tutt'orecchi, ma derivava dal fatto che essi ambivano a recuperare gli elementi della scienza degli Antichi, la quale era appunto scomparsa nell'oscurità del passato. Ogni loro sforzo per impadronirsi almeno dei frammenti di quella sapienza perduta era stato però vano, sebbene in alcune località ne restassero ancora molte tracce, ed all'epoca in cui Laerne era in carica i Dottori erano giunti a un punto di stasi nelle ricerche. «Si può dire che da secoli eravamo sul punto di rinunciare», narrò il vecchio, tristemente. «La decadenza ci circondava, il popolo soffriva la fame e s'ammalava di malattie che non sapevamo curare, e invece di progredire diventavamo più poveri. Sapevamo d'essere caduti nella barbarie, e t'assicuro che non c'è sofferenza peggiore che ricordare la grandezza perduta. Ma soprattutto ci tormentavamo perché qui, nella montagna dietro Sothana, si presentava ai nostri occhi la gigantesca porta di ferro: una barriera invalicabile, oltre la quale sapevamo che c'era l'ingresso ai sotterranei. E nei sotterranei c'era quella scienza che da ventiseimila anni le
genti del Gondwana avevano dimenticato». «Ventiseimila anni!» si stupì Ombra. «Dovevamo aprire quella porta, ragazza mia, una volta per tutte. Altrimenti non sarebbe rimasto che rassegnarci a un futuro d'ignoranza, di miseria e d'inettitudine». Dalle parole di Laerne Ombra si costruì l'immagine mentale di un Consiglio composto da canuti studiosi intenti a spulciar teorie e con la testa fra le nuvole, ben diversa dalle raffigurazioni che fin'allora s'era fatta di quegli individui. Comprese però che la quasi totalità dei Dottori dell'Oscuro erano giovanotti di stampo quasi opposto, fanatici, dediti a ricerche magicoalchimistiche, abili ad approfittare dell'ignoranza del popolo per estorcergli soldi, e sprezzanti nei riguardi del Consiglio. I Dottori sapevano da sempre che quell'intoccabile porta, pervasa da energia mortale, si sarebbe spalancata non appena una Stella Nera avesse appoggiato la mano destra sul corrispondente simbolo inciso sul battente. Si era così deciso di salvare dalla morte una delle due figlie della Khoiné, e precisamente quella che una barbarica usanza voleva fosse eliminata appena nata. «Per la verità», precisò Laerne, «uccidere le bambine con la Stella Nera non era una semplice manifestazione superstiziosa da parte delle Dodici Famiglie, ma un ordine esplicito e tassativo dato dagli ultimi Antichi e tramandato nei millenni per ragioni ben precise, di cui poi ti parlerò. Tuttavia noi eravamo ormai disperati, e si stabilì di tentare». A questo punto s'era fatta avanti nel Consiglio una fazione di Dottori capeggiata da Siptah, un astuto commerciante in pratiche magiche assai potente e temuto nella città di Sothana, e costui aveva rivelato che da molti anni i Dottori più ambiziosi e intraprendenti stavano mettendo a punto un progetto teso allo stesso scopo. C'erano state dispute accanite sui mezzi da adottare: Laerne e pochi altri avevano sostenuto che non si poteva sostituire la Stella Nera con un'altra creaturina, se ciò avesse significato la morte per la seconda. Siptah e tutti i più giovani suonavano invece la campana avversa con parole nobili e infuocate, tirando in ballo l'amore per la scienza, il meraviglioso futuro che attendeva le genti del Gondwana ed i traguardi luminosi a cui si doveva mirare, sottintendendo che per raggiungerli ogni mezzo sarebbe stato valido e giustificato. «L'ebbero vinta loro», mormorò Laerne. «Ma sarei un bugiardo se affermassi d'averli avversati con troppa foga. Anch'io ero accecato dal desiderio di mettere le mani sui macchinari segreti che si dicevano imma-
gazzinati a grande profondità nel sottosuolo, di apprenderne l'uso, di studiare quelle dottrine meravigliose, e fu così che agimmo». La manovra dello scambio di neonate era avvenuta come Ombra aveva già saputo da Yaan alcuni giorni addietro, e mai le Dodici Famiglie di Lahaina avevano sospettato quel che era successo. Per nove anni i Dottori avevano allevato la piccola Alybrea con ogni cura e in segreto, ed infine, quando l'emblema che portava sulla mano destra aveva raggiunto la dimensione giusta, elle era stata condotta in pompa magna davanti alla fatidica porta incassata nella montagna. Con un gesto altero e orgoglioso la giovanissima Stella Nera l'aveva fatta spalancare, e i Dottori s'erano visto dinnanzi un grande tunnel che scendeva nell'oscurità. A quell'epoca Laerne languiva già in catene da quasi nove anni, ed egli ne spiegò il motivo: «Accadde per via del veleno, ragazza mia. A tutto avrei chinato il capo pur di veder realizzati i miei sogni, ma quell'intrigo progettato da Siptah proprio non lo potei mandare giù. Le strane armi trovate in grande quantità nei sotterranei ben si prestavano ai peggiori piani di conquista, e la fazione di Siptah aveva attratto la quasi totalità dei Dottori. Quando mi dichiarai contrario all'uso dello Xian, per me fu la fine. Quel giorno stesso venni deposto con ignominia e incarcerato». «Lo Xian?» domandò Ombra. «Che stai dicendo, vecchio?» «Ma sì, quell'infernale intruglio», si lamentò lui. «Non sarebbe stato meglio evitarlo, e fare appello solo al raziocinio della bambina? Ma Siptah aveva i suoi progetti, ed in essi c'era posto solo per il potere e la violenza. A lui serviva una Stella Nera animata dallo stesso dèmone, e non esitò a dichiarare che la piccina avrebbe dovuto bere lo Xian per esser pronta a sostenere le sue crudeli ambizioni». «Sbalorditivo!» mormorò lei. «Mi stai dicendo che Alybrea è sotto l'effetto dello Xian? Ma altri m'hanno raccontato che le Stelle Nere vengono soppresse alla nascita perché sono di natura folle e feroce. Questo è il motivo per cui erano considerate pericolosissime». «Fandonie, amica mia. Favole per gli allocchi, tramandate solo perché quella millenaria serie d'infanticidi apparisse giustificata. In realtà mi fu detto che Alybrea fu una bambina normalissima fino ai nove anni, e che pur capace di scatenare il gelo con un gesto della mano in zone ristrette non avrebbe mai fatto male a una mosca. Ancor oggi non sarebbe diversa da qualsiasi altra fanciulla, se quel vecchio furbone di Siptah non le mettesse lo Xian nel cibo ogni pochi mesi. Stai certa che con quel trattamento chiunque, al posto di Alybrea, sarebbe un mostro sanguinario avido solo di
potenza e di atrocità». «E le propinano lo Xian da quando aveva nove anni?» «Naturalmente. In caso contrario credi forse che si sarebbe prestata a fare il gioco di Siptah? Purtroppo oggi le cose sono come sono, e dai tremiti che squassano le terre c'è da prevedere il peggio». Ombra di Lancia gli fece cenno di tacere un momento e cercò di mettere ordine nei suoi pensieri. Presentata a quel modo la situazione le appariva sotto un nuovo aspetto, ed ora che ci pensava non faticava a trovare una netta somiglianza fra la cieca e folle violenza di Alybrea e quella di cui lei stessa era stata preda per un anno. Se poi alla Stella Nera veniva somministrato lo Xian ogni pochi mesi, ella ne subiva in continuazione gli effetti senza speranza che diminuissero pian piano. C'erano però ancora molte cose che non capiva. «Senti, Laerne», domandò. «Voi sapevate che le forze dormienti nelle macchine degli Antichi avrebbero trascinato il Gondwana alla rovina, una volta che Alybrea vi avesse attinto?» «Non è vero!» esclamò lui, agitando le braccia scheletriche e fissandola con emozione. «Non è esatto! E lo sai perché? Alybrea può attingere potere dalle grandi macchine, ma solo in piccola quantità, e ciò non è molto dannoso. A sconvolger l'equilibrio furono le apparecchiature per produrre il gelo, che vennero usate su vasta scala e consumarono la potenza delle macchine che sostengono il Gondwana». «Spiegati meglio», lo incitò lei. «Ebbene, neppure io so molto, ragazza. Tuttavia si tratta di una questione di equilibrio fra potenza prodotta e potenza consumata. Sono misteri... cose occulte, parole che io stesso fatico a capire». Laerne cominciò a parlare di un avvenimento chiamato dagli Antichi «deriva dei continenti», di fondali oceanici e di magma fuso situato sotto questi strati relativamente sottili di crosta rocciosa, ed Ombra di Lancia smise di seguirlo in questi dettagli per lei astrusi ed inimmaginabili. L'incomprensione le fece assumere un'aria accigliata. «Diciamola più semplicemente», sospirò infine l'ometto. «Tu devi far conto che il Gondwana sia un'isola che galleggia. Però sotto di essa c'è un mare di lava, mi segui? Ora, per stabilizzare il continente che minacciava di affondare in una crosta rocciosa fattasi troppo sottile a causa della deriva dei continenti...» «Va bene. Gli Antichi costruirono le loro macchine. Ho capito!» esclamò lei, irritata perché non comprendeva affatto.
«Assorbendo potenza da esse, si distrugge l'equilibrio e questa potenza va a cessare», proseguì Laerne. «Se gli Antichi avessero potuto, avrebbero impedito per sempre la nascita delle Stelle Nere, ma non se la sentirono di annientare con lo stesso atto anche le Stelle d'Oro, che erano collegate ad un'altra macchina misteriosa, quella che presiede alla comparsa della Strada Sommersa. Lo scopo della Strada Sommersa, che nell'antichità era un semplice percorso per veicoli...» «Lo so», fece lei. «Doveva essere una via di scampo, nel caso che prima o poi le macchine avessero finito per guastarsi, e che il continente si fosse inabissato. Ma le due gemelle nascevano a coppia, oppure non sarebbero nate affatto. Dico giusto? Così per avere una Stella d'Oro è necessario avere anche una Stella Nera. E costei la si uccide perché non vada a toccare queste dannate macchine». «L'hai detto». Laerne rise fra sé. «Ah, com'è strana la vita!» «Io la trovo tragica, e complicata. Tu no, vecchio?» «Oh, non hai torto», ammise l'altro. «Ma pensa a quale ironia suprema c'è nel destino del Gondwana: oggi la gente comune continua a credere che la Stella Nera sia il simbolo del male, mentre invece ai tempi degli Antichi esse venivano ammirate e rispettate. Ce n'erano a centinaia, e rappresentavano la casta più eletta dell'umanità. Le loro gemelle bionde, al contrario, erano tenute in scarsa considerazione». «Sul serio? E perché mai?» Ombra era un po' stupita da tutte quella rivelazioni. «Erano sapienti, e grazie alla loro stellina non c'era nessun altro all'infuori di esse che si occupasse delle macchine. Se tu potessi vedere questi congegni arcani e meravigliosi capiresti. Solo con il contatto della stella nera essi si aprono, rivelando l'interno, e tutte le porte dei luoghi più segreti sono accessibili unicamente a chi possiede tale simbolo. Gli esseri umani dipendevano da loro, vuoi per costruire le macchine, vuoi per ripararle, e così la casta delle Stelle Nere deteneva il potere più assoluto. Ma si racconta che esse fossero benevole col popolo e si curassero di ogni sua necessità». D'improvviso Laerne dichiarò d'essere stanco e si sdraiò in fondo alla cella per dormicchiare. La ragazza bruna sedette a terra, appoggiò la nuca alla parete e chiuse gli occhi anch'essa. I suoi pensieri vagarono oziosamente sulle scarsissime possibilità che aveva d'evadere da quel luogo, ma aveva già capito che senza un aiuto esterno non c'era nulla da fare. Altre cose le si agitavano nella mente: un larvato stupore per la scomparsa
dell'ostilità verso Goccia di Fiamma, che aveva cercato cocciutamente di ostentare durante il viaggio nel sottosuolo ma che scemava con rapidità; la consapevolezza che un veleno chiamato Xian aveva agito in lei per oltre un anno; il flusso dei ricordi della sua vita passata, ed il rimpianto, la sofferenza. Stava ritrovando sé stessa, e il procedimento era doloroso come districarsi da un groviglio di spine. S'accorse d'aver dormito solo quando un lieve rumore la destò, e vide una mano deporre al suolo attraverso le sbarre due stretti pentolini. Una figura intabarrata di nero si allontanò. La ragazza esaminò il cibo. Un pentolino conteneva acqua, l'altro una poltiglia che all'assaggio risultò composta da rape bollite, lische di pesce, noccioli di ciliegia, gambi crudi di carciofi e minutaglia dura. Si trattava indubbiamente degli scarti e dei rifiuti di qualche mensa, buona per placare i morsi della fame almeno quanto un pugno nello stomaco. Alzando gli occhi incontrò quelli di Laerne, che stava ficcandosi in bocca a ditate la sua razione. «Placa il tuo appetito, ragazza», la esortò filosoficamente il vecchietto. «Tanto non avrai altro. Dopo potremo fare il gioco dei numeri, se ti va». Ombra soffocò l'impulso di dargli una rispostaccia, e chiese: «Davvero non hai idea di dove possano essere i miei amici? Quel Siptah non te lo ha detto?» «Ad esser sincero...» Laerne inghiottì un boccone, la fissò tristemente ed alzò le spalle. «Se proprio ci tieni a saperlo, la piccola Khoiné e quel giovanotto sono stati portati a Lahaina. Entrambi parteciperanno alla cerimonia dell'incoronazione di Alybrea, ma non precisamente nelle vesti di ospiti d'onore». «E l'altra, la ragazza dai capelli rossi?» «Ah! Siptah me ne ha fatto appena un accenno. È doloroso, amica mia, ma temo che costei sia stata gettata nella Macchina dell'Aldilà». Ombra s'aggrappò alle sbarre, tesa. «Di cosa si tratta? Spiegati, Laerne!» esclamò. «Ha finito di soffrire», bofonchiò l'ometto. «Questo è il destino che capita a tutti, prima o poi. Ma consolati, la Macchina dell'Aldilà è indolore. Si dice che gli Antichi la usassero per le esecuzioni capitali, inviando i condannati nella terra degli spiriti in modo incruento e rapido». «L'anno giustiziata!» sussurrò lei, pallidissima. Ombra non udì neppure le frasi impacciate con cui il suo compagno di prigionia cercò di risollevarle il morale. Tornò a sedersi al suolo e per un po' non fece altro che fissare nel vuoto, incapace di pensare. Dopo qualche
tempo s'accorse del sapore amarognolo che aveva sulle labbra, e passandosi una mano sul viso lo sentì bagnato di lacrime. Laerne parlava e parlava, ma la sua era una voce indistinta che non riusciva a penetrarle nella mente. Goccia di Fiamma era morta. Una parola a cui stentava a dare un senso. Quella ragazza allegra e vivace che l'aveva cercata per un anno, e che infine l'aveva ritrovata senza ritrovarla veramente, ora non esisteva più. I ricordi di lei adesso erano una cascata che la sommergeva, un diluvio di fatti e di parole, le pagine di una vita vissuta insieme. Amicizia e affetto. Morta. Ombra di Lancia si coprì la faccia con le mani e lasciò che quel gemito troppo a lungo trattenuto le uscisse di bocca, rauco, animalesco. Il tempo trascorse come un sogno. A tratti la ragazza bruna ascoltò passivamente Laerne, a tratti dormicchiò. Usò il cesso, si provò a mandar giù un po' di cibo, guardò con occhi vuoti d'interesse un Dottore dell'Oscuro che per due volte percorse il corridoio a passi lenti, e cercò di non pensare. Più tardi si alzò e prese a camminare avanti e indietro nello spazio ridotto della cella, avida di muoversi e di stancarsi fisicamente. Il suo corpo robusto e ben allenato non ce la faceva a star fermo. «Ti passerà», predisse Laerne. «Accettare la prigionia è più duro per voi giovani, ma ti abituerai. Molti finiscono perfino col trovare piacevole questa vita così tranquilla». Ombra strinse la sbarre con rabbia. Stavolta non si sarebbe trattenuta dal trattare a male parole quel malinconico esempio di ciò che lei stessa sarebbe diventata da lì a qualche anno. Ma era sul punto di rispondere allorché avvertì l'incredibile contatto. I battiti del suo cuore rallentarono, la pelle le si agghiacciò: qualcosa le stava toccando le mani, qualcosa di assolutamente invisibile e tuttavia di assai concreto. Dita calde le sfiorarono i polsi, due mani solide e forti glieli cinsero, glieli tennero fermi, senza che lei vedesse niente. Fuori dalla cella c'era una creatura più trasparente dell'aria, un essere umano al di là delle possibilità di percezione dei suoi sensi, e la ragazza ne fu così spaventata che si ritrasse con uno scatto violento. Ma le due mani non mollarono la presa e continuarono a tenerla stretta per i polsi. Cosa stava succedendo? Quale entità dell'Oltremondo l'aveva afferrata a quel modo? Ombra si lasciò attirare tremando, ad occhi sbarrati, finché l'essere invisibile che stava nel corridoio fra le celle l'ebbe costretta di nuovo contro le sbarre. Solo allora uno dei polsi le venne lasciato. Era impossibile, disse a sé stessa, era un'allucinazione! «Chi sei?... Che cosa vuoi da me?» rantolò, rivolgendosi all'aria che a-
