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[Basal
UGO FABIETTI
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STORIA DELL'ANTROPOLOGIA seconda edizione
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Progetto grafico e impaginazione: Anna Maria Zamboni Copertina: Anna Maria Zamboni Immagine di copertina: statuetta in legno che raffigura un antenato di rango elevato. Isola Nias (a ovest di Sumatra) [Jerome Solomon Collection, Los Angeles]
Prima edizione: ottobre 1991 Seconda edizione: settembre 2001 Ristampa 4 3 5
2
2005
2004
2003
2002
2001
Realizzare un libro è un'operazione complessa, che richiede numerosi controlli: sul testo, sulle immagini e sulle relazioni che si stabiliscono tra essi. L'esperienza suggerisce che è praticamente impossibile pubblicare un libro privo di errori. Saremo quindi grati ai lettori che vorranno segnalarceli. Per segnalazioni o suggerimenti relativi a questo libro l'indirizzo a cui rivolgersi è: Zanichelli editore S.p.A. Via Imerio 34 40126 Bologna fax 051293322 e-mail:
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ZANICHELLI
Indice
p. 1
Sezione
STORIA 3
Parte prima L'OTTOCENTO
5 Capitolo 1 Nascita
dell'antropologia
5 Prima dell'antropologia 6, Letteratura esotica e polemica politico-religiosa 6 La comparazione e Joseph-Francois Lafitau 7 II progetto di una scienza nuova: la Société des Observateurs de l'homme Il contesto politico e ideologico 7 8 « Osservare l'umanità» 8 Il programma del «viaggiatore filosofo» Il tramonto di un progetto scientifico 9 9 Progresso o degenerazione dell'Uomo? 10 11 selvaggio come essere «degenerato» e la negazione del progresso umano Creazionismo contro evoluzionismo 11 12 Il quadro ideologico e teorico dominante Progresso, continuità e cumulatività 12 Una nuova congiuntura scientifica: geologia, biologia, archeologia 13 13 La geologia e la biologia: l'uziformismo L'archeologia preistorica: selvaggi e primitivi 14 Bibliografia critica 15 16
Capitolo 2
L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana 16 La «scienza delle società primitive »: Edward B. Tylor 17 II concetto di cultura La cultura conte «insieme complesso» 18 La concezione «progressiva» della cultura 18 19 La religione e le sopravvivenze 19 L'animismo 20 Le sopravvivenze 21 Ii metodo comparativo 21 L'antropologia come scienza statistica I riti comunitari e l'efficacia sociale della religione: William Robertson Smith 22 22 Lo studio della società e della religione La centralini del rito e la sua funzione sociale 23
VI
Indice
Indice
p. 23 24 24 24 25 25 26 26 26 28
Il significato del sacrificio
Israeliti antichi e beduini contemporanei Dalla discendenza matrilineare a quella patrilineare: l'Arabia antica
Dalla magia alla scienza: James G. Frazer Il cammino del pensiero umano L'ultimo virtoriano
Altre figure dell'evoluzionismo Adolf Bastian e Johann J. Bachofen Le origini dell'esogamia: John Ferguson McLennan Bibliografia critica
29 Capitolo 3
Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan 29 II «problema» indiano 30 Morgan e gli Irochesi 30 La parentela e le «Sei Nazioni, 32 Lo scopo «politico» di Morgan 33 Schoolcraft e l'istituzionalizzazione dell'antropologia 33 I sistemi di parentela 33 L'origine degli Indiani americani 34 Sistemi classificatòri e sistemi descrittivi 35 L'evoluzione dei sistemi di parentela 35 Relazioni sociali e termini di parentela 35 Famiglia, matrimonio e sistemi di parentela 36 Morgan e l'evoluzione sociale 36 Lo sviluppo delle «tecniche di sussistenza» e delle istituzioni 36 I periodi «etnici, 37 L'America e l'umanità 38 Dopo Morgan 39 Bibliografia critica
p. 54 Capitolo 5 Sociologia e filosofia: la riflessione francese sulle società e la mentalità «primitive» 54 L'eredità di Comte 55 Coscienza e rappresentazioni collettive: finite Durkheim 55 56 57 57 57 58 59 59 59 60 61 61
La prospettiva normativa e la coscienza collettiva Solidarietà meccanica e solidarietà organica
La religione e le sue forme elementari La teoria del totemismo La religione come fenomeno unitario 1 «fatti sociali, e la natura sociale del pensiero Il «prelogismo» di Lucien Lévy-Bruhl La relatività dei sistemi morali Le rappresentazioni «mistiche» Partecipazione e prelogicità Significato e limiti del prelogismo
Bibliografia critica
62 Capitolo 6
Tradizioni popolari ed etnologia in Italia 62 62 63 63
Demologia (tradizioni popolari)
64 65 66 66
La Mostra di Etnografia Italiana II Congresso della Società di Etnografia Italiana 1 motivi di un «ritardo, e di un «dominio,
La raccolta delle tradizioni popolari La teoria del «sostrato etnico,
Gli esordi della demologia: Giuseppe Pitré 64 Dall'esplorazione all'etnografia dell'Italia: Lamberto Loria
Bibliografia critica
67 Capitolo 7
L'etno-sociologia francese
41 Parte seconda DALLA FINE DELL'OTTOCENTO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE 43 Capitolo 4
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la «scuola» di Boas 43 II «particolarismo storico» di Franz Boas 44 La critica dell'evoluzionismo 45 Lo «storicismo, di Roa.s 46 L'analisi del potlatch 47 Psicologia e cultura
48 La critica della prospettiva causale e lo studio della parentela: Alfred L. Kroeber 48 49 50 51
La critica a Morgan 1 principi costitutivi delle terminologie di parentela Il valore linguistico delle terminologie
La natura «superorganica» della cultura
52 Etnologia e psicologia: Robert Lowie 53 Bibliografia critica
67 La morte, il sacro, il profano: Robert Hertz Lo «scandalo, della morte 68 69 La morte come transizione Destra e sinistra: sacro e profano 69 70 I riti di passaggio: Arnold Van Gennep Il significato sociologico dei riti di passaggio 70 La struttura tripartita dei riti 71 1 riti come classificazione del sociale? 71
72 Lo studio dei fatti sociali «totali »: Marcel Mauss 72 Le forme di classificazione e l'omologia strutturale 73 74 75 76
Il fatto sociale «totale,
La teoria del dono La teoria indigena
Bibliografia critica
77 Capitolo 8 77
Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni Kulturkreislehre: la teoria dei cicli culturali
VII
VIII
Indice
Indice p. 78 78 79 80 81 81 82 83 85 86
Diffusione e contatto
La teoria degli «strati culturali»: Leo Frobenius La nozione di Kulturkreis: Fritz Graebner L'origine dell'idea di Dio: Wilhelm Schmidt Il diffusionismo americano: aree culturali e aree cronologiche Area culturale Area cronologica
Il diffusionismo in Gran Bretagna: la teoria «eliocentrica» Bibliografia critica Capitolo 9 II tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo in Gran Bretagna La crisi delle certezze Teorici e ricercatori sul campo
86 87 87 89 90 90 91 91 92 93 93 94 95 96
La Spedizione allo Stretto di Torres Le ricerche si moltiplicano Dalla su rv ey alla monografia etnografica Antropologi e missionari
97
Parte terza
I «corrispondenti» La su rv ey
I «nuovi etnografi»
99 100 101 102 102 102 104 105 105 106 107 107 108 108 109
110 111 111 112 112 114 114 114 115 115 115 116 116 117 117 117 118 119
Capitolo 10 La rivoluzione etnografica e il funzionalismo di Bronislaw Malinowski La «magia» delle isole: un antropologo tra mito e realtà
119 120 121 121 122 122 123 123 124 124 125 126 127
L'osservazione partecipante e i Diari segreti: un problema etico o epistemologico? 11 «disagio» dell'antropologo
128
Teoria e metodo della ricerca sul campo: William H.R. Rivers Lo studio delle terminologie di parentela 11 «metodo genealogico» La metodologia della ricerca sul campo
Bibliografia critica
DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALLA METÀ DEL NOVECENTO
99
P. 110
Un modello di monografia etnografica: gli Argonauti I1 cerimoniale kula Olismo e funzionalismo 11 principio di reciprocità
L'origine della famiglia Universalità della famiglia elementare
La teoria della cultura e il funzionalismo «allargato» La gerarchia dei bisogni
La natura della magia Teoria del cambiamento culturale Dopo Malinowski
Bibliografia critica
128 128 130 131 132 132 133 133 134 134 134 135
Capitolo 11 L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura Psicoanalisi e società primitive: Sigmund Freud Le suggestioni dell'antropologia L'assassinio primordiale e la nascita della cultura L'«ambivalenza emotiva» Nevrotici e selvaggi
Edipo alle Trobriand? Le scoperte di Malinowski La famiglia trobriandese II complesso matriarcale e la non universalità del complesso di Edipo
La cultura come «nevrosi collettiva »: Géza Roheim La nevrosi collettiva La sublimazione
L'antropologia junghiana di John Layard L'incontro con la psicoanalisi La posizione di Jung 11 rito maki L'individuazione
Bibliografia critica Capitolo 12 Gli studi etnologici in Italia Gli studi etnologici: l'Africa Orientale Italiana La virata razzista dell'antropologia sotto il fascismo L'VIII Convegno Volta del1938 II «Manifesto della razza»
Un innesto filosofico: Ernesto de Martino La critica al naturalismo Continuità e differenze rispetto allo storicismo crociano
Storicismo efilosofia della cultura La «Scuola filosofica di Milano» II dibattito su «Studi filosofici» Due diverse forme di storicizzazione Bilancio di un'epoca
Bibliografia critica Capitolo 13 L'etnologia francese tra le due Guerre L'africanistica e Marcel Griaule La Missione Dakar-Gibuti Lo studio della cosmogonia dogmi L'«iniziazione» di Griaule L'epistemologia di Griaule II metodo dell'etnografia Le religioni e i sistemi di pensiero africani
L'oceanistica e Maurice Leenhardt Tradurre la Bibbia II mito e la persona Significato delle ricerche di Leenhardt
La «sociologia maghrebina» e Robert Montagne
IX
Indice p. 135
Indice I sistemi politici berberi
136 1 berberi e il governo 136 Il modello «oscillatorio» 137 Bibliografia critica 138 Capitolo 14 L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità 138 Il configurazionismo: Ruth Benedict 138 La cultura come complesso di tratti 139 1 modelli di cultura 140 Ethos, eidos e schismogenesi: Gregory Bateson 141 Il rito naven 141 Ethos e eidos 142 La schismogenesi 142 Gli studi di «cultura e personalità»
142 II concetto di «personalità di base»: Abram Kardiner 143 Istituzioni primarie e istituzioni secondarie 143 La distanza dal funzionalismo e dal configurazionismo 144 Adolescenza, carattere, genere: Margaret Mead 144 Il tema della socializzazione 145 Adolescenti a Samoa 146 Nuove prospettive sul sesso e sul genere 146 II relativismo culturale 147 Bibliografia critica 148 Capitolo 15 Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard 148 La scienza naturale della società: Alfred R. Radcliffe-Brown 148 L'influenza di Durkheim 149 Etnologia e antropologia sociale
149 La struttura sociale 150 Struttura, processo e funzione sociale 150 La fisiologia strutturale 150 La continuità strutturale 151 Lo studio dei sistemi di parentela 151 II sistema kariera 151 I sistemi omaha 152 I principi strutturali 153 L'unità del lignaggio 153 La teoria del totemismo 153 Il totemismo «economico» 154 II totemismo «strutturale» 154 Dopo Radcliffe-Brown 155 Razionalità «primitiva» e antropologia come «arte »: Edward E. EvansPritchard
155 Gli Azande e la razionalità primitiva 155 La natura del pensiero magico 156 La coerenza interna dei sistemi di pensiero 156 I Nuer e il modello segmentario
p. 158 Una nuova idea di «segmenturierà»
158 159 159 160
L'antropologia come «traduzione di culture»
161
Parte quarta
L'antropologia: un sapere interpretativo? La critica del metodo comparativo Bibliografia critica
LA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO
163 Capitolo 16 Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra 163 De Ma rt ino: il problema del magismo e il concetto di «presenza»
164 165 166 167 167 169 169
Le categorie crociane II concetto di «presenza» Destorificazione, marxismo, etnocentrismo critico II concetto di destorificazione L'etnocentrisnro critico Il timore del relativismo culturale Altre tendenze nell'Italia del secondo dopoguerra
170 Le ricerche demologiche di Giuseppe Cocchiara
170 Una pluralità di istanze 171 Bibliografia critica 172 Capitolo 17 172 173 173 174 174
L'antropologia americana e la «rinascita nomotetica» La «scienza della cultura »: Leslie A. White La rivalutazione di Morgan e il riferimento a Marx La «culturologia» o «scienza della cultura» L'anti-idealismo Ecologia culturale ed evoluzionismo multilineare: Julian H. Steward Gli Shoshone e l'archeologia L'evoluzione multilineare I livelli di «integrazione socioculturale» Neoevoluzionismo e materialismo culturale
175 175 176 176 176 II materialismo culturale: Marvin Harris 177 La prospettiva materialista 177 L'idea di una conoscenza o oggettiva 178 L'antropologia economica 178 Il modello formalista 1 79 11 comportamentismo e la nrassimizzazionelell'utile 179 L 'homo ceconomicus 179 La prospettiva «sostantivista»: Karl Polanyi 180 L'oggetto dell'antropologia economica: l'economico come processo istituziona181 182
lizzato La tipologia delle forme di scambio e i supporti istituzionali Bibliografia critica
XI
XII
Indice
Indice P. 183
Capitolo 18 L'antropologia strutturale di Claude Lévi -Strauss
184 184 185 186 186 187 188 188 189 190 191 191 191 192 192 193 193 193 194 194 195 195
Lo studio della parentela Proibizione dell'incesto e passaggio dalla natura alla cultura L'esogamia e l'atomo di parentela Strutture elementari e strutture complesse I cugini incrociati e l'organizzazione dualista Reciprocità e strutture elementari II concetto di struttura I modelli, una via per le strutture Inconscio strutturale Linguistica strutturale e cultura come comunicazione Totemismo, pensiero selvaggio e analisi dei miti Il totemismo e le classificazioni totemiche Il «pensiero selvaggio» Sistemi di trasformazione L'analisi dei miti Mitemi Il mito come prodotto dell'attività speculativa del «pensiero selvaggio» II viaggio e la memoria: la «tristezza» dei tropici Un'opera letteraria? Società «fredde» e società «calde» 1 tropici «tristi» e il rimorso dell'antropologo
196
Capitolo 19 La parabola del funzionalismo britannico: conflitti e mutazioni strutturali La «Scuola di Manchester»
196 196 197 197 198 198 199 199 200 201 201 202 203 205 205 206 207 208 208 209
Bibliografia critica
Conflitto, ordine e rituale: Max Gluckman L'allontanamento dal funzionalismo Le dinamiche del conflitto e dell'ordine Funzioni del rituale Verso un nuovo metodo di analisi Dramma sociale e simbolismo rituale: Victor Turner II «dramma sociale» I simboli e il rituale
Critica dell'equilibrio strutturale: Edmund Leach La critica della prospettiva normativa Il sistema oscillatorio dei kachin Le nozioni di rete e di organizzazione sociale La ridefinizione del gruppo etnico: Fredrik Barth Gruppi e confini etnici La produzione sociale della differenza culturale
Bibliografia critica Capitolo 20 L'etnoscienza negli Stati Uniti Lo studio del «pensiero primitivo» I significati di «etnoscienza»
p.
209 210 210 211 212 212 212 213 213 214 214 214 215 215 216
Boas e l'ipotesi Sapir-Whorf La conoscenza delle «organizzazioni cognitive» Eroico/etico Le critiche e il punto di vista «etico» L'analisi componenziale Le componenti La relazione contrastiva La relazione gerarchica Percezione e terminologia del colore I colori di base Regolarità e complessità Determinismo ambientale o sociale? La critica «culturalista» L'etnoscienza e il problema del significato
217
Capitolo 21 Prospettive «critiche» nell'antropologia francese: dinamista, marxista, primitivista L'antropologia dinamista
217 218 218 219 219 219 220 221 221 221 222
Bibliografia critica
La «situazione coloniale»: Georges Balandier Dinamica «interna» e dinamica «esterna» Sincretismo e antropologia applicata: Roger Bastide La doppia causalità Nevrosi culturale e sincretismo L'antropologia applicata
L'antropologia di ispirazione marxista Il clima culturale II punto di partenza: la teoria dei nodi di produzione Dal modo di produzione lignatico a quello domestico: Claude
Meillassoux 223 223 224 225 225 226 226 228 228 229 230 230 231 231 232 232
Il modo di produzione domestico La produzione dei produttori e il destino della comunità domestica II destino della comunità domestica Infrastruttura e sovrastruttura: Maurice Godelier La funzione della parentela II ruolo infrastrutturale della religione L'eredità dell'antropologia marxista La tendenza «primitivista» 11 terna dell'etnocidio
La società contro lo Stato: Pierre Clastres La critica all'antropologia marxista e la destoricizzazione del «primitivo»
Bibliografia critica Capitolo 22 Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità Antropologia interpretativa La matrice filosofica e antropologica Incontro tra culture
XIII
XIV
Indice
Indice
p. 234 234 234 235 236 236 237 237 238 239 239 240 241 242 243
Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del nativo: Clifford Geertz Cos' • l'interpretazione in antropologia? Il carattere pubblico del significato e la cultura come testo La descrizione densa Antropologia, etnografia e scrittura etnografica La vocazione idiografica dell'antropologia interpretativa La nozione di «persona»: un esempio di comparazione interpretativa Concetti vicini e concetti lontani dall'esperienza La dimensione comparativa L'antropologia interpretativa dopo Geertz
Antropologia della contemporaneità La dimensione contemporanea Sguardi sulla contemporaneità Bibliografia critica Sezione
TESTI ESEMPLARI 245 245
Capitolo 1
246 247 248 248
T1.1 Louis-Frangois Jauffret, Il progetto della Société des Observateurs de l'Homme T1.2 Joseph-Marie de Gérando, Il programma del viaggiatore -filosofo T1.3 Richard Whately, II selvaggio è incapace di progredire T1.4 Charles Lyell, I principi della natura sono uniformi T1.5 John Lubbock, Abitanti dell'Europa preistorica e selvaggi
250 250 250 252 253 254
Capitolo 2 T2.1 Edward B_ Tylor, Il concetto di cultura T2.2 Edward B. Tylor, L'evoluzione della cultura e le sopravvivenze T2.3 William Robertson Smith, La derivazione del mito dal rito T2.4 William Robertson Smith, La funzione sociale del sacrificio T2.5 James George Frazer. I principi della magia
255 255 256 257
Capitolo 3 T3.1 Lewis H. Morgan. L'organizzazione politica degli Irochesi T3.2 Lewis H. Morgan. Sistemi descrittivi e sistemi classificatori T3.3 Lewis H. Morgan, Le tecniche di sussistenza e i periodi etnici
258 258 260 261 263 264
T4.1 Franz Boas, Il metodo storico T4.2 Franz Boas, Il potlatch T4.3 Alfred L. Kroeber, I principi delle terminologie di parentela 14.4 Alfred L. Kroeber, La natura della civiltà T4.5 Robert H. Lowie, La specificità dell'etnologia
265 265 266 267 269
Capitolo 4
Capitolo 5 T5.1 Emile Durkheim, Le società segmentarie e la solidarietà meccanica T5.2 Emile Durkheim, Clan e totem T5.3 Emile Durkheim. Totem, religione e società T5.4 Lucien Lévy-Bruhl, La legge di partecipazione
p. 270 270
Capitolo 6 Tb.1 Lamberto Loria e Aldobrandino Mochi, Importanza dell'etnografia dell'Italia
271 271 272 274 275 277
Capitolo 7 T7.1 Robert Hertz, La morte è un «transito» T7.2 Robert Hertz, La polarità religiosa 17.3 Arnold Van Gennep, La classificazione dei riti T7.4 Emile Durkheim e Marcel Mauss, Le classificazioni australiane T7.5 Marcel Mauss, Lo spirito della cosa donata
278 278 279 280 281 283
Capitolo 8 T8.1 Fritz Graebner, La comparazione nella teoria diffusionista T8.2 Wilhelm Schmidt, L'essere supremo tra i primitivi e l'origine del monoteismo T8.3 Clark Wissler, La diffusione della cultura T8.4 Edward Sapir, La velocità di propagazione dei tratti culturali T8.5 Grafton Elliott Smith, Le culture eliolitiche .
284 284 285
Capitolo 9 T9.1 William H.R. Rivers, Terminologie di parentela e istituzioni sociali T9.2 William H.R. Rivers, Natura e vantaggi del metodo genealogico
286 286 288 289 291 292 294
T10.1 Bronislaw Malinowski, Cogliere il punto di vista dell'indigeno T10.2 Bronislaw Malinowski, Che ne è della mia più intima vita? T10.3 Bronislaw Malinowski, II significato sociologico dello scambio kula T10.4 Bronislaw Malinowski, Il principio di reciprocità pervade la vita tribale T10.5 Bronislaw Malinowski, Che cos'è la cultura? 1- 10.6 Bronislaw Malinowski, Magia e religione
296 296 297
"111.1 Sigmund Freud, Il tabù e l'ambivalenza emotiva T11.2 Bronislaw Malinowski, Il complesso matriarcale
298 298 299
T12.1 Lidio Cipriani, L'inferiorità degli africani T12.2 Ernesto de Martino, Concetto, compiti e fine del sapere etnologico
301 301 303 304
113.1 Marcel Griaule, Cosmologia dogon T13.2 Marcel Griaule, La scelta dell'informatore TI3.3 Robert Montagne, Il carattere ciclico del sistema politico berbero
306 306 307 308 309
T14.1 Ruth E. Benedict. Lo studio della configurazione culturale 114.2 Gregory Bateson, ll travestitismo nel rituale naven T14.3 Gregory Bateson, La schismogenesi T14.4 Margaret Mead, Cultura e temperamento sessuale
Capitolo 10
Capitolo 11
Capitolo 12
Capitolo 13
Capitolo 14
XV
XVI
Indice
Indice p. 310 310 312 313 314 315 317 318 320
Capitolo 15 T15.1 Alfred R. Radcliffe-Brown, Etnologia e antropologia T15.2 Alfred R. Radcliffe-Brown, Lo studio della struttura sociale T15.3 Alfred R. Radcliffe-Brown, Il sistema kariera T15.4 Alfred R. Radcliffe-Brown, Il principio dell'unità dei siblings T15.5 Alfred R Radcliffe-Brown, La teoria del totemismo T15.6 Edward E. Evans-Pritchard, La stregoneria come spiegazione T15.7 Edward E. Evans-Pritchard, I gemelli sono uccelli T15.8 Edward E. Evans-Pritchard, Bisogna spiegare le differenze
321 321 322 323
T16.1 Ernesto de Martino, Il mago T16.2 E rn esto de Martino, Crisi della presenza e protezione magica T16.3 Vittorio Lanternari, Profetismo moderno e profetismo antico
325 325 326 327 328
Capitolo 17 T17.1 Leslie A. White, I tre sottosistemi culturali T17.2 Julian H. Steward, L'ecologia culturale T17.3 Marvin Harris, I principi teorici del materialismo culturale T17.4 Karl Polanyi, Reciprocità, ridistribuzione, scambio
330 330 330 332 332 334 335
Capitolo 18 T18.1 Claude Levi-Strauss, Dalla natura alla cultura T18.2 Claude Lévi-Strauss, L'atomo di parentela T18.3 Claude Lévi-Strauss, Modelli consci e modelli inconsci T18.4 Claude Levi-Strauss, La «verità» dei modelli sono le strutture T18.5 Claude Levi-Strauss, La natura del pensiero mitico T18.6 Claude Lévi-Strauss, II viaggio dell'antropologo
336 336 337 338 338 339 340 342 342
Capitolo 19 T19.1 Max Gluckman, La tipologia del conflitto T19.2 Max Gluckman, Diritto e rituale T19.3 Victor Turner, Conflitto tra principi strutturali ndembu T19.4 Victor Turner, Il valore polisemico dei simboli T19.5 Edmund R. Leach, Critica della comparazione T19.6 Edmund R. Leach, Modello e struttura T19.7 Raymond Firth, L'organizzazione sociale T19.8 Fredrick Barth, Il gruppo etnico
343 343 344 346 347
Capitolo 20 T20.1 Benjamin Lee Whorf, Lingua e immagine dell'universo T20.2 Franz Boas, Linguaggio e pensiero T20.3 Ward Goodenough, Analisi componenziale T20.4 Brent Berlin e Paul Kay, La linea evolutiva nella percezione del colore
347 347 349 350 350 352
Capitolo 21 T2L1 Georges Balandier, La prospettiva dinamista T21.2 Roger Bastide, Sincretistrto magico e sincretismo religioso T21.3 Roger Bastide, Il compito del l'antropologia applicata T21.4 Claude Meillassoux, L'autorità nelle società di auuosussistenza T21.5 Claude Meillassoux, La circolazione (lei «prod ut tori dei produttori»
Capitolo 16
p.
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T21.6 Claude Meillassoux, Comunità domestica e modo capitalistico di produzione T21.7 Maurice Godelier, Il ruolo infrastrutturale e sovrastrutturale della parentela nelle società primitive T21.8 Maurice Godelier, Religione e rapporti di produzione T21.9 Pierre Clastres, La filosofia del potere primitivo
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Capitolo 22 T22.1 Clifford Geertz, Cos'è l'interpretazione in antropologia? T22.2 Clifford Geertz, La cultura è pubblica come il significato T22.3 Clifford Geertz, L'etnografo «scrive» 122.4 Clifford Geertz, Concetti `vicini' e concetti `lontani' dall'esperienza T22.5 James Clifford, L'autorità dell'etnografo T22.6 Marc Augé, L'esperienza della contemporaneità: colonizzati e occidentali
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XVII
Prefazione alla seconda edizione
La riforma degli studi universitari sembra oggi aprire nuovi spazi all'insegnamento delle scienze umane. Tra queste ultime vi sono le discipline antropologiche: l'antropologia culturale, l'antropologia sociale e l'etnologia. Si tratta di discipline dotate di una loro «profondità storica» che merita di essere conosciuta e rivisitata per comprendere i fondamenti teorico-epistemologici del ragionamento antropologico così come quest'ultimo ha preso forma nel tempo e si inscrive oggi in una necessaria riflessione sulla complessità contemporanea. L'antropologia, che è un sapere relativamente giovane, merita infatti l'attenzione dei giovani (e anche dei meno giovani) in quanto è la forma più sofisticata di riflessione che la nostra civiltà, anche grazie all'apporto delle altre scienze umane, abbia saputo elaborare intorno al tema dell'«alterità culturale», divenuto centrale per tutti quanti sono destinati a vivere in una dimensione sempre più «planetaria». Quanti già conoscono la Storia dell'antropologia non avranno difficoltà ad individuare le novità contenute in questa seconda edizione, la quale costituisce uno strumento più agile della precedente e però, riteniamo, non meno completo. La seconda edizione della Storia dell'antropologia contiene infatti delle novità. Innanzitutto essa è stata in gran parte riscritta, con lo sviluppo di alcuni argomenti precedentemente trattati in maniera troppo succinta, l'aggiunta di nuove tematiche e la riduzione di altre, forse ridondanti. Inoltre essa tiene conto delle prospettive critiche emerse negli ultimi anni, le quali hanno contribuito a riorientare, almeno in parte, la lettura della storia della disciplina. Il volume porta poi in appendice un'antologia di testi classici nei quali il lettore potrà trovare le fonti dirette con cui confrontare il percorso storico-culturale presentato. Anche il corredo iconografico ha subito importanti cambiamenti. In primo luogo è stato aumentato il numero delle fotografie; poi sono stati introdotti alcuni schemi per facilitare la comprensione di qualche passaggio implicante un richiamo al linguaggio tecnico della disciplina; infine sono state inserite delle carte geografiche per meglio illustrare i contesti etnografici di riferimento. Al termine di ciascun capitolo è stata inserita una breve bibliografia critica mentre la bibliografia generale culla fine del volume contiene, in forma aggiornata, tutti i riferimenti che compaiono nel testo. Un ringraziamento va a tutti i colleghi, collaboratori e amici che, con le loro osservazioni e il loro aiuto, hanno reso possibile la preparazione di questa nuova edizione della Storia dell'antropologia. Milano, settembre 2001
Prefazione alla prima edizione
Questo volume nasce dall'esigenza di poter disporre di un panorama sufficientemente completo e criticamente aggiornato della storia dell'antropologia. Esso si rivolge a tutti coloro che, non sapendone nulla o volendone sapere di più, hanno un interesse che supera la semplice superficiale curiosità per le ipotesi e le teorie che, nel tempo, hanno caratterizzato gli sviluppi del «sapere dell'uomo». Questa Storia dell'antropologia si rivolge però soprattutto agli studenti, ai quali si spera di offrire uno strumento utile, e forse più efficace di quelli attualmente disponibili. Per quanto riguarda la struttura del libro il lettore non avrà difficoltà a notare che sono state privilegiate le tre grandi «tradizioni» disciplinari, ovvero quella britannica, quella francese e quella americana. Una parte del volume è tuttavia dedicata all'antropologia italiana. L'attenzione per la storia della disciplina nel nostro paese ci pareva tra l'altro opportuna anche per il fatto che il 1990 ha visto la nascita della Associazione Italiana di Scienze Etno-Antropologiche, un evento che, come tutti noi ci auguriamo, contribuirà ad assegnare una identità più definita alla nostra tradizione. Il criterio che ha presieduto alla costruzione del libro è lo stesso che.ha guidato la redazione di «una storia nella storia», cioè la parte dedicatif agli sviluppi dell'etnografia dalle origini fino ai nostri giorni. Lo scopo che vi voleva raggiungere attraverso questa parte espressamente dedicata alla storia dell'etnografia è duplice. Da un lato si voleva infatti ricordare al lettore che l'antropologia non è una disciplina sviluppatasi solo negli studi dei professori universitari e nelle biblioteche, una specie di attività speculativa senza alcun fondamento empirico. L'antropologia è invece un sapere che, comunque si vogliano intendere i suoi scopi, per alcuni consistenti nella formulazione di proposizioni universalmente valide, per altri nella conoscenza delle singole specificità culturali, resta profondamente radicato nell'esperienza etnografica. Questa è appunto l'impressione che il materiale fotografico inserito nel volume vorrebbe soprattutto trasmettere. Di qui l'altro motivo per cui si è scelto di fornire un quadro, seppure succinto, dello sviluppo dell'etnografia: ricordare che l'antropologia è sempre ri-cominciata «sul campo», nel senso che quest'ultimo ha costituito la condizione stessa del suo sviluppo teorico, consentendo di rovesciare le prospettive, di demolire e di confermare ipotesi, così come di avanzarne di nuove, fungendo insomma da vero e proprio «propellente» per il «motore» della disciplina. Se in passato non fosse stato così, e se domani non fosse più così, gli antropologi potrebbero rassegnarsi ad essere dei filosofi di seconda classe. Il fatto che questa Storia si chiuda con un paragrafo dedicato all'antropologia «interpretativa» non significa che l'autore del libro consideri questa prospettiva come la «freccia ascendente» del sapere antropologico, ma piuttosto che, siccome con qualcosa bisognava pur finire e il criterio adottato era, nel complesso, quello della successione cronologica, è stato quasi naturale chiudere con ciò che era,
dopo tutto, «a noi più vicino» nel tempo. In questo volume sono confluite esperienze di lavoro precedenti: esperienze di ricerca, di scrittura e didattiche. Per quanto riguarda queste ultime penso soprattutto ai seminari condotti all'Università di Torino – alcuni dei quali con il collega Pietro Scarduelli – nel quadro dell'insegnamento di Antropologia culturale tenuto da Francesco Remotti. Ringrazio qui entrambi per l'azione di stimolo su di me esercitata. Devo anche ringraziare Carla Pasquinelli che, molto gentilmente, ha letto e commentato alcune parti del dattiloscritto. Un grazie sincero anche alla signora Vittoria De Palma che ci ha consentito di riprodurre una fotografia inedita di Ernesto de Martino. Milano, dicembre 1990
Sezione
STORIA
Parte prima L'OTTOCENTO
Statuetta funeraria del Borneo centro-orientale (Metropolitan Museum of Art, New York)
Capitolo
1 Nascita dell'antropologia
NelI'autunno del 1799 vide la luce, a Parigi, la Société des Observateurs de l'homme. La sua fondazione avvenne per iniziativa di Louis-Frangois Jauffret (1770-1850), un giovane professore di scienze naturali il quale raccolse intorno a sé un gruppo di intellettuali e scienziati che si sentivano eredi dell'illuminismo e dello spirito dell'Encyclopédie. Per l'occasione Jauffret scrisse, ci piace immaginare a memoria delle generazioni future: «Che cosa c'è di più adatto per illuminare i punti più oscuri della storia primitiva che il paragonare al tempo stesso sia i costumi, sia le abitudini, sia il linguaggio, sia l'industria dei diversi popoli?... E che cosa c'è di più ricco di soddisfazioni, possiamo aggiungere, che il dedicarsi a questa attività e stringere per così dire legami di conoscenza con un numero infinito di popolazioni che meritano così poco I'ingiurioso disprezzo che noi abbiamo per esse?» (Jauffret 1970: 279). Jauffret e i suoi colleghi non erano antropologi nel senso moderno del termine. Ma questa dichiarazione augurale – e programmatica – costituisce probabilmente la prima vera formulazione di un piano di ricerca nel quale lo "studio dell'uomo" si delinea tanto come sapere empirico quanto come disciplina teorica; come un sapere nuovo che si inserisce in un progetto scientifico del tutto nuovo, quello dello studio comparato delle società e delle culture.
Prima dell'antropologia La Società degli Osservatori dell'uomo non nasceva però dal nulla. Quando Jauffret e i suoi colleghi le diedero vita, la letteratura sui «selvaggi» possedeva già dimensioni considerevoli, e non solo in Francia. C'erano innanzitutto le tradizioni della letteratura esotica e di viaggio. Le caratteristiche di quest'ultima, costituita da resoconti di missionari, esploratori, mercanti e soldati, non rispondevano ad un progetto scientifico né, tantomeno, rivelavano un atteggiamento degli autori nei confronti delle popolazioni descritte molto diverso da quello che poteva essere ispirato da un primo stupefatto incontro: moralismo, pregiudizio. esotismo e meraviglioso erano infatti gli elementi che prevalevano all'interno di questa tradizione. -
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Letteratura esotica e polemica politico-religiosa
I cannibali (XVI secolo)
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Nascita dell'antropologia
Nascita dell'antropologia
Accanto alla tradizione della letteratura esotica e di viaggio vi era quella che da Michel de Montaigne (1533-1592) a JeanJacques Rousseau (1712-1778) aveva subordinato lo sguardo sui «selvaggi» ad una critica dei valori espressi dalla società del tempo. All'interno di questa tradizione, definibile come «filosofica», il discorso sui "selvaggi" era prevalentemente legato a polemiche come quella sulla religione, la battaglia antischiavista dei filantropi e dei fisiocratici, e la critica del potere assolutistico di tipo monarchico. Erano questi infatti i temi che dominavano la scena intellettuale e caratterizzavano la polemica. La figura del "selvaggio" assumeva così un ruolo ideologico abbastanza preciso. Gli Indiani del Candide di Voltaire, il «nobile e virtuoso selvaggio» di Rousseau erano di volta in volta personaggi metaforici, specchi in cui l'europeo poteva vedere "raddrizzata" la sua scomposta figura, repertorio di assenze odi presenze (indole, difetti, virtù) a seconda del variare dell'oggetto della polemica. Vi fu chi, come Rousseau, invitò i suoi colleghi filosofi a "viaggiare" prima di avventurarsi in speculazioni attorno alla natura umana. Ma, anche nel caso di Rousseau, lo sguardo non si soffermò mai sul "selvaggio" come soggetto sociale diverso e autonomo; lo stile di vita e le istituzioni dei popoli selvaggi non costituirono mai l'oggetto di un discorso specifico e disciplinare. I loro "usi e costumi" furono solo punti di riferimento e di confronto per mezzo dei quali era possibile articolare una serie di risposte ai problemi che venivano sollevati sul terreno del confronto ideologico. In questi termini, lo statuto del discorso sul "selvaggio" restò nettamente subordinato a quello sull'uomo "civilizzato".
La comparazione e Joseph-Frangois Lafitau Vi era stata, tuttavia, qualche eccezione. Il gesuita francese Joseph-Francois Lafitau (1681-1746) aveva pubblicato, nel 1724, i Costumi dei selvaggi americani comparati con quelli dei tempi più antichi. Quest'opera costituiva una specie di punto di incontro tra la tradizione della letteratura di viaggio e quella che aveva le proprie radici nel terreno della polemica ideologica. Secondo alcuni essa rappresenterebbe l'inizio di una nuova scienza, l'etnologia (De Certeau, 1985). I Costumi dei selvaggi americani furono infatti scritti dopo anni di permanenza dell'autore tra gli Uroni e gli Irochesi della zona dei Gradi Laghi nordamericani, tra il Canada e gli Stati Uniti attuali. Il quest'opera Lafitau adottò una specie di "metodo comparativo" al fine di dimostrare che presso tutti i popoli era presente l'idea di un essere superiore, e non tanto allo scopo di condurre uno studio sociologico delle istituzioni degli Uroni e degli Irochesi, comparandole con quelle dell'antichità classica e preclassica. Il metodo adottato da Lafitau contribuì senza dubbio a distinguere la sua
opera da quelle dei "filosofi". Tuttavia i Costumi si ispiravano pur sempre ad una problematica che, proprio come quella dei filosofi, nasceva sul terreno di una polemica, e cioè la disputa sulla religione. Fu proprio in questa prospettiva che venne recepita, nel Settecento, la ricerca di Lafitau. Le possibilità di costituzione di una disciplina non dipendono infatti tanto dall'accadere di "eventi" isolati – per esempio la comparsa di un'opera – quanto piuttosto da problematiche nuove al cui interno tali "eventi" non si inscrivono più come semplici derive, ma come strati geologici di un sapere cumulativo.
Il progetto di una scienza nuova: la Société des Observateurs de I'homme Quale fu dunque la nuova problematica verso cui confluirono le diverse tradizioni della letteratura sul "selvaggio" al punto da produrre un sapere dai caratteri cumulativi, tipici di una vera e propria disciplina? Al tempo stesso dobbiamo chiederci: quali potevano essere le condizioni generali che favorirono il costituirsi di questa nuova problematica?
Il contesto politico e ideologico A partire dal 1792, l'anno della costituzione della Prima Repubblica francese, quell'idea di ragione che nei decenni precedenti aveva rappresentato il motivo filosofico e lo strumento della critica illuminista al potere assoluto diveniva, seppur per un breve periodo, essa stessa elemento del potere: l"`Enciclopedia vivente" di Cabanis è l'immagine che meglio di ogni altra serve a riassumere il progetto di una parte di quegli intellettuali e scienziati francesi, eredi diretti del patrimonio filosofico e scientifico dell'illuminismo, che vennero chiamati dal i< potere rivoluzionario a realizzare l'idea di una scienza come "servizio sociale". Allo scopo di «raccogliere le scoperte e di perfezionare le arti e le scienze», il Comitato di Istruzione Pubblica organizzò un Istituto Nazionale, un settore del quale (scienze morali e politiche) avrebbe dovuto promuovere ricerche nel campo della vita sociale, della legislazione, dell'economia politica e della geografia. Erano qui presenti tutti quegli elementi che permettevano di cominciare a concepire una «scienza avente per oggetto l'uomo» come essere naturale e sociale dotato di ragione.
Non bisogna dimenticare che questi furono anche gli anni in cui l'Europa si affacciò sull"`Oriente", in cui un mondo sconosciuto cominciò a svelare i propri segreti. Furono gli anni della nascita dell'egittologia, un evento
Uroni; Irochesi
Frontespizio dell'opera di Lafitau: il Tempo indica alla Scrittura la via verso una nuova scienza
Nascita dell'antropologia
Nascita dell'antropologia che fu solo il più clamoroso di una serie di nuovi interessi scientifici, intellettuali e coloniali che l'Europa andava elaborando in quel periodo. La fondazione della Société des Observateurs de l'homme segue di un solo anno la spedizione degli studiosi al seguito dell'Armée d'Orient guidata da Napoleone nella campagna d'Egitto. Erano centosessanta gli studiosi che si imbarcarono con i soldati di Bonaparte. Tra di loro vi erano geografi, ingegneri, matematici, naturalisti, pittori, disegnatori, ma anche dei linguisti, degli storici, degli "orientalisti". In quest'occasione non furono solo raccolti importanti materiali archeologici, ma venne anche affrontato uno studio sistematico dell'Egitto moderno i cui risultati sono contenuti nella poco conosciuta, ancorché assai citata, Déscription de l'Egypte pubblicata in venti volumi come resoconto dell'intera spedizione scientifica. «Osservare l'umanità»
[Tl.l]
Quando dunque Jauffret ed un gruppo di intellettuali e scienziati fondarono la Société des Observateurs de l'homme, esisteva già un quadro epistemologico entro il quale si rendeva possibile parlare dell'uomo come genere universale. Della Société facevano parte filosofi, naturalisti, medici, linguisti, viaggiatori, storici, geografi: Bougainville, De Gérando, Cuvier, Volney, Baudin, Cabanis, Destutt de Tracy, Itard, forse Lamarck e Lacépède. Lo scopo che questi "savants" si proponevano era, come dice il nome stesso della Società, quello di osservare l'umanità nella sua variabilità fisica, linguistica, geografica e sociale. Osservare voleva dire proporre un metodo d'indagine consistente nell'uscire dall'esperienza più immediata e nota quale era quella derivante dalla conoscenza della propria società. Osservare voleva dire compiere quel primo passo, necessario, verso l'adozione di un nuovo principio di intelligenza scientifica annunciato nelle parole di Jauffret: il principio del confronto con la differenza. Facendo parlare quella differenza che negli scritti dei viaggiatori, dei missionari e dei filosofi era rimasta a lungo muta, gli Osservatori dell'uomo aprivano lo spazio per un discorso che veniva a fondare contemporaneamente un nuovo oggetto di studio ed un nuovo sapere. La "scienza nuova" degli Osservatori nasceva così come ampliamento dell'orizzonte conoscitivo di quella stessa scienza dell'uomo che, nei programmi dell'Istituto Nazionale, era ritenuta necessaria per la costruzione di una società secondo ragione e a misura del cittadino. Il fatto che lo studio dell'umanità venisse riconosciuto come "socialmente utile" spiega il carattere istituzionale che Jauffret volle e poté dare al progetto. Il consenso tributato all'iniziativa e il carattere istituzionale del progetto scientifico, permisero a Jauffret di abbozzare una attività sistematica di ricerca e di insegnamento: raccolta di dati sui costumi di popoli esotici e sulle lingue: raccolta di oggetti appartenenti alla cultura materiale di diversi popoli; conferenze: piano per l'allestimento di un museo etnografico.
selvaggi al fine di conoscere le tappe della storia trascorsa dell'umanità; del recarsi presso di loro per osservarne accuratamente usi e istituzioni; di risiedere tra costoro per periodi prolungati; di comparare i loro costumi per meglio conoscere l'Uomo. Dietro questo programma c'era un progetto filosofico (conoscere la natura umana) ma tale progetto era sostenuto da un metodo diverso da quello dei filosofi. Non si trattava più di restare entro i confini dell'esperienza offertaci dalle nostre società europee: il filosofo doveva farsi "viaggiatore", percorrere spazi alla ricerca di quei selvaggi che avrebbero potuto costituire l'esempio vivente della condizione originaria dei popoli civilizzati. La figura del "viaggiatore filosofo" precorre in un certo senso quella dell'antropologo moderno poiché egli non viaggia soltanto, ma "pensa", cerca cioè di correlare i dati dell'osservazione e di coordinarli in una teoria. Il tramonto di un progetto scientifico La Société des Observateurs de l'homme ebbe vita assai breve. La sua fine fu il riflesso delle mutate condizioni politiche di quel periodo. Nel 1805, anno dello scioglimento della Società, Napoleone aveva già fatto chiudere quelle sezioni dell'Istituto Nazionale al cui interno si articolava la ricerca nel campo delle scienze politiche e morali. Ciò corrispondeva ad un programma di rigida ed esclusiva subordinazione della scienza alle esigenze di uno stato burocratico, centralizzato e militarista. Della scienza illuminista veniva enfatizzata la dimensione tecnicista, funzionale alla creazione dei quadri del nuovo stato, mentre dell'illuminismo andava perduta l'istanza filosofica centrale rappresentata dallo specifico tipo di razionalità identificabile con una idea di ragione universale. Gli Osservatori, come altri filosofi tardo-illuministi, vennero sprezzantemente chiamati da Napoleone idéologues, "ideologi", coloro che si occupano "soltanto" di idee.
Il programma del «viaggiatore filosofo»
[T1.2]
Forse nulla meglio di uno scritto datato 1800, e portante la firma di Joseph-Marie de Gérando (1772-1842), testimonia in maniera più efficace della novità del progetto della Société des Observateurs de l'homme. Gérando, che era specializzato in linguistica, scrisse una lunga nota per gli "osservatori" in partenza con una spedizione scientifica nell'emisfero australe. Questo scritto, intitolato Considerazioni sui metodi da seguire nell'osservazione dei popoli selvaggi, illustra molti interessanti punti programmatici che tuttavia rimasero allo stato di pure intenzioni. Nelle Considerazioni Gérando poneva in primo piano l'utilità dello studio dei
Progresso o degenerazione dell'Uomo? Con l'emarginazione della scienza sociale dal potere, la scienza dell'uomo, sorta come estensione del progetto politico e civile della Repubblica, cessava di costituire il quadro generale entro il quale aveva trovato un suo spazio la comprensione dell'alterità culturale. Nel 1805 con la Société des Observateurs de l'homme chiudeva i battenti anche quell'etnologia (o scienza dei popoli) che Jauffret, Gérando e gli "ideologi" del gruppo avevano concepito come studio e comprensione della differenza. L'atteggiamento intellettuale che aveva progettato
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Incontro coi selvaggi (metà XVIII sec.)
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Nascita dell'antropologia Io studio comparato dei "selvaggi" subiva così un'eclisse destinata a protrarsi per buona parte del XIX secolo. Nel corso dei cinquant'anni seguenti, il discorso sulle società «selvagge» tornerà ad essere funzionale a quello sulla società europea, ma con la differenza fondamentale che esso non rappresenterà più uno strumento di critica sociale e politica come era stato per i philosophes. I1 discorso sul "selvaggio" andrà acquistando invece caratteristiche sempre più marginali, come nel caso delle opere degli economisti britannici, dove l'economia del selvaggio non rappresenterà nulla più di uno stato-limite su cui si renderà possibile edificare le ideologie del carattere «naturale» dei concetti (il valorelavoro in Adam Smith) e dei sistemi economici (David Ricardo). Sul continente, invece, sembravano prevalere le teorie della "degenerazione del selvaggio" le cui origini erano da far risalire alle "filosofie della restaurazione" in generale e, in particolare, alla cosiddetta «filosofia del potere teologico» di Joseph de Maistre. Il selvaggio come essere «degenerato» e la negazione del progresso umano Ne Le serate di San Pietroburgo (1821), Joseph de Maistre (1753-1821), fine intellettuale, grande scrittore e diplomatico savoiardo, aveva denunciato la ragione illuminista come un empio atto di superbia da parte dell'uomo nei confronti della volontà divina. Egli aveva negato l'esistenza di quel progresso della ragione universale che aveva ispirato il lavoro degli «osservatori» raccolti attorno a Jauffret. De Maistre impersonava, con altri intellettuali, l'ala più radicale e più restauratrice di quella "reazione romantica" all'illuminismo che aveva avuto rappresentanti di grande rilievo nello scrittore francese Francois René de Chateaubriand (1768-1848) e nel filosofo tedesco Johann Gottfried Herder (17441803). De Maistre sosteneva che l'idea di un progresso umano era un atto di vanagloria e di sfida all'ordine divino, la subordinazione al quale, ed ai poteri terreni che ne erano i garanti, cioè la chiesa e la monarchia, costituiva invece l'unico atto di saggezza possibile. Secondo de Maistre l'uomo non era affatto progredito da uno stadio di barbarie ad uno stadio di civiltà. Il selvaggio era l'esempio della degradazione dell'uomo a cui quest'ultimo era condannato a causa del peccato originale, e rappresentava l'esempio estremo della caduta dalla grazia divina: il selvaggio era «l'oggettivazione del peccato originale». Poiché il progresso come conquista dell'uomo era una chimera, e la civiltà un dono divino, il selvaggio era simbolo del peccato e costituiva l'evidenza di una umanità cui era stata negata la grazia. In Gran Bretagna le tesi di de Maistre sulla "degenerazione" dei selvaggi furono accolte e sviluppate da uomini di chiesa come il vescovo di Dublino Richard Wathely e da altri intellettuali. Nelle sue Conferenze introduttive all'economia politica (Introductory Lectures to Political Economy) del 1832 Wathely aveva sostenuto che il progresso non poteva essere concepito senza un esplicito intervento divino, in quanto ai selvaggi era concesso progredire solo se aiutati da un'umanità gin in possesso di una civiltà ottenuta per grazia divina. Wathely voleva in realtà attaccare l'economista scozzese Adam Smith il quale aveva posto nello stato selvaggio l'origine della divisione del lavoro, e quindi dello "sviluppo" dell'economia. Per Wathely non si poteva parlare di un progresso autonomo dell'uomo poiché, dal giorno della creazione, una parte dell'umanità aveva progredito per grazia divina, mentre l'altra era decaduta. Nel suo lavoro del 1832 Wathely scrisse: «Non vi è alcuna ragione per credere che una comunità qualsiasi possa sollevarsi, senza un qualche aiuto proveniente dall'esterno.
Nascita dell'antropologia da una condizione di totale barbarie, a qualcosa che si possa definire civiltà». Wathely ribadì queste sue idee in uno scritto del 1854 intitolato On the Origin of Civilization, che ebbe grande risonanza tra il pubblico. Ma Wathely non era l'unico a sostenere queste posizioni (Cooke 1840; Campbell 1869). Le principali tesi del «degenerazionismo» erano le seguenti: nessuno aveva fornito una qualche prova del passaggio dallo stato selvaggio alla civiltà; nessun popolo selvaggio visitato a distanza di molti anni aveva dato prova di aver compiuto un qualche progresso per conto proprio; la presenza di un qualche manufatto ritenuto di livello superiore allo standard della popolazione che lo possedeva era considerato come il segno del fatto che tale popolazione lo aveva ricevuto da un'altra superiore: il boomerang degli Aborigeni australiani non poteva essere stato inventato da una "razza" così poco progredita; allo stesso modo gli intarsi sulle strutture lignee delle case dei Mao ri della Nuova Zelanda non erano che la memoria sbiadita o la rozza imitazione di un genere di scrittura portata da un popolo dotato di una civiltà superiore. Ciò che veniva negata era l'idea che l'umanità fosse avanzata, sul piano materiale e spirituale, unicamente in virtù delle proprie forze. Creazionismo contro evoluzionismo La teoria della degenerazione poggiava sulla convinzione che la storia dell'uomo fosse riducibile entro un arco di tempo delimitato dalla data della creazione del mondo ufficialmente accettata dalla Chiesa d'Inghilterra, il 4004 a.C. È evidente che alcune delle tesi del degenerazionismo erano sostenibili solo qualora ci si attenesse ad una scala temporale così ridotta. L'idea che l'umanità e la natura fossero oggi come erano all'epoca della creazione, non doveva risultare particolarmente problematica per quanti si attenevano alla cronologia biblica che, è bene ricordarlo, era tacitamente accettata anche dalla Royal Society di Londra, la più autorevole istituzione scientifica del tempo. Ma l'autorità delle Sacre Scritture cominciò ad essere scalfita dalle ricerche compiute nel campo degli studi biblici. Già alla fine del Settecento alcuni studiosi della Bibbia avevano cominciato a studiare l'Antico Testamento nella prospettiva che faceva di quest'ultimo un documento storico, e non più un libro contenente delle verità assolute ed immutabili. La Bibbia diventava così una fonte potenziale di conoscenze sulla società stessa in seno alla quale era stata composta. Prendeva forma quella che è stata chiamata "critica storica della Bibbia". Intanto, in campo naturalistico, si assisté alla comparsa di una nuova visione del posto dell'uomo nell'universo. Sul finire degli anni 1850 creazionismo ed evoluzionismo vennero a presentarsi come due opposte interpretazioni tanto della storia naturale quanto della storia umana. Charles Robert Darwin (1809-1882) aveva pubblicato, nel 1859, dopo oltre vent'anni di ricerche basate sull'osservazione di specie animali e vegetali, molte delle quali viventi fuori dall'Europa, l'Origine delle specie, contenente una teoria rivoluzionaria della storia naturale. Mentre il creazionismo postulava la fissità delle specie viventi, e l'idea che ogni loro variazione fosse il frutto di un intervento estraneo ai processi e alle forze del mondo della natura, l'evoluzionismo di Darwin proponeva una visione della storia della natura vivente, di cui era parte la stessa storia dell'uomo in quanto essere naturale, secondo la quale le forme di vita si sarebbero trasformate in base ad un processo lento di mutazioni dovute all'influenza esercitata su di esse dall'ambiente e alla capacità o meno che gli esseri viventi avevano di adattarsi con successo a quest'ultimo, e quindi di riprodurre, nella discendenza, le loro caratteristiche.
1l
[T1.3]
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Nascita dell'antropologia Al tempo stesso cominciavano a riaffacciarsi, in Europa, quelle teorie relative all'idea di progresso umano a cui le filosofie come quella di de Maistre, avevano posto fine in un clima politico segnato dalla restaurazione delle monarchie e dal ritorno dell'assolutismo. Anche in questo campo si aprì un dibattito tra coloro che, come Wathely e altri ritenevano impossibile il progresso non assistito dall'intervento divino e quanti, sul versante opposto, sostenevano che la storia dell'uomo fosse segnata da un faticoso ma inarrestabile movimento verso la conoscenza, il benessere, la giustizia, mete raggiungibili dall'uomo con le sue sole forze. La polemica sulla natura della civiltà e del progresso sociale e materiale non raggiunse i toni roventi di quella che fece seguito alla pubblicazione del libro di Darwin. Le ragioni della diversa accoglienza riservata alle teorie evoluzioniste in biologia e quella tributata alle teorie evoluzioniste in materia di progresso culturale va ricondotta all'effetto traumatico che le prime, con l'ipotesi più che probabile di una natura animale dell'uomo, produssero sulla mentalità e il costume di allora; mentre l'idea di una evoluzione sociale e culturale risultava tutto sommato più accettabile, in quanto tale ipotesi veniva a costituire un elemento dell'ideologia autocelebrativa che l'Inghilterra di allora andava elaborando proprio in quegli anni come giustificazione «scientifica» della propria politica coloniale. La predisposizione alla comprensione dell'alterità culturale in base ad un piano di tipo scientifico era in effetti destinata a fare nuovamente la sua comparsa proprio all'insegna di questa ideologia. Non è quindi affatto un caso che ad operare la critica delle teorie di de Maistre e del vescovo Wathely siano stati proprio quanti si proposero, a partire dalla metà dell'Ottocento, di validare un discorso sulla storia dell'uomo che liberasse quest'ultima dall'ipoteca del creazionismo. Ciò accadde entro il quadro teorico ed ideologico elaborato dall'evoluzionismo positivista britannico.
Il quadro ideologico e teorico dominante Col Congresso di Vienna l'Europa aveva ricevuto un assetto politico destinato a rimanere inalterato per un secolo intero: un assetto che, nel nome della «restaurazione», era in realtà destinato a dar vita ad uno sviluppo economico, sociale e scientifico quale l'Europa non aveva mai conosciuto in precedenza. L'eccezionale incremento della produttività industriale, lo sviluppo dei mercati, l'impresa coloniale ed il trionfo della borghesia, erano tutti elementi che si inscrivevano nel rapido processo di espansione del modo capitalistico di produzione. Il pensiero filosofico e scientifico dell'Ottocento colse le trasformazioni economiche e sociali generate da questo modo di produzione indipendentemente dalle modalità di funzionamento del sistema che le aveva prodotte. La scienza e la filosofia dell'Ottocento colsero, e trasferirono all'interno delle loro teorie finalizzate alla comprensione della realtà naturale e sociale, solo la cumulatività visibile degli effetti materiali generati da questo sistema economico in rapida ascesa. L'immagine della società che scaturì da questo sguardo particolare fu quella di una società in rapido sviluppo pensabile grazie al concetto di progresso. Gli stessi fenomeni di "patologia sociale", generati da questo modello di sviluppo economico, vennero considerati fenomeni transitori, a cui avrebbe posto rimedio l'incremento generale della ricchezza promosso da quello stesso modello economico. Progresso, continuità e cumulativitd A fornire questa immagine progressiva, in cui si rappresentò la società capitalistico-industriale di metà Ottocento, concorsero gli effetti dell'applicazione in
Nascita dell'antropologia
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campo produttivo delle scoperte scientifiche. La scienza appariva lo strumento in grado di assicurare all'umanità un destino di felicità e di progresso e la sociologia, stadio ultimo del sapere positivo, come quella branca della scienza per mezzo della quale non solo sarebbe stato possibile comprendere gli effetti di quel progresso sulla società, ma anche guidarli. L'Ottocento fu il secolo della sociologia, una disciplina nata dalle domande che la società capitalistico-industriale rivolgeva a se stessa e che ebbe in Auguste Comte (1798-1857) e in Herbe rt Spencer (1820-1903) i suoi maggiori rappresentanti in Francia e in Inghilterra rispettivamente. La fiducia nel progresso materiale e sociale costituì il quadro ideologico entro il quale venne organizzandosi il lavoro teorico degli antropologi evoluzionisti. Per questi ultimi quello di progresso era un concetto sintetico per mezzo del quale diveniva possibile esprimere contemporaneamente le idee di cumulatività e di continuità culturale. La convinzione nell'esistenza di un progresso nella storia dell'uomo derivava essenzialmente dalla considerazione della società industriale di metà Ottocento come di quella che si trovava al più alto stadio di una evoluzione culturale di natura cumulativa. L'eccezionale incremento produttivo di cui le società europee, e soprattutto quella inglese, stavano sperimentando gli effetti da qualche decennio, divenne la chiave di lettura della storia passata. Tale lettura della dinamica storica potrebbe essere riassunta in questo modo: le leggi che governavano l'incremento della produzione materiale ed intellettuale della società presente sono le stesse che dapprima lentamente, poi via via sempre più rapidamente, hanno determinato lo sviluppo delle società passate e quindi il passaggio da uno stadio culturale inferiore ad uno stadio superiore. La storia della società umana nel suo complesso appariva così come il risultato dell'azione di leggi sempre identiche i cui effetti cumulativi avevano generato stadi di sviluppo contrassegnati da una crescente complessità. Sul piano teorico due erano le principali conseguenze di questa immagine progressiva della storia. Innanzitutto i «primitivi» contemporanei dovevano in qualche modo rappresentare lo stadio più remoto dello sviluppo culturale; inoltre, sulla base del criterio della complessità culturale crescente, diveniva possibile classificare le società in inferiori e superiori all'interno di una scala generale di sviluppo.
Una nuova congiuntura scientifica: geologia, biologia, archeologia Nei decenni centrali del XIX secolo, in Gran Bretagna, si determinò una rivoluzione nelle scienze della natura e nelle scienze dell'uomo. Geologia, biologia e archeologia furono le grandi protagoniste di questo rinnovamento che si rese possibile mediante l'assunzione di una prospettiva che porta il nome di uniformismo (o attualismo). La geologia e la biologia: l'uniformismo La teoria dell'invarianza delle leggi che caratterizzano lo sviluppo culturale in senso cumulativo scaturiva dall'incontro di una teoria del progresso di derivazione illuminista con l'ipotesi dell'uniformismo enunciata dallo scozzese Charles Lyell (1797-1875) nei suoi Principi di geologia del 1830. Lyell, che era un geolo- go, aveva avanzato l'ipotesi secondo la quale i processi che operano attualmente nella trasformazione della crosta terrestre erano di natura identica a quelli che, operando in passato, avevano modellato l'attuale superficie del globo. L'impor-
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Nascita dell'antropologia tanza delle teorie di Lyell consisteva nel fatto che esse consentivano di fornire una spiegazione alternativa al creazionismo e di leggere, nell'attuale paesaggio terrestre, il risultato "dell'azione uniforme di cause uniformi". Lo stesso Darwin riprese l'ipotesi di Lyell ne l'Origine delle specie sostenendo che l'evoluzione di queste ultime poteva essere spiegata sulla base degli stessi meccanismi che attualmente operano nei processi di differenziazione delle varietà animali addomesticate. Gli antropologi evoluzionisti, da parte loro, erano convinti che nella storia dell'umanità l'avanzata del progresso doveva essere stata contrassegnata dalle stesse caratteristiche di cumulatività osservabili nella società scaturita dalla rivoluzione industriale. Questi primi antropologi trasferirono nel loro campo di studi un principio esplicativo che si era rivelato molto efficace nelle scienze naturali, 1'uniformismo, associandolo con una precedente teoria del progresso che, come abbiamo visto, era già un elemento del ragionamento scientifico dei tardo-illuministi riuniti nella Société des Observateurs de 1'homme. La ripresa dell'uniformismo permise a questi antropologi ciò che, seppure in campo naturalistico, aveva permesso a Lyell e a Darwin: sottrarre all'ipoteca del creazionismo la storia dell'uomo e naturalizzare quei processi di trasformazione che il creazionismo, e quindi il degenerazionismo, non consideravano come il prodotto autonomo dell'attività umana. L'archeologia preistorica: selvaggi e primitivi
Nel 1865 comparve, in Inghilterra, un'opera che ebbe un enorme successo. Autore di essa era un archeologo e naturalista amico di Darwin, John Lubbock, Lord [T1.51 Avebury (1834-1914). In quest'opera, Prehistoric Times, Lubbock suddivise l'età della pietra in due periodi che, da allora, portano il nome di paleolitico e di neolitico rispettivamente. Ma l'opera di Lubbock contribuì a far circolare un'altra importante idea, quella già abbozzata dall'archeologo danese Sven Nilsson nel 1843 secondo cui la vita dei primitivi abitanti dell'Europa poteva essere paragonata a quella dei «selvaggi» contemporanei. Questo parallelismo tra «europeo primitivo» da un lato, e «selvaggio contemporaneo» dall'altro, fu il prodotto di una "lettura" particolare del reperto archeologico. Infatti, i reperti che sempre più numerosi venivano rinvenuti grazie alle scoperte degli archeologi preistorici in Francia, in Gran Bretagna, in Germania e in Italia (asce, pugnali, bulini, tazze, collane, punte di freccia ecc.) non venivano più considerati come semplici «testimonianze del passato», bensì come «misuratori di progresso», come oggetti in cui era visibile la cumulatività del progresso materiale. In questa interpretazione dei reperti archeologici è possibile leggere un effetto di quell'ideologia che, assumendo come criterio di valutazione lo sviluppo tecnologico, vedeva nel carattere cumulativo del progresso materiale il principio stesso di intelligibilità della storia umana. Il parallelismo tra Europei preistorici e selvaggi "esotici" rifletteva l'assunto centrale di tutta l'antropologia evoluzionista. Tale assunto era che, a causa della sostanziale identità delle facoltà mentali umane, i popoli elaborano, ad un livello di pari sviluppo intellettuale, tipi di adattamento simili sul piano materiale. Il ragionamento degli evoluzionisti potrebbe essere riassunto in questo modo: esiste, in quanto provata dalla compresenza di popoli alcuni dei quali sono più organizzati di altri sul piano tecnologico, sociale, economico ecc., una via che porta dallo stato selvaggio alla civiltà. Quanto più un popolo (spesso il termine impiegato era quello di razza) è organizzato da questo punto di vista, tanto più esso è «avanti» nella scala dello sviluppo che porta dallo stato selvaggio alla civiltà. I
popoli selvaggi e quelli «barbari» contemporanei erano i rappresentanti di particolari fasi o «stadi» evolutivi. In questo ragionamento i reperti archeologici e i reperti etnografici svolgevano una funzione essenziale. Le asce, come molti altri reperti, degli aborigeni australiani dell'Ottocento e quelle degli abitanti dell'Europa preistorica potevano infatti "essere confrontate". Esse erano gli elementi che consentivano di paragonare lo stile di vita dei palafitticoli della Svizzera lacustre o degli abitanti preistorici della valle della Somme in Francia con quello dei selvaggi dell'Australia o del Borneo. È in questa congiuntura intellettuale e scientifica rientrante nell'ambito più generale dell"`evoluzionismo positivista" che si deve collocare la comparsa di una "scienza delle società primitive". Con l'evoluzionismo l'antropologia venne anche acquistando le caratteristiche di un sapere scientifico dotato di una certa autorevolezza e lo status di una disciplina accademicamente riconosciuta. Lo sviluppo dell'antropologia moderna resta essenzialmente legato allo spazio che progressivamente le teorie evoluzioniste in genere vennero acquistando nella cultura media della seconda metà dell'Ottocento.
Bibliografia critica
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana
Capitolo
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definita "la scienza del riformatore", proprio ad indicare l'idea che l'antropologia, con il suo sapere, poteva fornire un contributo utile ad una umanità bisognosa di riforme sul piano sociale, politico e culturale. Chi chiamò l'antropologia "scienza del riformatore" fu Edward B. Tylor (1832-1917) considerato uno dei fondatori della disciplina. Gli interessi antropologici di Tylor risalgono ad un viaggio che egli compì, poco più che ventenne, nell'America centrale. A quel tempo Tylor non poteva iscriversi alle prestigiose università di Cambridge o di Oxford, in quanto la sua famiglia apparteneva alla confraternita dei quaccheri.Tuttavia, grazie al "progresso" delle leggi e della mentalità del tempo, Tylor ricoprì alla fine, nel 1896, la prima cattedra di "antropologia culturale" nell'università di Oxford.
Il concetto di cultura
L'Inghilterra della Regina Vittoria, la quale regnò dal 1837 al 1901, può a buon diritto essere considerata la culla dell'antropologia moderna. Fu durante il lungo regno di questa sovrana che l'Inghilterra si impose come la maggiore potenza industriale, coloniale, militare e politica. Durante questo periodo la Gran Bretagna si impadronì dell'intera India, estese il proprio controllo su gran parte dell'Africa e disseminò di proprie rappresentanze diplomatiche e stazioni commerciali il Medio Oriente, il Sudest asiatico e l'America meridionale. L'Australia, la Nuova Zelanda e gran parte dell'Oceania erano sotto la corona britannica, mentre la sua forza militare le consentiva di fronteggiare l'espansionismo della Russia zarista in Asia centrale e di dettare ordini all'impero cinese. I progressi ottenuti sul fronte interno erano stati, nel frattempo, notevoli. Trascorso il periodo del "capitalismo di rapina" che, all'insegna di uno sfrenato liberismo aveva creato enormi masse di poveri, il proletariato inglese aveva migliorato lentamente la propria condizione grazie alla nascita delle organizzazioni sindacali sorte sulla spinta del socialismo riformista, utopista e rivoluzionario. La borghesia e l'aristocrazia liberal favorirono per contro l'elevazione economica, sociale, politica e culturale del proletariato mediante l'aumento dei salari, il riconoscimento dei diritti dei lavoratori, il suffragio universale (esteso però ai soli uomini), e una vasta e capillare opera di alfabetizzazione e di scolarizzazione. La Gran Bretagna era, allora, all'avanguardia. I progressi in campo tecnico-scientifico, e le conquiste in campo coloniale e sociale confortarono una visione ottimistica e progressiva del divenire storico. Tale visione offrì una chiave di interpretazione della storia dell'umanità che, per essere sostenuta, aveva bisogno di "prove empiriche". Tali prove furono fornite dall'antropologia.