veva davanti. Il vecchio Laerne la guardò incuriosito, senza capire, ma Ombra di Lancia non gli badava: ad un tratto una delle mani della creatura invisibile le aveva sfiorato il volto, in una carezza affettuosa e rassicurante. Il contatto tiepido, solido, addirittura piacevole, di uno spettro tornato all'Aldilà. Goccia di Fiamma era riuscita appena ad aprire gli occhi, mentre un paio di nerboruti individui la trascinavano attraverso la grande sala male illuminata. C'erano sculture di metallo scuro, o forse di pietra lucida, che rappresentavano animali bizzarri e massicci. Fra queste, anzi parzialmente inglobate in esse, c'erano macchine squadrate e pullulanti di lucette colorate, dall'aspetto minaccioso. Il locale sembrava un incrocio fra un tempio dedicato a idoli demoniaci ed un laboratorio di misteriosi alchimisti. Sul fondo, fra due colonnette alte quanto un uomo, era disteso un drappo che vibrava di luminosità rosea, una tenda fatta coi deboli raggi dell'aurora e l'alito di una fata. Fu davanti a quell'immagine che i Dottori la portarono di peso. «Muori, schifosa!» sentì ansimare ferocemente da una voce. Poi venne tirata in piedi come un sacco, e una spinta energica la mandò dritta contro quel velo luminoso. Un momento più tardi ella cadde su un terreno duro, rotolò avanti e perse i sensi. Non era morta. Questa fu la prima cosa che si trasformò da vaga sensazione in pensiero cosciente e poi in un dato di fatto, quando fu emersa dallo svenimento e poté toccarsi. Infreddolita e ancora debole, a causa degli effetti dell'arma che aveva congelato il veicolo cilindrico, restò a giacere a terra in attesa che i frammenti e i cocci del suo corpo tornassero a riunirsi in un sol pezzo, dolorante ma intero. Aprì gli occhi e subito pensò d'essere diventata cieca. Intorno a lei tutto era d'un grigiore nebbioso, una distesa senza limiti di opaca nebulosità che fungeva da suolo, sopra la quale il cielo si stendeva altrettanto grigio e velato. Non era possibile capire da dove proveniva la luce, né che genere di deserto fosse quello su cui s'appoggiava la sottilissima nebbiolina, e la giovane Amazzone si sentì venire la pelle d'oca per lo sgomento. Imporsi la calma le costò una serie di sforzi consecutivi, fra l'uno e l'altro dei quali fu scossa da tremiti nervosi. In quale strano inferno fuori dal mondo l'avevano mandata a finire i Dottori dell'Oscuro? La domanda non aveva risposta, ed ella l'accantonò. Tutto intorno a lei, per leghe e leghe, c'era una landa priva di ombra e di colore,
uniformemente grigia, un tappeto che se risultava solido sotto ai suoi piedi non le dava la stessa impressione alla vista. Non era sola lì; qualunque luogo fosse quello, perché moltissime figure umane risaltavano in più punti sopra l'estensione nebbiosa che fungeva da suolo. Alcuni di quegli individui si trovavano a meno di cento passi da lei, chi da solo e chi in gruppo; ma non meno di due o tremila erano visibili un po' dappertutto, spesso così lontani da apparire minuscoli come moscerini. Chi erano? Cosa stavano facendo? E che sarebbe accaduto adesso? Non accadde niente. Goccia di Fiamma aguzzò gli occhi, tese le orecchie, tastò il terreno attorno a sé, ed alla fine dovette convincersi d'essere davvero approdata su quella strana spiaggia, reale ed irreale al tempo stesso. Mosse qualche passo e sbatté dolorosamente la faccia contro un muro invisibile, o del tutto trasparente. «Dèa, aiutami!» si lamentò, smarrita. Procedendo a tentoni la ragazza mise insieme alcune informazioni inconfutabili sull'universo che la circondava: le sue mani le dissero che intorno a lei c'erano pareti di pietra, quattro mura che al tatto non avevano nulla d'anormale anche se rifiutavano d'apparirle visibili. In una di esse trovò una porta di legno massiccio, chiusa ma dotata di una maniglia semplice. In quella opposta doveva esserci il misterioso passaggio attraverso il quale l'avevano scaraventata lì i Dottori, o almeno così elle rifletté a lume di logica. Sotto le sue mani quest'ultima parete sembrava cedere leggermente, ma premervi contro le causò un formicolio così doloroso che dovette ritrarsi. Fuori da quel locale, perché malgrado la sua invisibilità ella lo considerava una sorta di anticamera, c'era il mondo grigio che l'attendeva e di cui poteva certo considerarsi un'abitante. Decise di unirsi ai suoi compagni di sventura, e aprì la porta di legno che solo al tatto poteva percepire. Uscire fu facilissimo. Un paio degli uomini più vicini l'avevano già notata da qualche minuto, e si stavano accostando per esaminarla senza nessuna ostilità. Camminavano con le braccia protese in avanti, compiendo deviazioni repentine, fermandosi, aggirando ostacoli, salendo e scendendo lungo lievi pendii come se quel tappeto di nebbia pullulasse di oggetti inavvertibili allo sguardo. Goccia di Fiamma si rese conto che era davvero così, perché fin dai primi passi i suoi piedi inciamparono su sassi e finirono fra cespuglietti non meno invisibili del locale da cui era appena venuta fuori. Se avesse chiuso gli occhi sarebbe stato come trovarsi in mezzo ad un territorio irregolare ed incolto, e forse era veramente così. Un giovanotto barbuto,
magro e malvestito, fu il primo a giungerle accanto e la fissò con aria grave. «Benvenuta nell'Aldilà, sorella!» esclamò. «Io sono Valerian il Pio, ed il fratello che vedi avvicinarsi è Kebir il Piatto, così chiamato perché professa la falsa dottrina dell'Angolo Piatto. Ti sei estinta in pienezza di spirito? Qual è il tuo nome, cara anima?» «Mi chiamo Goccia», si presentò lei, perplessa. «Qui è tutto così... come dire, evanescente, incredibile. Che razza di maledetto posto è, si può sapere?» Valerian il Pio ebbe un sorrisetto glaciale. «Comprendo il tuo stupore, sorella, ma modera i verbi. Come ben sai, hai testé concluso il tuo ciclo vitale e sei defunta, ovverosia sei ascesa alla condizione eletta di puro spirito. Ora sei parte del Numero Logico, nella sostanziale realtà nel Nulla Relativo. Comprendi razionalmente la meraviglia di ciò?» «Defunta?» Goccia di Fiamma lo fissò insospettita. «Amico, sei vittima di un equivoco. Toccami, palpami un po', e vedrai che mi sto portando appresso ben altro che puro spirito». Il giovanotto arrossì violentemente. «E tuttavia sei tale, o anima ingenua. Come puoi pensare che io possa toccarti in modo laido? Nel luogo che ti vedi intorno trasmigrano le anime dei morti, e non vi è posto per i sentimenti impuri. Prepara la tua mente ad ascoltare la verità». «Vuoi dire che sei convinto d'esser morto?» «Morto e scorporizzato, sorella Goccia», stabilì lui. «Rassegnati al Nulla Relativo. Presto ti renderai conto che la tua vita passata era solo transitoria illusione, fallacità, mistico errore. Ed ora ti si offre dinnanzi una realtà di luminosa ragione». La ragazza corrugò le sopracciglia, cogliendo nel tono dello strano individuo una sfida a confutare quelle affermazioni. Valerian il Pio parve intuire d'esserle diventato antipatico all'istante, perché la sua espressione si raggelò di qualche grado. Lei lo rabbonì con un gesto. «E va bene, così questo è l'Aldilà. Interessante. Ma dimmi, Valerian, esiste un sistema per fare ritorno dove stavo prima? Ti confesso che qui non prevedo di divertirmi molto». «Forse che i morti possono tornare nel mondo dei vivi, sorella? La tua domanda rivela una certa confusione intellettuale, a cui tuttavia metteremo presto rimedio. Spero che vorrai dare a me l'opportunità di erudirti». «Non tanta fretta, fratello Valerian!» gridò in quel momento l'altro individuo, aggirando quello che poteva essere un assembramento di cespugli
invisibili. «Lealtà vuole che la nostra nuova sorella possa ascoltare anche la dottrina dell'Angolo Piatto, affinché le sia dato di poter gioire cantando laudi agli Dèi. Non ti sembra?» «Più che giusto, fratello Kebir», ringhiò aspro Valerian, gettandogli un'occhiataccia. «Però ti faccio presente che sono arrivato prima io. Mi par corretto che i nuovi arrivati debbano apprendere la verità nel Nulla Relativo, innanzi che tu li confonda con sciocche eresie pericolose». L'individuo chiamato Kebir, cicciuto e anzianotto, giunse presso di loro e sorrise alla ragazza. In contrasto col cupo e introverso Valerian appariva sprizzante di mistica letizia, ma ciò non piacque affatto a Goccia, che lo giudicò un rompiscatole di diverso genere e non meno fanatico. «Ah, il nostro fratello Valerian è sempre più svelto di me a far proseliti», ridacchiò, agitando un dito sul volto dell'altro con fare petulante. «Ma egli ha trascurato d'informarti che ben millenovecento estinti aderiscono alla dottrina dell'Angolo Piatto, sola fonte di felicità e spensieratezza. Sappi che noi intoniamo cori di bell'effetto, e promuoviamo le manifestazioni artistico-musicali. Se ti piace il canto sei già a mezza via sulla strada della rivelazione, e inoltre...» «Vanità, controsensi!» protestò Valerian. «Solo la meditazione potrà far apprezzare alla nostra sorella la complessità del Numero Logico, di cui ora è parte». Kebir il Piatto lo ignorò allegramente. «E inoltre, dicevo, noi organizziamo un premio per le migliori composizioni poetiche. Gioisci con me, sorella Goccia, stringimi le mani e cantiamo insieme l'inno all'Angolo Piatto, con voce spiegata e cuore giulivo!» La ragazza si fece indietro, evitando per un pelo d'essere abbracciata con euforico trasporto. «Non capisco di cosa state parlando, signori miei», sbottò, seccata. «Però una cosa posso dirvela: non intendo perdere tempo ascoltando le vostre idiozie. E adesso vi auguro buona giornata... o qualunque altra cosa sia questa!» «Che significa ciò?» la apostrofò Valerian, impermalito. La ragazza s'avviò a passi svelti sulla superficie di foschia grigiastra, tenendo le braccia allungate in avanti e cercando di non ruzzolare a terra quando i suoi piedi inciampavano in una sasso o in qualche cespuglietto. «Statemi alla larga, scimuniti!» li avvertì. «Il tuo nome sarà Goccia la Scettica!» le gridò dietro Valerian il Pio. «E questo non ti farà onore, o anima persa. Ma un giorno dovrai arrenderti all'evidenza del Nulla Relativo!»
«Sì, ma quel giorno io ti appellerò Goccia la Redenta, cara sorella!» strillò Kebir. «E innalzeremo cantici agli Dèi tenendoci per mano lietamente... Sempre che tu ti apra alla dottrina dell'Angolo Piatto, beninteso. E non dimenticare i premi di poesia, con iscrizione del tutto gratuita!» L'Amazzone non si prese la briga di rispondere, un po' perché quel modo di procedere richiedeva tutta la sua attenzione, e un po' perché il disgusto e la rabbia la stavano facendo fremere. Avrebbe dovuto scoprire dove si trovava, e quindi escogitare un modo per andarsene, ma a questo scopo era necessario trovare qualche persona sana di mente che le fornisse la informazioni basilari sulla realtà in cui era venuta a capitare. Aveva bisogno di notizie, di dati sicuri, di osservazioni eseguite da individui assennati, ottenute le quali avrebbe fatto un piano. Notò intanto alcune particolarità singolari di quel territorio: alla sua sinistra le ondulazioni nebbiose si sollevavano a formare vere e proprie montagne, assai vicine, mentre altrove avevano la conformazione caratteristica di una pianura stretta e irregolare, intersecata da canaloni e ricca di sporgenze e cumuli. Questo, insieme agli ostacoli avvertibili solo al tatto, le suggerì l'ipotesi che il luogo fosse un tratto di costa chiusa fra una catena montuosa ed il mare. Ma per quale motivo i suoi occhi vedevano appena i vaghi contorni del suolo? Si diresse verso un foltissimo gruppo di persone, girando cautamente attorno ad oggetti che a dar retta alle sue mani erano alberi, altri cespugli, e forse piccoli recinti di tronchi. Camminò sul fondo di una larga scanalatura e sentì con estrema sorpresa dell'acqua attorno alle caviglie. Il liquido invisibile la bagnava, il fango invisibile certo le stava insozzando le gambe fino alle ginocchia, eppure nel guardarsi ella aveva l'impressione d'esser pulita e asciutta. Un po' più avanti toccò dei frutti che ciondolavano all'altezza del suo volto, e li identificò come piccole pere. Incuriosita ne staccò una e la assaggiò, scoprendo così che mangiare era possibile esattamente come nel mondo reale. «È tutto incredibile, pazzesco!» mormorò fra sé. Nel centro di una grigia spianata c'erano parecchie centinaia di individui dei due sessi, buona parte dei quali danzavano in grandi circoli concentrici tenendosi per mano. Cantavano cori d'ispirazione religiosa, e dal loro atteggiamento Goccia comprese che dovevano essere convinti di trovarsi nell'Aldilà, non meno di Kebir il Piatto e di Valerian il Pio. Quando fu più vicina vide che mescolati a loro c'erano non meno di cinquanta guerrieri dal casco di rame dipinto in nero, e la loro presenza la lasciò a bocca
aperta. Si trattava di Teste Nere di Sumer, evidentemente i compagni di quelli che aveva incontrato nella caverna dei Grisloj, ed ella si domandò come mai Alybrea ed il Grande Maestro avevano deciso di disfarsi anche di costoro. Forse per lo stesso motivo che li aveva spinti ad eliminare il Re Sevan Brelthur e tutta la sua corte, si disse. Ne rimase discosta, prudentemente. Il suo stupore raggiunse però il colmo allorché notò fra essi il Principe Valdek, lo stesso gerarca sumerico che giorni addietro lei aveva ferito a una coscia. L'uomo si comportava come tutti gli altri, cantava e faceva girotondo, zoppicando visibilmente, e non pareva preoccuparsi d'altro che d'innalzare lodi agli Dèi. «Per il sacro ventre della Dèa!» imprecò, arrestandosi. «Fra tutte le allucinazioni questa è la peggiore: Valdek il sumerico, che da cane idrofobo assetato di sangue si trasforma in beato spirito nei grigiori dell'Oltremondo!» Dopo qualche momento anche il Principe la vide, abbandonò le mani dei suoi compagni di girotondo e sollevò un pugno agitandolo verso di lei con aria minacciosa. Gridò alcune frasi che l'Amazzone non udì bene, ma che suonavano come insulti piuttosto crudi e volgari, e quindi riprese ciò che stava facendo senza più badarle. Goccia di Fiamma era così stordita che non ebbe neppure la presenza di spirito di rispondergli per le rime, e preferì allontanarsi in fretta. Era incapace di pensare chiaramente, e quella situazione si mostrava piena di risvolti tanto inaspettati che per un poco si convinse di essere davvero nell'Aldilà. Sedette al suolo e si prese la testa fra le mani, scossa da un tremito. Il cuore le pulsava con violenza, addosso le era piombata una gran debolezza, e per la prima volta capì che fra lei e le persone che amava s'era alzata una barriera insuperabile. «Sono davvero morta? Che mi succede?» gemette, sconsolata. «È possibile che questa sia la morte? Oh, Dèa!» «Molto bene!» esclamò una voce ben nota. «Ero certo che non saresti vissuta a lungo, folle e scriteriata come sei!» Goccia di Fiamma si volse e vide un uomo che s'avvicinava a lunghi passi. Era Cobal Gavelord, la Shang, ancora vestito con gli stessi abiti che aveva acquistato un mese addietro nell'emporio di Cranach ed in apparenza del tutto sano. «Hai l'espressione stupida di chi non crede a ciò che gli occhi gli mostrano», borbottò l'uomo dalla pelle verdolina. «E adesso cosa ti prende?
Smettila con queste sciocche effusioni, femmina...» La ragazza era balzata in piedi ed era corsa ad afferrarlo per le spalle, con un grido d'emozione. Lo abbracciò e lo strinse, incurante della sua ritrosia, finché fu sicura che l'amico era solido e reale. «Cobal... per tutti i dèmoni! Sei proprio tu?» Rise, con voce rotta dall'eccitazione. «Ma cosa ci fai qui?» «Lo vedi. Languo in un purgatorio pieno d'anime dannate, e tutto per colpa tua!» la accusò lui, scostandosi. «Da quando ti ho conosciuta non ho avuto che disgrazie. Ho perfino perduto il dragocarro, che mi era costato anni di fatica, e adesso ho bevuto fino in fondo la mia coppa di fiele. Per maledire il giorno in cui ti ho incontrata mi servirebbe l'aiuto di altre dieci persone!» «Invece io sono contentissima di vederti», affermò Goccia, mettendogli le mani sulle spalle. «Ho un sacco di domande da farti. Oh, Cobal... Certo che sei stato un vero porco a lasciarmi nei guai, sul Passo di Malabranca. Perché te ne sei andato a quel modo? E come hai fatto a finire qui?» «Oh, bella! E hai il coraggio di chiedermelo? Sono stato vilmente assassinato dai Dottori dell'Oscuro, gli stessi individui che tu hai stupidamente aizzato e provocato. È stato inutile spiegar loro che io non avevo nulla a che fare con le tue criminose manovre. Fui catturato, portato in Yaya Dhuba con la velocità del lampo mediante l'uso d'una strana sferetta vitrea, e quindi giustiziato senza neanche il beneficio di un processo legale. Essere amici tuoi è peggio che avere la peste!» «Ma non siamo affatto morti, Cobal. Non posso crederlo. Dimmi, dove ti sei procurato quella spada?» domandò lei, indicando l'arma che lo Shang portava appesa alla cintura. L'uomo le riferì una sintesi di ciò che gli era accaduto dopo la terribile scossa di terremoto che li aveva mandati fuori strada. I Grisloj, disse, dovevano essere già appostati nei pressi in attesa di qualche viaggiatore da depredare ed erano calati come falchi sul rottame del dragocarro, costringendolo a fuggire. Appena un paio di clessidre più tardi, sulla strada di Esperdale, s'era imbattuto in alcuni Dottori dell'Oscuro che lo avevano catturato. «Cercavano la ragazzina, Babeeri», continuò, «ed io dissi loro che eravate state rapite dai ladroni. Così desistettero dall'inseguire voi ma portarono me in Yaya Dhuba, gettandomi in mano a tradimento una di quelle sferette di cui mi avevi già parlato. Subito dopo venni gettato nella Macchina dell'Aldilà e fui ucciso. Ora la mia anima vaga dove tu la vedi, conforme
alla dottrina dell'Angolo Piatto di cui sono un sostenitore. Questa spada l'ho strappata ad uno di quei Sumerici presuntuosi e idioti, in seguito ad un alterco di carattere religioso». Goccia scosse il capo. «Ascolta me, Cobal: può anche darsi che questa gente sia convinta d'esser morta, ma io non lo sono per nulla. Dev'esserci un modo per andarcene da qui, e io lo troverò». «Sediamoci a terra», propose lo Shang. «Stasera, ovverosia quando la luce diminuirà, potremo andare in cerca di cibo a Sothana. Nel frattempo ti spiegherò la dottrina dell'Angolo Piatto, così capirai in che modo vivi». «Andare a Sothana?» si sbalordì la ragazza. «Taci e lascia parlare chi ne sa più di te, una volta tanto, o femmina ignorante!» la zittì lui. In tono non troppo cordiale, fra saccente e spazientito, Cobal le rivelò che a suo avviso si trovavano nelle vicinanze della città di Sothana, sebbene su quello che egli chiamò un piano astrale diverso. Ad occidente avevano le montagne, a oriente il mare, e quello che calcavano era un terreno in parte coltivato situato fra il castello di Tor Vanora e la città. «A Sothana noi siamo considerati fantasmi, e con ottime ragioni, dato che la popolazione sa benissimo della nostra esistenza. Se da qui passasse un contadino tu potresti toccarlo, e il disgraziato fuggirebbe spaventato a morte. Mi capisci? Comunque, le usanze della gente di Sothana vogliono che costoro lascino sui davanzali delle finestre offerte di cibo, allo scopo di placare i fantasmi che s'aggirano per la città nelle ore notturne. Questo cibo costituisce la nostra sola fonte di alimentazione», disse. «Vuoi dire che ci credono fantasmi?» «Voglio dire che lo siamo, o Amazzone. I cittadini non ci possono vedere, però ci sentono quando facciamo cadere qualche oggetto aggirandoci alla cieca per le loro case in cerca di cibo. E nota che si deve procedere a tentoni, perché il mondo dove esistono i vivi e le loro abitazioni giace all'altra estremità dell'Angolo Piatto. Questo non ti impedirà di venir travolta da un carretto, se ti rechi in città durante il giorno, né di spezzarti il collo contro un ostacolo a te invisibile». Lo Shang proseguì mettendola al corrente che anche in quel luogo si poteva morire, e disse che nei pressi dovevano esserci infatti alcuni cadaveri. La dottrina a cui anch'egli s'era convertito forniva una spiegazione a quell'apparente controsenso, seppure non soddisfacente. Secondo Cobal, tutti loro erano stati spediti dai Dottori al capo opposto di un angolo, mediante un marchingegno degli Antichi che aveva inferto alle particelle
componenti i corpi umani una rotazione di centottanta gradi. «Non capisco», disse Goccia di Fiamma. «È troppo astruso, è una cosa priva di senso». «Non per chi, come il sottoscritto, conosce le Odi Matematiche Rimate e l'Alchimia Geomorfica», si vantò l'altro. «Grazie a tali scienze elette io posso arrivare a capire verità precluse a tutti i selvaggi incolti di questa terra». «Ma cosa diavolo è un angolo di centottanta gradi?» «È una linea piatta, o Amazzone illetterata. La dottrina insegna che le nostre persone fisiche sono defunte normalmente, avendo subito dentro quella macchina un giro di centottanta gradi. La morte è per l'appunto l'effetto di ciò. Chiaro?» Goccia di Fiamma strinse le palpebre, cercando di rammentare le scarse nozioni di aritmetica e geometria che si insegnavano nelle Terre Basse. Sapeva che in Mitanni qualche sapiente usava dividere gli angoli in gradi, ma quel concetto era già all'estremo limite della scienza umana. Fece un sospiro e si grattò la testa. «Senti una cosa, Cobal: se tu prendi un oggetto e lo giri di centottanta gradi, come hai detto, non per questo lo fai scomparire dalla terra dei viventi. Lo hai girato dalla parte opposta e basta». «Tu rifiuti come al solito di usare il raziocinio, donna», la corresse l'altro. «Non sono i nostri corpi ad esser stati ruotati secondo tale angolo, bensì le particelle che li compongono. Esse sono minuscole, assai più piccole d'un granello di sabbia, e solo l'acuta vista dei saggi meglio illuminati riesce a discernerle». «E di conseguenza siamo finiti sul piano astrale dell'Aldilà». «Così sostiene fratello Kebir il Piatto. In altre parole, questa è la morte», asserì Cobal. «In realtà è logico, se ci pensi bene, perché secondo la Legge della Conservazione dei Corpi Nobili l'anima è fatta di materiale indistruttibile. A mio avviso, però, applicando il Postulato dell'Osservatore Perspicace, la cosa si può formulare anche in un altro e più corretto modo...» Goccia di Fiamma era così sollevata dall'averlo ritrovato che ascoltò senza dar cenni di noia alcune sue teorie, secondo lei completamente cervellotiche e campate in aria, l'esposizione delle quali si protrasse a lungo. Una decina di clessidre dopo il suo arrivo la luminosità cominciò a scemare, e Cobal disse che nel mondo dei vivi si stava facendo sera. Quasi tutti gli individui in vista avevano già preso a muoversi in un'unica direzione, con buona sicurezza, e lo Shang suggerì di accodarsi a loro.
«Una volta arrivati a Sothana andremo per conto nostro, tenendoci rasente ai muri delle case. Ma intanto stiamo dietro ai più esperti, che conoscono la strada». «Allora muoviamoci», si preoccupò lei. «Non voglio trovarmi intruppata con quei Sumerici. Anzi, fammi il favore, la spada dalla a me. Il Principe Valdek potrebbe aver voglia di chiudere un certo conto». Il percorso per raggiungere l'invisibile capitale dello Yaya Dhuba si rivelò abbastanza facile, grazie all'esperienza degli uomini che guidavano la fila. Dopo due clessidre di tempo, durante le quali la luce diminuì fino a una specie di grigiore antelucano, Cobai dichiarò che intorno a loro c'erano le casette della periferia e le raccomandò di camminare lungo i muri. «Fai conto d'esser cieca e guidati col tatto, donna. Dobbiamo raggiungere i davanzali delle finestre e cercare ciotole di cibo. Probabilmente sarà necessario arrampicarci o intrufolarci nelle case». «E perché?» brontolò lei, di pessimo umore. «Perché le offerte ai fantasmi vengono spesso messe sulle finestre dei piani superiori. È irritante, lo so, ma non c'è nulla da fare. Se urti addosso a qualche vivente scostati in fretta, per evitare pugni o bastonate che non potresti vedere ma sentiresti di certo». I fantasmi, o sedicenti tali, procedettero alla spicciolata verso il centro cittadino e si dispersero nelle viuzza. Quasi tutti erano nativi dello Yaya Dhuba, e dunque rammentavano benissimo che le notti di Sothana erano famose per il proliferare di presenze invisibili vaganti dappertutto. A ciascuno era capitato di mettere sui davanzali gli avanzi del pasto, in pentolini che il mattino successivo venivano trovati ben ripuliti, nonché di sentire passi nelle loro camere da letto o sulle scale. Ma solo dopo esser passati attraverso la Macchina dell'Aldilà avevano capito chi fossero in realtà questi spettri. Goccia di Fiamma non sapeva se ridere o mettersi a bestemmiare, irritata dagli aspetti stupidi o incomprensibili della faccenda. Far parte di un'accozzaglia di fantasmi che mendicavano alla cieca nelle case altrui le sembrava assurdo. Per un po' andò avanti tenendo una mano su una spalla di Cobal Gavelord, disgustata, lasciando che fosse lui a stabilire il percorso. Qua e là vide altri colleghi che si muovevano ad una certa altezza dal terreno di nebbia grigia, e comprese che questi si trovavano ai piani superiori di qualche casa o lungo invisibili scale. «Senti, Cobal», esclamò poi. «Non mi va d'essere uno spettro. Però mi piace ancora meno fare l'accattone e ronzare nelle miserabili catapecchie di
questa città». «Se vuoi mangiare non hai altra scelta. Sii furba, ragazza». «Mi chiedo perché non possiamo udire le loro voci», rifletté lei. «Le voci delle persone vere, intendo». «La propagazione dei suoni fra i piani astrali adiacenti è difficoltosa. Soltanto le preghiere o gli inni altamente ispirati riescono a passare. Valerian il Pio ha una teoria... Ma perché ti fermi?» La giovane Amazzone aveva trovato la cantonata del caseggiato lungo il quale procedevano, e vi teneva una mano appoggiata. D'improvviso le era venuta un'idea. «Sto pensando al castello di Tor Vanora, Cobal. Da quanto hai detto, quello è il posto dove si trova la Macchina dell'Aldilà. Credo che sia necessario tornarci subito». «Un'idea che disapprovo senz'altro!» esclamò lo Shang. «Non sarà lì che troveremo di che nutrirci. Si può sapere cosa ti frulla per il capo? Un altro dei tuoi pericolosi e futili progetti?» «Calmati, amico». Goccia sorrise. «Sei stato tu a suggerirmi la soluzione, e ora dovrai farmi da guida fin là. Ci sarà di certo una strada. Se tutto va bene, rientrare fra i vivi è questione di pochi momenti. Te la senti di tentare?» Cobal commentò quelle frasi con una risatina chioccia. «Tu hai perduto il senno, ragazza mia. Domani ti spiegherò daccapo la dottrina dell'Angolo Piatto, finché non l'avrai capita almeno nei suoi aspetti più semplici. Vorrei solo che tu mostrassi un maggior rispetto per chi ne sa di più... Un pio desiderio, conoscendoti». Goccia di Fiamma lo afferrò per le spalle e lo scosse rudemente, piantandogli in faccia i suoi occhi verdi colmi d'ira. «Adesso apri le orecchie, razza di fesso! Non sei stato tu a raccontarmi che le particelle di cui son fatti i nostri corpi hanno subito una rotazione di centottanta gradi, passando nella luce di quella macchina? Ebbene, adesso rispondi: cosa succederebbe se noi dessimo a queste particelle un'altra rotazione identica? Avanti, dillo!» L'uomo sbatté le palpebre. «Che domanda ingenua! A questo modo esse compirebbero un secondo angolo piatto, che sommato al primo rappresenterebbe una rotazione di trecentosessanta gradi. Per dirla scientificamente, in virtù del Teorema del Sillogismo Aureo...» «Tornerebbero nella posizione iniziale!» lo interruppe lei. «In altre parole, riprenderemmo contatto con la realtà. Se questo ragionamento corri-
sponde sul serio agli effetti di quel dannato ordigno, stanotte stessa tu ed io ripasseremo dentro la Macchina dell'Aldilà. Ci stai oppure no?» Cobal Gavelord protestò energicamente, le dimostrò con due diverse teorie che resuscitare da morte era impossibile, dichiarò che ne aveva abbastanza di lasciarsi coinvolgere in piani pericolosi, e deprecò il destino che l'aveva messo sulla strada d'una femmina simile. Alla fine le oppose in tono stizzito il suo unico argomento valido: «Anche se fosse come dici tu, signora mia, muoversi all'interno di Tor Vanora non è possibile. Quei locali sono chiusi da serrature che soltanto Alybrea e il Grande Maestro riescono ad aprire. Vedi perciò che i tuoi progetti sono sconclusionati e irrealizzabili». L'Amazzone alzò una mano e gli mostrò l'anello con il castone a forma di stella. «Hai ragione. Sennonché io posseggo la chiave per quelle porte. E adesso muoviamoci, uomo. Non perdiamo altro tempo». Fra la città di Sothana e il castello di Tor Vanora la strada si snodava attraverso due leghe di pianura, e per seguirne l'invisibile percorso essi furono costretti a tastarne di continuo i bordi con i piedi. Dopo tre clessidre di faticoso procedere Goccia vide che si trovavano di nuovo molto vicini alle montagne, o meglio ai bastioni nebulosi e grigi che aveva imparato a identificare come le alture retrostanti Sothana. L'Amazzone era stanca, affamata, e dopo tutto quel che aveva passato le sarebbe piaciuto ristorarsi un po', ma l'ansia d'uscire da quella situazione soverchiava in lei ogni altra necessità. Andando a tentoni trovarono infine delle pareti solide, e stabilirono che si trattava del castello. Il portone anteriore era aperto, e dopo qualche esitazione entrarono tenendo le braccia protese in avanti. «Sciocca imprudente», si lamentò lo Shang. «Cammina lungo le pareti, almeno. Se finiamo addosso a qualche Dottore non la passeremo liscia. S'accorgeranno che siamo qui e ci faranno a pezzi!...» Cobal non aveva torto, e impensierita da quella riflessione la ragazza decise di procedere senza fretta. A rigor di logica, la sala piena di marchingegni scuri dov'era anche la Macchina dell'Aldilà doveva trovarsi al pianterreno, ovvero non molto distante. Le sue mani tastarono interminabili pareti, mobiletti accostati ad esse, colonne, sculture, stipiti di porte e altri muri ancora. Ad un tratto ebbe l'impressione d'essere sfiorata dal tessuto d'una tonaca e si ritrasse di scatto, ma non accadde nulla. Più avanti scesero una scala e proseguirono per un corridoio interminabile. «Questo è un labirinto», mormorò. «Ci vorrà un'eternità per arrivare in