La «scienza delle società primitive»: Edward B. Tylor L'antropologia che si sviluppò nell'Inghilterra vittoriana fu, per diversi decenni. una scienza "ottimista" come la società che l'aveva prodotta. Essa fu addirittura
Cultura primitiva (Primitive Culture) è il titolo dell'opera più celebre di Tylor. Essa venne pubblicata nel 1871. Cultura primitiva è uno studio sullo sviluppo delle idee religiose dallo "stadio" primitivo a quello `razionale". Il libro si apre con una definizione del concetto di cultura che. da Tylor in poi, è venuto a costituire, pur tra consensi e dissensi, il tema attorno al quale ruota il ragionamento dell'antropologia: "La cultura, o civiltà. intesa nel suo senso etnografico più ampio, è quell'insieme complesso che include le conoscenze, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo in quanto membro della società" (Tylor 1920: 1). In questa definizione sono contenute alcune importanti idee. La prima è che la cultura (o civiltà), la si ritrova ovunque ("intesa nel senso etnografico più ampio"). Non esistono quindi popoli con cultura e popoli senza cultura. La seconda idea è che la cultura è un `insieme complesso" costituito da una serie di elementi che possiamo, anche in questo caso. ritrovare ovunque (tutti i popoli hanno una economia, una morale. un diritto. una tecnologia ecc. per quanto "primitive" queste possano essere). La terza idea è che la cultura è `acquisita". Essa cioè non è connaturata ad una "razza - (come pensavano invece i creazionisti), né si trasmette col sangue. La quarta idea. strettamente connessa con la precedente, è che la cultura è acquisita dall'uomo in quanto membro della società, ossia: gli esseri umani "ricevono" la cultura dalla propria società, e siccome le società sono tante e diverse, esistono tante culture quante sono le società. Come si può notare, l'uso del concetto di cultura non fa qui più riferimento solo all'individuo, ma è posto in relazione all'intera umanità e alle società che la compongono. Spostando l'uso del termine cultura (civiltà) da un contesto individuale ad uno collettivo, Tylor mantenne però gli aspetti semantici posseduti da tale termine nel contesto precedente, specialmente quelli relativi alle idee di cumulatività e di crescita. Quando ad esempio i latini parlavano di "cultura animi" intendevano riferirsi ad una condizione spirituale risultante da un processo di crescita interiore determinato dalla acquisizione di conoscenze in campo artistico, filosofico, letterario e scientifico. -Colti" si diventava, come del resto si diventa ancora oggi, per effetto di una "accumulazione di sapere". L'idea della cultura come qualcosa che è sottoposto a processi di crescita e di
Edward B. Tylor (1900)
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana cumulatività fu trasferita dall'individuo al singolo popolo e all'umanità in generale. Il salto rappresentato dal passaggio dall'uso individualistico del concetto di cultura a quello collettivo fu dunque grande e importante, ma portò inevitabilmente con sé le idee di crescita e di cumulatività incorporate nell'accezione precedente del termine. La cultura umana, come quella di un singolo individuo, di un singolo popolo o dell'intera umanità, appariva così come un patrimonio ottenuto cumulativamente e ulteriormente incrementabile. La cultura come «insieme complesso» Stabilito il referente del concetto di cultura, bisogna ora considerarne la valenza di concetto chiave dell'antropologia evoluzionista. Tale valenza risiede nella qualificazione della cultura come di un insieme complesso. Questa qualificazione implica che la cultura sia costituita da elementi che stanno tra loro in un rapporto complesso (ma non dinamico o integrato). Essi, per così dire, "sono dentro una cultura" e al tempo stesso la costituiscono. Gli insiemi, per quanto complessi, sono scomponibili nei loro elementi. È qui che la cultura assume la valenza di concetto-chiave per l'antropologia evoluzionista. Il progetto di quest'ultima si configurò' subito come tentativo di ricostruire, grazie ai dati forniti dalle osservazioni sui popoli selvaggi, primitivi e barbari, delle sequenze di sviluppo o di progresso come quelle auspicate dai tardo-illuministi riuniti nella Société des Observateurs de l'homme. La scomponibilità delle culture nei loro elementi consentiva di "estrarre" dalle varie culture quel dato elemento che, risultando presente in tutte le culture studiate, consentiva di determinare la sequenza dello sviluppo dell'elemento prescelto: della religione come della famiglia, di una certa tecnologia piuttosto che della morale, del diritto, insomma dell'intera cultura umana. Il concetto di cultura, così come era stato enunciato da Tylor, risultava pertanto adeguato al progetto evoluzionista e quest'ultimo poteva dispiegarsi avendo come riferimento, non importa se in maniera esplicita o implicita, tale concetto. La concezione «progressiva» della cultura Come tutti i suoi contemporanei, anche Tylor pensava che esistessero popoli «inferiori» e popoli «superiori», nel senso che la storia del genere umano poteva essere rappresentata da una linea ascendente la quale, da forme di organizzazione sociale più semplici conduceva a forme di vita associata più complesse e meglio organizzate. In Cultura primitiva egli per esempio scriveva: «La civiltà può essere considerata come un miglioramento generale dell'umanità per mezzo di una più alta organizzazione dell'individuo e della società al fine di promuovere la bontà, il potere e la felicità dell'uomo» (Tylor 1920: 27). In questa affermazione sono presenti i temi dominanti dell'ideologia antropologica vittoriana, e cioè: la civiltà pensata come risultato di un processo cumulativo; il processo evolutivo pensato sulla base di una crescente complessità organizzativa; l'idea della vita sociale come mezzo atto a promuovere il progresso e quindi la ricchezza e la felicità di tutti gli uomini. Tylor condivideva con i suoi contemporanei l'idea secondo la quale i popoli «selvaggi» sparsi sui vari continenti erano i rappresentanti degli stadi precedenti della storia umana e che, come tali, potevano bene illustrare le condizioni di vita degli uomini preistorici. In Anthropology del 1881, un libro scritto con intenti divulgativi, egli infatti sostenne chiaramente che «le tribù selvagge e barbare rappresentano più o meno gli stadi culturali attraverso i quali sono passati tanto
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tempo fa i nostri progenitori» e che «i loro costumi e le loro leggi spesso ci spiegano, in un modo che altrimenti ci sarebbe difficile concepire. il senso e le cause profonde dei nostri» (Tylor 1881: 401). Il concetto di stadio culturale fu ciò che permise a Tylor di inserire la definizione della cultura, che aveva costituito il celebre esordio del libro nel 1871, in una rappresentazione complessiva della storia umana dai caratteri progressivi. Tylor non escludeva affatto il regresso culturale in quanto tale, ma lo considerava soltanto contingente e secondario rispetto al processo cumulativo delle conoscenze. La religione e le sopravvivenze Tra i temi di riflessione dei primi antropologi vi furono la religione e la parentela. L'interesse per la religione rifletteva lo scontro tra creazioni'sti ed evoluzionisti. nonché le angosce e le perplessità di un'epoca che vedeva messa in discussione l'autorità biblica, oltre che della chiesa, in materia di scienza natura `e le e di origini umane. La parentela era l'altro importante oggetto di riflessione, in cui si mescolavano l'interesse per l'evoluzione del diritto, la curiosità per lo "strano" modo in cui i parenti si chiamavano l'un l'altro nelle società primitive e, inconfessato, un sottile desiderio di avvicinare temi allora "proibiti", come quello delle pratiche sessuali dei popoli primitivi. Ad ogni modo fu la religione quello che, negli interessi degli evoluzionisti, prevalse di gran lunga sugli altri. Al punto che, è stato detto, l'antropologia sembra nascere in primo luogo come antropologia della religione. L'animismo Tylor dedicò gran parte della sua opera Cultura primitiva all'evoluzione della religione, e in modo particolare a ciò che per opera sua entrò da allora a far parte del gergo antropologico col nome di animismo. Con questo termine Tylor indicò "la credenza nelle anime e negli esseri spirituali in genere". Più esattamente, il termine animismo stava ad indicare la credenza, tipica secondo Tylor dei popoli primitivi, secondo la quale gli oggetti, anche quelli inerti, possedevano un"'anima". Sulla base di alcuni resoconti etnografici, Tylor postulò che dall'esperienza del sogno i nostri progenitori dovevano aver tratto la convinzione che i fenomeni di sdoppiamento della personalità e delle apparizioni, che si verificano durante lo stato di sonno, erano dovuti all'esistenza di un "doppio". Questo doppio, o anima, poteva condurre un'esistenza indipendente dal corpo tanto durante la vita quanto dopo la morte. Più tardi, secondo Tylor, l'uomo avrebbe esteso la credenza nel possesso di un'anima a tutti quegli esseri e a quei fenomeni naturali che colpirono in qualche modo la sua immaginazione. Animali, piante e oggetti vennero in tal modo dotati di un'anima che, potendosi distaccare dai corpi ai quali apparteneva, diede origine alla nozione ancora più astratta di spirito, una entità del tutto autonoma e priva di sostanza materiale.
Mago (Guinea settentrionale)
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana Poiché tuttavia per Tylor l'animismo era «la base della filosofia della religione, da quella dei selvaggi a quella dell'uomo civile», la stessa nozione di animismo stava ad indicare anche quel tipo di pensiero per il quale la spiegazione dei fenomeni naturali e psichici veniva ricondotta a principi estranei all'indagine razionale e materialistica. Animismo era dunque una nozione che permetteva a Tylor di definire in un solo colpo l'essenza dal pensiero mitico, magico e religioso e di distinguerlo, per opposizione, da quello scientifico e razionale. Tylor osservò che «la divisione che ha separato le grandi religioni dell'umanità in sette ostili è quasi nulla al confronto con il più profondo di tutti gli scismi, quello che separa l'animismo dal materialismo». In questo modo egli lasciava intendere l'abisso che separa questi due atteggiamenti mentali. Tuttavia egli riteneva che l'affiorare del pensiero razionale fosse il risultato di una lenta e progressiva maturazione intellettuale del genere umano. Poiché il punto di arrivo di tale maturazione era rappresentato dall'affermazione del pensiero razionale, si trattava di tracciare non soltanto le tappe evolutive di questo cammino, ma di mostrare anche a quale sorta di modificazioni fosse andata soggetta «la credenza negli spiriti durante le varie fasi, dalla prima all'ultima, che essa ha attraversato nella storia del genere umano». Per Tylor l'animismo costituiva, nella sua forma originaria – cioè la credenza nell'esistenza dell'anima umana – una presenza ininterrotta «dalla filosofia del selvaggio alla filosofia del moderno professore di teologia». Con l'accumularsi delle conoscenze, e quindi con l'emergere dal pensiero razionale, questa credenza, estesa all'inizio a tutti gli esseri viventi ed agli oggetti inerti, era andata progressivamente "restringendosi" fino a riguardare soltanto il "cristiano civilizzato". La comparsa del pensiero razionale andava così di pari passo con la progressiva riduzione della gamma dei fenomeni naturali e psichici investiti all'origine dal pensiero magico e religioso, mentre l'animismo finiva per ritornare ad essere esclusivamente la credenza nel possesso di un'anima da parte dell'uomo. Le sopravvivenze
Nonostante la progressiva affermazione del pensiero razionale, «le credenze e i riti dei popoli superiori mostravano la sopravvivenza del vecchio nel cuore del nuovo, le modificazioni del vecchio per adattarsi al nuovo e l'abbandono del vecchio in quanto non più compatibile col nuovo» (Tylor 1920: 500). Siamo [T2.2] qui in presenza di un altro importante concetto dell'antropologia evoluzionista. quello di sopravvivenza. Cosa Tylor intendesse per sopravvivenza è illustrato da questo passo di Primitive Culture: «Quando col tempo si è venuto a creare un cambiamento generale nelle condizioni di vita di un popolo, è comunque facile trovare molte cose che chiaramente non hanno la loro origine nel nuovo stato di cose ma che si sono semplicemente mantenute all'interno di esso. In forza di queste sopravvivenze è possibile sostenere che quella cultura all'interno della quale esse possono essere osservate deve essere derivata da uno stato culturale precedente in cui deve essere rintracciato l'autentico luogo e l'autentico significato di queste cose; di conseguenza questa serie di fatti deve essere considerata come una vera e propria miniera per l'indagine storica» (Tylor 1920: 71). La sopravvivenza era dunque qualunque cosa, per esempio una credenza, un'idea, una pratica, il cui significato era perito da secoli, ma che poteva tuttavia continuare a sopravvivere «semplicemente perché era esistita in precedenza». La sopravvivenza era dunque un fossile sociale e, come dice Tylor, una «miniera per
l'indagine storica». Rilevare una sopravvivenza voleva dire poter risalire all'epoca in cui quell'idea o pratica (oggi sopravvissuta) aveva un significato, e quindi poter comprendere lo stadio di sviluppo culturale precedente a quello attuale.
Il metodo comparativo Per l'antropologia evoluzionista le culture e le società che l'Occidente incontrava sul proprio cammino erano delle realtà che potevano e dovevano essere ricondotte al senso di una storia coincidente con lo sviluppo cumulativo della cultura del quale l'Occidente rappresentava il culmine. Proprio in quanto esemplificazione di stadi della storia umana, queste culture e queste società "primitive" erano, per l'antropologia, delle realtà a tutti gli effetti. Esse non erano più semplici efflorescenze insignificanti, come erano invece state per le filosofie della storia precedente. Né erano, al contrario di quanto sostenevano i creazionisti e i degenerazionisti, disprezzabili esempi della barbarie a cui il peccato aveva condannato una parte dell'umanità. Per gli evoluzionisti l'antropologia si configurò come un grande viaggio "mentale" attraverso le culture. Pochi di loro ebbero infatti esperienza diretta delle popolazioni "primitive". Il loro scopo era quello di tracciare tendenze. stadi, sequenze di sviluppo delle istituzioni e delle idee che avevano caratterizzato la storia della cultura. Questo progetto richiedeva un "attraversamento" delle esperienze culturali "altre". Da allora in avanti l'antropologia divenne un sapere comparativo, e non poté essere altrimenti. Caratteristica dell'antropologia è infatti quella di fare della comparazione tra culture la premessa di ogni possibile conclusione tendente alla generalizzazione. La centralità della comparazione può essere esplicita o implicita, può essere enfatizzata o sfumata, declinata ora in senso geografico, ora in senso tipologico. Essa resta comunque la condizione stessa del sapere antropologico. Benché criticata in varie epoche. la comparazione resta il metodo ispiratore del sapere antropologico. Gli evoluzionisti furono probabilmente quelli che, tra gli antropologi, fecero un uso più esplicito e massiccio della comparazione. Un uso per molti aspetti criticabile a causa della tendenza che essi mostrarono a decontestualizzare i dati etnografici, a piegarli al loro progetto conoscitivo consistente nel voler tracciare sequenze e linee di sviluppo. L'antropologia come scienza statistica Il concetto di cultura come insieme complesso (e scomponibile). la nozione di sopravvivenza e la comparazione costituirono i punti d'appoggio di un progetto teso alla ricostruzione degli stadi dell'evoluzione culturale. Tylor cercò di conferire al progetto una base statistica attraverso l'applicazione di un metodo detto delle "variazioni concomitanti" o, appunto, delle "correlazioni statistiche". Nel saggio Su di un metodo per lo studio dello sviluppo delle istituzioni del 1889. Tylor cercò infatti di stabilire la frequenza statistica con cui certe pratiche matrimoniali e rituali si trovano associate alla presenza della discendenza matrilineare o patrilineare. Esaminando un campione di 350 società, Tylor cercò così di accertare con quale frequenza erano correlate alcune forme di residenza, di discendenza, di comportamento e di rituale. Un esempio tra gli altri è costituito dalla correlazione da lui stabilita fra il costume della couvade e il tipo di discendenza caratteristico della società in cui tale costume era presente. La °couvade" è quel comportamento, consistente nel rispetto di certi tabù, e talvolta nella simulazione dei sintomi del parto e del post-parto, da parte dal marito di una puerpera.
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Tylor constatò che i risultati dell'elaborazione statistica davano assenza della couvade nelle società matrilineari, alta freISRAELE quenza di essa nelle società a discendenza "doppia" (cioè paaa Alessandtia s,, Tel A 4 tri e matrilineari) e bassa frequenza nelle società patrilineari. ^.`^ / ^-''t ^ /^ rto Sai• n Tylor ne concluse che la couvade doveva aver fatto la propria ^ 0 Suez IL CAIRO., k, comparsa con la discendenza doppia, mentre allo stadio pa^. ARABIA trilineare essa era solo una sopravvivenza. I tre tipi di discenBedwm \SL-.\ SAUDITA denza, matrilineare, doppia e patrilineare dovevano essere • suhaiti considerati caratteristici di tre stadi successivi dell'evoluzione delle forme di discendenza. Il saggio del 1889 segnava la TTO`),Lmor comparsa di un'idea dell'antropologia come di una scienza . Assua edificabile su basi statistiche, idea che riemergerà nella prima parte del secolo successivo nel quadro di un progetto compaBeduini rativo come tipico della disciplina. LIBANO.
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d'Egitto e Palestina
I riti comunitari e l'efficacia sociale della religione: William Robe rt son Smith Il dibattito sulle origini delle istituzioni religiose e del monoteismo fecero da sfondo all'opera di William Robertson Smith (1846-1894). Scozzese, professore di ebraico e poi di arabo nelle università di Aberdeen e di Cambridge, Smith fu uno dei fondatori dei moderni studi semitici, un "orientalista". A differenza di quasi tutti i suoi colleghi di allora – antropologi compresi – Smith effettuò ricognizioni sul campo, visitando paesi come l'Egitto e la Palestina alla ricerca di elementi della vita locale che contribuissero a confermare le sue ipotesi e a stimolare la sua riflessione teorica. La prospettiva antropologica di Smith aveva origine nel clima intellettuale della borghesia "liberare nel pensiero evoluzionista. In accordo con queste idee Smith si schierò a favore della "critica storica della Bibbia". Questo atteggiamento gli procurò, nonostante la sua fama di grande studioso della Bibbia e di poliglotta, l'espulsione dall'università di Aberdeen dove era professore di ebraico. Così, nel 1878, egli si trasferì a Cambridge dove fu nominato professore di arabo, incarico che mantenne fino alla morte. Lo studio della società e della religione A partire dal 1878. anno in cui fu costretto a lasciare l'università di Aberdeen, Smith iniziò a concepire l'idea di uno studio comparato delle istituzioni sociali e religiose dei popoli semitici. Riprendendo i temi centrali dell'epistemologia evoluzionista, tra i quali l'idea della fondamentale unità psichica del genere umano, lo studio delle sopravvivenze come mezzo indiziario di conoscenza dello sviluppo culturale, e soprattutto la prospettiva comparativa. Smith mirò ad elaborare, sulla base dei materiali relativi all'area delle civiltà semitiche, una teoria generale dei rapporti tra società e religione. In Conferenze sulla religione dei semiti (Lectures on the Religion of Semites), del 1889, Smith raccolse una serie di studi dedicati al rapporto tra società e religione tra gli antichi ebrei e gli arabi preislamici. Qui egli espose le proprie idee relative alla natura "sociale" del fenomeno religioso. L'originalità di Smith consiste nel fatto che, pur accettando i presupposti dell'antropologia evoluzionista, egli partì da premesse diametralmente opposte a quelle di molti suoi contemporanei. Mentre questi ultimi individuavano la fase aurorale della religione in una attitudine riflessiva dell'individuo "primitivo" (si pensi alla spiegazione dell'origine dell'animismo secondo Tylor). Smith preferì concen-
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana trarsi sulla dimensione sociale e collettiva, ed in particolare sull'attività rituale. La centralità del rito e la sua funzione sociale Alla teoria della religione primitiva concepita come il risultato di uno sforzo teso a comprendere la realtà operato dall'intelletto primitivo, Smith contrappose l'idea secondo cui il dato primario di ogni esperienza religiosa sono i riti e i simboli ad essi correlati. Tali riti e simboli sono condivisi dai membri di una determinata società i quali, nascendo in una comunità, li trovano già presenti ed attivi. La dimensione collettiva e pubblica del fenomeno religioso, che Smith anteponeva a quella individuale, riflessiva e sistematica, si manifestava negli atti di devozione che coinvolgevano l'intera società, e cioè nei riti comunitari.
Attraverso lo studio del materiale biblico, rivelatore dell'esistenza di una religione a tinte fortemente comunitarie, Smith giunse a sostenere l'esistenza di una fondamentale omologia tra attività religiosa e rituale da un lato e identità politica e sociale dall'altro. Affermando che, nella società arcaica, "la religione di un uomo è un elemento integrante delle sue relazioni politiche" (1889: 36), Smith sottolineava come il fatto di conformarsi o meno ai rituali pubblici fosse il segno dello stato dei rapporti tra gli individui e tra questi e la comunità. Ciò era rivelatore della natura "sociale" della religione e della sua funzione di elemento coesivo della società. Il significato del sacrificio Smith, cercò di fortificare queste sue ipotesi attraverso lo studio dell'istituzione del sacrificio tra i popoli semitici. Il sacrificio compiuto in favore della divinità non era, sostenne Smith, un dono rivolto ad una potenza sovrastante allo scopo di ingraziarsela. il sacrificio era piuttosto un rituale di comunione tra la società e una divinità che rappresentava simbolicamente l'unità della società stessa. Questa idea della divinità come "nume tutelare" del gruppo era già stata avanzata dallo storico antichista francese Nouma D. Fustel de Coulanges (1830-1889). Ne la La cité antique del 1864, uno studio comparato sull'origine delle istituzioni politico-religiose di Atene e di Roma arcaiche, Fustel de Coulanges sostenne che la società era fondata inizialmente su basi teocratiche. La discendenza comune e la co-territorialità, sebbene elementi fondamentali nella costituzione della comunità politica (la città), erano infatti secondarie rispetto al culto comune delle divinità tutelari. Gli stessi legami parentali, primo vincolo "politico" tra gli esseri umani, erano ciò che consentiva di assicurare la continuità del culto domestico, ed erano di conseguenza secondari rispetto a quest'ultimo. La religione appariva così un fattore regolativo dei rapporti sociali in quanto, attraverso l'adesione ai rituali pubblici, spingeva gli individui a conformarsi agli standard di comportamento collettivi. La religione rappresentava inoltre un elemento coesivo poiché, riunendo periodicamente gli individui a scopo rituale, rafforzava nei partecipanti il senso di appartenenza ad un unico corpo so-
William Robertson Smith in viaa5io in Palestina
(1880)
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana ciale. In tal modo la religione non appariva più come il prodotto di un atteggiamento speculativo, ma neppure come il frutto di un bisogno spirituale dell'individuo come tale. Essa risultava invece essere come qualcosa che esiste «non per la salvezza delle anime, ma per la conservazione e il benessere della società» (1889:29).
Israeliti antichi e beduini contemporanei I materiali utilizzati da Smith per sostenere la sua teoria del sacrificio, e più in generale quella dei rapporti organici tra religione e società, provenivano sia dallo studio della Bibbia sia dallo studio dei classici arabi. A questi egli aggiunse le osservazioni compiute personalmente tra i beduini d'Egitto e di Palestina. L'interesse di Smith per i beduini contemporanei si spiega con il suo stesso progetto comparativo. Egli riteneva che la vita dei nomadi arabi della sua epoca fosse per molti aspetti simile a quella del popolo dei patriarchi biblici, e che le loro istituzioni fossero le sopravvivenze di quelle dell'antico popolo d'Israele. Si trattava di un'idea assai diffusa tra gli orientalisti di allora, e certamente debitrice della prospettiva evoluzionista secondo la quale nei popoli "primitivi" o "barbari" contemporanei era possibile leggere altrettanti esempi degli stadi di sviluppo attraversati dalla società negli stadi precedenti della sua storia. Dalla discendenza matrilineare a quella patrilineare: l'Arabia antica Influenzato dalle teorie allora correnti sull'evoluzione delle forme di discendenza, Smith asserì, in Parentela e matrimonio nell'Arabia antica (Kinship and Mar ri age in Early Arabia) del 1885, la presenza, tra gli arabi preislamici, di un sistema matrilineare che, con l'avvento dell'islam, sarebbe stato rimpiazzato da un sistema patrilineare. Alla luce delle testimonianze storiche ed etnografiche, questa teoria appare oggi inesatta. Benché Parentela e matrimonio dell'Arabia antica contenesse una teoria o gg i superata dello sviluppo delle istituzioni sociali, quest'opera costituì il preludio alla comparsa di nuovi interessi scientifici e di nuove problematiche teoriche. Quest'opera rappresentò infatti non solo il primo lavoro di carattere antropologico sulla società e la cultura degli arabi del deserto. ma costituì anche la premessa fondamentale per gli sviluppi, nei decenni successivi, di quel settore di ricerca identificabile con lo studio delle cosiddette "società segmentarie" (v. Cap. 15). Smith mise in rilievo come le genealogie tribali degli arabi, anziché rappresentare una successione temporalmente ordinata di individui reali, fossero il frutto di manipolazioni atte a giustificare lo stato presente della società (Dresch 1988). A Smith spetta inoltre il merito di aver riconosciuto l'esistenza di forme di organizzazione politica prive di istituzioni centralizzate e fondate sull'equilibrio di gruppi ("segmenti") di discendenza tra loro contrapposti. Questo tema, assieme a quello dei rapporti tra rito e coesione sociale, resta il contributo più importante dato da Smith alla riflessione antropologica.
Dalla magia alla scienza: James G. Frazer La discussione sull'evoluzione della cultura si rivolse, come abbiamo detto, per lo più alle tematiche della religione, del rito e della magia primitiva. L'idea di un progressivo sviluppo della razionalità umana stimolò alcuni tentativi di collegare il pensiero magico con quello religioso e questo con quello scientifico.
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L'impresa più notevole compiuta in questa direzione fu quella di James George Frazer (1854-1941). Grande erudito, professore di antropologia sociale a Liverpool e poi a Cambridge, Frazer può forse essere considerato l'ultimo esponente dell'evoluzionismo vittoriano e, per certi versi, il più celebre. Frazer è infatti l'autore di un'imponente mole di lavori a cui attinsero etnologi, storici, filologi, psicoanalisti, poeti e scrittori. Il cammino del pensiero umano Il nome di Frazer è legato a quella che è la sua opera più nota, Il ramo d'oro. Studio sulla magia e la religione (The Golden Bough. A Study in Magic and Religion). Il ramo d'oro, che uscì in una prima versione nel 1890, conteneva una teoria fondata su una sterminata raccolta di dati desunti dal repertorio dell'etnografia e della letteratura classica. Ponendosi in una prospettiva simile a quella adottata da Tylor nella sua ricostruzione dell'evoluzione del pensiero religioso, Frazer avanzava l'ipotesi secondo la quale magia, religione e scienza avrebbero costituito altrettante "tappe" dello sviluppo intellettuale dell'uomo. Frazer sosteneva infatti che la pratica della magia, intesa come tentativo da parte dell'uomo di esercitare un controllo sulla natura, corrispondeva ad una fase di sviluppo dell'intelletto umano contrassegnata dalla confusione e dall'ignoranza relativa ai rapporti causali che dominano nel mondo dell'esperienza oggettiva. In un secondo momento gli uomini, anzi, alcuni uomini, avrebbero pensato di accattivarsi il favore delle potenze della natura: nasceva così la religione, e con essa la figura del sacerdote, mediatore tra l'uomo e la divinità. Quando però altri uomini si accorsero, in una fase più tarda, che nulla gli dei potevano nella risoluzione dei problemi umani, ebbe inizio l'ultima e più recente epoca della storia: quella contrassegnata dall'osservazione dei fenomeni naturali e dalla ricerca delle leggi che ne regolano i rapporti. Si apriva così la possibilità di conoscere secondo modalità di tipo scientifico la natura e di dominarla a scopo pratico. Nella sua opera Frazer riattivava i motivi teorico-ideologici più caratteristici dell'evoluzionismo vittoriano: la storia vista come una successione di fasi o stadi; la lenta risoluzione di una fase precedente in quella successiva; l'idea di un "progresso" da una fase all'altra, e quindi la possibilità di considerare come "sopravvivenza" qualunque elemento culturale che, appartenendo ad una fase "anteriore", era tuttavia presente in una fase "successiva". Erano così considerate sopravvivenze tutte quelle pratiche, o credenze che, pur presenti nella società vittoriana, richiamavano l'oscuro mondo dell'intelletto primitivo e selvaggio. L'ultimo vittoriano Proprio perché percorso dall'idea che il mondo primitivo e barbaro sia prigioniero dell'errore, Il ramo d'oro ha potuto giustamente essere interpretato come un grande repertorio di "sbagli" e di "fatti tenebrosi" appartenenti alla sfera del mondo non civilizzato (Jesi, 1977). Tuttavia la teoria in esso contenuta, quella del passaggio dal pensiero magico a quello religioso e da questo a quello scientifico, pur situandosi all'interno del quadro teorico allora dominante, sembra non aderire completamente a quest'ultimo. In un certo senso Frazer potrebbe essere definito l'" ultimo vittoriano" nel senso che la sua opera non è ispirata da quell'atti-
James G. Frazer (1879)
[T2.5]
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana mismo trionfalistico che sembra invece percorrere l'opera dei suoi contemporanei. Il ramo d'oro sembra sanzionare, in campo antropologico, l'affacciarsi di una crisi culturale che, dopotutto, l'antropologia stessa aveva contribuito ad innescare. Alla fine dell'Ottocento l'uomo occidentale non si sente più in grado di dichiarare, in maniera aproblematica, la propria centralità planetaria. L'opera di Frazer sembra testimoniare di questa "crisi delle certezze", con la sua domanda finale sul futuro dell'umanità il quale, scrive Frazer, «si nasconde nella nebbia, nell'ombra, nel buio» (Frazer 1965: 1097).
Altre figure dell'evoluzionismo L'evoluzionismo antropolo gico non fu un fenomeno intellettuale circoscritto alla sola Gran Bretagna dell'età vittoriana. Le idee relative ad uno sviluppo della società e della cultura umana si diffusero un po' ovunque in Europa: in Francia come in Germania, in Russia come in Italia. Nel nostro paese, ad esempio, Paolo Mantegazza (1831-1910), medico di formazione, era un antropologo evoluzionista. Egli ricoprì la prima cattedra di antropologia istituita in Italia, a Firenze, nel 1869 e nella quale si combinavano, come era d'uso allora, lo studio dell'uomo dal punto di vista fisico con quello dei popoli primitivi. Adolf Bastian e Johann J. Bachofen Tra gli studiosi di lingua tedesca vanno ricordati Adolf Bastian (1826-1905) e Johann Jacob Bachofen (1815-1887). Bastian partì dalla considerazione della ricorrenza di fenomeni culturali simili in contesti culturali diversi per elaborare il concetto di Idee elementari (Elementargedanken) attraverso il quale egli volle indicare l'esistenza di "germi di idee" comuni in tutti gli uomini e il cui sviluppo indipendente, origine delle differenze tra le civiltà, era da far risalire alla diversità degli stimoli ambientali. L'idea di Bastian, conservatore del museo etnografico di Berlino e conoscitore. grazie a lunghi viaggi, di paesi e popoli extraeuropei, fu ripresa da numerosi altri evoluzionisti e, tra questi. da Morgan (v. Cap. 3) che concepì lo sviluppo delle istituzioni come dispiegamento delle "idee elementari" di famiglia, proprietà ecc. Il giurista svizzero Johan J. Bachofen fu invece il principale teorizzatore, ne Il matriarcato (Das Mutterrecht) del 1861. della successione delle forme di trasmissione della discendenza. Egli partì dall'ipotesi, comune a tutti gli evoluzionisti, di una promiscuità originaria, stadio in cui i rapporti sessuali non erano regolati da alcuna norma e dal quale si sarebbero poi sviluppate tutte le forme successive di matrimonio. Bachofen inferì la priorità del riconoscimento della maternità sul riconoscimento della paternità e, di conseguenza, la precedenza storica di un potere femminile, o matriarcato, sul potere maschile, o patriarcato. I casi di discendenza matrilineare osservabili presso le popolazioni --primitive" erano infatti ritenuti sopravvivenze di un costume arcaico e ormai obsoleto. Matriarcato e discendenza matrilineare non designano però lo stesso fenomeno sociologico. Il matriarcato, così come questo fu concepito da Bachofen, non è probabilmente mai esistito, sebbene ancora oggi alcuni dilettanti impieghino il termine matriarcato per indicare la discendenza matrilineare, la quale non implica però alcun potere gestito dalle donne. Le origini dell'esogamia: John Ferguson McLennan Un'altra figura di grande rilievo dell'antropologia evoluzionista è John Ferguson McLennan (1827-1881). McLennan era un giurista scozzese che ispirò molti
L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana dei suoi contemporanei e che intuì, talvolta in maniera preveggente, certi sviluppi teorici dell'antropologia successiva. Egli fu anche il primo a parlare di "totemismo" come prima forma di religione in un lavoro del 1869, Il culto degli animali e delle piante (The Worship of Animals and Plants). McLennan scrisse Matrimonio primitivo (Primitive Marriage). pubblicato nel 1865, un classico dell'antropologia vittoriana. In questo libro McLennan sostenne la precedenza storica del sistema di discendenza matrilineare su quello patrilineare, un'ipotesi che lo contrappose a Henry S. Maine, un altro giurista – inglese – autore de il diritto antico (Ancient Law) pubblicato nel 1861. McLennan partì, da un lato, dalla constatazione dell'esistenza, anche tra le popolazioni europee contemporanee, del ratto rituale della sposa (una sopravvivenza) e, dall'altro, della presenza dell'infanticidio femminile presso alcune società di cacciatori nomadi. Quest'ultimo costume era per lui il segno del fatto che le donne, bene prezioso per la riproduzione del gruppo, erano anche gli individui che lo rendevano più vulnerabile. La rarità delle donne avrebbe così portato alla pratica del ratto a scopi riproduttivi, pratica la cui memoria sarebbe sopravvissuta nel rapimento rituale della sposa presso le popolazioni contemporanee, e di cui il celebre episodio del "ratto delle Sabine" avrebbe costituito una traccia storica. Se applicate ad alcuni contesti etnografici contemporanei, le speculazioni di McLennan relative all'infanticidio femminile, alla rarità delle donne e alla pratica del ratto non sembrano, una volta spogliate dell'alone evoluzionistico, del tutto astruse. Secondo McLennan tuttavia, di fronte alla scarsità di individui di sesso femminile non tutte le società ricorsero al rapimento. Alcune popolazioni, come ad esempio i Tibetani e i Nayars dell'India adottarono la poliandria, ossia l'unione di una donna con più uomini. L'altra soluzione, consistente nel rapire donne di altri gruppi inaugurò la pratica dell'esogamia; la poliandria invece, diede inizio all'endogamia (esogamia ed endogamia sono due termini coniati da McLennan e che sono entrati a far parte del repertorio lessicale dell'antropologia). A quest'epoca – argomentava lo studioso scozzese – le società umane riconoscevano esclusivamente la discendenza per via matrilineare in quanto non era possibile, soprattutto nel caso della poliandria, stabilire una discendenza per via maschile. Fu solo dopo la comparsa della proprietà della terra che emerse, dice McLennan, «il desiderio dei padri di trasmettere i propri beni alla progenitura», per cui prese vita la discendenza patrilineare. Per McLennan dunque una fase matrilineare aveva preceduto quella patrilineare ma ciò non implicava, al contrario di quanto pensava Bachofen, l'esistenza di una fase della storia umana in cui il potere sarebbe spettato alle donne anziché agli uomini (matriarcato). In polemica con Maine per via della precedenza storica accordata da quest'ultimo alla discendenza patrilineare, McLennan fu anche in disaccordo con Morgan (v. Cap. 3) circa il significato da attribuire ai termini di parentela. Per McLennan i termini di parentela erano dei semplici "termini di indirizzo" e non, come invece pensava Morgan, termini che rispecchiavano l'esistenza di reali legami di sangue tra gli individui. In ciò McLennan anticipò alcune riflessioni relative all'argomento sviluppate solo all'inizio del secolo successivo (v. Cap. 4).
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L'antropologia evoluzionista dell'età vittoriana Bibliografia critica
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Capitolo
3 Le origini
dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
Negli Stati Uniti gli studi di carattere antropologico si svilupparono, durante la prima metà dell'Ottocento, per iniziativa di un ristretto gruppo di ricercatori dilettanti, curiosi della vita e dei costumi dei nativi americani. Tra questi vi era Lewis Henry Morgan (1818-1881) che, a differenza di altri suoi contemporanei, seppe inserire i dati etnografici raccolti in una visione teorica di più ampio respiro. E questo il motivo fondamentale per cui Morgan viene considerato una figura-cardine nella storia dell'antropologia americana, e degli studi antropologici in generale. Per cogliere l'importanza del lavoro di Morgan bisogna ricondurre i suoi interessi "amatoriali" per gli Indiani al clima generale che caratterizzava, alla fine della prima metà dell'Ottocento. lo stato delle relazioni tra bianchi e nativi americani. Non si può infatti prescindere dalla considerazione del duplice ruolo che i nativi sostennero nel processo di costituzione degli Stati Uniti d'America, tanto in senso strettamente materiale quanto in senso ideologico. Il «problema» indiano Quando Morgan iniziò le proprie ricerche l'opinione pubblica americana, specialmente quella colta della "costa orientale" degli Stati Uniti, era ancora presa tra due concezioni dell'Indiano. entrambe risalenti all'epoca della Dichiarazione d'indipendenza (1776). Negli scritti e nei discorsi dei «padri fondatori» della giovane nazione americana erano convissute infatti due concezioni dell'Indiano, una negativa ed una positiva. Tali opposte concezioni erano conseguenza del diverso modo in cui i politici e gli intellettuali americani di allora cercarono di presentare gli Stati Uniti agli Americani stessi da un lato, e agli Europei dall'altro. Trattandosi di «questioni interne» l'Indiano era il nemico, colui che impediva all'uomo bianco di espandersi su una terra che questi riteneva sua in quanto capace di sfruttarla «razionalmente». Invece, allorché si trattava di contrapporre il vigore e la libertà del Nuovo Mondo alla decadenza e all'oppressione del Vecchio, l'Indiano era chiamato a sostenere, con le sue virtù, il suo valore, la sua semplicità e il suo amore della libertà, la giovane nazione americana.
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Irochesi
Vi era poi un serio problema di natura giuridica: se il possesso del suolo conferiva ad un popolo il carattere di nazione (e gli abitanti delle ex colonie formavano una nazione proprio in virtù di questo possesso), gli Indiani, possessori delle terre che essi abitavano da tempo immemorabile, non costituivano essi stessi una nazione? Come pensare allora una nazione americana che fosse allo stesso tempo bianca e indiana? Thomas Jefferson, secondo presidente degli Stati Uniti, che nutriva sentimenti benevoli nei confronti dei pellerossa, cercò di risolvere il problema nel modo che da allora in avanti sembrò essere il più ovvio: se gli Indiani avessero abbandonato la loro economia di caccia per convertirsi all'agricoltura essi non solo avrebbero mantenuto i loro legittimi diritti di proprietà sul suolo, ma avrebbero potuto entrare altresì a far parte della nazione civile americana. Lo stesso Morgan, un secolo e mezzo più tardi di Jefferson, scrisse: «quando gli Irochesi raggiungeranno una stabile condizione come agricoltori, e la terra sarà ripartita tra famiglie col potere di alienarla... quando questo succederà essi cesseranno di essere Indiani, fuorché nel nome». Il «problema indiano», così come si presentava verso gli ultimi anni della prima metà dell'Ottocento, doveva costituire appunto lo sfondo ideologico dell'esordio di Lewis Henry Morgan come antropologo. Morgan e gli Irochesi La pubblicazione de La Lega degli Irochesi (The League of the Ho-de'-no-saunee, or Iroquois), il primo importante lavoro di Morgan (1818-1883), avvenne nel 1851. La sua comparsa fu salutata dagli indianisti di allora come un evento di grande importanza. L'opera venne definita più tardi come «la prima descrizione scientifica di una tribù che sia mai stata fatta al mondo». Il libro, nel quale Morgan fornì una descrizione della organizzazione sociopolitica delle sei "nazioni" della federazione irochese, non nacque tuttavia da interessi scientifici in senso stretto. La Lega degli Irochesi raccoglieva infatti, rielaborate, alcune "lettere" che Morgan aveva pubblicato quattro anni prima sulla American Review, all'indomani della felice conclusione di una causa giudiziaria alla quale egli aveva partecipato, nel 1846, dando il proprio contributo di avvocato alla difesa dei Senèca, una delle nazioni della lega irochese, che rischiavano di perdere le loro terre per opera di un gruppo di speculatori bianchi. La storia stessa della «vocazione» antropologica di Morgan è del resto nota. Nato nello stato di New York nel quale si trovavano numerose riserve indiane, Morgan ebbe modo di far conoscenza assai presto delle abitudini di vita dei pellerossa. L'amicizia che egli strinse con uno di questi, un discendente di una stirpe di capi senèca, fu decisiva per il successo col quale Morgan si sarebbe in seguito dedicato allo studio della civiltà indiana. Grazie a tale conoscenza Morgan ebbe la possibilità di compiere brevi soggiorni nella riserva dei Senèca, e di entrare così in diretto contatto con un universo sociale fino ad allora «quasi del tutto sconosciuto». La parentela e le «Sei Nazioni» Ne La Lega degli Irochesi si trovano le prime osservazioni di Morgan relative ai sistemi di parentela indiani, il campo nel quale lo studioso americano darà il suo maggior contributo all'antropologia. Morgan notò che gli Irochesi designavano i
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Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
parenti in un modo diverso da quello in uso presso i «popoli civilizzati»: un individuo (ego) chiamava per esempio il fratello di suo padre «padre», e la sorella di sua madre «madre». Coerentemente a ciò, osservò Morgan. i figli del fratello del padre e quelli della sorella della madre si rivolgevano l'uno all'altro chiamandosi «fratello» e «sorella» e non per mezzo di termini corrispondenti a quelli di «cugino» o «cugina» presenti nella nostra terminologia di parentela (schema in basso). Sebbene queste osservazioni fossero destinate a rappresentare il punto di partenza di uno studio molto più ampio pubblicato esattamente vent'anni dopo, Morgan non concentrò a quel tempo la propria attenzione sulle caratteristiche del sistema di parentela irochese in quanto tale. L'attenzione di Morgan fu piuttosto attratta dalla funzione che tale sistema sembrava aver svolto in passato nel processo di formazione dell'unità politica delle Sei Nazioni: i Senèca, gli Oneida, i Mohawk, i Cayuga, gli Onondaga e i Tuscarora, quasi tutte stanziate sulle sponde meridionali del lago Ontario.
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Lewis H. Morgan (1882)
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Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan Morgan fu colpito dal fatto che ognuno di questi gruppi (che lui chiamò "nazioni" secondo un uso allora abbastanza diffuso) si trovava in relazione con tutti gli altri in virtù di una complessa rete di rapporti di parentela. Ognuna di queste nazioni era infatti divisa in un certo numero di ciò che Morgan, seguendo la tendenza del tempo, chiamò tribù (oggi si direbbe clan) ciascuna designata da un nome di animale. Tribù con lo stesso nome si trovavano tanto nella nazione dei Senèca quanto in quella degli Oneida o dei Mohawk ecc. e i loro membri, anche se appartenenti a nazioni diverse, si consideravano discendenti di un antenato comune e perciò «fratelli» tra loro. Tutti i membri della tribù del Lupo ad esempio, fossero essi Senèca o Oneida, si consideravano «fratelli», e lo stesso valeva per gli individui appartenenti alla tribù del Falco, della Tartaruga, del Castoro e così via, indipendentemente dal fatto che essi facessero parte dell'una o dell'altra delle Sei Nazioni. Le osservazioni relative tanto alla terminologia di parentela, quanto all'organizzazione sociale delle nazioni irochesi, erano subordinate al prevalente interesse di Morgan per l'effetto che tale sistema aveva prodotto sul piano dell'integrazione politica delle Sei Nazioni. Lo sguardo portato da Morgan sulla società indiana negli anni tra il 1845 e il 1850 era uno sguardo di tipo «politico». Il quadro che Morgan tracciò nel La Lega degli Irochesi è quello di una federazione di popoli legati da valori comuni con un sistema di organizzazione sociale democratico ed egualitario. Ciò che Morgan volle mettere in evidenza erano le caratteristiche originali del sistema sociale che legava tra loro le Sei Nazioni, ma anche e soprattutto il fatto che un popolo di «selvaggi» avesse saputo darsi coscientemente un ordinamento politico del cui carattere democratico non si poteva dubitare. Lo scopo «politico» di Morgan Morgan paragonò l'ordinamento e lo spirito egualitario della federazione irochese a quello dell'Atene democratica per dimostrare che gli Indiani erano degni del più grande rispetto, non inferiore a quello dovuto agli antichi. Uno degli obiettivi della Lega degli Irochesi era quello di sollevare, agli occhi degli Americani, un problema di interesse nazionale, la cui soluzione appariva a Morgan di una urgenza estrema. L'idea di Morgan era infatti che la democrazia americana, che peraltro egli riteneva fosse la migliore esistente, avrebbe potuto dimostrare la propria superiorità su tutte le altre solo qualora fosse stata in grado di risolvere, sulla base degli stessi principi egualitari su cui dichiarava di fondarsi, il «problema indiano». L'irochese di Morgan non aveva pertanto nulla del "buon selvaggio". La perorazione in favore della "causa indiana" che costituisce l'ultimo capitolo de La Lega degli Irochesi è rivelatrice dell'atteggiamento di Morgan nei confronti del «problema». Di fronte alla minaccia di una scomparsa degli Indiani delle riserve Morgan propone una politica di assimilazione progressiva attraverso l'educazione dei giovani e l'assegnazione di terre delle quali essi potessero liberamente disporre. La Lega degli Irochesi appare dunque ispirata da quelle preoccupazioni che il suo autore mostrò sempre di avere per il destino degli Indiani: dalla difesa dei diritti dei Senèca nel 1846 fino all'approvazione, espressa all'indomani della battaglia del Little Big Horn (1876), dove la cavalleria degli Stati Uniti subì una pesante sconfitta, nei riguardi della resistenza dei Sioux di fronte alle truppe del megalomane e imprudente generale Custer.
Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan Schoolcraft e l'istituzionalizzazione dell'antropologia Se Morgan può a giusto titolo essere considerato come colui che diede slancio teorico alla tradizione antropologica del suo paese, egli tuttavia non fu certo il primo etnografo degli Stati Uniti. Prima di lui, e anche in maniera più sistematica e massiccia di lui, altri avevano intrapreso lo studio sul campo delle culture aborigene e tra questi merita un posto particolare Henry R. Schoolcraft (17931864). Schoolcraft si dedicò, a partire dal 1840, alla raccolta di materiale etnografico con particolare riguardo per l'aspetto linguistico. La raccolta di liste di termini indigeni, oltre a quella dei testi mitici e poetici, fu soprattutto favorita dall'utilizzazione di informatori locali e dalla possibilità di contatto diretto tra studiosi e popolazioni aborigene. Schoolcraft era un funzionario del ministero per gli affari indiani. In un'opera monumentale pubblicata tra il 1851 e il 1857, egli raccolse un'imponente massa di dati, utilizzati in seguito dai suoi colleghi, la quale costituisce forse la più grande impresa etnografica della tradizione americana. Lo studio delle culture indiane venne favorito, a partire dalla metà dell'Ottocento, dalla creazione di istituzioni preposte alla documentazione della vita delle popolazioni aborigene. La Smithsonian Institution fu fondata nel 1846 e fu attraverso la sezione etnologica di quest'ultima che venne varato un grande programma etnografico a cura di Schoolcraft. Nel 1879 venne poi istituito il Bureau of American Ethnology, un'iniziativa governativa destinata ad avere profonda influenza sull'organizzazione degli studi etnografici fino alle soglie del XX secolo. I sistemi di parentela Negli anni successivi alla pubblicazione de La Lega degli Irochesi, Morgan aveva proseguito le proprie ricerche presso altri gruppi di nativi americani. Nel 1858, egli aveva scoperto, presso i Sioux e gli Ojibwa, popolazioni appartenenti ad un ceppo linguistico del tutto differente da quello degli Irochesi, l'esistenza di un sistema di parentela per molti aspetti simile a quello di questi ultimi. Egli aveva così compiuto, tra il 1859 e il 1862, dei viaggi di studio nel Kansas e nel Nebraska allo scopo di approfondire la conoscenza di questi sistemi. In quegli stessi anni, inoltre, Morgan era interessato alla questione, assai dibattuta tra gli indianisti di allora, dell'origine dei pellerossa. L'origine degli Indiani americani Morgan era un sostenitore della teoria secondo la quale gli Indiani d'America erano d'origine asiatica. Egli pensò che l'eventuale presenza in Asia di un sistema di parentela di natura simile a quello da lui osservato presso diverse tribù del Nord America avrebbe potuto costituire una prova notevole in favore di quella teoria. La possibilità di rintracciare presso due popolazioni, anche geograficamente distanti tra loro, un sistema di parentela di tipo simile costituiva per Morgan un criterio valido al fine di poter stabilire delle relazioni storiche intercorrenti tra quelle popolazioni. Si trattava, per Morgan, di un criterio senz'altro più valido di quello rappresentato dalla possibilità di rintracciare eventuali somiglianze sul piano del linguaggio: «il linguaggio infatti – scriveva Morgan nel 1959 – non solo cambia il suo vocabolario ma, col trascorrere del tempo modifica anche la sua struttura grammaticale... mentre un sistema di relazioni, una volta entrato in funzione, è meno soggetto a cambiamenti di quanto non sia il linguaggio; non nei vocaboli impiegati come termini di parentela; ma nelle idee che sottostanno al sistema stesso» (Morgan 1859). Infatti un sistema di parentela espri-
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Le origini. dell'antroaologia americana e Lewis H. Morgan meva, secondo Morgan «un certo numero di idee permanenti ed immutabili che sono sopravvissute e che continueranno a sopravvivere tanto ai cambiamenti linguistici quanto a tutte le suddivisioni e alle migrazioni del gruppo originario» (ibidem). Le ricerche di Morgan si volsero così in due direzioni: da un lato alla raccolta di dati riguardanti i sistemi di parentela delle popolazioni indiane del Nord America; dall'altro lato alla raccolta di dati sui sistemi di parentela di popoli extra-americani. Mentre Morgan compiva ricerche nel Kansas e nel Nebraska raccogliendo informazioni sul sistema di parentela sioux e ojibwa, un questionario da lui ideato fu spedito in tutto il mondo a cura della Smithsonian Institution. Sistemi classificatori e sistemi descrittivi
[T3.2]
I dati che mano a mano pervenivano per questa via e quelli che Morgan aveva personalmente raccolto durante i suoi viaggi all'Ovest dovevano confermare la presenza, tanto in America quanto in Asia, di sistemi di parentela che, benché differenti tra loro, presentavano tuttavia una struttura logica simile. A questo gruppo di sistemi di parentela si opponeva, in quanto fondato su di un principio differente, il gruppo dei sistemi che Morgan indicò come Ariani, Semitici e Uralici e a cui apparteneva quello in uso presso i popoli «civilizzati». I risultati delle ricerche di Morgan vennero ordinati ed esposti in Sistemi di consanguineità e di affinità della famiglia umana (Systems of Consanguinity and Affinity of the Human Family) del 1871, uno dei testi più importanti di tutta la storia dell'antropologia. Morgan stabiliva qui la distinzione tra due grandi gruppi di sistemi di parentela corrispondenti a due modi radicalmente differenti di designare i parenti consanguinei, quelli cioè in "relazione di sangue" e perciò distinti dai parenti affini (o "alleati") i quali sono invece acquisiti attraverso una relazione di tipo matrimoniale. A questi due grandi gruppi Morgan diede il nome di sistemi classificatori e sistemi descrittivi rispettivamente. Nei sistemi di parentela del tipo di quello irochese, che Morgan assegnò al gruppo dei sistemi classificatòri, i parenti consanguinei in linea collaterale non venivano terminologicanzente distinti da quelli in linea diretta: così, come si è visto nel caso degli Irochesi. il fratello del padre non veniva distinto (terminologicamente) da quest'ultimo, ma veniva chiamato anch'egli «padre». Nei sistemi di parentela in vigore presso i popoli europei (si può pensare al nostro), che Morgan chiamò descrittivi, i consanguinei in linea collaterale venivano invece distinti da quelli in linea diretta. Nei sistemi di quest'ultimo tipo esistono infatti termini specifici per mezzo dei quali si rende possibile distinguere quelle persone che nei sistemi di tipo classificatorio vengono invece «classificate», nel senso di "raggruppate" in una stessa categoria (padre e zio; madre e zia; figlio e nipote, sorella e cugina ecc.). Per quanto Morgan sostenesse che era «praticamente impossibile spiegare come questi due diversi sistemi, così differenti per ciò che riguarda la loro struttura, potessero essere nati» (Morgan 1871: 14), egli avanzò tuttavia l'ipotesi, sviluppata alcuni anni dopo ne La società antica (Anci:ent Society) del 1877, secondo la quale i sistemi classificatori e quelli descrittivi sarebbero stati caratteristici di due distinti tipi di società: i sistemi classificatori di una organizzazione sociale basata sui rapporti di parentela; quelli descrittivi di una società fondata su rapporti di tipo «politico». in effetti, precisò Morgan, in mancanza di leggi codificate o di uno stato in grado di assicurare i diritti degli individui, «il legame di parentela presente tra le nazioni non civilizzate esercita una forte influenza riguardo a tutto ciò che ha a che vedere con l'aiuto reciproco tra le persone» (ibidem).
Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
L'evoluzione dei sistemi di parentela Per Morgan il tipo di organizzazione sociale fondato sulla parentela era ancora caratteristico del periodo della «barbarie», mentre la comparsa di una società fondata su rapporti di tipo "politico" era strettamente connessa alla «comparsa della civiltà». Si apriva qui, infatti, la possibilità di pensare le varie forme di organizzazione sociale sulla base di uno schema di tipo evoluzionistico. Le stesse differenze esistenti tra i vari sistemi classificatòri, differenze consistenti nel grado maggiore o minore in cui ciascuno di essi esprimeva la soggiacente logica (classificatoria) che ne era alla base, venivano considerate da Morgan come differenze che segnavano le fasi di un processo evolutivo di trasformazione di quella logica medesima. Poiché secondo Morgan l'evoluzione dei sistemi classificatori si esprimeva in una scomparsa graduale della logica su cui si fondavano, a vantaggio della logica di tipo descrittivo, egli pensò di poter spiegare queste differenze, indici di un processo evolutivo attraverso la ricostruzione delle forme che l'istituzione familiare aveva assunto nelle diverse «epoche» storiche. In effetti lo schema che riassume le tappe dell'evoluzione della famiglia, contenuto nell'opera di Morgan del 1871, mostra chiaramente che lo sviluppo di questa istituzione – che Morgan considerava la «base» della società – veniva messo in relazione al processo di lenta sostituzione della logica classificatoria da parte di quella descrittiva: dalla «promiscuità originaria», situazione nella quale era impossibile riconoscere i figli di una coppia da quelli di una qualunque altra, si arrivava, con la civiltà. alla famiglia monogamica con la quale diveniva possibile «descrivere» con precisione i rapporti esistenti tra i membri di essa. La chiave fondamentale che permetteva di ricostruire questa sequenza evolutiva era costituita da quei particolari termini di parentela il cui impiego sembrava a Morgan non giustificato dalle effettive pratiche matrimoniali esistenti, ma riferibile piuttosto a forme «più arcaiche» dell'istituzione familiare. Relazioni sociali e termini di parentela Per Morgan i termini di parentela riflettevano infatti la natura delle relazioni sociali. Questo non voleva dire che se un irochesc chiamava "padre" il fratello del proprio padre egli aveva nei suoi confronti lo stesso tipo di atteggiamento tenuto nei confronti del genitore. Voleva dire piuttosto che questo modo di chiamare il fratello del padre era una "sopravvivenza" di un'epoca in cui non era possibile distinguere i due individui, un'epoca caratterizzata dall'istituzione della "poliandria adelfica", ossia l'unione di una donna con più fratelli. Le terminologie di parentela assumevano così, nel ragionamento di Morgan, la stessa funzione epistemologica che le sopravvivenze svolgevano nell'opera di Tylor: «L'umanità, unica in origine, deve essersi suddivisa, in un'epoca remota. in singole nazioni. Da quel giorno fino ad oggi i discendenti di queste devono aver compiuto un progresso ineguale, alcuni rimanendo in uno stato non molto dissimile da quello originario... Si deve pertanto supporre che questi costumi e queste istituzioni, considerati come una sequenza. devono essersi diffusi tra le nazioni mano a mano che la loro esperienza progrediva, e che dello sviluppo di questa esperienza essi non siano altro che le grandi pietre miliari» (ivi: 479). Famiglia, matrimonio e sistemi di parentela La ricostruzione delle sequenze di sviluppo dei sistemi di parentela venne da Morgan collegata con la possibilità di ricostruire quelle dell'istituzione familiare
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Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan America 1916
e dei tipi di unione matrimoniale dai quali tale istituzione era, a suo parere, determinata. Per Morgan infatti le terminologie di parentela erano, come abbiamo visto, il riflesso di come gli individui intendevano le relazioni generate da queste unioni. Di conseguenza, se il fratello del padre era chiamato anch'egli padre, ciò era perché vi fu un periodo in cui gli uomini non stabilivano una differenza tra i due individui, in quanto le donne erano possedute in comune da un gruppo di fratelli. Le terminologie di parentela potevano essere dunque delle sopravvivenza, e come tali potevano essere utilizzate nella ricostruzione delle fasi di sviluppo storico. Tuttavia il punto di passaggio dai sistemi classificatori a quelli descrittivi restava, per ammissione dello stesso Morgan, largamente problematico. La comparsa della società «politica», all'interno della quale i rapporti di parentela tendevano a perdere la loro funzione dominante a vantaggio dei rapporti fondati sul consenso e sulla territorialità, era però secondo Morgan indissociabile dalla comparsa dei diritti di proprietà sulla terra. Con la comparsa della civiltà, infatti, non solo «la protezione della legge o dello Stato sarebbe venuta a sostituire quella protezione fornita dal gruppo dei parenti; ma con ben maggiore efficacia i diritti di proprietà avrebbero influenzato il sistema delle relazioni [tra gli individui]» (1871: 14). In effetti l'emergenza della proprietà privata individuale venne considerata da Morgan come l'unico fattore in grado di spiegare !a sostituzione di un sistema classificatorio da parte di un sistema descrittivo. Morgan e l'evoluzione sociale [T3.3] Nel 1877 Morgan pubblicò La società antica. Per qualcuno quest'opera avrebbe costituito addirittura «il lavoro più influente nella storia dell'etnologia» (Service 1985: 53), in ragione non solo dei riflessi che ebbe sugli specialisti, ma anche perché fu al centro di un lungo dibattito che esula dal terreno disciplinare in senso stretto. La celebrità de La società antica deriva essenzialmente dal fatto che essa fu fatta oggetto di speciali attenzioni da parte di Karl Marx e di Friedrich Engels i quali pensarono di potervi leggere la conferma indiretta della loro "concezione materialistica della storia": dall'altro, invece, Ancient Society divenne il principale oggetto delle critiche che l'antropologia americana dei decenni successivi portò all'evoluzionismo antropologico del quale il lavoro di Morgan fu considerato l'espressione più compiuta. Lo sviluppo delle «tecniche di sussistenza» e delle istituzioni Ne La società antica Morgan affrontò lo studio di alcune grandi tematiche quali il significato delle terminologie di parentela (v. Cap. 2), lo «sviluppo dell'idea di governo», lo «sviluppo dell'idea di proprietà» ed una discussione generale relativa all'evoluzione della cultura e delle società umane. I periodi «etnici» Tale evoluzione poteva essere meglio compresa, secondo Morgan, una volta che si fosse stabilito un certo numero di periodi che egli chiamò etnici, ciascuno dei quali rappresentava «una distinta condizione della società e distinguibile per un modo di vita ad esso peculiare» (ivi: 5). La successione dei periodi etnici era quella espressa dalla sequenza «selvaggio-barbaro-civilizzato» con l'aggiunta di tre sottoperiodi (inferiore-intermedio-superiore) per ciascuna delle prime due epoche. Tale periodizzazione trovava espressione nelle invenzioni e nelle scoperte che, secondo Morgan, erano rappresentative del diverso grado di progres-
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so caratteristico di ciascuna fase storica. In tal modo allo stadio intermedio dello stato selvaggio, caratterizzato dall'acquisizione della pesca come mezzo di sussistenza e dall'uso del fuoco, seguiva lo stadio superiore dello stato selvaggio contrassegnato dall'invenzione dell'arco e della freccia e quindi dalla caccia come tecnica di sussistenza: a quest'ultimo periodo etnico seguivano i tre stadi della barbarie, ciascuno riconoscibile per la presenza di certe tecniche di sussistenza e di invenzioni. Seguiva infine il periodo della civiltà, caratterizzato dall'invenzione di un alfabeto fonetico. Stato selvaggio, barbarie e civiltà, con le loro relative suddivisioni, apparivano così come «tre distinte condizioni... connesse l'una all'altra in una sequenza di progresso tanto naturale quanto necessaria» (ivi: 1). In tal modo le invenzioni e le scoperte, che per Morgan erano tra di loro in un rapporto di connessione cumulativa, oltre a costituire il criterio di individuazione delle successive fasi di sviluppo delle tecniche di sussistenza, venivano ad essere considerate come gli indici del progresso caratteristico di ciascuna fase storica e pertanto come l'elemento espressivo di ognuna di queste fasi. L'America e l'umanità L'assunzione delle invenzioni e delle scoperte come «segni» del progresso era d'altronde un'idea condivisa dagli studiosi europei contemporanei di Morgan. Le linee del "progresso umano" da lui delineate ne La società antica corrispondevano inoltre, curiosamente, ad un'idea dell'America come "laboratorio dello storico". Un'idea corrente, al tempo di Morgan, era quella che nella storia d'America fosse possibile leggere la storia passata dell'umanità: dalla società indiana, rappresentante la fase storica in cui l'umanità viveva di pesca, di raccolta e di
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Le origini dell'antropologia americana e Lewis H. Morgan
Dopo il massacro di
plessiva delle culture indiane come di culture «primitive», aventi cioè le caratteristiche di un'arcaicità pura. Vi furono naturalmente delle eccezioni. Tra queste. la ricerca di James Mooney sulle forme di resistenza indiana che trovarono espressione in nuovi culti religiosi. Nel libro The Ghost Dance Religion and the Sioux Outbreak of 1890, pubblicato nel 1896. Mooney analizzò il movimento messianico che, diffusosi tra gli indiani delle riserve come tentativo di risposta alla progressiva emarginazione e degradazione sociale, venne represso con il massacro di Wounded Knee del 1890.
Wounded Knee (1890)
caccia, fino al culmine del progresso rappresentato dal decollo della società industriale, attraverso la comparsa del commercio con gli Indiani che aveva contribuito a indebolire la loro società e quindi ad emarginare dal corso della storia i popoli cacciatori, attraverso la pastorizia (il ranch) e attraverso l'agricoltura (la fattoria). La storia d'America forniva così non solo la chiave di lettura della successione delle grandi epoche della storia umana coincidenti ognuna con una tecnica di sussistenza particolare ma, per la rapidità con la quale tale storia era giunta a "compimento", essa offriva anche l'immagine di un progresso materiale la cui cumulatività poteva essere pensata in termini di "progressione geometrica". In tal modo la società indiana diventava la rappresentante di una fase storica, in quanto «esempio eccellente di società gentilizia», cioè tribale (Morgan 1851: 117) caratteristica del periodo della barbarie. Dopo Morgan Nell'ultimo scorcio dell'Ottocento l'antropologia americana si rafforzò e crebbe velocemente a livello accademico per l'infaticabile attività di molti ricercatori. Nel 1888 uscì il primo numero dell'American Anthropologist, la rivista ufficiale dell'associazione degli antropologi statunitensi. Nello stesso anno, al termine delle "guerre indiane" (Geronimo e i suoi Apache si erano arresi da poco) venne generalizzato il sistema delle riserve. La riserva, nata nel segno della «protezione e del benessere degli Indiani», doveva produrre l'immagine illusoria di una società indiana tenuta al riparo da ogni specie di contaminazione esterna. Nel caso degli antropologi, questa immagine illusoria di una società sottratta all'influenza della civiltà «progredita» dei bianchi si tradurrà a sua volta in una visione corri-
Bibliografia critica
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Parte seconda DALLA FINE DELL'OTTOCENTO ALLA PRIMA GUERRA MONDIALE
Capitolo
4 Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas
Nel quadro del programma promosso dal Bureau of American Ethnology vennero condotte, nell'ultimo scorcio del XIX secolo, importanti ricerche le quali approfondirono enormemente la conoscenza che si aveva delle culture dei nativi americani. Oltre che dalla ricerca di Mooney sul movimento nativista soiux, a cui abbiamo accennato nel capitolo precedente, l'ultimo decennio dell'Ottocento fu segnato dai lavori di John Henry Powell sui miti e le lingue aborigene (Indian Linguistic Families of America North of Mexico, 1891), di Frank Hamilton Cushing sui miti degli Zuni (Outlines of Zuni Creation Myths, 1891-92) e di Alice Fletcher sul rito d'iniziazione degli Indiani Pawnee (Il rito Hako, 1904). II «particolarismo
storico» di Franz Boas
Il grande lavoro etnografico svolto da questi e da altri ricer-
Sinistra: Alice Fletcher (seduta che legge), 1900 c.a. In alto: Frank H. Cushing (1890 ca.)