quel salone. Eppure dobbiamo farcela stanotte, mentre i Dottori dormono. Hai notato che tutte le porte sono aperte, Cobai?» Lo Shang brontolò che la cosa non lo stupiva poi troppo, dato che due sole persone oltre a lei in tutto il Gondawana avevano il mezzo adatto a far scattare le serrature degli Antichi. In fondo al corridoio s'imbatterono però in un battente chiuso. Goccia di fiamma lo tastò dappertutto, ringraziando il cielo che non fosse pregno dell'energia che dava la scossa, e quando trovò la quasi impalpabile incisione a forma di stella vi premette il castone. Subito la porta si aprì. «Da qui può passare solo in Grande Maestro, oltre ad Alybrea», sospirò, eccitata. «Presto. Sento che non siamo lontani dal salone». La sua intuizione si rivelò del tutto erronea, perché dopo aver vagato alla cieca in stanze prive di sbocchi dovettero seguire un altro lunghissimo passaggio dalle pareti nude. La nebbia grigia ora li circondava da tutti i lati e perfino sopra, cosa che all'Amazzone non piacque. Che fossero finiti sotto il livello del suolo? Lo Shang fece un'ipotesi ancora più allarmante, brontolando che a suo avviso stavano camminando nell'interno della montagna, verso i sotterranei degli Antichi. Dopo aver aperto altre quattro porte col solito sistema, Goccia di Fiamma si fermò scoraggiata. S'erano perduti, e intorno non vedevano che una densa foschia nella quale si sentivano sospesi e immersi, come in un incubo o in un'allucinazione. Mantenere la calma si rivelava assai più difficile li che sulla spianata esterna, dove almeno si aveva l'impressione dello spazio libero. Cobal sentenziò filosoficamente che non ce l'avrebbero mai fatta: sarebbero morti di fame li sotto. Metà della notte se n'era ormai andata in peregrinazioni quando l'Amazzone sentì sotto le dita una parete di sbarre. Tastando intorno i due si resero conto d'esser penetrati in una prigione, e Goccia commentò quella scoperta con un fischio sommesso. «Un corridoio, con molte celle da entrambe le parti. Avanti, ragazzo mio, può darsi che Ombra e gli altri siano rinchiusi qui!» Lo Shang lo seguì di malavoglia, osservandola mentre ella protendeva le braccia alla cieca in ciascuno dei vani chiusi da inferriate. Dapprima le mani dell'Amazzone trovarono il vuoto, ma ella si convinse che c'erano dei prigionieri quando sfiorò una faccia barbuta. Era così eccitata che quasi non sentì Cobal suggerirle di cercare le serrature. «Se proprio sei convinta che i tuoi amici siano qui, l'unico modo per liberarli è di aprire ogni singola cella con quell'anello, o donna. Questo
sempreché non ci siano guardiani a dozzine tutto intorno a noi», osservò l'uomo, disgustato dalla sua mancanza di metodo. Goccia di Fiamma non gli rispose, perché giusto in quel momento le sue dita ansiose s'erano chiuse su quelli che erano senza dubbio due polsi femminili, i polsi di una donna che stava appoggiata alle sbarre della sua cella. Li afferrò più forte che poté, cor un grido strozzato: «Cobal, vieni qui! È lei... è lei, ne sono sicura!» LA SALA DELLA POTENZA Dapprima nella mente di Ombra di Lancia vi fu posto soltanto per la meraviglia e la confusione, un caos di pensieri dal quale riuscì in qualche modo ad estrarre frasi mozze con cui spiegare a Laerne ciò che stava succedendo. La calma di lui la sorprese: quel genere di presenze spettrali eppure solidissime era una realtà accettata come normale in Yaya Dhuba, da diversi anni a quella parte, ed il vecchio ne aveva udito parlare da altri carcerati. Mentre egli ridacchiava nel vederla fremere d'eccitazione, la mani di Ombra strinsero freneticamente la ragazza invisibile al di là delle sbarre e la tennero con forza. Non voleva lasciarla andare, rifiutava di rischiare che ella scivolasse ancora nel nulla da cui era uscita. «È Goccia di Fiamma!» disse a Laerne. «Lo so, è proprio lei. Mi ha infilato al dito un anello... Ora mi ha messo in pugno l'elsa di una spada. Oh, vecchio! Non posso vedere questi oggetti, ma li sento. Me li ha dati lei, credimi. Li tengo». «Ti credo, ti credo. Saranno oggetti passati con lei nell'Aldilà», la tranquillizzò l'altro. «Non c'è niente di sbalorditivo, se pensi che una volta io stesso...» «Taci. Mi sta parlando!» esclamò lei. Stavolta Laerne restò perplesso. «Ti parla? E come?» «Nel linguaggio di segnali che noi Amazzoni usiamo per gli eliografi. Colpetti battuti sul palmo della mano». Noi amazzoni! Per un attimo la ragazza rabbrividì, nell'accorgersi della naturalezza con cui quelle parole le erano uscite di bocca. Due semplici parole, eppure con esse accettava in blocco tutto il suo passato e i ricordi di una vita. Due parole, ed ella riconosceva con sé stessa di non aver più niente a che fare con Laune la Cagna: stabiliva una volta per tutte d'essere nuovamente, e per sempre, Ombra di Lancia l'Amazzone. E non avrebbe potuto essere nessun'altra, infatti. Come mai quella lucida consapevolezza
aveva tardato tanto a venire? Scacciò quei pensieri per concentrarsi sui rapidi tocchi di Goccia. «Mi sta dicendo che l'anello è la chiave», riferì. «Ma certo! È quello a forma di stella, con cui riusciva ad aprire gli sportelletti delle macchine e le porte. Apri la cella, mi dice!» L'ex Grande Maestro dei Dottori emise un grido. «Ma è il gioiello meglio custodito del Gondwana! Ne esistono solo due: quello che Alybrea ha dato a Siptah ed un altro che tiene per sé. Come ha potuto impossessarsene la tua amica?» «Zitto. Mi sta comunicando che qui sono in due, lei e un suo compagno, uno Shang. Ha un piano... dice che me lo spiegherà dopo. Ora vuole che apra». Ombra fece una pausa, durante la quale le sue dita parvero ticchettare sopra una superficie invisibile. «A mia volta le ho riferito di te, Laerne, le ho detto chi sei. Aspetta... È molto eccitata: desidera il tuo aiuto». «Premi il castone dell'anello sull'incisione a lato della porta», sussurrò lui, teso. «Presto, prima che venga un guardiano». Con la sua guida la ragazza sporse un braccio e tastò il montante della parete di fianco alle sbarre. Qualche momento più tardi riuscì a far scattare la strana serratura e la grata si alzò, rientrando nel soffitto. Laerne la vide uscire ed abbracciare l'aria con trasporto. Al termine di quelle brevi effusioni anche lui fu libero. «E adesso che si fa?» domandò, spaventato. Ombra stava di nuovo parlando a segnali con l'amica, ed i suoi occhi neri come carboni mandavano lampi. «Mi espone il suo piano... Sta dicendo che lei non ci può vedere, che non vede nulla. Dèmoni, ci ha trovati a tentoni! Vuole te, Laerne... Cioè, vuole che tu guidi lei e questo Shang in un posto... una sala. Maledizione, non capisco. Una sala con molte macchine degli Antichi. Laggiù tornerà solida e visibile come prima... Ma allora non è morta!» ansimò, stupefatta. Laerne scosse la testa. «Purtroppo è un fantasma, ormai. Stanne certa. Non ci sono preghiere o magie che possano resuscitarla». «Taci». L'Amazzone porgeva la mano al contatto invisibile, attentissima. «L'apparecchio di altrove... Vuole passare dentro il congegno di... di Oltremondo, credo. Oh, Dèa! Non la comprendo!» «La Macchina dell'Aldilà, forse», opinò Laerne. «Ma perché mai?» «Tu sai dove si trova? Rispondi, presto. Sai bene che la Khoiné è in una situazione disperata, e soltanto noi possiamo portarle aiuto. Ai guardiani penserò io, fossero anche venti. Te la senti di condurci in quella sala?»
«Aiutare la Stella d'Oro, vuoi dire?» Il vecchio parve ergersi in tutta la sua scarsa statura, e quasi per miracolo il suo volto perse l'espressione vacua e senile, facendosi altero. «O straniera, Laerne Sakron Harzibal di Meterkem è un uomo che ha condotto una vita ben misera, e che non ha più il rispetto di nessuno. Ma se questa è un'occasione per riparare ai miei gravissimi errori, sappi che sono disposto anche ad affrontare la morte immediata. Andiamo a smascherare quei vili, e battiamoci con coraggio per metter fine alle infamie che...» «D'accordo, d'accordo!» lo interruppe lei, impaziente. «Adesso ascolta. Il piano di Goccia di Fiamma è questo: lei e lo Shang ti staranno attaccati al vestito, e ti verranno dietro. Io vi precederò e farò fuori tutti i Dottori che incontreremo. Muoviamoci!» Ombra di Lancia non aveva perso di vista un istante la porta in fondo al corridoio. Al di là di essa c'erano alcuni locali illuminati da lampade ad olio. Vi arrivò correndo in punta di piedi ed impugnò saldamente la spada invisibile. Le prime due stanze che attraversò erano deserte, ma nell'astanteria della prigione due uomini in tunica nera e del tutto calvi stavano giocando ai dadi sopra un apposito tavolinetto. Morirono senza neppure capire da qual genere di arma venivano furiosamente colpiti, perché la ragazza bruna che arrivò loro addosso sembrava avere le mani vuote. Un terzo individuo sbucò da un locale adiacente, allarmato dalle loro grida e brandendo uno sparafiamma. Il suo ordigno esplose un colpo che sfiorò come una ventata secca l'orecchio destro di Ombra, e un attimo dopo fu lei ad abbattergli l'arma in mezzo alla fronte, spaccandogli il cranio di netto. «Nel corridoio. In fondo ci sono le scale!» la avvertì Laerne, sopraggiungendo con i due fantasmi a rimorchio. L'Amazzone si precipitò nella direzione indicatale. Di nuovo, come cento altre volte nel corso della sua vita movimentata, rinunciava a pensare per lasciare che ad agire fossero gli istinti e i riflessi del suo corpo addestrato. Dietro ad ogni suo movimento c'erano lunghi anni di esercizio e di faticoso allenamento; ciascuno dei suoi passi e dei suoi colpi di spada era frutto di riflessi automatici tesi ad uccidere, al di là di ogni pietà e di ogni riflessione morale. Per tre volte sorprese altri Dottori dell'Oscuro, da soli o in coppia, ed essi caddero fiottando sangue sotto i suoi fendenti violentissimi. Poi si fermò ad attendere i compagni. «Dove siamo?» sibilò, ansiosa di proseguire. Laerne le spiegò in fretta che si trovavano alla superficie, appena fuori dalle cavità artificiali della montagna. La grande porta di ferro dei sotter-
ranei era stata tolta e sostituita con una parete in muratura; da essa partiva un lungo corridoio coperto che comunicava col retro del castello di Tor Vanora. Dalle finestrelle di quel passaggio chiuso Ombra vide che all'esterno stava sorgendo il sole. Al piano terra del castello la ragazza trovò due soli individui, e riuscì ad ucciderli senza che gridassero per dare l'allarme. Poi, dopo aver esplorato una dozzina di locali senza vedere niente d'interessante, scoprì l'esistenza di una porta metallica. La sfiorò con una mano, e una saetta di dolore allo stato puro la mandò lunga distesa in terra, stordita. La spada invisibile le sfuggì e tintinnò rimbalzando via fra alcune colonne. «Per tutti i draghi di Lontz!» ansimò, incapace di sollevare la faccia dal pavimento di mattoni. «Cos'è successo?» «Non dovevi toccarla», la informò Laerne. «Sfiora la stella col castone del tuo anello, con cautela. La Macchina dell'Aldilà è qui». Ombra cercò a tentoni sul pavimento finché ritrovò l'arma, e quindi andò ad aprire il battente. La grande sala piena di misteriosi macchinari era silenziosa, e l'unica luce era data dallo spettrale sipario luminescente che stava disteso come una ragnatela fra due colonnette metalliche. Fu davanti ad esso che andarono a fermarsi, e di nuovo le due Amazzoni comunicarono nel loro codice fatto di rapidi colpetti sulle mani. «Adesso Goccia farà il suo tentativo», riferì a Laerne la bruna, preoccupata. «A sentir lei, dietro a questa specie di tenda luminosa si esce in una stanza che porta fuori dal castello. Se tutto va bene, lei e il suo amico rientreranno dal portone principale». «Non sarebbe meglio fuggire a Sothana?» obiettò l'uomo. «Qui a Tor Vanora ci sono almeno cinquanta Dottori, e presto si sveglieranno». Prima di rispondere Ombra si consultò con la compagna. Poi scosse il capo. «No, vecchio. Qualunque cosa succeda, questa è un'occasione da non perdere: torneremo nei sotterranei e faremo a pezzi tutti gli ordigni stregati che potremo trovare. Tu ci dirai dove si può fare il maggior danno. Intesi? Ecco... Goccia sta andando!» Il velo di luce fra le colonnette s'affossò nel centro. Vi si aprì un'oscura cavità dai contorni simili a quelli d'un corpo umano, e poi il sipario si ricompose chiudendosi dietro all'invisibile figura che vi era saltata attraverso. Lo stesso processo si ripeté quando anche il compagno di Goccia lasciò la tonaca di Laerne e balzò svelto dietro di lei. «Sono passati», disse l'Amazzone. «Ora dobbiamo... Ehi!» Il grido di stupore le era sfuggito nel vedere che l'ex Grande Maestro
s'abbatteva al suolo stordito. Prima che potesse fare un solo gesto qualcosa la spinse via con forza tale che rotolò alla base di una macchina quadrata urtandovi dolorosamente. Si rialzò imprecando, e tutto ciò che vide furono altre due forme d'ombra che squarciavano il velo lucente scomparendo oltre: un paio di sconosciuti fantasmi avevano approfittato di quell'occasione per tentare anch'essi il ritorno nella terra dei vivi. Quando Goccia di Fiamma s'accorse che il mondo reale era tornato di nuovo ben visibile ai suoi occhi, ne provò una tale emozione che si sentì piegare le gambe. Spalancò la porta che dallo stretto locale di pietra dava sulla campagna e vacillò all'esterno, nella luce dell'alba che sorgeva sulle montagne grigioverdi di Yaya Dhuba. Alle sue spalle c'era l'imponente castello di Tor Vanora; davanti a lei si stendeva un territorio molto più regolare e meglio coltivato di quel che aveva immaginato il giorno prima, e ad un paio di leghe di distanza il Mare di Gondwana era un'estensione azzurra, bellissima a vedersi. Sulla destra c'era una grande città portuale, la cui periferia era un caotico affastellarsi di catapecchie e baracche dall'aspetto miserabile. La ragazza si volse e vide Cobal Gavelord vacillare fuori dalla porta. Si guardava attorno come se ritenesse impossibile ciò che vedeva. «È un miracolo... Sono resuscitato!» ansimò. «Seguimi», disse Goccia, correndo avanti fra i, cespugli. Ma non aveva fatto che pochi passi allorché udì lo Shang gridare. Si girò di scatto. Dal piccolo locale dietro il castello erano uscite altre due persone: il Principe sumerico Valdek e una donna vestita come una ricca cortigiana che gli correva appresso con faccia spaurita. Cobal Gavelord era disteso a terra e si stringeva un braccio con l'altra mano, fra le cui dita fiottava il sangue, e Valdek brandiva una spada dalla lama arrossata con espressione feroce. Per la sorpresa l'Amazzone rimase un attimo paralizzata. «E adesso regoleremo la faccenda che sai, sgualdrina!» gridò il sumerico, correndole addosso con l'arma sollevata. Goccia di Fiamma si gettò a terra, evitando per un capello lo spaventoso fendente con cui l'altro l'aveva assalita, e poi non le rimase che rotolare fra i cespugli e i paletti di un recinto, contorcendosi e scalciando per tenerlo lontano. Valdek le fu sopra agitando la spada. Altri due o tre colpi rabbiosi dell'arma affilata tranciarono rametti e fronde, impattando nei tronchi della recinzione sotto i quali ella strisciava e sfiorandole le gambe; quindi
l'Amazzone riuscì ad alzarsi in piedi e corse attraverso un orto, ansimando. Valdek zoppicò svelto intorno a un assembramento di rovi nel tentativo di tagliarle la strada. «Ti farò a pezzi!» ringhiò. Goccia oltrepassò con un balzo un canaletto d'irrigazione e s'allontanò sulle zolle di un campicello appena arato, mettendo fra sé e l'uomo una ventina di passi di distanza. La sua rapidità non giunse gradita a Valdek, che claudicava fra i sassi ed ogni tanto si premeva una mano sulla ferita all'inguine. Per la rabbia nel vedersela sfuggire raccolse una pietra e gliela tirò, berciando insulti. Goccia si guardò intorno alla ricerca d'un bastone o di qualcos'altro, perfettamente conscia che avrebbe dovuto affrontarlo: non intendeva lasciare Cobal Gavelord nelle sue mani, ferito e indifeso, essendo certa che il sumerico l'avrebbe finito spietatamente. «Scappare non ti conviene, serpente!» Anche l'avversario s'era accorto di quella situazione, e stava sogghignando. «Devi batterti, altrimenti squarto il tuo amico pelleverde come un capretto!» «Senza un'arma?» Lei indietreggiò, tenendosi a distanza. «La ragazza che è con te ha un pugnale. Dammelo e ci affronteremo ciascuno con una lama in mano». «Angelore, tirale il coltello», ordinò Valdek senza voltarsi. La cortigiana s'affrettò ad ubbidire, gettò il pugnale ai piedi di Goccia con un gesto goffo e poi tornò indietro. Piagnucolava e si lamentava che voleva andarsene da lì. Il sumerico la ignorò, e accennò con la spada verso un tratto di terreno sgombro dai cespugli dove avrebbero potuto battersi. Col pugnale in mano l'Amazzone saltò di nuovo il fossatello e si portò davanti al sumerico, badando a non avvicinarsi troppo. L'idea di contrastare la spada dell'uomo con un'arma corta non le piaceva, e tentare il lancio del coltello contro un avversario già preparato a quella mossa avrebbe significato giocare tutte le sue possibilità su un colpo molto incerto. Oltre a ciò Valdek era un guerriero indubbiamente fortissimo, un uomo abituato a farsi largo nella mischia come la stessa falce della morte, e il duello con lui si preannunciava assai duro. «Adesso sei mia, Amazzone!» le comunicò. Goccia di Fiamma fece due passi di lato tenendo basso il pugnale ma in quell'istante inciampò all'improvviso e cadde sull'erba con un grido di sorpresa: fra le sue braccia si stava dibattendo un corpo umano del tutto invisibile, ed in quei brevi e confusi istanti le parve di sentire sotto le sue mani la barbetta corta e la tunica sdrucita di fratello Valerian il Pio. Evi-