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Franz Boas (1906)
Totem kwakiutl
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas catori dei Bureau of American Ethnology ebbe un effetto di stimolo sulle iniziative prese in quegli stessi anni dagli istituti di ricerca britannici, i quali promossero uno studio degli Indiani della costa canadese del Pacifico. Il progetto ebbe. un effetto estremamente importante, sia pure indirettamente, per lo sviluppo dell'antropologia statunitense poiché il linguista inglese che lo dirigeva, Horatio Hale, reclutò come etnografo il tedesco Franz Boas (1856-1942) destinato a divenire, nei decenni seguenti, la figura di maggior rilievo dell'antropologia americana. Quando Boas venne chiamato a far parte del progetto diretto da Hale, egli aveva già lavorato tra gli Eschimesi (Inuit) e nella costa canadese del Pacifico, proprio negli stessi anni in cui altri suoi colleghi tedeschi lavoravano in Oceania, in Sudamerica e in Africa. Boas cominciò a concepire il lavoro sul campo come studio di singole culture o di aree culturali particolari. Il fatto di concentrare l'attenzione su un contesto culturale o areale specifico doveva in effetti costituire il prologo di quel «particolarismo» che nelle intenzioni di Boas era, a sua volta, condizione preliminare di ogni progetto di tipo comparativo. Lo studio di un singolo contesto, o area culturale, fu difatti il principio ispiratore del lavoro svolto da Boas nel quadro della North Jesup Expedition che egli diresse nel periodo tra il 1897 e il 1900 tra i Kwakiutl della costa nordoccidentale del continente americano. È a Boas che si deve una rifondazione pressoché totale della pur giovane antropologia americana. Una delle caratteristiche dell'atteggiamento di Boas nei confronti dell'antropologia come disciplina coincise con una sorta di avversione pressoché totale per qualsiasi forma di esposizione sistematica. Nei lavori di carattere teorico, i quali costituiscono solo una minima parte della sua immensa produzione, possono essere individuati i temi che, sviluppati poi dai suoi allievi, vennero a delineare gli indirizzi, gli interessi, e quindi le scelte, dell'antropologia americana nella prima metà del Novecento. Boas diffuse un'immagine autorevole degli studi antropologici negli Stati Uniti e fu anche un intellettuale "impegnato" che si batté contro il razzismo. Professore alla Columbia University e "Curator" dell'American Museum of Natural History, Boas "allevò" almeno due generazioni di antropologi dai nomi illustri. I suoi impegni accademici e scientifici non gli impedirono però di pubblicare, nel 1911, L'uomo primitivo (The Mind of Primitive Man) il quale è forse il primo libro scritto da un antropologo "culturale" contro il razzismo e a favore della tesi del carattere unitario, sia dal punto di vista biologico che intellettuale, del genere umano. In questo libro Boas sostenne la mancanza di relazioni tra cultura e razza, dimostrando come le caratteristiche culturali di un popolo non avessero alcun rapporto con l'aspetto fisico dei suoi membri. La critica dell'evoluzionismo I limiti del metodo comparativo dell'antropologia (1896) è
forse il più noto dei testi teorici di Boas. Esso rappresentò
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas
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una rottura decisiva nei confronti della tradizione antropologica allora domi- nante in America. In questo lavoro Boas enunciò anche i principi generali del cosiddetto metodo storico. Rigettando gli esiti speculativi a cui, a suo giudizio, approdavano le ricostruzioni storiche degli evoluzionisti, Boas nega qualsiasi valore «allo sforzo di costruire una storia sistematica uniforme dell'evoluzione della cultura» (Boas 1970: 135). Egli respinse l'assunto secondo il quale tratti culturali simili osservabili presso popoli distanti tra loro sarebbero apparsi indipendentemente senza alcuna origine storica comune. Secondo Boas infatti gli evoluzionisti, partendo dal presupposto che l'origine di fatti culturali simili fosse anch'essa simile in quanto dovuta alla sostanziale unità psichica del genere umano, erano portati a concludere «che esiste un sistema superiore secondo il quale l'umanità si è sviluppata ovunque» (ivi: 131). Sostenere che un fenomeno etnologico si è sviluppato in maniera indipendente in un certo numero di luoghi diversi tra loro equivaleva, per Boas, a sostenere che tale fenomeno era andato soggetto ad uno sviluppo identico in ogni luogo e che «gli stessi fenomeni etnologici sono sempre dovuti alle stesse cause» (ivi: 129). Una tale affermazione, implicita nel ragionamento degli evoluzionisti, costituiva per Boas un elemento di debolezza decisivo nell'edificio delle ricostruzioni delle sequenze storiche. Per dimostrare la fragilità teorica del ragionamento degli evoluzionisti, Boas produsse una serie di esempi relativi tanto alla possibile origine differente, quanto al divérso significato, che fenomeni culturali simili potevano avere in contesti culturali eterogenei. L'origine della associazione tra clan e totem, cioè tra un gruppo di consanguinei e un simbolo di natura animale o vegetale, veniva ad esempio considerata, in quegli anni, come una caratteristica universalmente diffusa presso i popoli «primitivi», e si riteneva che fosse il prodotto della riunione di clan precedentemente separati. Boas mostrò, sulla base della propria esperienza di etnologo, come la formazione di un simile tipo di società poteva essere invece il prodotto di una tendenza esattamente inversa consistente nella scissione di tribù numerose in segmenti meno ampi (clan). A coloro che postulavano la priorità storica della discendenza matrilineare su quella patrilineare Boas oppose la dimostrazione del fatto che presso gli Indiani della costa americana del Pacifico settentrionale era accaduto esattamente il contrario. Nelle intenzioni di Boas si trattava di dimostrare come fosse oggettivamente impossibile pronunciarsi, una volta che ci si fosse attenuti ai «fatti», sull'universale identità delle cause che avevano determinato l'emergenza di tratti culturali apparentemente identici ed appartenenti a culture diverse.
[T4.1]
Lo «storicismo» di Boas Boas riteneva che l'obiettivo fondamentale dell'etnologia restasse la conoscenza delle cause storiche che avevano determinato la forma dei tratti culturali propri di una certa popolazione. A giudizio di Boas una tale conoscenza diveniva possibile solo qualora l'indagine fosse stata circoscritta «ai costumi nella loro relazione alla cultura complessiva della tribù che li pratica in correlazione con la ricerca della loro distribuzione geografica tra le tribù limitrofe» (ivi: 132). Questo tipo di approccio avrebbe consentito, secondo Boas, di «determinare con considerevole accuratezza le cause storiche che hanno portato alla formazione dei costumi in questione e ai processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo» (ibidem). Questa serie di considerazioni costituivano i princìpi fondamentali del metodo storico o particolarismo storico, come la tradizione successiva lo avrebbe designato, l'oggetto del quale era rappresentato dallo studio e dalla conoscenza delle culture nella loro singolarità. L'insistenza con la quale Boas propugnò l'importanza dello studio del conte-
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Kwakiutl
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas sto particolare derivava anche dal clima culturale del suo paese d'origine caratteristico di quel periodo, e in special modo dalla distinzione tra «scienze della natura» e «scienze dello spirito» dove, riguardo a queste ultime, l'enfasi veniva posta sulla conoscibilità non di leggi, ma di fatti storici intesi come individualità irriducibili ad altre. È ovvio supporre, a questo proposito, che il particolarismo storico di Boas abbia tratto ispirazione dalla filosofia storicista e neokantiana tedesca della fine dell'Ottocento. Windelband, Rickert e Dilthey insistettero, ciascuno a suo modo, sulla distinzione tra scienze della natura (Natursvissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) e sul fatto che entrambe hanno, pur nella loro separazione, pari statuto conoscitivo. Nel pensiero di questi autori le scienze della natura sono la sede appropriata dello sviluppo di un sapere "nomotetico" (ricerca delle leggi che regolano l'accadere dei fenomeni naturali). Le scienze dello spirito sono la sede invece di una conoscenza storiografica e particolare (idiografica) relativa a un'epoca storica e agli uomini che ad essa appartengono.
L'analisi del potlatch
Boas mostra come cacciano gli Eschimesi (1900 ca.)
Tra il 1894 e il 1895 Boas condusse una ricerca tra i gruppi indiani della costa americana del Pacifico settentrionale, e in particolare tra i Kwakiutl. Egli si avvalse, in queste ricerche, di un informatore indiano di nome George Hunt, che lo stesso Boas addestrò alle tecniche di rilevazione dei dati etnografici. Hunt collaborò tanto attivamente che oggi è difficile stabilire quanto dobbiamo a Boas e quanto a Hunt sul piano strettamente etnografico. Frutto di tali ricerche fu, tra altre pubblicazioni rese possibili dalla collaborazione di Hunt, L'Organizzazione sociale e le società segrete degli Indiani Kwakiutl in cui Boas analizzò, accanto ad altri aspetti della vita delle popolazioni locali, una istituzione molto particolare: il potlatch. Nel suo significato etnografico, potlatch è il nome che comunemente viene dato ad un insieme di pratiche rituali diffuse tra le popolazioni indiane stanziate sulla costa della Columbia Britannica e sull'isola di Vancouver. Si trattava di rituali di "ostentazione" che prevedevano la distruzione di grandi quantità di beni considerati "di prestigio". Attraverso il potlatch individui dello stesso status sociale si sfidavano in una "gara" distruttiva allo scopo di affermare pubblicamente il proprio rango, di abbassare quello di qualche rivale o di riacquistarlo nel caso lo avessero perduto per una qualche ragione. Oggi si tende a considerare il potlatch, almeno per quanto riguarda il suo aspetto "distruttivo", come un meccanismo attraverso il quale venivano sottratti al processo riproduttivo della società quei beni che, se al contrario vi fossero stati immessi nuovamente, avrebbero provocato un'al-
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas terazione del sistema, e di conseguenza introdotto un elemento perturbatore nella struttura dei rapporti di potere. I Kwakiutl, presso i quali Boas lavorò come etnografo, erano difatti una società fortemente stratificata, con liberi di vario rango, e schiavi. Qui il potlatch costituiva una pratica rituale per mezzo della quale diveniva possibile impedire una alterazione del sistema. Non si può rimproverare Boas per non aver avanzato sul potlatch ipotesi più raffinate di quelle che lo stato delle teorie allora correnti sulle "economie primitive" potesse oggettivamente permettere; ma lo si può criticare per aver descritto le pratiche del potlatch sulla base di considerazioni di tipo strettamente economico e, per di più, nel linguaggio formale dell'economia classica. Infatti Boas descrisse il potlatch in termini di investimento, vendita, interesse, capitale ecc. facendo credere al lettore di trovarsi in presenza di una popolazione composta di astuti trafficanti. Boas interpretò il potlatch come una pratica connessa all'acquisto del presti- gio che poteva derivare ad un individuo dal fatto di aver distribuito o distrutto più beni dei suoi «rivali» e dall'averli perciò superati in "generosità" (Boas 1897: 341-358). L'analisi del potlatch condotta da Boas faceva però uso del linguaggio dell'economia di mercato in un contesto che nulla aveva a che vedere con una situazione di mercato. Al tempo stesso, e in maniera paradossale, considerava la società Occidentale come l'unica dotata di una vera economia. L'ideologia economico-etnocentrica di Boas infatti, si manifestava da un lato nell'impiego dei termini dell'economia di mercato, mentre dall'altro il potlatch veniva spiegato in termini di sole attitudini "psicologiche". Tuttavia l'attenzione prestata da Boas a quelle che potevano essere considerate le attitudini degli individui nei confronti dei valori espressi dalla loro cultura (l'onore, il rango, il prestigio ecc.), cioè al modo in cui i soggetti si rappresentavano la loro esistenza sociale, rappresentò un importante passo avanti nell'analisi antropologica della cultura. Psicologia e cultura Boas non cessò mai d'altra parte di ricordare che uno dei compiti fondamentali dell'etnologia era quello di «determinare i processi psicologici che operavano nello sviluppo dei fenomeni culturali». In Alcuni problemi di metodo nelle scienze sociali del 1930 e g li affermerà infatti che «le dinamiche della vita sociale possono essere colte sulla base delle reazioni dell'individuo nei confronti della cultura nella quale vive e della sua influenza sulla società» (Boas 1966: 268): e nel 1932 «che sembra uno sforzo vano quello di ricercare leggi sociologiche senza prestare attenzione a ciò che dovrebbe chiamarsi psicologia sociale, o più esattamente a come un individuo reagisce alla cultura» (ivi: 259). Boas pose in effetti il problema di come un individuo. «reagendo» alla propria cultura, contribuiva a modificare i modelli sociali di comportamento. Lo studio dei processi psicologici doveva soprattutto emergere – nelle intenzioni di Boas – come linea di ricerca alternativa nei confronti tanto della tradizione evoluzionistica quanto nei confronti di ogni progetto mirante ad una spiegazione dei fenomeni culturali sulla base di ciò che a suo parere costituiva una serie di esplicazioni di tipo deterministico (geografia, razza, economia. psicoanalisi). Nella prospettiva di Boas tuttavia. tali "processi psicologici", ossia la rappresentazione che gli agenti di una data cultura si facevano della propria esistenza sociale, divenivano la realtà "oggettiva". ultima, della vita sociale stessa, per cui il criterio che permetteva di qualificare conte valida una qualunque inchiesta et-
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[T4.2]
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Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas nografica risiedeva nel grado maggiore o minore di fedeltà con la quale l'etnologo sapeva cogliere la realtà sociale nella rappresentazione che di essa si facevano i membri della popolazione studiata. Questa prospettiva, come del resto il tema dell'influenza esercitata dall'individuo sui processi di cambiamento culturale, venne da Boas enunciata ma non sviluppata. Tali problematiche erano tuttavia riprese in quegli stessi anni da altri antropologi. L'antropologia di Boas, e gli effetti da essa prodotti in sede di definizione di oggetti e di strategie di ricerca, erano destinati ad esercitare un'influenza determinante e duratura sulla tradizione antropologica statunitense. È difficile pensare ad un antropologo che abbia esercitato, al pari di Boas, una così grande influenza sui ricercatori della generazione successiva. Nei suoi effetti antievoluzionisti l'antropologia di Boas alimenterà infatti tanto la tendenza "diffusionista" quanto la tendenza "particolaristica" e "individualizzante" riemersa tra l'altro negli ultimi decenni con particolare vigore.
La critica della prospettiva causale e lo studio della parentela: Alfred L. Kroeber
Alfred L. Kroeber (1952)
Alfred L. Kroeber (1876-1960) fu il primo studente di antropologia a laurearsi sotto la guida di Franz Boas. Il suo "esordio antropologico" ebbe còme sfondo la problematica boasiana costituita dalla critica della prospettiva causale nella spiegazione dei fenomeni culturali. In Spiegazione mediante cause ed origini (1901), Kroeber criticò ad esempio le teorie sull'origine del mito basate su un tipo di spiegazione mono-causale. Tali teorie, che presentavano i miti come il risultato di processi di ordine psicologico sviluppatisi da una credenza originaria (si pensi alla teoria dell'animismo secondo Tylor) si configurano per Kroeber come aggregati di una serie di tendenze indistinguibili, se non artificiosamente, le quali si compenetravano dando luogo al mito specifico. Allo stesso modo tanto la teoria che vedeva nei miti l'interpretazione deformata di eventi storici reali, quanto quella per cui il mito sarebbe un'invenzione allegorica a scopo etico-pedagogico, appaiono a Kroeber «inesatte» proprio in virtù della rigidità causale del ragionamento su cui si fondano. Ciò che per queste teorie rappresenta la causa originaria, e perciò in qualche modo la spiegazione del fenomeno mitico, costituisce invece per Kroeber una tendenza parziale che ciascuna di queste teorie mette in luce. E la compresenza delle varie tendenze a costituire l'irriducibilità del fenomeno mitico, il quale deve essere compreso nella sua totalità individuale e non nei suoi singoli aspetti separati: i fenomeni culturali possono essere còlti, scrive Kroeber, nella loro complessa individualità «soltanto nella misura in cui se ne conoscono le relazioni con il resto di quella grande unità che si chiama vita» (ivi: 38). La concezione dei fenomeni culturali è quella per cui tali fenomeni sono elementi di un "complesso" la cui comprensione non può avvenire in base all'assunzione di singole istanze causali. La critica a Morgan La critica al metodo comparativo e al principio causale come metodo di spiegazione dei fenomeni culturali fecero da sfondo anche ad un importante lavoro
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pubblicato da Kroeber nel 1909 e intitolato Sistemi classificatori di relazioni (Classificatory Systems of Relationship). Il principale bersaglio della critica antievoluzionista non erano state, sino ad allora, le teorie di Morgan, ma piuttosto quelle degli epigoni di quest'ultimo. Con Kroeber, invece, la critica dell'evoluzionismo culturale venne a coincidere esplicitamente con quella delle posizioni di Morgan relative ai sistemi di parentela. La tesi centrale di questo lavoro di Kroeber è quella secondo cui la distinzione operata da Morgan tra sistemi di tipo classificatorio e sistemi di tipo descrittivo era arbitraria ed «etnocentrica». I sistemi di parentela esistenti rivelano infatti di possedere entrambe le caratteristiche, di essere cioè strutturati sulla base di principi tanto descrittivi quanto classificatòri. Nella lingua inglese per esempio, osservava Kroeber, col termine cousin (cugino) vengono designati tanto i cugini che le cugine, indipendentemente dal fatto che essi siano tali per parte di padre oppure per parte di madre e senza che si tenga conto del grado di prossimità effettivo né del sesso dell'individuo così designato. Per Kroeber ciò costituiva una prova del fatto che il principio classificatorio non era esclusivo di sistemi «primitivi», ma che esso costituiva una caratteristica comune anche a quei sistemi, e tra questi vi era quello «inglese», che Morgan aveva indicato come «descrittivi». Poiché diveniva in tal modo impossibile operare una separazione netta tra i sistemi classificatori e quelli descrittivi, anche la relazione che secondo Morgan doveva esistere tra ciascun tipo di sistema e un sistema particolare di relazioni sociali veniva a cadere. Di conseguenza, l'ipotesi dell'autore di Systems secondo la quale le terminologie di parentela sarebbero state in qualche modo il riflesso della natura dei rapporti sociali esistenti veniva a perdere. secondo Kroeber, qualsiasi validità. La critica di Kroeber alla distinzione dei sistemi di parentela in due grandi gruppi non teneva tuttavia conto di due fattori essenziali. Innanzitutto Morgan era perfettamente consapevole del fatto che anche i sistemi di tipo descrittivo possiedono termini per mezzo dei quali vengono designati individui coi quali esiste una relazione di genere differente. Prendendo ad esempio proprio il termine cousin Morgan scrive: «Il figlio del fratello di mio padre, il figlio della sorella di mio padre, il figlio del fratello di mia madre e il figlio della sorella di mia madre sono designati allo stesso modo... per mezzo del termine cousin. Costoro hanno lo stesso grado di prossimità nei miei confronti, ma la loro relazione con me avviene per quattro differenti vie. L'uso di questo termine [cousin] non intacca tuttavia i principi del sistema descrittivo, ma mira a realizzare quelle relazioni che esso implica in una maniera più semplice» (Morgan 1871:12). Ora, il termine cugino designa una serie di individui in relazione collaterale. Per Morgan la differenza tra sistemi descrittivi e classificatori risiedeva proprio nella tendenza che questi ultimi hanno a designare con gli .stessi termini tanto i parenti consanguinei in linea diretta quanto i parenti consanguinei in linea collaterale. Questo è il secondo e decisivo elemento di cui Kroeber non ha tenuto conto nella sua critica a Morgan, per cui la scelta stessa del termine inglese cousin parrebbe inadeguata al fine di dimostrare l'arbitrarietà della distinzione tra sistemi di tipo classificatorio e sistemi di tipo descrittivo. I principi costitutivi delle terminologie di parentela La confutazione delle teorie di Morgan non era però, naturalmente, il risultato di una semplice «incomprensione» della tesi fondamentale di Systems of Consanguinity and Affinity, quanto piuttosto l'effetto di un modo radicalmente diverso di concepire la natura degli stessi sistemi di parentela. Mentre per Morgan
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Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola"di Boas questi ultimi esprimevano la natura dei rapporti e delle istituzioni sociali (una tesi ripresa poi, seppure alquanto modificata, da altri autori), per Kroeber essi riflettevano la «psicologia», veicolata dal linguaggio, dei soggetti culturali: «I termini di parentela rispecchiano la psicologia, non la sociologia: essi sono determinati in primo luogo dal linguaggio» (Kroeber 1974: 322). In sintonia con la concezione boasiana della cultura come insieme delle attitudini (mentali e quindi psicologiche) degli individui, i termini di parentela venivano considerati da Kroeber come semplici espressioni di ciò che al pari dell'economia, dell'arte o della letteratura poteva essere considerato un particolare aspetto della cultura stessa, in questo caso il linguaggio. L'importanza di questo saggio di Kroeber non risiede nel fatto di aver rigettato (sulla base di considerazioni peraltro discutibili) la distinzione tra sistemi classificatori e descrittivi. L'importanza di esso consiste piuttosto nell'aver lasciato intendere che le terminologie di parentela non possono essere considerate solo in riferimento alle relazioni sociali le quali sarebbero, a loro volta, il riflesso di pratiche matrimoniali. I termini di parentela, infatti, possono essere associati anche a domini semantici diversi da quello parentale, come quando usiamo, per esempio, i termini "padre", "zio" o "nonno" in riferimento a individui che nonni sono parenti in senso stretto. L'importanza di questo lavoro risiede anche nel fatto che Kroeber, attraverso l'analisi di dodici sistemi di parentela appartenenti ad altrettanti gruppi di nativi americani, evidenziò otto principi fondamentali che regolano la costituzione di tutti i sistemi terminologici. Nel nominare i "parenti" gli individui tengono conto di questi criteri che si riflettono nell'impiego di certi termini. Tali principi enucleati da Kroeber sono i seguenti: 1. Differenza tra persone della stessa generazione e di generazioni diverse. 2. Differenza tra parentela in linea diretta e in linea collaterale 3. Differenze d'età nell'abito della stessa generazione 4. Il sesso del parente 5. Il sesso di colui che parla 6. II sesso dell'individuo attraverso il quale passa la relazione di parentela tra chi parla e colui di cui si parla 7. Distinzione tra parenti consanguinei e acquisiti per matrimonio 8. La condizione di vita attraverso cui passa la relazione tra chi parla e colui di cui si parla Alcuni sistemi terminologici tengono conto di tutti gli otto principi, altri di una parte soltanto di essi. Il sistema "inglese", osserva Kroeber, ne prende in considerazione solo quattro (1, 2, 4, 7), mentre quelli di alcuni gruppi indiani ne comprendono da sei a otto. Confrontato con i sistemi indiani, quello inglese risulta essere "più classificatorio" di quelli indiani. Infatti il sistema inglese non tiene conto di almeno quattro dei principi tra quelli elencati e perciò "classifica", nel senso che "raggruppa", a livello terminologico, gli individui in maniera meno analitica (meno descrittiva) dei sistemi indiani. Il valore linguistico delle terminologie La scelta del livello linguistico come livello esclusivo di comprensione delle terminologie di parentela equivaleva a negare l'esistenza di quel rapporto causale tra pratiche matrimoniali e terminologie di parentela che Morgan aveva postulato allo scopo di rendere intelligibile l'evoluzione dei sistemi in ipo-
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tetiche sequenze storico-evolutive (per esempio l'evoluzione della famiglia). Tale scelta significava anche contribuire a orientare lo studio dei sistemi di parentela verso un tipo di approccio formale destinato a perdere di vista ciò che l'autore di Systems aveva ipotizzato, e cioè che presso alcune società le relazioni di parentela svolgono molte di quelle funzioni che nelle società «civilizzate» vengono invece assolte da rapporti di tipo politico-economico, e che di conseguenza le terminologie di parentela esprimono essenzialmente delle relazioni sociali. La natura «superorganica» della cultura Nel 1917 Kroeber pubblicò Il superorganico (The Superorganic), un saggio in cui affermava la discontinuità assoluta tra il livello dei fenomeni culturali e quello tipico di altri fenomeni, come ad esempio quelli biologici e psicologici. .Per Kroeber l'oggetto dell'antropologia coincideva con la cultura intesa nell'accezione tyloriana del termine, cioè come "insieme complesso". La tesi centrale del saggio di Kroeber è che l'ordine dei fenomeni culturali è di natura «superorganica», irriducibile cioè all'ordine dei fenomeni biologici. I fenomeni culturali, anziché situarsi in una relazione di continuità coi fenomeni biologici sono provvisti di una esistenza di tipo autonomo. In questo senso essi sono spiegabili soltanto ,sulla base di altri fenomeni culturali, fenomeni appartenenti cioè allo stesso livello di realtà e di intelligibilità. La discontinuità di tipo qualitativo postulata da Kroeber tra il livello dei fenomeni culturali e quello dei fenomeni biologici permetteva all'autore de Il Superorganico di criticare il postulato di base del darwinismo sociale americano, una ideologia abbastanza diffusa negli ambienti medio-alto borghesi di quel periodo e che ipotizzava una sorta di continuità tra l'ordine del biologico e quello del sociale, la quale finiva per assimilare le leggi di funzionamento della società a quelle della natura e giustificare così, sulla base di un riferimento improprio alla teoria darwiniana della "selezione naturale", le disugliaglianze caratteristiche della società di allora. Annullata l'omogeneità dei due ordini_ e quindi la transitività delle leggi dell'uno nelle leggi dell'altro, l'emergenza della cultura e del sociale (che nel saggio del 1917 vengono identificati l'una con l'altro) non si presentava come «un anello della catena, un passo lungo il cammino». ma come «un balzo su un piano diverso» (Kroeber 1974: 89). Il carattere di autonomia che Kroeber attribuisce ai processi culturali viene portato alle estreme conseguenze con l'immagine di una cultura non determinata dall'operare storico dell'individuo. In questa prospettiva, lo studio dei processi culturali doveva consistere nel tentativo di comprendere i fenomeni appartenenti alla sfera della cultura nella loro assoluta indipendenza dall'azione individuale che era invece interamente subordinata alle modalità dello sviluppo culturale. Il conferimento di una natura superorganica e sovraindividuale ai fenomeni culturali finiva per collocare Kroeber in una posizione diversa rispetto a Boas e ai suoi scolari più ortodossi. Kroeber sembrava infatti produrre agli occhi di questi ultimi una sorta di reificazione della cultura. In realtà egli produceva un orizzonte di intelligibilità dei fenomeni culturali che l'empirismo boasiano si precludeva limitando la sua analisi al caso circoscritto, individuando la singola cultura come l'esclusivo prodotto di accidenti storici e, come tale, unica in quanto irripetibile. L'antropologia di Kroeber non si risolse nella formulazione di critiche all'indirizzo dell'opera di Morgan. né nella teorizzazione della cultura come entità
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«superorganica». Essa rappresentò anche un grande contributo nel campo dell'etnografia degli Indiani del Nordamerica e della California in particolare; sui quali Kroeber rimane ancora oggi la massima autorità. Nel campo dell'etnografia nordamericana Kroeber fornì anche apporti teorici di rilievo, ad esempio con la sua teoria dei «culmini culturali», la quale si inserisce nel quadro della discussione relativa ai processi di diffusione sviluppatasi negli Stati Uniti nei primi decenni del Novecento (v. Cap. 8).
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Etnologia e psicologia: Robert Lowie
Il fatto che una definizione del campo e dell'oggetto specifici dell'antropologia culturale costituisse un'esigenza molto sentita tra gli studiosi americani di quel periodo, è dimostrato dalla pubblicazione, nel 1917, tanto de Il superorganico di Kroeber, quanto delle celebri conferenze tenute da Robert Lowie (1883-1957) al Museo di Storia Naturale di New York nel 1915 e date poi alle stampe col titolo di Cultura ed Etnologia. Questo lavoro, come quello di Kroeber, rifletteva la preoccupazione di rendere autonomo lo spazio del discorso antropologico, svincolandolo da quello di discipline in possesso di un repertorio terminologico più referenziale come la biologia (Kroeber), oppure abbastanza simile come la psicologia (Lowie). Lowie era, come Kroeber allievo di Boas. Specialista degli Indiani del nordamerica, e dei Crow in particolare sui quali ci ha lasciato un importante studio (The Crow Indians, 1935) Lowie fu, come Kroeber, critico nei confronti di Morgan. Tuttavia, a differenza di Kroeber, Lowie accettò la distinzione di Morgan tra sistemi classificatori e descrittivi. Nel volume Cultura ed etnologia egli si concentrò sulla peculiarità della disciplina e sugli elementi di distinzione rispetto alla psicologia. Partendo dalla definizione di "cultura" di Tvlor (1871) Lowie si chiese se una simile definizione non potesse individuare l'oggetto della psicologia.Tanto varrebbe, egli affermò, ridurre l'etnologia alla psicologia. Lowie aveva un'idea della psicologia – un'idea per altro condivisa anche oggi da molti psicologi – come studio esclusivo dei processi percettivi e cognitivi. Egli infatti sosteneva che l'etnologia si distingue dalla psicologia in quanto è interessata ad un ordine diverso di realtà: mentre la psicologia si occupa di ciò che è innato, l'etnologia, per Lowie, si interessa di ciò che è acquisito. Per illustrare meglio questa distinzione tra innato e acquisito, tra psicologia ed etnologia, Lowie portò ad esempio la percezione di un segno a forma di croce. Tutti percepiscono (psicologicamente, cioè percettivamente) il segno ma, precisa Lowie, il suo significato sarà percepito "culturalmente" in maniera diversa da un cristiano, da un musulmano e da un buddista. La percezione in quanto tale di questo segno ci riporta alla sfera dell'innato, cioè alle nostre capacità percettive universali. La percezione significante ci conduce invece alla sfera dell'acquisito, cioè della cultura. È di quest'ultima che si occupa l'etnologia.
Lo sviluppo dell'antropologia negli Stati Uniti e la "scuola" di Boas Bibliogra fi a critica Giannotti G., La "scienza della cultura" nel pensiero sociale americano contemporaneo. Il Mulino, Bologna 1967. Adelphi, Milano 1998 (ed. or. Raulff U. , Postfazione a A. Warburg. Il rituale del serpente, 1988). Il Mulino. Remotti R, «L'ir ri petibile impresa di Kroeber., in ID.. Antenati e antagonisti. Bologna 1986. Schneider D.M., .Rivers and Kroeber in the Stud y of Kinship” , in W.H.R. Rivers, Kinship and Social Organization, Athlone, London 1968. Stocking G.W. jr., «The Basic Assumptions of Boasian Anthropology», in F. Boas, A Franz Boas Reader. The Shaping of American Anthropology, 1883-1911, Midway Reprint,The University of Chicago Press, 1989 (ed. or. 1974). Wolff E., «Alfred L. Kroeber», in S. Silverman (a cura). Totems and Teachers. Perspectives on the History of Anthropology, Columbia University Press, New York 1981.
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Sociologia e filosofia: la riflessione francese sulle società...
Capitolo
5 Sociologia e filosofia: la riflessione francese sulle società e la mentalità «primitive»
le. di tali "credenze", ma preferiva riservare questa caratteristica a procedimenti psichici di tipo associativo caratteristici di fasi determinate dello sviluppo complessivo della società. All'interno della cosiddetta «legge dei tre stadi» infatti. è solo nella fase teologica e in quella metafisica che, per Comte, le credenze comuni sarebbero in grado di svolgere fino in fondo il ruolo di elementi stabilizzatori del sistema sociale. Nello stadio positivo della società invece, il carattere razionale del sapere elimina ogni residuo teologico e metafisico dai processi di comprensione della realtà, relegando la funzione normativa della credenza comune a una fase di sviluppo anteriore allo stadio positivo. L'esclusione dallo stadio positivo della credenza comune come fattore sociale normativo rifletteva quell'ideologia della ragione identificabile coll'idea di progresso caratteristica del clima intellettuale del positivismo ottocentesco. Fu l'insoddisfazione per questa impostazione a indurre una reazione tra quanti ritenevano il sistema comtiano inadeguato a spiegare la continuità e l'equilibrio sociale.
Coscienza e rappresentazioni collettive: Emile Durkheim L'eredità di Comte In Francia, dove pure l'interesse intellettuale per la vita dei popoli extra-europei si era rivelato prima che in qualunque altro paese, lo studio delle società "primitive" non conobbe sviluppi significativi sino alla fine del XIX secolo. La riflessione francese sulle società "primitive" si sviluppò infatti tardivamente rispetto a quanto era avvenuto in Gran Bretagna e, almeno ai suoi inizi, in un rapporto di dipendenza dalla sociologia. Quest'ultima era una disciplina derivata a sua volta dalla filosofia, e in particolare dalla filosofia "positiva" di Auguste Comte (17981857) che, nei decenni centrali dell'Ottocento, aveva costituito in Francia la linea dominante nell'ambito di questo genere di studi. Comte aveva focalizzato la propria riflessione sul tema della normatività sociale, ossia dell'equilibrio e dell'ordine sociale come frutto della possibile applicazione di un sapere positivo (la "sociologia") che fosse allo stesso tempo conoscenza e strumento di gestione della società sulla base di criteri di natura tecnico-scientifica. L'ideale comtiano di un sapere capace di contribuire alla costruzione di una siffatta società subì un colpo devastante con la guerra civile del 1870. Le vicende della Comune di Parigi, con i loro effetti traumatici sulla società e sulla cultura francese, generarono domande diverse da quelle formulabili nell'ottica positivista, progressiva e ottimista di Comte. Il pensiero di Comte. che attraverso la «legge dei tre stadi» (teologico, metafisico, positivo) faceva approdare l'umanità alla fase finale, o "positiva", rappresentata dalla società capitalistico-industriale dell'Ottocento, non era in grado di rendere ragione dei fenomeni di massa emergenti dalle mutate condizioni sociali, politiche ed economiche della Francia del XIX secolo. Era infatti chiaro che anche quest'ultima era largamente dominata da forze apparentemente irrazionali le quali affondavano le proprie radici nell'opinione pubblica, nelle tensioni sociali e politiche e nelle lotte di religione. L'inadeguatezza delle posizioni comtiane al riguardo si manifestò nella concezione stessa che il filosofo francese aveva di ciò che egli chiamava "credenze comuni", ossia le opinioni mediamente accettate dai membri di una società le quali non sono il prodotto di una disposizione pienamente razionale, ma dell'intuizione, della tradizione, del "sentito dire" ecc. Comte aveva infatti compreso la funzione socialmente "normativa", cioè regolativa sul piano socia-
Lo sforzo più significativo in direzione di una prospettiva teorica capace di comprendere quei fenomeni sociali di cui l'astratta razionalità del sistema di Comte rendeva conto in maniera insoddisfacente può essere individuato nell'opera di Emile Durkheim (1858-1917). Allievo dello storico antichista Numa D. Fustel de Coulanges e del filosofo Emile Boutroux, Durkheim, che si laureò in filosofia, fu la guida di quella che venne chiamata poi la "scuola sociologica", destinata ad influenzare la riflessione francese in campo tanto sociologico quanto etno-antropologico. Della "scuola" fecero parte eminenti studiosi come Célestin Bouglé (1870-1940), noto per i suoi lavori sulle caste indiane, Maurice Halbwachs (18771945), il fondatore degli studi sulla memoria collettiva. Marcel Granet (18841940). studioso del mondo cinese, e poi tutti quelli che si occuparono più direttamente delle società "primitive", compreso un cospicuo numero di giovani promettenti (tra cui il figlio stesso di Durkheim) caduti nel corso della prima guerra mondiale. La prospettiva normativa e la coscienza collettiva Allontanandosi da Comte per il quale i "sentimenti comuni" erano attivi solo in società dominate da un pensiero pre-positivo (prerazionale), Durkheim individuò il principale di questi elementi nella coscienza collettiva che ne La divisione del lavoro sociale del 1893 venne da lui definita come «l'insieme delle credenze e dei sentimenti comuni alla media dei membri di una stessa società» (Durkheim 1972: 92). II concetto di coscienza collettiva, che per Durkheim rinviava ad una entità sociale sovraindividuale, indipendente dalle coscienze singole e dotata di una logica di sviluppo autonoma, gli consentì di pensare in maniera unitaria tutte le società. Per Durkheim infatti tutte le società possedevano una coscienza collettiva cd erano quindi comparabili. La stessa sociologia era, secondo Durkheim, un sapere comparativo che doveva prendere in considerazione il numero più alto possibile di società per giungere alla conoscenza delle leggi della vita sociale. È in questa prospettiva comparativa che la sociologia di Durkheim si apre all'etnologia, traendo dagli studi etnografici allora disponibili il materiale per
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Emile Durkheim (1915 ca.)
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Sociologia e filosofia: la riflessione francese sulle società... il proprio ragionamento. Durkheim infatti andrà estendendo progressivamente i propri interessi per le società "primitive", fino a impostare interamente alcuni dei suoi lavori principali in una prospettiva di tipo essenzialmente etnologico. Solidarietà meccanica e solidarietà organica
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I primi interessi etnologici di Durkheim si rivelarono appunto ne La divisione del lavoro sociale del 1893. Qui la maggiore o minore "intensità" con cui la coscienza collettiva si manifestava nelle diverse società venne messa da Durkheim in relazione con il tipo di solidarietà vigente tra i membri di esse. In tal modo, dove la vita sociale occupa ogni spazio della vita del singolo determinandone le scelte e i sentimenti, la coscienza collettiva riflette l'esistenza di una solidarietà di tipo meccanico che lega tra di loro i singoli individui. Forte sarà, in questo caso, la riprovazione sociale per ogni atto che vada contro le norme sociali di comportamento. Nelle società caratterizzate dal massimo grado di solidarietà meccanica la coscienza collettiva era tanto forte da essere coestensiva delle coscienze singole. Nei tipi di società dove prevaleva invece la tendenza del singolo individuo a differenziarsi rispetto al gruppo, nelle società in cui prevaleva cioè una solidarietà di tipo organico e nelle quali gli individui si riconoscevano nella comunità grazie ad atti intenzionali rispondenti ad una volontà contrattuale, la coscienza collettiva tendeva ad occupare spazi più ristretti ma non per questo meno efficaci dal punto di vista del mantenimento di una identità sociale comune. Società "a solidarietà meccanica" e società "a solidarietà organica" costituiscono così, in Durkheim, due tipi estremi di una varietà complessa dove le due forme di solidarietà si intrecciano per costituire forme di società e di associazioni "miste" nelle quali prevale ora la solidarietà meccanica ora la solidarietà organica. Per Durkheim era tuttavia indubbio che nel confronto tra società civilizzate e società "primitive" le prime apparivano caratterizzate da forme di solidarietà organica, mentre le seconde da forme di solidarietà meccanica. Ne La divisione del lavoro sociale comparivano numerosi riferimenti alla lettratura etnografica di allora, soprattutto a quella relativa al Nordafrica dove geografi e storici francesi (gli etnografi veri e propri verranno più tardi) avevano compiuto osservazioni sull'organizzazione sociale delle comunità arabe e berbere dell'Algeria. della Tunisia e del Marocco. Da tali osservazioni risultava che le popolazioni rurali e nomadi di queste regioni possedevano un tipo di organizzazione sociale chiamata da Durkheim segmentaria, dove ogni gruppo era costituito da altri "segmenti" più piccoli, ciascuno dei quali era del tutto simile agli altri. La vita di queste società non dipendeva dal fatto che questi segmenti aumentassero o diminuissero, perché, proprio come accadeva nelle forme animali inferiori (per esempio i lombrichi) la perdita di un anello (segmento) era rimpiazzato dalla crescita di un segmento identico al primo. In queste società la solidarietà era "meccanica" perché l'individuo non compiva azioni e non elaborava sentimenti che non fossero quelli imposti dalla coscienza collettiva del gruppo. La distinzione operata da Durkheim tra i due tipi di solidarietà rifletteva una distinzione di grado. Le diverse società sembravano infatti disporsi lungo una linea continua che conduceva da un estremo "meccanico" ad un estremo "organico", secondo una evoluzione pensata come passaggio dal più "semplice" al più "complesso".
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La religione e le sue forme elementari Il lavoro di Durkheim che più d'ogni altro risentì delle suggestioni etnologiche di allora è Le forme elementari della vita religiosa. Pubblicata nel 1912, tale opera rispondeva al tentativo di elaborare una teoria generale della religione e della società attraverso l'individuazione di quegli elementi – le forme elementari della religione appunto – che entrano a far parte di tutti i sistemi religiosi e sociali. Per Durkheim la legittimità di questa operazione risiedeva nell'idea per cui il fenomeno religioso costituiva un fatto sociologicamente unitario: «alcune [religioni] possono essere dette superiori alle altre nel senso che mettono in gioco funzioni mentali più elevate» ma, se prendiamo in esame le religioni semplici. ci accorgiamo che esse «rispondono alle stesse necessità, assolvono la stessa funzione, dipendono dalle stesse cause, e perciò possono anch'esse manifestare la natura della vita religiosa e, di conseguenza, risolvere il problema che vogliamo trattare» (Durkheim 1963: 4-5). Le religioni sono così comparabili tra loro in quanto, indipendentemente dal loro grado di complessità interno, «alla base di tutti i sistemi di fede e di tutti i culti deve esserci necessariamente un certo numero di rappresentazioni fondamentali e di atteggiamenti rituali che rivestono ovunque lo stesso significato oggettivo e adempiono ovunque le stesse funzioni» (ivi: 7). La teoria del totemismo Il problema di individuare queste rappresentazioni fondamentali, o forme elementari, venne risolto da Durkheim assumendo che la religione, nel suo stato originario, fosse presente nelle società più semplici conosciute. A partire da queste considerazioni, Durkheim elaborò una teoria che doveva rendere ragione del carattere unitario della religione come fatto sociale: del totemismo degli aborigeni australiani come della religione positiva, cioè laica e razionale tipica dell'intellettuale europeo colto. 11 totemismo sarebbe infatti consistito (secondo un'idea allora comunemente accettata) in una forma di religione in cui un gruppo si identificava con un animale, una pianta o un fenomeno naturale qualsiasi che sarebbe diventato sia il simbolo del gruppo, sia dell'antenato comune ai membri del gruppo. sia, infine, un oggetto di culto da parte dei membri di esso. Durkheim considerava il totemismo come il sistema religioso più semplice al cui interno agivano rappresentazioni di natura collettiva indipendenti dalla psiche individuale, rappresentazioni che erano la proiezione ideale del gruppo sociale. L'unità del gruppo, la solidarietà dei suoi membri, la consapevolezza di non poter esistere al di fuori della società spingono gli individui a "idealizzare" la propria unione la quale si trova rappresentata in un simbolo, in un totem, e nel culto che a questo viene tributato. Gli esseri umani opererebbero così una specie di `'spostamento" simbolico facendo del totem un oggetto di culto, quando è invece la società (in questo caso il clan) che essi inconsapevolmente adorano. La religione come fenomeno unitario Disposizioni intellettuali come quelle appena descritte agivano, secondo Durkheim, a qualunque stadio di evoluzione della società e del pensiero. La conseguenza era che le religioni, dalle più primitive alle più sofisticate, costituivano un fenomeno unitario. In questo modo, le immagini di animali, di piante o fenomeni naturali rappresentanti un determinato totem, e le nozioni più elaborate come quelle di roana tra i Melanesiani o di wakan, prenda e munito tra gli Indiani nordamericani, le quali esprimevano un'idea di forza in generale associata al
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Sociologia e filosofia: la riflessione francese sulle società... totem, simbolo del clan (che per Durkheim era l'unità sociale primordiale), rappresentavano la forza stessa con cui la società si imponeva, con i suoi dettati e le sue regole, agli individui. Ciò che viene venerato attraverso il rito non è quindi un certo animale o una certa pianta, ma la società stessa, la quale «mantiene vivo in noi il senso di una perpetua dipendenza, dal momento che essa – scrive Durkheim – ha una natura propria diversa dalla nostra natura di individui e persegue scopi che le sono particolari» (ivi: 229). Durkheim, che su questo punto fu influenzato dalla concezione di William Robertson Smith relativa al rapporto tra riti comunitari e senso di appartenenza sociale (v. Cap. 2), non volle avanzare una teoria della religione come «sociolatria», ma sottolineare invece il dominio esercitato dalla dimensione sociale sul comportamento e il pensiero individuale. Il dominio che la società esercita sugli individui non è soltanto di natura coercitiva: al contrario, la società, con le sue regole e le sue leggi, si impone attraverso l'esercizio di un potere morale che, secondo Durkheim, non è altro che il rispetto che gli individui hanno per essa, un potere al quale obbediscono spesso anche in contrasto con i loro stessi interessi personali. Ma tale rispetto è appunto conseguenza dell'esistenza di norme, di regole sociali, il riconoscimento delle quali da parte degli individui produce in essi il sentimento di appartenenza ad una società. Che si tratti del totemismo australiano, della religione degli antichi o di quella del nostro tempo e della nostra civiltà, la natura e la funzione della religione restano identiche in quanto coincidono con la devozione che i membri di una società nutrono per quest'ultima. La religione appare così come un sistema di rappresentazioni e di riti attraverso i quali gli individui partecipano misticamente e collettivamente (cioè in maniera non-razionale e non-individuale) di quest'entità provvista di una forza "soprannaturale" (nel senso di non-naturale) che è il corpo sociale. I «fatti sociali» e la natura sociale del pensiero Le forme elementari della vita religiosa segnò un momento decisivo della riflessione etnosociologica in quanto in quest'opera emerse una prospettiva di indagine dei fenomeni sociali del tutto nuova, non solo rispetto alla tradizione comtiana della sociologia francese, ma anche rispetto a quella dell'etnologia europea in generale. Da Durkheim in poi, fenomeni quali la religione, le istituzioni giuridiche, le norme etiche ecc. non poterono più essere considerati come il risultato di un progresso intellettuale che aveva origine nelle impressioni soggettive (si veda ad esempio la teoria della nascita della religione secondo Tylor o quella della comparsa della discendenza patrilineare nella prospettiva degli evoluzionisti). Come aveva stabilito in un importante lavoro teorico del 1895, intitolato Le regole del metodo sociologico, Durkheim considerava i fatti sociali, che per lui costituivano l'oggetto specifico della sociologia, come insiemi di azioni e di rappresentazioni identificabili sulla base del potere che essi avevano di esercitare una costrizione sugli individui. Un ruolo, un rito, una credenza, un obbligo ecc. erano tutti fatti sociali. Essi erano indipendenti dalla psicologia del singolo individuo, avevano una vita autonoma, ed erano ciò che determinava `dall'esterno" il comportamento dei membri di una società. Essi erano ciò che, attraverso il meccanismo impersonale dell'obbligazione e della norma imponeva agli individui l'adesione alle regole del corpo sociale di cui facevano parte. Le forme elementari della vita religiosa ribadivano questa idea e la sviluppavano in relazione ad un "fatto sociale" come la religione facendoci capire che «i concetti sono sociali e che la religione è il modo in cui la società ce li fornisce ed impone il loro potere sopra di noi» (Gellner 1973: 45).
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Il «prelogismo» di Lucien Lévy-Bruhl Tra coloro che contribuirono a sviluppare in maniera originale le idee di Durkheim, e che favorirono inoltre la diffusione dell'etnologia in ambiti disciplinari diversi da quello sociolo gico vi è Lucien Lévy-Bruhl (1857-1939). Filosofo, professore alla Sorbona, Lévy-Bruhl fu uno dei più fini interpreti della tradizione del razionalismo filosofico e a lui va il grande merito di aver gettato le basi, con altri suoi colleghi, di quell'Institut d'ethnologie che, fondato nel 1925, avrebbe costituito il "trampolino di lancio" dell'etnologia francese tra le due guerre (v. Cap. 13). La relatività dei sistemi morali Il primo lavoro di Lévy-Bruhl in cui possiamo collocare l'affiorare di quegli interessi etnologici che faranno di questo filosofo il teorico della «mentalità primitiva» è La morale e la scienza dei costumi del 1903. Quest'opera nacque come un puro libro di filosofia nell'intento di rispondere ad una domanda tipicamente filosofica: esiste una morale oggettiva? La critica di Lévy-Bruhl nei confronti di ogni pretesa di elaborare una morale teorica universalmente valida, cioè oggettiva in senso filosofico, pose il suo autore nella condizione di aprirsi al confronto con l'etnologia. Per Lévy-Bruhl qualunque teoria che avesse la pretesa di fondare una morale oggettiva partirebbe dall'assunto più o meno esplicito secondo il quale esisterebbe una «natura umana» sempre e ovunque identica a se stessa, ciò che equivarrebbe a riattivare in sede filosofica un pregiudizio etnocentrico. La teoria, sostenne Lévy-Bruhl, non può fondare alcuna morale, ma può soltanto studiarla. Studiare la morale significa in realtà cercare di comprendere il diverso significato che l'esperienza morale può assumere in contesti sociali differenti, i diversi sistemi morali che sono caratteristici delle diverse società. È in questo testo che Lévy-Bruhl compì quella che potremmo chiamare la sua "rivoluzione etnologica". Da allora infatti il suo sguardo si volgerà alle società "primitive". Queste società offriranno a Lévv-Bruhl il materiale etnografico su cui riflettere non più soltanto a proposito dell'esperienza morale, ma anche in relazione a quelle forme di pensiero (le funzioni mentali) che. in sintonia con la sua formazione d'ispirazione filosofica, diverranno l'oggetto centrale della sua ricerca. Sarà infatti il "pensiero primitivo" a costituire d'ora innanzi l'oggetto di tutta la sua produzione. Le rappresentazioni «mistiche» In Psiche e società primitive (Les fonctions mentales dans les sociétés inférieures) pubblicato nel 1910, erano già presenti quei concetti che consentirono poi a Lévy-Bruhl di elaborare una teoria generale della mentalità primitiva. LévyBruhl criticò la tradizione dell'evoluzionismo inglese. La pretesa di spiegare le "rappresentazioni collettive" dei popoli primitivi sulla base delle operazioni mentali di tipo individuale e soggettivo (come era accaduto nel caso di Tylor e di Frazer) appariva a Lévy-Bruhl un metodo inadeguato. Le rappresentazioni collettive, per quanto bizzarre e illogiche potessero sembrarci, non erano, come pensavano gli evoluzionisti, sbagli di valutazione compiuti dalla mente rozza del primitivo nel tentativo di rintracciare le cause reali dei fenomeni. Le rappresentazioni collettive erano innanzitutto «comuni ad un dato gruppo sociale e trasmissibili di generazione in generazione», erano rappresentazioni che si imponevano agli individui attraverso la pratica sociale e costituivano perciò modelli so-
Lucien Lévy-Bruhl verso il 1920
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dove il gesto rituale prefigura o addirittura sta per l'azione reale. Tale relazione "partecipativa" è ciò che determina la natura "pre-logica" di questo tipo di mentalità. Il concetto di pre-logico non designa in Lévy-Bruhl una forma di pensiero "meno evoluta" di quella designata dal termine "logico". Esso significa a-scientifico, a-critico e non implica in quanto tale né l'idea di una anteriorità temporale nello sviluppo delle facoltà mentali né, tantomeno, una natura "irrazionale". Il concetto di pre-logico indica una differenza di tipo qualitativo e non quantitativo tra l'attività mentale del primitivo e quella dei "civilizzato". Come si può constatare la distanza che separava Lévy-Bruhl dagli evoluzionisti era, nonostante l'utilizzazione di termini quali "prelogico", "società inferiori", "primitivo", notevole. L'immagine delle società primitive che veniva in tal modo prodotta era quella di società i cui membri presentavano atteggiamenti mentali orientati in maniera radicalmente diversa da quelli che Lévy-Bruhl riteneva caratteristici dei popoli "civilizzati".
ciali di atteggiamenti mentali, veri e propri "fatti sociali". Per Lévy-Bruhl non si trattava dunque di scoprire l'origine "prima" di queste rappresentazioni. Egli pensava (seguendo Durkheim) questi fatti sociali come già dati all'interno di un contesto già dato, la società. «Per quanto lontano si possa risalire, per quanto possano essere primitive le società osservate – egli scriveva – noi incontriamo sempre spiriti socializzati, se così si può dire, presi già da una moltitudine di rappresentazioni collettive che gli sono state trasmesse dalla tradizione e la cui origine si perde nella notte dei tempi» (Lévy-Bruhl 1970: 47). Tutte quelle rappresentazioni che la teoria antropologica aveva fino a quel momento ritenuto qualcosa di incomprensibile o addirittura di bizzarro e di astruso, e che la tradizione evoluzionista aveva interpretato come il prodotto di una ingenuità intellettuale, venivano così ricondotte da Lévy-Bruhl ad una sorta di determinazione sociologica che andava indagata nella sua logica specifica. L'universo simbolico del primitivo era, per Lévy-Bruhl, omogeneo all'universo sociale in cui il primitivo stesso viveva. Era il carattere eminentemente emotivo dell'esperienza sociale a generare il tipo particolare delle rappresentazioni collettive che costituivano questo universo simbolico. Il gruppo sociale primitivo viveva così un'esperienza mistica, che si realizzava nelle pratiche del culto e nell'esecuzione del rito. In questo contesto l'individuo non aveva la possibilità di sviluppare un giudizio proprio indipendente da quello che gli veniva imposto dalla sua società. Lévv-Bruhl portava in un certo senso alle estreme conseguenze l'idea di Durkheim secondo cui la forza del pensiero sociale si impone agli individui che, per l'autore di Psiche e società primitive, mostravano un atteggiamento mentale caratterizzato da una fondamentale «impermeabilità all'esperienza». Quest'ultima caratteristica del pensiero dei primitivi renderebbe per esempio comprensibile il fatto che essi continuino a praticare la magia indipendentemente dai risultati che possono essere realmente ottenuti per mezzo di essa, in quanto è la rappresentazione collettiva che impedisce loro di concentrare l'attenzione sui dati dell'esperienza oggettiva.
Significato e limiti del prelogismo
Partecipazione e prelogicità
In questa distinzione radicale tra mentalità pre-logica e mentalità «logica», alcuni hanno visto una variante del pregiudizio etnocentrico che Lévy-Bruhl avrebbe riprodotto per altra via. Ciò è innegabile. Ma questa distinzione, che è stata interpretata anche come il riflesso di una sorta di imperialismo ideologico (poiché, da intellettuale, Lévy-Bruhl pensava che la sua razionalità fosse quella di qualunque altro occidentale), rappresenta il tentativo di organizzare una comprensione della differenza svincolata dalle procedure e dagli schemi d'indagine di matrice evoluzionistica. La teoria della "mentalità primitiva" era il prodotto di un'operazione mirante a conferire al primitivo un suo spazio reale di esistenza e di riconoscimento. Lévy-Bruhl non aveva esperienza di ricerca sul campo e, di conseguenza, tutte le società primitive venivano da lui considerate come "equivalenti", con l'effetto di poterle contrapporre in blocco a quella "occidentale", una contrapposizione che si rifletteva appunto in quella tra "mentalità pre-logica" da un lato e "mentalità logica" dall'altro. Negli ultimi anni della sua vita Lévy-Bruhl aveva però cambiato opinione riguardo alla contrapposizione tra queste due "forme" di pensiero, "prelogico" e "mistico" l'uno, "logico" e "razionale" l'altro. Dai Quaderni, pubblicati postumi nel 1949, risultò infatti la volontà di Lévy-Bruhl di attenuare l'abisso che lui stesso aveva contribuito a tracciare tra pensiero primitivo e pensiero occidentale. soprattutto attraverso la constatazione di come, anche nella società positiva e scientifica, fosse possibile rilevare indubbie tracce di atteggiamenti "partecipativi", "mistici" e "pre-logici" (Lévy-Bruhl 1952).
[T5.4]
La mentalità primitiva sarebbe non solo mistica, ma anche regolata da un tipo di logica che tenderebbe a coordinare tra loro quelle che sono le rappresentazioni di natura mistica. Questa tendenza della mentalità primitiva consistente nello stabilire relazioni tra le rappresentazioni mistiche venne definita da Lévy-Bruhl per mezzo del termine partecipazione. mentre in opposizione a quella del pensiero "civilizzato", il tipo di logica dal quale dipende il principio di partecipazione viene definita come pre-logica. Nella sua opera del 1910 Lévy-Bruhl scriveva: «Orientata diversamente dalla nostra, preoccupata soprattutto delle relazioni delle proprietà mistiche, avendo per legge principale la legge di partecipazione, la mentalità dei primitivi interpreta necessariamente in modo diverso dal nostro quel che noi chiamiamo la natura e l'esperienza» (ivi: 129). Dodici anni più tardi. ne La mentalità primitiva (1922), il libro che più di ogni altro rese Lévy-Bruhl noto agli antropologi, egli precisò: «La mentalità primitiva si preoccupa, come la nostra, delle cause di ciò che accade. Ma non le cerca nella stessa direzione. Vive in un mondo in cui innumerevoli potenze occulte dappertutto presenti sono sempre attive o pronte ad agire» (Lévy-Bruhl 1966: 431). Queste innumerevoli potenze occulte erano ciò che la mentalità primitiva coglieva nella loro relazione "partecipante", dove la parte corrisponde al tutto e
Bibliografia critica
Cazeneuve J., Lévy-Brtdrl, PUF, Paris 1963. Evans-Pritchard E.E., .Levy-Bruhl» , in Ill, Teorie sulla religione primitiva, Sansoni, Firenze 1971 (ed. or. 1965). Karady V., .French Ethnography and the Durkheimian Breakthrough» ,Journal of the A nthropological Society of Oxford, XII, 1981. Levi-Strauss C., «Ciò che l'etnologia deve a Durkheim» , in ID, Antropologia strutturale due, 11 Saggiatore, Milano 1978 (ed. or. 1960). Lukes S., F_nrile Durkheim, his Life and Work. A l'isterica! and Critica! Study, Harper and Row, London 1972.
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Tradizioni popolari ed etnologia in Italia
Capitolo
6 Tradizioni popolari ed etnologia in Italia
Lo sviluppo degli studi etno-antropologici in Italia è legato solo in minima parte alla scoperta del mondo coloniale. Come nel caso di altre tradizioni europee "minori", infatti, quella italiana emerse in relazione agli studi folklorici da un lato e agli studi di ispirazione storico-giuridica relativi all'età classica dall'altro. Quella italiana è in un certo senso una tradizione "bicefala", dove tuttavia la parte facente capo allo studio delle tradizioni popolari, o demologia come ormai si dice «per attenuare gli impegni troppo diretti e non sempre chiari che derivano dall'impiego di termini come 'tradizioni popolari'» (Cirese 1973: 62), ha avuto a lungo il sopravvento sulla seconda. Non sono certo mancate figure di studiosi italiani dediti a ricerche sul campo in ambienti extraeuropei. Ma questi sono stati assai pochi sino ad anni molto recenti, con la conse guenza che la riflessione si è mantenuta per lungo tempo entro i confini degli studi di tradizioni popolari, folklore o, come si tende o ggi appunto a definirli, demologici.
Demologia (tradizioni popolari) Nei primi anni del Novecento la "cultura antropologica" italiana mostrava già un "ritardo" rispetto a quella di altri paesi europei.Tale ritardo è interpretabile – anche se con prudenza – come un effetto di un altro e più decisivo "ritardo". quello con cui si era realizzata l'unità politica del nostro paese_ Il soffermarsi su canti, leggende, "costumi" delle comunità della penisola italiana andava di pari passo con la riscoperta delle "origini", dell'"anima" del popolo italiano allo stesso modo in cui ai primi dell'Ottocento la "ricerca delle radici' . aveva investito un po' tutte le borghesie intellettuali europee all'insegna dell'esigenza di fondare degli stati basati su un'idea di nazione. La raccolta delle tradizioni popolari Non è un caso che gran parte della produzione riconducibile agli studi sulle tradizioni popolari si fosse configurata come parte dell'ideologia costitutiva dell'Italia in via di formazione e immediatamente postunitaria. Bisogna tuttavia precisare che a differenza di quanto accadde in altri paesi europei. primo tra tutti la Germania dove l'idea di «patria» (Vaterland) si configurava come inscindibile da
quella di «territorio» (Heimat) di un unico popolo (Volk) e di lingua (Sprache), e dove si postulava l'unicità d'origine delle genti germaniche definite appunto come unica stirpe, in Italia la coscienza di una eterogeneità di fondo del popolo italiano fu quasi sempre presente negli studiosi di "tradizioni popolari". Dopo una prima fase caratterizzata soprattutto da studi di tipo geograficostatistico su singole località o tradizioni regionali da un lato, e da una ricerca sui canti popolari dall'altro, ebbe inizio un'epoca di individuazione delle peculiarità regionali che va al di là di una semplice collezione di "curiosità" o di una raccolta di forme liriche quali i rispetti e gli stornelli. In questa prima fase le preoccupazioni di carattere "teorico" non furono completamente assenti. Appartengono infatti a questo periodo (1826 è 1839) i lavori di Alberto La Marmora che, inviato in Sardegna come ufficiale dell'esercito piemontese, raccolse notizie sulla vita delle popolazioni locali tentando una comparazione con i popoli dell'antichità classica. Posteriore di qualche anno è la raccolta dei canti popolari di Niccolò Tommaseo (1841-1842) che, a giudizio di alcuni, ebbe epigoni non certo di pari livello (Cirese 1973: 133; 137; 147). La teoria del «sostrato etnico» Nella seconda metà dell'Ottocento, anche grazie all'influenza esercitata dalle correnti europee su alcuni filologi italiani di notevole valore, assunse consistenza un indirizzo che mirava alla ricostruzione storica di diffusione e di distribuzione delle forme liriche_ I maggiori rappresentanti di questo indirizzo furono Alessandro d'Ancona e Costantino Nigra (1828-1907), quest'ultimo più noto come personaggio politico. Particolarmente rilevante appare il lavoro di Nigra e la sua teoria del «sostrato etnico». Nei Canti popolari piemontesi raccolti subito dopo la metà del secolo, e in lavori di carattere più teorico, Nigra sviluppò l'idea secondo la quale l'Italia si presenta, dal punto di vista della produzione lirica popolare, divisa in due aree: una superiore ed una inferiore. Della prima facevano parte le regioni a nord dell'Appennino Losco-emiliano, della seconda tutte quelle a sud di quest'ultimo. Nigra ricondusse i motivi prevalenti dell'area superiore all'elemento narrativo storico-romanzesco e quelli dell'area inferiore all'elemento lirico-amoroso, ciascuno con una propria struttura interna. Nigra, che era filologo "celtista", cercò di collegare la «canzone» storico-romanzesca dell'area superiore alle liriche dello stesso genere presenti nell'area francese e iberica. Inoltre egli cercò di mettere in rapporto le peculiarità dei contenuti delle liriche delle due aree con i dialetti qui parlati, finendo poi per ricondurre queste differenze alla grande divisione tra un mondo «italico» ed un mondo «celtico», entrambi nascosti sotto uno «strato» latino. Gli esordi della demologia: Giuseppe Pitré L'effettivo iniziatore degli studi demologici nel nostro paese fu però Giuseppe Pitré (1841-1916) che grazie ad una lunga opera di raccolta e di registrazione etnografica, soprattutto delle tradizioni popolari della sua terra, la Sicilia, edificò la monumentale Biblioteca delle tradizioni popolari siciliane che venne iniziata nel 1871 e terminata nel 1913. Nei venticinque volumi di quest'opera Pitré raccolse proverbi, favole, credenze, pratiche magico-mediche, giochi e divertimenti "popolari", chiamando "demopsicologia" l'ambito di questo genere di studi. Egli fondò un importante museo etnografico a Palermo, il quale porta il suo nome. Pitré è una figura importante della nostra tradizione perché egli non fu un semplice studioso "da tavolino" ma, in quanto medico, ebbe l'opportunità di frequentare assiduamente i ceti popolari dell'isola, compiendo osservazioni estre-
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Tradizioni popolari ed etnologia in Italia mamente accurate e raccogliendo dati sulle usanze. l'alimentazione, la demografia, la salute ecc.
Dall'esplorazione all'etnografia dell'Italia: Lamberto Loria
[T6.11
Nel corso dell'Ottocento gli studi etnologici erano molto spesso considerati parte integrante di una antropologia rivolta soprattutto allo studio delle caratteristiche fisiche. Un caso tipico fu quello, già ricordato (v. Cap. 2) del monzese Paolo Mantegazza il quale, laureatosi in medicina a Pavia, tenne a Firenze, a partire dal 1869, la cattedra di Antropologia insegnando tanto antropologia fisica quanto etnologia. Gli studi etnologici emersero quindi lentamente da un'area scientifica in cui le discipline dell'antropologia fisica, dell'etnologia e della demologia non erano ancora ben distinte. Come abbiamo detto all'inizio del capitolo, la tradizione etnologica italiana fu, almeno fino a pochi decenni orsono, subalterna al settore degli studi demologici. Essa non nacque propriamente "sul campo", ma piuttosto come filiazione, almeno in parte, della tradizione storico-giuridica orientata verso lo studio del mondo classico e in special modo di quello romano-latino. Certo non bisogna dimenticare che l'Italia ebbe, nella seconda metà del XIX secolo, eccellenti esploratori-etnografi, soprattutto africanisti. Vi fu qualche eccezione, come quelle di Carlo Guarmani, che compì esplorazioni dell'Arabia interna verso il 1860, e di Renzo Manzoni, che esplorò, alla fine degli anni 1870, lo Yemen. Ma le maggiori attenzioni etnografiche vennero sempre riservate all'area africana che cominciò, già alla fine dell'Ottocento, a costituire l'obiettivo dell'espansione coloniale italiana. Ad ogni modo le ricerche di questi esploratori etnografi non furono inquadrate, contrariamente a quanto già avveniva in Gran Bretagna e, un po' più tardi in Francia e in Germania, all'interno di un progetto scientifico sistematico. La figura più rilevante dell'etnografia italiana di fine Ottocento e dei primi anni del Novecento fu senza dubbio quella di Lamberto Loria (1855-1913). Nato ad Alessandria d'Egitto da genitori italiani, Loria viaggiò nel Turkestan, in Lapponia e in Eritrea, visitò la Nuova Guinea e le Isole Trobriand raccogliendo importanti collezioni etnografiche oggi custodite presso il Museo Pigorini di Roma, il Museo di Antropologia e di Etnologia di Firenze e quello Archeologico ed Etnologico di Modena. Nell'ultimo periodo della sua vita Loria si dedicò tuttavia all'etnografia italiana, interrompendo così la sua attività di esploratore. La sua "conversione" fu da lui stesso raccontata con queste parole: "Nel 1905, prima di partire per l'Africa per le mie ricerche, ebbi occasione di andare a Circello del Sannio. E lì ebbi l'idea di abbandonare gli studi di etnografia esotica che mi avevano sino ad allora obbligato a compiere lunghi e perigliosi viaggi, e di dedicarmi invece allo studio della nostra gente". Nel 1906 Loria fondò, con la collaborazione di Aldobrandino Mochi, allievo dell'evoluzionista Paolo Mantegazza, il Museo di Etnografia italiana che molti anni più tardi avrebbe assunto il nome di Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, con sede a Roma. Nel 1910, Loria fondò la Società di Etnografia Italiana e si fece promotore del primo Congresso Nazionale della stessa che si tenne l'anno successivo a Roma. La Mostra di Etnografa Italiana Nel 1911 Loria organizzò, nel quadro delle celebrazioni per il cinquantenario dell'Unità d'Italia, a Roma, una Mostra di Etnografia Italiana. Per l'occasione Loria
Tradizioni popolari ed etnologia in Italia e i suoi collaboratori si proposero di offrire ai visitatori un'immagine il più possibile "autentica" della vita dei nostri ceti popolari. Ciò avvenne all'insegna di una concezione molto particolare dell' identità regionale e al tempo stesso nazionale degli Italiani. La Mostra di Loria fu orientata da una vera e propria "politica della raccolta" dei reperti etnografici destinati all'esposizione della Mostra del 1911. Un esame del processo di organizzazione della mostra ha messo in luce come questi materiali – in prevalenza costumi "popolari regionali" – vennero riprodotti in base ad una manipolazione alquanto spregiudicata dei reperti originali, come risulta dal carteggio tra Loria e i suoi collaboratori (Gandolfo 1997). La Mostra di Etnografia del 1911 risultava così basata sull'uso ambiguo di due concetti: quello di finzione e quello di autenticità. I costumi "veri" non esistevano più e quindi bisognava produrne di nuovi secondo un modello che alterava il contesto entro cui i costumi erano stati confezionati, indossati, rammendati, "riciclati". Ciò che si presentava agli occhi dei collaboratori di Loria, incaricati da quest'ultimo di raccogliere per l'Italia i reperti utili all'esposizione, non erano infatti altro che costumi vecchi e rattoppati, con parti mancanti, sporchi, sdruciti. Bisognava pertanto confezionarne di nuovi secondo un ideale estetico che era tuttavia estrinseco al contesto d'uso. È attraverso questa finzione che Loria e i suoi collaboratori perseguirono un ideale di autenticità. I costumi rifatti sul modello di quelli vecchi, incompleti, scoloriti e sdruciti, diventavano costumi `'popolari". Loria e i suoi mettevano così in funzione delle vere e proprie strategie di "costruzione" identitaria con l'effetto di rendere il costume popolare italiano qualcosa di "veramente autentico". Il Congresso della Società di Etnografia Italiana Il 1911 segna un momento importante nella storia degli studi demo-etno-antropolgici italiani. Infatti, oltre alla mostra di etnografia, l'infaticabile Loria organizzò il conv egno della Società Etnografica Italiana. Il convegno fu animato da una serie di interventi nei quali era possibile rintracciare una forte apertura alle correnti internazionali che stavano assumendo consistenza in Francia e in Gran Bretagna, con contributi che si avvicinavano, per prospettiva d'analisi, alle correnti più vive di quei paesi (Puccini 1985). Lo slancio dato da questo convegno al programma degli studi etnografici, in e fuori d'Italia, si affievolì però negli anni seguenti, come effetto della scomparsa di Loria, dello scoppio del primo conflitto mondiale ma anche come conseguenza del clima culturale allora dominante in Italia. È infatti in questi anni decisivi che va collocato l'inizio del prevalere degli studi demologici su quelli etnologici. prevalere determinato d'altronde dalla "conversione" dello stesso Lordi all'etnografia italiana.