dentemente l'individuo era tornato ad appostarsi nei pressi del castello in attesa di nuovi fantasmi da convertire alla sua dottrina, ed aggirandosi in quella che lui vedeva come una landa nebbiosa e deserta le era capitato addosso proprio nel momento peggiore. Il fendente che Valdek le sferrò dall'alto in basso le fece volar via il pugnale di mano, ma ad esserne terribilmente colpito fu l'invisibile Valerian il Pio, che copriva col suo corpo quello di lei. Il sumerico vide la sua spada arrestarsi contro un ostacolo inaspettato e trasparente, e per la meraviglia arretrò, dando così all'Amazzone il tempo di correr via. Angelore, che si trovava ad una ventina di passi di distanza, se la vide arrivare incontro e gridò di spavento; ma Goccia di Fiamma non ce l'aveva con lei e si limitò a toglierla di mezzo con una sculacciata che la mandò lunga distesa fra i cespugli. Poi raggiunse Cobal, imprecando ed inseguita dal Principe sumerico inferocito. In quel momento Ombra di Lancia sbucò da dietro un angolo del castello, e nel vedere la scena corse avanti lungo il muro posteriore della grande costruzione, chiamando Valdek a battersi con lei. La ragazza s'era procurata un'altra spada, che teneva sollevata alta in gesto di sfida. Aggirò un pollaio, saltò una staccionata e si precipitò incontro all'uomo con la velocità d'una pantera. Valdek accolse la sua comparsa con un grido di feroce soddisfazione e rise a gola spiegata. «Guarda: Laune la Cagna in persona! Molto bene. Qualcosa me lo diceva che noi due ci saremmo intesi meglio sulla lama di una spada. Fatti sotto!» Goccia di Fiamma era andata a chinarsi su Cobal, che giaceva a terra pallido e sofferente, e si volse nel sentire il sonoro clangore delle spade che si scontravano. Il duello fu brevissimo. Dopo alcuni colpi andati a vuoto, furentemente inferti e parati, Ombra mise in atto una finta eseguita con freddezza incredibile e si lasciò strappare l'arma di mano da un fendente dell'uomo. La sua spada volò via fuori portata e Valdek, ormai sicuro della vittoria, sollevò la propria arma per abbattergliela addosso. Fu un gesto che non concluse mai, perché nella sinistra l'Amazzone stringeva ancora quella invisibile e gliela affondò sotto lo sterno fino all'elsa, passandolo da parte a parte. A non molta distanza dietro di lui, Goccia vide soltanto la sua giacca di pelle lacerarsi nel mezzo della schiena ed arrossarsi di sangue. Il sumerico vacillò, lasciò cadere l'arma e fece qualche passo di lato con espressione lievemente sorpresa, tastandosi il petto come se non riuscisse a capire da
cosa era stata squarciata la sua carne. Aveva il cuore spaccato in due, e a tutti gli effetti era già un cadavere, eppure prima di cadere riuscì a svellersi dal petto l'intera spada. Sputò una gran boccata di sangue. Angelore stava strillando acutamente e si teneva i pugni stretti al seno. «Demonio... sporca troia!» rantolò l'uomo. Muovendosi a fatica Valdek avanzò verso Ombra di Lancia, tenuto in vita solo dall'infernale volontà di raggiungerla. La bruna lo guardò senza alcuna emozione e si limitò a scostarsi per evitare le sue mani protese. Per tre volte il sumerico cambiò direzione nel tentativo d'agguantarla, infine cadde bocconi in un viluppo di rovi e rimase immobile. Ignorando le grida della cortigiana l'Amazzone lo afferrò per le gambe e lo trasse sull'erba, gli tolse la ricca cintura di cuoio borchiate d'argento e la esaminò compiaciuta, poi recuperò le armi. Era eccitata. Da quando la sua volontà ed i suoi ricordi avevano ripreso possesso di lei, scacciandole dalla mente ciò che aveva fatto in quell'anno di follia, non aveva avuto molto tempo per pensare a Valdek. Ma adesso rammentava bene quanto lo avesse odiato in passato, pur senza conoscerlo di persona, e rammentava le numerose riunioni al palazzo di Sballa in cui, con altri Comandanti dello Stato Maggiore, aveva discusso di quel Principe e di altri pericolosi condottieri sumerici. Ora avrebbe potuto tornare in patria con la notizia della sua morte. Con la scomparsa di Valdek, anche i suoi piani relativi alla polvere nera e agli sparafiamma cadevano nel vuoto. Del resto l'Amazzone aveva concluso che non era possibile rendere efficienti quelle armi così rozze, imprecise e pesanti. Il rimorso per i delitti da lei commessi era forte, tuttavia passava in seconda linea dietro ad altri doveri e necessità ben più immediate: innanzitutto avrebbe dovuto informarsi sulla situazione militare e strategica che s'era sviluppata nel nord-est di Afra durante la sua assenza. Già un anno addietro tre delle nazioni confinanti con le Terre Basse minacciavano d'allearsi con i Sumerici, in un altro dei loro periodici tentativi di spazzar via il popolo delle Amazzoni, e questo significava che Shalla aveva bisogno di lei. E gli importantissimi progetti per il potenziamento della Cavalleria della Dèa, che fine avevano fatto? Da molto tempo la ragazza s'era resa conto che i temuti carri da guerra sumerici potevano esser battuti dalla cavalleria leggera, che poteva muoversi su qualsiasi tipo di terreno, a patto di disporre dei nervosi e velocissimi destrieri dal sangue caldo allevati in Mitanni. Quella sarebbe stata la loro arma vincente, in caso di conflitto. Ma chi se ne stava occupando? Doveva tornare immediatamente alle sue
responsabilità, ringhiò fra sé. . Goccia di Fiamma, che stava fasciando con cura il braccio sinistro di Cobal, parve leggerle sul viso tutti quei pensieri con una sola occhiata. «Calmati», la esortò. «Non siamo in una situazione troppo allegra, tesoro mio. E il vecchio Laerne dov'è? E rimasto dentro?» «Che m'importa di lui? Ora voglio stare un po' sola con te, Goccia. Abbiamo da parlare». Le appoggiò le mani sulle spalle e sorrise. «Dimmi un po', testarossa, hai penato molto per ritrovarmi? Ti ho dato da fare, vero?» «Abbastanza», rispose lei, cercando di concentrarsi sulla medicazione dello Shang, che mugolava di dolore. D'un tratto gli occhi le si fecero lucidi e tirò su col naso, commossa. «Sicuro che mi hai fatto correre, pellaccia. Ma Shalla mi aveva ordinato di riportarti a casa. Che mi dici? Sei davvero tornata con tutti e due i piedi sulla terra, adesso?» Ombra fece scostare gentilmente Cobal e la abbracciò con forza. Poco dopo, quando l'uomo dichiarò cupamente che di camminare se la sentiva, le due ragazze si avviarono a braccetto verso l'ingresso del castello e vi rientrarono in cerca di Laerne. Il vecchietto era assai agitato. Disse che fra breve i Dottori sarebbero scesi al pianterreno per far colazione, e che prima di quel momento era necessario sparire. Ma l'idea d'avventurarsi nuovamente nei sotterranei degli Antichi lo riempiva di spavento. «Amico mio», brontolò Goccia di Fiamma, «io non dormo da due giorni e svengo per la fame, inoltre capisco bene che se scenderemo in quelle maledette caverne i Dottori resteranno qui a bloccarci l'uscita. Ma laggiù c'è il modo di fermare per sempre la Stella Nera, la fonte da cui ciascuna delle sue armi assorbe potere. O almeno credo... La verità è che non so proprio cos'altro tentare». Con quella frase la ragazza aveva rivelato francamente la portata delle sue indecisioni e perplessità. Se davvero esisteva ancora un modo per aiutare Babeeri, ella non era in grado di vederlo con chiarezza. Era sfinita, avrebbe avuto bisogno di riposarsi e di pensare un po' a se stessa, e la consapevolezza di non essere abbastanza lucida da poter stabilire un qualsiasi piano d'azione la deprimeva. In quanto ad Ombra, intuiva che la compagna desiderava più d'ogni altra cosa andarsene dal Gondwana e lavarsi le mani di tutta quella faccenda. Tornarono nel carcere senza che nessuno li ostacolasse, e giunti qui Laerne propose loro di liberare tutti gli altri detenuti. A suo dire, la più parte degli uomini gettati in cella erano Dottori dell'Oscuro ritenuti infidi, insieme ai cittadini di Sothana che s'erano rifiutati di collaborare attiva-
mente con Alybrea e col Grande Maestro Siptah, e costoro stazionavano nella prigione in attesa d'essere scaraventati in quel carcere ancora migliore che era l'Aldilà. Ad Ombra di Lancia l'idea parve buona. C'erano tre lunghi corridoi, uguali a quello in cui la bruna Amazzone aveva brevemente soggiornato, ma quando tutte le celle furono aperte i quattro amici si trovarono alle prese con oltre duecento individui eccitati e vogliosi di dar sfogo alle proprie velleità personali. Mettere ordine fra essi risultò subito impossibile: molti fuggirono alla superficie, ansiosi soltanto di darsi alla macchia, ed altri si riunirono in gruppetti di scalmanati che meditavano vendetta. Nessuno si mostrò disposto ad ascoltare il vecchio Laerne, che timido e impacciato com'era rinunciò fin dall'inizio ad imporre la sua autorità. Dopo un poco Goccia di Fiamma s'accorse che una buona metà degli ex prigionieri se l'erano filata per proprio conto. A fermare gli altri erano stati tre individui che sembravano aver formato una specie di comitato d'azione: due giovani Dottori dell'Oscuro, ancora rapati a zero e forniti di facce decise, ed un vecchio dagli occhi duri che era stato fino a pochi mesi addietro uno dei più ricchi mercanti di Sothana. Le due Amazzoni li trovarono all'uscita della prigione che spingevano indietro i detenuti, gridando ordini e trattando tutti con estrema rudezza. Cobal Gavelord era rimasto in una delle celle insieme con Laerne, e le ragazze indugiarono nei locali dell'astanteria per capire cosa si proponessero di fare i rivoltosi. Presto scoprirono che Gjoser Thalloj, l'anziano mercante, era a conoscenza del modo in cui Goccia di Fiamma aveva fatto ritorno dalla regione dei fantasmi. L'uomo espose ad alta voce un piano cruento: avrebbe costretto o convinto quegli individui a ripassare nella Macchina dell'Aldilà, organizzandoli subito in un esercito a capo del quale egli si sarebbe impossessato della capitale dello Yaya Dhuba. L'idea non era da disprezzare, se non altro per la confusione che avrebbe provocato. Ma gli scopi personali di Thalloj erano in contrasto con quelli di Gothar Yarmax e di Teclus Faserjeb, i due giovani Dottori, i quali sostenevano che si doveva attaccare più direttamente Alybrea e Siptah. Goccia di Fiamma ed Ombra si schierarono dalla parte di questi ultimi, vedendoli meglio al corrente della situazione reale, ed infine si venne ad un compromesso: il giovanotto di nome Teclus Faserjeb avrebbe condotto con sé una dozzina di ex colleghi in tunica nera, per recarsi sulla landa fatta di nebbia e reclutare quanta più gente fosse possibile. Gjoser Thalloj ed un centinaio d'altri uomini avrebbero preso il controllo di Tor Vanora,
mentre il compito di Gothar Yarmax sarebbe stato di far da guida alle due Amazzoni nei sotterranei. «Da quel che sappiamo», disse costui, dopo che tutti i detenuti furono sciamati fuori dal carcere, «in questo momento Alybrea e Siptah si trovano a Lahaina, per occuparsi della cerimonia con cui la Stella Nera si proclamerà Regina del Gondwana. La città è saldamente in mano loro, perché vi sono di stanza due reggimenti di soldati di Achelòs. Comunque non capita spesso che siano assenti entrambi da Sothana, e questo ci faciliterà molto». «Sei pratico dei sotterranei e delle macchine degli Antichi?» volle sapere Ombra. «Conosco il primo e il secondo livello. Qui ci sono grandi depositi colmi di apparecchiature d'ogni genere, e le due biblioteche dove ho lavorato per dieci anni a tradurre dal linguaggio arcaico libri e manuali d'istruzioni. Ma grazie al vostro anello potrò ora scendere al terzo livello, nella sala della Potenza». «Sono lì le macchine che secondo la leggenda sostengono il Gondwana?» chiese Goccia. Gothar Yarmax ridacchiò nervosamente. «No. Quelle stanno ad una profondità di ben cinque leghe, e vi si accede per un pozzo verticale entro il quale viaggia una speciale navetta di ferro. Ma laggiù non si può scendere: i Dottori che hanno tentato sono tornati indietro orrendamente malati, coperti di piaghe, ed hanno riferito di colossali caverne dove brilla una demoniaca luce verde. Nell'aria c'è una stregoneria che uccide, un perverso incantesimo che nei libri degli Antichi è chiamato Radiazione». «Ah», borbottò Ombra, preoccupata. «Bene, allora cerchiamo la Sala della Potenza, amico. Ma facciamo presto, che questo posto mi dà i brividi». Muniti di lampade ad olio i tre percorsero vasti corridoi e scesero rampe di scale. L'architettura degli Antichi era pesante e solidissima, ma cupa, e vi dominavano i motivi ornamentali di carattere animale. Intorno alle colonne si torcevano serpenti di bronzo, le arcate erano sostenute da draghi di pietra o da tori possentemente costruiti, e molte delle porte principali erano a forma di bocche di sauriano irte di denti. Yarmax indicò alla due ragazze numerosi magazzini, dove Goccia di Fiamma riconobbe file di macchinari identici a quelli che aveva già visto altrove. C'erano centinaia di bianchi unicorni nella cui bocca erano contenute le sferette cristalline, dozzine di cubi metallici privi di ornamenti, pile di casse entro le quali erano imballati altri marchingegni, scaffalature interminabili, ed uno
stanzone in cui stavano almeno duemila statue a grandezza naturale raffiguranti Alybrea. Gothar Yarmax spiegò che l'estrema somiglianza di quelle effigi non era casuale, poiché secondo le antiche storie tutte le Stelle Nere avevano fattezze identiche. Il locale adiacente era colmo delle apparecchiature per vedere a distanza tramite i loro occhi, e che si potevano collegare alle statue secondo istruzioni scritte sui manuali. Al secondo livello, di cui non videro che una piccola parte, c'erano quantità ancora maggiori di macchine che a detta di Yarmax nessuno aveva mai provato ad usare. Per avere una vaga idea delle loro funzioni sarebbero occorsi molti anni di studio. Ombra e Goccia erano meravigliate dalla vastità di quegli ambienti, collegati da interminabili gallerie prive di polvere dove regnavano l'oscurità ed il silenzio. Per raggiungere il terzo livello occorsero ben due clessidre di marcia a passo svelto, e discesa un'ultima scala si trovarono di fronte ad una grande porta metallica ermeticamente chiusa. «Qui dentro sono entrati soltanto Siptah e Alybrea», disse Gothar Yarmax eccitato. «E tutto quello che so è che vi scendono insieme, sempre, quasi che intendano tenersi sotto controllo reciproco. Dev'essere un luogo molto importante per loro. Vogliamo aprire?» Ombra di Lancia poggiò il castone dell'anello sul segno corrispondente, ed il battente si divise in due parti che rientrarono nelle pareti. Davanti a loro c'era un salone largo appena dieci passi ma lungo oltre cento, privo di altre uscite, vivamente illuminato da una luce rossa che emanava dai macchinari. Le due Amazzoni e l'ex Dottore dell'Oscuro esitarono sulla soglia, incerti e preoccupati. «Non mi piace», disse Ombra, indietreggiando. «Qui c'è l'odore di qualcosa d'infernale. Sembra l'ingresso di un mondo dove regnano i dèmoni». Goccia di Fiamma la esortò a non dire sciocchezze, e per dimostrarle che il demonio non aveva nulla a che fare con quei congegni avanzò con indifferenza sul passaggio centrale. Allineati lungo le pareti c'erano venti grossi cubi d'una sostanza trasparente come il cristallo, dieci per lato, e dentro di essi pulsava una luce color rubino che sembrava fluida o addirittura liquida. Da ciascuno usciva un tubo del diametro di una coscia umana che s'immergeva obliquamente nella roccia retrostante, dando l'impressione che la luce rossigna scorresse dai massicci cubi verso altre macchine nascoste oltre le pareti. L'unica cosa che non fosse di cristallo era l'emblema della Stella Nera sulle loro facce anteriori.