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Costumi tradizionali del vicentino (1900 ca.)
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I motivi di un «ritardo» e di un «dominio» I motivi che hanno portato la tradizione demologica a sopravanzare quella etnologica in senso stretto sono vari e complessi: storici, politici, accademici e culturali in senso lato. Alcuni hanno sostenuto che ciò fu conseguenza della troppo breve durata della dominazione coloniale italiana. Altri hanno indicato invece nell'idealismo filosofico caratteristico della cultura italiana dei primi del Novecento il mancato radicamento, nel nostro paese, di quel naturalismo positivistico che invece, in Gran Bretagna e in Francia, favorì lo sviluppo delle scienze etnoantropologiche (Cirese 1973: 178-180). Non è però neppure mancato chi, riferendosi alla situazione italiana nel suo complesso, ha detto che sarebbe un po' troppo facile imputare allo storicismo idealistico, e alla fredda accoglienza da esso riservata alle scienze sociali, il ristagno che ha caratterizzato per lungo tempo sia il filone demologico che quello etno-antropologico (Clemente 1985:37). Non dobbiamo però dimenticare nemmeno il discredito che una certa antropologia italiana si attirò negli ultimi anni della dittatura fascista quando alcuni studiosi si prestarono alla redazione del "Manifesto della razza" con il quale il regime dava inizio alla discriminazione nei confronti di alcune categorie di Italiani ritenuti non "sufficientemente ariani".
Capitolo
7 L'etno-sociologia francese
I concetti di fatto sociale e di coscienza collettiva – con cui Durkheim aveva rap-
presentato la natura autonoma e sovraindividuale, e al tempo stessa simbolica, della dimensione sociale – erano destinati a produrre uno spazio originale di riflessione all'interno della sociologia e dell'etnologia francesi. L'influenza di Durkheim fu infatti enorme non solo sul pensiero sociologico, ma anche su quello etnologico che lentamente si sarebbe staccato da esso. Sociologia ed etnologia, in Francia, rimasero infatti a lungo legate tra loro, anche perché i sociologi allievi di Durkheim seguirono l'esempio di quest'ultimo consistente nell'aprirsi ai dati dell'etnografia i quali, tra la fine dell'Ottocento e i primi anni del Novecento, erano aumentati in maniera notevole. D'altra parte Durkheim, che aveva una concezione della sociologia come sapere comparativo, riteneva lo sviluppo di questa disciplina inscindibile dalle conoscenze relative a tutte le società, specialmente quindi dalle conoscenze relative alle società studiate dagli etnologi e dagli antropologi. L'originalità della riflessione etno-sociologica francese sviluppatasi sulla scia dell'opera di Durkheim consistette nel tentativo di cogliere, dietro i fenomeni sociali, le "ragioni nascoste" del loro accadere. Si cominciò così a parlare di opposizioni, strutture, classificazioni, reciprocità, tutti concetti che, secondo gli eredi di Durkheim, avrebbero dovuto descrivere i modi in cui il pensiero collettivo si rappresentava la realtà, tanto sociale quanto naturale. La morte, il sacro, il profano: Robert Hertz
Bibliografia critica
Bonomo G., Pitré, la Sicilia, i Siciliani, Sellerio, Palermo 1985. Cirese A.M., Cultura egemonica e culture subalterne, Palumbo, Palermo 1973. Fedele F. e Baldi A. (a cura), Alle origini dell'antropologia italiana, Guida. Napoli 1989. Gandolfo E, Realtà e mito nei costumi tradizionali popolari del Piemonte e della Valle d'Aosta. Dalla collezione del Museo Nazionale delle Arti e Tradizioni Popolari, Priuli & Verlucca, Ivrea 1997. Puccini S., L'uomo e gli uomini. Scritti e studi antropologi italiani dell'Ottocento. CISU, Roma 1991. Puccini S., Andare lontano, Carocci, Roma 1999.
Lo studio delle rappresentazioni collettive, così come questa prospettiva di ricerca era stata inaugurata da Durkheim, costituì l'ambito entro il quale si collocò il lavoro di Robert Hertz (1882-1915). La scomparsa prematura di Hertz nel corso della prima guerra mondiale privò l'antropologia francese di una delle sue figure più brillanti e promettenti. Di lui ci restano poche opere, tra cui alcune particolarmente importanti. Le più significative sono il «Contributo allo studio sulla rappresentazione collettiva della morte» e «La preminenza
Robert Hertz a trent'anni
L'etno-sociologia francese
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della mano destra. Studio sulla polarità religiosa», pubblicate entrambe nel 1907 e nel 1909 rispettivamente su L'Année soL.ó Bandar Seri ^8 away ^ S ciologique, la prestigiosa rivista fondata nel 1898 da i ó BRU NE1Ú ó Durkheim e sulla quale comparvero i lavori dei suoi allievi súuwnK "etnologi". Sibué (M .),IAN'S Hertz va anche ricordato come uno degli iniziatori dell'anKù tropologia "alpina", avendo compiuto, agli inizi del Noveceny ^!E(j' Ponbtnak (ÌN DQNESIA) to, uno studio sul Santuario di San Besso, a Cogne, e del pel 1 tl ,Ballkpppan legrinaggio ad esso collegato. w Hertz, il quale aveva una formazione filosofica, intraprese n ) ^ ú J1 ti anche uno studio, rimasto incompiuto sul tema del peccato e Mar di Giava ^ della espiazione nelle società "primitive". Nei suoi studi Hertz rispettò la procedura seguita dal maeIsola del stro e dai suoi allievi: isolare il fatto sociale in quanto tale dalla sua forma cultuBorneo rale. Questa procedura non si discostava, per la verità, da quella seguita dagli (Kalimantan) evoluzionisti, i quali cercavano di cogliere, al di Ià delle differenti forme in cui si presentavano istituzioni e costumi quali il totemismo, l'esogamia, la couvade, e così via, le stesse caratteristiche essenziali. . Diversamente dagli evoluzionisti tuttavia Hertz, sempre seguendo Durkheim, restrinse molto il campo d'indagine in senso etnografico, limitandosi a considerare contesti specifici entro i quali si inscrivevano fenomeni particolari per poi cercare, attraverso una comparazione più ampia, di conferire ad essi una validità generale. È così che nel saggio sulla rappresentazione collettiva della morte egli si concentrò sul costume della seconda sepoltura, conducendo la propria analisi su materiali provenienti dall'area del Borneo (Kalimantan). L'idea ispiratrice che stava alla base dei lavori di Hertz può essere ricondotta alla problematica durkheimiana della coesione sociale. Per ciò che riguarda lo studio sulla rappresentazione collettiva della morte, la concezione che ciascun popolo aveva di essa rientrava in un problema più vasto, quello della comprensione dei meccanismi grazie ai quali una società riesce a mantenere la propria identità e coesione. Per Hertz le credenze dei primitivi relative al fenomeno della morte non costituivano, al contrario che per gli evoluzionisti come Tylor e Frazer, delle "spiegazioni" e quindi l'origine del pensiero religioso; esse erano per Hertz delle "rappresentazioni collettive", processi mentali che, come Durkheim aveva sostenuto, erano condivisi da tutti i membri di una società e investivano le relazioni tra il singolo e la comunità e sui valori fondamentali del gruppo sociale. y •
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Lo «scandalo» della morte Hertz si preoccupò di mettere in rilievo come, al di là della sua natura di fenomeno biologico, la morte si rivesta, presso tutti i popoli, di emozioni e di rappresentazioni assai differenziate non solo nel loro aspetto culturale, ma anche nel loro significato sociologico: «Alla morte di un capo o di un uomo investito di grande dignità. un vero e proprio panico si impadronisce di tutto il gruppo... Al contrario la morte di uno straniero, di uno schiavo o di un bambino passerà quasi inosservata... non darà luogo ad alcun rito... La morte non si limita a metter fine all'esistenza corporea, visibile, di un vivo; essa distrugge contemporaneamente l'essere sociale che si sovrappone all'individualità fisica, a cui la coscienza collettiva attribuiva un'importanza, una dignità più o meno grandi» (Hertz 1978: 85). La morte distrugge il rapporto dell'individuo con il gruppo di cui fa parte e dal quale trae la sua stessa identità sociale. Per questo motivo la comunità avverte la morte di un suo membro come una minaccia alla propria coesione: esso deve ristabilire quell'equilibrio, che la scomparsa di un individuo ha alterato, me-
L'etno-sociologia francese diante una serie di rituali atti allo scopo, i rituali funebri. Attraverso tali rituali il defunto è --ragionevolmente" distaccato dalla comunità dei vivi e reintegrato in quella dei morti e degli antenati. L'attenzione di Hertz fu attratta. come si è già detto, da alcuni rituali messi in pratica dalle popolazioni del Borneo. Questi consistevano in due riti distinti intervallati da un periodo di lutto. Alle prime esequie, le quali seguivano immediatamente la morte di un individuo seguiva, dopo un certo tempo, un altro rito, più solenne del primo, durante il quale veniva data una sistemazione definitiva ai resti del defunto. Era questo il rito della seconda sepoltura che Hertz prese come punto di partenza per la sua riflessione sul significato sociologico della morte in quanto oggetto di rappresentazioni collettive. La morte come transizione Nell'esistenza di questo doppio rito funebre Hertz individuò infatti il carattere fondamentale che la morte riveste presso' tutte le società, ossia quello di una transizione da uno stato all'altro, dalla comunità dei vivi a quella dei defunti, dal mondo visibile a quello invisibile. In questo, notò Hertz, i riti funebri assomigliavano in qualche modo ai riti della nascita e del matrimonio poiché, come questi ultimi, erano atti a favorire una transizione, un passaggio, come dirà appena due anni dopo Van Gennep (vedi oltre), da una condizione sociale ad un'altra. Lo "scandalo" rappresentato dalla perdita di un membro del corpo sociale non può che tradursi in una sua reincorporazione in quella che è la continuità stessa della comunità dei vivi, ossia la comunità dei defunti. Questa affermazione di continuità, che corrisponde alla credenza in una vita ultraterrena. è caratteristica di tutte le società e di tutte le religioni: «Poiché ha fede in se stessa, una società sana non può ammettere che un individuo che ha fatto parte della sua sostanza, sul quale ha impresso il suo marchio, sia perduto per sempre: l'ultima parola deve restare alla vita: in forme diverse, il defunto uscirà dal mondo angoscioso della morte per rientrare nella pace della comunione umana» (ivi: 87). Destra e sinistra: sacro e profano Due anni dopo aver pubblicato il saggio sulla rappresentazione collettiva della morte Hertz diede alle stampe. nel 1909, La preminenza della mano destra. Studio sulla polarità religiosa (La preéminence de la main droite. Etude sur la polarité religieuse). Hertz sostenne che l'asimmetria organica per cui la destra risulta prevalere sulla sinistra in conseguenza del fatto che l'emisfero cerebrale sinistro è sede di funzioni più sviluppate, non poteva spiegare la preminenza che, sul piano simbolico, rivestono le rappresentazioni collettive legate alla destra. La stessa preminenza della destra sul piano della motilità era interpretabile, per Hertz. come un "effetto di ritorno" della grande enfasi che gli esseri umani hanno attribuito, sul piano simbolico, a questa parte del loro corpo e, di conseguenza, dello spazio. Per Hertz la preminenza della mano destra era una vera e propria istituzione sociale di cui bisognava analizzare la portata in termini di rappresentazioni collettive. Hertz riprese la distinzione, già operata da Durkheim sulla scia di Robertson Smith, tra sacro e profano. Queste due dimensioni, che pervadono la vita spirituale di tutti i popoli, soprattutto di quelli in possesso di istituzioni sociali e relig iose "semplici", spingono gli esseri umani a strutturare l'intero universo secondo un principio bipolare: le cose. i fenomeni naturali, gli esseri vegetali, animali e umani sono concettualmente distribuiti tra questi due opposti, la destra e la sini-
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L'etno-sociologia francese stra che, sul piano della suddivisione dello spazio riproduce quella, più generale. di sacro e di profano. Questa "distribuzione" bipolare dell'universo tra destra e sinistra era sottolineata dalle lingue indoeuropee, nelle quali il termine destra deriva dalla stessa radice sanscrita deks, mentre il termine sinistra non aveva una derivazione unitaria, ma variava da lingua a lingua. Tale molteplicità dei termini designanti la sinistra, sosteneva Hertz, era forse il riflesso del fatto che, diversamente dalla destra, associata con il positivo, la sinistra rappresenta l'opposto riflesso in quei «sentimenti di inquietudine e di avversione che la comunità prova nei confronti del lato sinistro». In tal modo «l'opposizione esistente tra la destra e la sinistra si manifestava perfino nella natura e nel diverso destino dei loro nomi. Ritroviamo infatti lo stesso contrasto quando consideriamo il significato delle parole "destra" e "sinistra". La prima serve a esprimere i concetti di forza fisica e di "destrezza", di rettitudine intellettuale e di buon senso, di dirittura e integrità morale, di felicità e bellezza, di norma giuridica; mentre la parola "sinistra" evoca la maggior parte dei concetti contrari» (Hertz 1978: 138-139). L'importanza di questo lavoro di Hertz risiede nel fatto che esso, precorrendo certi sviluppi successivi della teoria antropologica, aveva individuato un principio di opposizione fondamentale nelle forme di classificazione tipiche del pensiero umano il quale si traduceva in una catena di opposizioni (maschile/femminile; chiaro/scuro ecc.) rinvianti tutte all'opposizione sacro/profano.
I riti di passaggio: A rn old Van Gennep
Arnold Van Gennep (1950 ca.)
Negli stessi anni in cui Durkheim e la sua scuola dominavano il panorama degli studi etnologici, si sviluppò il lavoro di Arnold Van Gennep (1873-1957). Egli si mosse ai confini tra l'etnologia e il folklore, di cui può essere considerato, in Francia, uno dei padri fondatori con il suo Manuel du folklore francais contemporain pubblicato tra il 1937 e il 1958. La sua opera subì tuttavia una specie di ostracismo da parte della tradizione durkheimiana allora dominante, per cui il suo lavoro rimase a lungo nell'ombra e solo dopo la seconda guerra mondiale fu riconosciuto in tutta la sua importanza. L'opera più celebre di Van Gennep, 1 riti di passaggio (Les rites de passage) del 1909, venne accolta in maniera non certo cordiale sulle pagine de L'Année sociologique, la rivista della scuola di Durkheim. Ragioni di "scuola" e ragioni di "formazione" (Van Gennep era più un orientalista e un linguista che un sociologo, e in ogni caso non ricoprì mai un posto universitario in Francia) contribuirono a questo stato di cose. Ma vi furono anche ragioni "teoriche" che posero Van Gennep ai margini della corrente etnologica francese. Vi fu, tra gli allievi di Durkheim (Mauss), chi gli rimproverò di aver praticato un tipo di comparazione alla maniera degli evoluzionisti britannici, quando invece i durkheimiani preferivano scegliere dei "fatti elementari" per poi costruire, sulla base di essi, una teoria generale dei fenomeni "sociali" (vedi per esempio il caso di Hertz). 11 significato sociologico dei riti di passaggio In effetti I riti di passaggio si presentano come una grande "cavalcata" attraverso il continente dell'etnografia extraeuropea ed europea al fine di sostenere un'idea che apparve »come una specie di illuminazione interna la quale mise istantaneamente fine alle tenebre in cui – scrive Van Gennep – mi dibattevo da circa dieci anni» (Belmont 1974: 69).
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Questa idea "illuminante" consisteva nell'aver intuito che la vita degli individui era scandita, presso tutti i gruppi umani, da una serie di riti che sanzionano pubblicamente il passaggio da una condizione sociale ad un'altra. I "riti di passaggio", come appunto Van Gennep definì questa categoria di cerimonie, erano condotti al fine di rendere più agevoli i cambiamenti di condizione senza traumi per la società e per gli individui interessati. Questi riti investivano, man mano che si retrocedeva nella "scala della civiltà". aspetti sempre più numerosi della vita individuale e collettiva che, agli occhi di noi civilizzati, appaiono come profani e, come tali, non richiedono alcuna ritualizzazione. Van Gennep postulava infatti, sulla scorta di autori come Robertson Smith e Durkheim, l'idea secondo cui nelle società prescientifiche il mondo appare dicotomizzato nelle due categorie opposte di profano e sacro, dove il secondo termine prevale senz'altro sul primo. Ogni evento, dalla gravidanza alla morte, dal raggiungimento della pubertà al parto, dal fidanzamento al matrimonio, dalla sortita dalla propria casa all'ingresso in una città o in un accampamento straniero, tutto doveva essere accompagnato da riti "di passaggio" atti a scandire la transizione da uno stato all'altro degli individui coinvolti. La struttura tripartita dei riti Van Gennep distinse, all'interno di ciascun rito di passaggio, tre fasi, ciascuna ca- ratterizzata da un rituale specifico: separazione (riti preliminari), margine (riti liminori) e aggregazione (riti postliminari), conferendo grande importanza a quella centrale. L'importanza della fase di margine derivava dal fatto che essa consentiva di ridurre l'aspetto traumatico del passaggio dalla fase iniziale di distacco da una determina condizione alla fase della incorporazione in un'altra categoria sociale sotto forma di acquisizione di un nuovo status sociale. La fase di margine era anche la più delicata poiché la condizione non definitiva di chi si sottoponeva al rito era considerata come portatrice di forze giudicate "pericolose" perla comunità. Van Gennep riconosceva a Hertz il merito di aver individuato tale fase di margine in ciò che quest'utimo aveva chiamato "stadio transitorio", cioè il periodo di tempo intercorrente tra le due esequie, ma sottolineava anche la sua tendenza, tipica d'altronde di tutti gli altri etnologi. di voler trovare più delle somiglianze di contenuto che non delle similitudini di forma tra i vari riti. Il comparativismo di Van Gennep non aveva infatti il significato che invece vollero attribuire ad esso i suoi critici. Questi ultimi videro nella quantità dei dati citati da Van Gennep un cedimento alla tradizione evoluzionista e una volontà di ritrovare ovunque dei riti che si somigliavano. Van Gennep voleva invece, al di là di qualunque somiglianza, confermare l'esistenza di ciò che costituiva per lui l'essenza di ogni sequenza cerimoniale, e cioè la sua tripartizione. Con questo Van Gennep puntò decisamente su una accentuazione dell'aspetto simbolico del rituale, precisando (in un articolo pubblicato nel 1910), che erano le connessioni logiche tra le fasi del rito a dover interessare gli etnologi, mentre i contenuti, sebbene potessero essere tra loro simili in un caso e nell'altro, in realtà potevano essere considerati come dotati di senso solo contestualmente (Belmont 1974: 78-79). I riti come classificazione del sociale? L'accentuazione dell'aspetto simbolico e formale dei riti emerse anche in un'altra opera di Van Gennep. Sebbene superata. tale opera. Lo stato attuale del problema totemico (L'état actuel du problème totémique) del 1920. contiene nondi-
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L'etno-sociologia francese meno alcune idee di grande interesse. Discutendo un saggio scritto da Durkheim e Mauss all'inizio del secolo sulle forme di classificazione primitiva (v. oltre), Van Gennep faceva osservare come non si possa attribuire alla società il potere di produrre l'ordinamento delle cose, degli uomini e del mondo ultrasensibile, e come di conseguenza il totemismo non potesse essere, in quanto forma primitiva di religione, la prima forma di classificazione. Al contrario, il principio classificatorio era un'istanza che precedeva qualunque altra attitudine dell'intelletto umano «poiché anche i popoli che non conoscono il totemismo possiedono un proprio sistema di classificazione» (Van Gennep 1920: 345). Alla luce della considerazione dell'attitudine classificatoria come «uno degli elementi primordiali del sistema di organizzazione sociale generale» (ibidem), i riti di passaggio sembravano svelare un'altra funzione, oltre a quella portata alla luce da I riti di passaggio. Tali riti scandiscono la transizione da uno status sociale ad un altro, ma sono anche 1' "artificio sociale" attraverso il quale gli esseri umani rendono comprensibile a se stessi la transitabilità da una all'altra delle diverse condizioni in cui è ripartito, cioè classificato, l'universo sociale.
Lo studio dei fatti sociali «totali»: Marcel Mauss Marcel Mauss (1872-1950) fu l'ultimo degli allievi di
Marcel Mauss (1935 ca.)
Durkheim e l'ultimo degli etno-sociologi francesi a non aver mai compiuto ricerche sul terreno. Mauss fu tuttavia un tenace assertore e promotore della ricerca etnografica e a lui si deve se, a partire dal 1920, la riflessione sociologica francese sulle società "primitive" si orientò definitivamente verso la ricerca empirica costituendosi definitivamente in "etnologia". Mauss fu, con Lévy-Bruhl e altri, promotore della fondazione, nel 1925, dell'Institut d'ethnologie dell'Università di Parigi nel quale si sarebbero formati i futuri etnologi francesi del periodo tra le due guerre. Filosofo di formazione semitista, profondo conoscitore della storia delle religioni, Mauss insegnò all'Ecole pratique des hautes études e poi anche all'Institut d'ethnologie, imprimendo al suo insegnamento un carattere strettamente etnologico. La vasta produzione di Mauss ha toccato i punti più disparati della riflessione etnologica e sociologica, al punto da costituire un vero e proprio repertorio di possibili approfondimenti in direzioni molto diverse tra loro. L'opera di Mauss spazia infatti dallo studio della magia e della religione a quello dell'idea di persona; dai lavori sulle forme di classificazione della realtà sociale e naturale, a quelli sulla moneta: dalle ricerche sulle tecniche del corpo a quelle sulla morfologia sociale, sul sacrificio e sul dono.
Le forme di classificazione e l'omologia strutturale Uno dei primi lavori originali e importanti di Mauss fu quello dedicato allo studio delle «forme primitive di classificazione» (Su qualche forma primitiva di classificazione). Scritto in collaborazione con Durkheim, e pubblicato su L'Année sociologique tra il 1901 e il 1902, questo saggio si proponeva di mostrare come la classificazione dell'universo naturale dovesse essere considerata non come l'effetto di un'attitudine "spontanea" della mente umana (questa tesi fu, come abbiamo visto, criticata da Van Gennep). Gli esseri umani non raggruppano istintivamente in categorie oggetti ed esseri animati i quali fanno parte del repertorio della loro esperienza (per esempio secondo il principio della conti-
L'etno-sociologia francese guità o della somiglianza); essi li raggruppano invece avendo in mente la ripartizione degli stessi esseri umani in gruppi sociali. Per sviluppare questa idea di una omologia tra l'ordine della società e l'ordine attribuito dagli esseri umani al mondo, i due autori considerarono la società degli aborigeni australiani (ritenuti allora le popolazioni più primitive della terra), come punto di partenza della loro analisi. Le società australiane si presentavano come divise in "classi matrimoniali" cioè gruppi esogamici non fondati sulla discendenza, ma su altri criteri di appartenenza (v. Cap. 15). Durkheim e Mauss considerarono la divisione in classi matrimoniali caratteristica delle popolazioni australiane come il sistema più semplice di organizzazione sociale esistente e cercarono di stabilire come la classificazione delle persone, degli animali e delle cose avvenisse secondo criteri omologhi corrispondenti alla divisione della società in classi matrimoniali. Ad ogni classe, fornita di un nome di animale (totem), era associata una serie di fenomeni naturali, di animali e di oggetti. Il mondo era in tal modo ordinato, "classificato", dagli aborigeni australiani, in categorie direttamente legate alle suddivisioni della loro società. Quest'ultima appariva pertanto come ciò che proiettava il proprio ordine sul sistema delle rappresentazioni. Scrivono così Durkheim e Mauss: «Tutti i membri della tribù si trovano classificati in quadri definiti...: orbene, la classificazione delle cose. riproduce la classificazione degli uomini» (Durkheim e Mauss, 1972: 25-26); e più avanti precisano: «Ciò che caratterizza queste classificazioni è il fatto che in esse le idee sono organizzate su di un modello fornito dalle società» (ivi: 40). Per Durkheim e Mauss, ad una variazione nella società corrispondeva una variazione nell'ordine del sistema di classificazione. A società strutturate secondo un principio organizzativo semplice (classi matrimoniali australiane) corrispondeva un sistema di classificazione altrettanto semplice, mentre ad un sociale strutturato sulla base di un modello più complesso corrispondeva un sistema di classificazione altrettanto complesso. Erano infatti le modificazioni del sociale che, costituendo per l'uomo l'esperienza più immediata dal punto di vista emotivo (in virtù della coscienza collettiva), lo spingevano a modificare l'ordine concettuale delle cose: «È facile vedere – scrivono Durkheim e Mauss – quali cambiamenti vengono a inserirsi, a causa della segmentazione, nelle classificazioni. Fintanto che i clan nati da un medesimo clan conservano il ricordo della loro comune origine, essi si sentono parenti, associati, sentono di essere parti di un tutto unico; di conseguenza i loro totem e le cose classificate sotto quei totem, permangono subordinati, in qualche misura, al totem comune del clan complessivo. Ma col tempo questo sentimento si attenua... Naturalmente ne consegue che la classificazione si modifica. Le specie di cose attribuite a ciascuna divisione costituiscono altrettanti generi separati, posti su un piano identico» (ivi: 41). L'elemento rilevante di questo lavoro sui sistemi di classificazione è rappresentato dall'idea di una ontologia strutturale del sociale e del simbolico. Da questa presentazione derivava infatti l'immagine di una pluralità di livelli simbolici di natura eterogenea ma strutturati secondo un sistema di relazioni identico sul piano formale. Il fatto sociale «totale» L'ipotesi dell'-omologia strutturale" era proprio ciò che avrebbe consentito a Mauss di spingersi verso la ricerca di quegli elementi del sociale (che egli chiama, sull'esempio di Durkheim, fatti sociali) suscettibili di coinvolgere, nel loro accadere, la pluralità complessiva dei livelli sociali: i fatti sociali totali.
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L'etno-sociologia francese Un esempio di approccio allo studio dei fatti sociali totali venne fornito da Mauss nel Saggio sulle variazioni stagionali delle società eschimesi scritto con la collaborazione di Henry Beuchat e pubblicato nel 1904. La diversa disposizione «morfologica» (cioè il modo diverso in cui i gruppi si riunivano o si disperdevano) che la società di questi cacciatori artici tendeva ad assumere nelle diverse stagioni dell'anno (dispersione dei nuclei familiari durante l'estate e loro concentrazione durante l'inverno), venne analizzata dal punto di vista nel significato totale che essa riveste sul piano sociologico. La tendenza che questi gruppi avevano a separarsi durante l'estate e a riunirsi durante l'inverno (in conseguenza alle esigenze imposte dalle attività di caccia), andava considerata in relazione al variare dell'intensità della vita sociale: riti, feste, relazioni sociali, che raggiungevano la loro massima frequenza durante l'inverno, cessavano durante l'estate, quando i gruppi erano dispersi sulle tracce degli animali. In tal modo la vita sociale degli Eschimesi presentava una natura bipolare e ciclica che si realizzava nell'alternanza di fasi di vita sociale caratterizzate da "collettivismo" o "individualismo" a seconda che le relazioni sociali effettive vivessero o meno il loro momento di massima intensità. Questa bipolarità permeava i vari livelli del sociale, nel senso che essa si rifletteva a livello simbolico. Rappresentazioni di persone e di cose, di animali e di fenomeni naturali, venivano infatti associate all'uno o all'altro termine di questa scissione attorno alla quale si costituiva l'esperienza della vita materiale, sociale e spirituale dei gruppi. Qualsiasi cosa viene così ad essere definita e situata nel quadro complesso dell'esperienza in base al riferimento che essa aveva con uno dei due termini di questa opposizione. Mauss vedeva così, nella morfologia dei gruppi sociali, non qualche cosa che doveva essere spiegato, ma qualche cosa che, al contrario, permetteva di spiegare i diversi aspetti della vita sociale. Nel momento in cui privilegiava lo studio delle rappresentazioni che i membri di un gruppo avevano della loro vita sociale e del mondo circostante, Mauss tendeva a spostare l'analisi sullo studio di un aspetto decisivo (totale) del sociale. Mauss riteneva che da quell'aspetto particolare si potesse, proprio perché si trattava di un fatto sociale "totale", gettare lo sguardo su una molteplicità di altri elementi della vita sociale. In questo senso il saggio del 1904 sugli Eschimesi costituiva, per Mauss, il primo esempio di studio di un fatto sociale totale. La teoria del dono Mauss tornò a interessarsi solo parecchi anni dopo di fatti sociali "totali". Egli rivolse la propria attenzione sui fenomeni che i lavori etnografici di Boas (v. Cap. 4) prima e di Malinowski poi (v. Cap. 10) avevano nel frattempo proposto all'attenzione degli antropologi. Mauss pubblicò infatti, tra il 1923 e il '24, e sempre su L'Année sociologique, un lavoro destinato a diventare la sua opera più conosciuta, il Saggio sul dono (Essai sur le don). Questo lavoro, che ha per sottotitolo «forma e motivo dello scambio nelle società arcaiche», era costruito in gran parte sui lavori etnografici di Boas sul potlatch e di Malinowski sullo scambio cerimoniale /cala caratteristico di alcune isole della Melanesia. Tali lavori sembravano dimostrare l'esistenza, anche presso le società primitive, di fenomeni complessi e articolati di scambio e di circolazione dei beni materiali che fino a quel momento erano stati ignorati nel mondo occidentale. Le descrizioni di Boas, di Malinowski e di altri etnografi, spinsero Mauss a interpretare questi fenomeni come tipici esempi di fatto sociale totale. Tali fenomeni erano infatti strettamente legati ad altri aspetti della vita sociale. Essi, inoltre,
L'etno-sociologia francese sembravano situarsi al centro di relazioni tra individui e tra gruppi implicanti varie forme di scambio imperniate sul principio della reciprocità. Si trattava così, per Mauss, di leggere questi fenomeni come fatti sociali totali, che egli raggruppa sotto la categoria del dono, e di rendere ragione del «carattere volontario, per così dire, apparentemente libero e gratuito, e tuttavia obbligato e interessato, di queste prestazioni» (Mauss, 1965: 157). Mauss cercava di spiegare questi fenomeni sulla base del principio in base al quale la società, come aveva sostenuto Durkheim, impone agli individui di comportarsi in base a delle regole che spesso sfuggono ai suoi stessi membri.
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La teoria indigena Tre erano le regole che, secondo Mauss, stavano alla base del fenomeno del dono, e cioè dare, ricevere e ricambiare: era attraverso questo complesso di regole che si strutturava il principio della reciprocità. Mauss riconduceva tale principio, e il suo carattere obbligatorio, ad una "qualità" intrinseca agli oggetti scambiati, una qualità che li assimilava alla persona che li aveva posseduti e che permaneva in essi anche dopo che erano passati nelle mani di un'altra. Era la credenza nell'esistenza di questa "qualità" e nell'azione da essa esercitata a mettere in moto il sistema delle prestazioni reciproche, in quanto la mancata restituzione degli oggetti donati avrebbe prodotto l'interruzione dello scambio, che si sarebbe tradotta a sua volta in un danno per il trasgressore della regola. La "qualità" presente nella cosa era infatti suscettibile di "vendicarsi" sul trasgressore in quanto "forza" appartenente al possessore originario della cosa donata, la forza "magica" di colui che l'aveva ceduta. In questa sua interpretazione Mauss fu profondamente influenzato dalla lettura dell'etnografia polinesiana e della teoria dello han presente tra i Maori (Nuova Zelanda). Secondo i Maori infatti, lo hau sarebbe "lo spirito della cosa donata" ciò che pone colui che riceve il dono in una posizione di "debito" nei confronti del donatore e lo obbliga quindi a ricambiare per restaurare una specie di "equilibrio delle forze" alterato dall'atto del donare. Il principio della reciprocità valeva tanto per gli individui quanto per i gruppi coinvolti nelle operazioni di scambio, anche se la natura del dono come fatto sociale totale appariva nella sua giusta luce in occasione di fenomeni complessi come quelli descritti da Boas e da Malinowski. Qui gli individui recitavano, sostiene Mauss, la semplice parte di attori, mentre le unità sociali che entravano in gioco erano gruppi più vasti come le famiglie, i clan, le tribù ecc. Queste pratiche vennero infatti assimilate da Mauss al fenomeno del dono del quale rappresentano delle variazioni nella direzione di «un commercio di ordine nobile» per stabilire pacifiche relazioni (il kola) o di un «costante torneo» allo scopo di acquistare prestigio (potlatch) (Mauss 1965:187;217). Secondo Lévi-Strauss (v. Cap. 18), che svilupperà in maniera originale alcune intuizioni di Mauss relative al carattere obbligatorio del "dare, ricevere e ricambiare". ossia al principio di reciprocità, l'aver assunto una teoria indigena come spiegazione del fenomeno rappresentava un «grande progresso», poiché affrontava un problema etnografico «prendendo le mosse da una teoria neozelandese o melanesiana piuttosto che servendosi di nozioni occidentali come l'animismo, il mito o la partecipazione» (Lévi-Strauss 1965: XLIII). Tuttavia, proseguiva Lévi-Strauss, l'aver assunto una teoria indigena quale quella dello hau come spiegazione del fenomeno costituiva anche un limite. «Lo han – scrisse infatti Levi
Maori
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Strauss – non costituisce la ragione ultima dello scambio: esso è la forma cosciente sotto la quale uomini di una società determinata... hanno colto una necessità... la cui ragione è altrove», dove con questo "altrove" Lévi-Strauss allude a quei principi inconsci che, a suo parere, sarebbero alla base del principio di reciprocità (cfr. Cap. 18). Indipendentemente da tali apprezzamenti e da tali critiche, il Saggio sul dono aprì comunque la via verso una migliore comprensione del ruolo sostenuto e del posto occupato dalla dimensione economica all'interno della struttura complessiva di quelle che al tempo erano chiamate «società primitive».
Capitolo
8 Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni
La fine del XIX secolo vide un progressivo e inarrestabile declino delle teorie evoluzioniste. Lo sviluppo della prospettiva storica nello studio delle singole culture venne a rimpiazzare la ricerca dell'uniformità delle leggi dello sviluppo culturale. In Germania e in Austria, dove l'influenza della geografia e della storiografia erano preponderanti, e negli Stati Uniti dove tale influenza, associata alla prospettiva della filosofia storicista tedesca erano state importate da Boas, venne costituendosi una nuova prospettiva di ricerca, il cosiddetto "diffusionismo". Pur diversi nella metodologia ed ancor più negli esiti rispettivi, queste due visioni della ricerca etno-antropologica (quella germanica e quella statunitense) posero virtualmente fine alla grande stagione dell'evoluzionismo che in America, e più ancora in Gran Bretagna, aveva avuto gli esponenti di maggiore spicco. D'altronde gli stessi evoluzionisti, e tra loro lo stessoTylor (1896), avevano cominciato a prendere espressamente in considerazione la diffusione come un aspetto inerente allo sviluppo della cultura. Tuttavia il diffusionismo che si affermò in Gran Bretagna in contrapposizione all'evoluzionismo assunse la veste di una visione speculativa e "monocentrica" del processo di diffusione culturale, con esiti a volte del tutto privi di agganci plausibili con la realtà etnografica.
Bibliogra fi a critica
Belmont N., Arnold Van Gennep. Le créateur de l'ethnographie franc wise, Payot, Paris 1974. Cazeneuve J., La sociologia di Mauss, Il Saggiatore, Milano 1971 (ed. or. 1968). Chiozzi P., La socioetnologia francese, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974. Evans-Pritchard E.E., «Introduction» a Death and the Righ Hand, Cohen and West, Oxford 1960. Karsenti B., Marcel Mauss. Le fait social total, PUF, Paris 1994. Parkin R., The Dark Side of Humanity: The Work of Robert Hertz and Its Legacy, Gordon and Breach, New York 1996.
Kulturkreislehre: la teoria dei cicli culturali La "teoria dei cicli (o dei cerchi) culturali" (Kulturkreislehre), nacque nell'area di lingua tedesca negli ultimi anni dell'Ottocento sulla spinta della "storia culturale" (Kulturgeschichte). In questo periodo si ebbe infatti in Germania, e poi un po' più tardi in Austria, l'insorgenza di una prospettiva di ricerca che, abbandonando gli assiomi dell'evoluzionismo, cercò di aprire l'antropologia e l'etnologia ad una nuova considerazione della dimensione storica. Scarsissima fu, sull'indirizzo di ricerca tedesco, l'influenza di autori di ispirazione evoluzionista come Bastian e Bachofen (v. Cap. 2). La storia non era intesa più come svolgimento di leggi di sviluppo socio-culturale pensate sul modello naturalistico, ma come pro, cesso di crescita inerente alle singole culture. A questa concezione della storia culturale si aggiunse però la dimensione geografico-etnologica, in base alla quale era possibile rilevare come aspetti della vita materiale, istituzionale e simbolica dei popoli della Terra mostrassero similitudini e analogie. Infatti l'influsso
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Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni maggiore venne esercitato dai lavori dei geografi, tra cui Friedrich Ratzel (18441904). Diffusione e contatto Contrariamente agli evoluzionisti, che trattavano similitudini ed analogie socioculturali come prodotti di cause simili (un assunto basato a sua volta sull'idea dell'unità psichica del genere umano), gli etnologi tedeschi ed austriaci introdussero gli elementi della diffusione e del contatto, della selezione e dell'incorporazione dei tratti culturali. Questo lavoro fu iniziato a partire da reperti etnografici di tipo materiale che, come era stato d'altronde per gli evoluzionisti, si prestavano meglio di altri ad essere comparati in una prospettiva trans-culturale. Non è quindi un caso che il diffusionismo di lingua tedesca abbia preso le mosse dallo studio dell'ingente materiale etnografico conservato nei musei della Germania e dell'Impero austro-ungarico, e che i maggiori esponenti di questo indirizzo siano stati, prima che etnologi e antropologi, dei museografi. Concentrando la loro attenzione su armi, utensili e soprattutto oggetti ritenuti esempi di "arte primitiva", questi studiosi elaborarono la teoria della diffusione degli "strati" e dei "circoli culturali". La teoria degli «strati culturali»: Leo Frobenius
Il geografo Friedrick Ratzel aveva elaborato un criterio per l'accertamento della diffusione degli elementi culturali. Tale criterio era detto della forata o della qualità (Oualitàtskriterium). Grazie ad esso si doveva essere in grado di stabilire l'origine comune di due elementi individuati all'interno di due contesti culturali differenti. Questo criterio prevedeva che due elementi, o tratti, avessero un'origine comune se la loro somiglianza non fosse dovuta soltanto alla loro analogia funzionale (per esempio due zappe, due lance ecc.) o al materiale con cui erano costruiti (ad esempio due imbarcazioni di legno). La semplice analogia, o somiglianza di forma dovuta alla funzione o alla qualità, non avrebbe potuto costituire l'indizio di una comunanza di origine perché il conferimento di una certa forma ad un oggetto è iscritto nella sua stessa funzione (per esempio una ruota, un cucchiaio ecc.). Era quindi necessario integrare questo criterio con un altro, quello della quantità (Ouantitdskriteritun). Tale secondo criterio venne elaborato dall'africanista Leo Frobenius (18731938) e poneva in rilievo la presenza, in due o più reperti provenienti da aree distanti tra loro, di ornamenti e accessori inerenti ad oggetti simili in base al criterio della qualità. Gli accessori e gli ornamenti, non essendo funzionali, dovevano costituire la prova supplementare che due reperti, simili per forma, avevano una origine comune o che, come appunto nel caso della diffusione_ erano l'uno la trasposizione dell'altro in un diverso contesto culturale. Estendendo l'applicazione di tali criteri ad una molteplicità di reperti era possibile, a detta dei diffusionisti, accertare la presenza, in due diverse zone geografiche, di "serie di elementi culturali" tra loro simili che, a loro volta, avrebbero potuto provare che si era di fronte ad un «cerchio culturale». I tratti culturali tendevano infatti, secondo la concezione diffusionista, a migrare non isolatamente, bensì in forma di complessi organici e definiti. Frobenius era un museologo africanista che, nel corso di varie missioni, procurò un'ingente quantità di reperti – molti dei quali in possesso di un grande valore "artistico" – ai musei tedeschi. Tra il 1897 e il 1898 Frobenius pubblicò vari lavori sulle culture e le arti africane, tra cui L'origine delle culture africane (Der Ursprung der africkanische Kul-
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turen), un'opera di sintesi nella quale elaborò, in relazione al continente africano, la teoria degli .strati culturali. Con questa espressione Frobenius indicò dei processi di diffusione di tratti culturali in forma di "ondate" successive. Ad una "ondata", composta di vari tratti, ne seguiva un'altra e poi un'altra ancora, fino a costituire una sovrapposizione progressiva di "complessi" che si presentavano, appunto, in forma di "strati". Il programma del diffusionismo di lingua tedesca divenne così quello di individuare una stratificazione temporale delle "ondate" migratorie, spesso collegate, oltre che a fenomeni di contatto tra società differenti, anche a veri e propri spostamenti di popolazioni. In questo modo gli etnologi e gli antropologi diffusionisti cercarono di risalire all'origine dei patrimoni culturali delle società umane discostandosi definitivamente dall'evoluzionismo il cui progetto era invece consistito nella ricostruzione di linee evolutive della cultura e delle istituzioni sociali. La nozione di Kulturkreis: Fritz Graebner
(1877-1934) contribuì più di altri alla elaborazione della teoria dei "cicli culturali". Museografo allievo di Frobenius, Graebner divenne uno specialista dell'Oceania, dove lavorò anche come etnologo. In un lavoro del 1905, Cicli culturali e strati culturali in Oceania (Kulturkreise und Kulturschichten in Ozeanien), Graebner sviluppò la teoria degli strati di Frobenius e parlò di cicli culturali come "complessi" di tratti compresenti in una determinata area. Il progetto di Graebner era quello di arrivare a distinguere, all'interno di un'area determinata, la provenienza storico-geografica dei tratti esistenti e di ricondurre questi ultimi ai rispettivi "cicli". Il diffusionismo di Graebner e dei suoi colleghi sfociò in una impresa di classificazione dei tratti e del loro ordinamento in tassonomie. Il principale limite della teoria di Graebner era che, sebbene questi parlasse del Kulturkreis come di un "complesso", i legami tra gli elementi di quest'ultimo non erano pensati come "funzionalmente connessi" tra loro. La loro appartenenza ad uno stesso "ciclo" (o "complesso") era fondata sulla sola compresenza. Il risultato era che i "cicli" venivano individuati a partire dalla coesistenza di tratti eterogenei. tra i quali non veniva individuata alcuna interrelazione che non fosse appunto quella di essere presenti gli uni accanto agli altri. Ne è un esempio il modo in cui Graebner definì i tratti caratteristici di quello che egli chiamò il "complesso totemico" (il secondo di sei caratterizzanti successivamente la storia dell'Oceania). Erano denotativi di questo complesso, o circolo totemico, la cintura di scorza rigida, l'astuccio penico, la capanna a tetto conico, la canoa scavata nel tronco di un albero, i poggiatesta, le lance munite di punte in pietra o di legno, il propulsore, l'orda patrilineare, i catafalchi funerari, la circoncisione in occasione dei riti di iniziazione e la mitologia astrale. Era insomma la ricorrenza dei tratti a costituire la prova del fatto che si era in presenza di un "circolo" o "complesso", per cui il compito dell'etnologo diventava quello di accertare quale di questi tratti fosse "tipico" di un circolo determinato e quale fosse invece esterno ad esso, nell'intento di ricostruirne le precedenze e la successione e accertare così il movimento e la diffusione dei tratti sulla Terra. Graebner riteneva che il compito dell'etnologo non fosse semplicemente Fritz Gràebner
Leo Frobenius (1930)
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Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni quello di stabilire le relazioni tra i singoli tratti e determinare così la loro origine. Graebner riteneva che lo scopo degli studi storici, in etnologia, fosse quello di accertare la migrazione e la diffusione dei "circoli", e quindi l'influenza di una cultura su un'altra. Egli non pensava infatti le culture umane come monolitiche, ma come frutto di influenze reciproche, e che tali influenze potevano essere analizzate grazie allo studio dei tratti raccolti in circoli e complessi culturali differenti stratificatisi nel corso del tempo. Il principale limite di questa prospettiva era il fatto di pensare un "circolo", o "complesso", culturale come frutto della sola compresenza di tratti tra loro eterogenei. Una simile concezione dei "circoli culturali" fu difatti criticata da quegli studiosi che, in quegli stessi anni e pur prevedendo lo studio della diffusione dei tratti culturali, cominciavano a concepire lo studio delle culture come studio delle interrelazioni tra gli elementi che le compongono (v. Capp. 10 e 14). Ma la concezione di Graebner e dei suoi colleghi fu anche criticata da quanti, pur adottando una prospettiva storico-culturale mirante ad accertare la diffusione dei tratti culturali, concentrarono le loro analisi su aree geograficamente contigue e di ampiezza limitata (v. oltre). Anche se alcuni importanti risultati furono effettivamente ottenuti, come ad esempio nell'accertamento delle influenze della cultura del Sudest asiatico su quella del Madagascar, il diffusionismo di matrice germanica eluse l'elemento della continuità geografica tra popolazioni, e favorì una ricostruzione – spesso rivelatasi di dubbio valore quando non addirittura fantasiosa – dei «cicli culturali» su scala planetaria. Tali cicli (o «cerchi» culturali) erano infatti pensati come complessi di tratti rintracciabili in diversi punti del globo, la cui presenza in luoghi lontani tra loro era spiegabile, per i sostenitori di queste teorie, come conseguenza di migrazioni di tali insiemi di elementi avvenute in un remoto passato con lo spostamento dei popoli.
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L'origine dell'idea di Dio: Wilhelm Schmidt Le teorie dei diffusionisti di lingua tedesca furono propalate soprattutto dal missionario cattolico austriaco Wilhelm Schmidt (1868-1954). Negli anni del suo insegnamento a Vienna e poi in varie università europee, tra cui quella Pontificia di Roma e quella di Friburgo in Svizzera (dove aveva riparato in seguito all'invasione nazista dell'Austria), Schmidt contribuì a far conoscere le teorie dei diffusionisti tedeschi relative agli strati e ai circoli culturali fondando una vera e propria "scuola" che ha avuto i suoi epigoni sino al 1950. Da tale "scuola", conosciuta anche come "scuola di Vienna", uscirono etnografi di grande valore come Paul Schebesta, Wilhelm Koppers e Martin Gusinde, specialisti dell'Africa, dell'Asia e delle Americhe. Schmidt venne elaborando una propria visione della storia culturale umana. Secondo Schmidt lo sviluppo culturale avrebbe preso le mosse a partire da due forme culturali primitive di base, una caratterizzata dal culto della madre-terra e l'altra del padre-cielo. Schmidt si dedicò, sulla base di queste premesse, ad una ricerca mirante alla ricostruzione dell'origine e dello sviluppo delle idee religiose, ed in particolare dell'idea di Dio. Attraverso una sterminata raccolta di dati etnografici Schmidt cominciò ad esporre le proprie concezioni in materia in uno scritto pubblicato nel 1910 in francese sulla rivista Anthropos da lui stesso fondata. Questo scritto, intitolato L'origine de l'idée de Dieu, doveva costituire l'inizio di un'opera monumentale portante lo stesso titolo, e che Schmidt completò nell'arco di molti anni: Der Ursprung des Gottesidee, il cui ultimo volume uscì postumo nel 1955. Il diffusionismo austro-tedesco accentuava notevolmente il tema «degenerazionista» in quanto, nel complesso, tutti i suoi sostenitori mostrarono la tendenza
Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni a considerare la diffusione del tratto culturale dal centro d'origine come causa della sua «decadenza» rispetto alla sua (supposta) purezza originaria. Venendo a contatto con altri tratti, e con altri «complessi culturali», qualunque elemento, specialmente se di natura spirituale, sarebbe andato soggetto ad una alterazione, spesso concepita come corruzione e decadimento. A questa idea Schmidt aggiunse quella di una degenerazione dell'idea di Dio nell'uomo, degenerazione dovuta alla caduta dal suo stato originario. Schmidt era intenzionato a dimostrare la presenza, anche presso i "popoli naturali", o Naturvòlker (come in tedesco venivano allora definite le popolazioni che in inglese erano chiamate "primitive"), dell'idea di un essere superiore (Dio). I pigmei africani, ad esempio, mostravano di possedere un'idea simile che tuttavia, in seguito al contatto con altri gruppi. e per naturale degenerazione, si sarebbe ridotta ad un'idea vaga di un essere superiore come "signore" della natura. I popoli primitivi confermavano quindi, nelle intenzioni dei diffusionisti come Schmidt, la verità delle Sacre Scritture e in particolare il fatto che al momento della sua comparsa l'umanità possedeva un'idea della divinità unica che però era andata, col tempo, incontro all'oblio fino al giorno della rivelazione divina. Il compito morale dei missionari-etnologi diventava così quello di ricondurre i primitivi, che tale rivelazione non avevano conosciuto, alla consapevolezza piena e definitiva dell'idea di Dio che covava, seppure sbiadita e impoverita, nelle loro menti. Il diffusionismo americano: aree culturali e aree cronologiche Negli stessi anni in cui si affermavano le posizioni di Boas relative allo studio delle culture nella loro individualità, venne costituendosi, negli ambienti antropologici statunitensi, un indirizzo di ricerca che poneva al centro della propria attenzione la distribuzione delle culture indiane, i loro contatti e prestiti reciproci sul piano della cultura materiale, dell'organizzazione sociale e della vita religiosa. Ciò è comprensibile se si pensa alla straordinaria massa di dati etnografici offerta dalle società aborigene del Nordamerica, e all'esigenza di una loro sistemazione e catalogazione secondo criteri omogenei e coerenti fondati sulla somiglianza, il contatto e la diffusione. Area culturale Centrale fu, all'interno di questa prospettiva di ricerca, la nozione di area culturale. Con tale espressione veniva designata l'area geografica entro la quale erano presenti determinati tratti, ossia elementi culturali quali una certa tecnica di cattura della selvaggina, un istituto matrimonale o una credenza. La nozione di area culturale poggiava infatti su una particolare concezione delle culture, considerate come somma complessiva Ilei loro tratti componenti. Una tale conce-
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Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni zione, in cui si può leggere una estremizzazione della concezione tyloriana della cultura, unita al problema di classificare le singole culture indiane, si tradusse nel problema di determinare la distribuzione dei tratti culturali. Questa distribuzione veniva pensata come conseguenza di processi di diffusione dei tratti medesimi. La nozione di area culturale venne imponendosi nei primi anni del Novecento per opera di studiosi impegnati in campo tanto etnografico quanto museografico. L'attività museografica ebbe infatti in America, come in Germania, un ruolo decisivo per gli sviluppi della teoria della distribuzione dei tratti culturali. Su di essa influì il declino della prospettiva evoluzionistica bersagliata negli anni immediatamente precedenti dalle critiche di Boas e di Kroeber (v. Cap. 4). Mentre in precedenza l'esposizione dei reperti museali rispettava l'idea tipica dell'evoluzionismo secondo cui era possibile stabilire un criterio assoluto di complessità crescente indipendentemente dal luogo di provenienza di determinate categorie di oggetti (lance, scudi, punte di freccia, vasellame ecc.) ora l'esigenza era quella di rendere intelligibili al pubblico, e naturalmente agli stessi studiosi, le somiglianze e le differenze tra i reperti provenienti dalle diverse culture comprese entro il territorio degli Stati Uniti. Sul piano teorico il problema di fondo posto da tali studi potrebbe essere formulato in questo modo: come si può spiegare la distribuzione irregolare di tratti culturali tra gruppi che possiedono un nucleo comune di elementi tali da farci considerare questi gruppi come appartenenti alla stessa area culturale, cioè partecipi, seppure con le debite differenze, della stessa cultura? La risposta consisteva, da un lato, nel concepire i tratti culturali come qualcosa che poteva migrare, diffondersi da una cultura ad altre culture; dall'altro lato, veniva problematizzata la natura composita e selettiva al tempo stesso della cultura. Alcuni di tali tratti erano accolti, altri rifiutati, a seconda che essi fossero compatibili oppure no con il nucleo della cultura ricevente. In questo lavoro di definizione delle culture aborigene, della loro estensione rispettiva, e della distribuzione dei tratti culturali si distinse Clark Wissler (1870-1947), per lungo tempo direttore dell'American Museum of Natural History di New York. L'esperienza museografica, unitamente a quella etnografica, spinse Wissler, anch'egli scolaro di Boas, ad intraprendere un lavoro di classificazione delle culture indiane sulla base del criterio delle loro relazioni con l'ambiente. Tra il 1915 e il 1925 Wissler venne elaborando, sulla base di questi studi, una teoria delle aree culturali come ambiti di diffusione di tratti simili a partire da un centro di irradiazione (centro culturale). In tale "centro" dell'area culturale sarebbero presenti tutti i tratti che caratterizzano l'area, i quali sono irregolarmente distribuiti nel resto della stessa diventando sempre più "radi" man mano che ci si allontana dal "centro". Ciò poteva spiegare, secondo Wissler, il fatto che popolazioni appartenenti alla stessa area culturale non erano tutte culturalmente identiche. Area cronologica La nozione di area culturale implicava in tal modo la presenza di un elemento temporale in grado di spiegare un progressivo spostamento dei tratti dal centro verso la periferia. Tramite la nozione di «area cronologica» (age area) Wissler tentò infatti di assegnare una dimensione temporale al processo di diffusione dei tratti culturali a partire dal centro: quelli che si trovavano più lontani dal punto di diffusione iniziale dovevano essere i più antichi, e quindi appartenere al nucleo culturale originario.
Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni Le teorie di Wissler e di altri suoi colleghi che ne condividevano le posizioni vennero criticate da antropologi e da linguisti di diversa ispirazione. Tra questi vi fu l'etnolinguista Edward Sapir (1884-1939), anch'egli allievo di Boas. In uno dei suoi saggi metodologici scritti accanto ai numerosi studi dedicati alla struttura delle lingue indiane e alla loro distribuzione, egli puntualizzò la sua visione problematica della teoria della diffusione. In La prospettiva temporale nella cultura aborigena americana (1916), Sapir fece osservare come i tratti culturali non si diffondano affatto in maniera uniforme in tutte le direzioni, e inoltre che la diffusione non avviene sempre con ritmi identici, per cui è difficile accertare Fantefiorita e la successione di certe acquisizioni di una cultura da parte di un'altra. Importante è la sua critica al diffusionismo della scuola austro-tedesca e alla teoria degli strati i quali, a giudizio di Sapir, non sono definiti nella loro integrazione, ma come mera somma di tratti di natura disparata. Altri studiosi fecero infine rilevare, in relazione alle teorie di Wissler, che la trasmissione dei tratti culturali poteva essere il risultato non solo di una semplice diffusione di essi, ma di una migrazione di gruppi umani. Vi erano poi altre obiezioni, come ad esempio quella per cui posizioni come quelle sostenute da Wissler, postulavano l'esistenza di un centro di irradiazione dei tratti culturali, negando implicitamente che, con il tempo, il centro di un'area potesse, a seguito degli stessi processi di diffusione o di migrazione, mutare in maniera considerevole. L'idea in base alla quale era possibile intraprendere lo studio della distribuzione dei tratti culturali al fine di tracciare mappe areali ebbe vita abbastanza lunga, almeno fin verso gli inizi degli anni 1950. Tale studio, tuttavia, mostrò i propri limiti nella difficoltà stessa di definire i tratti salienti in base ai quali era possibile definire "una cultura". Ad ogni modo l'interludio diffusionista, che in America conobbe il momento di massima intensità tra il primo e il secondo decennio del Novecento, non si propose, contrariamente a quando accadde in quegli stessi anni in Europa, una ricostruzione globale dei processi di diffusione delle culture umane, bensì, più realisticamente, l'obiettivo di rendere conto della definizione e della distribuzione delle aree culturali indiane del continente nordamericano. Il diffusionismo in Gran Bretagna: la teoria «eliocentrica» Prima di aver costituito un indirizzo teorico definito come per esempio l'evoluzionismo o lo strutturalismo antropologico, il diffusionismo ha rappresentato una modalità interpretativa della presenza, in contesti culturali diversi, di tratti o elementi culturali simili tra loro. Appartiene tutto sommato al buon senso etnografico ammettere che gli elementi della cultura materiale possano migrare da un contesto socioculturale ad un altro. Il taglio diffusionista tuttavia, qualora venga ad assumere il carattere di ipotesi "forte", quando cioè l'analisi della realtà socioculturale avvenga esclusivamente o prevalentemente attraverso questa prospettiva, rischia di produrre effetti assai riduttivi. L'interpretazione viene infatti a coincidere, in questo caso, con la descrizione dei fenomeni culturali e con il tentativo di ricostruirne la diffusione attraverso lo spazio e il tempo. Diviene così impossibile oltrepassare la soglia costituita dall'ambigua fusione di empirismo e di ipotesi difficilmente verificabili.
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Edward Sapir (1909 ca.)
[T8.4]
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Grafton Elliott Smith
(1925)
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Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni
Diffusione di culture: Kulturkreis, aree culturali e migrazioni Il díffusionismo affermatosi in Gran Bretagna agli inizi del Novecento si distinse non solo da quello degli antropologi americani e da quello della scuola austro-tedesca, ma ebbe anche al proprio interno, varie diversificazioni. La corrente che ebbe, all'interno di esso, maggior fortuna fu comunque quella "iperdiffusionista". Nella versione di Grafton Elliott Smith (18711937) e del suo seguace William Perry (1887-1949), il diffusionismo si presentò in una forma estremizzata. Le teorie di Smith e di Per ry, chiamate appunto "iperdiffusioniste", postulavano un unico centro diffusore di cultura: l'Egitto. Dall'Egitto la cultura si sarebbe diffusa all'intero globo. Viaggiando, gli Egiziani avrebbero trasmesso la civiltà a tutte le altre popolazioni che però non furono in grado di conservarla nel suo stato originario. Le culture variamente distribuite sulla Terra non erano altro che i resti, ad un diverso grado di degenerazione, di quella originaria. Di qui l'idea secondo la quale i tratti culturali, diffondendosi, sarebbero andati incontro ad un processo degenerativo in proporzione al loro maggiore allontanamento dal luogo d'origine, una teoria ripresa anche da alcuni esponenti della scuola austro-tedesca. Una delle prove addotte da Elliott Smith a sostegno della propria tesi fu l'esame della distribuzione geografica della pratica della mummificazione dei cadaveri, della presenza delle costruzioni piramidali e del culto solare. La presenza di questi tratti (in forma "degenerata") nell'America precolombiana era per Elliott Smith la prova del fatto che questi costumi, simili a quelli dell'Egitto faraovico, vi era stati importati in epoche remote. In Le migrazioni delle culture antiche (The Migrations of Early Cultures) del 1915, egli sosteneva ad esempio la tesi secondo la quale in Australia erano presenti «molte curiose usanze funerarie che possono essere considerate come degradazioni della pratica della mummificazione» (1915: 99). È importante sottolineare l'aspetto "degenerazionista" insito in queste teorie che, in qualche maniera, finivano per riallacciarsi, seppure al di fuori di una visione teologica della storia, a quelle degli avversari dell'evoluzionismo antropologico (v. Cap. 1). Le teorie eliocentriche o eliolitiche di Smith e di Perry (così definite per l'accento messo sulla diffusione del culto del sole e dei grandi monumenti in pietra eretti nel contesto di presunti culti solari rispettivamente) trovarono udienza soprattutto presso un pubblico di dilettanti più che di veri specialisti, anche se la prospettiva diffusionista in quanto tale non mancò di guadagnarsi il consenso di parecchi ricercatori affermati alla ricerca di "paradigmi" alternativi all'evoluzionismo.
Bibliografia critica Dixon R.B., The Building of Cultures, Ch. Scribner's Sons, New York 1928. Fabietti U..
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Capitolo
9 Il tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo in Gran Bretagna
Il periodo compreso tra l'ultimo decennio del XIX secolo e lo scoppio della prima guerra mondiale rappresentò una fase di transizione per l'antropologia, e per l'antropologia britannica in particolare. Si trattò di un periodo in cui convissero prospettive teoriche eterogenee, spesso in contrasto tra loro. Ma, soprattutto, fu un periodo in cui prese sempre più consistenza l'attività di ricerca `sul campo", nella quale si registrarono cambiamenti molto significativi, e che preparò la grande "rivoluzione etnografica" del periodo successivo alla prima guerra mondiale. I vasti possedimenti coloniali della Gran Bretagna avevano consentito a cittadini, soprattutto funzionari dell'amministrazione coloniale di questo paese, di entrare in contatto, nel corso della seconda metà del XIX secolo, con le popolazioni extra-europee in misura maggiore di quanto non avessero potuto fare i rappresentanti delle altre potenze europee. Questa è probabilmente la ragione principale per cui la Gran Bretagna, e le università inglesi in particolare, videro svilupparsi tanto l'antropologia accademica quanto l'attività di ricerca empirica in maniera più rapida che in altri paesi del continente europeo. La crisi delle certezze La pubblicazione de Il ramo d'oro di Frazer, avvenuta nel 1890, potrebbe essere presa come simbolo di una svolta che non riguardò solo la teoria antropologica, ma un'intera mentalità, la quale aveva impregnato di sé il mondo scientifico durante la seconda metà dell'Ottocento. Gli ultimi anni della regina Vittoria, sotto il cui lungo regno la Gran Bretagna aveva esteso e consolidato il proprio impero coloniale furono anni di profonde trasformazioni sul piano politico, sociale e culturale. La crescita della Germania e degli Stati Uniti in campo economico da un lato, e della Francia e della stessa Germania in campo coloniale dall'altro, avevano provocato un inasprimento della concorrenza internazionale, un fatto che non consentì più di guardare alla Gran Bretagna come all'indiscussa dominatrice della politica mondiale. Pur rimanendo sempre la più forte tra le potenze economiche e coloniali, la Gran Bretagna subì in questo periodo un processo di lento e impercettibile declino che apparve come tale solo all'indomani della pace di Versailles con l'entrata definitiva degli Stati Uniti sulla scena politica mondiale.