«Queste devono essere le fonti che trasmettono potere ad Alybrea e a macchinari portatili», disse Yarmax. «Ciascuno dei cubi ha una sua funzione specifica. Osservate quella isolata, sulla parete di fondo: è l'unica su cui c'è una stella dorata». «Che può significare?» chiese Ombra, seguendoli con cautela. «Venti congegni riguardano i poteri della Stella Nera, mentre uno solo, il più piccolo, è collegato alla stellina che la Khoiné porta sul palmo della mano». Gothar Yarmax aveva risposto dopo un'attenta riflessione. Annuì più volte. «Mi sembra chiaro. Il piccolo cubo in fondo alla sala presiede all'unico potere della Stella d'Oro, ovvero ai macchinari che sollevano dal fondo del mare la Strada Sommersa». «Se è così, sarà il solo che lasceremo intatto!» dichiarò Goccia di Fiamma seccamente. «Dammi la spada, sorellina!» Prima che Yarmax potesse fermarla, la ragazza tolse l'arma alla compagna e andò ad abbatterla sulla superficie del cubo più vicino. Non accadde nulla, perché la spada vi rimbalzò come se avesse urtato del solido metallo. «Sei pazza!» gridò l'uomo. «Se quella fiamma maligna esce dalle macchine moriremo tutti. Smettila!» Goccia non gli diede ascolto e lasciò andare un colpo violento sul tubo che univa l'oggetto cubico alla parete. Stavolta il cristallo si schiantò, volarono le schegge, e nell'interno del macchinario la luce rossa si spense. Ma non accadde nient'altro. Senza badare alle imprecazioni e agli avvertimenti di Gothar Yarmax, l'Amazzone andò a spaccare le tubature vitree delle venti strane macchine. Nel grande locale restò infine la sola luce emanata dal tubo segnato con l'emblema della Stella d'Oro, ed i tre corsero fuori. «Chiudi la porta, Yarmax, se sai come si fa», disse Goccia di Fiamma. «E non fare quella faccia. Di queste tue macchine a me interessa una sola caratteristica, la più importante: che quando le mandi in pezzi non possono più nuocere alla gente. Chiaro?» Tornati di sopra i tre furono informati che Gjoser Thalloj aveva sterminato i Dottori dell'Oscuro residenti a Tor Vanora, una cinquantina in tutto. Teclus Faserjeb era riuscito a riportare dall'Aldilà non meno di tremila individui, i quali s'erano sparsi per la città di Sothana armati nei modi più disparati e decisi a giustiziare altri accoliti di Siptah. Si prevedevano esecuzioni in massa. «Molto bene, lasciamo fare a lui», fu il commento di Ombra. «Ora vorrei dormire un poco, altrimenti crollerò».
A metà del pomeriggio le due Amazzoni vennero svegliate da Cobal Gavelord, e lo Shang riferì loro che stavano succedendo cose molto spiacevoli. A quanto sembrava, il mercante Gjoser Thalloj s'era arrogato le funzioni di giudice e di carnefice e stava compilando liste interminabili di individui da eliminare. In città c'erano già più di mille cadaveri ammucchiati nelle piazzette, mentre pochissimi Dottori dell'Oscuro erano riusciti a fuggire verso i paesi vicini. «Spiacevole, ma inevitabile», sbadigliò Goccia. «Niente affatto! Questo individuo ne sta approfittando per far uccidere numerosi suoi concorrenti e nemici personali, che non hanno altra colpa se non quella d'essergli antipatici». «Non vedo cosa potremmo farci», stabilì Ombra, indifferente. «Andiamo a mangiare qualcosa, sorellina? Mi sembra un'eternità che non mangio decentemente. Com'è il vino, da queste parti?» Al primo piano del castello c'erano le cucine, e le due ragazze si trattennero lì fino a sera, prima per dare suggerimenti ad un cuoco, poi per farsi un bagno intanto che costui lavorava, e quindi per il pasto che venne annaffiato da un paio di vinelli di produzione locale. Fuori era buio da un pezzo quando apparve Laerne che rientrava trafelato da Sothana. Il vecchio raccontò che la popolazione s'era chiusa nelle case, e che Gjoser Thalloj aveva fatto massacrare quasi quattromila persone. «Non lo si può accusare d'essere uno scansafatiche», annuì Ombra, un po' alticcia. «Bevi un sorso di questo nettare, nonno. Stavo dicendo a Goccia, qui, che se fosse un filo più alcolico sarebbe perfetto. Magari invecchiandolo in botti di rovere acquisterebbe ancora qualcosa. Tu che ne pensi? Bevi, bevi, che ne hai bisogno. Stai allegro!» Dopo cena Goccia insisté per visitare le cantine del castello avendo saputo che i Dottori distillavano un liquore molto forte dall'uva del posto e che miscelavano elisir aromatici estratti dalle erbe. Ci vollero tre clessidre prima che le ragazze si facessero una concreta idea dell'industria vinicola locale, ma le loro esplorazioni furono interrotte ancora da Cobal Gavelord. «Gjoser Thalloj è stato assassinato!» annunciò lo Shang. «Teclus Faserjeb gli ha fatto mozzare il capo, e la plebe lo ha acclamato Tiranno della città o qualcosa del genere. Le strade sono rosse di sangue. C'è l'ordine di emigrare in massa a nord-ovest, verso Capo Vela». «Aiutaci a portare di sopra queste giare, ragazzo. Prendi quella piccola e attento a non romperla, eh?» lo incitò Goccia.
A metà della notte ci fu un piccolo terremoto, e le scosse furono deboli ma lunghe e numerose. Nel salone delle mensa del castello Laerne cadde a terra, fracassando un'arpa che stava cercando di suonare. Ombra suggerì che sarebbe stato prudente tener salde le giare di vino, e Goccia di Fiamma mostrò a Cobal certe sue vecchie cicatrici raccontandogli la storia di ognuna di esse. Poco più tardi giunsero alcuni uomini pallidissimi e spaventati, affermando che la costa di Yaya Dhuba era sprofondata in mare di oltre due braccia. Tutta la parte bassa di Sothana era allagata, e la gente fuggiva verso settentrione. «La situazione è seria», riconobbe Ombra. «Spero che non vengano a far baccano da queste parti. Vuoi smetterla di farti vedere mezza nuda da quel satiro dalla pelle verde, sgualdrina?» Goccia s'alzò in piedi traballando. «Sgualdrina a chi? Guarda che ti spacco la bottiglia in testa, piratessa dei miei stivali!» Cobal Gavelord versò ancora da bere ad entrambe, per farle calmare. Subito dopo però le due Amazzoni si abbracciarono e si giurarono eterno affetto ed amicizia. Lo Shang le condusse a letto. «Domattina si parte per Lahaina», decise Ombra in un ultimo barlume di lucidità. «È lì che dobbiamo andare, caro Cobal, prima che tutto il dannato continente finisca in fondo al mare. D'accordo?» VERSO LA STRADA SOMMERSA Lasciarono la costa dello Yaya Dhuba ancor prima dell'alba, su un robusto carro trainato da sei scattanti cavallini pezzati che Gothar Yarmax era riuscito a procurare loro quasi per miracolo. Colonne di veicoli stavano già viaggiando verso settentrione, seguiti e affiancati da file interminabili di gente che procedeva a piedi. Un'intera popolazione, della quale Goccia ed Ombra non avevano fatto in tempo a conoscere neppure le usanze e il carattere, emigrava sulla strada che conduceva alla lontana Terra di Balkesir, verso un futuro incerto e probabilmente difficilissimo. La parte iniziale della Pi,sta Deoghar, diretta ad occidente, era stata bloccata da numerose frane sulle montagne, e per raggiungerla le due Amazzoni e Cobal Gavelord dovettero compiere un largo giro per un'altra via. Tutta la mattina fiancheggiarono carri e carretti stracolmi di masserizie, appollaiati sui quali bambini e bambine dai capelli nerissimi agitavano le mani in segno di saluto. La gente si portava via tutto ciò che aveva, compresi gli animali da cortile, le greggi, la misera mobilia e lo scarso
cibo che avevano avuto in casa. Nessuno si lamentava troppo. I capifamiglia tenevano lo sguardo fisso in avanti con più rassegnazione che coraggio, e qualunque idea avessero professato prima adesso speravano soltanto nei poteri di una fanciulla chiamata la Khoiné, della quale non si sapeva neppure se era viva oppure morta. A Goccia di Fiamma fecero una gran pena, e quasi fu felice di non vederli più quando uscirono di strada per girare dietro alle montagne. Il viaggio verso Lahaina, situata al centro del continente, richiese sette giorni. Durante i primi tre attraversarono una regione arida e accidentata, dove la vegetazione era scarsa e l'acqua del tutto assente. Fra le rupi vivevano serpenti dalla pelle coriacea, enormi scorpioni rossicci e lucertole di tutte le specie, alcune delle quali lunghe quanto il carro e lentissime di movimenti. Il quarto giorno costeggiarono le Plaghe di Roth, un'immensa palude malarica posta fra catene di colline verdeggianti, e quindi dovettero guadare un fiume che scorreva verso sud, dove poterono rifornirsi d'acqua potabile. Al di là di esso iniziava la pianura centrale del Gondwana, erbosa e spazzata dal vento. La pista sembrava rimpicciolire verso l'orizzonte, diritta e senza fine. Tutti i giorni ci furono molte scosse di terremoto, alcune delle quali così forti da far ballare il veicolo sulle ruote. Trecento leghe ad occidente di Sothana, quando Goccia calcolava che ne restassero appena una cinquantina per giungere a destinazione, attraversarono un paese deserto e abbandonato, le cui case avevano subito gravi danni dalle scosse telluriche. Era l'imbrunire, e visto che nella zona c'erano pozzi d'acqua le due Amazzoni decisero di pernottare lì e di far riposare i cavalli. Stavano ispezionando le abitazioni rimaste in piedi in cerca di un locale dove stendersi a dormire, allorché Ombra vide una lanterna accesa in un tugurio dal tetto di fascine, ed entrando scoprirono un vecchio contadino avvolto in coperte fatte di lana grezza. L'uomo assunse un'aria spaventata nel vederle comparire. «Calmati, brav'uomo. Siamo amici». Ombra alzò le mani in gesto rassicurante, guardandosi intorno. «Sei rimasto solo tu, qui?». Il vecchio si ritrasse, addossandosi al muro scabro, e i suoi occhi cisposi fissarono le intruse con ostilità. «Non c'è nessuno. Nessuno. Io voglio restare qui. Capito?». «Se preferisci restare, è tuo diritto. Ma gli altri dove sono? E perché hanno fatto fagotto?». L'uomo grugnì qualcosa d'incomprensibile. Dopo aver bofonchiato un po' fra la barba si decise a rispondere: «Andati. Andati via».
«Vuoi dire che sono partiti verso Achelòs? Verso la Terra di Balkesir? È così?». «Achelòs!». Il vecchio sputò a terra con disgusto. «Sicuro. Per finire tutti ammazzati. L'uomo venuto dalla città del Re li ha fatti partire. Anche i miei figli. Tutti». «Dunque è venuto un corriere da Lahaina!» esclamò Goccia, eccitata. «Cosa vi ha detto? Rispondi!». L'altro fece una smorfia. «Molti uomini a cavallo sono andati verso le montagne del Dalhari, nel Garness, giù nel Falaise. Dicevano che la gente doveva andare in Achelòs. Ma io non vado via. La mia terra non la lascio. Porci! Lasciatemi stare!». Le due ragazze si scambiarono un'occhiata e uscirono, dopo avergli augurato buona fortuna. L'altro non rispose neppure. Il giorno successivo la Pista Deoghar deviò lungo una serie di collinette, oltre le quali trovarono due cittadine di campagna abbandonate dagli abitanti. Anche qui le case apparivano gravemente danneggiate dal terremoto. Da un esame delle tracce risultò che la partenza era avvenuta almeno cinque giorni prima, ed era stata un'evacuazione ordinata. «Credo che sia buon segno», commentò Goccia, pensosa. «Ma non ne sono troppo sicura, lo confesso. Ho paura. Darei non so cosa per sapere cos'è accaduto a Lahaina». Ombra e Cobal si strinsero nelle spalle. Il fatto che la gente si fosse decisa ad emigrare, dissero, poteva esser dovuto semplicemente ai continui terremoti, alla vaga speranza di trovare un imbarco sulla lontana costa settentrionale, o comunque alla certezza che il Gondwana stava sprofondando proprio come dicevano le antiche profezie. «È vero», mormorò Goccia. «Perfino i Dottori, a Sothana, credevano alle antiche storie. Tutti sperano nella Strada Sommersa, e tutti sanno che è venuto il momento di partire». «Certo, sorellina». Ombra frustò i cavalli, accigliata. «Ma non farti illusioni. Babeeri e Yaan sono sicuramente ancora nelle mani di quei due. In quanto al popolo... Bè, il popolo spera negli Dèi, prega e si mette in viaggio. Non può far altro». La mattina dopo, verso il mezzodì, avvistarono Lahaina. Dappertutto s'estendevano campi che erano stati mietuti di recente, e le fattorie erano numerose, ma in giro non si vedeva un'anima viva. La città era bianca, una lunghissima linea di edifici candidi che dalla distanza di cinque leghe dava appena un'idea della sua reale estensione.