L'idea di una evoluzione e di un progresso sociale trionfanti non costituì più un elemento indiscusso del panorama intellettuale, e le ideologie autocelebrative degli anni 1850-1880, pur continuando ad essere ripetute e divulgate dalla letteratura popolare e d'evasione, furono colpite da una profonda crisi. Non è forse un caso che il drammatico romanzo di Joseph Conrad. Cuore di tenebra (1899), racconti la sconvolgente esperienza di perdita d'identità del bianco in Africa. Come sarebbe stato possibile che questa "crisi delle certezze" che colpì l'Europa negli anni a cavallo tra Ottocento e Novecento, e da cui nacquero proprio in quello stesso periodo la psicoanalisi di Freud e la teoria della relatività di Einstein, non abbia avuto un'eco anche in antropologia? Lo studio della psiche e quello del mondo fisico vennero riformulati in termini di "ribaltamento di prospettiva" per cui il soggetto conoscente non era più un punto di riferimento assoluto. Anche chi parlava della psiche ne possedeva una; anche chi parlava del movimento dei corpi nello spazio si stava muovendo con essi. L'antropologia, nella quale il pensiero positivista ed evoluzionista aveva visto un mezzo di conoscenza della mente primitiva, riconosceva ora tracce di "primitività" nello stesso pensiero occidentale, razionale e positivo. Dov'era la linea di separazione tra selvaggi e civilizzati? Era davvero possibile conoscere le società primitive soltanto attraverso lo sguardo lontano e distaccato di un professore di Oxford o di Cambridge? Teorici e ricercatori sul campo Un tratto saliente della ricerca antropologica era stata, per tutto l'Ottocento, la separazione tra antropologi ed etnografi, cioè tra coloro che riflettevano sulle società primitive dal punto di vista teorico e coloro che raccoglievano i dati sul campo. Se si eccettuano alcune figure di studiosi americani – si pensi a Morgan – che avevano avuto modo di compiere ricerche raccogliendo personalmente materiale etnografico, quasi tutti loro si avvalevano di dati procurati da "intermediari": missionari. funzionari dell'amministrazione coloniale, militari, commercianti. esploratori ecc. Molto spesso venne adottata la tecnica della raccolta dei dati etnografici mediante questionari. Tali questionari erano inviati a quelli che, nel gergo professionale di allora, erano i men on the spot, cioè "gli uomini sul posto", Europei che, a vario titolo, avevano contatti più o meno frequenti con i nativi delle colonie. L'impiego di simili questionari, utilizzati da antropologi americani e britannici, fu promosso da istituzioni scientifiche come la Smithsonian Institution di Washington o l'Ethnological Society e il Royal Anthropological Institute di Londra, ma fu adottato anche da singoli studiosi, come ad esempio Tylor. Frazer ed altri loro contemporanei europei. I «corri.spondenti' È facile immaginare quali fossero i limiti di tali questionari: spesso coloro che dovevano farsi carico di compilarli erano, malgrado la loro lunga frequentazione delle culture locali, non abbastanza ferrati nelle lingue indigene, oppure non capivano bene lo spirito di coloro che li avevano ideati e formulati. Vi furono tuttavia delle eccezioni notevoli e alcune di queste persone a cui venne richiesto di raccogliere le informazioni divennero delle vere e proprie autorità etnografiche. Tra coloro che avevano interpretato al meglio il ruolo di etnografi corrispondenti vi erano stati Lorimer Fison (1832-1907) e Alfred W. Howitt (1830-1909) entrambi attivi in Australia nell'ultimo quarto dell'Ottocento. Fison e Howitt erano due missionari che, oltre a corrispondere con Morgan, Tylor e Frazer,
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Lorimer Fison (seduto) e Alfred Howitt (1882)
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William Spencer (sinistra) e Francis Gillen con gli aborigeni (1596)
Tasmania
scrissero un'opera per proprio conto, Kamilaroi and Kurnai (1880), un lavoro fondamentale per la conoscenza dell'organizzazione sociale delle comunità australiane. In quel periodo gli aborigeni australiani erano considerati con speciale riguardo da parte degli etnologi. Innanzitutto si avvertiva l'urgenza di raccogliere dati su una popolazione considerata – non a torto – in via di rapida disintegrazione sul piano culturale e di regresso a livello demografico. Inoltre, come abbiamo già detto, gli abitanti dell'Australia erano visti come i rappresentanti di uno stadio remoto della storia dell'umanità e la loro società, ritenuta la più "semplice" al mondo, era considerata come quella in cui diveniva possibile leggere la fase aurorale di molti fenomeni ed istituzioni sociali, primo tra tutti il totemismo, ovvero la forma più primitiva di religione. Il caso di Howitt e Fison, informatori "a distanza" dotati di una propria autonomia scientifica, non fu l'unico, e nemmeno il più celebre. La collaborazione più famosa tra antropologi ed etnografi fu infatti quella che legò per parecchi anni, a partire dal 1896, Frazer a William B. Spencer (1860-1929) e Francis J. Gillen (1855-1912). Spencer, che si era formato ad Oxford ed era stato influenzato
Il tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo... da Tylor, era professore di biologia a Melbourne; Gillen era invece un magistrato poi diventato resident nell'Australia centrale. Grazie a varie spedizioni scientifiche il primo, e in virtù della sua frequentazione delle culture aborigene il secondo, Spencer e Gillen pervennero ad una conoscenza notevole della vita degli Australiani. Stimolati dalle questioni teoriche poste dai loro corrispondenti europei, Spencer e Gillen intensificarono i loro contatti con gli aborigeni. Questi ultimi, in segno di gratitudine nei confronti di Gillen, il quale li aveva protetti dalle brutalità della polizia australiana (Strelhow 1997), consentirono ai due studiosi di assistere alle loro cerimonie e di fotografarle. Oltre a operare come informatori di Frazer, Spencer e Gillen redassero alcune opere etnografiche di capitale importanza, le più note delle quali sono The Native Tribes of Centra! Australia del 1899 e The Northern Tribes of Centrai Australia del 1904. Su questi lavori studiosi come Durkheim e Mauss, oltre che Frazer, fondarono le proprie teorie sul totemismo, sulle classificazioni e le religioni primitive mentre altri, in un secondo tempo, trassero spunti fondamentali per le loro riflessioni sulle origini e le funzioni della famiglia e la natura delle relazioni di parentela. Oggi le opere di Specer e Gillen restano testimonianze di inestimabile valore su un mondo definitivamente svanito. La survey Nell'ultimo scorcio del XIX secolo, in Gran Bretagna, la ricerca etnografica ricevette grande impulso da programmi di studio che prevedevano la raccolta sistematica di dati su base regionale. Nel 1884 venne promosso, su iniziativa di alcuni studiosi tra cui Tylor, un progetto relativo alla costa del Pacifico canadese destinato ad avere un importante impatto sugli sviluppi stessi dell'antropologia statunitense, in quanto tale progetto vide la partecipazione di Franz Boas, che si sarebbe in seguito trasferito in America (v. Cap. 4). Nel 1892 fu invece varato un piano per la realizzazione dell'Ethnographic Survey of the United Kingdom, un progetto che mirava alla raccolta sistematica di dati di tipo fisico-antropologico, etnologico, archeologico e folklorico di tutte le Isole Britanniche. Negli stessi anni vennero poste le basi per un programma gigantesco di raccolta di dati relativi all'India. Nacque così il monumentale Imperial Gazzetteer of India in cui funzionari, amministratori ed etnografi raccolsero una massa impressionante di dati relativi alle popolazioni delle varie province. A puro titolo di esempio possiamo ricordare che il Baluchistan District Gazzetteer, dedicato alla odierna provincia del Baluchistan pakistano la quale con i suoi cinque milioni di abitanti era la meno popolata dell'impero, venne pubblicato tra il 1906 e il 1908 in quattordici volumi per un totale di circa tremila pagine. Altrettanto fu fatto per regioni come il Punjab, il Mysore, il Bengala e l'Assam. Queste grandi survey (ricognizioni) etnografiche rientravano in un piano di collaborazione tra la giovane disciplina antropologica e l'amministrazione coloniale, e contribuirono sicuramente allo sviluppo dell'antropologia sul piano accademico. Esse consistevano nella compilazione di rapporti ottenuti mediante la raccolta di dati etnografici, linguistici, geografici, storici, ambientali ecc. Tale raccolta avveniva per opera di più ricercatori i quali soggiornavano per brevi periodi presso le comunità oggetto di studio. La loro compilazione non comportava lunghe permanenze, né tantomeno un contatto stretto con le popolazioni locali. Spesso condotte da anonimi ricercatori, funzionari dell'amministrazione coloniale o militari, queste survey cominciarono pian piano a vedere la partecipazio-
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Ex India britannica
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ne di studiosi professionali, interessati all'etnologia "a tempo pieno". Lo stile della survey divenne con il tempo caratteristico della ricerca di singoli studiosi, i quali combinavano l'attività etnografica con lo studio torico. I «nuovi etnografi» Come la disciplina cominciò a radicarsi nelle università, queste ultime divennero i principali motori della ricerca, tanto di quella teorica che di quella sul campo, con il conseguente declino della raccolta dei dati «a distanza» attraverso l'impiego di corrispondenti.
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Stretto di Torres
Stretto di Torres 1900. Alfred Haddon guarda in basso; dietro di lui, a sinistra, William Rivers
La Spedizione allo Stretto di Torres Tra coloro che, dalle università britanniche, diedero maggiormente impulso all'etnografia in questo periodo, vi furono dei ricercatori con una formazione di tipo scientifico. e non umanistico: biologi, psicologi, medici. Questo fatto doveva avere un'influenza enorme sulle tecniche di raccolta dei dati sul campo che, sul modello delle scienze naturali, prevedevano classificazioni sistematiche dei campioni per "tipi" (Urry 1984: 45). Alcuni di questi scienziati avevano preso parte, nel 1888, a ricerche di biologia marina nel braccio di mare che separa l'Australia dalla Nuova Guinea, lo Stretto di Torres. Tra di loro vi era Alfred Cort Haddon (1855-1940), un biologo di Cambridge. Al ritorno della spedizione Haddon aveva pubblicato un resoconto della sua esperienza a contatto coi "nativi" del posto. Il successo del suo resoconto lo spinse a dedicarsi completamente all'antropologia. Egli si batté allora energicamente per ottenere che una seconda missione scientifica allo Stretto di Torres includesse, tra l'altro, anche un programma di tipo etnologico. Haddon fu così convincente che la spedizione, organizzata dall'Università di Cambridge, fu espressamente dedicata alla raccolta di dati di tipo etnografico. La Spedizione allo Stretto di Torres (18981899) costituisce una pietra miliare nella storia dell'antropologia. Haddon, che ebbe l'incarico di dirigerla, coinvolse altri studiosi in questa impresa suggellata da un successo straordinario: una preziosa collezione di oggetti oggi conservati nel museo etnografico di Cambridge, e soprattutto il riconoscimento definitivo dell'antropologia sia sul piano accademico sia da parte del pubblico dei non specialisti. A questa spedizione ne seguirono altre in Africa centrale, in Malesia, in Australia e in Oceania (Melanesia e Polinesia). Quel che più conta fu, infine, la prosecuzione delle indagini sul campo da parte di ricercatori i quali avevano capito l'importanza che un soggiorno più o meno prolungato tra i "nativi" poteva avere per stabilire con questi ultimi la confidenza necessaria a ottenere la
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conoscenza della loro società e della loro cultura. È infatti in questi anni che emerge lentamente una nuova figura di etnografo. Le ricerche si moltiplicano I "nuovi etnografi" rappresentano delle figure di transizione, a metà strada tra il modello di ricerca fondato sulla divisione del lavoro tra teorici da un lato e ricercatori sul campo (o corrispondenti) dall'altro, e il modello che combina teoria e pratica etnografica nella persona di un unico ricercatore. Tra i "nuovi etnografi", o antropologi "della generazione di mezzo", come sono anche stati chiamati (Stocking 1985), vanno ricordati Edward Westermark, Charles Seligman, Robert R. Marett, Arthur M. Hocart, John Layard e William H. R. Rivers. Westermark compì ricerche in Marocco, Marett in Melanesia, Seligman in Africa e in India, Hocart in Polinesia, Layard alle Nuove Ebridi e Rivers in India, in Polinesia e in Melanesia. Anche in altri paesi l'etnografia conobbe, in questo periodo, un certo sviluppo: in Germania, in Austria e, in misura minore, in Francia. Dalla survey alla monografia etnografica Il loro lavoro etnografico di questi ricercatori era frutto dell'applicazione di nuovi metodi di ricerca sul campo. L'etnografia di questo periodo rifletté in effetti dei cambiamenti importanti sul piano metodologico. Molti dei lavori di questi etnografi segnarono il definitivo abbandono del metodo comparativo di ispirazione evoluzionista e il passaggio a ricerche concentrate su gruppi singoli e poco numerosi. Ciò è comprensibile, se si pensa al fatto che ora, invece di riflettere "da lontano" su queste popolazioni, gli antropologi si recavano direttamente presso di esse. Nasceva infatti, in sostituzione della survey, «ricognizione» preziosa ma alquanto rapida e superficiale, un nuovo genere di prodotto: la monografia etnografica. Le monografie etnografiche erano lavori dedicati ai molteplici aspetti della vita sociale e culturale del gruppo studiato e riflettevano una maggiore consapevolezza, da parte dei ricercatori, di quanto fosse importante la conoscenza approfondita di una società o di una cultura intese come "totalità". Queste monografie ebbero l'indiscutibile merito di produrre conoscenze assai più puntuali e dettagliate di quanto non avvenisse attraverso una raccolta di dati provenienti da contesti diversi al fine di convalidare o costruire ipotesi e sequenze evolutive. In questo passaggio da un genere etnografico all'altro è possibile vedere un primo fattore di costituzione di una nuova prospettiva metodologica e teorica rispondente al problema di conoscere il grado di interrelazione dei fenomeni appartenenti allo stesso ambito socioculturale.
Charles Seligman a fiata, Nuova Guinea (1904)
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11 tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo... Il genere monografico era destinato a produrre. accanto ad un incremento delle conoscenze ottenuto attraverso studi prolungati e dettagliati, anche effetti significativi sul piano della concezione stessa dell'oggetto dell'antropologia. Uno di questi effetti fu una rappresentazione delle popolazioni studiate dagli antropologi come di gruppi dotati di una propria cultura distinta da quella di altri gruppi. L'idea delle società primitive come costituite in "tribù" era infatti corroborata dal genere monografico che si concentrava su un determinato gruppo mettendo in secondo piano i legami che le comunità studiate intrattenevano con altre ad esse simili.
Robert Codrington (1895)
Antropologi e missionari L'affermazione dell'antropologia fu un processo rapido ma faticoso. Gli antropologi avevano infatti molti concorrenti: i geografi, gli storici delle religioni, i filologi e, soprattutto, i missionari. Questi ultimi, organizzati in "ordini", "case", "famiglie" avevano intrapreso, sull'onda dell'espansione coloniale, una massiccia e metodica impresa di "conversione" delle popolazioni `primitive". Sostenuti dai loro confratelli in Europa e negli Stati Uniti, i missionari si erano istallati in ogni angolo del pianeta. Se la maggior parte di costoro era animata da intenti evangelici, vi era anche chi, fra di essi, era interessato a conoscere i "costumi" dei primitivi. Tra questi missionari ve ne furono alcuni che seppero guardare con simpatia e vero interesse scientifico alle culture e alle società presso le quali vivevano. Soggiornando tra i "primitivi" per anni ed anni, a volte per decenni, alcuni di loro furono in grado di raggiungere una conoscenza approfondita delle popolazioni con le quali vivevano a contatto, producendo lavori etnografici di grande rilievo, come fecero appunto Fison e Howitt in Australia. o Robert H. Codrington in Melanesia, autore di una monografia rimasta, nel suo genere, un classico dell'etnografia melanesiana (The %lelanesians, 1891): o. ancora, il tedesco Carl Strehlow in Australia, autore di un'importante opera sugli Aranda e i Loritja (la cui pubblicazione ebbe inizio nel 1907 e si concluse nel 1920). I missionari-etnografi diedero contributi notevoli alla conoscenza delle popolazioni extra-europee. Ma gli antropologi erano figure diverse dai missionari. Gli antropologi erano legati ad ambienti accademici; erano degli "scienziati" laici e, soprattutto, non avevano alcun interesse a provocare, tra i popoli da loro studiati, trasformazioni del tipo di quelle favorite, o auspicate, dalla maggior parte dei missionari. Per gli antropologi i "primitivi" andavano protetti dal rullo compressore della cultura occidentale, tanto che questo si manifestasse sotto forma di nuove verità religiose, quanto di una nuova morale portata dai popoli civilizzati. Gli antropologi dovettero quindi organizzare un modello di "condotta scientifica" che li mettesse in grado di fronteggiare la concorrenza dei missionari. Essi cominciarono così a vantare una superiorità scientifica rispetto a osservatori che, per quanto acuti e assidui potessero essere, mancavano dei principi del corretto ragionamento scientifico. Dal momento che gli antropologi non potevano vantare, a differenza dai missionari, una lunga permanenza tra i nativi. i loro contatti con le popolazioni studiate dovevano avvenire all'insegna di metodi di raccolta dei dati che consentissero loro di controbilanciare in termini di qualità la quantità dei dati in possesso dei missionari. Questi motivi spinsero l'antropo-
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logia a elaborare metodi d'indagine, tecniche di raccolta e di controllo delle informazioni, nonché di trascrizione delle esperienze etnografiche, che dovevano qualificarla nel mondo accademico come una disciplina degna di figurare nelle università al pari delle altre scienze.
Teoria e metodo della ricerca sul campo: William H.R. Rivers Tra gli antropologi della generazione "di mezzo", un posto particolare è occupato da William H.R. Rivers (1864-1922). Medico e psicologo di formazione, Rivers divenne antropologo "sul campo" partecipando nel 1898-99 alla Spedizione dell'Università di Cambridge allo Stretto di Torres. Qui Rivers compì inizialmente ricerche sulle facoltà percettive dei nativi confrontandole con quelle degli studenti dell'Università di Cambridge e giungendo alla conclusione che non vi erano sostanziali differenze tra costoro e i giovani inglesi per quanto riguardava il modo di percepire immagini, colori, sapori, suoni ecc. Il suo fu un importante contributo all'idea, esposta poi per la prima volta in maniera sistematica da Boas agli inizi del Novecento (Boas 1972) di una fondamentale unità fisico-psichica del genere umana Lo studio delle terminologie di parentela Ben presto tuttavia gli interessi di Rivers si volsero allo studio dell'organizzazione sociale dei popoli "primitivi" e in particolare delle terminologie di parentela. Egli si avvicinò alle tesi di Morgan secondo le quali le terminologie di parentela sarebbero state la conseguenza linguistica delle relazioni sociali. Rivers non era un evoluzionista. Per lui era interessante non tanto connettere gli attuali sistemi terminologici dì parentela con "fasi" trascorse della storia dell'umanità. A lui importava piuttosto ribadire il carattere sociologicamente significativo dei sistemi terminologici di parentela, connetterli cioè alla vita sociale presso cui tali termi-
Rivers a Malekula (Melanesia). 1914
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[T9.1]
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II tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo... ni erano in uso. In questo senso egli si opponeva a Kroeber per il quale le terminologie di parentela erano fatti "psicologici, linguistici" (cioè culturali) più che il riflesso delle relazioni sociali (Rivers 1968. 1978). Rivers non pensava, al contrario di Kroeber (sebbene non in maniera del tutto esplicita), che i termini di parentela fossero termini con uno spettro semantico più ampio di quello relativo alla parentela in senso stretto (v. Cap. 4). Il «metodo genealogico» In relazione agli interessi per lo studio dell'organizzazione sociale e dei sistemi terminologici di parentela, Rivers sviluppò, in un breve articolo pubblicato nel 1910, quello che lui stesso chiamò il "metodo genealogico" nella raccolta dei termini di parentela. Questo lavoro (The Genealogical Method of Anthropological Inquiry), illustrava un sistema efficace – ovvero rapido e affidabile – di raccolta dei dati relativi alla organizzazione sociale dei popoli "selvaggi". In esso Rivers espose un punto di vista nuovo sulla stessa pratica etnografica. Egli si distingueva infatti tanto dagli "antropologi da tavolino" (come vennero poi chiamati quegli studiosi dei popoli primitivi che non avevano avuto esperienza di contatto con questi ultimi), quanto da quegli etnografi-missionari che potevano vantare lunghi soggiorni tra i "nativi". Il metodo di Rivers si presentava come estremamente essenziale nella sua concezione e applicazione. Esso consisteva nel chiedere a un individuo il nome dei suoi parenti più prossimi e il termine di parentela con cui venivano designati: padre, madre ecc. Poi nel chiedere i nomi e i termini con cui venivano designati quelli più lontani, tanto in linea diretta quanto in linea collaterale, fino a raggiungere un quadro esaustivo della terminologia impiegata dai membri di quella società. In questo modo era possibile stabilire differenze e somiglianze terminologiche tra parenti, a partire dalle quali sarebbe stato possibile tracciare un quadro delle relazioni sociali vigenti all'interno di quella comunità. La caratteristica di "essenzialità" del metodo si rifletteva, a giudizio di Rivers, nella possibilità che esso aveva di poter essere compreso da chiunque, dal ricercatore come dal nativo. Rivers aveva già applicato con successo questo metodo nel corso delle sue indagini allo Stretto di Torres. e lo aveva poi perfezionato nel suo lavoro di ricerca tra i Toda dell'India meridionale (The Todas,1906). Tra i vantaggi del metodo segnalati da Rivers vi era quello secondo cui esso consentiva di trattare, su di un piano concreto, problemi astratti quali le relazioni terminologiche di parentela, nonché di superare la distanza tra ricercatore e nativo che, a suo giudizio, derivava non tanto dalla differenza di cultura tra i due, quanto piuttosto dall'abitudine a pensare in maniera teorico-astratta da parte del primo. Secondo Rivers, infatti, il metodo da lui ideato consentiva di porre, come egli stesso scriveva, "il ricercatore europeo sullo stesso piano del nativo". Rivers aveva colto l'importanza di trovare, sul piano metodologico, un modo di comunicare che favorisse la comprensione reciproca tra antropologi e nativi, e non soltanto sul piano della "confidenza reciproca", quanto piuttosto attraverso l'individuazione sul "campo" di temi di comune interesse. Tra i vantaggi del metodo vi erano, per Rivers, la sua praticità, a beneficio di quei ricercatori che, al contrario dei missionari, non avevano la possibilità di soggiornare a lungo tra i nativi. Inoltre il metodo di Rivers consentiva, a suo parere, di risalire, mediante la conoscenza delle genealogie, indietro nel tempo, a un'epoca in cui le culture "primitive" non erano ancora state intaccate dagli "effetti dell'influenza europea". Negli ultimi anni della sua vita Rivers si accostò al diffusionismo. Nel 1914
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Il tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo... pubblicò un libro intitolato The History of Melanesian Society in cui sosteneva l'idea di un impoverimento progressivo dei tratti culturali in conseguenza del loro allontanamento dal centro d'origine. Tuttavia una parte di quest'opera era un tentativo di ricostruire, secondo il programma tracciato nel suo articolo metodologico del 1910, il passato della società melanesiana grazie alle terminologie di parentela, delle quali Rivers aveva, d'altra parte, una conoscenza raramente eguagliata in seguito da altri studiosi (Schneider 1968).
I LANKA
Colombo
MALDIVE Male La metodologia della ricerca sul campo Oceano indiano Prima del 1910 Rivers aveva compiuto ricerche in Australia, Melanesia, India e Polinesia, scrivendo brevi ma importanti lavori di metodolo- Toda gia alcuni dei quali possono essere considerati precorritori della "grande rivoluzione etnografica" degli anni successivi alla prima guerra mondiale. Si tratta di lavori meno noti, di rapporti, note, relazioni spesse volte redatti su incarico del Royal Anthropological Institute di Londra o di altri enti scientifici. È interessante seguire alcune affermazioni di Rivers, le quali testimoniano di quanti e quali progressi avesse compiuto, con lui e con i "nuovi etnografi" la ricerca sul campo e la metodologia della ricerca in generale nei primi anni del Novecento. Nel 1913, ad esempio, incaricato da una istituzione americana di redigere un rapporto suIl'avanzamento della ricerca antropologica al di fuori degli Stati Uniti, Rivers scriveva: «Un caso tipico di lavoro intensivo è quello per cui il ricercatore sul campo vive per un anno o più in una comunità di quattro-cinquecento persone studiando tutti i dettagli della loro vita e della loro cultura; in cui egli Rivers giunge a conoscere personalmente tutti i membri della comunità; in cui egli non (seduto) nel 1915 si mostra pago di informazioni generali, ma studia ogni aspetto della vita e delle usanze nei dettagli pratici e mediante l'uso della lingua locale... E solo attraverso un simile lavoro che diventa possibile scoprire il carattere incompleto quando non addirittura fuorviante di gran parte della vasta massa di survey che forma l'attuale base dell'antropologia» (Rivers 1913: 7). È possibile riconoscere qui lo stile etnografico adottato dai ricercatori a partire dagli anni 1920. Ma Rivers preconizzò anche l'avvento del ricercatore "professionale", che sarebbe prevalso in futuro: «Ciò di cui si ha bisogno è un tipo di lavoro nel quale dei ricercatori addestrati possano dedicare tutte le loro attenzioni al lavoro etnologico, senza essere presi da compiti di carattere amministrativo» (id. p. 28). Infine, Rivers sembra affacciarsi alle problematiche teoriche stimolate da un nuovo stile di ricerca: «Nulla è più inutile per il ricercatore che il fatto di limitare il proprio studio alla sociologia, alla religione, o alla tecnologia di un popolo. È inutile sperare di ottenere un quadro completo della religione
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Il tramonto dell'evoluzionismo e lo sviluppo della ricerca sul campo... di una popolazione senza studiare contemporaneamente il suo modo di vita, la sociologia, la lingua e la tecnologia» (Rivers 1912: 14). In quest'ultima affermazione possiamo leggere chiaramente la prospettiva che informerà tutta l'antropologia britannica dei decenni successivi, quella funzionalista. Rivers non ebbe modo di sviluppare queste sue importanti intuizioni. Durante gli anni del primo conflitto mondiale e in quelli ad esso immediatamente successivi Rivers si dedicò alla cura e allo studio delle psicosi di guerra, ossia dei traumi psichici da cui erano stati colpiti molti militari tornati dal fronte. Rivers mori in maniera improvvisa nel 1922, un anno considerato comunque decisivo per il futuro dell'antropologia.
Parte terza DALLA PRIMA GUERRA MONDIALE ALLA METÀ DEL NOVECENTO
Bibliografia critica
Clifford J., I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel XX secolo, Bollati, Torino 1993 (ed. orig. 1988). Fabietti U. (a cura), Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell'identità, Carocci, Roma 1998. Malighetti R., «II lavoro etnografico», in Fabietti U., Malighetti R., Matera V., Dal tribale al globale. Introduzione all'antropologia, Bruno Mondadori, Milano 2000. Stocking G.W. Jr., «The Ethnographer's Magic. Fieldwork in British Anthropology troni Tylor to Malinowski» , in ID. (a cura), Observers observed, The University of Winsconsin Press, London 1983. Urry J., «A History of Field Methods», in R.F. Ellen (a cura di), Ethnographic Research. A guide to General Conduct, Academic Press, London 1984. Urry J., Before Social Anthropology, Harwood Academic Publisher, Chur, Swizerland 1993.
Capitolo
10 La rivoluzione etnografica e il funzionalismo di Bronislaw Malinowski
Negli anni precedenti il primo conflitto mondiale gli studi antropologici in Gran Bretagna avevano subito, come abbiamo visto, importanti trasformazioni sia a livello delle iniziative di ricerca, sia a livello metodologico. Questo periodo fu testimone di un grande sviluppo dell'attività etnografica condotta dai primi antropologi professionali provenienti dalle università del Regno Unito. In Inghilterra, sotto la guida di studiosi come Westermark, Haddon, Seligman, Marett e Rivers, molti di loro trovarono il clima adatto per intraprendere, dopo aver ricevuto una solida formazione teorica, le loro ricerche sul campo. Gli anni della guerra mondiale segnarono invece una stagnazione. Così come era accaduto in Francia, anche in Gran Bretagna molti promettenti antropologi erano periti al fronte, altri avevano rallentato o abbandonato le loro ricerche e Rivers, che era stato impegnato negli anni del conflitto come psicologo nella cura dei traumi di guerra, era scomparso prematuramente ed inaspettatamente nel 1922. Ma questo fu comunque un anno decisivo, in quanto fu l'anno di pubblicazione di un libro considerato una pietra miliare della storia dell'antropologia. La «magia» delle isole: un antropologo tra mito e realtà Il 1922 è l'anno di pubblicazione di Argonauti del Pacifico occidentale (Argonauts of the Western Pacific) di Bronislaw Malinowski (1884-1942). Malinowski era polacco, ma aveva studiato antropologia a Londra con Seligman e nel 1914 si era recato a Melbourne per un congresso. Era cittadino dell'Impero austro-ungarico, e quindi un "nemico" quando lo scoppio della prima guerra mondiale lo sorprese in Australia. Malinowski avrebbe dovuto essere internato dalle autorità australiane ma fu lasciato libero di compiere ricerche, prima in Nuova Guinea e poi più a est, nelle Isole Trobriand, in Melanesia. Malinowski studiò non solo l'organizzazione sociale, economica e giuridica dei Trobriandesi ma anche le tecniche di costruzione delle canoe, i miti, i riti, la lingua e il comportamento sessuale di questi isolani. Scrisse su di loro un gran numero di opere, soprattutto negli anni in cui fu professore alla London School of Economics, dal 1922 al 1938 anno in cui si trasferì a Yale, negli Stati Uniti. Malinowski fece il suo ingresso sulla scena dell'antropologia britannica al ritorno dalle Isole Trobriand, quindi alla fine della guerra. Egli trovò una situazio-
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La rivoluzione etny,grafica di Bronislaw Malinowski
Bronislaw Malinowski alle Trobriand
ne profondamente segnata dal conflitto. La stagnazione della disciplina, dovuta al clima di quegli anni, lo favori, anche perché egli seppe fare tesoro di quanto la tradizione britannica, specialmente quella legata alla ricerca sul campo, era andata elaborando prima del 1914. Malinowski si impose con la sua brillantezza di scrittore e la novità delle sue idee in materia di pratica etnografica. Robert Marett, che come lui aveva lavorato in Oceania, considerava Malinowski «un uomo capace di farsi strada nel cuore del più diffidente selvaggio». James Frazer, che da evoluzionista non condivideva alcune sue posizioni, lo considerò un esempio di "perfezione scientifica". Raymond Firth e Audrey Richards che lo ebbero per maestro, lo consideravano una persona in grado «di raggiungere una eccezionale identificazione con la gente da lui studiata» (Firth 1957: 17-18). L'osservazione partecipante e i Diari segreti: un problema etico o epistemologico?
[T10.1]
Malinowski è stato fatto (ed è in parte ancora) oggetto di una specie di culto reso all'antropologo sul campo come ad un personaggio dotato di particolari quanto misteriose qualità che lo metterebbero in grado di penetrare, e quindi di cogliere dall'«interno», la vita delle popolazioni che egli studia. Grazie all'esercizio di queste facoltà, l'antropologo, come diceva appunto Marett di Malinowski, sarebbe «in grado di andare al cuore del più diffidente selvaggio». Malinowski fu in effetti colui che diede il via alla pratica della cosiddetta "osservazione partecipante" (un termine da lui coniato, d'altronde), una nuova tecnica d'inchiesta che consentiva ai ricercatori di entrare in un rapporto "empatico" con i nativi. Osservare partecipando voleva dire cercare di prendere parte il più possibile alla vita degli indigeni allo scopo di "cogliere il loro punto di vista", la loro visione del loro stesso mondo. Per la notorietà dell'antropologia presso un pubblico di non specialisti Malinowski fu il simbolo dell'uomo avventuroso che, rotti i legami col proprio gruppo e lasciatesi dietro le spalle le convenzioni sociali, compie ciò che a molti già
La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski negli anni tragici della prima guerra mondiale e in quelli della crisi post-bellica apparve come una alternativa alla routine e al dramma del quotidiano: la fuga dalla civiltà. Non c'è infatti dubbio che se l'antropologia è uscita dal ristretto ambito degli specialisti, ciò si deve al fatto che l'investimento immaginario nei confronti di quest'uomo in possesso di una raffinata cultura mitteleuropea che parte per studiare gli abitanti delle isole lontane ha rappresentato la nascita di un mito non soltanto professionale. Per lungo tempo questa immagine di Malinowski ha costituito una specie di mito con funzioni autoelogiative e autorassicuranti per la comunità antropologica. Quando però i «diari» segreti dall'antropologo polacco vennero pubblicati a venticinque anni dalla morte, questo mito subì un durissimo colpo. Come ha scritto Clifford Geertz, «scoppiò un piccolo scandalo nell'antropologia: una delle sue figure ancestrali disse la verità in pubblico... con il risultato che un certo numero di tipi benpensanti insorsero sostenendo... che cosa penseranno le generazioni future, per non parlare dei profani?» (1988: 71). In effetti Malinowski risultava, attraverso le pagine dei suoi diari, qualcosa di diverso da quella specie di individuo mimetico capace di adattarsi a qualunque situazione di estraneità culturale. Per dirla ancora con Geertz, «Lo shock principale sembra aver avuto origine nella scoperta che Malinowski non era, per dirla educatamente, un tipo mite e controllato. Egli aveva da dire cose rudi sui nativi e usava parole volgari per dirlo. Passò gran parte del suo tempo desiderando di essere altrove» (ibidem). Queste osservazioni hanno per la verità un senso solo se ci aiutano a capire il ruolo svolto da Malinowski all'interno dello sviluppo degli studi antropologici. II «disagio» dell'antropologo
Se la pubblicazione dei diari di Malinowski ha contribuito a sfatare un mito, essa ha soprattutto sollevato un problema di capitale importanza per l'antropologia, un problema di natura epistemologica. Malinowski stesso, nel momento in cui redigeva le sue note, intuiva probabilmente l'importanza di tale problema, cioè di come e quanto l'antropologo sia davvero in grado di "cogliere il punto di vista dell'indigeno". • In questo oscillare di stati d'animo, sentimenti e predisposizioni, sta appunto ciò che Malinowski avvertiva come il «disagio» epistemologico dell'antropologia, quello di doversi confrontare anche con le interpretazioni dei nativi, e la sensazione di non poterle trattare come inerti materiali in attesa di rivivere solo g razie alle inferenze dell'autore. Malinowski è, in questo senso, colui che ha posto, seppure in forma indiretta, uno dei problemi centrali dell'antropologia odierna, che consiste nel poter valutare in quale misura le interpretazioni di coloro che costituiscono l'oggetto di studio dell'antropologia, oltre che di chiunque
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Isole Trobriand: canoa decorata e. sotto, costruzione di una canoa
[T10.2)
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La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski entri a far parte del contesto del loro lavoro, contribuiscano a determinare le interpretazioni degli antropologi.
:«or delle Filippine PAPUA NUOVA GU IN EA
Un modello di monografia etnografica: gli Argonauti
Dal 1922 al 1938 Malinowski svolse la propria attività di insegnamento alla London School of Economics, dove sotto la sua guida si formò un certo numero, dati i tempi molto riPort .`% Mar degliAralure Moresby stretto, di giovani ricercatori. In questo periodo uscirono i suoi libri sulle popolazioni delle Isole Trobriand, tra cui ArIsole Trobriand gonauti del Pacifico occidentale. Mor dei Corolrl Argonauti non era una descrizione delle componenti della «cultura» delle Isole Trobriand ma, come tutti gli altri libri Isole scritti da Malinowski su questa popolazione melanesiana, partiva da un aspetto Trobriand particolare della vita di essa per poi aprirsi sugli altri. L'oggetto di Argonauti era infatti costituito da una forma di attività di scambio praticata da un certo numero di comunità stanziate su isole anche molto lontane tra loro ma comunque comprese entro un'area geografica circoscritta. INDONESIA
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Il cerimoniale kula [T10.3] Questa forma di scambio, o kula nella lingua delle Trobriand, veniva definita da Malinowski come «un fenomeno economico di notevole importanza teorica... [che] occupa il posto più importante nella vita tribale di questi indigeni che vivono all'interno del suo circuito» (Malinowski 1973: 30). Malinowski affrontò pertanto Io studio di questo fenomeno partendo dall'analisi di tutti gli elementi della vita sociale connessi alla pratica del kula. Il kula risultava essere così un fenomeno complesso cheopuò essere descritto nel modo seguente. Tra le isole abitate dai gruppi partecipanti allo scambio, isole che per comodità possiamo immaginare disposte su di una circonferenza, circolavano due tipi di oggetti: collane di conchiglie rosse (sou/ava), e braccialetti di conchiglie bianche (mwali). Le prime circolavano solo in senso orario, i secondi solo in senso contrario. Ciò dipendeva dal fatto che gli oggetti appartenenti ad una categoria potevano essere scambiati solo con oggetti dell'altra categoria: soulawa contro mwali, mwali contro soulava. Gli oggetti circolavano in continuazione, restando nelle mani del loro possessore solo per un periodo limitato di tempo. Essi non uscivano mai dal circuito di scambio e venivano barattati nel corso di visite che gli abitanti delle diverse isole si scambiavano periodicamente. Tanto i preparativi per la partenza. quanto gli scambi, avvenivano secondo rituali precisi accompagnati da pratiche magiche. Durante le visite, gli scambi kula, considerati strettamente come "cerimoniali", erano accompagnati da un commercio di tipo profano mediante il quale venivano scambiati oggetti in possesso di un valore d'uso (gimwali). Uno degli aspetti della vita locale messi in luce da Malinowski fu l'esistenza di ciò che gli antropologi chiamarono poi "sfere di scambio": ambiti non comunicanti tra loro entro cui circolavano oggetti di natura differente. Conchiglie e bracciali potevano infatti essere scambiati solo tra loro, e non contro un qualsiasi altro oggetto. Olismo e fitnzionalismo Argonauti del Pacifico occidentale è entrato a far parte della tradizione della grande letteratura etnografica come il testo che inaugura una nuova epoca nel-
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la pratica della ricerca sul campo. Sebbene elevata a vero e proprio mito professionale, la cosiddetta «osservazione partecipante», l'abilità con cui Malinowski seppe effettivamente cogliere e descrivere la vita degli isolani delle Trobriand entrando in un rapporto di intimità e di comprensione con lo stile di vita di essi, costituisce senz'altro una delle molte novità metodologiche su cui fu costruito questo libro. L'osservazione parteloo o so cipante produsse effetti rilevanti sul piano teori- Miglia co: in primo luogo la comparsa di una nuova concezione della cultura e della società come complessi di fenomeni reciprocamente correlati e quindi non astraibili dal contesto generale entro il quale si manifestano abitualmente. Ciò equivaleva a sua volta a rappresentare l'oggetto di studio dell'antropologia come qualcosa che poteva essere colto attraverso una prospettiva di tipo olistico (dal greco òlos, "tutto") e non settoriale, secondo quanto già indicato almeno un decennio prima da Rivers (v. Cap. 9). Inoltre, così inteso, l'oggetto di studio dell'antropologia (le società e le culture) risultava costituito da parti tra loro correlate in senso funzionale. Anche se Malinowski non fornì mai un quadro complessivo della società e della cultura delle Trobriand, in tutti i suoi lavori iniziali agisce quest'idea di funzionalità dell'elemento singolo o tratto culturale. sia esso un'istituzione, una credenza o una pratica qualunque, per il mantenimento della totalità. Questa prospettiva può anche essere considerata alla luce di uno sforzo mirante a mostrare come il «selvaggio», il «primitivo», fosse in grado di esprimere, contro lo scetticismo allora diffuso, un tipo di comportamento dotato di una sua coerenza e ragionevolezza. L'intenzione di far apparire sotto una nuova luce i popoli "primitivi" fu probabilmente all'origine della scelta stessa, da parte di Malinowski, dello scambio kula come principale oggetto di studio. Ciò rende anche conto dell'idea, condivisa dalla tradizione posteriore degli studi, secondo cui Argonauti sarebbe il primo studio di antropologia economica. Lo scambio kula è uno scambio di tipo cerimoniale di cui Malinowski comprese la portata sociologica in senso generale. e cioè la funzione che esso assolveva nel mantenere e nel rafforzare i rapporti tra gli individui e i gruppi. Malinowski tuttavia gli attribuì un significato di tipo economico. Il desiderio di fornire un'immagine accettabile del selvaggio e della sua economia, assieme alla concezione che egli aveva dell'economico come "circolazione" di beni, lo spinse ad attribuire allo scambio kula, il più clamoroso ed appariscente processo di scambio osservabile alle Trobriand, il significato di fenomeno economico. In questo modo Malinowski non solo circoscrisse la sua analisi al solo processo di circolazione, ma dedicò poco spazio allo scambio profano (gimwali) che sempre si ac-
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L'anello di
Kula
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Bronislaw Malinowski
compagnava allo scambio cerimoniale. La conseguenza di ciò fu che Malinowski interpretò come fenomeno economico ciò che alla sfera dell'economico non appartiene, se per "economia" si intende il complesso delle operazioni di produzione, distribuzione e scambio di beni. Malinowski, che rigettava l'opinione allora abbastanza diffusa circa l'esistenza di un «comunismo primitivo» come caratteristico dei popoli selvaggi, si rifiutava d'altra parte di vedere nell'indigeno delle Trobriand l'incarnazione dell'homo ceconomicus Malinowski aveva colto il significato complesso di molti fenomeni sociali, e anche se il suo desiderio di produrre un'immagine del selvaggio come essere "ragionevole" lo indusse a definire "economico" un fenomeno come lo scambio kula, egli ne seppe ricondurre il senso all'agire sociale complessivo di quelle popolazioni lontane. Scrive infatti Malinowski: «Un altro concetto che si deve demolire una volta per tutte è quello dell' "uomo economico primitivo"..Il primitivo trobriandese ci fornisce l'esempio che contraddice questa falsa teoria. Il trobriandese lavora spinto da motivi assai complessi di natura sociale e tradizionale, mirando ad obiettivi che non hanno certo molto a che vedere con la soddisfazione di desideri presenti o con il raggiungimento immediato di fini utilitari. II lavoro non viene eseguito sulla base del principio del minimo sforzo ma. al contrario, molto tempo e molte energie vengono spesi per sforzi del tutto inutili dal punto di vista pratico» (ivi: 81). Il principio di reciprocità L'analisi condotta da Malinowski sullo scambio kula mise in evidenza l'esistenza di una rete di rapporti tra individui, clan, tribù fondati su ciò che da allora in poi sarebbe entrato a far parte del lessico concettuale delI'antropologia col nome di "principio di reciprocità". Tutte le operazioni connesse con le spedizioni kula, dalla fabbricazione delle grandi piroghe d'altomare con cui venivano compiuti i viaggi da un'isola all'altra, fino allo scambio vero e proprio, si presentavano come regolate da una logica sociale che nei suoi effetti tendeva a promuovere la solidarietà e l'organicità della società e della cultura. Lo scambio kula era solo il fenomeno che più d'ogni altro mostrava di possedere queste caratteristiche. Tutti gli altri aspetti o momenti importanti della vita sociale erano comunque sanzionati da atti esprimenti un complesso di precisi diritti e doveri di una persona nei confronti di un'altra o di un gruppo nei riguardi di un altro. Ogni fase della vita sociale appariva così contrassegnata da comportamenti di mutua assistenza, da prestazioni e da controprestazioni, dall'offerta di doni e di controdoni, di vendette o di risarcimenti, tutte azioni che trovavano il loro senso specifico nello status sociale delle persone che, in un caso o nell'altro, risultavano coinvolte. Malinowski pervennne così ad elaborare una tipologia di questo genere di relazioni sociali che dal dono puro fino allo scambio kula, e da questo al commercio profano, mostrava di fondarsi invariabilmente sul principio della reciprocità. [T10.4] Questo «principio», descritto nelle sue dinamiche concrete in Argonauti, costituì l'argomento di uno studio che Malinowski pubblicò pochi anni dopo, Diritto e costume nella società primitiva (Crime and Custom in Savage Society) del 1926. In questo lavoro il principio di reciprocità, osservato in relazione allo scambio kula, venne presentato come pervasivo dell'intera società trobriandese. Come Argonauti, dove Malinowski demoliva alcune immagini distorte e fortemente ideologiche dell'economia primitiva, Diritto e costume era il tentativo di attribuire un aspetto di coerenza a pratiche connesse con il controllo sociale che erano state molto spesso svalutate o misconosciute da autori precedenti. Anche qui agiva la stessa ipotesi soggiacente all'impianto di Argonauti del Pacifico oc-
La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malrnowskt
cidentale: l'idea dell'esistenza di un principio d'ordine non codificato, se non nella pratica tradizionale, in grado di svolgere una funzione strutturante dell'agire sociale, cioè l'idea di un principio di reciprocità come immanente alla vita sociale delle popolazioni primitive. L'assunzione di un tale principio come forma generale della relazione sociale consentì a Malinowski di esprimersi nel modo seguente: «Il diritto non è contenuto in uno speciale sistema di decreti... il diritto è il risultato specifico della configurazione di obblighi che rende impossibile all'indigeno di sottrarsi alla propria responsabilità senza subirne in futuro le conseguenze» (Malinowski 1972: 94). L'utilizzazione del principio di reciprocità come principio esplicativo della dinamica sociale "primitiva" migrerà, come si è visto, nella teoria del dono di Mauss (v. Cap. 7) e, da questa, nell'antropologia di Claude Lévi-Strauss (v. Cap. 18). L'origine della famiglia Malinowski era giunto in Inghilterra in un periodo segnato dal progressivo sfaldamento dell'ortodossia evoluzionista. Nel 1913 aveva pubblicato, basandosi esclusivamente sulla letteratura esistente, il libro La famiglia tra gli Aborigeni australiani (The Family among the Australian Aborigines). Questo lavoro venne iniziato da Malinowski quando si trovava ancora in Germania, ma fu completato; a Londra. In questo lavoro Malinowski confutò l'ipotesi della promiscuità originaria che i lavori degli etnografi di allora sembravano confermare con la descrizione di cerimonie durante le quali erano consentiti rapporti sessuali con partners diversi da quelli matrimoniali (che pertanto venivano interpretate come una sopravvivenza di quell'ipotetico stato originario). Malinowski dimostra invece che anche gli episodi di licenza sessuale che hanno luogo durante alcune cerimonie particolari accadono secondo precise regole e non consistono nell'accoppiamento indiscriminato: «Gli aspetti sessuali della vita sociale degli Australiani, lungi dal possedere i caratteri della promiscuità indiscriminata, sono al contrario soggetti a strette norme, a restrizioni e regole» (1913: 123). Universalità della famiglia elementare Alla opinione allora prevalente egli oppose quindi l'ipotesi del carattere universale e originario della famiglia elementare. A partire dal lavoro sugli aborigeni australiani, questa immagine della famiglia elementare come cellula universale e originaria della società rimarrà una costante in tutti i lavori successivi di Malinowski. In Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi (Sex and sexual Repression among the Savages) del 1927. Malinowski presentò la famiglia come il luogo della riproduzione biologica e culturale allo stesso tempo. L'incesto è bandito, egli sostenne, in quanto disgregherebbe la famiglia e i rapporti che si instaurano all'interno di essa, quei rapporti che «servono da modello a tutte le altre strutture sociali». Per questa via Malinowski giunse ad attribuire alla famiglia e alla proibizione dell'incesto una sorta di priorità nei confronti della società e dell'esogamia rispettivamente. Come la società risultava essere il prodotto dell'estensione dei rapporti familiari, così la pratica dell'esogamia appariva un effetto della proibizione dell'incesto: «La sociabilità comune si sviluppa dall'estensione dei legami familiari e non da altre cause» (Malinowski 1966: 208). Malinowski tendeva a stabilire un rapporto di anteriorità e successione tra questi due fenomeni culturali attribuendo ad essi il carattere di «risposta» e di «soluzione» di problemi connessi alla sopravvivenza e alla perpetuazione del gruppo: la proibizione dell'incesto viene concepita come «risposta» ad una potenziale disgregazio-
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ne dei legami familiari, mentre l'esogamia è un «mezzo» per risolvere favorevolmente ed efficacemente la proibizione stessa. Il modo in cui veniva posto il problema del significato sociologico della proibizione dell'incesto e della regola dell'esogamia prefiguravano così già dal 1927 la concezione funzionalista della cultura che Malinowski avrebbe sviluppato coerentemente non molti anni più tardi.
La teoria della cultura e il funzionalismo «allargato»
Malinowski con la famiglia a Soprabolzano (Alto Adige) nel 1926
[T10.5]
Gli scritti teorici in cui Malinowski formulò una teoria generale della cultura furono quasi tutti pubblicati postumi. Essi vengono per ultimi nella produzione di Malinowski, e la loro redazione si situa in una fase decisiva per lo sviluppo successivo dell'antropologia britannica: il trasferimento di Malinowski stesso negli Stati Uniti nel 1938 e la progressiva affermazione dell'influenza teorica di RadcliffeBrown in Inghilterra. Una teoria scientifica della cultura (A Scientific Theory of Culture) venne pubblicato postumo nel 1944. I due saggi più importanti in esso contenuti «Una teoria scientifica della cultura» e «La teoria funzionale», erano stati scritti nel 1941 e nel 1939 rispettivamente, quindi nel «periodo americano» di Malinowski e l'ultimo della sua vita. In essi Malinowski cercò di produrre un'immagine ordinata e «scientifica» tanto del metodo quanto dell'oggetto dell'antropologia. L'immagine della società e della cultura che Malinowski era andató elaborando era quella di un insieme di pratiche e di comportamenti tra loro integrati tendenti al mantenimento dell'equilibrio interno alla società e del "funzionamento" di essa. Era questo ciò che potrebbe essere definito il "funzionalismo ristretto" di Malinowski, il prodotto di una attività di ricerca "sul campo". Con gli scritti pubblicati nel 1944 il panorama cambia notevolmente. Il «funzionalismo ristretto», cioè la concezione delle società e delle culture come "complessi integrati", non scompare. Ad esso si affianca però una concezione particolare della cultura. Dopo aver definito la cultura come "il tutto integrale consistente degli strumenti e dei beni di consumo, delle carte costituzionali per i vari raggruppamenti sociali, delle idee e delle arti, delle credenze e dei costumi" (Malinowski 1962: 44), Malinowski la definisce anche come "un vasto apparato, in parte materiale, in parte umano e in parte spirituale con cui l'uomo può venire a capo dei concreti, specifici problemi che gli stanno di fronte" (ibidem). Accanto ad una concezione tyloriana della cultura arricchita di una dimensione funzionalista (il "tutto integrale") coesiste l'immagine della cultura come "apparato strumentale" pensato da Malinowski come una serie di risposte da parte dell'uomo alle necessità imposte dall'adattamento all'ambiente esterno. E questo ciò che potrebbe essere definito il "funzionalismo allargato" di Malinowski.
La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski
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La gerarchia dei bisogni L'analisi funzionale della cultura tende così a coincidere con una formulazione delle relazioni tra bisogni fondamentali (basic needs) e risposte culturali che da tali bisogni sono sollecitate. risposte che sono suscettibili di creare a loro volta ulteriori bisogni. Questi ultimi, chiamati da Malinowski bisogni secondari o derivati (potere politico, organizzazione economica ecc.) coincidono con l'esigenza di organizzare e mantenere la coesione del sociale e della cultura. Una terza serie di fenomeni culturali, coincidenti con ciò che chiameremmo il livello del simbolico, viene definita da Malinowski come "la modificazione dell'organismo originario la quale permette la trasformazione di un impulso fisiologico in valore culturale" (ivi: 138): si tratta del linguaggio, della tradizione orale e scritta, di alcuni concetti dogmatici dominanti. Questo è il quadro concettuale che, secondo Malinowski, dovrebbe consentire di definire i livelli di espressione della cultura umana in generale: un grande quadro formale al cui interno si articolano relazioni «bisogno fondamentale-risposta culturale» che non solo non tengono conto del carattere plurifunzionale delle risposte. ma che sono pensate secondo il classico modello dello stimolo-risposta di derivazione comportamentistica. La dimensione simbolica della cultura veniva così messa in ombra a vantaggio di una concezione puramente strumentale.
Sulla nave che lo porterà in America. novembre 1938
La natura della magia Alla concezione strumentale della cultura, cioè al funzionalismo "allargato" di Malinowski. è da ricondurre anche la sua teoria della magia. Magia, scienza e religione (Magie. Science and Religion) venne pubblicato postumo nel 1948. Questo lavoro si fondava in gran parte sulle osservazioni compiute da Malinowski al tempo delle sue ricerche alle Trobriand, dove egli aveva studiato la "magia agricola" degli abitanti di queste isole. Tali osservazioni avevano dato origine alla pubblicazione di un'altra grande opera etnografica, l giardini di corallo e la loro magia (Coral Gardens and their Magie), del 1935. Respinte le teorie evoluzioniste che vedevano nella magia un goffo tentativo di manipolare lo svolgersi dei fenomeni naturali, Malinowski propone una spieg azione delle pratiche magiche che ne individua la particolare natura nella risposta emotiva ad una situazione non controllabile. La magia non è «anteriore» alla religione o alla scienza, ma è un «possesso primordiale che afferma il potere autonomo dell'uomo di creare dei fini desiderati» (Malinowski 1976:81). La magia consta così di pratiche rituali che tendono a sopperire sempre e ovunque l'incapacità dell'uomo di controllare gli elementi della propria esperienza operativa. La magia, dice Malinowski, «mette l'uomo in grado di compiere con fiducia i suoi compiti importanti, di mantenere il suo equilibrio... La funzione della magia è quella di ritualizzare l'ottimismo dell'uomo» (ivi: 93). Nonostante la duplice natura del suo funzionalismo, Malinowski resta il primo antropologo ad aver esplicitamente sostenuto che nella pratica di ricerca tutti i dati dell'esperienza etnografica coesistono ad un pari livello di significazione, e che quindi non possono essere investiti di un senso qualora siano considerati indipendentemente dal contesto globale nel quale sono inseriti.
[T10.6]
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La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski
La rivoluzione etnografica di Bronislaw Malinowski Teoria del cambiamento culturale È stato spesso rimproverato a Malinowski di non aver mai voluto tenere conto della dimensione storica nello studio della società e della cultura, giudicando superfluo ogni accostamento allo studio delle società primitive da un punto di vista diacronico. Secondo Malinowski la conoscenza dell'origine temporale di un certo tratto culturale non poteva illuminarci sul significato che esso assume nel contesto di una totalità socioculturale. La dinamica del cambiamento culturale (Dynamics of Culture Change) fu un tentativo di pensare le trasformazioni in un contesto caratterizzato dalla compresenza di culture diverse. Pubblicato anch'esso postumo nel 1961, il libro di Malinowski costituisce uno dei primi studi di antropologia applicata. Nel 1934 Malinowski ebbe l'occasione di visitare l'Africa australe, dove già in quegli anni il contatto tra bianchi e neri faceva già «problema». In questo lavoro Malinowski produsse un'immagine del contatto e del cambiamento culturale che, in sintonia con la sua opzione funzionalistica, rifiutava I'idea di «scambi» e «prestiti» culturali e metteva l'accento sulla "novità" dell'entità culturale che si generava come effetto dell'incontro tra società e culture differenti. Invece di considerare questa "terza entità" culturale come quella che si impone ormai tanto a quella del dominato quanto a quella del dominatore, egli la considerava come una terza cultura che veniva ad affiancarsi alle altre due. Per usare una analogia desunta dalla topologia diremo che l'effetto dell'incontro tra cultura nera e cultura bianca è per Malinowski situabile nello spazio d'intersezione di due insiemi. Questa concezione del cambiamento culturale è stata criticata dagli stessi scolari di Malinowski per i quali essa non possiede né i caratteri di una vera teoria sociologica, né risponde al postulato centrale del funzionalismo stesso. Infatti un «contatto» di culture come quello che avveniva in quegli anni in Sudafrica non poteva essere pensato come semplice generatore di un"`ulteriore" entità culturale, ma doveva piuttosto essere studiato tenendo conto del fatto che tanto la cultura "bianca" quanto quella "nera" venivano ad essere inserite in un contesto generale differente da quello specifico ed originario: entrambe contribuivano a formare una nuova totalità culturale o, come potremmo dire, una nuova situazione storica.
zioni dell'antropologo siano continuamente influenzate dalle interpretazioni degli informatori, era del resto in sintonia con la sua stessa teoria della scienza antropologica, una teoria, come egli stesso ebbe a scrivere, che «nata sul campo, conduce ancora nuovamente sul campo» (Malinowski 1932: XXIX).
Dopo Malinowski L'influenza teorica esercitata da Malinowski sui giovani ricercatori provenienti da tutti i paesi sotto sovranità britannica fu molto forte fin verso la metà degli anni 1930. Essa andò attenuandosi in seguito alla partenza di Malinowski per gli Stati Uniti e all'arrivo di Radcliffe-Brown ad Oxford nel 1937. L'antropologia britannica degli anni 1940 e dei due decenni successivi verrà infatti a costituirsi e a svilupparsi in dipendenza dall'influsso teorico di quest'ultimo (v. Cap. 15). Nonostante ciò la "fortuna" di Malinowski doveva rivelarsi più duratura, soprattutto da quando la pubblicazione del suo Diario aprì, alla fine degli anni 1960, questioni epistemologiche di estrema attualità. Malinowski ebbe un impatto assai grande sulle generazioni successive e ciò che più influenzò i suoi scolari e i giovani antropologi fu il suo stile etnografico. Probabilmente il fascino dell'etnografia malinowskiana consiste nel senso di "incompiutezza" e al tempo stesso di «plausibilità» che i libri dello studioso polacco sanno trasmettere al lettore: i libri di Malinowski non hanno quasi nulla di «assertivo», non danno cioè l'impressione di voler trasmettere delle informazioni «definitive». L'approccio etnografico di Malinowski, venato dal sospetto che le interpreta-
Bibliografia critica
Clifford J., I frutti puri impazziscono. Etnografia, letteratura e arte nel secolo XX. Bollati, Torino 1993 (1988) [cap. 31. •Fith R. (a cura ), Man and Culture. An Evaluation of the Work of Bronislaw Malinowski. Routledge & Kegan Paul, London 1957. Geertz C., Opere e vite. L'antropologo coree autore. Il Mulino, Bologna 1990 (ed. or. 1988). Kuper A., Anthropologists & Anthropolog y . The British School, Penguin, London 1983. Lombard J. , L'anthropologie hritannique contemporaine, P.U.F., Paris 1972. Panoff M. , Bronislaw Malinowski, Payot, Paris 1972. Stocking G.W. (a cura), Malinowski, Rivers, Benedict and Others. the University of Winsconsin Press, Madison and London 1986.
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L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura
Capitolo
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Una teoria dell'origine e dello sviluppo della cultura veniva invece proposta da Sigmund Freud (1856-1939) in Totem e tabù (Totem und Tabu) del 1913, il primo, e il più celebre, di una serie di lavori in cui il fondatore della psicoanalisi avrebbe volto la propria attenzione alla dimensione culturale: dopo Totem e tabù sarebbero apparsi infatti Psicologia delle masse e analisi dell'Io (1921), Il futuro di un'illusione (1927), Il disagio della civiltà (1930), Mosè e il monoteismo (1939). Le suggestioni dell'antropologia
Proprio allo scadere del XIX secolo un nuovo sapere, la psicoanalisi, aveva rivelato l'esistenza di una vita psichica inconscia che, lungi dal costituire un elemento "connaturato" al genere umano, si presentava come il risultato di uno scontro tra le pulsioni e gli istinti dell'individuo da un lato, e le forze della cultura dall'altro. Con l'espressione antropologia psicoanalitica si è soliti indicare tutti i tentativi di applicazione della teoria psicoanalitica ai fenomeni riguardanti la sfera della cultura e del comportamento sociale, anche in riferimento a contesti non occidentali. Tra coloro che si sono dedicati, o si dedicano, a studi di antropologia psicoanalitica (oggi integrata dall'etnopsichiatria) vi sono analisti che hanno sviluppato interessi per i fenomeni culturali, antropologi che si sono accostati alla psicoanalisi e psicoanalisti e psichiatri che hanno combinato la pratica analitica con l'esperienza di ricerca sul campo. Il contributo della psicoanalisi si è rivelato importante per gli sviluppi che, in sede di ricerca antropologica, si sono avuti riguardo ai temi della costituzione della personalità individuale e dei processi di conflitto e adattamento degli individui all'ambiente socio-culturale. L'antropologia psicoanalitica costituisce anche il punto di partenza della moderna riflessione condotta dall'etnopsichiatria sui disturbi e le sindromi rivelate da soggetti trapiantati in contesti culturali estranei.
Psicoanalisi e società primitive: Sigmund Freud La dimensione "psicologica" fu sin dagli inizi un elemento costitutivo del discorso antropologico. Gli evoluzionisti, da Tylor a Frazer, l'avevano privilegiata nella loro ricostruzione delle fasi aurorali del pensiero magico e religioso; Lévy-Bruhl aveva sviluppato una teoria della "mentalità primitiva" che metteva in evidenza una dimensione psicologica radicalmente diversa da quella del "civilizzato"; Rivers, infine, aveva studiato i processi costitutivi della percezione tra i "primitivi". Nessuna di queste esperienze, sia che si trattasse di pura speculazione come nel caso di Frazer e di Lévy-Bruhl, sia che fosse il frutto di una ricerca empirica come nel caso di Rivers, era però approdata ad una teoria complessiva in grado di spiegare coerentemente l'origine e lo sviluppo della cultura, nonché l'adattamento dell'individuo a quest'ultima.
Sigmund Freud aveva pubblicato, nel 1899, L'interpretazione dei sogni (Traumdeutung), un'opera nella quale veniva presentata una visione innovativa della dinamica psichica inconscia. Quando era ormai una figura di fama mondiale, Freud decise di instaurare un "dialogo" con l'antropologia, intervenendo con la stesura di un libro che, a quanto pare, egli scrisse sull'onda di una suggestione letteraria, quella che egli stesso dichiarò di aver ricevuto dalla lettura de II ramo d'oro di Frazer. Nel corso dei suoi soggiorni romani, «cedendo ad un rinnovato incantesimo», e forse visitando il lago di Nemi dai cui boscosi dintorni aveva inizio "l'odissea antropologica" raccontata da Frazer, Freud concepì l'idea di scrivere Totem e tabù (Jones 1962, II: 424-435). Di Frazer, Freud non aveva letto soltanto Il ramo d'oro, ma anche altre opere tra cui il monumentale Totemismo e esogamia (Totemism and Exogamy) del 1910, quello che probabilmente lo stimolò più direttamente sul piano scientifico. Freud aveva anche letto Robertson Smith e la sua teoria del sacrificio comunitario contenuta in Conferenze sulla religione dei sentiti. Totem e tabù doveva rappresentare un tentativo di risposta a due domande, entrambe particolarmente pressanti tra gli antropologi di quel periodo: che cosa è il totemismo? E inoltre, che relazione ha il totemismo con l'esogamia? L'assassinio primordiale e la nascita della cultura Freud si avvicinò allo studio del mondo primitivo attraverso la prospettiva dell'antropologia e della biologia evoluzioniste. La tesi di Freud relativa all'origine del totemismo e dell'esogamia può essere riassunta nel modo seguente. Nell'orda primitiva, una immagine ripresa da Darwin, il padre detiene il controllo assoluto delle femmine, madri dei suoi figli. Lo scenario iniziale è quindi quello di una "famiglia" al cui interno si sviluppa il conflitto tra il padre e i figli che, alla fine, per potersi accoppiare con le femmine del gruppo, lo uccidono e lo divorano. All'idea di una umanità originariamente dedita al cannibalismo Freud affianca quella di una famiglia nucleare di natura poligamica. Quest'ultima non si accordava con l'idea di "promiscuità originaria" postulata dagli evoluzionisti. La promiscuità originaria non avrebbe potuto essere il punto di partenza per spiegare l'insorgenza di quel conflitto "edipico" che Freud poneva alla base della propria teoria psicoanalitica. Lo scopo di Freud era infatti quello di collocare all'origine dell'uomo in quanto essere culturale, quel «complesso d'Edipo», ovvero il desiderio inconscio del figlio di sopprimere il padre per potersi congiungere con la propria madre, che egli considerava come l'elemento e il nodo fondamentale al tempo stesso della dinamica psichica. Dopo l'uccisione e il pasto cannibalico i figli, colpiti da rimorso, avrebbero idealizzato la figura del padre e. come autopunizione, si sarebbero vietate le ma-
Sigmund Freud (1910)
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L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura dri e le femmine del gruppo in generale dando così origine, al tempo stesso, alle istituzioni dei totemismo e dell'esogamia. L'autointerdizione nei confronti delle donne del gruppo (esogtania) e la proibizione di uccidere e di cibarsi dell'animale totemico, figura traslata del padre e simbolo del gruppo (totemismo), affondavano così le proprie radici nel sentimento di colpa dei figli e nella constatazione della totale inutilità dell'atto commesso: nessuno di loro infatti avrebbe mai potuto aspirare a prendere il posto del padre padrone delle femmine dell'orda. In Totem e tabù Freud volle fondare in senso antropologico la teoria psicoanalitica. Infatti il sottotitolo di questo libro spiega che si tratta di uno studio sulle concordanze nella vita psichica dei selvaggi e dei nevrotici. L'«ambivalenza emotiva» Dopo aver trattato, nella prima parte del libro, dell"`orrore dell'incesto", Freud affrontò infatti ciò che egli definì il tema dell'«ambivalenza emotiva» collegata al tabù. Tabù è un "adattamento" della parola polinesiana rapo, un termine che potrebbe essere tradotto con "proibito", "pericoloso". Per i polinesiani è tapu la persona del re e tutto quanto, persone e cose, entra in contatto con lui. Sempre in Polinesia, in certe isole, il padre è tapu per il figlio che può avvicinarsi ad esso solo con molta circospezione. Nella letteratura antropologica tabù designa ormai in pratica ogni genere di proibizione che deriva dalla natura "speciale" di qualcosa o qualcuno, o dal fatto che questo qualcosa o qualcuno è entrato in contatto con una persona o un oggetto considerati come "contaminanti". Freud fa osservare come "Chi affronta il tabù partendo dalla psicoanalisi... conosce persone che si sono create individualmente analoghi divieti ai quali si adeguano con lo stesso rigore con cui i selvaggi rispettano i tabù comuni alla loro tribù o alla loro comunità" (1913: 35). Freud non sembra però convinto dell'analogia selvaggio-nevrotico che parrebbe invece sottostare all'intero impianto del libro. Infatti egli scrisse che "questo tentativo [interpretare il fenomeno etnologico tramite la psicoanalisi] richiede... un avvertimento: l'analogia tra tabù e malattia ossessiva può essere puramente esteriore, valida per ciò che attiene alla forma dei due fenomeni senza per questo toccarne la sostanza" (ibidem). Nevrotici e selvaggi
[T11.1]
II pari rigore con cui i nevrotici e i selvaggi osservano i tabù autoimposti da un lato, e i tabù socialmente sanzionati dall'altro, induce Freud a considerare tale rigore come il prodotto di ciò che egli chiama ambivalenza. Nella nevrosi ossessiva il tabù nasce come proibizione introiettata da un individuo nell'infanzia. La proibizione però rimuove (inibisce), non elimina la pulsione. Quest'ultima, ora relegata nell'inconscio, non cessa di essere attiva ma è contrastata dalla proibizione introiettata culturalmente. Si crea così ciò che Freud chiama «fissazione psichica» da cui può derivare un comportamento nevrotico: «Il carattere principale della costellazione psicologica che si è fissata nel modo descritto sta in ciò che si potrebbe definire il comportamento ambivalente dell'individuo verso un certo oggetto... Egli vuol sempre eseguire questa azione [proibita] e al tempo stesso ne ha orrore» (ivi: 38). In maniera analoga al nevrotico, i selvaggi osservano i tabù nei confronti di azioni, cose o persone che essi in realtà deciderebbero compiere o possedere: «Queste popolazioni hanno quindi un atteggiamento ambivalente verso i loro
L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura tabù; a livello inconscio niente sarebbe più gradito loro che trasgredirli, ma hanno anche il timore di farlo... La forza magica attribuita al tabù è riconducibile alla capacità di indurre gli uomini in tentazione. Essa si comporta come un contagio perché l'esempio è contagioso e perché nell'inconscio le voglie proibite si spostano su oggetti diversi. L'espiazione per la violazione del tabù mediante una rinuncia dimostra che alla base del rispetto del tabù c'è una rinuncia» (ivi: 40-43). Allo scopo di sostenere la validità della sua ipotesi, Freud attinse dalla letteratura etnografica, e in particolare da Frazer, esempi relativi a tre specie di tabù, e cioè quelli riguardanti il trattamento dei nemici uccisi, dei sovrani e dei morti. Riguardo al trattamento dei nemici uccisi Freud fece rilevare come mentre l'uccisore è considerato tabù dai membri della sua comunità, il morto viene "placato" con doni e preghiere. L'uccisore è tabù fino a quando, trascorso un certo periodo di tempo, viene sottoposto a cerimonie purificatrici che lo reintegrano nella comunità (si tratta dei "riti di passaggio" messi in luce da Van Gennep, v. Cap. 7). Questo atteggiamento nei confronti del nemico ucciso e dell'uccisore mette in risalto una situazione di ambivalenza nei confronti del defunto. Questi è fatto oggetto di ostilità ma, inconsciamente, anche di ammirazione e di rimorso, il che rende ragione tanto del tentativo di pacificarlo quanto dell'imposizione del tabù sull'uccisore. Riguardo ai tabù nei confronti dei sovrani Freud avanza l'ipotesi secondo cui essi sarebbero fatti oggetto di grande venerazione e di tabù proprio perché investiti di una ostilità inconscia da parte dei sudditi, ostilità che si scatena nei loro confronti quando il corso degli eventi non è favorevole alla comunità. Questa dinamica può essere messa in parallelo a quella relativa ai soggetti nevrotici: «Un altro aspetto del comportamento dei primitivi verso i loro sovrani richiama alla memoria un processo generalmente diffuso nelle nevrosi, che emerge però apertamente nel cosiddetto "delirio di persecuzione". In quest'ultimo caso l'importanza di una determinata persona viene straordinariamente accresciuta, i suoi poteri esagerati fino all'inverosimile, per poterle addossare più agevolmente la responsabilità di tutto ciò che contraria l'ammalato. A ben vedere i selvaggi non si comportano diversamente con i loro re quando attribuiscono loro poteri sulla pioggia o sul sole, sul vento o sul tempo, per poi deporli o ucciderli perché la natura ha deluso le loro aspettative...» (ivi: 57-58). Infine, in relazione ai tabù nei confronti dei morti, Freud non è disposto ad accettare la spiegazione secondo cui le proibizioni e le restrizioni che colpiscono coloro che sono stati in contatto con il defunto siano dovute alla "paura del morto". «Che i morti esercitino un dominio possente, lo sappiamo; ci stupirà forse di apprendere che sono trattati come nemici» (ivi: 59). Che cosa spinge i selvaggi, si chiede Freud, ad attribuire «ai loro cari morti un tale mutamento di sentimenti? Perché ne fecero dei dèmoni?» (ivi: 67). Anche in questo caso la risposta di Freud fa riferimento ad un atteggiamento di ambivalenza emotiva. Anche qui il tabù dei morti è visto come prodotto del contrasto tra la pena cosciente e la soddisfazione inconscia per la morte avvenuta. I superstiti inconsciamente negano di aver mai nutrito sentimenti ostili nei confronti del defunto e di conseguenza tali sentimenti vengono attribuiti proprio al morto. «Se questa è l'origine dell'animosità degli spiriti – conclude Freud – è ovvio che proprio i superstiti più prossimi al morto, e un tempo i più amati, debbano temerla più di chiunque altro» (ivi: 69).
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Edipo alle Trobriand? Le scoperte di Malinowski Malinowski lesse le opere di Freud quando si trovava alle isole Trobriand. Nel corso delle sue ricerche Malinowski prese così in considerazione l'idea di verificare, all'interno di un contesto culturale molto diverso da quello europeo, la validità di alcune teorie psicoanalitiche. Collocando il complesso di Edipo in un passato remoto e nel contesto di una situazione originaria, Totem e tabù conferiva un carattere universale ad un "complesso" che Freud aveva delineato in sede di analisi clinica, ossia nella cura delle nevrosi. Il complesso di Edipo era il risultato di una dinamica tipica della relazione madre-bambino-padre modellata sulla forma che questa relazione triadica assumeva nella famiglia monogamica europea, dove il padre detiene l'autorità sui membri della famiglia. La famiglia trobriandese Anche presso i trobriandesi la famiglia era di tipo monogamico. Ma la famiglia trobriandese sembrava presentare una diversa modalità di strutturazione dei rapporti affettivi. Poiché infatti la società trobriandese conferiva un valore socialmente dominante al principio della discendenza matrilineare, l'autorità sulla prole di una coppia veniva esercitata, come accade sempre in presenza di questo tipo di discendenza, dal fratello della madre, cioè dallo "zio materno". L'asse figlio della sorella-fratello della madre assumeva così i connotati di un rapporto di autorità esercitato dallo zio sul nipote, mentre l'asse figlio-padre veniva a configurarsi come un tipo di relazione improntato a confidenza e ad aperta affettuosità, oltre che totalmente disinteressato sul piano economico, dato che la trasmissione dei beni, e dell'eredità (comprendente saperi tecnici e magici) avveniva dallo "zio materno" al "nipote". L'assoluta preminenza della linea materna era sottolineata dalla concezione che i trobriandesi avevano del ruolo del "padre" nella procreazione. Il marito della madre, come sarebbe più giusto chiamarlo, non aveva, secondo la concezione locale, un ruolo diretto nella nascita della prole di sua moglie, poiché i nuovi nati erano considerati la reincarnazione di spiriti di defunti della linea di discendenza materna. Questo fatto giustificava quindi il ruolo secondario del "marito della madre" nella gestione dei beni e dell'esercizio dell'autorità sui figli di quest'ultima. Oltre a ciò, Malinowski aveva potuto rilevare che alle Trobriand il distacco del bambino dalla madre avveniva in tempi più lunghi rispetto a quelli caratteristici della cultura europea; che tale distacco assumeva tinte meno traumatiche che in Occidente; e che il desiderio di compiere l'atto incestuoso sembrava investire più la figura della sorella che non quella della madre. Il complesso matriarcale e la non universalità del complesso di Edipo [T11.2] Veniva così delineandosi ciò che Malinowski, in Sesso e repressione sessuale tra i
selvaggi (Sex and Repression in Savage Society) del 1927 definì un "complesso matriarcale", una specie di versione spostata del complesso di Edipo, caratterizzato dal «desiderio di unirsi alla sorella e di uccidere lo zio materno». Ciò che Malinowski metteva in discussione non era tanto la pertinenza teorica della configurazione edipica: piuttosto, egli mirava a controbattere l'estensione di tale configurazione a tutte le società umane, e i tentativi compiuti dall'ortodossia freudiana per riprodurre a tutti i costi, anche all'interno di contesti socioculturali molto diversi da quello euroccidentale, la situazione conflittuale presentata da Freud come "originaria".
L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura Lo studio di Malinowski era destinato ad avviare, fin dalla sua pubblicazione, una lunga discussione tra antropologi e psicoanalisti relativa alla universalità o meno del "complesso di Edipo". Alcuni psicoanalisti fecero ad esempio osservare che la teoria trobriandese della non funzione paterna nella procreazione era un caso clamoroso di rimozione della figura del padre, fatto che per loro confermava l'esistenza di un complesso edipico forse ancora più forte che in Occidente. Ma ci fu anche chi, schierandosi con Malinowski, sostenne che non si può sostenere l'esistenza di qualcosa a partire soltanto dalla mancanza di segni manifesti della sua presenza... Comunque sia, Malinowski, con le sue osservazioni, aveva mostrato che la dinamica psichico-affettiva individuale andava considerata alla luce dei rapporti sociali e di autorità tipici di una società e non di un'altra.
La cultura come «nevrosi collettiva»: Géza Roheim Géza Roheim (1891-1953) rappresenta, nella tradizione dell'antropologia psi-
coanalitica – un'espressione da lui stesso coniata – la linea di continuità con le posizioni freudiane al riguardo del `problema culturale". Roheim, ungherese di nascita, entrò in analisi con Sandor Ferenczi, allievo di Freud, negli anni immediatamente precedenti la prima guerra mondiale. Tra il 1928 e il 1930, dopo essere intervenuto con saggi e articoli che sviluppavano alcune delle idee di Freud contenute in Totem e tabù, intraprese ricerche sul campo in Australia, Nuova Guinea e in Nordamerica. Roheim, che si trasferì negli Stati Uniti alla vigilia della seconda guerra mondiale, ci ha lasciato un'imponente mole di lavori tra i quali il saggio Origine e finzione della cultura (The Origin and Function of the Culture) del 1943, che può essere considerato come il testo di sintesi più rappresentativo dell'intera sua opera. La nevrosi collettiva Sviluppando il parallelismo stabilito da Freud in Totem e tabù tra nevrosi individuale e certi aspetti del comportamento dei "selvaggi". Roheim cercò di interpretare la cultura come "nevrosi collettiva". In un'opera del 1934, L'enigma della Sfinge (The Riddle of the Sfinx), Roheim cercò di dimostrare, sulla base delle proprie ricerche sul campo. come le culture primitive potessero essere considerate elaborazioni di risposta ai pericoli generati da conflitti psichici non risolti tipici dell'età infantile. In Origine e funzione della cultura. pubblicato quasi dieci anni dopo. Roheim cercò di sviluppare l'idea secondo la quale la cultura sarebbe un edificio costruito allo scopo di realizzare, in forme traslate, le fantasie della nostra infanzia. «Sembra – scrive Roheim – che cresciamo solo per rimanere bambini» (Roheim 1972:41). La sublimazione Centrale è, a questo riguardo, l'utilizzazione che Roheim fa del concetto di sublimazione, mediante il quale Freud aveva indicato il processo di produzione di oggetti culturali «superiori» (scienza, arte, poesia, letteratura ecc.) come effetto di uno spostamento di energie istintuali. La sublimazione è ciò che consente l'edificazione della cultura, non solo delle istituzioni maggiori, ma anche di quelle sfere di attività che sono connesse con la produzione dei beni materiali. In Origine e funzione della cultura Roheim dedicò infatti una lunga trattazione a questo argomento, cercando di dimostrare che le attività produttive possono essere ricondotte a motivazioni radicate nell'inconscio. Egli concludeva in
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questo modo: «La vita delle nostre classi medie... offre una vasta possibilità di scelta o di professione, ma in ultima analisi qualunque professione un uomo (o una donna) possano scegliere noi ritroviamo, come elemento latente della scelta, la situazione infantile». Così, secondo Roheim, il soldato «riproduce le sue fantasie di distruzione del corpo o il suo complesso di Edipo», mentre colui che si dedica alla professione di avvocato «fa una professione della sua lotta endopsichica». Chi si dedica alla scienza «è un voyeur che strappa i segreti di Madre Natura», chi intraprende la carriera di pittore «continua a giocare con le sue feci», mentre lo scrittore di narrativa è qualcuno che «non rinuncia ai suoi sogni diurni». In questi casi, conclude Roheim, «chiamiamo il processo sublimazione» (Roheim 1972: 85). Per Roheim la sublimazione è però anche una specie di compromesso che evita il raggiungimento della soddisfazione immediata dei propri desideri: «La nostra teoria – egli scrive – è che... una sublimazione sia una via di mezzo fra la posizione narcisistica e quella erotico-oggettuale, un punto di stabilità per l'oscillazione della libido (desiderio sessuale)» (ivi: 91). Ora, questo compromesso costituito dalla sublimazione si configura come una risposta alla paura di essere "lasciati soli", una paura derivata da quella infantile di «essere lasciati soli al buio». La sublimazione, che di fatto viene a coincidere con la cultura, è dunque un meccanismo elaborato al duplice scopo di realizzare i sogni infantili e, al tempo stesso, di realizzarli in maniera tale da non soddisfarli direttamente, pena la solitudine dell'individuo: «Il grande pericolo contro cui il genere umano ha sviluppato la cultura è la perdita oggettuale, l'essere lasciato solo al buio» (ivi: 91).
L'antropologia junghiana di John Layard L'antropologia psicoanalitica non ebbe, come punto di riferimento, soltanto le teorie di Freud. Non mancarono infatti quegli antropologi che si richiamarono alle teorie elaborate da altri psicoanalisti. Un antropologo che si accostò alle teorie psicoanalitiche in una prospettiva diversa da quella freudiana fu l'inglese John Lavard (1891-1974). Lavard fu allievo di Rivers che, negli ultimi anni della sua vita, aveva fatta propria la prospettiva diffusionista, anche se non nella versione estremistica che di essa diedero in Gran Bretagna Elliot Smith e Perry (v. Cap. 8). L'antropologia britannica degli anni compresi tra il 1920 e l'inizio del secondo conflitto mondiale fu dominata invece, come s'è visto, dal funzionalismo e, negli anni 1920 in particolare, dal funzionalismo di Malinowski. Questo fatto non giovò a Layard, il quale rimase sempre una figura piuttosto marginale nel panorama dell'antropologia britannica. L'incontro con la psicoanalisi Layard si accostò alla psicoanalisi nel corso degli anni 1930, quando erano ormai trascorsi già diversi anni dalla conclusione delle proprie ricerche sull'isola di Malekula, nelle Nuove Ebridi (Melanesia sud-orientale). Egli si era recato a Malekula con Rivers e qui, mentre Rivers proseguiva le sue ricerche altrove, egli aveva soggiornato tra il 1914 e il 1915. Fu tuttavia all'insegna della psicologia di Jung (di cui fu paziente) che Layard portò a compimento la stesura dei risultati del lavoro sul campo a Malekula, la cui pubblicazione avvenne soltanto molti anni dopo, nel 1942, Gli uomini di pietra di Malekula (The Stone Men of Malekula), un'opera in cui le ipotesi diffusioniste sull'origine delle istituzioni locali si intrecciavano con la descrizione dei riti di iniziazione, era il prodotto della duplice influenza di Rivers e di Jung.
L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura
La posizione di Jung
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Malekula Il distacco di Carl Gustav Jung (1875-1961). psicoanalista svizzero allievo di Freud, dalle teorie di quest'ultimo (distacNuova co che è all'origine della maggiore divaricazione oggi esisten' CaIedon z .,• te all'interno della comunità psicoanalitica), può essere ricondotto ai seguenti punti fondamentali: a) la critica nei conOCEANO PACIFICO fronti della interpretazione sessuale di tutti i simboli data da Freud; b) una concezione della libido (pulsione del desiderio) come espressione a livello psichico dell'energia vitale (e non solo sessuale come invece è per Freud); c) l'idea secondo NUOVIEla\_A cui le nevrosi non sono solo il frutto di turbe psichiche infantili (come invece riteneva Freud), ma anche, e soprattutto, il risultato di una dialettica anche attuale tra l'individuo e il mondo. Particolare si- ytalekula gnificato assume, in questo senso, il concetto di processo di individuazione, inteso come una perenne trasformazione dell'essere umano nel continuo rapporto col proprio inconscio; d) l'utilizzazione, in senso epistemologico, di concetti estranei all'apparato teorico freudiano, tra cui quelli di inconscio collettivo e di archetipo. Questi due concetti sono intimamente correlati in quanto l'archetipo, o immagine primordiale, è sempre collettivo e mai individuale; l'archetipo è una specie di "precipitato" storico della memoria collettiva, di cui abbiamo traccia nei temi mitologici i quali sono probabilmente «comuni a tutte le razze e a tutte le epoche» (Jung 1977:70). L'archetipo si esprime attraverso un simbolo.
Il rito maki È all'insegna di queste idee fondamentali della psicologia junghiana che Layard affrontò l'analisi del rituale maki da lui osservato a Malekula. Il maki era un rito per mezzo del quale, secondo la teoria indigena, un uomo, sacrificando maiali maschi, si appropriava della "forza" della vittima e si metteva al riparo, dopo la morte, dalla distruzione ad opera di uno spirito preposto alla sua persona. I sacrifici erano ripetuti parecchie volte nel corso della vita di un individuo, fino al momento in cui quest'ultimo riusciva a conquistarsi la benevolenza degli antenati e il diritto di raggiungerli nel mondo dei defunti. Ogni sacrificio, comportante l'identificazione della vittima sacrificale con il sacrificante, comportava una specie di rinascita sociale da parte dell'interessato, il quale assumeva un nuovo nome. Il ciclo rituale si componeva di due parti, ciascuna caratterizzata dall'erezione di un monumento in pietra. Nel corso della prima parte si aveva l'erezione di un monumento simile ai menhir dell'Europa preistorica: una pietra oblunga piantata verticalmente nel terreno (e che freudianamente, e non junghianamente, Layard associò al sesso maschile). Nella seconda parte del rito il monumento eretto era una piattaforma, anch'essa di pietra, simile al dolmen (altro monumento preistorico europeo che Layard associò, in contrapposizione al menhir, al sesso femminile). Si deve notare che fu proprio la presenza di questi monumenti megalitici a spingere Rivers, e di conseguenza Layard, a intraprendere ricerche nella regione, in sintonia con una concezione diffusionista delle culture "megalitiche" d'origine asiatica e mediorientale. L'individuazione È nell'interpretazione del rito maki che Layard adottò la prospettiva della psicoanalisi junghiana. Secondo Layard infatti il maki altro non era che una forma
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L'antropologia psicoanalitica e lo studio della cultura particolare di quel lungo processo di individuazione grazie al quale – secondo Jung – il soggetto mira a stabilire un equilibrio dinamico tra la propria vita e il proprio inconscio. Il maki era d'altronde concepito dagli stessi abitanti di Malekula come una continua rinascita. Layard colloca l'idea di rinascita nel sacrificio compiuto nei pressi del dolmen – a cui egli attribuisce una valenza simbolica femminile – e nell'isolamento post-rituale seguito dall'assunzione di un nuovo nome. II raggiungimento della "completezza", cioè la realizzazione del processo di individualizzazione, era centrato su ciò che si potrebbe chiamare il "simbolismo del vulcano". Caratteristica degli abitanti di Malekula era infatti l'idea che gli esseri umani, una volta defunti, e purché ritualmente pronti, raggiungessero il vulcano dell'antistante isola di Ambrym. Layard vide nel vulcano il simbolo della relazione madre-bambino, della sessualità maschile e di quella femminile. Nel vulcano, simbolo della totalità, ritornava Ia persona ricomposta nella sua scissione, e questa ricomposizione era ottenuta grazie alla ripetizione dei riti maki. Come abbiamo già detto, il clima intellettuale in cui veniva a cadere il lavoro di Layard non era dei più propizi. L'ostracismo a cui era stata destinata l'opera diffusionista del suo maestro Rivers fu, in questo senso, decisivo. Ma non si può negare che l'oblio in cui cadde The Stone Men of Malekula dipese, come è stato scritto, dal fatto che «nel contesto accademico ed intellettuale britannico [il] processo di consolidamento disciplinare sembrava essere ribadito dall'insistenza sui confini, dal marcare un campo intellettuale ben definito entro il quale i concetti potessero essere definiti con precisione e le metodologie affinate, allo scopo di rendere conto di una particolare sfera di fenomeni... [e] ... con le sue analisi circoscritte della parentela, dell'organizzazione politica e sociale prometteva un rigore ed una obiettività che contrastavano in maniera palese con le ipotesi congetturali del diffusionismo e della psicologia dinamica, tanto nella versione freudiana che in quella junghiana» (McClancy 1986: 67-68).
Capitolo
12 Gli studi etnologici in Italia
Nel periodo posteriore alla prima guerra mondiale, la tradizione italiana degli studi etnologici vide l'affermazione della prospettiva diffusionista elaborata dalla scuola austro-tedesca (v. Cap. 8). Negli anni 1920 e 1930 il più autorevole rappresentante di essa fu Padre Wilhelm Schmidt, il quale ebbe anche modo di insegnare in Italia, presso l'Università Pontificia diffondendo le proprie teorie soprattutto presso i missionari, ma anche negli ambienti accademici del nostro paese. All'indirizzo diffusionista aderì anche, sebbene fortemente influenzato dalla prospettiva comparativa di derivazione evoluzionista, Raffaele Pettazzoni (1883-1859), storico delle religioni e senza dubbio uno dei maggiori promotori degli studi etnologici nel nostro paese. La sua opera più nota, L'onniscienza di Dio, lavoro di sintesi del 1955 in cui venivano riprese alcune ricerche pubblicate negli anni 1920 e 1930, era un grande studio comparativo sulla concezione che tutti i popoli hanno di un "essere supremo". Si trattava comunque di un'opera comparativa, e non diffusionista e tutto sommato degenerazionista come quella di Padre Schmidt.
Gli studi etnologici: l'Africa Orientale Italiana
Bibliografia critica Bock P.K., Continuities in Ps ychological Anthropology, Freeman and Company, San Francisco 1980. Burguignon E., Antropologia psicologica, Laterza, Roma-Bari 1983 (ed. or. 1979). Fabietti U., «Introduzione a B. Malinowski,,, in Sesso e repressione sessuale tra i selvaggi, Bollati,Torino 2000 (ed. or. 1927). Paul R., «Did the Primeval Crime took Place?., in Ethos, IV, 1976. Spiro M., Oedipus in the Trohriands, The University of Chicago Press, Chicago 1982. Stocking G.W. (a cura), Malinowski, Rivers; Benedict and Others. The University of Winsconsin Press, Madison and London 1986. Suarez-Orozco M.M., Spindler G. and L. (a cura), The Making of Psycholgical Anthropogy 11.. Harcourt Brace. Fort Worth,TX, 1994.
La tradizione etnologica in senso stretto. quella contrassegnata dallo studio dei popoli extraeuropei, ebbe dei rappresentanti di un certo rilievo negli africanisti e linguisti Carlo Conti-Rossini ed Enrico Cerulli, e non fu in grado di esprimere tutte le sue potenzialità con studiosi pur promettenti, come l'africanista Renato Boccassino (1904-1975) allievo di Malinowski a Londra. Conti-Rossini e Cerulli erano entrambi studiosi dell'area est-africana ed etiopica in particolare. Influenzati dalla prospettiva storico-giuridica, oltre che da una formazione di tipo classico, essi concepirono lo studio delle culture extraeuropee come entità storiche, aprendosi quindi, come in pratica la totalità degli etnologi italiani di allora, alla prospettiva storico-culturale. Gli studi sulle popolazioni dell'allora Africa Orientale Italiana, condotti da Conti-Rossini tra l'inizio del Novecento e gli anni 1920, e quelli di Cerulli, effettuati tra gli anni 1920 e 1930, furono più del tipo della survey etnografica che non della monografia, un genere che in quel periodo si era già ormai affermato soprattutto nell'ambito dell'antropologia angloamericana. Perché l'etnologia italiana produca un lavoro monografico nel senso usuale
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Gli studi etnologici in Italia
Gli studi etnologici in Italia
del termine bisognerà attendere sino al 1940, quan^ do Vinigi Grottanelli (1912Ma r Medife 1992) pubblicò I Mao, uno ^^aneo Tnpdi • Nessanr . studio di una popolazione Msur^ . . •. ,Grenaio dell'area ovest-etiopica ai ^ aca confini con l'attuale Sudan. Questa monografia, frutto LIBIA EGITTO del lavoro di ricerca della Missione etnografica nel Uòllega occidentale promossa dalla Reale Accade. mia d'Italia, consiste, nonoA sinistra: stante la brevità del soggiorno di Grottanelli sul campo (marzo-maggio 1939), in Cirenaica. un resoconto "completo" della cultura e della società mao. In questo libro non A destra: Africa orien- mancano concessioni all'idea di una "missione civilizzatrice" da compiere, in Africa, da parte dell'Italia, ma queste erano appunto "concessioni" alla temperie tale italiana politica allora incombente sul nostro paese. Tuttavia I Mao erano una ricostruzione accurata e puntuale della cultura materiale, spirituale, e dell'organizzazione familiare di questi gruppi marginali rispetto a quelli dominanti in Etiopia divenuta da poco colonia italiana. Non mancarono, nel periodo compreso tra le due guerre, studi sui territori coloniali italiani in Nordafrica e in Eritrea, anche prosecuzione di indagini intraVinigi prese in anni anteriori al primo conflitto mondiale. Tali studi non furono opera Grottanelli di etnologi, ma di funzionari e militari italiani operanti nelle colonie. Si trattava (a destra) in Etiopia di studiosi con una formazione di tipo giuridico o storico. Per loro iniziativa ven(1939) nero condotte parecchie e importanti ricerche sul regime fondiario e il diritto consuetudinario vigente tra le popolazioni dell'Eritrea, della Libia e della Cirenaica in particolare. Furono anche condotte ricerche sull'organizzazione delle confraternite religiose musulmane della regione, dalle quali partì, fin dagli anni Venti, una forte opposizione alla presenza italiana in Libia (Agostini 1922-23; Colucci 1942; Giglio 1932; Savarese 1926-28). ^6ícil^a
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La virata razzista dell'antropologia sotto il fascismo Non v'è dubbio che uno degli elementi "frenanti" lo sviluppo di una etnologia italiana sul modello di quella britannica e francese fu proprio il regime fascista. Ciò sembra paradossale se si pensa che fu proprio il fascismo a incrementare le di-
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mensioni dell'avventura coloniale italiana. Di fatto il fascismo andò però producendo una specie di "asservimento" dell'etnologia alle proprie "tesi" della superiorità della civiltà romano-latina e al diritto, da parte di quest'ultima, di "civilizzare" le popolazioni "inferiori". Contrariamente al colonialismo britannico, francese, belga ecc., brutali nei metodi ma che miravano a risultati "concreti" senza badare troppo al contorno ideologico, il colonialismo dell'Italia fascista ebbe sempre bisogno di "darsi un tono" tramite l'ideologia della "latinità" fino a scimmiottare, nel momento dell'alleanza con la Germania hitleriana, i teorici tedeschi della superiorità della "ra pa ariana". L'VIII Convegno Volta del 1938 Da questo punto di vista gli Atti dell'VIII Convegno "Alessandro Volta" tenutosi a Roma nell'ottobre del 1938 sotto gli auspici della Reale Accademia d'Italia rivelano una situazione desolante. Le relazioni degli Italiani, tra i quali pur non mancavano nomi di illustri e stimati scienziati, rispecchiano un sostanziale asservimento all'ideologia fascista e oscillano tra il più aperto razzismo e l'atteggiamento paternalistico da assumere nei confronti della "razza negra". Notevoli furono le acrobazie compiute da Padre Schmidt, il quale era presente in veste di rappresentante del Vaticano, per sostenere che i Galla dell'Etiopia, in quanto cristiani, meritavano la «giusta considerazione da parte di autorità coloniali e missionarie» (Lospinoso 1975-76: 160). Unica eccezione, limpida, quella di Raffaele Pettazzoni, il quale non entrò nel merito di questioni di "antropologia coloniale" ma si attenne alla pura discussione teorica, cercando una mediazione tra la scuola diffusionista alla quale egli stesso aderiva, e la prospettiva funzionalista (Lospinoso 1975-1976). Malinowski, invitato, mandò una relazione (Malighetti 2001). Presenti al convegno, erano anche alcuni antropologi fisici, tra i quali Lidio Cipriani, uno dei teorici della "razza pura". Nella sua relazione, a proposito della politica coloniale italiana in Africa egli parlava di «una inferiorità mentale irriducibile nei sudditi di colore, connessa a cause razziali di cui sarebbe pericoloso contaminarsi» (cit. in Tomasello 1984: 137). Il «Manifesto della razza» Affermazioni di questo genere non erano che il corollario di quanto stava avvenendo in quello stesso anno, il 1938, con la collaborazione dello stesso Cipriani e di altri antropologi fisici: la messa a punto del Manifesto della razza. Questo Manifesto doveva costituire la base ideologico-giuridica della politica razzista condotta dai fascisti e rivolta, in primo luogo, ma non solo, contro gli italiani di fede ebraica. Troppo spesso si dimentica, e non solo dalle parti in qualche modo "interessate", che l'Italia fascista fu all'avanguardia nell'elaborazione di disposizioni razziste in materia di politica coloniale (Sòrgoni 1998). L'allineamento del fascismo alla politica della Germania nazista favorì inoltre, per opportunismi inconfessabili, l'istituzione, presso le università italiane, sia private che pubbliche, di cattedre di "Biologia generale delle razze umane". Intanto, il Museo Nazionale di Antropologia ed Etnologia di Firenze, fondato da Paolo Mantegazza nell'Ottocento e arricchitosi successivamente delle preziose collezioni di Lamberto Loria (v. Cap. 6), era divenuto, per dichiarazione dello stesso Cipriani, «il principale centro in Italia in cui si elaborano idee razziste». Il Convegno Volta sembra segnare un punto di arresto e al tempo stesso di arretramento degli studi antropologici ed etnologici in Italia. Con esso veniva in
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Gli studi etnologici in Italia
Gli studi etnologici in Italia qualche modo sanzionata una decadenza a cui gli anni della seconda guerra mondiale avrebbero inferto il colpo definitivo. Non era quindi da questo settore di studi che ci si poteva attendere una spinta. uno stimolo per la ripresa nel campo disciplinare considerato nel suo complesso. Come ha scritto lo stesso Grottanelli, il più autorevole rappresentante di quanto di meglio è giunto sino a noi della tradizione etnologica del periodo compreso tra le due guerre, «I tragici eventi della guerra non solo portarono in pratica tutta la ricerca scientifica a un punto morto, ma agirono anche negativamente sull'antropologia italiana, in senso psicologico, sia screditando l'utilità di studi che, non importa se giustamente oppure no, il pubblico considerava come connessi con la politica coloniale, sia scoraggiando le vocazioni incipienti» (Grottanelli 1977: 597). Fu quindi così che alla parte "meno compromessa" della comunità scientifica, quella che faceva capo più alla tradizione demologica che non a quella etnologica in senso stretto, si trovò assegnato il compito di rilanciare da noi questo campo di studi. Paradossalmente ciò avvenne entro un orizzonte culturale che, come abbiamo visto, aveva contribuito secondo alcuni a frenare lo sviluppo di questo tipo di ricerche, e cioè lo storicismo crociano il quale aveva però continuato a rappresentare, durante la dittatura fascista, un punto di riferimento per molti degli intellettuali liberali e democratici nel periodo della dittatura.
Un innesto filosofico: Ernesto de Martino Durante gli anni della dittatura fascista molti intellettuali italiani erano rimasti al di fuori della politica o avevano mostrato una adesione "di facciata" al regime. Essi tuttavia si schierarono decisamente contro quest'ultimo quando si ebbe la promulgazione delle leggi razziali e ancora di più allorché l'Italia entrò in guerra a fianco della Germania. Tra questi intellettuali vi è Ernesto de Martino (19081965) che non a torto rappresenta, secondo alcuni, la figura di maggiore rilievo all'interno della tradizione italiana. Napoletano, allievo dello storico Omodeo, de Martino si avvicinò alle idee filosofiche di Benedetto Croce (1866-1952) che, proprio negli anni del fascismo, aveva mostrato un dignitoso distacco nei confronti del regime, costituendo il punto di riferimento per tutti quegli intellettuali che nutrivano sentimenti più o meno ostili nei confronti della dittatura. De Martino, che volle sempre definirsi "etnologo", esordì nel 1941 con un libro originale in quanto, pur di impianto filosofico, aveva ad oggetto il pensiero etno-antropologico sviluppatosi nel corso dei decenni precedenti in Europa. La critica al naturalismo [T12.2] Naturalismo e storicismo nell'etnologia era un'opera che, nelle intenzioni del suo autore doveva iniziare «la radicale riforma del sapere etnologico» alla luce della filosofia crociana la cui «metodologia... che ha dato frutti così copiosi in molti domini del sapere storico, non ne ha dato alcuno, finora, in quello della storia delle civiltà a noi più lontane» (de Martino 1941: 8). Che cosa si trattava di riformare, all'interno del sapere etnologico, e in che cosa consisteva l'applicazione della metodologia crociana alla storia delle civiltà a noi più lontane? De Martino mise in atto una forte critica di ciò che egli chiamò «naturalismo». Con questo termine egli indicava l'atteggiamento teorico caratterizzante tanto la scuola francese di ispirazione durkheimiana (v. Capp. 5 e 7). quanto quella storico-culturale austro-tedesca (v. Cap. 8), sia la prospettiva funzionalista (v. Cap. 15). Ciò che de Martino rimproverava a questi indirizzi era un atteggiamento di riduzione dei fenomeni culturali tipici dei popoli «primitivi» a oggetti suscettibili di essere indagati con metodi incapaci di restituirci la dimensione
«storica» di quelle esperienze. Qui la polemica di de Martino non era però indirizzata verso le teorie sociologiche durkheimiane o struttural-funzionaliste in quanto poco propense a proiettare le loro analisi su di uno sfondo storico – cosa che di fatto avveniva a vantaggio di un'analisi di tipo «sincronico» dei «fatti» sociali e del dato etnografico. La polemica di de Martino si incentrava piuttosto su quella che per lui era la carenza fondamentale di questi indirizzi: l'incapacità di pensare l'esperienza storica dei "primitivi" all'interno di una filosofia dello spirito che fosse in grado di restituircene il senso. Con Benedetto Croce, de Martino pensava che non fosse possibile ridurre l'esperienza umana ad una indagine di tipo "scientifico", in quanto le scienze erano – per Croce – delle pseudo-conoscenze destinate ad avere semplici applicazioni pratiche e utilitaristiche, mentre la vera conoscenza era solo ed esclusivamente "storica"; Ma la storia era, per Croce, "storia dello spirito", della conquista, da parte dell'uomo, di livelli di teoricità e di autoconsapevolezza sempre maggiori.
Continuità e differenze rispetto allo storicismo crociano Lo storicismo crociano produceva così un doppio effetto sulle "scienze dell'uomo": da un lato negava loro qualunque pretesa di vera scientificità in quanto tali scienze non aspiravano ad una conoscenza "storicizzata" (dal punto di vista della storia dello spirito); dall'altro negava ai «primitivi», alle «plebi», al «canagliume» qualunque ruolo attivo nella storia (dello spirito) e quindi bandiva qualunque seria predisposizione conoscitiva nei loro confronti. Diventava così comprensibile la critica al naturalismo dell'antropologia francese e britannica, e al tempo stesso si giustificava il proposito di estendere la filosofia crociana oltre il suo ambito tradizionale, cioè a quelle forme di esperienza storica che, quasi per definizione, erano state escluse da Croce dalla storia dello spirito. In Naturalismo e storicismo dunque, de Martino seguiva Croce nella sua metodologia, ma al tempo stesso se ne allontanava per il progetto che si proponeva di attuare, e che in effetti attuerà, concentrando la propria attenzione di studioso sull'universo culturale delle "plebi" del Mezzogiorno d'Italia. Ci sembra opportuno sottolineare che lo spazio teorico all'interno del quale si muove de Martino, ossia lo storicismo crociano, non coincide con quello storicismo di tradizione tedesca che aveva costituito la premessa dell'antropologia di Boas (v. Cap. 4) e che costituirà – come vedremo (v. Cap. 22) – la base della prospettiva ermeneutico-interpretativa più recente. Il particolarismo storico di Boas traeva ispirazione dallo storicismo, ma si trattava in questo caso dello storicismo di derivazione diltheyana. Per Dilthey scienze della natura (Naturwissenschaften) e scienze dello spirito (Geisteswissenschaften) avevano, pur nella loro radicale separazione, eguale statuto conoscitivo. Inoltre per Dilthey, la conoscenza storiografica è conoscenza particolare (idiografica) di un'epoca storica e degli uomini che ad essa appartengono. Le posizioni demartiniane non costituivano una critica del «naturalismo» in difesa di un approccio idiografico alla realtà socioculturale, ma volevano piuttosto ricondurre la storia dei popoli "lontani" nel filone della storia dello spirito, così come questa era intesa da Croce: cioè come conoscenza della progressione dello spirito verso livelli teoretici, etici ed estetici "superiori".
Storicismo e filosofia della cultura In Naturalismo e storicismo de Martino si limitò più a confutare le posizioni dei "naturalisti" che non a proporre analisi specifiche nella prospettiva dello storicismo crociano. Benché si sia sottolineato da più parti come de Martino sia anda-
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Gli studi etnologici in Italia
Gli studi etnologici in Italia to, nel corso degli anni, prendendo le distanze dalle posizioni di Croce (Cases 1973; Clemente 1985), resta il fatto che l'anno di pubblicazione di questo libro – il1941– costituisce un punto di osservazione privilegiato per comprendere il clima intellettuale entro il quale veniva accolto nel nostro paese il sapere antropologico.
particolare'. E... le pratiche sono immediatamente archiviate per l'eternità con una operazione burocratica che nel gergo impiegatizio di questo ministero si chiama 'integrazione di tutti i risultati nel sistema della ragione'» (de Martino 1977: 399).
La «Scuola filosofica di Milano»
Due diverse forme di storicizzazione
Negli anni 1930, completamente al di fuori dalle tradizioni demologica ed etnologica, l'antropologia aveva ricevuto un'accoglienza "filosofica" di segno contrario a quella riservata dal crocianesimo alle scienze sociali in genere. A Milano, sotto la guida del filosofo Antonio Banfi si costituì un gruppo di giovani studiosi aperti alle suggestioni del pensiero francese e tedesco. Questo gruppo, o "Scuola di Milano", come è stato anche chiamato (Papi 1994), venne a costituire negli anni 1930 l'unica "alternativa filosofica" alle interpretazioni "italiane", di Benedetto Croce e di Giovanni Gentile, della tradizione di pensiero risalente a Hegel. Tra i punti di riferimento di questo gruppo, accanto a Hegel e a Kant, vi erano figure come quelle di Georg Simmel e di Ernest Cassirer le cui opere filtrarono, nel linguaggio e nello stile della "Scuola di Milano", la sociologia e l'antropologia di Durkheim e di Lévy-Bruhl. Furono infatti queste figure a caratterizzare, negli anni tra le due guerre, lo sviluppo della "filosofia della cultura" di Antonio Banfi. Si trattava di una filosofia attenta alle "forme della vita" e suscettibile, per questo fatto, di oggettivarsi in pratiche conoscitive specifiche tra cui, appunto, l'antropologia.
Per la filosofia della cultura si trattava di storicizzare – ma non in senso crociano – le esperienze culturali riconducendole ad un ambito specifico. L'idealismo crociano era invece alla radice del modo in cui de Martino guardava sia all'esperienza etnologica in quanto tale, sia alla riflessione in questo campo di ricerca. De Martino si rendeva conto che, per lo storicismo cui egli aderiva, l'etnologia rappresentava una novità, una sfida, «un cimento sconosciuto per la filosofia crociana» (de Martino 1941: 15), e si rendeva anche conto che il suo tentativo di "annessione" del sapere etnologico alla filosofia di Croce andava in senso contrario all'ideologia umanistico-etnocentrica di quest'ultimo oltre che alla sua concezione dell'agire storico, delle plebi e dei primitivi, dove queste ultime due "categorie" di umanità erano accomunate nella loro sostanziale incapacità di produrre valori culturali autonomi e significativi. De Martino cercava di promuovere l'apertura dello storicismo crociano al mondo primitivo senza però mettere in discussione l'impianto filosofico della prospettiva storicista. Le posizioni crociane di de Martino si riflettevano anche nella concezione stessa del mondo primitivo, definito come "prevalenza della fantasia nell'ambito della teoreticità e della mera vitalità nell'ambito della prassi" (ivi: 205). Era pertanto comprensibile la reazione di Cantoni che vedeva riprodursi, nel libro di de Martino, una problematica di carattere idealistico tendente a concepire come oggettivazione dello spirito quelle che per lui erano invece esperienze ed universi culturali dotati di una loro autonomia e coerenza specifiche. Cantoni, inoltre, non era disposto a condividere il giudizio di de Martino su LévyBruhl e la scuola di Durkheim, da lui accusati di «motivazione romantica e decadentistica» e di «malsano amore per il primitivo» (de Martino 1942). Ciò che per Cantoni rappresentava infatti l'emergenza di un campo di ricerca autonomo, svincolato da una metafisica unificatrice e totalizzante, costituiva per de Martino un vero e proprio rischio di de-storicizzazione del mondo primitivo. A Lévy-Bruhl de Martino rimproverava infatti di aver elaborato una teoria della mentalità primitiva che faceva dei popoli "lontani" una umanità doppiamente distante, la cui esperienza storica non poteva essere compresa in quanto ne risultava una umanità «capace di rappresentazioni e di esperienze che non è possibile rievocare in noi se non in minima parte e molto imperfettamente, un'umanità che come tale non può diventare per noi oggetto di storia» (de Martino, 1941:23). Allo stesso modo veniva liquidata La filosofia delle forme simboliche di Ernest Cassirer (1923-1929), lavoro che sembrava a de Martino «problema mal posto... idealmente dipendente dalla mancata elaborazione di una compiuta filosofia dello spirito che deduca le categorie secondo una logica speculativa» (ivi: 196). Cantoni, invece, utilizzava e problematizzava proprio quegli elementi della filosofia di Cassirer (per esempio filosofia del mito) che, unitamente a quelle provenienti dall'opera di Lévy -Bruhl. consentivano di produrre un tentativo di rilettura della crisi morale e culturale di quegli anni senza per cadere in una metafisica riduttivistica. Cantoni insisteva infatti sui temi di una coerenza strutturale del pensiero primitivo (Lévy-Bruhl), di uno spazio mitico del simbolico al cui inter-
Il dibattito su «Studi filosofici» Nello stesso anno in cui veniva pubblicato Naturalismo e storicismo di de Martino vide la luce anche Il pensiero dei primitivi di Remo Cantoni (1912-1973), filosofo allievo di Banfi. Come il libro di de Martino anche quello di Cantoni arrivava, si potrebbe dire, "dall'esterno", nel senso che non era il prodotto di alcuna "scuola etnologica" italiana. Esso si poneva in linea con quelle teorie di LévyBruhl che de Martino stigmatizzava come inadeguate alla comprensione storica del mondo primitivo. A questo contrasto di prospettiva, evidente nelle due opere, seguì la discussione che de Martino e Cantoni avviarono su Stadi filosofici, la rivista di «filosofia contemporanea» fondata da Banfi nel 1940. Qui de Martino e Cantoni ebbero un vivace, e per noi molto significativo, scambio di opinioni rivelatore del diverso atteggiamento dei due autori nei confronti della riflessione etnologica. L'istanza centrale della "filosofia della cultura" banfiana era rappresentata da una idea critica di razionalità intesa come esigenza rivolta a comprendere, nella loro specificità, campi di sapere molto diversi tra loro. Questo atteggiamento coincideva con il rifiuto di attribuire al discorso filosofico una qualunque capacità di assestarsi su posizioni definitive. Non ponendosi mai dal punto di una verità assoluta, la filosofia della cultura si proponeva come un continuo ricominciamento del discorso su campi diversi del sapere. De Martino, da posizioni crociane, non poteva condividere questa prospettiva. In una nota rimasta inedita per diversi anni, de Martino rimproverò infatti a Cantoni di ostentare una specie di "olimpico distacco" da ciò che invece per lui rappresentava un problema coinvolgente, ossia l'oggetto del conoscere. Scriveva infatti de Martino: «L'amico Remo Cantoni concepisce la filosofia come una sorta di ministero in cui le pratiche relative alle varie fedi umane sono benevolmente accolte con un sorriso premuroso e subito emarginate con l'annotazione 'prospettiva
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Gli studi etnologici in Italia
Gli studi etnologici in Italia no si sarebbero trovate «in germe» tutte le forme e le strutture spirituali prima che queste raggiungessero una propria autonomia (Cassirer); e anche sul tema della «perennità della mentalità primitiva» la cui forma o struttura non è facilmente isolatile nella sua essenza e che, scriveva Cantoni, «noi stessi sentiamo viva nella nostra cultura» (Cantoni 1941a: 342). È su questo punto che de Martino dimostrò il più forte dissenso nel dibattito con Cantoni. La ripresa di Lévy-Bruhl e Cassirer da parte di Cantoni venne interpretata da de Martino non come un tentativo di affermare la sostanziale autonomia del pensiero «primitivo» in contrapposizione alle annessioni e alle svalutazioni delle filosofie eurocentriche, ma come il tentativo di edificare artificiosamente «una nuova forma di plasmazione spirituale» (de Martino 1942). De Martino non accettava cioè l'idea di una "contemporaneità", di una «convivenza» del pensiero mitico e del pensiero razionale. De Martino protestava contro ciò che ai suoi occhi poteva sembrare la legittimazione di un pensiero "irrazionalista". Il timore di de Martino dipendeva in realtà dal mito razionalista astratto di cui era partecipe l'idealismo crociano, per cui egli ricostituiva volentieri la sequenza rettilinea del processo grazie al quale, egli dice, «da maghi che eravamo siamo diventati ciò che siamo» (de Martino 1942: 352); mentre per Cantoni il passaggio dalla pseudo-scienza alla scienza era contrassegnato da un "salto", non da una evoluzione lineare. Bilancio di un'epoca Dobbiamo tuttavia chiederci se l'ostilità di de Martino verso tutto ciò che si presentava come non riconducibile alla unità dello "Spirito" non fosse anche l'effetto di un malinteso dovuto alla situazione politico-ideologica di quel periodo. De Martino aveva recepito, ad un certo punto, il messaggio liberale della cultura crociana, e in Naturalismo e storicismo aveva giustamente stigmatizzato come irrazionaliste certe posizioni assunte da alcuni etnologi tedeschi e austriaci nei confronti del "falso problema" dei rapporti tra razza e cultura (1941: 206-207). Ma la filosofia idealistica di Croce, chiusasi e insterilitasi nel provincialismo della circolazione culturale di quegli anni, poteva produrre indebite generalizzazioni e far sì che il giudizio di irrazionalismo potesse venire esteso ad autori e ad opere che invece si muovevano in spazi di sapere per loro natura non dominabili da alcuna filosofia di tipo idealista. «Sarebbe semplicistico voler affermare che il pensiero di Croce abbia bloccato lo sviluppo dell'area degli studi sociali nel nostro paese» (Clemente 1985:37). Tuttavia si è pur parlato, come fatto saliente del dibattito dei primi anni del XIX secolo, di trionfo «dell'opposizione dello "storicismo idealistico" al "naturalismo positivistico" e più in genere alle ricerche socio-antropologiche e comparative» (Cirese 1973: 180). Sarebbe forse più giusto dire che lo storicismo crociano si oppose, per propria costituzione, a quelle correnti intellettuali "naturalistiche" che nel mondo anglosassone e in Francia avevano avuto una funzione stimolante e fondante un settore autonomo della ricerca antropologica. Negli anni del dopoguerra de Martino iniziò la sua riflessione etnologica vera e propria, sostenuta dalle ricerche etnografiche da lui condotte nelle regioni dell'Italia meridionale. L'etnologia extra-europea, invece, attraversò un periodo di forte crisi che, come notava appunto Grottanelli, avrebbe inciso irrimediabilmente sullo sviluppo delle discipline antropologiche per molti decenni_
Bibliografia critica AA.VV., L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Laterza, Roma-Bari 1985.Angeli, AA.VV, Dal museo al terreno. L'etnologia francese e italiana degli anni Trenta,
Milano 1987.
Grottanelli V., «Ethnology and/or Cultural Anthropology in Italy:Traditions and Developments", Current Anthropology, 18,4, Dec. 1977. La ricerca folklorica, N.13,1985 (fascicolo dedicato a E. de Martino). Lospinoso M., «Etnologia e fascismo: il caso del convegno "Volta"», in La critica sociale, inverno 1975-76. Guerini e Papi F., Vita e filosofia. La Scuola di Milano: Banfi, Cantoni, Paci, Preti, Associati, Milano 1990. Sòrgoni B., Parole e corpi. Antropologia, discorso giuridico e politiche sessuali interraziali stella colonia Eritrea (1890-1941), Liguori, Napoli 1998.
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L'etnologia francese tra le due Guerre
129 Parigi: il museo di etnografia del Trocadéro nel 1930
Capitolo
13 L'etnologia francese tra le due Guerre
Negli anni compresi tra l'ultimo scorcio dell'Ottocento e lo scoppio della prima guerra mondiale, la riflessione francese sulle società "primitive" era rimasta legata ad una dimensione per lo più intellettualistica e speculativa. All'origine di ciò vi era la stretta derivazione degli studi etnologici da quelli filosofici e sociologici, oltre che uno scarsó sviluppo dell'etnografia. Se si scorrono le fonti etnografiche utilizzate da autori come Durkheim, Hertz, Lévy-Bruhl o Mauss, quelle in lingua francese risultano piuttosto rare, mentre prevalgono nettamente quelle in lingua inglese e tedesca. Alle soglie del primo conflitto mondiale la "scuola" di ispirazione durkheimiana stava tuttavia preparandosi al "balzo etnografico" anche per l'alacrità di Mauss che, pur non avendo mai effettuato ricerche sul campo, fu sempre uno strenuo assertore della pratica etnografica. Molti degli scolari di Durkheim, che avrebbero senz'altro dato un contributo all'etnografia, scomparvero però nel corso del conflitto, privando così l'etnologia francese di molte delle sue forze migliori.
Parigi: il palazzo del Trocadéro. sede del Musée de l'Homme
L'africanistica e Marcel Griaule Nei primi due decenni del Novecento l'etnografia era stata comunque praticata, specialmente da alcuni funzionari dell'amministrazione coloniale, in Africa occidentale subsahariana. I lavori di etnolinguistica condotti da Maurice Delafosse (1870-26) e quelli etnologici di Louis Tauxier (1871-1842), gettarono le basi dell'africanistica, il settore di studi che, almeno dal punto di vista etnografico, ha avuto maggior seguito in seno alla tradizione francese. La Missione Dakar-Gibuti Verso la fine degli anni 1920 l'insegnamento di Marcel Mauss e le attività dell'Institut d'ethnologie (fondato nel 1925) posero effettivamente le condizioni per l'avvento di una nuova fase nella storia dell'etnologia. Come molte altre cose considerate "di interesse nazionale", la conoscenza delle culture primitive divenne, in Francia, un `affare di stato". Nel 1931 infatti il Parlamento francese votò, sollecitato da eminenti studiosi, una legge con la quale veniva istituita, e fi-
nanziata, la "Missione Dakar-Gibuti". Compito della missione era quello di raccogliere dati sulle lingue e sulle culture delle regioni africane attraversate, dalla costa dell'Atlantico a quella dell'Oceano Indiano. Ma l'obiettivo principale consisteva nel riportare oggetti d'uso rituale e comune per le collezioni del Musée d'ethnographie du Trocadéro di Parigi che, di li a qualche anno, sarebbe stato ribattezzato Musée de l'Homme (1937). La missione durò circa due anni, dalla primavera del 1931 all'inverno del 1933, e si concluse con un enorme successo, sia scientifico che di pubblico. L'etnologia intesa come studio delle società primitive "sul campo" veniva consacrata definitivamente grazie all'intraprendenza dei nuovi etnologi e alla instancabile preveggenza di Mauss.
L'etnologia francese tra le due Guerre
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Direttore della Missione Dakar-Gibuti era Dogon Marcel Griaule (1898I Timbeuctru 1956), un allievo di Mauss convertitosi all'etnologia dopo gli studi di matematica. Di questo "viaggio" guidato da Griaule, il quale aveva già compiuto una breve ricerca in Etiopia ne 1928, l'etnografo e scrittore surrealista Michel Leiris (1901-1990) ci ha lasciato un magnifico quanto problematico resoconto con Africa fantasma (Afrique fant8me) del 1934. Africa fantasma è un libro per molti aspetti precorritore di alcune problematiche contemporanee poiché «è il primo tentativo antropologico di coordinare letteralmente l'osservazione di se stessi e quella degli altri, e la prima esperienza di un'intimità antropologica che non si riduca a` un naufragio nella mitizzazione dell'altro» (Augé 1997:77). Durante una delle tappe del viaggio l'équipe di Griaule prese contatto con una popolazione destinata ad attirare su di sé l'attenzione di numerose generazioni di ricercatori: i dogon. Nel corso di varie missioni Griaule e i suoi collaboratori studiarono, soprattutto da un certo momento in poi, i miti e la cosmologia di questo popolo di agricoltori abitanti nello stato attuale del Mali.
MISSIONE DAKAR- GIBUTI
Dogon e il percorso della spedizione DakarGibuti
Michel Leiris scrive il diario della spedizione
Lo studio della cosmogonia dogon Nel 1938 Griaule pubblicò Maschere dogon (Masques Dogons), uno studio estremamente analitico di un rituale e delle relativa simbologia che aveva al centro le maschere. Fin da questo lavoro Griaule concepì l'idea di una interconnessione tra simbologia, mito, rito e sacrificio dogon, formandosi una concezione delle cosmologie primitive come sistemi coerenti ed autonomi di pensiero. Tale idea raggiunse la sua formulazione più esplicita in uno dei libri di antropologia più letti di tutti i tempi, Dio d'acqua (Dieu d'eau) del 1948. Dio d'acqua è un resoconto della cosmogonia dogon ricostruita nello stile dell'intervista con un anziano cacciatore cieco, Ogòtemmeli, incontrato nel corso dell'ultima missione di Griaule in Africa. Scritto in un linguaggio non specialistico, Dio d'acqua, contiene quello che per Griaule era "il pensiero dogon" degno, a suo dire, del pensiero filosofico dell'antichità e materia di utili riflessioni da parte dei cristiani. La
L'etnologia francese tra le due Guerre presentazione della cosmologia dogon fu non solo l'occasione di dimostrare come un popolo considerato primitivo possedesse una cosmologia di notevole sofisticazione, ma consentì anche a Griaule di formulare una teoria del rapporto tra sistema mitico e vita sociale. L'organizzazione sociale, la vita produttiva e cerimoniale, i rapporti tra i sessi ecc. apparvero infatti a Griaule come qualcosa che non poteva essere spiegato senza la conoscenza di quella complessa cosmologia. Negli atti ordinari infatti gli esseri umani (i dogon) non farebbero che riattualizzare il mito, inteso come sistema di ideeguida compiuto e strutturato. Gli artigiani dogon, nel loro operare, riproducono ad esempio l'ordine primigenio illustrato dal mito, e così fanno i gruppi sociali quando si oppongono sul modello delle contrapposizioni primordiali illustrate dal mito stesso. In Griaule predomina infatti l'idea che il mondo mitico e la cosmologia costituiscano un complesso d'idee del tutto autonomo e che la realtà sociale discenda, in qualche maniera, dalla rappresentazione che gli attori sociali hanno di quel complesso di idee. Bisogna allora studiare il mito e la cosmologia di un popolo per poterne comprendere l'organizzazione sociale e la vita in genere. Di fronte alla cosmologia dogon Griaule ritenne infatti di trovarsi in presenza di qualcosa che le ricerche precedentemente condotte non avevano svelato che in minima parte. La conoscenza di questa società poteva infatti essere ottenuta solo studiandone la cosmologia. Tuttavia, alla conoscenza della cosmologia si poteva accedere solo se "iniziati". L'«iniziazione» di Griaule Quella che è stata chiamata appunto I'"iniziazione di Marcel Griaule" (Clifford 1993), e che nelle intenzioni dell'etnologo francese doveva costituire la chiave d'accesso alla cosmologia e alla società dogon, fu ottenuta in una serie di interviste con il "saggio" Ogòtemmeli. Oggi ci si chiede se, proprio per il fatto di essere stato in contatto per così lungo tempo con Ogòtemmeli e altri anziani dogon, Griaule non abbia finito per scrivere ciò che i dogon volevano che lui scrivesse. Si può cioè legittimamente sospettare che le autorità dogon, capito l'interesse che Griaule stava elaborando per le loro idee e le loro rappresentazioni mitiche, si siano sforzati di far apparire la propria cosmogonia come un sistema coerente e il più possibile simile ad una "religione". I dogon studiati da Griaule non erano ignari dei bianchi e della loro religione. Essi non erano, neppure negli anni 1930, un popolo isolato come invece potrebbe sembrare leggendo le opere di Griaule.
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Griaule e Leiris presso un tempio dogon
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L'etnologia francese tra le due Guerre L'epistemologia di Griaule In parziale contrasto con la tradizione dukheimiana, Griaule rivendicò la priorità degli studi monografici su quelli comparativi, convinto che solo una conoscenza approfondita di una società e del suo sistema di pensiero potesse contribuire alla costruzione di un sapere "completo" del repertorio culturale dell'umanità di cui erano depositarie le società in via di rapida trasformazione. Tale concezione dell'etnologia sfociava in una visione dell'umanità come costituita da gruppi tra loro distinti, ognuno provvisto di una cultura fondata su principi differenti da quelli degli altri. L'idea dell'etnologia come disciplina fondata sullo studio in profondità delle singole culture rappresentò, per l'etnologia francese, qualcosa che potrebbe essere paragonato al particolarismo storico di Boas in America e al funzionalismo di Malinowski in Gran Bretagna, i quali avevano, seppure partendo da premesse differenti, orientato gli studi antropologici nella direzione di una ricerca circoscritta ai singoli contesti culturali e sociali. Correlata a questa idea "particolaristica" di Griaule è quella per cui lo studio delle culture "altre" deve mirare a cogliere i sistemi cosmologici così come essi sono concepiti dai nativi. L'ideale conoscitivo di Griaule investiva indirettamente la questione del tipo di atteggiamento che l'antropologo doveva avere nei confronti del proprio oggetto (questo problema era già stato posto, seppure in termini diversi, da Malinowski), nel senso che lo studio dei sistemi cosmologici e di pensiero differenti da quello occidentale non deve avvenire secondo una lettura fondata sulle categorie dell'osservatore, ma in base alla coerenza interna che tali sistemi possiedono. Il metodo dell'etnografia
[T13.2]
Il lavoro che Griaule dovette intraprendere per ottenere le informazioni che sarebbero confluite in Dio d'acqua fu senza dubbio lungo e difficile. Ciò spiega perché egli abbia dedicato parecchi corsi universitari alla metodologia della ricerca e in particolare all'inchiesta orale. Un suo lavoro, Il metodo dell'etnografia (Méthode de l'ethnographie), venne pubblicato nel 1957. un anno dopo la sua morte sulla base delle lezioni da lui tenute alla Sorbona (dove era diventato professore nel 1942). È un libro che testimonia dell'acutezza, nonché della spregiudicatezza di Griaule in materia. Egli considerava infatti l'inchiesta etnografica come "un'operazione strategica". Le metafore utilizzate da Griaule per descrivere le procedure del lavoro etnografico mettevano in rilievo la tortuosità dell'inchiesta; il carattere sempre lacunoso delle dichiarazioni dell'informatore; il continuo forzo dell'etnografo per "rimettere in pista" l'indigeno che, invece, tenderebbe a divagare; il valore che tali divagazioni, unitamente ai "vuoti di memoria" dell'informatore, hanno per l'etnografo in quanto "indizi" di altri fatti sociali. Griaule, bisogna ricordare, fu un sostenitore di una specie di "etnografia d'urgenza" con il compito di registrare fatti sociali e culturali destinati a scomparire rapidamente sotto l'influenza della cultura occidentale. Non sappiamo se Griaule abbia scritto ciò che i dogon volevano che lui scrivesse. Però, tenuto conto del fatto che Griaule fu sempre molto sensibile alla questione della scelta dell'informatore, oltre che un teorico della sua "manipolazione", un simile esito della sua ricerca tra i dogon costituirebbe davvero un fatto paradossale. Ad ogni modo un finale simile costituirebbe una chiara dimostrazione di come l'inchiesta etnografica, ben lontana dall'essere una semplice operazione di "raccolta dei dati", sia qualcosa che implica una complessa serie di
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relazioni di potere tra etnologo e indigeno, come appunto lo stesso Griaule aveva ben compreso. Le religioni e i sistemi di pensiero africani Griaule e la sua équipe lavorarono tra i dogon per parecchi anni, dalla metà degli anni 1930 alla metà degli anni 1950. Dopo la morte di Griaule le ricerche proseguirono per opera di altri etnologi, tra i quali vanno ricordate le figure di Germaine Dieterlen (1903-1999), Denise Paulme (1909-) - e della, stessa figlia di Griaule, Genéviève CalameGriaule (1924-). Le opere dei suoi collaboratori rappresentano, abbiamo detto, uno sforzo mirante a offrire un quadro coerente del pensiero e della società dogon. Essi affronteranno infatti, nella prospettiva inaugurata da Griaule, quelli che saranno chiamati i "sistemi cosmologici" e le "religioni" africane, in un tentativo di ricomposizione di universi mitici e religiosi caratteristici delle culture indigene dell'Africa occidentale francese. Sempre a partire dalla fine degli anni 1930, alcuni antropologi britannici, e specialmente Edward E. Evans-Pritchard, imposteranno in termini di coerenza logica interna ad un pensiero come quello degli Azande (Africa centrale) il problema della spiegazione delle credenze nella stregoneria, nella divinazione e nella magia (v. Cap. 15). La prospettiva di Griaule, che certamente aveva il merito di rivolgere uno sguardo "dal di dentro" ai sistemi di pensiero dei popoli africani, apparve limitata quando, in una nuova temperie storica come quella della decolonizzazione, l'attenzione di molti antropologi francesi preferì volgersi ai problemi della trasformazione sociale e del cambiamento culturale. Questo è il motivo per cui l'etnologia di Griaule e di molti suoi allievi andò incontro a critiche simili a quelle mosse nei confronti della prospettiva funzionalista. Essa fu accusata di "congelare" le culture in forma di "sistemi di pensiero" e "strutture sociali" avulse dal contesto storico, e di sottrarle in maniera artificiosa alle trasformazioni che segnano invece il divenire delle società e delle culture.
L'oceanistica e Maurice Leenhardt Una figura di grande rilievo dell'etnologia francese della prima metà del Novecento è quella di Maurice Leenhardt (1878-1954). Leenhardt fu il virtuale fondatore, in Francia, dell'etnologia oceanistica, un campo di ricerca battuto sino agli anni della prima guerra mondiale soprattutto dagli antropologi di scuola britannica e tedesca. Leenhardt era un missionario protestante che, giovanissimo, fu inviato nei primi anni del secolo in Nuova Caledonia, una grande isola della Melanesia a nord-ovest della Nuova Guinea.
Marcel Griaule sviluppa le fotografie prese sul campo
Maurice Leenhardt con la moglie (1916 c.a.)
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Tradurre la Bibbia ti,
isole Figi
A contatto con gli abitanti della Nuova Caledonia, i canaki, Leenhardt sviluppò i propri interessi etnologici. In quanto Nuova missionario, egli doveva trovare il metodo per evangelizzare Caledonia la popolazione locale. Tuttavia, al contrario di altri missionari i quali tentavano di forzare o di persuadere i nativi ad abbanOCEANO PACIFICO donare i loro culti, le loro credenze e i loro riti, Leenhardt preferì "mettersi sulla scia" della tradizione locale. Egli cercò in effetti di stabilire "un ponte" con la cultura canaki allo scopo di trasfondere in essa la fede nel Dio cristiano. A tale Nilo 44ANDA scopo Leenhardt si impegnò in un grande lavoro di traduzione delle Sacre Scritture nella lingua degli abitanti dell'isola. Canaki Fu così che Leenhardt intraprese una grande indagine sulla lingua canaki, una lingua che gli disvelò, negli oltre venti anni di permanenza in Nuova Caledonia, un mondo denso di simboli, rappresentazioni e idee complesse relative alla vita e alla morte. P
d.`
II mito e la persona Studiando i materiali etnologici per lunghi anni, Leenhardt giunse alla elaborazione. certamente non indenne dall'influsso della religione cristiana, delle idee che la cultura canaki aveva del mito e della persona. Tali idee vennero da lui illustrate in Do Kamo. La persona e il mito nel mondo melanesiano del 1947, che resta il suo ultimo libro ed anche il più famoso. Leenhardt prospettò una visione del mito canaki che per certi aspetti convergeva con quella elaborata da Griaule a proposito della cosmologia dogon. Per Leenhardt i canaki erano gente animata da uno spirito profondamente religioso. Seguendo la propria inclinazione di missionario, Leenhardt non partì dall'analisi dei fatti sociali, ma dalla "persona". È dai fatti personali, e non sociali, che Leenhardt, in parziale disaccordo con la tradizione francese di ispirazione durkheimiana, affrontò l'analisi del mito. Il mito gli apparve infatti strettamente legato all'idea di persona. Esso costituiva, con le sue idee relative alla costituzione di quest'ultima, un complesso di rappresentazioni pe rv asive della vita dei canaki. Contrariamente ad altri autori, Leenhardt non interpretò il mito come un racconto nel quale era stata trasfigurata una realtà storica, come ad esempio aveva invece proposto Malinowski a proposito dei miti trobriandesi. Il mito, per Leenhardt, non era neppure un tentativo pre-razionale di spiegare la realtà, come avevano sostenuto autori quali Frazer. Per lui il mito si configurava piuttosto come qualcosa che era capace di dare un senso al tempo, al paesaggio e alla persona. Il mito rendeva conto della partecipazione dell'uomo al mondo, alla natura. C'era come una identità di corpo e natura nella mente "partecipativa" arcaica, e questa identità era espressa nel mito. Il mito era lo spazio intellettuale in cui il primitivo costruiva il proprio mondo, non in senso puramente favolistico, ma come spazio di "partecipazione" (un'idea di Lévy-Bruhl) al mondo tipico della mentalità arcaica. Non che la partecipazione fosse un principio caratteristico della sola "mentalità" primitiva. Per Leenhardt pensiero partecipativo e razionale convivevano uno accanto all'altro e non erano caratteristici di due epoche distinte della storia umana. Significato delle ricerche di Leenhardt Sebbene muovendo da premesse teoriche e metodologiche diverse da quelle di Griaule (egli aderì infatti, almeno in parte, alle teorie di Lévy-Bruhl relative al
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carattere "partecipativo" della "mentalità primitiva"), Leenhardt inaugurò, ancora prima di Griaule, una prospettiva destinata a caratterizzare una corrente molto significativa della tradizione etnologica francese, quella che si distingue dalle altre per privilegiare lo studio delle cosmologie indigene più come "sistemi di pensiero" che non come aspetti simbolici immediatamente connessi con la struttura sociale. Questa è una prospettiva che, come abbiamo già detto a proposito di Griaule, si affianca a quella degli antropologi britannici che nello stesso periodo cercano però di studiare i sistemi di pensiero come parte della struttura sociale al cui "funzionamento" tali sistemi portano un contributo. Oltre a Do Kamo, del 1947, Leenhardt ci ha lasciato opere importanti come Notes d'ethnologie néo-calédonienne, del 1925, e Gens de la Grande Terre del 1937. Con Leenhardt, che insegnò a Parigi dal 1926 fino alla morte, si formarono parecchi studiosi delle culture melanesiane e di altre aree dell'Oceano Pacifico.
La «sociologia maghrebina» e Robert Montagne La tradizione sociologica francese di ispirazione durkheimiana ebbe un innesto "orientalistico" e in particolare nordafricano. Tale innesto confluì, a sua volta, intorno al 1920, nella tradizione di quella che è stata chiamata "sociologia maghrebina" (Berque 1956), ossia la riflessione condotta da studiosi francesi sulle società e le culture del Maghreb. L'Algeria, la Tunisia e il Marocco erano diventati, tra il 1830 e il 1912, colonie o protettorati francesi per cui storici, etnologi e sociologi trovarono in queste regioni il terreno per le loro ricerche. Lo stesso Durkheim aveva tratto spunti importanti dal lavoro di alcuni di questi studiosi del XIX secolo, molti dei quali erano amministratori e funzionari coloniali. La sua teoria della solidarietà sociale fondata sulla contrapposizione tra società meccaniche e società organiche, nonché la sua visione delle prime come società "segmentarie". si era appoggiata in gran parte, come abbiamo visto, alle ricerche etnografiche di Hanoteau e Letourneux (1886) sui berberi dell'Algeria (v. Cap. 5). Le ricerche prodotte dalla "sociologia maghrebina" si concentrarono sullo studio di aree ad "alta e complessa civilizzazione". Tale corrente di studi si ritrovò così piuttosto lontana dagli interessi dell'etnologia francese degli anni 1920-1930. Ciò spiega perché questa tradizione di studi sia stata largamente ignorata dall'antropologia, sebbene alcuni lavori scaturiti da essa possano essere considerati a tutto titolo di interesse etno-antropologico. I sistemi politici berberi Tra quanti, influenzati dalle idee di Mauss, si dedicarono agli studi delle società nordafricane e del Vicino Oriente, un posto particolare spetta a Robert Montagne (1893-1954). Con una formazione largamente eclettica, a metà tra lo scientifico e l'umanistico. Montagne giunse come militare in Marocco nel 1918. Qui cominciò a studiare l'arabo e il berbero e presto divenne uno dei maggiori conoscitori delle popolazioni locali e della loro organizzazione sociale e politica (Pouillon e Rivet 2000). Montagne, che svolse le proprie ricerche in Marocco per oltre dieci anni, lavorò anche in Siria raccogliendo, tra il 1930 e il 1932. un importante corpus di testi epici beduini (Montagne 1935). Egli fu inoltre il primo ad occuparsi della sedentarizzazione dei beduini del Vicino Oriente. Una sintesi dei
Rabert Montagne (1935 ca.)