Quando Goccia di Fiamma commentò che non aveva mai visto una metropoli così vasta, Cobal annuì gravemente. «Fin dall'antichità si narra che Lahaina non abbia paragone al mondo, o Amazzone», la informò. «Le bianche cupole dei suoi templi svettano verso il cielo, è fiorita di torri e di palazzi incomparabili, e si dice che perfino i poveri abbiano residenze regali». «A me sembra che il terremoto l'abbia danneggiata spaventosamente. Guardate la periferia: case crollate a centinaia. La popolazione se n'è già andata, amici miei. Lahaina è un colossale scheletro bianco adagiato sulla pianura», disse Ombra con una smorfia. I tre viaggiatori s'accorsero ben presto che quella constatazione corrispondeva in pieno alla realtà. Candida e meravigliosa, piena di palazzi altissimi che parlavano di un passato fiabesco, la città conosceva ora il drammatico epilogo della sua storia: gli abitanti l'avevano lasciata, e nei suoi grandi viali stagnava il più assoluto silenzio. Soltanto il freddo vento che soffiava nella pianura si muoveva in quella desolazione, accarezzando i marmi nivei degli edifici e sospirando nelle strade deserte. La zona periferica aveva subito le conseguenze peggiori del sisma, mentre quella centrale assai più antica e solida era per contro quasi intatta. Il tempio più alto aveva la forma di un'imponente piramide a gradini, simile ad uno ziggurath sumerico salvo che per i colonnati marmorei che lo incoronavano a vari livelli, e fu in quella direzione che Ombra spronò i cavalli. Lasciatesi alle spalle le macerie e le viuzze ingombre di rottami dei sobborghi, il veicolo poté procedere liberamente al centro d'un vialone alberato lungo oltre due leghe, così largo che un esercito avrebbe potuto sfilarvi in parata. Ai lati c'era un susseguirsi di dimore sontuose, dalle finestre ovali, quasi per nulla danneggiate. «Questi devono essere i palazzi della nobiltà», osservò Goccia. «Direi che l'evacuazione è avvenuta anche qui cinque o sei giorni fa. Sotto le macerie della periferia devono esserci ancora molti cadaveri». Ombra annuì distrattamente, osservando stupita le grandi case. Attraversata una piazza svoltarono in un altro viale, senza alberi, limitato da cancellate oltre le quali c'erano prati e piccoli edifici. «Siamo venuti qui per niente!» esclamò Goccia. «Un viaggio inutile... Oh, Dèa!». L'Amazzone tacque, sconfortata. Poco più avanti, prima che la strada sboccasse su quella che sembrava la piazza centrale di Lahaina, videro sulla cancellata quelli che a colpo d'occhio si sarebbero detti stracci neri. Da vicino risultarono invece essere
un'ottantina di cadaveri, barbaramente infilzati sulle sbarre. Era senza dubbio l'opera di una folla inferocita. «Dottori dell'Oscuro!» si stupì Ombra. «Benone. Sembra che qui la rivoluzione sia andata avanti anche senza bisogno del tuo personale intervento, sorellina. Su col morale!». «Rallenta. Vedo del fumo, là in fondo». La piazza antistante il colossale tempio piramidale era ingombra degli oggetti più svariati, compresi alcuni carri semidistrutti, ed in un angolo i tre amici videro un gruppetto di cavalieri che s'erano fermati a bivaccare sul selciato. Erano una trentina, vestiti di pelli ed armati fino ai denti, ed il loro aspetto selvaggio suggerì alle Amazzoni di tener pronte le spade. Quando videro arrivare il carro smisero di bere e di chiacchierare, e uno di essi si fece avanti pigramente, alzando un braccio. «Ferma!» ordinò. «Chi siete e dove andate? Scendete subito!». Goccia di Fiamma saltò giù dal veicolo e lo fronteggiò qualche momento con un sorrisetto, poi gli passò accanto e s'avvicinò al gruppo che sedeva intorno al fuoco. Raccolse una delle loro giare di coccio e bevve una lunga sorsata, fissando i guerrieri. «Alcol puro, eh?» commentò, pulendosi la bocca. «Dalle mie parti esiste un solo modo per capire se un uomo ha sangue nelle vene: guardare che razza di veleni beve. Fatemi posto, lupi!». Le sue parole scatenarono risate e apprezzamenti volgari, e la ragazza sedette presso il bivacco chiedendo a gran voce che le dessero un pezzo della loro carne arrosto. Si presentò, rispose ridendo alle battute un po' rozze dei militi e bevve ancora, domandando il nome a questo e a quello. Ombra di Lancia era intanto scesa a parlare con l'individuo che doveva essere il loro capo, non meno irritata di lui per l'atteggiamento come al solito sfrontato della compagna. «Siamo viaggiatori e veniamo dallo Yaya Dhuba», gli disse, rispondendo alle sue domande. «Non mi aspettavo di trovare la città deserta e semidistrutta. Anche voi siete stranieri, vero?». Il suo atteggiamento conciliante rabbonì un poco l'uomo, che grugnì un assenso. Il suo nome era Shanjdar Mironak, capo d'una tribù di nomadi che vivevano nella zona meridionale di Freneze, nell'Aladjr. Disse che si trovava a Lahaina da venti giorni, e che in quel momento stava aspettando il resto della sua gente, in arrivo dal sud. Ombra osservò quei guerrieri con interesse. «Non sapevo che anche le tribù dell'Aladjr avessero deciso di emigrare».
«Nemmeno io, fino a pochi giorni fa», borbottò Mironak, la cui faccia barbuta sembrava capace d'esprimere solo sentimenti scorbutici. «Ci eravamo trattenuti per l'incoronazione. La notizia che i Principi Nomadi della mia terra erano in viaggio è stata portata da un piccione viaggiatore, ancora prima che qui andasse tutto in vacca. Hai del tabacco con te?». Ombra prese dal carro una treccia di tabacco e stappò anche una giara di vino. «Bevi con me, Shanjdar Mironak. Ti confesso che vedere Lahaina così ridotta mi stupisce molto. Cos'è accaduto? La Stella Nera si è davvero fatta incoronare Regina?». Usando il vino e le buone maniere Ombra s'accinse a far uscire di bocca al guerriero tutto quello che sapeva, mentre dal canto suo Goccia compiva la stessa operazione col resto dei soldati e ne approfittava per riempirsi lo stomaco. Ciò che le due ragazze seppero non mancò di meravigliarle. Mironak rivelò che non c'era stata nessuna incoronazione. Nel giorno stabilito da Alybrea per la cerimonia la città era ancora sconvolta per il recente terremoto, e fra la popolazione serpeggiava il vento caldo della rivolta. Quel mattino, oltre diecimila soldati di Achelòs avevano costretto i cittadini a recarsi in piazza per rendere omaggio alla nuova sovrana, ma da lì a poco Mironak e i suoi uomini avevano visto scoppiare disordini e tafferugli. «Vuoi dire che il popolo si batteva contro i soldati?» «No. Disordini al Palazzo Reale. Quello laggiù». L'uomo indicò la cupola di un grandioso edificio che sorgeva piuttosto lontano. «E poi i soldati già meditavano di ribellarsi ai Dottori. Avevano saputo che la Khoiné era in città, capisci? Questo li fermò. E dopo il fatto si schierarono con la cittadinanza». «Quale fatto?». Mironak sputò a terra un grumo di tabacco, e poi le rivolse un sorriso truce. «Non lo sai? La strega nera ha perduto i suoi poteri magici. Tentò di scatenare il suo dannato gelo contro i nobili, a palazzo, e non ci riuscì. Anche le macchine infernali dei Dottori non funzionavano più. Lei e la sua cricca si sono trovati senza le braghe tutto d'un colpo, e proprio sul più bello». «Come ve ne siete accorti?». «Te l'ho detto, no? Quei nobili di Lahaina e delle altre nazioni che si trovavano a palazzo si misero a gridare che volevano la Khoiné, che era prigioniera in qualche stanza interna. I soldati li cacciarono fuori, ma intanto tutti avevano visto che la magia di Alybrea aveva fatto cilecca, e
uscirono a dirlo al popolo. A metà mattina poi venne in piazza quel Siptah, su un balcone, e la folla lo prese a sassate. Io non c'ero. Mi trovavo qui, all'Altare della Stella, ma ho saputo che una dozzina di altri Dottori uscirono per colpire la gente con le armi a forma di tubo, quelle che gettano la nebbia di ghiaccio». «E allora, cos'è successo?». L'uomo raccontò in poche parole che quei marchingegni non avevano funzionato, e che quando la folla se n'era accorta aveva sfondato le porte del palazzo, dove già i nobili ed alcuni ufficiali erano entrati e stavano combattendo. I Dottori avevano tentato di fuggire da alcune uscite posteriori, ma erano stati bloccati nel dedalo di viuzze dietro la piazza e immediatamente impalati sulla cancellata del viale. All'ultima fase di questo episodio avevano partecipato anche Mironak e i suoi uomini, con loro gran divertimento. «Poi tornammo tutti indietro in cerca della Khoiné, e venimmo a sapere che quel verme nero di Siptah l'aveva fatta salire su una carrozza per fuggire fuori città con lei. La sua idea era di usarla come ostaggio, mi spiego? Però gli andò male, perché non arrivò neppure in fondo alla strada. La sua fu una mossa disperata, ma certo anche stupida». Ombra fremeva, ansiosa di saperne di più. Shanjdar Mironak bevve un'altra sorsata e ruttò cupamente, soddisfatto. «Dunque ci portammo sul posto, e trovammo la carrozza in mano alla gente. In un baleno la rovesciarono. Tutti gridavano che Alybrea aveva cercato di suicidarsi, o che era morta, o che era impazzita, e non si capiva più niente. Mentre mi facevo largo, i popolani tirarono fuori dalla carrozza Siptah e lo fecero a pezzi, uccidendolo sul momento. Allora sai che cosa ho fatto?». «Dimmelo tu», lo incitò lei. «Vedi queste mani? Ho preso la Khoiné da dentro i rottami del veicolo e l'ho tirata fuori, io con queste mani, ragazza! Chiedilo ai miei, se non ci credi. Subito dopo i cittadini la portarono in trionfo fino al palazzo. La fanciulla era spaventatissima, sembrava un cencio lavato, ma ci mise poco a riaversi. Tutta la città era nelle strade e qui in piazza. Tutti volevano vederla e toccarla. Che confusione!». «È sana? Sta bene?» chiese Ombra. «Sta meglio di me e di te. Dopo il mezzodì, quando in Lahaina non c'era rimasto un solo Dottore dell'Oscuro ancora in vita, io ero in quell'angolo laggiù e l'ascoltai parlare al popolo. Non disse molto, e che si doveva partire ormai lo sapevano già tutti. Però, se tu avessi sentito che silenzio: i
soldati di Achelòs, oltre diecimila, erano in ginocchio ai suoi piedi. Partirono tutti la sera stessa o di notte, dopo la grande cerimonia, e il giorno successivo la cittadinanza cominciò l'evacuazione della città». Ombra annuì accigliata, cercando di digerire quelle notizie riferite così sinteticamente. Shanjdar Mironak le narrò anche della cerimonia svoltasi al tramonto, durante la quale Babeeri era salita a piedi su per l'interminabile scalinata che portava sulla cima dell'Altare della Stella. «Mio padre una volta mi disse che non si va a Lahaina senza assistere al rito annuale della Khoiné, e aveva ragione. In piazza non c'era neppure lo spazio per grattarsi, e non si sentiva volare una mosca mentre la ragazza saliva pian piano fin lassù. Le occorse una clessidra di tempo, con alle costole una schiera di nobili vestiti di bianco come lei. E poi, quando arrivò lassù in cima... bene, da restare a bocca aperta, signora mia. Proprio come raccontava il mio vecchio!». Mironak fece una pausa e scosse il capo, ridacchiando fra sé. «Era tutto buio e non si vedeva un accidente», continuò. «Ma di botto lassù in alto si accese una luce d'oro, una grande stella, più grande e più luminosa della luna. Uno spettacolo! Credevo che la gente avrebbe gridato, e invece niente, nessuno disse una parola. E lo sai perché? Te lo dico io: perché quando la Khoiné fu sull'Altare e fece accendere la sua stella tutti piangevano come agnelli da latte. Trecentomila persone che frignavano tutte insieme. Non era una cosa da guerrieri, così ho portato i miei in una taverna e ci siamo sbronzati!». L'uomo disse ancora che il popolo s'era messo in marcia molto in fretta, e che a quell'ora forse i primi scaglioni stavano già passando i confini di Achelòs. A sentir lui, nella penisola chiamata Terra di Balkesir ci sarebbe stato un affollamento spaventoso. «Milioni di persone ammucchiate là», brontolò. «Noi arriveremo fra gli ultimi. Ma non mi dispiace andarmene, alla fine. Io sono un nomade, e per me un posto vale l'altro. Però qui in Lahaina mi sono divertito. Bella città. Peccato che adesso è un cimitero». Ombra si volse ad osservare l'immensa piramide a gradini. Era uno ziggurath a cinque livelli, su ognuno dei quali sorgeva un perimetro di colonne. La scala anteriore era così lunga che salirla doveva essere faticoso, e sulla cima piatta, fra quattro colonne, c'era la pietra chiamata Altare della Stella. L'Amazzone sbatté le palpebre, si sfregò gli occhi e guardò meglio, poi imprecò stupefatta. Lassù, in mezzo alle colonne, quella che aveva dapprima scambiato per una statua era una figura femminile dai capelli che
svolazzavano al vento. Goccia di Fiamma le era corsa accanto, esclamando qualcosa che lei sentì a stento, e poi anche Shanjdar Mironak alzò un dito ad indicare la sommità della piramide. «Sì. È proprio Alybrea in persona. Sta in piedi sopra l'Altare da cinque giorni, senza spostarsi d'un capello. È salita lassù la mattina dopo i fatti che ti ho raccontato, e nessuno ha avuto il coraggio di avvicinarla. Dicono che sia impazzita del tutto. Credo anch'io che sia così, perché una persona sana di mente non si comporta a questo modo. Meglio starle alla larga». «Sangue d'un demonio!» ansimò Goccia di Fiamma. «Ma è incredibile. Perché è andata lassù?». Shanjdar Mironak si strinse nelle spalle, commentando che la Stella Nera era nelle mani degli Dèi, come tutti i folli. Ombra era incapace di spiccicar parola per la sorpresa. Le due Amazzoni stabilirono di avvicinare la ragazza, e ignorando il parere contrario dei militi e di Cobal Gavelord intrapresero subito l'ascesa. Vista dall'alto Lahaina era splendida malgrado le devastazioni. A nord ovest era visibile l'immensa distesa del Bassopiano Ringel, ed a meridione si scorgevano catene di montagne azzurrine per la lontananza. Quando Goccia di Fiamma abbassò gli occhi verso la piazza ebbe l'impressione che la lunghissima e ripida scalinata strapiombasse quasi verticalmente, e rabbrividì per la vertigine. Sul vertice del monolitico tempio c'era spazio appena per una ventina di persone. Alybrea era in piedi sulla grande lastra centrale e teneva gli occhi fissi nel vuoto come una sonnambula. Non diede alcun segno d'essersi accorta del loro arrivo. Avvolta in uno dei suoi mantelli intessuti d'argento, la fronte cinta dalla coroncina che portava abitualmente, la giovanetta bruna dava l'impressione d'essere priva dell'anima, simile ad una marionetta con la quale gli Dèi si fossero stancati di giocare. Ombra di Lancia le andò di fronte e le fece sollevare il mento con un gesto cauto, ma le pupille dell'altra rimasero opache. «Alybrea... mi puoi sentire? Mi vedi?». «Ti vedo», sussurrò subito lei, ma con voce vuota. Dopo aver pronunciato quelle due parole, la ragazza piegò le gambe e s'afflosciò di colpo al suolo. Goccia si chinò a toccarla, le sollevò il capo, le sfiorò attentamente le vene del collo e poi mormorò un'imprecazione: «Santo cielo!... Il suo cuore si è fermato, Ombra. È morta!». «Povera creatura!». La compagna scosse il capo con un sospiro. «Provi compassione per lei?».