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suoi lavori sui nomadi si trova nel libro da lui pubblicato nel
1947 La civiltà del deserto (La civilisation du désert. Nomades d'Orient et d'Afrique). Montagne fu direttore dell'Institut francais di Damasco, col quale collaborarono linguisti ed etnologi. Egli fondò, nel 1936, il Centre des Hautes Etudes sur l'Afrique et l'Asie Modernes, dove si formarono i giovani amministratori destinati ai territori musulmani controllati dalla Francia. I berberi e il governo
Berberi
L'etnologia francese tra le due Guerre
L'etnologia francese tra le due Guerre
A partire dal 1924 Montagne pubblicò su riviste orientaliste una serie di articoli sulle popolazioni berbere del Marocco e dell'Algeria. Questi lavori daranno origine a I berberi e il Makhzen (Les Berbères et le Makhzen dans le Sud du Maroc). Pubblicata nel 1930, è questa una delle più grandi monografie etnografiche del Novecento. Essa consiste in uno studio dell'organizzazione politica delle tribù berbere dell'Atlante marocchino e dei loro rapporti con il governo (makhzen) del sovrano del Marocco. L'importanza de I berberi e il Makhzen per l'etnografia e la teoria antropologica è rilevante, ma quest'opera è stata riconosciuta come un classico dell'etnografia solo molti anni dopo la morte del suo autore. A questo riguardo ha giocato, in parte, la collocazione disciplinare di Montagne (che nel 1949 fu nominato professore di "Sociologia musulmana" al Collège de France), ma anche il fatto che il suo contributo si situa in un'area di interessi sviluppati negli anni '30-'40 dalla tradizione britannica, piuttosto che da quella francese. Montagne si considerò sempre "sociologo", allievo intellettuale di Durkheim e di Mauss. Ma all'epoca in cui Montagne compiva le sue ricerche in Marocco, l'etnologia francese non rivolgeva i propri interessi al Nordafrica e al Medio Oriente. Gli etnologi guardavano infatti soprattutto all'Africa subsahariana, all'Oceania e al Sudamerica come ai luoghi privilegiati delle loro ricerche. Le aree di "complessa civilizzazione", come appunto il Medio Oriente o l'Africa settentrionale, non attiravano la loro attenzione. Gli interessi dell'etnologia francese erano rivolti a problematiche diverse da quelle esplorate da Montagne. Come abbiamo visto, tale etnologia poneva infatti al centro dei propri interessi i sistemi di pensiero dei popoli primitivi (Griaule), la concezione del mito e della persona (Leenhardt), oppure. sulla scorta di Mauss, lo studio della magia e della religione "primitive". Quello che Montagne ci presenta ne I berberi e il Makhzen è un grande affresco della vita politica dei gruppi installati nell'area dei monti dell'Atlante e della evoluzione delle forme di organizzazione politica presenti in quest'arca. I berberi di questa regione erano da secoli in lotta con il governo del Sultano arabo per salvaguardare la propria indipendenza. Questa contrapposizione diventa decisiva allorché i capi berberi stringono alleanze con il Sultano. Il modello ,(oscillatorio>, Normalmente i berberi avevano istituzioni "democratiche", con capi eletti a turno tra gli uomini alla guida delle varie frazioni tribali. Tuttavia il potere di questi capi aumentava e si trasformava quando essi riuscivano ad eliminare i concorrenti dando vita a dei piccoli potentati. Per sua natura questa evoluzione del sistema politico avrebbe avuto la tendenza a ritornare allo stato iniziale alla morte del capo. Ma se questi riusciva a trarre vantaggio dalla alleanza con il Sultano facendosi nominare suo rappresentante locale, il processo subiva un'importante
alterazione. In tal caso infatti il potere di questi capi diventava "tirannico". Lo stato tirannico era destinato però a disgregarsi o quando il Sultano moriva, o quando la ribellione della comunità vessata dal "tiranno" poneva fine al potere del capo per iniziativa di qualche individuo il quale, così facendo, si presenta come il campione della "democrazia". Il sistema politico tornava, allora, alla sua forma originaria, ma era sempre suscettibile di trasformarsi nuovamente in tirannico, magari proprio per mano di colui che lo aveva "salvato" dalla tirannia. La storia della regione sembrava così "oscillare" tra due estremi: una forma di governo democratico (assembleare) o oligarchico (retto da notabili locali) da un lato, e una forma tirannica dall'altro. Oggetto di quest'opera di Montagne erano le varie "fasi" che il potere politico attraversava nella sua trasformazione da un estremo all'altro delle forme possibili che esso poteva assumere, in una "alternanza monotona di periodi di organizzazione e di anarchia" (1930:6). Un effetto della ricerca di Montagne fu ciò che potrebbe essere chiamata "la spazializzazione dell'evoluzione politica" berbera (Fabietti 2000). L'evoluzione dei sistemi politici non era ovunque uniforme, ma vi erano comunità allo stato democratico, altre in cui il regime oligarchico stava prendendo il sopravvento, altre ancora dove il potere del tiranno era consolidato. Vi erano poi comunità presso le quali il processo seguiva il cammino inverso, dalla tirannia alla democrazia. Di cbnseguenza, le comunità osservabili sul territorio erano, ciascuna a suo modo, rappresentanti di questa evoluzione, che andava "dalla democrazia alla tirannia" o "dalla tirannia alla democrazia". Lo spazio geografico diventava così lo sfondo su cui proiettare le differenti fasi di trasformazione del sistema politico berbero.
Bibliografia critica Angeli, AA.VV., Dal museo al terreno. L'etnologia francese e italiana degli anni Trenta, Milano 1987.
Berque J., «Cent vingt-cinq ans de sociologie maghrébine», Annales E.S.C., 11 (3), 1956. Clifford J., «Potere e dialogo in etnografia. L'iniziazione di Marcel Griaule» , in ID, I frutti puri impazziscono, Bollati,Torino 1993 (ed. or. 1983). Jean-Michel Clifford J., Maurice Leenhardt. Personae et mythe en Nouvelle Calédonie, Place, Paris 1987. Pouillon F. e Rivet P. (a cura), La sociologie n u rsubnane de Robert Montagne, Maisonneuve, Paris 20(X). Zerilli F. M., Il lato oscuro dell'etnologia, CISU, Roma 1998.
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[T13.31
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
Capitolo
14 L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
A partire dagli anni 1920 l'antropologia cominciò a interrogarsi sempre di più sui rapporti tra individuo e cultura da un punto di vista "psicologico". Questo interesse traeva origine dai problemi che lo sviluppo della società moderna poneva a livello di costituzione della personalità individuale. La psicoanalisi aveva dato, seppure spesso in contrasto con la prospettiva antropologica, un contributo significativo allo studio dei processi di costruzione della personalità in società diverse da quella occidentale (v. Cap. 11).A partire da queste premesse l'antropologia cercò, soprattutto in America, e nella prospettiva che le era propria, di rendere ragione delle variazioni registrabili a livello di costruzione della personalità e del carattere, i quali erano entrambi frutto, come era presumibile, dell'influenza che la società e la cultura esercitavano sulla psiche degli individui.
Il configurazionismo: Ruth Benedict Nel corso degli anni 1920, in America, dalla riflessione di Kroeber e di altri allievi di Boas sulla "natura della cultura" nacque una prospettiva che porta il nome di configurazionismo. Questo termine si riferisce all'idea secondo la quale ogni cultura costituirebbe il prodotto dell'interazione di più modelli culturali o configurazioni (configurations) i quali sono i "segmenti espressivi" in cui una cultura determinata si articola: una certa filosofia, una moda, un certo stile artistico ecc. La cultura come complesso di tratti Fu questa concezione della cultura a orientare gli studi di Ruth F. Benedict (1887-1948); anche lei allieva di Boas, rivolse le stesse critiche che già negli anni 1920 venivano mosse, in America, al lavoro di quegli antropologi che si erano interessati alla distribuzione dei tratti culturali (v. Cap. 8). La Benedict, allo stesso modo di altri suoi colleghi, faceva rilevare come lo studio della diffusione dei tratti culturali avvenisse per lo più in base ad una concezione della cultura come aggregazione di elementi isolati. Invece, il significato di un tratto poteva variare a seconda che fossero o meno presenti, all'interno di una stessa area, altri tratti. Il significato di un tratto culturale (un rito, un'istituzione, una relazione sociale ecc.) era cioè conseguenza del modo in cui si collegava agli altri facenti parte
della stessa configurazione. Una diretta conseguenza di ciò era che la cultura doveva consistere in qualcosa di più della somma delle sue singole parti. La cultura appariva infatti come «una configurazione al cui interno gli elementi interagiscono l'uno con l'altro producendo modelli significanti» (Bock 1980: 65). Il fatto che un determinato tratto venisse accolto o respinto da una cultura dipendeva, sosteneva la Benedict, dall'esistenza di modelli (patterns) preesistenti. Allo stesso modo, due società provviste di tratti simili potevano avere culture organizzate in base a modelli diversi. Il primo studio della Benedict nel quale emerge una eco di questa prospettiva venne concepito, in maniera quasi emblematica, sotto forma di analisi della distribuzione di un tratto culturale. particolare, la credenza nello "spirito guardiano", tra gli Indiani del Nordamerica. Il concetto dello spirito guardiano (The Concept of the Guardian Spirit in North America) del 1923 era infatti un lavoro ispirato da Boas che, proprio in quegli anni, era interessato allo studio della trasmissione dei tratti e alla loro modificazione in contesti culturali differenti. Lo "spirito guardiano", in molte culture native nordamericane, era un'entità sovrannaturale che "assisteva" l'individuo nelle sue imprese di caccia o di guerra e che gli si rivelava attraverso un sogno o una visione. Esaminando la distribuzione della credenza nello spirito guardiano in relazione ad altri tratti culturali, la Benedict pervenne alla conclusione che tale credenza assumeva una sfumatura "psicologica" differente da una società all'altra. Ella sosteneva che ogni società esprimeva una propria modellizzazione. Un tratto poteva avere una distribuzione più o meno ampia ma, ciò che veramente importava, era che tale tratto – in questo caso la credenza nello spirito guardiano – entrava a far parte di un "modello" (pattern) specifico: «In una regione lo spirito guardiano si è combinato con le cerimonie della pubertà, in un'altra con il totemismo, in un'altra ancora con le società segrete, e poi con un rango sociale ereditario, oppure con la magia nera» (Benedict 1923: 84). La funzione del modello, concludeva Ruth Benedict, era quella di integrare i più svariati tratti, dopo averli selezionati. I modelli di cultura Queste idee sull'integrazione dei tratti culturali prodotta dai modelli vennero in seguito ulteriormente sviluppate nel lavoro più celebre di Ruth Benedict, Modelli di cultura (Patterns of Culture) del 1934, sicuramente uno dei libri di antropologia più conosciuti dal largo pubblico. In questo lavoro venne sviluppata in modo particolare l'idea secondo la quale la «modellizzazione» (social patterning) operata all'interno di ogni società sugli elementi della cultura produceva un modello culturale "medio" che la Benedict, attraverso la comparazione di quattro tipi di società, pervenne a definire grazie all'utilizzazione di nozioni di tipo psicologico. Così, ad esempio, agli "apollinei" indiani zuni, il cui ideale era rappresentato da un controllo delle emozioni raggiunto attraverso cerimonie pubbliche e l'interiorizzazione dei sentimenti, ella contrapponeva i "dionisiaci" indiani delle Pianure (anche questo, come «apollineo», un termine derivato da Nietzsche), la cui cultura era invece organizzata attorno all'estremizzazione dei sentimenti e delle passioni, specialmente di quelle che avevano a che fare con la guerra e la competizione. I "paranoici" dobu della Melanesia e i "megalomani"
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Ruth Benedict (1925 ca.)
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kwakiutl della costa settentrionale del Pacifico completavano il quadro, i primi con la loro sospettosità e le loro invidie reciproche, i secondi con la loro frenesia distruttiva nelle cerimonie del potlatch e con il loro delirio di potenza, alla ricerca di un sempre maggiore prestigio sociale (v. Cap. 4). La Benedict presentava le culture come complessi integrati, avvicinandosi in tal modo alle posizioni dei funzionalisti suoi contemporanei. Tuttavia ella teneva a distinguersi da costoro per il modo in cui concepiva l'effetto dell'integrazione culturale. Tale integrazione aveva il potere di produrre un modello culturale riflesso nel carattere e nel comportamento sociale dell'individuo. [T14.1]` Modelli di cultura sottolineava l'irriducibilità di una configurazione culturale ad un'altra e quindi negava la possibilità di classificare le culture per "tipi". Alla base di questa irriducibilità stava lo stesso processo di integrazione dei tratti prodotto dal modello. Il comportamento, scrive Ruth Benedict, «tende ad essere integrato. E per integrazione, intendiamo questo: una cultura, come un individuo, è un insieme più o meno coerente di pensieri e di azioni, e nell'ambito di ogni cultura si delineano certi scopi caratteristici che possono essere soltanto suoi, non condivisi da nessun altro tipo di società» (Benedict 1960: 52). Modelli di cultura costituisce, assieme a pochi altri libri scritti da antropologi, un vero e proprio "caso letterario" nella tradizione della disciplina. Esso fu un best seller per molti decenni e probabilmente uno dei pochi lavori di antropologia noti al pubblico dei profani. Come tale Modelli di cultura contribuì a veicolare, anche per lo stile volutamente divulgativo adottato dall'autrice, un'immagine dell'antropologia come sapere di facile accesso per chiunque. La descrizione di specifiche configurazioni culturali attraverso i modelli apollineo, dionisiaco, paranoico e megalomane riferiti ad altrettante popolazioni, produsse infatti un'immagine delle culture umane come entità definibili attraverso categorie psicologico-intuitive alquanto approssimative. Questo fu tuttavia un esito particolare e non voluto da parte della Benedict, la quale volle invece insistere sulla dimensione simbolica della cultura, contro quelle tendenze che avevano contribuito a reificarne la natura riducendola ad una pura somma di singoli tratti. Alcuni spunti dell'opera di Ruth Benedict si ritroveranno, come vedremo, in alcuni indirizzi più recenti dell'antropologia.
Ethos, eidos e schismogenesi: Gregory Bateson
Gregory Bateson nel 1944
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
Tra gli antropologi che, nel corso degli anni 1930, svilupparono una visione originale dei rapporti tra l'individuo e la propria società vi è Grego ry Bateson (19041980). Solo una parte della carriera scientifica di Bateson fu segnata dall'antropologia, poiché fin da prima della seconda guerra mondiale Bateson si trasferì negli Stati Uniti dove proseguì le proprie ricerche nel campo della psichiatria e dell'etologia. Tuttavia la "parte antropologica" della sua carriera fu decisiva per il seguito di essa e fu all'origine di una prospettiva innovativa nel campo degli studi sul rapporto individuo-società. Sollecitato da Alfred Haddon quando era studente a Cambridge, Bateson, che era inglese, si dedicò all'antropologia abbandonando gli studi di scienze naturali. Fu allievo dei maggiori antropologi britannici del tempo, compreso Malinowski.
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Il rito naven Bateson esordì con una ricerca sul campo in Melanesia nel 1927, ma fu solo nel 1932 che, tornato tra gli iatmul della Nuova Guinea, compì quelle ricerche che dovevano consacrarlo come brillante ma "eccentrico" ricercatore. Infatti il libro da lui pubblicato nel 1936 con il titolo di Naven (dal nome di un rituale iatmul) rivelava una certa differenza rispetto alle opere degli antropologi britannici della generazione di Bateson. Lo stile in cui fu redatto Naven esulava dagli schemi adottati nelle monografie etnografiche del tempo. Partendo Mar dei Coralli dallo studio di una cerimonia come il naven, Bateson ne analizzava le implicazioni psicologiche, economiche, politiche, magico-religiose ed etiche, rifiutando la prospettiva corrente che tendeva a con- tatmul siderare la società come divisa in "settori": l'economia, la politica, la religione ecc. a ciascuno dei quali corrisponderebbero una o più istituzioni ciascuna delle quali concorre a produrre uno stato di equilibrio. [T14.2] Il naven era un rituale di travestimento che veniva effettuato quando un gio- vane compiva per la prima volta nella sua vita un'azione rispondente ad un valore positivo e fondamentale della cultura locale (uccisione di un nemico, cambiamento di status sociale ecc.). In questa occasione i suoi parenti di entrambi i sessi si travestivano assumendo insegne e comportamenti che richiamavano quelli abitualmente caratteristici del sesso contrario. In questo rituale aveva un ruolo di primo piano il wau, ossia il fratello della madre dell'individuo (lana) in onore del quale si celebrava il naven. Il fratello della madre, quindi il detentore dell'autorità sul figlio di quest'ultima, il lana, si travestiva da donna e parodiava la "debolezza emotiva" femminile mentre, atteggiandosi in maniera clownesca, era fatto oggetto di scherno da parte degli astanti. Al contrario, gli individui di sesso femminile assumevano un comportamento di fierezza «che le donne mostrano nelle rare occasioni in cui hanno un ruolo pubblico di fronte a spettatori uomini». Perché questa "inversione"? Ethos e eidos Bateson spiegò questo comportamento non con una "deviazione" psicologica dei soggetti, ma con la necessità di assumere i segni di una identità diversa da parte di coloro che, di solito, non erano chiamati a ostentare sentimenti contrastanti con il tono emotivo (ethos) tipico (perché manifestazione dell'eidos) del proprio sesso. L'ethos maschile consisteva in comportamenti fieri e aggressivi che non indulgevano a tenerezza e ad affetto, secondo l'ideale (eidos) della società locale. Al contrario, le donne non ostentavano mai un atteggiamento solenne in pubblico, perché l'eidos culturale iatmul prevedeva sottomissione, modestia, e atteggiamento improntato all'emotività e agli affetti. Travestendosi da donna, il wan poteva però manifestare soddisfazione e affetto per il figlio della sorella; mentre travestendosi da uomini, la madre del laua e le altre donne della famiglia potevano mostrarsi soddisfatte ed orgogliose per le azioni di un giovane del quale si erano prese cura e che aveva ora raggiunto un obiettivo socialmente e culturalmente approvato. L'unità dei due livelli, di ethos e di eidos, di cui Bateson ammetteva apertamente il carattere di costruzioni "convenzionali" dell'osservatore, era ciò che formava la realtà complessiva di una cultura. di ciò che egli chiamava, riprendendo Ruth Benedict, configurazione: "i concetti di ethos e di eidos che io propongo vanno considerati come suddivisioni del suo [della Benediit] più generale concetto di configurazione" (ivi: 35).
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L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità La schismogenesi
[T143] Nei capitoli centrali di Naven Bateson sviluppò la nozione di schismogenesi, da lui già proposta in un lavoro del 1935 intitolato Contatto culturale e schismogenesi. Tra gli iatmul, ad esempio, l'ethos maschile e quello femminile erano diversi. Più gli uomini si comportavano in accordo con il proprio ethos (fatto di esibizionismo e di atteggiamenti aggressivi), più le donne rafforzavano il loro (fatto di sottomissione e ammirazione nei confronti degli uomini). Partendo dal caso degli iatmul, Bateson allargò la nozione di schismogenesi e concluse che dinamiche schismogenetiche, generatrici di comportamenti divergenti (per esempio degli uomini e delle donne iatmul) riguardavano non solo gli individui, ma anche i gruppi. Tutte le società, proprio come tutti gli individui, possiedono però dei "meccanismi frenanti" grazie ai quali è possibile bloccare, o contenere, il processo di schismogenesi che, se portato alle estreme conseguenze, provocherebbe la disgregazione sociale nel primo caso e la schizofrenia nel secondo caso. È infatti grazie a questi meccanismi di reazione psichica che è possibile raggiungere un equilibrio dinamico, che Bateson riteneva consistere in un aggiustamento reciproco del piano dell'ethos e del piano dell'eidos. Con il concetto di schismogenesi Bateson tentava di respingere la prospettiva, propria di quegli anni, mirante a impostare il problema dell'adattamento individuale in termini di reazione dell'individuo ad un ambiente a lui `esterno" solitamente definito come "società" o "cultura". La dinamica della schismogenesi doveva consentire di individuare i processi di azione e reazione cumulativa riguardanti il livello emotivo (dell'ethos) e che dovrebbero consentire una migliore comprensione del comportamento psichico ed emotivo dell'individuo, senza "ingabbiarlo" entro modelli o configurazioni culturali di cui egli sarebbe una pura espressione.
Gli studi di «cultura e personalità» Le problematiche inerenti ai processi di formazione della personalità individuale in contesti culturali differenti, e quelle relative al ruolo sostenuto dall'individuo nel cambiamento culturale, furono sviluppate soprattutto dagli antropologi americani allievi di Boas.
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità non era né psicologo né psicoanalista ma, in possesso di una grande esperienza etnografica in Madagascar, in Polinesia e negli stessi Stati Uniti, era in grado di offrire a Kardiner un eccellente materiale di riflessione per l'elaborazione delle sue teorie sulla formazione di ciò che egli chiamò personalità di base, teorie sviluppate nel libro del 1939 L'individuo e la sua società (The Individual and his Society) da lui scritto appunto in collaborazione con Linton. Istituzioni primarie e istituzioni secondarie Per Kardiner, la personalità di base costituisce una risultante psicologica "media" all'interno di una determinata cultura. Essa è una struttura, cioè un complesso di tratti tra loro correlati alla cui costituzione concorrono quelle che egli chiama istituzioni primarie e istituzioni secondarie. Le istituzioni primarie sono ciò che contribuisce a plasmare la personalità degli individui nella fase infantile della loro esistenza. Kardiner metteva infatti l'accento sui meccanismi di formazione di tale personalità, meccanismi in cui si riflettono i sistemi di valori caratteristici di una certa cultura. Tali meccanismi fondamentali erano quelli della soddisfazione, della punizione e della inibizione. Le istituzioni secondarie, d'altra parte, sono per Kardiner quegli elementi culturali che una società elabora allo scopo di attenuare, conciliare, spostare, le tensioni derivanti dall'azione delle istituzioni primarie sulla psiche individuale. Le istituzioni secondarie sono infatti la religione, i riti, le leggende, i tabù, tutto ciò che giustifica insomma l'ordine della società e dell'universo. La costituzione della personalità di base intesa come «media» determinata socialmente e culturalmente si trova pertanto alla confluenza dell'azione esercitata dai due tipi di istituzioni. Kardiner cercò di stabilire un ordine di priorità nel processo di formazione della personalità di base, tra istituzioni primarie e secondarie, proponendo una lettura della religione e del mito in accordo con le teorie freudiane. Centrale è, a questo riguardo, il concetto di proiezione. L'individuo elaborerebbe, nel corso dell'infanzia, e dunque sotto l'azione delle istituzioni primarie, una particolare immagine delle figure parentali, le quali sono oggetto della sua affettività, e le proietterebbe successivamente nel quadro delle istituzioni secondarie, nella sfera mitico-religiosa.
Il concetto di «personalità di base»: Abram Kardiner Uno dei momenti più significativi dell'incontro tra antropologia e scienze psicologiche, e quindi del tentativo di fornire una teoria dell'adattamento dell'individuo alla sua società, è rappresentato dal lavoro di Abram Kardiner (1891-1981) e di alcuni suoi collaboratori nel corso degli anni 1930. Formatosi alla scuola di Franz Boas, Kardiner si recò a Vienna nel 1921 dove entrò in analisi con Freud diventando così psicoanalista egli stesso. Benché non avesse mai condotto ricerche sul campo, Kardiner combinava un'eccellente preparazione antropologica con la formazione psicoanalitica. Pur essendo freudiano, Kardiner non fu però mai un rappresentante dell'ortodossia psicoanalitica. Nel corso degli anni 1930 Kardiner si fece promotore. prima presso l'Istituto di Psicoanalisi e poi presso la Columbia University di New York, di un "seminario" pensato come luogo di discussione tra antropologi e psicoanalisti al fine di sviluppare il tema dell'interazione individuo-società sotto il profilo psicologico. A questo seminario diede un contributo fondamentale Ralph Linton (18931953) che in quegli anni era succeduto a Boas alla Columbia University. Linton
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La distanza dal funzionalismo e dal configurazionismo Ne L'individuo e la sua società si alternano parti teoriche e parti etnografiche, queste ultime redatte da Linton, nelle quali si cerca di evidenziare il complesso dei processi che portano, all'interno delle singole culture, alla costituzione della personalità di base. Kardiner e Linton cercarono di precisare le proprie posizioni distinguendole sia da quelle dei funzionalisti sia da quelle della Benedict. Scrive infatti Linton: «L'integrazione di cui parlano i funzionalisti è fatta principalmente di adattamento reciproco e di interdipendenza funzionale degli schemi di comportamento... il quadro culturale che ne emerge è quello d'una massa di rotelline che girano ingranandosi una nell'altra. Tutta questa attività non ha un punto focale» (Kardiner 1939: 8). E riguardo alle teorie della Benedict, egli aggiunge: «L'integrazione di cui la Benedict ha dimostrato l'esistenza è d'un tipo completamente diverso. Essa consiste nel dominio esercitato su una data configurazione culturale da un particolare atteggiamento o sentimento che è come il nucleo del contenuto di quella cultura... Se alcune culture rivelano un'integra-
Madagascar
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L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
zione incentrata su un singolo atteggiamento o valore, in altre è difficile determinare simili punti locali... Il problema vero, a questo punto, è stabilire se dare rilievo estremo a un solo atteggiamento o valore a spese di tutto il resto sia un carattere tipico o atipico dell'organizzazione culturale... ma anche se tale carattere si rivelerà tipico rimarranno molte configurazioni culturali ancora da spiegare» (ibidem). Nella sua elaborazione del concetto di personalità di base Kardiner si distaccava però, oltre che dai funzionalisti e dalla Benedict, anche da Freud per il quale, come abbiamo visto, i fattori culturali rivestivano una importanza secondaria ed erano, anzi, il prodotto di determinate pulsioni inconsce ma sempre attive, al di là delle situazioni storiche e contingenti in cui gli uomini si trovano ad operare. La teoria della- personalità di base, così come emergeva dalla discussione del materiale etnografico fornito da Linton, assumeva, però, un carattere di costrutto ipotetico. Infatti tale costrutto non era elaborato a partire da singoli casi individuali scelti tra quelli delle società malgasce o polinesiane studiate da Linton. Gli unici "casi" che comparivano nel libro del 1939 erano i pazienti di Kardiner, mentre tutto il materiale che si riferiva ai malgasci o ai polinesiani era chiamato a confermare, in maniera indiretta, l'idea di una personalità di base. Quest'ultimo concetto insomma non era costruito a partire dai casi etnografici osservati. Adolescenza, carattere, genere: Margaret Mead
Margaret Mead a Samoa (1926) e con Gregory Bateson in Nuova Guinea (1938)
Fino alla metà degli anni 1920, gli antropologi americani si concentrarono sulle culture indiane degli Stati Uniti. La prima "uscita" dell'antropologia statunitense dal continente americano si deve a Margaret Mead (1901-1978). La Mead, che era allieva di Boas, compì infatti la sua prima ricerca nelle isole Samoa, un arcipelago della Polinesia, nel periodo compreso tra il 1926 e il 1927. Il lavoro antropologico di Margaret Mead, che sarebbe diventata in seguito una delle figure più autorevoli dell'antropologia, e una specie di "ambasciatrice" dell'antropologia nel mondo e presso l'Organizzazione delle Nazioni Unite, trovò ispirazione all'interno di un contesto sociale ed ideologico per molti aspetti diverso da quello che aveva costituito lo sviluppo dell'antropologia di Franz Boas. Il tema della socializzazione Gli effetti socialmente devianti prodottisi in America negli anni del primo dopoguerra (vertiginoso aumento della delinquenza comune e giovanile in particola-
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità re, emarginazione sociale, alcoolismo), e poi durante la crisi economica del 1929, costituiscono alcuni dei più importanti punti di riferimento per poter correttamente situare certe scelte operate tanto dalla psicologia sociale quanto dalla sociologia e dall'antropologia americane nel periodo compreso tra le due guerre. Da allora in poi, uno dei problemi centrali della scienza sociale americana sarà quello dell'adattamento dell'individuo ai valori espressi dalla società in cui vive, come risposta agli effetti negativi generati da una società di tipo produttivistico e concorrenziale come quella statunitense. Trasferita in campo antropologico, la problematica della socializzazione e dell'adattamento dell'individuo alla sua società trovò ampie possibilità di sviluppo nello spazio teorico creato dalla teoria superorganica della cultura di Kroeber da un lato e dalla concezione boasiana della comprensione della dinamica sociale attraverso lo studio delle reazioni dell'individuo nei confronti della sua cultura dall'altro. In questo modo lo studio del processo di socializzazione venne a coincidere con quello dell'influenza esercitata dalla cultura sull'individuo e delle modalità di trasmissione dei valori che consentivano a quest'ultimo di adattarsi con successo, sul piano del comportamento e della condivisione dei valori, ai modelli della propria società. Adolescenti a Samoa Il primo lavoro di Margaret Mead, frutto della ricerca nelle isole Samoa, si intitolava L'adolescente in una società primitiva (Coming of Age in Samoa) e venne pubblicato nel 1928. Esso inaugurò una linea di ricerca da allora in poi molto seguita dall'antropologia culturale americana. Si trattava di uno studio focalizzato sul periodo di vita adolescenziale della donna samoana. In esso venivano analizzati tanto il contesto sociale quanto il processo educativo che, presso questa società dei Mari del Sud, concorrevano alla formazione della personalità della donna durante quello che in America veniva considerato come un periodo estremamente critico e decisivo per il successo o meno col quale avveniva l'adattamento di un individuo ai valori riconosciuti come positivi dalla sua società. La Mead mostrò così non solo la grande differenza dei metodi educativi seguiti dai Samoani, ma anche l'alto grado di socializzazione da essi prodotto. Questo studio mostrava come l'adolescenza in una società «primitiva», cioè secondo la Mead in una società «semplice ed omogenea», fosse una fase della vita dell'individuo meno esposta a traumi di quanto non fosse nella società occidentale e nella società americana in particolare. All'origine di questa differenza, ella sosteneva, stavano due fattori importanti: la mancanza di «messaggi» concorrenziali e produttivistici inviati dalla cultura all'individuo, e il carattere sostanzialmente «monodimensionale», ossia privo di alternative rilevanti, nelle scelte che si parano dinanzi al giovane giunto all'età dell'adolescenza. Il significato dello studio della Mead consisteva dunque nel mostrare come a valori culturali diversi corrispondessero modelli educativi differenziati, e come questi ultimi dessero luogo alla formazione di personalità individuali diversamente orientate. Le conclusioni a cui giungeva lo studio di Margaret Mead, conclusioni che oggi, a così tanti anni di distanza possono apparire ai nostri occhi quasi dei luoghi comuni, generarono un effetto notevole tanto presso gli antropologi quanto presso il pubblico colto americano. Scritto in un linguaggio piano, il libro della Mead, che aveva per sottotitolo Uno studio psicologico della gioventù primitiva
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Samoani
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Arapesh, Ciambuli e Mundugumor
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità
L'individuo nella sua società: cultura, carattere, personalità ad uso della civiltà occidentale, costituiva un elemento di rottura importante nei confronti della mentalità ristretta caratteristica di certi ambienti statunitensi. La descrizione dei costumi familiari e della formazione delle inclinazioni sessuali dei Samoani (specialmente della donna adolescente) sottoponevano allo sguardo etnocentrico del genitore, del pedagogista e dell'assistente sociale un'esperienza di vita diversa, contribuendo in tal modo a rendere più articolato l'orizzonte teorico e pratico al cui interno si era mossa fino a quel momento l'esperienza educativa americana. Il libro della Mead produsse negli ambienti colti degli Stati Uniti la stessa impressione e lo stesso interesse che l'anno prima in Gran Bretagna aveva suscitato la pubblicazione del libro di Malinowski sulla "vita sessuale dei selvaggi". Per l'antropologia americana, invece, L'adolescente in una società primitiva rappresentava il primo di una lunga serie di studi empirici ispirati al problema della socializzazione e della formazione della personalità nel contesto delle culture "primitive". Nuove prospettive sul sesso e sul genere
Nel caso di Margaret Mead, lo studio delle relazioni esistenti tra modelli culturali, processi di apprendimento e personalità "dominanti", così come tale studio [T14.4] era stato affrontato nel libro del 1928, doveva venire a costituire l'orizzonte teorico di riferimento che le consentì di scrivere libri fortunatissimi come Sesso e temperamento in tre società primitive del 1935 e Maschio e femmina del 1949. In questi libri la ricerca risultava orientata verso l'individuazione di un "tipo normale", la personalità media meglio adattata sia tra gli individui di sesso maschile che tra quelli di sesso femminile in società tra loro diverse. Si trattava di lavori che, dal punto di vista teorico, non apportarono elementi di rilevante novità alla prospettiva di L'adolescente nella società primitiva. Tuttavia le conclusioni cui la Mead giunse erano importanti. L'idea centrale di questi lavori era che i tratti del carattere maschile e femminile erano determinati più dalla cultura che da una predisposizione naturale, e che i differenti valori espressi da culture diverse tendevano a produrre un carattere "tipo" come risposta adattativa individuale. In tal modo Margaret Mead inaugurava, in antropologia, lo studio delle differenze di genere, uno studio che aveva iniziato a Samoa e proseguito poi in Nuova Guinea con le sue ricerche tra gli arapesh, a cui dedicò una monografia etnografica pubblicata nel 1935 (The Mountain Arapesh), e tra i ciambuli, i mundugumor e gli iatmul della stessa regione. La Mead condusse ricerche anche a Bali, in collaborazione con Grego ry Bateson – con il quale aveva già lavorato in Nuova Guinea – sul "carattere" dei balinesi (Bateson e Mead 1942)
Il relativismo culturale Il lavori di Margaret Mead, come del resto quelli di Ruth Benedict e di altri antropologi statunitensi della loro generazione, rappresentarono un momento importante per l'antropologia americana. Queste due antropologhe allieve di Boas contribuirono in maniera straordinaria alla diffusione dell'antropologia presso il pubblico statunitense, ponendolo di fronte all'evidenza che esistevano, "altrove", esistenze culturali "diverse" ma non per questo meno dotate di senso di quella dell'umanità occidentale e nordamericana in particolare. Ruth Benedict e Margaret Mead, assieme a molti altri loro colleghi, contribuirono a introdurre in antropologia il concetto di relativismo culturale. Con questa espressione si tende
ad indicare l'idea secondo la quale un'azione o un valore devono, per poter essere compresi, essere considerati all'interno del contesto complessivo entro cui si collocano. Essere "culturalmente relativisti" significa ritenere che le esperienze culturali "altre" non possano essere interpretate e comprese attraverso l'applicazione scontata e ingenua delle categorie interpretative della cultura di colui che osserva, ma che l'analisi culturale debba invece procedere con cautela, e cercare nel contesto in cui si manifestano i fenomeni (azioni, pensieri, valori ecc.) il senso del loro esistere. Il relativismo culturale non è, come spesso invece si tende a credere, una maniera per giustificare tutto. Qualora esso serva allo scopo di giustificare qualunque comportamento o idea, il relativismo può in effetti avere degli effetti negativi sul piano etico. Ma il relativismo, in antropologia, è un atteggiamento intellettuale che mira a comprendere, dove comprendere non significa "giustificare".
Bibliografia critica Ruth Benedict. Stranger in this Land, University of Texas Press, Austin
Caffrey M.M., 1989. Paravia - Bruno Mondadori, Milano 2000. Deriu M. (a cura), Gregory Bateson, Einaudi,Torino 1988. Houseman M. e Severi C., ,,Introduzione a G. Bateson», Naven, neo -Freudian psvchodynatnics of culture: Abram Kardiner and Manson W. C.. The anthropology. Greenwood Press. New York 1988. Meltemi, Roma 1998 (ed. Marcus G. c Fischer M., Antropologia crune critica culturale, or. 1986). The University of Stocking G.W. (a cura), Malinowski, Rivers, Benedict and Others, Winsconsin Press, Madison and London 1986.
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Margaret Mead a Bali (anni 1950)
II funzionalismo strutturale britannico da
Capitolo
15 Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
La scienza naturale della società: Alfred R. Radcliffe-Brown Dopo la partenza di Malinowski per gli Stati Uniti nel 1938, { Alfred R. Radcliffe-Brown (18814955) divenne la figura più influente dell'antropologia britannica. RadcliffeBrown delineò un quadro di riferimento teorico per una intera generazione di studiosi, anche al di fuori del mondo anglosassone. Egli insegnò infatti negli Stati Uniti, a Chicago, per alcuni anni, prima di diventare nel 1937 professore a Oxford, formando negli Stati Uniti non pochi antropologi che rimasero influenzati dalle sue teorie. La produzione scientifica della quasi totalità degli autori britannici che hanno dominato la scena teorica tra gli anni 1940 e gli anni 1960 si situa infatti, pur con accenti spesso assai critici, all'interno del campo problematico in gran parte definito da Radcliffe-Brown. Alfred R. RadcliffeBrown (1909)
L'influenza di Durkheim Allievo di Rivers, Radcliffe-Brown compì inizialmente ricerche nell'arcipelago delle isole Andamane, nell'Oceano Indiano, nei primi anni del Novecento. Nel 1922, lo stesso anno in cui uscì Argonauti di Malinowski, Radcliffe-Brown pubblicò Gli isolani delle Andamane (The Andaman Islanders). Radcliffe-Brown fu profondamente influenzato da Durkheim. Egli cercò infatti, nel suo libro del 1922, di definire la funzione sociale dei fenomeni mitico-religiosi. «Tra le fondamentali condizioni che devono essere soddisfatte se gli esseri umani vogliono vivere in società vi è – egli scrisse – l'esistenza di quella cosa che noi chiamiamo religione, la credenza in un grande Potere Invisibile tra il quale e noi stessi deve esistere sempre un rapporto fortemente vitale al fine di stabilire e mantenere l'armonia» (Radcliffe-Brown 1922:406). Fin dagli inizi degli anni 1920 Radcliffe-Brown si pose il problema di definire l'oggetto dell'antropologia a partire dalla formulazione di un metodo che potesse giustificare in modo preciso una tale definizione. Il tentativo di Radcliffe-
Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
Brown si affiancava a quelli compiuti poco prima da Kroeber e da Lowie in America per meglio definire concettualmente un oggetto teorico come quello di "cultura", e distinguerlo dall'oggetto di altri saperi affini. Seguendo Durkheim, Radcliffe-Brown tentò di circoscrivere il campo dell'antropologia allo studio dei fenomeni sociali in quanto tali, cioè dei fenomeni non riducibili ad un altro ordine di realtà. Radcliffe-Brown vedeva in questa prima delimitazione la possibilità di individuare in modo ancor più pertinente l'oggetto dell'antropologia, grazie alla definizione di un metodo che egli propose come centrale in questo tipo di approccio sociologico. Tale metodo consisteva, in primo luogo, nell'identificazione dei meccanismi che operano all'interno delle società consentendone il funzionamento; poi nella loro comparazione e, se possibile, nella loro generalizzazione a livello di "leggi". Così definito, il metodo dell'antropologia designava immediatamente l'oggetto stesso di quest'ultima: le leggi che determinano il funzionamento e le trasformazioni delle società.
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Isole Andamane
Etnologia e antropologia sociale La definizione del metodo e dell'oggetto dell'antropologia consentì a RadcliffeBrown di operare altre due distinzioni. In primo luogo tra la stessa antropologia e l'etnologia. In Gran Bretagna, in base ai criteri stabiliti già da Rivers agli inizi del Novecento, l'etnologia aveva per oggetto lo studio della cultura materiale e della storia dei popoli "primitivi". L'antropologia doveva invece occuparsi, secondo Radcliffe-Brown, dei popoli primitivi attuali ma, a differenza dell'antropologia di tradizione evoluzionista di cui respinse il progetto della ricostruzione delle fasi di sviluppo, egli coniò il termine di antropologia sociale per indicare un nuovo tipo di approccio scientifico. Le condizioni di scientificità nello studio dei popoli primitivi erano per Radcliffe-Brown rappresentate dalla possibilità di fondare questa disciplina su un metodo di tipo induttivo caratteristico delle scienze naturali: «Il postulato del metodo induttivo è che tutti i fenomeni sono sottoposti alle leggi della natura e che è di conseguenza possibile, applicando certi metodi logici, scoprire e provare alcune leggi generali, cioè certe definizioni o formulazioni generali aventi un grado maggiore o minore di generalità, ciascuna delle quali si applica ad un certo numero di fatti o di eventi» (Radcliffe-Brown 1973: 30). L'antropologia sociale era dunque una scienza naturale della società che indaga fenomeni appartenenti ad uno specifico ordine di realtà e irriducibili ad altri di diversa natura.
La struttura sociale L'acquisizione del concetto di struttura sociale rappresentò un fatto importante per l'antropologia. Infatti è in riferimento a questo concetto che l'antropologia britannica verrà sviluppandosi nei decenni successivi e a distinguersi da quella di altri paesi, e specialmente da quella americana. La direzione di ricerca proposta da Radcliffe-Brown risultava infatti orientata altrimenti rispetto a quella americana, poiché allo studio della cultura, che si traduceva spesso in uno studio del comportamento individuale e dell'adattamento dell'individuo alla sua società, Radcliffe-Brown oppose lo studio analitico dei rapporti sociali la cui trama complessiva costituiva appunto la struttura sociale.
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II funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
II funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
Struttura, processo e funzione sociale
strutturale di un organismo... è una continuità dinamica, non statica, un processo nel quale la materia di cui è formato l'organismo cambia in continuazione, mentre la forma resta la stessa. La continuità strutturale delle società umane è dinamica in questo senso, nel senso cioè che gli uomini sono la materia, e la forma il modo in cui essi sono in rapporto tra loro grazie alle relazioni di tipo istituzionale» (RadcliffeBrown 1973: 176). La dinamica sociale era così concepita in termini di semplice rimpiazzo degli elementi strutturali.
[T15.21 Struttura sociale designa «la trama dei rapporti realmente esistenti» tra gli individui; tale concetto deve essere considerato in relazione a quelli di processo sociale e funzione sociale. Processo sociale indica la «moltitudine di azioni degli esseri umani, e in particolare della loro interazione e azione congiunta»; funzione sociale designa invece «il rapporto tra la struttura e il processo vitale». Il concetto di struttura sociale ha quindi, come referente, una realtà empirica, concreta, che corrisponde ai rapporti effettivamente intercorrenti ed osservabili tra i membri di una società; mentre i tre concetti di struttura, processo e funzione vengono così a costituire tre modalità diverse tra loro di definire la realtà della vita sociale e ciascuno di essi rappresenta la condizione per poter pensare la società come «insieme coordinato di attività», quindi come organizzazione. Al fondo di quest'immagine del sociale come insieme coordinato di attività, come «struttura» in possesso di una processualità dinamica sta l'analogia biologica con l'organismo vivente. Tuttavia tale analogia rimaneva una semplice metafora metodologica adottata allo scopo di pensare il sociale come una «struttura organica che dipende, per la continuazione della propria vita, dai fenomeni che garantiscono l'insieme dei processi vitali» (Radcliffe-Brown 1968: 10). Il riferimento a Durkheim era esplicito: la funzione sociale, che Radcliffe-Brown definisce «rapporto tra la struttura e il processo vitale», è anche il rapporto che una forma standardizzata di attività sociale ha con la struttura sociale alla cui esistenza e continuità porta un contributo (ivi: 34). II concetto di funzione ha dunque in Radcliffe-Brown un valore epistemologico diverso da quello che esso possiede nell'ultimo Malinowski, e segna la discriminante tra il fitnzionalismo dei due autori. Semmai la nozione di funzione ha, in Radcliffe-Brown, un ruolo simile a quello rivestito nel "funzionalismo ristretto" di Malinowski, cioè di contribuire al mantenimento del complesso socio-culturale. La fisiologia strutturale Coerentemente alla definizione che egli diede della funzione sociale, RadcliffeBrown prospettò un campo problematico nuovo, da lui chiamato "fisiologia strutturale". Tale "fisiologia strutturale" era la conoscenza dei «meccanismi che mantengono in vita una trama di rapporti sociali» (ivi: 29), del modo in cui questi meccanismi operano, di come. insomma, si conservano le strutture sociali. Tuttavia lo studio della "fisiologia strutturale" rimase solo allo stadio programmatico perché Radcliffe-Brown e i suoi allievi concentrarono le proprie energie sull'analisi del funzionamento delle strutture sociali e sui meccanismi che ne assicuravano il perdurare nel tempo. La dinamica delle trasformazioni strutturali non venne mai a costituire un vero e proprio oggetto di indagine per l'antropologia sociale di ispirazione strutturale. Radcliffe-Brown prospettò lo studio del cambiamento come un compito fondamentale dell'antroplogia sociale. Ma tale studio rimase sempre subordinato a quello della struttura e del suo equilibrio. La continuità strutturale La prospettiva della continuità strutturale aveva come correlato un uso di concetti rivolti alla comprensione della conservazione dei sistemi piuttosto che della loro trasformazione. Il cambiamento non era, potremmo dire "nella natura" della struttura. Questa resta identica, cambiano solo i suoi contenuti: «La continuità
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Lo studio dei sistemi di parentela Lo studio dei sistemi di parentela può forse essere oggi considerato come il settore della ricerca antropologica al quale Radcliffe-Brown ha fornito il contributo maggiore. La competenza di Radcliffe-Brown si fondava soprattutto sulla sua esperienza di lavoro tra gli aborigeni australiani. The Social Organization of Australian Tribes (1930-1931) era il risultato di diverse ricerche compiute a partire dal 1910 in Oceania.
Il sistema kariera La peculiarità di questo lavoro consisteva nell'avere predetto, sulla base di un'ipotesi formulata a partire da postulati ricavati dalla letteratura etnografica, l'esistenza, in una determinata regione dell'Australia, di un particolare sistema matrimoniale, il sistema kariera. Il sistema kariera prende il nome da una «tribù» dell'Australia nord-occidentale. Si tratta di un sistema a quattro sezioni in base al quale un individuo viene assegnato ad una sezione (di quattro) diversa tanto da quella del padre quanto da quella della madre. Egli è obbligato a sposarsi con un individuo che non è né della propria sezione, né di quella della madre, né di quella del padre. Il sistema è congegnato (almeno dal punto di vista del modello teorico) in maniera tale da assumere un carattere di ripetitività ciclica. Questo lavoro, è stato detto, rimarrà nella storia dell'antropologia, come «un memorabile successo deduttivo» (Lévi-Strauss 1966: 337). Radcliffe-Brown così sintetizzò, ne Lo stadio dei sistemi di parentela del 1941 (Radcliffe-Brown 1967), la propria visione dell'argomento: «credo si possa trovare, al di là delle diversità, un numero ristretto di principi generali applicati e combinati in maniere diverse» (1968: 104). Partendo dalla polemica che aveva opposto da un lato Kroeber e dall'altro Rivers (seguace di Morgan), Radcliffe-Brown tornava, nel saggio del '41, sul problema del rapporto tra terminologie di parentela e comportamento sociale. Più vicino alle posizioni di Rivers, Radcliffe-Brown contestò ciò che gli parve essere Io psicologismo di Kroeber e propose una lettura delle terminologie di parentela in grado di farne emergere innanzitutto il significato in relazione ai comportamenti sociali attuali. I sistemi omaha La differenza tra le posizioni degli evoluzionisti e quella di Radcliffe-Brown emerge specialmente in relazione all'interpretazione di alcune caratteristiche dei sistemi di tipo omaha (cosiddetti dal nome dei nativi nordamericani presso i quali fu osservato per la prima volta un sistema di questo genere). Il sistema ornaha presenta, tra le altre, la caratteristica per cui la figlia del fratello della
G an Baio ^. Austroliono
Gli aborigeni australiani studiati da RadcliffeBrown
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Il fitnzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
madre (quella che noi chiameremmo cugina o, in gergo antropologico, cugina incrociata matrilaterale) viene chiamata madre. Mentre gli evoluzionisti spiegavano questa caratteristica considerandola effetto di una istituzione che aveva consentito in passato il matrimonio di un uomo con la figlia del fratello della moglie (cioè con la propria nipote), e quindi il verificarsi della possibilità che un individuo potesse essere figlio biologico della propria cugina, Radcliffe-Brown spiegò l'esistenza di questa particolare terminologia come un modo per rendere sociologicamente coerenti, là dove potessero verificarsi, questi tipi di unione. La cugina diventerebbe infatti, in questo caso, la matrigna dei figli di suo marito e verrebbe così chiamata "madre". Radcliffe-Brown, in sintonia con la sua opzione sociologica di partenza e contro il culturalismo e lo psicologismo di Kroeber, individuava nel comportamento sociale il senso del sistema terminologico.
L'unità del lignaggio Un altro principio strutturale messo in evidenza da Radcliffe-Brown è quello dell'unità di lignaggio, anch'esso in grado di rendere ragione, secondo lo studioso inglese, di certe caratteristiche dei sistemi classificatori, come il fatto che un individuo possa rivolgersi a tutti gli individui appartenenti alla linea di discendenza di uno dei genitori con lo stesso termine. Così, sempre in un sistema di tipo omaha, si verifica il caso che un individuo chiami gli individui appartenenti alla linea di discendenza materna distinguendoli sul piano dell'identità sessuale, ma non tenendo conto della differenza generazionale (per cui la madre, le sue sorelle, le cugine matrilaterali e le figlie di queste sono chiamate tutte "madre").
I principi strutturali RadcliffeBrown «osserva» i suoi «primitivi» (H. Beecroft, 1929)
[T15.4]
Coerentemente 'all'idea che egli aveva dei rapporti sociali, Radcliffe-Brown cercò di definire il significato delle terminologie di parentela a livello di struttura sociale. Egli enucleò così dei principi strutturali alla luce dei quali le terminologie di tipo classificatorio acquistavano da un lato quella funzionalità sociologica che Kroeber aveva loro negato, mentre dall'altro perdevano le caratteristiche di «sopravvivenza» che gli evoluzionisti erano propensi ad attribuire ad esse. Il primo di questi principi strutturali è quello della unità del gruppo dei fratelli (sibling group) cioè dei i figli dello stesso padre e della stessa madre senza distinzione di sesso. Il gruppo dei siblings forma un'unità che Radcliffe-Brown definisce solidale per l'unità che esso esprime "nei confronti di una persona o di una unità estranea al gruppo" ma legata a quest'ultimo per via di un particolare rapporto con uno dei suoi membri (ivi: 83). L'unità del sibling group può così venire a costituire la ragione fondamentale dell'esistenza delle terminologie classificatorie. Il sibling group si presenta infatti come un insieme di individui nei confronti dei quali un individuo che non appartiene ad esso mantiene la stessa attitudine, e a cui si rivolge impiegando lo stesso termine. Si spiegherebbe così il fatto che un individuo possa chiamare tanto il fratello del proprio padre quanto la sorella del padre entrambi "padre", come in certi sistemi africani di lingua bantu. Radcliffe-Brown mise dunque in rapporto diretto terminologia di parentela e comportamento sociale senza tuttavia assegnare le caratteristiche di causa e di effetto all'uno o all'altro dei due. In questo modo egli non riprodusse la problematica degli evoluzionisti che facevano dipendere le terminologie dai tipi di unione matrimoniale, ma affermava semplicemente l'unità Jùnzionale di terminologie e di comportamento sociale.
La teoria del totemismo. In un saggio del 1929 intitotalo La teoria sociologica del totemismo (RadcliffeBrown 1967) Radcliffe-Brown formulò una teoria del totemismo che poneva in discussione le conclusioni di Durkheim relative alle ragioni dell'utilizzazione di simboli animali e vegetali nella caratterizzazione del totem. Come si è visto (v. Cap. 5), la solidarietà tra i membri del clan, o forma minima di organizzazione sociale dopo la famiglia, poteva essere ottenuta, secondo Durkheim, mediante l'identificazione del clan con un segno, un simbolo (Durkheim 1963: 107 e ss.). II totemismo «economico» Radcliffe-Brown accettava l'interpretazione funzionale che Durkheim aveva dato del totemismo, e cioè l'effetto integrativo prodotto dal simbolo totemico a livello dei gruppi che in esso si identificano; ma respingeva l'ipotesi dell'adozione del simbolismo animale e vegetale avanzata da Durkheim, considerandola il risultato di un modo sbagliato di stabilire la relazione rituale tra l'uomo e il totem. L'atteggiamento rituale degli individui di un gruppo nei confronti del loro totem, atteggiamento che per Durkheim era l'effetto della natura sacra del totem in quanto simbolo della società, veniva invece considerato da Radcliffe-Brown come un caso particolare di una più generale attitudine rituale da parte dell'uomo nei confronti delle specie animali e vegetali. Radcliffe-Brown riteneva che l'atteggiamento rituale nei confronti di animali e di piante precedesse l'utilizzazione di questo tipo di simbologia in senso sociologico (cioè della classificazione dei gruppi, secondo Durkheim). Infatti, tale atteggiamento esisteva anche là dove il totemismo non era presente. Questa idea ricorda, in qualche modo, la presa di posizione di Van Gennep nei confronti dello stesso Durkheim, in quanto l'attitudine classificatoria non coinciderebbe con la comparsa del totemismo, ma sarebbe ad essa anteriore. Il comportamento rituale nei confronti delle piante e degli animali era, per Radcliffe-Brown, connesso con l'importanza che determinate specie avevano nella vita economica di certi gruppi. I totem non erano oggetto di rituale in quanto simbolo della società, ma diventavano simbolo di quest'ultima perché erano già fatti oggetto di una attenzione rituale. Laddove si ha segmentazione sociale accompagnata da una ritualizzazione che tende ad affermare l'unità dei gruppi, il totemismo utilizza alcune delle specie che hanno un'importanza vitale. Questa interpretazione del fenomeno totemico, tuttavia, era solo provvisoria, ed anche fragile in quanto molte specie e varietà erano fatte oggetto di culto o di attenzioni speciali senza avere alcun ruolo nella "economia" di numerose società.
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Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
II totemismo «strutturale»
Razionalità «primitiva» e antropologia come «arte»: Edward E. Evans -P ritchard
Radcliffe-Brown sarebbe infatti andato oltre questa interpretazione "economi[T15.5] ca" del totemismo una ventina d'anni più tardi. Nel 1952, ne II metodo comparativo nell'antropologia sociale, Radcliffe-Brown abbandonò la spiegazione economico-sociologica del totemismo e si concentrò su due problemi. I1 primo era quello del perché certe specie e non altre venissero scelte allo scopo di rappresentare simbolicamente determinate relazioni tra gruppi. Il secondo problema era quello del perché si ritrovino spesso abbinate certe specie le quali, pur presentando caratteristiche simili (per esempio degli uccelli "mangiatori di carne"), sono pensate come "opposte". Così, una "metà" di un gruppo australiano può essere "Falco" e l'altra metà "Cornacchia", allo stesso modo in cui una metà di un gruppo indiano nordamericano poteva essere "Corvo" e un'altra metà "Aquila". Attraverso l'analisi comparata di alcuni miti australiani e nordamericani che hanno questi animali-simbolo per protagonisti, Radcliffe-Brown giunse alla conelusione secondo la quale «il mondo della vita animale è rappresentato in termini di relazioni sociali simili a quelle della società umana» (Radcliffe-Brown 1968: 134); e che le coppie d'opposizione costituite dagli animali-simbolo sono espressione dell'applicazione «di un determinato principio strutturale». Questo principio, consistente nell'unione di termini opposti, fa sì che il totemismo esprima, secondo modalità particolari, una serie di rapporti opposti o correlati i quali potrebbero venire espressi anche in altro modo, cioè mediante altri simboli. Il totemismo esprimerebbe l'opposizione di gruppi che sono strutturalmente uniti in una relazione funzionale (per esempio lo scambio matrimoniale). Per alcuni autori, come ad esempio Lévi-Strauss, ciò costituiva una apertura verso un'analisi di nuovo tipo, quella che lo stesso Lévi-Strauss porterà a termine nel 1962 con il suo studio sul totemismo (v. Cap. 18). Dopo Radcliffe-Brown Nel panorama generale dell'antropologia britannica del periodo compreso tra le due guerre, le figure di Malinowski e di Radcliffe-Brown costituirono il duplice punto di riferimento per tutta una generazione di ricercatori. Se Malinowski rappresentò un ideale di comportamento etnografico, Radcliffe-Brown esercitò, grazie alla sua vena teoretica e speculativa, un'influenza per certi aspetti superiore e largamente decisiva. La preoccupazione di Radcliffe-Brown di assegnare all'antropologia sociale un campo ed un oggetto preciso di studio lo indusse a ricercare e ad impiegare nozioni e concetti pertinenti al fine di renderne più rigoroso il discorso della disciplina. L'antropologia "sociale" di Radcliffe-Brown fu per molti anni un elemento di netta caratterizzazione degli studi antropologici in Gran Bretagna, e di altrettanto netta distinzione rispetto a quelli di altri paesi. Per molti anni l'antropologia "sociale" di Radcliffe-Brown costituì, nonostante le rettifiche e le critiche, un punto di riferimento imprescindibile della tradizione dell'antropologia britannica. Il funzionalismo «strutturale» di Radcliffe-Brown costituì infatti, almeno fino agli anni 1950, il punto di riferimento per quasi tutti i ricercatori che facevano capo alla tradizione degli studi antropologici in Gran Bretagna, Australia, Nuova Zelanda e Sudafrica. Fu però nei primi anni successivi alla conclusione del secondo conflitto mondiale che emersero i primi segni di un allontanamento dalle posizioni di RadcliffeBrown.
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Tra le grandi figure dell'antropologia sociale britannica un posto particolarmente significativo è occupato da Edward E. Evans -Pritchard (1902-1973), per molti aspetti una figura "di passaggio" tra due concezioni dell'antropologia e tra due epoche. Con Evans-Pritchard l'antropologia sociale di Radcliffe-Brown subì importanti mutamenti di prospettiva, mentre i suoi lavori sulla magia e la religione aprirono orizzonti nuovi precorrendo in qualche modo problematiche teoriche che si sarebbero imposte solo nella seconda metà del Novecento. Evans-Pritchard è un autore per molti aspetti contemporaneo, ma la sua rapida e brillante carriera di antropologo, iniziata quando era poco più che ventenne, fa sì che i suoi lavori etnografici più importanti si collochino nella prima metà del secolo XX. Studente di Seligman a Londra e poi a Oxford, dove succedette infine come professore a Radcliffe-Brown nel 1946, Evans-Pritchard passò da posizioni struttural-funzionaliste ortodosse a una prospettiva che, per certi aspetti, può essere considerata opposta a quella che vedeva nell'antropologia una «scienza naturale della società» fondata sulla metodologia comparativa e sull'induzione. Gli Azande e la razionalità primitiva Il primo libro importante di Evans-Pritchard uscì nel 1937: Stregoneria, oracoli e magia tra gli Azande (Witchcraft Oracles and Magic among the Azande). Si tratta di una delle più celebri monografie etnografiche, uno dei libri che hanno suscitato più dibattiti nella storia della disciplina e al di fuori di essa. Gli Azande, presso i quali Evans-Pritchard aveva condotto ricerche tra il 1926 e il 1930, sono un popolo stanziato in un'area compresa tra il Sudan e il Congo attuali. EvansPritchard aveva studiato la loro concezione della stregoneria e della magia, e le procedure seguite dagli indovini al fine di scoprire i responsabili dei malefici. La natura del pensiero magico. La ricerca aveva finito per riguardare la natura stessa del pensiero zande. Ecco un passo molto significativo di un lavoro di parecchi anni successivo alla pubblicazione del libro del 1937, ma da cui è possibile dedurre la problematica complessiva dello studio di Evans-Pritchard e del genere di problemi che esso sollevava: «Fra gli Azande – egli scrive – qualsiasi disgrazia può essere attribuita, come infatti avviene generalmente, alla magia, che essi considerano una condizione organica interna anche se la sua azione è considerata di tipo psichico... Colui che le [disgrazie] subisce consulta gli oracoli oppure un indovino... gli Azande posseggono tutto un vasto campo di tecniche e di conoscenze magiche... cui largamente si ricorre per proteggere persone e attività dalla stregoneria. In tal modo stregoneria, oracoli e magia costituiscono un complesso sistema di credenze e di riti che
Edward EvansPritchard e oli Azande (1928)
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Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard acquistano un senso soltanto se visti come parti interdipendenti di un unico complesso. Questo sistema ha una struttura logica. Una volta stabiliti alcuni postulati, risultano valide le conclusioni e l'azione basata su di essi. La stregoneria provoca la morte. Perciò la morte costituisce prova di stregoneria e gli oracoli confermano che fu proprio la stregoneria a provocarla. La magia serve a vendicare la morte» (Evans-Pritchard 1971: 121-122). La coerenza interna dei sistemi di pensiero
Il pensiero zande possiede dunque un carattere coerente e logicamente necessario: date certe premesse derivano deterAzande minate conseguenze. Tuttavia restava il problema di riuscire a capire in che modo degli esseri umani che si comportano razionalmente in tutti gli altri momenti della loro vita possano fondare dei ragionamenti su premesse logiche palesemente errate. A questa obiezione Evans-Pritchard rispondeva che per valutare seriamente la questione bisogna «entrare» non nella logica astratta del problema, ma piuttosto nella sua logica pratica: «Non avevo difficoltà a utilizzare le nozioni zande allo stesso modo degli Azande. Una volta imparato l'idioma il resto è facile poiché nella terra degli Azande un'idea mistica segue un'altra con la stessa ragionevolezza con cui un'idea del senso comune ne segue un'altra presso [T15.6] di noi» (Evans-Pritchard 1976:650-651). Le conclusioni di Evans-Pritchard lo ponevano in una posizione speciale rispetto alla tradizione di questo genere di studi. Benché egli sollevasse un problema analogo a quello discusso da studiosi come Frazer e Lévy-BruhI, cioè il problema della razionalità o meno dei "primitivi", le sue conclusioni lo allontanavano da entrambi: il problema della razionalità, ci dice Evans-Pritchard, non può essere posto nei termini dell'alternativa vero/falso, ma solo in termini di coerenza interna ad ogni sistema di credenze. Il fatto di considerare la magia come un complesso strutturato di idee distingueva Evans-Pritchard anche da altri autori, tra cui lo stesso Malinowski, i quali erano propensi a trattare la sfera della magia in connessione con altri aspetti della vita sociale, ma non come un "sistema di idee". Lo studio del 1937 sugli Azande era in effetti destinato a dare inizio, sul versante dell'antropologia britannica, alle ricerche su quelli che vennero poi chiamati i "sistemi di pensiero". Negli stessi anni, d'altronde, Leenhardt e Griaule in Francia avevano intrapreso lo studio delle "cosmologie" dei Canaki e dei Dogon rispettivamente. Da allora in poi il pensiero "primitivo" non sarà più fatto oggetto di teorie concernenti la sua natura pre-razionale o pre-logica, ma verrà considerato in diretta relazione con la società che lo esprime e come un insieme coerente di concetti legati tra loro da una logica propria. Evans-Pritchard tornò su questi argomenti in lavori successivi, e in particolare in La religione dei Nuer (Nuer Religion) del 1956, dove studiò appunto il "sistema di credenze" di questo popolo presso il quale compì ricerche dopo aver lavorato tra gli Azande. I Nuer e il modello segmentario La fama di Evans-Pritchard è legata però anche agli studi sull'organizzazione sociale dei Nuer del Sudan. Egli scrisse diversi libri su questa popolazione di allevatori di bovini e di agricoltori da lui visitata negli anni 1930. Ma fra questi lavori quello più noto è 1 Nuer (The Nuer), del 1940. Tra i molteplici aspetti del-
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Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard l'organizzazione sociale nuer considerati da Evans-Pritchard, un'attenzione speciale fu da lui dedicata alle dinamiche delle alleanze e del conflitto. C'era qualcosa di insolito nell'organizzazione sociale di questa popolazione, il cui studio dimostrava che potevano esistere sistemi politici privi di veri e propri capi. La dinamica politica della società nuer, spiegò Evans-Pritchard, consisteva nei rapporti di alleanza o di conflitto che i vari segmenti autonomi della società potevano intrattenere alternativamente tra di loro. Tali segmenti, o lignaggi, costituiti dai discendenti dei rispettivi antenati, si univano tra loro o si allontanavano gli uni dagli altri per dar luogo a gruppi contrapposti quasi sempre in maniera tale che l'opposizione creava una sorta di equilibrio delle forze in lotta. Tale equilibrio era sovente la ragione per cui i conflitti venivano bloccati e ricomposti. Evans-Pritchard si propose di illustrare la dinamica politica della società nuer in un modello, il modello segmentario, a cui egli diede espressione nel diagramma seguente: A
B X
X1
Y
Y1
Z1 Y2
X2
Z2
Non esiste commento migliore a questo modello di quello dello stesso EvansPritchard, che lo descrive nel modo seguente: «Nella figura [...] quando Z' combatte Z 2, nessun'altra sezione ["segmento"] resta coinvolta. Quando Z' combatte Y', Z' e Z 2 si uniscono, e la loro unità è indicata come Y2 . Quando Y' combatte X', Y' e Y 2 si uniscono, e così fa X1 con X2. Quando X' combatte A, X', X'-, Y' e Y2 si uniscono nell'unità B. Quando A fa una razzia contro i Dinka [vicini dei Nuer],A e B si uniscono» (Evans-Pritchard 1975: 199). A e B, che sono da Evans-Pritchard definite «sezioni primarie», costituiscono, unendosi tra loro, una «tribù» nuer. Il modello ha una portata generale e infatti, precisa Evans-Pritchard, «questo principio della segmentazione e dell'opposizione dei segmenti è lo stesso in ogni sezione di tribù e si estende, oltre la tribù, alle relazioni tra tribù...» (ibidem). Il modello segmentario presentato da Evans-Pritchard è stato fatto oggetto in seguito di lunghi dibattiti (Fabietti 1999: 180-187) e se ne è dimostrata la lontana derivazione dagli studi compiuti da W. Robertson Smith alla fine dell'Ottocento sulla struttura delle tribù arabe (Beidelman 1974; Dresch 1988). Tale modello dimostrava essenzialmente una cosa: che una vita politica complessa e articolata poteva esistere anche laddove non era presente un'autorità formale capace di esercitare un potere di natura coercitiva.
Nuer
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Il funzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
11 funzionalismo
Una nuova idea di «segnrentarietà»
L'antropologia: un sapere interpretativo?
Dal punto di vista della storia dei concetti antropologici il modello segmentario rivestiva un'importanza particolare. Esso infatti consentì di liberare le nozioni di segmentazione e di società segmentaria dalle immagini di "meccanicità" e di "staticità" conferite ad esse da Durkheim. Ne La divisione del lavoro sociale (1893) Durkheim aveva parlato di società a solidarietà meccanica contrapponendole a quelle a solidarietà organica (v. Cap. 5). Le prime presentavano una struttura segmentaria, simile a quella dei lombrichi, il cui corpo è appunto costituito da segmenti anelliformi. Ciascun segmento era la replica identica di tutti gli altri, per cui la presenza di un segmento in meno o in più nel corpo di queste società aveva lo stesso effetto che un segmento in più o in meno ha nel corpo del lombrico: se tolto si riforma uguale agli altri. Con Evans-Pritchard le nozioni di segmentazione e di società segmentaria acquistavano entrambe un carattere espressamente dinamico. Innanzitutto la segmentazione non era più, come in Durkheim, un fatto di semplici aggiunte e sottrazioni di "parti" della società stessa, ma diventava un processo contestuale e relativo: più l'antenato di riferimento era "distante", più il segmento diventava ampio; viceversa, più l'antenato considerato era "vicino", meno ampio risultava essere il segmento. In secondo luogo la società segmentaria non era più equiparabile ad un organismo primitivo come il lombrico. Era invece un corpo sociale che si reggeva grazie alla dinamica dei segmenti i quali non solo si alleavano e si scontravano, ma si opponevano a pari livello di segmentazione assicurando una condizione d'ordine ad una società "anarchica", priva di capi stabili e riconosciuti.