«Mi fa pietà. So io cosa significa essere sotto l'effetto dello Xian, e a lei lo facevano bere fin da bambina. Non le hanno dato una sola possibilità di diventare donna, di vedere la realtà com'è, di vivere. Il suo unico modo per sfuggire alla follia che aveva dentro era questo». L'Amazzone fissò il corpo inerte per qualche momento, accigliata. «E quando si è accorta di non avere più i suoi strani poteri, qualcosa in lei dev'essersi spezzato. È venuta quassù per morire... Per morire sull'Altare dove soltanto sua madre e sua sorella potevano salire. Lei aveva la stella sbagliata!». «Vuoi lasciarla qui?». «Sì. Questo è il posto che si è scelto. Andiamo via, sorellina». Ombra si volse bruscamente e cominciò a discendere la grande scalinata di marmo bianco. Tornate sulla piazza le due ragazze riferirono ai militi dell'Aladjr quel che era successo, e poi decisero di partire subito verso settentrione. Si fecero dare carne e frutta fresca, lasciando loro in cambio del vino e un sacco di farina, e mentre Cobal Gavelord si stendeva a dormicchiare sul pianale del carro Goccia fece schioccare le redini sulle schiene dei cavalli. Prima del tramonto di quel giorno, la candida città che per millenni era stata il cuore del Gondwana era scomparsa nella foschia alle loro spalle. La pista s'inoltrò nella verde desolazione del Ringel. Per cinque giorni il veicolo attraversò a buona velocità lo sterminato bassopiano erboso, finché all'orizzonte comparvero le colline coperte di boschi che indicavano il confine meridionale dell'Achelòs. Qui Ombra di Lancia suggerì che sarebbe stato meglio evitare la città di Shorn e deviò a destra in cerca di un passo transitabile, sapendo che la Terra di Balkesir era più a oriente. Cobai s'era rimesso dalle prime conseguenze della sua ferita, e le due Amazzoni erano tranquille, talvolta euforiche, perché quello che avevano iniziato era il loro viaggio di ritorno verso casa. Appena oltrepassate le colline cominciarono ad incontrare i profughi, colonne e colonne di veicoli e carovane di animali da soma, diretti a oriente. Si trattava, come videro quando presero a superare i più lenti, di gente che veniva in parte dalla lontanissima Falheire e di altri appena sfollati dalle cittadine costiere dell'Achelòs, e da essi seppero che tutti gli emigranti del Tall-Varna erano già accampati in qualche luogo più avanti. Per tutto il giorno il carro si tenne a lato della fila, sorpassando migliaia d'altri mezzi di trasporto, ed a sera i tre viaggiatori si fermano sulla costa settentrionale. Cenarono parcamente in compagnia d'un centinaio di profughi, osserva-
rono il mare ed ascoltarono i loro discorsi. L'argomento di cui si parlava ovunque e fino alla nausea era la Strada Sommersa, sulla quale si raccontavano a iosa leggende, misteri e fatti accaduti. Non mancava chi aveva paura d'avventurarvisi, o chi si dichiarava dubbioso della sua reale esistenza. A Babeeri, la giovane Khoiné miracolosamente tornata per sconfiggere i malvagi e salvare il popolo dal cataclisma, si accennava come a una Dèa in sembianze umane. Di lei si diceva che fosse d'una bellezza celestiale, che potesse resuscitare i morti con uno sguardo, che mutasse le pietre in oro, che volasse come un angelo e che parlasse per enigmi come un oracolo. Goccia di Fiamma non si sarebbe stancata mai di stare a sentire le fantasticherie del popolino, che la divertivano e l'affascinavano. La Terra di Balkesir era una penisola triangolare lunga trenta leghe e larga altrettanto, e la strada proveniente da Shorn girava al centro di essa per deviare ancora a nord verso Capo Vela. Fin dal momento in cui vi giunsero i tre amici s'accorsero che il percorso scorreva al centro d'un vastissimo attendamento. Dovunque voltassero lo sguardo non vedevano altro che gente accampata, bivacchi, tende d'ogni colore e dimensione, e soldati che si muovevano fra gli emigranti per mantenere una parvenza d'organizzazione. A mezzodì, secondo un calcolo di Ombra, avevano oltrepassato non meno di quattro milioni d'individui, tutti in attesa che venisse dato il segnale della partenza e divisi in gruppi forniti ciascuno del numero d'ordine. Più avanti dovevano essercene altrettanti. «Mi domando perché mai sostano così a lungo», disse Goccia di Fiamma. «I primi devono essere arrivati qui parecchi giorni fa». «Aspettano il loro turno. E poi non scordarti che Babeeri è giunta solo da due giorni», le rammentò Ombra, riferendosi a quanto avevano saputo la sera prima. Il carro continuò a procedere sulla strada lasciata libera dagli emigranti fino ad un incrocio. Qui i soldati smistavano i nuovi arrivati su percorsi laterali, e le Amazzoni furono informate che avrebbero trovato un posto per sostare alla bella distanza di sei leghe da lì. «Un momento, amico», disse Ombra al militare che la stava incitando a sgombrare. «Noi dobbiamo proseguire. Siamo attesi». «Ah, sì?» berciò l'uomo. «Allora andate a piedi. Non c'è posto neanche per un carro in più, da qui fino alla punta di Capo Vela. Muovetevi, che state ostruendo la strada». Prima che l'Amazzone potesse rispondergli, l'Ufficiale di servizio al posto di blocco si voltò ed emise un grido:
«Maledizione! Dove accidenti sei stata fin'ora?». A Goccia di Fiamma parve di riconoscerlo come uno dei due militari che erano sul carro del nobile di Esperdale, quelli che avevano incontrato sulla Pista Deoghar il mattino in cui s'era diretta al villaggio dei Grisloj. L'uomo corse a togliere il palo che sbarrava la strada, poi chiamò a gran voce una pattuglia di soldati a cavallo. «Avvertite immediatamente il Re Schiavo e la Principessa Janora che l'Amazzone è arrivata!» lo sentirono strillare. Quindi tornò al loro veicolo e vi saltò sopra, stravolto per l'eccitazione. «Frusta quei cavalli, ragazza!» ordinò. «Dio degli Dèi, vuoi farci impazzire tutti, tu? Facciamo presto!». «Cos'ho fatto di male?» domandò Goccia sbalordita, mentre Ombra di Lancia incitava i cavalli oltre lo sbarramento. «Cos'ha fatto, mi viene a chiedere!». L'uomo alzò gli occhi al cielo, agitatissimo. «Tharma Ganovash sta ululando come un lupo da due giorni. Ci sono pattuglie che ancora ti cercano per tutta la costa orientale, nessuno può muoversi da qui per colpa tua, e tu mi chiedi cos'hai fatto! Sarà un miracolo se il Re Schiavo e la Principessa Janora non ti mangiano viva, ragazza mia!». Visto che Goccia, Ombra e Cobal lo fissavano ad occhi sgranati, l'Ufficiale si decise a ringhiare una spiegazione: «Tutti stanno aspettando te. C'è l'ordine di rintracciarti e di portarti quanto prima alla tenda reale. Vogliamo sbrigarci? Forza!». «Non capisco», disse la ragazza. «Capirai. Guardati attorno e capirai». La pattuglia di cavalleggeri che li aveva preceduti in direzione di Capo Vela doveva aver trasmesso a voce la notizia del loro arrivo, perché moltissima gente era accorsa ai bordi della strada. Stavano agitando le mani e gridando in tono festoso, acclamazioni e saluti che avevano per oggetto Goccia di Fiamma, e quando ella si fu resa conto che bastava la sua presenza a suscitare tutto quell'entusiasmo s'alzò in piedi, sollevando le braccia e sorridendo ampiamente. «Guarda che se prendiamo una buca caschi giù e ti spacchi tutta la faccia!» brontolò Ombra di Lancia, fra divertita e seccata. «Vanità delle femmine!» sentenziò Cobal Gavelord. «Solo l'effimera gloria e il plauso degli stolti le soddisfano. Se questa gente ti conoscesse per la scriteriata che sei in realtà, cara mia!...». Goccia non li ascoltò. Era meravigliata nel vedere che non c'erano veico-
li in movimento verso Capo Vela, e capiva che a bloccare lì quella grande massa di emigranti doveva esserci un serio inconveniente. Ma il loro entusiasmo le confermava che le cose stavano andando bene, e ciò le bastava. Per circa una clessidra dovette rispondere alle grida con cui la gente acclamava il loro passaggio, poi il carro girò all'estremità della penisola. Capo Vela, più avanti, era una stretta lingua di terra sinuosa come la schiena d'una lucertola, e la strada lo percorreva scendendo sulla sua riva sinistra lungo la spiaggia, lambita dalle onde e pullulante di tende multicolori. L'Ufficiale fece arrestare il veicolo prima della discesa, in uno spiazzo circondato da bellissime tende ornate di stendardi. Davanti ad esse, ad aspettarli, c'era almeno un centinaio di notabili e di ufficiali di varie nazioni. Fra loro vennero avanti la Principessa Janora, bardato in una bellicosa corazza argentea, ed il Re Schiavo Tharma Ganovash, che non appena il carro fu fermo corse ad aiutare Goccia a scendere. Ci furono abbracci, manate sulle spalle, esclamazioni di benvenuto, e la ragazza venne trascinata verso una tenda. Voci concitate le riferirono che i profughi dello Yaya Dhuba erano arrivati il giorno prima, e che costoro avevano gridato ai quattro venti di come i Dottori dell'Oscuro, le loro macchine malefiche e la loro intera organizzazione fossero stati distrutti da una strana guerriera dai capelli rossi. Questo le spiegò l'ammirazione delirante del popolo. Fra la gente che le s'era fatta attorno l'Amazzone scorse anche Gileon e Zobull, e strinse la mano ad entrambi. Poi vide un gruppetto di cortigiane di Esperdale col capo coperto dalla vereconda, e rivolse un cenno di saluto a Damigella Raire Nazarine, riconoscibile per la sua mascheratura in diamanti azzurri. Ma la più parte delle persone che s'accalcavano sullo spiazzo le erano sconosciute. Ombra e Cobal Gavelord chiesero di potersi riposare e di mangiare qualcosa, e Goccia di Fiamma venne costretta ad entrare nella tenda più grande. Quando i drappi dell'ingresso le si richiusero alle spalle rimase sola con Janora e Tharma Ganovash. «... e come ti stavo dicendo», continuò il baffuto guerriero di Falheire, «Sei stata proposta per l'Ordine al Merito dei Rosalohe, e per la Spada al Valore di Castel Crozon. Questo benché tu sia... uhm, soltanto una donna. Ma adesso c'è questo guaio». «Va bene. Ma non ho ancora capito di cosa si tratta!» sbottò lei. Tharma Ganovash la afferrò per le spalle. «Per tutte le lave del Sanferoine, signora mia! Dove t'eri cacciata? Sei diventata la favola di tutto un
popolo. Milioni di persone acquartierate qui, capisci? Ci sono da risolvere problemi logistici enormi, e per partire verso la riva opposta del mare tutti aspettano te». «Ma perché, Maestà? Forse Babeeri non ha ancora fatto risalire dal fondo marino la Strada Sommersa?». «Babeeri... volevo dire la signora Khoiné, è proprio alla fonte del nostro attuale problema. Nossignora, che non ha fatto comparire la strada magica degli Antichi. Non è neppure salita al tempietto, dove c'è la pietra della leggenda. La Khoiné si rifiuta di muovere un sol passo finché noi non le troviamo questa scatenata di un'Amazzone, ecco come stanno i fatti. Niente Goccia di Fiamma, niente partenza. Così ha detto!». «È vero», sospirò Janora. «Ah, queste donne!». «Dov'è la ragazza?». Goccia si diresse all'uscita. «Datemi un cavallo, Maestà. E intanto fate preparare il primo scaglione di carri». A due leghe di distanza, giusto all'estremità di Capo Vela, un minuscolo tempio in rovina si stagliava contro l'orizzonte velato di bruma. Per giungervi era necessario arrampicarsi lungo una stretta scala tagliata nella roccia, ed alla base dell'altura sorgeva la tenda di seta bianca della Khoiné. Fu il clamore della gente accampata sulle spiaggette a farne uscire dapprima Yaan e poi Babeeri, che stavano riposando, e i due giovani sposi videro un cavallo arrivare al galoppo sulla strada. La gente gli faceva ala acclamando a gran voce, ed il destriero sembrava volare sull'antico selciato coperto di sabbia, mentre la figura che gli stava in sella lo spronava bravamente a gran velocità. Già molto prima che s'arrestasse presso il punto in cui quella via di pietra terminava nelle onde, Babeeri era corsa avanti tendendo le braccia. La fanciulla e l'Amazzone s'abbracciarono strette, ridendo e piangendo nello stesso tempo, e poi scomparvero insieme nella tenda seguite da Yaan. Quasi subito questi tornò fuori e diede alcune istruzioni ad una staffetta, che galoppò via per avvertire le avanguardie dei partenti di tenersi pronte. Da lì a poco anche Babeeri e Goccia di Fiamma vennero all'esterno. «Prevedo che non sarà una faccenda breve, né facile», si preoccupò Yaan. «Come sappiamo, la strada resta ordinariamente alla superficie del mare per quattro giorni, mentre il passaggio degli emigranti richiederà un periodo di tempo dieci volte più lungo». «Questo significa che Babeeri dovrà restare qui per oltre un mese», osservò l'Amazzone. «Non sarà pericoloso?».
«Spero di no. Nella Terra di Balkesir non ci sono stati terremoti, il suolo non è sprofondato come altrove, e la Collana degli Atolli qui appare immutata. Ma sto pensando alla gente. La strada è lunghissima e, sebbene sia larga abbastanza, i popolani potrebbero cedere alla paura e al panico. Sarà necessario percorrerla con ordine, calma e rapidità. Ovviamente, noi passeremo per ultimi». «Tu resterai con me, Goccia, vero?». Babeeri le si stringeva al fianco, ansiosa. «Forse in futuro, quando la mia gente sarà emigrata nel Wadabra, dovremo separarci e non ci vedremo mai più. Stiamo insieme, ti prego!». «Ma certo, tesoro. Non ti lascerò tanto presto. Ombra ed io metteremo la tenda vicino alla vostra... Sempreché tu te la senta di sopportare la presenza di Cobal, e che mi prometta di non litigare troppo con lui». Babeeri rise. I suoi timidi occhi azzurri percorsero la lunga spiaggia di Capo Vela, dove migliaia di persone stavano guardando verso di lei, e sospirò. Yaan le ricordò dolcemente che era il momento di recarsi al tempietto. La accompagnò fino alla scala e le baciò la mano, indugiando con le labbra sulla stellina bianca che le ornava il palmo. «So già cosa devo fare», disse lei. «Nove anni or sono il mio tutore mi portò in braccio fin lassù. Io piangevo. Anche quel giorno c'erano i gabbiani fra le colonne, e li facemmo scappare... Credi che questi siano gli stessi uccelli di allora, Goccia?». «Ci puoi scommettere», rispose lei, commossa. «Loro sapevano bene che saresti tornata. Chi ne poteva dubitare?». La fanciulla salì lentamente la teoria di gradini incrostati di muschio e corrosi dalla salsedine. Quando fu nel cerchio di colonne semidiroccate gli uccelli marini s'erano già levati in volo e compivano ampi cerchi nel cielo azzurro. Per un poco Babeeri guardò verso l'interno, lasciando vagare gli occhi su quella terra sterminata che i suoi antenati, millenni addietro, avevano salvata e nello stesso tempo condannata al suo destino. Poi volse gli occhi a settentrione, sollevando la mano sinistra a palmo avanti in un gesto pieno di timore e di speranza. E nell'atmosfera sopra il tempio in rovina nacque un lampo di fulgidissima luce dai riflessi aurei, mentre la Stella d'Oro s'accendeva corrusca e splendente sulle acque dell'immenso Mare di Gondwana. FINE