Evans-Pritchard contribuì ad un mutamento di prospettiva per quanto riguarda la concezione stessa dell'antropologia. Egli abbandonò le posizioni di RadcliffeBrown per approdare ad una concezione della disciplina come qualcosa di più vicino alle "scienze storiche". Forse le ragioni di questa idea vanno individuate nel fatto che Evans-Pritchard, dopo gli Azande, ebbe modo di studiare non solo i Nuer del Sudan, ma anche i Beduini della Libia (Evans-Pritchard 1973), due "casi" etnografici che sollecitavano una considerazione della dimensione storica più di quanto avessero fatto sino ad allora le società "primitive" abitualmente studiate dagli antropologi di tradizione britannica. Nel 1950, in una celebre conferenza, egli sostenne «che l'antropologia sociale è una specie di storiografia e quindi, in ultima analisi, di filosofia dell'arte» (Evans-Pritchard 1962: 26), e che, di conseguenza, «essa studia le società più come sistemi morali che non come sistemi naturali... e che perciò essa va in cerca di modelli più che di leggi scientifiche, ed interpreta piuttosto che spiegare» (ibidem).
L'antropologia come «traduzione di culture» Il carattere coerente e logico dei sistemi di pensiero "primitivi" poneva tuttavia un problema: quello della loro traducibilità nel pensiero dell'antropologo e, so[T15.7] prattutto, della logica culturale degli occidentali. In La religione dei Nuer (Nuer Religion) del 1956, Evans-Pritchard sintetizzò quanto era venuto elaborando nei venti anni precedenti sull -argomento. Egli cercò di rendere ragione di certe affermazioni "apparentemente irrazionali" ("la pioggia è spirito": "i gemelli sono uccelli" ecc.) ricostruendo il sistema concettuale dei popoli che usavano simili espressioni e mostrando che, considerate all'interno del sistema di pensiero specifico, tali affermazioni erano perfettamente razionali e del tutto traducibili (cioè comprensibili) da parte degli occidentali. Egli cercò ad esempio di "spiegare" l'affermazione dei Nuer secondo cui "i gemelli sono uccelli" a partire dalle loro stesse categorie concettuali. Le teorie di Evans-Pritchard su questo argomento furono in seguito criticate e accusate di essere troppo "caritatevoli" (Gellner 1973). A Evans-Pritchard fu infatti rimproverato di voler stabilire ad ogni costo il carattere coerente dei sistemi di pensiero primitivi che sino ad allora erano stati considerati frutto di un atteggiamento "irrazionale". Ma altre critiche si sono appuntate sul fatto che un sistema di pensiero non può essere esplorato solo in base alla sua coerenza concettuale, bensì in relazione al contesto dell'utilizzazione pratica dei concetti. Se considerato solo dal punto di vista concettuale. un sistema di pensiero rischia troppo facilmente di essere "razionalizzato" da un osservatore esterno. È invece osservando come e quando i concetti vengono impiegati che è possibile coglierne il senso culturale specifico e quindi, se possibile, tradurli. Tuttavia, la concezione dell'antropologia come traduzione di culture divenne, a partire dagli anni 1950 del XX secolo, un modo per qualificare la stessa impresa antropologica. E questo fu, in larga misura, per opera di Evans-Pritchard.
strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
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La critica del metodo comparativo Non meraviglia pertanto che Evans-Pritchard abbia sviluppato uno degli attacchi più vigorosi che siano stati mai portati al metodo comparativo, da sempre considerato in Gran Bretagna come garanzia di scientificità dell'antropologia. Nel 1965 Evans-Pritchard pubblicò 11 metodo comparativo nell'antropologia sociale (The Comparative Method in Social Anthropology), un saggio diventato celebre quanto quello dedicato da Boas allo stesso tema quasi settant'anni prima. Ripercorrendo la storia dell'antropologia, Evans-Pritchard polemizzava innanzitutto con Frazer, il quale forniva esempi ad hoc e decontestualizzati per dimostrare delle teorie precostituite, mentre riservò aspre critiche ai tentativi allora in corso (soprattutto in America) di "classificare" i tratti culturali allo scopo di produrre un sapere della variabilità culturale fondato sul criterio – già proposto dagli evoluzionisti e da Durkheim – delle cosiddette variazioni concomitanti. La sua polemica non poteva risparmiare le idee espresse da Radcliffe-Brown sulla comparazione, idee che egli giudicava "prive di documentazione etnografica adeguata" (Evans-Pritchard 1973: 29), trascurando tuttavia di considerare l'intuizione, raggiunta proprio grazie all'adozione di una prospettiva comparativa, relativa al significato delle classificazioni totemiche. Non per questo si doveva abbandonare però il principio della comparazione. Evans-Pritchard denunciò infatti il pericolo di una frammentazione dell'antropologia in una serie di studi monografici e collegò questo pericolo alla fine dell'antropologia in quanto disciplina distinta dalle altre, in particolare dalla storiografia. Egli avanzò pertanto la proposta di un metodo comparativo su "scala ridotta", che prendesse in considerazione società definite sulla base della loro organizzazione (cacciatori, nomadi ecc.) o situate all'interno di aree geografiche circoscritte, oppure sulla base di una scelta tematica ristretta (organizzazione politica, economica, religiosa ecc.). Egli propendeva insomma per un lavoro di verifica delle ipotesi avanzate dai ricercatori su tematiche definite, non l'adozione di una prospettiva generalizzante a qualunque costo. Questa riduzione delle pretese del metodo comparativo, ritenuto tuttavia indispensabile alla sopravvivenza dell'antropologia in quanto disciplina autonoma, spostava l'accento sulla ricerca delle particolarità culturali piuttosto che delle uniformità, nel senso che per Evans-Pritchard l'antropologia doveva «spiegare le differenze: ogni pretesa di universalità... contrasta infatti con il fine stesso della sociologia, che è quello di spiegare le differenze, non le somiglianze» (ivi: 15).
[T15.8]
Il fitnzionalismo strutturale britannico da Radcliffe-Brown a Evans-Pritchard
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Il distacco da Radcliffe-Brown traspare anche nella conclusione di questo saggio, quando Evans-P ri tchard insiste sulla conoscenza delle situazioni etnografiche come premessa necessaria e imprescindibile per qualunque tentativo di generalizzazione. «Forse – egli scrive – dovrei considerarmi un etnografo prima che un antropologo sociale, visto che sono dell'opinione che un'adeguata comprensione dei dati etnografici debba precedere qualunque analisi che pretenda di essere seriamente scientifica» (ivi: 26). Con le sue critiche metodologiche e con la sua concezione dell'antropologia come sapere "interpretativo piuttosto che "scientifico", Evans-Pritchard contribuì ad accelerare la crisi del paradigma funzionalista in relazione a quelli che erano considerati i suoi assunti basilari e cioè: una concezione della struttura sociale come complesso di parti e come tale comparabile ad altre; il carattere omeostatico della società pensata sul modello dell'organismo vivente; l'esclusione della dimensione temporale dall'analisi dei sistemi sociali.
Bibliogra fi a critica
Colajanni A., «Un classico dell'antropologia sociale trent'anni dopo: ! Nuer», in Rassegna Italiana di Sociologia, 4, 1976. Douglas M., Evans-Pritchard, Fontana, Glasgow 1980. Dumont L., Introduction à deux théories d'anthropologie sociale. Mouton-E.P.H.E., Paris 1971. Kuper A., The Social Anthropology of Radcliffe-Brown, Routledge, London 1977. Kuper A., Anthropologists & Anthropology. The British School, Penguin, London 1996. Lombard J., Lanthropologie britannique contemporaine, P.U.E, Paris 1972. Urry J., Before Social Anthropology, Harwood, Chur (Switzerland) 1993.
Parte quarta LA SECONDA METÀ DEL NOVECENTO
Capitolo
16 Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra
Gli anni successivi alla seconda guerra mondiale furono, per gli studi etno-antropologici italiani, anni difficili. Essi furono contrassegnati, come scriveva Grottanelli (v. Cap. 12), dalla diffidenza del mondo culturale, politico e accademico italiani. Gravava sugli studi etno-antropologici l'ombra della compromissione con il regime fascista, nelle sue varianti coloniale e razzista. Bisogna però aggiungere anche che, se si eccettuano ristrette cerchie culturali, l'accademia italiana non era in grado di comprendere — per eredità crociana, per conservatorismo culturale o, molto più semplicemente per incapacità di intendere — le innovazioni introdotte dalle "scienze umane" nel generale processo di "comprensione del mondo attuale". Un momento importante di rilancio per gli studi di carattere etno-antropologico venne da Ernesto de Martino che, come abbiamo già visto (v. Cap. 12), compì inizialmente un tentativo di estensione della filosofia crociana allo studio del mondo primitivo.
De Martino: il problema del magismo e il concetto di «presenza» Nel 1948 de Martino pubblicò II mondo magico. Prolegomeni a una storia del magismo, secondo alcuni il libro più importante dello studioso napoletano. Il mondo magico si presentava come una ideale continuazione di Naturalismo e storicismo, come la realizzazione di un progetto annunciato già nelle ultime pag ine di questo lavoro. II tono de Il mondo magico era però diverso da quello con cui de Martino aveva attaccato le correnti «naturalistiche». Ora de Martino si impegnava in una ricostruzione della "struttura" del mondo magico, la quale restava per lui l'unico vero modo per recuperarlo alla storia. Non sarà fuori luogo ricordare, a questo punto. che la comprensione di un'era magica si presentava, per de Martino, anche come condizione di comprensibilità dell'era presente, soprattutto di quella appena terminata nel segno distruttivo dei miti irrazionalistici del sangue, della razza e della guerra. Recuperare alla storia il mondo magico significava ribaltare la prospettiva crociana, che de Martino criticava nella versione fornita dagli epigoni del filosofo. Egli difatti scriverà: «Ogni sistemazione filosofica che riconosca solo le for-
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Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra me tradizionali (per es., il sistema crociano delle quattro forme) esprime, in sostanza, il momento metodologico di una esperienza storiografica limitata alla civiltà occidentale» (de Martino 1948: 194). Tali «forme tradizionali – sostiene de Martino – non costituiscono, né possono costituire, per entro il mondo magico, un interesse dominante, e quindi ogni giudizio storico che impieghi esclusivamente tali categorie è destinato a non essere individuante» (ibidem). Le categorie crociane Ricordiamo, a questo proposito, che nella filosofia di Benedetto Croce le categorie dello spirito sono quattro: estetica, concettuale, economica ed etica. Questi sono gli ambiti in cui si risolveva, secondo Croce, l'attività dello spirito: ambiti al cui interno si articolano di volta in volta, e in maniera specifica, dominio teoretico e dominio pratico, dimensione universale e dimensione particolare. Alla attività teoretica sono per Croce da far risalire la filosofia e l'arte. Nella filosofia sono presenti tanto la dimensione conoscitiva quanto quella universale; mentre l'arte (o estetica) è conoscenza, come la filosofia, ma del particolare. In maniera analoga, l'economia è atteggiamento pratico mirante al raggiungimento di un fine particolare, mentre l'etica (morale) è la volontà di perseguire un fine universale. Si deve notare come la religione non trovi spazio all'interno delle quattro categorie crociane, essendo la dimensione religiosa concepita da Croce come una sorta di semplice «aggregazione» di istanze appartenenti al dominio della speculazione, della morale e della poesia (arte). Quest'ultimo punto può aiutarci a capire Io sforzo di de Martino che mirava a svincolare lo studio del mondo magico da una filosofia fondata su una ripartizione categoriale dello spirito tale per cui all'interno di essa non potevano trovare spazio – e quindi divenire oggetto di vera conoscenza – atteggiamenti mentali quali, appunto, il magismo. Il mondo magico prende le mosse da un problema epistemologico sulla cui importanza si è forse troppo poco insistito e che certamente lo stesso de Martino ha contribuito in qualche modo ad occultare. De Martino definisce tale problema come «il problema dei poteri magici», ma esso si configurava piuttosto, potremmo dire, come il problema della "costruzione della realtà". Scrive infatti de Martino: «Nella nostra esplorazione del mondo magico noi dobbiamo dunque cominciare col sottoporre a verifica proprio il presupposto l"ovvio" della irrealtà dei poteri magici [ovvero della loro efficacia], cioè dobbiamo determinare se e in quale misura tali poteri sono irreali. Ma ecco che una nuova difficoltà si fa innanzi... Quando ci si pone il problema della realtà dei poteri magici, si è tentati di presupporre per ovvio che cosa si debba intendere per realtà, quasi che si trattasse di un concetto tranquillamente posseduto dalla mente... Ma per poco che l'indagine venga iniziata e condotta innanzi, si finisce prima o poi col rendersi conto che il problema... non ha per oggetto soltanto la realtà di tali poteri, ma anche il nostro stesso concetto di realtà e che l'indagine coinvolge non soltanto l'oggetto del giudizio (i poteri magici) ma anche la stessa categoria giudicante (il concetto di realtà)» (1948: 21-22). Qui tuttavia de Martino, che sembra cogliere (o se si vuole "anticipare") uno dei nodi centrali del dibattito contemporaneo sui temi della "costruzione culturale" del mondo, della razionalità e del relativismo (Wilson 1970; I-Iollis e Lukes 1982; Overing 1985) si ritrae, finendo per risolvere il problema sullo stesso terreno di coloro che aveva criticato. Per lui i «poteri magici sono reali» nel senso che essi sono effettivi ed efficaci. Allo scopo di dimostrare la propria tesi de Martino chiama in causa la sfera dei fenomeni paranormali, già da lui citati anni prima
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nella sua polemica con Cantoni (de Martino 1942). Il distacco da Croce si faceva così più netto: diventava infatti esplicita la convinzione secondo cui una realtà storica come quella del mondo magico non poteva essere compresa dall'esterno, dall'alto di una visione ispirata dalle categorie dello Spirito. Il mondo magico andava invece rivisitato "dall'interno" e una simile rivisitazione doveva avvenire nei termini stessi in cui si era dispiegato il divenire di quest'epoca dello spirito umano. Il concetto di «presenza» Centrale Appare allora, al fine di comprendere l'universo magico, l'analisi della costruzione della realtà magica, la quale ruota attorno al processo di costituzione della presenza. Molto si è detto sul concetto di presenza in de Martino e sulla sua derivazione dalla filosofia di Heidegger (Cherchi e Cherchi 1987) in un tentativo di identificazione del concetto di presenza con l'heideggeriano esserci (Dasein). Sembra però che l'influenza di Heidegger su de Martino sia stata più a livello lessicale che concettuale e filosofico in senso stretto, in quanto l'esserci heideggeriano denota un livello di significatività delle cose presenti nel mondo (che non coincide con il mero fatto fisico di essere nel mondo) e non quel qualcosa che de Martino indica con il concetto di presenza. Come lo stesso de Martino preciserà più tardi in riferimento alla "crisi del cordoglio", «esserci nella storia significa dare orizzonte formale al patire, oggettivarlo in una forma particolare di coerenza culturale, sceglierlo in una distinta potenza dell'operare, trascenderlo in un valore particolare: ciò definisce insieme la presenza come ethos fondamentale dell'uomo e la perdita della presenza come rischio radicale a cui l'uomo – e soltanto l'uomo – è esposto» (de Martino 1958: 15). La presenza è quindi uno stato etico che l'uomo si sforza di costituire per sfuggire all'idea, insopportabile, di non-esserci; è un moto «naturale» dell'essere umano che, nel momento stesso in cui compie lo sforzo di essere nel mondo fonda, potremmo dire, la cultura. Si tratta di un moto sofferto ma vitale a cui non ci si può sottrarre se non si vuole essere annientati. Il capitolo centrale de Il mondo magico, intitolato non a caso «il dramma storico del mondo magico», potrebbe così essere definito come una "fenomenologia dell'affermazione della presenza sulla non-presenza", della «volontà di esserci come presenza di fronte al rischio di non esserci». Mediante una nutrita serie di esempi desunti dalla letteratura etnografica, de Martino descrisse l'emergenza progressiva del magismo come primo tentativo
Ernesto de Martino ai Sassi di Matera (1949)
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Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra coerente, da parte dell'uomo, di affermare la propria presenza nel mondo. Lo stregone è la figura centrale di questo «dramma storico» che è l'affermarsi dell'universo magico come spazio di pensiero e di azione in cui l'uomo realizza la propria «volontà di esserci di fronte al rischio di non esserci». Qui la posizione di de Martino rispetto al "problema" della magia appare più articolata tanto rispetto a quella degli evoluzionisti quanto a quella dello stesso Malinowski, mentre è piuttosto lontana dalla via battuta, al riguardo, da Mauss. A differenza degli evoluzionisti de Martino non pensa alla magia come ad una forma imperfetta di razionalità; al contrario che per Malinowski, per de Martino la magia non è una semplice risposta allo stress emotivo procurato da situazioni dall'esito incerto; la magia è invece, come s'è detto, una lotta ingaggiata dagli esseri umani per poter esistere. Nel magismo, così come questo si presenta in de Ma rtino, non possiamo nemmeno trovare l'eco delle tesi di Mauss, impegnato in un tentativo di definizione "sociologica" della magia e di fondazione concettuale di essa a partire dal problema delle "frontiere" che la separano dalla religione. Il travaglio della conquista della presenza, «il dramma storico del mondo magico», non si risolve comunque in una acquisizione definitiva. Al contrario, la presenza è qualcosa che può essere sempre rimessa in discussione dalla crisi individuale o collettiva. Si fa quindi Iuce, ne II mondo magico, ma anche e soprattutto in Morte e pianto rituale dei 1958,. il concetto di perdita della presenza. In quest'ultimo libro de Martino analizza il lamento funebre nel mondo antico e nella Basilicata contemporanea interpretandolo come forma culturale il cui scopo è di far fronte alla crisi della presenza che minaccia la comunità e le soggettività che ne sono parte. Non può non stupire l'assenza, in Morte e pianto rituale, di un richiamo alla classica opera di He rtz sulla rappresentazione collettiva della morte. Questa assenza, notata anche da altri e imputata per lo più alla vecchia ostilità di de Martino nei confronti della scuola di Durkheim (Angelini 1978:36), è tanto più notevole in quanto, per indicare l'evento luttuoso innescante la crisi e il rischio della perdita della presenza, de Martino impiega lo stesso termine utilizzato da Hertz – scandalo – per designare l'atteggiamento della società di fronte alla perdita di un proprio componente (de Martino 1958: 47 e passim). E strana può sembrare anche l'assenza di un qualche riferimento all'opera di Van Gennep sui riti di passaggio quando, richiamandosi ad un celebre brano di Croce sulla pietà nei confronti dei defunti, de Martino insiste sulla necessità che gli esseri umani hanno di far passare l'estinto nel valore, ovvero in una dimensione culturale che lo recuperi come pura eticità dopo che lo «scandalo» della morte ha messo in forse la continuità della presenza (ivi: 5). II tema della presenza e del timore della sua perdita costituirà una costante nelle opere successive di de Martino, soprattutto in Sud e magia (1959) e in La terra del rimorso (1961). Destorificazione, marxismo, etnocentrismo critico Nel 1949, un anno dopo la pubblicazione de Il mondo magico, de Martino pubblicò un saggio dal titolo Intorno a una storia del mondo popolare subalterno dove si registrava un forte avvicinamento alle tesi del marxismo di Gramsci. In questo lavoro il binomio gramsciano egemonia-subalternità veniva esteso oltre l'ambito tradizionale. quello dei rapporti di classe, ai rapporti tra culture. Il marxismo demartiniano non fu mai né ortodosso né «teoretico», ma piuttosto etico, con una forte propensione per l'aspetto "umanistico" dell'opera del giovane Marx a sua volta fortemente influenzato da Hegel e da Feuerbach
Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra 167 (Cherchi e Cherchi 1987). Esso fu funzionale alla apertura di de Martino nei confronti di problematiche meridionalistiche. e non ad analisi di tipo storicoeconomico o sociologico; questo marxismo rese pensabile il tema dell"`irruzione delle masse nella storia", tema che doveva costituire un altro grande elemento di rottura da parte di de Martino con la propria eredità crociana, peraltro mai rinnegata. Il concetto di destorificazione È in questo contesto che assume particolare rilevanza il concetto di destorificazione, attraverso il quale si intende indicare la tesi demartiniana per cui «ogni forma di riscatto magico-religioso [e] da intendersi come alienazione da un sé angosciante e come processo che a sua volta consentirebbe di stare nella storia "come se" non ci si stesse» (Gattini 1977: XX). Su queste premesse de Martino inaugura quella che è stata definita «una antropologia del negativo» e che resta, secondo alcuni, il suo contributo più durevole (Solinas 1985: 216). È, come si diceva, l'antropologia delle masse che "non fanno storia" in senso crociano ma che ora (siamo nell'immediato secondo dopoguerra) "irrompono nella storia". In questa prospettiva il marxismo demartiniano, umanista ed etico, e l'antico tema della presenza si fondeva per dar vita all'antropologia meridionalista dello studioso napoletano, scandita da saggi e da importanti ricerche sul campo in Salento e in Basilicata (de Martino 1959; 1961; 1962). Così, come è stato scritto in maniera obiettiva, «Il dramma della persona, come soggetto impegnato a costituirsi [il riscatto della presenza] viene trasposto nel dramma dell'umanità estromessa... La crisi originaria individuale si amplifica per diventare crisi-riscatto di umanità già costituite ma non presenti, che hanno percorso la storia ma non mai l'hanno posseduta, fatta o superata. La lotta per la conquista di una storia culturale da fondare, nell'incerta precarietà dell' "esserci elementare", ciò che era definito come il dramma del mondo magico, rivelava uguale fondamento nella sofferenza culturale dei braccianti pugliesi e di intere aree esterne alla cultura egemone» (Solinas 1985: 217). In tal modo, potremmo aggiungere. il processo di destorificazione assume una connotazione "politica", che travalica l'uscita dal tempo risultante dalla pratica magica. La destorificazione riguarda lo straniamento. o l'esclusione, dei soggetti umani dalla storia. Le idee di de Martino sull'«irruzione» nella storia di masse "prive di storia" erano viste con diffidenza non solo dagli storicisti di matrice idealista, ma anche da alcuni marxisti. Per i primi il negativo, cioè il primitivo, il canagliume, le plebi, non poteva essere oggetto di storia in quanto non ne era l'agente; per i secondi le idee demartiniane erano inaccettabili poiché questa irruzione era recepita come un turbamento di quella prospettiva ideale – ed ottimistica –che vedeva nelle masse un potenziale proletariato riscattabile attraverso il costituirsi di una coscienza di classe. L'ebtocentrismo critico L'accostamento di de Martino allo studio dei fenomeni magico-religiosi tipici del Mezzogiorno d'Italia. e soprattutto le sue esperienze di ricerca etnografica, aprirono una riflessione sul tema dei rapporti tra so g getto conoscente (l'etnologo) e l'oggetto della conoscenza. cioè le comunità e gli individui studiati. Questa riflessione, già accennata in Naturalismo e storicismo, quando de Martino parla di studi etnologici intesi a produrre «un allargamento della nostra coscienza». si coagulerà intorno al tema dell'«umanesimo etnografico» e di quella problemati-
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Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra ca che Vittorio Lanternari ha definito, riprendendo un'espressione dello stesso de Martino, come etnocentrismo critico (Lanternari 1977; 1978). Il punto di partenza della riflessione demartiniana sull"`incontro" dell'etnologo con i soggetti della sua inchiesta è ciò che egli stesso definisce come "umanesimo etnografico". «L'umanesimo etnografico – scrive de Martino – è in un certo senso la via difficile dell'umanesimo moderno, quella che assume come punto di partenza l'umanamente più lontano e che, mediante l'incontro sul terreno con umanità viventi, si espone deliberatamente all'oltraggio delle memorie culturali più care: chi non sopporta quest'oltraggio e non è capace di convertirlo in esame di coscienza, non è adatto alla ricerca etnologica» (de Martino 1977:393). Anche in relazione a questa problematica, così centrale nella ricerca antropologica, e che è poi quella della dialettica tra osservatore e osservato, l'atteggiamento di de Martino rimane soprattutto caratterizzato da una predisposizioni di tipo etico, anche se non manca di certo una preoccupazione di tipo epistemologico. È nelle note di de Martino raccolte e pubblicate dopo la sua morte che troviamo iI corpus più coerente di riflessioni sul tema del rapporto tra soggetto conoscente e oggetto di conoscenza in etriologia (de Martino 1977: 389-413). Tali riflessioni risalgono agli anni immediatamente precedenti la morte di de Martino e testimoniano dell'influenza, sul suo pensiero, di autori che, come Lévi-Strauss (v. Cap. 18), si erano già espressi in materia. De Martino era consapevole del fatto che il rapporto osservatore-osservato non era affatto "neutro" e che l'etnologo tende ad interrogare la cultura aliena attraverso una griglia interpretativa costituita dai propri parametri e pregiudizi culturali cristallizzati in una serie di categorie "etnocentriche": natura e cultura, normale e anormale, conscio e inconscio, razionale e irrazionale, tempo, spazio, sostanza ecc. Il rischio è, sosteneva però de Martino, quello di presentare in maniera dogmatica e acritica l'esperienza culturale aliena: «Si profila così il caratteristico paradosso dell'incontro etnografico: o l'etnografo tenta di prescindere totalmente dalla propria storia culturale nella pretesa di farsi "nudo come un verme" di fronte ai fenomeni culturali da osservare, e allora diventa cieco e muto di fronte ai fatti etnografici e perde, con i fatti da osservare e da descrivere, la propria vocazione specialistica; ovvero si affida ad alcune "ovvie" categorie antropologiche... e allora si espone senza possibilità di controllo al rischio di immediate valutazioni etnocentriche» (ivi: 391). La soluzione sta allora in un continuo confronto «fra la storia di cui questi comportamenti sono documento e la storia culturale occidentale che è sedimentata nelle categorie dell'etnografo... questa duplice tematizzazione della storia propria e della storia aliena è condotta nel proposito di raggiungere quel fondo universalmente umano in cui il "proprio" e l"`alieno"sono sorpresi come due possibilità storiche di essere uomo, quel fondo, dunque, a partire dal quale anche "noi" avremmo potuto imbroccare la strada che conduce alla umanità aliena» (ibidem, corsivo nostro). De Martino non si arresta sulla soglia dell'incontro etnografico, va oltre. Ciò lo porta a ritrovare quel punto di comunione tra "noi e gli altri" a partire dal quale le due rispettive storie si sono separate. Si tratta, in definitiva, del programma de Il mondo magico. La conclusione che egli trae è quella per cui «l'incontro etnografico costituisce l'occasione per il più radicale esame di coscienza che sia possibile all'uomo occidentale; un esame il cui esito media una riforma del sapere antropologico e delle sue categorie valutative, una verifica delle dimensioni umane oltre la consapevolezza che dell'esser uomo ha avuto l'occidente» (ibidem). De Martino non ha dubbi sulla superiorità della cultura occidentale: essa è infatti l'unica che si sia posta in maniera scientifica la comprensione dell'altro. Ma
Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra «il giudizio che l'occidente può dare di culture non occidentali non può non essere etnocentrico, almeno nel senso che non è possibile per lo studioso occidentale... rinunziare all'impiego di categorie interpretative maturate nella storia culturale dell'occidente» (ivi: 394). Il lavoro critico dell'etnologia consiste allora nell'analizzare le proprie categorie interpretative cercando di far affiorare la storia di queste categorie che sono il prodotto della cultura occidentale. L'etnocentrismo critico si configura così come una continua ridiscussione delle proprie categorie analitiche, discussione che tuttavia, più che ad una loro modifica in funzione dell'oggetto della conoscenza, mira a produrre nell'etnologo la "consapevolezza" del fatto che egli sta osservando una cultura aliena attraverso delle categorie «storicamente determinate» di cui tuttavia egli non può fare a meno. Il timore del relativismo culturale La prospettiva di de Martino coincide, di fatto, con ciò che potremmo chiamare un abbozzo di progetto di "antropologia dell'antropologia", e non con un progetto epistemologico mirante a porre il problema della conoscenza dell'altro "in termini a lui propri". Non c'è insomma in de Martino alcun accenno a quella problematica che può essere definita come "la costruzione del dato etnografico" in quanto risultante del processo d'interazione tra l'antropologo e l'informatore. Gli "osservati", cioè il primitivo, il mago, il posseduto, stanno in un rapporto di pura passività e non concorrono a determinare – con le proprie interpretazioni della realtà vissuta – le interpretazioni dell'osservatore. Per de Martino insomma l'incontro etnografico non suscita il problema del "punto di vista del nativo", ma si limita a suscitare una doverosa autocritica concettuale da parte dell'etnologo nel segno di un «umanesismo etnografico». Questo "arresto" di fronte a un nodo teorico tanto decisivo dell'odierna ricerca antropologica non è, beninteso, una "carenza" del pensiero di de Martino, quasi che fosse stato doveroso da parte sua "saltare il fosso" epistemologico della distanza tra osservatore e osservato. Ma certo tale "arresto" ci appare come il lontano riflesso della sua originaria memoria filosofica: lo storicismo idealistico, secondo il quale la cultura europea sarebbe il punto d'osservazione privilegiato dal quale si rende possibile ricostruire la storia dell'umanità; e anche della convinzione secondo la quale, attraverso il travaglio dello spirito, delle perdite e delle riconquiste della presenza sarebbe possibile pervenire alla conoscenza di tutte le esperienze che «ci hanno preceduto». «Il pericolo dell'umanesimo etnografico dispiegantesi nell'epoca della seconda rivoluzione industriale e della decolonizzazione – scrive de Martino – è il relativismo culturale. Solo l'occidente ha prodotto un vero e proprio interesse etnologico, nel senso largo di confrontare sistematicamente la propria cultura con le altre... ma questo confronto non può essere condotto che nella prospettiva [per cui] ... l'etnologo occidentale (o occidentalizzato) assume la storia della propria cultura come unità eli misura delle storie culturali aliene» (de Martino 1977: 396, corsivo nostro). In questa affermazione possiamo trovare una traccia filosofica che pare confermare la derivazione dell'etnologia demartiniana dallo storicismo idealista di Croce.
Altre tendenze nell'Italia del secondo dopoguerra Negli anni successivi alla metà del secolo gli studi etno-antropologici andarono lentamente riprendendo quota soprattutto grazie alla storia delle tradizioni popolari, o demologia. A partire dagli anni 1950 vennero configurandosi nuove e varie tendenze rispondenti non tanto all'affermarsi di una qualche prospettiva dominante, quanto piuttosto ad una esigenza di apertura sui vari aspetti della disciplina.
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Etnologia e antropologia in Italia nel secondo dopoguerra Le ricerche demologiche di Giuseppe Cocchiara Continuatore delle ricerche demologiche di Pitré fu, anche se appartenente ad una generazione alquanto posteriore, Giuseppe Cocchiara (1904-1965), anch'egli siciliano. Cocchiara subì tanto le influenze esercitate dallo storicismo crociano quanto le suggestioni della scuola britannica di antropologia sociale. Tra il 1929 e il 1932 Cocchiara fu infatti allievo di Robert Marett a Oxford e di Malinowski a Londra. Fu però Marett a influenzarlo maggiormente. Marett si era mostrato critico nei confronti delle teorie evoluzioniste "ortodosse" relative al significato delle sopravvivenze (v. Cap. 2). Marett rifiutava quella prospettiva per cui le sopravvivenze sarebbero state dei meri fossili sociali inerti, e proponeva di attribuire loro un carattere altamente significativo sul piano simbolico. Cocchiara recepì l'indicazione di Marett e infatti scrisse, senza tuttavia perdere di vista l'insegnamento crociano: «... le tradizioni popolari, anche quando riecheggiano antiche esperienze religiose e sociali, sono sempre per il popolo "storia contemporanea" in cui le medesime sopravvivenze si stemperano in continue rielaborazioni che possono anche avere una loro particolare organicità. Nessuna tradizione avrebbe senso e valore se essa non fosse pienamente accolta dal popolo e con significati che possono cambiare da un'epoca all'altra. È noto... l'influsso che una religione scomparsa esercita invariabilmente su quella che le succede. Né è raro il caso che una credenza, congeniale ad una determinata civiltà, venga ad assumere in una civiltà diversa il carattere di superstizione. Essa appare allora un errore religioso, un pregiudizio... Ma se queste superstizioni, questi pregiudizi, esistono, vivono e operano, suppongono un pensiero che ancora li accoglie» (Cocchiara 1956: 8-9). Qui l'influsso di Marett si manifesta nella presa in considerazione delle sopravvivenza come elementi attivi all'interno di un pensiero «che li accoglie», mentre quello di Croce è visibile nella prospettiva che fa della storia passata «sempre una storia contemporanea», come appunto affermava il filosofo idealista. Il lavoro di Cocchiara si concentrò essenzialmente su questioni di folklore. In varie opere egli analizzò aspetti sia dell'immaginario popolare che di quello colto, in relazione a temi quali il paese di cuccagna (Il paese di cuccagna del 1956), il mito del selvaggio nella tradizione occidentale (11 mito del buon selvaggio, 1948; L'eterno selvaggio, 1961), l'universo fantastico del mondo rovesciato (Il inondo alla rovescia, 1963). Cocchiara fu autore anche di una assai nota Storia del folklore in Europa (1952), opera unica nel suo genere e apprezzata a livello internazionale nella quale si ripercorre la storia di questo settore di studi.
Una pluralità di istanze Gli studi "demoetnoantropologici", come sono chiamati oggi in Italia tutti i filoni di ricerca riconoscibili come parte di una "antropologia" umanistica, si sono configurati come rispondenti ad una pluralità di esigenze e di istanze che non sono riconducibili a teorie "forti", ma piuttosto a modi diversi di intendere questo genere di studi. Alcune figure di studiosi hanno assolto, in questo senso, un ruolo rilevante. Tra costoro possiamo ricordare, accanto a Vinigi Grottanelli che si fece promotore di iniziative di ricerca nel campo dell'etnologia, quelle di Vittorio Lanternari, Bernardo Bernardi, Tullio Tentori, Carlo Tullio-Altan, Alberto M. Cinese e Giorgio Raimondo Cardona. Lanternari (1918-) fu in assoluto uno dei primi studiosi al mondo a prendere in considerazione i movimenti religiosi revivalisti e sincretici sorti presso le popolazioni del Terzo Mondo coloniale e post-coloniale (Lanternari 1960. 1967), che egli tentò di interpretare secondo una teoria generale del profeti-
smo inteso come "esperienza storica" di tutti i popoli aspiranti ad un futuro libero. Bernardi (1916-) ha rappresentato invece l'apertura verso l'antropologia di ispirazione britannica. avendo lavorato sul campo in Sudafrica negli anni 1950 sul profetismo africano e sulle classi d'età (Bernardi 1959. 1984). Tentori (1922-) si adoperò, dagli inizi degli anni Cinquanta, per l'introduzione in Italia dell'antropologia culturale intesa come studio delle "società complesse". Tullio-Altan (1916-) si è concentrato, dopo un primo periodo di adesione ad un "funzionalismo critico", soprattutto sui cambiamenti dei valori nell'Italia contemporanea. Infine Cirese (1922-) cercò, a partire dagli anni Sessanta, di riformulare gli studi demologici sulla base di prospettive che andavano dal marxismo di Gramsci allo strutturalismo francese. Giorgio R. Cardona (1943-1990), glottologo di formazione, fu il maggior promotore degli studi etnolinguistici nel nostro paese. A lui si deve l'introduzione, in Italia, delle principali tematiche dell'etnoscienza e, in generale, una rivalutazione degli studi linguistici nell'ambito dell'antropologia. Questa varietà di orizzonti e di prospettive, non di rado all'origine di fratture all'interno della comunità antropologica italiana, potrebbe trovare un motivo di ricomposizione nelle esigenze poste dall'analisi culturale del mondo contemporaneo. I temi del "locale" italiano, a cui gran parte della nostra tradizione di ricerca ha dedicato molti dei propri sforzi, potrebbero trovare stimoli interessanti a contatto con quella parte degli studi che ha invece concentrato la propria attenzione sulle culture extra-europee. E viceversa, se è vero che la dimensione locale riacquista oggi ovunque un significato nuovo all'interno di un mondo "globalizzato".
Bibliografia critica Cherchi P. e M., Ernesto de Marcino. Dalla crisi della presenza alla comunita umana, Liguori, Napoli 1987. Gallini C., Introduzione a E. de Martino, La fine del mondo. Einaudi,Torino 1977. Gallini C., «Note su de Martino e l'etnoccntrismo critico». in Problemi del Socialismo. XX, 1979. Lanternari V., «Ernesto de Martino, etnologo meridionalista: vent'anni dopo», in
L'Uomo, 1. 1977. Lanternari V., «Ernesto de Martino tra storicismo e ontologismo», in Studi Storici, 19, 1978. Mancini S.. «Postface a E. de Martino», Le monde magique. lnstitut d'édition SanofiSynthélabo, Paris 1999. Pasquinelli C., «Lo "storicismo eroico" di Ernesto de Martino». in La ricerca folklorica, 3, 1981. Solinas P., «Idealismo, marxismo, strutturalismo». in AA.VV.. L'antropologia italiana. Un secolo di storia, Laterza, Roma-Bari 1985.
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica"
Capitolo
17 L'antropologia americana e la «rinascita nomotetica»
Verso la metà del Novecento l'antropologia americana conobbe importanti novità, e in particolare quella che è stata chiamata la "rinascita nomotetica" (Harris 1971). Il termine "nomotetico" rinviava, nella tradizione del pensiero filosofico tedesco, al piano della ricerca delle "leggi" come obiettivo della scienza. A quella nomotetica era contrapposta la dimensione "idiografica" o 'descrizione del particolare", che era invece la prospettiva favorita da Boas in materia di metodo etnografico e analisi antropologica. Negli Stati Uniti, già nel corso degli anni 1930, l'influenza di Boas cominciò, più che a declinare, a diversificarsi: Alfred L. Kroeber e Robert II. Lowie, Clark Wissler, Edward Sapir, Ruth Benedict e Margaret Mead furono, tra gli altri, interpreti originali di temi di derivazione boasiana. L'ascendente di Boas si rivelò durevole in quasi tutti i filoni di ricerca sviluppati dopo di lui dall'antropologia statunitense, sotto forma di una tendenziale avversione nei confronti della generalizzazione e le spiegazioni di tipo causale. Con la seconda generazione degli scolari di Boas, tuttavia, affiorò la tendenza contraria, consistente in un rinnovato interesse per la comparazione e la formulazione di teorie fondate su spiegazioni causali. Alcuni di questi antropologi, pur con le notevoli differenze che li distinsero, furono i promotori di un ritorno alla prospettiva "nomotetica" avversata da Boas. Non bisogna inoltre dimenticare la comparsa, sempre in questo periodo, di nuove prospettive negli studi di antropologia economica, anch'essi ispirati a un tentativo di elaborare una visione e una teoria generale della natura dell'economia in contesti non capitalistici e privi di mercato.
La «scienza della cultura»: Leslie A. White Tra quanti si fecero promotori di questo cambiamento di prospettiva, vi è Leslie A. White (1900-1975), allievo di Alexander Goldenweiser, a sua volta scolaro di Boas. Tra i contributi dati da White all'antropologia ve ne sono alcuni di natura più tecnica: la discussione sulla terminologia di parentela, sull'origine del tabù dell'incesto, l'etnografia degli Indiani Pueblo del sud-ovest degli Stati Uniti ed altri ancora. Tuttavia la notorietà di White, assai alta negli anni 1950, fu dovuta
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a due fattori: da un lato alla sua teoria dell'evoluzione culturale; dall'altro, al fatto che per primo, in un periodo in cui le teorie evoluzioniste erano bandite dall'intera comunità scientifica americana, egli riprese e rimeditò l'opera di Morgan. La rivalutazione di Morgan e il riferimento a Marx A partire dal 1930 White si impegnò infatti in una rivalutazione dell'opera di Morgan, colpita da un doppio discredito. Da un lato la sua opera aveva subito, sotto gli attacchi di Boas, la stessa sorte di quella di tutti gli altri evoluzionisti; dall'altro le sue teorie sul progresso erano state escluse dal dibattito in quanto accolte, ad opera del marxismo ufficiale sovietico, tra le "annunciatrici del socialismo" nel corso degli anni 1930 (v. Cap. 21). Questo impegno teso a rivalutare la figura di Morgan nacque in concomitanza ad un viaggio di White in Unione Sovietica Il risultato fu che White tornò negli Stati Uniti influenzato dal marxismo di cui ora egli poteva utilizzare certi assunti teorici combinandoli con l'evoluzionismo di Morgan. Bisogna fare peròdue precisazioni importanti. Innanzitutto il marxismo recepito da White – il quale, dato il clima ideologico e politico prevalente negli Stati Uniti, non menzionò mai Marx e Engels – si riduceva alla ripresa dell'assunto secondo il quale sono le condizioni tecnico-economiche a determinare la vita delle società umane. Infatti, oltre che a corrispondere ad «una versione impoverita della concezione marxiana della storia» (Scarduelli 1990:175), l'adozione dell'idea di una azione determinante del fattore tecnico-economico sulla vita sociale e culturale era la ripresa di un postulato che derivava non tanto da Marx, ma dalle concezioni della sociologia scozzese di ispirazione illuminista della metà del XVIII secolo e che il marxismo aveva a sua volta fatto proprio. In secondo luogo è opportuno precisare che la ripresa di Morgan non implicava la rivalutazione degli schemi di sviluppo da lui proposti ne La società antica del 1877. Tale ripresa implicava piuttosto l'idea secondo cui la storia del genere umano è contrassegnata da una sempre maggiore complessità culturale e da un progressivo accumulo di tecnologia. La «culturologia» o «scienza della cultura» Le idee di White su questi argomenti confluirono in un'opera di sintesi che è an- [T17.1] che quella più nota di questo antropologo, La scienza della cultura (The Science of Culture) del 1949 cui fece seguito, dieci anni più tardi, L'evoluzione della cultura (The Evolution of Culture, 1959). Le teorie di White possono essere ordinate in tre tematiche principali: la teoria dell'evoluzione culturale; la prospettiva del determinismo culturale; la concezione della cultura in quanto tale, e dello studio di essa da lui definito culturologia (culturology). Per White una teoria dell'evoluzione culturale deve prevedere la possibilità di reperire un sistema di misurazione della crescita culturale. Diversamente da Morgan, e dagli altri evoluzionisti in generale per i quali l'incremento delle acquisizioni culturali era determinato da uno sviluppo di tipo "psicologico", White ritenne che il criterio di misurazione di tale incremento andasse individuato nella quantità di energia pro capite che una società è in grado di controllare e sfruttare. Il principio causativo dell'evoluzione è pertanto identificato con la tecnologia impiegata dagli uomini allo scopo di produrre energia.
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica" L'anti-idealismo
Julian Steward nel 1968
In polemica con una concezione della cultura da lui giudicata idealistica, White criticò quanto aveva sostenuto Ruth Benedict a proposito della natura multiforme e imprevedibile dell'esperienza religiosa. Polemicamente White sostenne che l'affermazione «il Signore è il mio Pastore rifletteva un'economia pastorale... che una società che si procura la sussistenza mediante cibo proveniente da vegetali e animali non addomesticati e con nessuna conoscenza della monarchia, difficilmente avrebbe potuto avere una concezione del "Grande Dio nostro Re"... AI contrario, un sistema culturale a base monarchica difficilmente avrebbe potuto avere un orso come dio» (cit. in Carneiro 1981: 222). Quest'ultima affermazione si riferisce alla concezione della cultura come campo d'azione e di simboli determinati dalla tecnologia e al tema della determinazione esercitata dalla cultura sull'individuo. Un'intera parte de La scienza della cultura fu da White dedicata alla confutazione delle concezioni del libero arbitrio e della teoria della storia come prodotto dell'azione dei "grandi uomini". «Consideriamo – scrive White – l'individuo in relazione al processo culturale... Il singolo nasce in una cultura preesistente che lo aggredisce appena nato e gli propina, nel corso della crescita, linguaggio, usi, credenze, strumenti ecc. In breve, è la cultura che gli fornisce la forma e il contenuto del suo comportamento di essere umano» (White 1969: 170). White coniò il termine culturologia (culturology) per designare il campo di riflessione relativo ai fenomeni materiali, sociali, simbolici caratteristici della cultura. La culturologia, oltre che un campo di studi, doveva definire al tempo stesso il proprio oggetto come qualcosa di comprensibile in termini a lui e soltanto a lui propri. Era una questione non molto lontana da quella che Kroeber aveva sollevato nel 1917 nel suo Superorganic, che tuttavia White criticava in quanto, a suo parere, Kroeber pensava «che le spiegazioni culturologiche potessero essere solo storiche [mentre] le generalizzazioni relative agli aspetti atemporali dei fenomeni culturali apparterrebbero – secondo Kroeber – alla psicologia» (White 1969:108). Il problema che sorgeva di fronte ad una siffatta concezione della cultura era quello di sapere come e.in che misura l'ambiente esterno potesse influenzare una simile entità spiegabile solo in termini ad essa propri, soprattutto se si considera che la cultura venne ripetutamente concepita da White come un apparato "strumentale" atto a rendere sicura e durevole la vita della specie umana (Carneiro 1981: 235). In effetti, se la cultura è una risposta alla sfida ambientale. un'idea già espressa da Malinowski e che non è certo caduta da quando White la formulò in termini a lui propri, qual era il ruolo dell'ambiente esterno nel modellare la cultura?
Ecologia culturale ed evoluzionismo multilineare: Julian H. Steward La mancata risposta di White alla domanda: "l'ambiente influisce sullo sviluppo della cultura?", costituì, nonostante alcune concezioni di fondo che li accomunavano, la maggiore critica rivolta a White da Julian H. Steward (1902-1972) l'altra grande figura di studioso impegnato in una "rifondazione" dell'antropologia come sapere "nomotetico".
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica" Steward fu allievo di Kroeber e di Lowie. Kroeber foggiò una antropologia che metteva in rilievo l'aspetto simbolico e psicologico della cultura; Lowie evitò qualunque tipo di generalizzazione. Steward pose invece particolare enfasi tanto sull'ambiente e le condizioni materiali di vita quanto sulla ricerca di elementi che consentissero di stabilire leggi valide sul piano trans-culturale. Come White, Steward rappresentò la reazione al particolarismo boasiano ed il ritorno ad una concezione dell'antropologia come sapere "generalizzante". Gli Shoshone e l'archeologia
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Steward esordi studiando gli Indiani dei sud-ovest degli Stati Uniti, ma il suo grande contributo all'etnologia venne dai lavori sui gruppi del Grande Bacino, in particolare gli Shoshone. Furono anzi proprio questi studi a fornirgli lo stimolo per l'elaborazione delle sue teorie comunemente definite come ecologia culturale: «gli Shoshone divennero il modello di uomo al limite della sopravvivenza. Vivendo in una terra proibitiva fatta di grandi deserti e di paesaggi selvaggi, l'unico vero elemento dominante della loro esistenza era rappresentato dalla necessità di procurarsi da vivere una stagione dopo l'altra. Data la semplicità ylella tecnologia a loro disposizione, l'ambiente offriva poche alternative e i loro modelli di vita in società dovevano essere compresi come un adattamento a questa dura realtà fisica» (Murphy 1977:6). Oltre che dallo studio degli Shoshone del Grande Bacino, le ipotesi e gli interessi di Steward relativi all'influenza dell'ambiente sulla cultura furono stimolati dall'archeologia. Steward condusse ricerche archeologiche nel sud-ovest degli Stati Uniti e in Perù, dando particolare importanza ai modelli di insediamento e ai reperti che potessero testimoniare le forme di sfruttamento delle risorse ambientali. Da questo punto di vista Steward fornì un grande contributo anche all'archeologia, indirizzando verso nuovi interessi un genere di studi che aveva fino a quel momento privilegiato l'analisi e la comparazione degli stili ceramici. L'evoluzione multilineare L'orientamento di Steward implicava un'idea dell'antropologia come "scienza naturale". La realtà era costituita da fenomeni connessi gli uni con gli altri secondo un principio di relazione causale di cui andavano individuate le regolarità. Ciò che distingueva la prospettiva generalizzante di Steward era il suo carattere "controllato". Al contrario di quanto fece per esempio Radcliffe-Brown, Steward non assegnò mai all'antropologia il compito di cogliere e classificare la totalità delle forme strutturali; né, al contrario di White, propose una teoria dello sviluppo culturale globale. Steward definì infatti la propria prospettiva come evoluzionismo multilineare. In quello che è il suo libro più noto, Teoria del cambiamento culturale (Theory of Culture Change. The Methodology of Multilinear Evolution) del 1955, Steward scrive: «L'evoluzione multilineare è essenzialmente una metodologia basata sul presupposto che nel mutamento culturale si danno regolarità significative, e si preoccupa di determinare l'esistenza di leggi culturali. Il suo interesse va alle culture particolari... essa si occupa soltanto di quel numero limitato di parallelismi di forma, di funzione e di sequenza che hanno validità empirica. Quello che si perde dal lato dell'universalità lo si riguadagna in concretezza e specificità. L'evoluzione multilineare non ha quindi leggi o schemi a priori» (Steward 1977: 29). Il carattere "controllato" delle generalizzazioni di Steward consisteva nel ten-
.\ Shoshone
[T17.2]
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica" tativo di rintracciare analogie, o parallelismi. tra gruppi di fenomeni concatenati. Tale ricerca si esercitava però su segmenti temporali e su aspetti culturali specifici relativi al processo di adattamento di una cultura all'ambiente, oltre che all'influenza esercitata da quest'ultima sul processo di adattamento. Inoltre, Steward ritenne che «lo sviluppo culturale dev'essere concepito non soltanto come una questione di complessità crescente, bensì anche come l'emergere di successivi livelli di integrazione socioculturale» (Steward 1977: 11-12). I livelli di «integrazione socioculturale» Per Steward tali livelli designano le modalità più generali di organizzazione presenti nelle varie società e si caratterizzano per una diversa complessità: la banda patrilineare, il lignaggio, la nazione, e altre ancora. Essi non si dispongono secondo un asse evolutivo rettilineo e unilineare, ma corrispondono a "segmenti" di sviluppo evolutivo limitati; essi non descrivono cioè le "tappe" di un movimento assoluto dal semplice al complesso, ma forme indipendenti suscettibili di evolvere verso stati di complessità maggiore senza per questo scomparire. Secondo Steward infatti «nel continuum di crescita di qualsiasi cultura c'è una successione di tipi di organizzazione che non soltanto sono sempre più complessi, ma che rappresentano nuove forme emergenti» (ivi, pag. 70).Tuttavia, in campo culturale le forme semplici, come ad esempio la famiglia o la banda, non scompaiono completamente quando viene raggiunto uno stadio di sviluppo più complesso. Queste vengono piuttosto modificate in maniera graduale «come parti specializzate e subordinate di nuovi tipi di configurazioni totali». L'idea di livelli d'integrazione aveva per Steward un valore euristico e non si proponeva di spiegare le sequenze di sviluppo di particolari tipi culturali. Essa era uno strumento metodologico «per affrontare lo studio di culture che hanno un diverso grado di complessità: non costituisce una conclusione circa l'evoluzione» (ivi, pag. 71).
Neoevoluzionismo e materialismo culturale Le posizioni teoriche di White e Steward costituirono la base per ulteriori sviluppi nomotetici (generalizzanti) che vennero delineandosi, in seno all'antropologia americana, a partire dagli anni 1960. Infatti molti antropologi della generazione successiva a quella di White e di Steward, subirono la loro influenza dando vita ad una serie di ricerche sia sul campo sia teoriche nelle quali vennero ripresi e sviluppati gli assunti fondamentali dell'evoluzionismo e dell'ecologia culturale. Il materialismo culturale: Marvin Harris Un ulteriore sviluppo delle teorie di White e Steward è rappresentato dal materialismo culturale, il più noto esponente del quale è Marvin Harris (1927-), anch'egli allievo di White. Autore di saggi polemici e brillanti, impegnato nella lotta per l'affermazione del materialismo culturale da lui definito una «scienza della cultura», Har ri s riassume in sé il determinismo culturale di White, l'attenzione per i fatti ambientali di Steward e alcune suggestioni provenienti da una visione molto particolare, quando non del tutto personale, delle teorie di Marx. Forte di questa strumentazione teorica, Harris è stato, negli anni Settanta-Ottanta, il più vivace assertore della necessità di sviluppare un'antropologia nomotetica e generalizzante in una prospettiva materialistica, che egli contrappone tanto a quella "cognitivista" quanto a quella "interpretativa" di cui parleremo più avanti (v. Cap. 22).
L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica"
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La prospettiva materialista L'evoluzionismo di Harris non si connota come "universale" sullo stile di quello di White, ma ha una portata più limitata, in linea con l'impostazione di Steward di cui Harris accentua l'aspetto relativo all'influenza esercitata dall'ambiente sulla cultura. Pur prendendo le distanze dal Marx "filosofo", Harris si avvicina a quest'ultimo per sottolineare, come del resto aveva fatto lo stesso White, la funzione causativa svolta dalle condizioni materiali di esistenza: «I materialisti culturali – egli scrive – cercano di perfezionare la strategia originaria di Marx, abbandonando l'idea hegeliana secondo cui tutti i sistemi si evolvono attraverso una dialettica di negazioni-contraddizioni e aggiungendo alla combinazione di condizioni materiali... la pressione demografica e le variabili ecologiche» (Harris 1984: 9-10). Infatti per Harri s il materialismo culturale indica come il compito principale dell'antropologia sia di fornire spiegazioni causali delle differenze e delle somiglianze esistenti negli schemi di pensiero e nel comportamento delle comunità umane. «Come i materialisti dialettici [i marxisti] quelli culturali sostengono che questo compito può essere condotto a termine nel modo migliore studiando le costrizioni materiali alle quali è soggetta l'esistenza umana... queste costrizioni o condizioni vengono definite materiali allo scopo di distinguerle da quelle imposte da idee e da altri aspetti mentali o spirituali della vita umana, ad esempio da valori come la religione o l'arte» (Harris 1990: 408). Il marxismo inteso come teoria che pone in primo piano l'azione determinante delle condizioni materiali di esistenza sulla cultura ha, in quanto tale, poco a che vedere con le teorie di Marx elaborate nelle opere della maturità. Nelle sue opere più importanti infatti, Marx non solo abbandonò lo schema dialettico hegeliano della progressione storica, ma sottolineò anche l'importanza del fattore "rappresentazionale", o "ideologico" come parte costitutiva dei rapporti sociali tra gli uomini e tra questi e le condizioni materiali della loro esistenza. Quando ad esempio Marx analizza, nel libro primo de Il capitale, la natura della merce e mostra come essa sia il prodotto derivante da una cristallizzazione dei rapporti sociali di produzione all'interno del sistema capitalistico, egli non dice che il modo in cui la merce è intesa correntemente nel mondo capitalista è qualcosa di insignificante per la vita della società o per la stessa comprensione di quest'ultima; al contrario, la rappresentazione della merce come di qualcosa di "dato" o di "naturale" (e non in quanto frutto di un modo "sociale" di produzione), convince tanto il capitalista quanto il lavoratore della "eternità storica" di essa. L'idea di una conoscenza «oggettiva» Nella sua polemica contro gli altri indirizzi di ricerca, Harris ha sottolineato la necessità di guardare ai fenomeni culturali da un punto di vista "esterno" (etico)' che prescinda. se vuole veramente essere tale, da qualunque considerazione del "punto di vista del nativo" (eroico). Uno degli esempi più noti del suo modo di procedere è la spiegazione della Sulla opposi,_ione tra prospettiva etica (privilegiata da Harris l e prospettiva etnica v. Cap. -al.
Marvin Harris • (1980 ca.)
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica" ragione per cui agli hindu repellerebbe l'idea di cibarsi della carne delle vacche da essi considerate "sacre" (Harris 1979). La spiegazione data da Harris è che uccidere vacche significherebbe privarsi di una importante fronte di sostentamento, in quanto questo animale fornisce da tempo immemorabile ai contadini indiani latte, energia per trainare aratri e carri ed escrementi utilizzabili come combustibile. Sebbene formulata in termini religiosi, la proibizione di sopprimere le vacche per cibarsene avrebbe tuttavia origine in fattori di tipo materiale. A questa spiegazione se ne potrebbe però benissimo trovare un'altra, e cioè che agli Indiani repelle la carne di vacca in quanto questi animali, cibandosi di rifiuti, sono spesso portatori di malattie trasmissibili agli uomini. Il limite di queste spiegazioni "deterministiche" o, come dice Harris, materialistiche, è che esse non pretendono soltanto di spiegare i fatti materiali, ma anche le rappresentazioni che a tali "fatti" sono connesse in virtù di un rapporto causale tra i primi e le seconde. Infatti, sostituirsi al "nativo" non significa automaticamente produrre le condizioni per una conoscenza di tipo scientifico dei fenomeni culturali. Le forme di esistenza socio-culturale non si articolano in un mondo di cui la rappresentazione dello scienziato sarebbe la fedele riproduzione; esse si riferiscono piuttosto a un mondo alla cui costituzione concorre il modo stesso in cui tale mondo viene rappresentato da coloro che lo vivono.
L'antropologia economica Nel quadro di un ritorno ad una concezione dell'antropologia come sapere generalizzante va considerato anche lo sviluppo di una "antropologia economica". Tale sviluppo costituisce infatti un momento importante nella storia dell'antropologia statunitense della metà del Novecento. Esso rappresenta un tentativo di controbattere alcuni indebiti "sconfinamenti" della teoria economica in campo antropologico e, allo stesso tempo, di fornire un quadro teorico generale per una considerazione dei fenomeni economici da un punto di vista antropologico.
Il modello formalista La tradizione di questo genere di studi era da far risalire alle ricerche pubblicate da Malinowski (v. Cap. 10) e da altri antropologi nel corso degli anni 1920 e 1930, nonché alla teoria di Mauss sul dono (v. Cap. 7). Tuttavia questi lavori non vennero tenuti nella giusta considerazione da quanti, nei due decenni successivi, proprio negli Stati Uniti, cercarono di fondare una teoria "antropologica dell'economia". Ciò fu soprattutto una conseguenza del predominio del modello teorico formalista nell'ambito degli studi di teoria economica. Il modello formalista implicava la possibilità di fondare la "scienza del comportamento umano" attinente alla sfera dell'economico, dove per economico si doveva intendere un campo di attività, presente in qualunque contesto sociale, all'interno del quale gli esseri umani mirerebbero sempre ad adeguare, tramite un calcolo, determinati mezzi a fini altrettanto determinati. L'economista americano Lionel Robbins aveva pubblicato, nel 1932, quello che fu per molto tempo il testo di riferimento base di questa prospettiva, ossia un Saggio sulla natura e sul significato della scienza economica (An Essay on the Nature and Significance of Economie Science). Quest'opera era espressione di quel progetto, condiviso da gran parte della cultura americana di allora, consistente nella costruzione di una "scienza generale del comportamento".
L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica"
Il cornportantentismo e la massimizzazione dell'utile Robbins reinterpretò infatti la teoria economica marginalista alla luce dei comportamentismo allora dominante negli Stati Uniti. Egli fece della "massimizzazione dell'utile" il principio basilare di ogni comportamento. Robbins considerò la massimizzazione dell'utile la costante universale di qualunque comportamento umano. In tal modo ogni genere di comportamento, fosse esso relativo di una attività religiosa, rituale, politica, affettiva, ludica ecc. veniva pensato da Robbins come ricerca di un livello ottimale di soddisfazione. L'idea dell'economico come massimizzazione dell'utile finì così per diventare il modello esplicativo di ogni attività umana, e un tentativo di ridurre l'intera vita sociale ad un complesso di atteggiamenti immaginati come caratteristici di un "imprenditore". Gli antropologi che seguirono questa prospettiva concentrarono la propria attenzione sul tema della decisione e della scelta economica, esaminando i sistemi economici per mezzo degli stessi concetti e delle stesse nozioni impiegati dai marginalisti nel contesto di una economia concorrenziale e di mercato e riproducendo, anche là dove questo regime economico non esiste, la stessa problematica teorica secondo cui l'economico coincide con la "massimizzazione dell'utile". L'homo ieconomicus I concetti e le nozioni impiegate erano quelli di rarità, investimento, interesse, risparmio, scelta, capitale ecc. che, in definitiva, non erano poi molto diversi da quelli impiegati da Boas per descrivere la dinamica del potlatch (v. Cap. 4). Impiegati nel contesto dell'economia di concorrenza e di mercato, questi concetti hanno una loro efficacia che consiste nel descrivere le scelte dell'imprenditore in una situazione di calcolo economico. La portata di queste nozioni è difatti per lo più psicologica, nel senso che esse descrivono azioni e reazioni nel campo decisionale. Anche se utilizzati nel contesto di una economia di mercato, essi non possiedono alcun potere esplicativo, ma possono tutt'al più descrivere dei comportamenti. L'estensione di questi concetti a contesti diversi, all'interno dei quali la figura dell'imprenditore non esiste perché non vi è la condizione oggettiva della sua esistenza, risultava essere ideologica ed etnocentrica. Questa estensione è il correlato di un pregiudizio filosofico condiviso dall'economia politica: quello di una "natura umana" sempre identica a se stessa che consente di ritrovare, al di là della diversità dei contesti storici e sociali, delle "predisposizioni universali" che sarebbero caratteristiche dell'Uomo "in generale". Il formalismo faceva infatti riferimento al personaggio fittizio dell'homo (economiens, il cui obiettivo è sempre e ovunque lo stesso: adeguare i mezzi scarsi ai fini desiderati. La prospettiva «sostantivista »: Karl Polanyi Lo studio dei fenomeni economici considerato in relazione a quello delle forme di organizzazione sociale al cui interno tali fenomeni si inscrivono, divenne l'obiettivo di altri ricercatori, i quali diedero vita, negli anni 1950, alla cosiddetta prospettiva "sostantivista". Animatore di questo indirizzo fu l'economista Karl Polanyi (1886-1964). Unghere, Polanyi si trasferì in Gran Bretagna nel 1933 e poi negli Stati Uniti nel 1940. Autore de La grande trasformazione (1944), uno studio sulle istituzioni del capitalismo liberale e dei suoi rapporti con lo stato, Polanyi iniziò a interessarsi di antropologia sull'onda degli studi di storia economica intrapresi quando
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L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica" si trovava ancora in Europa. Professore di storia economica alla Columbia University dal 1947 al 1953, Polanyi raccolse intorno a sé un nutrito numero di storici e di antropologi. I primi erano interessati agli aspetti informali dell'economia; i secondi alla dimensione storica delle società da loro studiate. Pur non essendo un antropologo "sul campo", Polanyi fu l'ispiratore di ricerche fondamentali che presero avvio alla metà del Novecento. Il lavoro di Polanyi e dei suoi rappresenta infatti una svolta di prospettiva ma anche un tentativo di elaborare dei principi generali di comprensione del fenomeno economico.
Karl Polanvi
(1944)
L'oggetto dell'antropologia economica: l'economico come processo istituzionalizzato Risale al 1957 la pubblicazione di un celebre lavoro coordinato da Polanyi e intitolato Traffici e mercati negli antichi imperi (Trade and Markets in the Early Empires). Polanyi partì criticando l'idea secondo cui la ricerca e la massimizzazione dell'utile costituirebbero gli elementi universali e peculiari di qualsiasi pratica economica. Polanyi e i suoi collaboratori indicarono invece nello studio delle istituzioni e dei processi organizzativi delle attività di produzione, distribuzione e scambio l'oggetto dell'antropologia economica. In questo modo l'antropologia economica non risultava più fondata sull'estensione delle categorie dell'economia marginalista a contesti diversi da quello di un'economia concorrenziale e di mercato. L'antropologia economica diventava piuttosto lo studio del modo in cui i processi economici si articolano all'interno di contesti e sistemi sociali funzionanti in base a logiche differenziali. L'economico non era più identificabile con una costante comportamentale, ma con un processo, un rapporto concreto tra l'uomo e l'ambiente esterno. Polanyi operò una distinzione concettuale tra due significati che il termine economico riveste normalmente nella nostra società e che, egli precisò, corrispondono al modo diverso in cui formalisti e sostantivisti concepiscono rispettivamente lo studio di questo aspetto dell'attività umana: per i sostantivisti il termine indica il rapporto che l'uomo, per poter sopravvivere, intrattiene con la natura e con i propri simili; per i formalisti esso non è che un'insieme di assunti logici fondati su un'idea astratta di massimizzazione dell'utile. Polanyi oppose dunque alla definizione "formale" dell'economico data dai formalisti una definizione "sostanziale" di esso, che lo individuava come attività materiale e non come attitudine psicologica. Si apriva così lo spazio per la considerazione dell'economico come processo istituzionalizzato. La dimensione economica veniva infatti definita da Polanyi come «un processo istituzionalizzato di interazioni tra l'uomo e il suo ambiente che si traducono in un continuo apporto di mezzi materiali i quali consentono la soddisfazione dei suoi bisogni» (Polanyi, Arensberg, Pearson, 1979). La novità rappresentata dalle posizioni di Polanyi rispetto a quelle dei formalisti consiste nella concezione dell'economico come un processo istituzionalizzato, dipendente cioè nei suoi stessi contenuti dalla variabilità delle strutture sociali nelle quali, secondo l'espressione dello stesso Polanyi, esso si trova "imbricato", "intrecciato" (embedded). Questo significava spostare lo sguardo verso lo studio di quelle
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istituzioni al cui interno, siano esse "economiche" o "non economiche", si compiono le operazioni appartenenti alla sfera dell'economico: produzione, distribuzione e scambio. In realtà le analisi di Polanyi e dei suoi collaboratori non hanno mai oltrepassato la soglia dei fenomeni della distribuzione e dello scambio, cioè della circolazione. La tipologia delle forme di scambio e i supporti istituzionali I sistemi economici si presentano infatti come forme di scambio integrate da differenti "supporti" istituzionali. Le forme di scambio che garantiscono l'integrazione economica di una data società possono essere tre e corrispondono ad altrettante istituzioni grazie alle quali esse vengono integrate. Polanyi elabora così una tipologia descrittiva dei sistemi economici in base alla quale è possibile raggruppare tutte le forme di circolazione in tre categorie: quella retta del principio della reciprocità e fondata sul supporto istituzionale della simmetria; quella che si costituisce sul principio di ridistribuzione, ed è fondata sul supporto della centralità; infine lo scambio, là dove domina l'istituzione del mercato. Alla prima categoria appartengono i sistemi economici caratteristici di società organizzate sulla base di gruppi simmetrici di parentela; alla seconda i sistemi dove è presente una autorità in grado di concentrare su di sé, mediante un sistema di prestazioni, i beni prodotti e poi di ridistribuirli secondo criteri di volta in volta differenti; alla terza categoria appartengono infine i sistemi al cui interno le merci circolano in base alla legge di mercato. La tipologia di Polanyi distingue nettamente tra sistemi al cui interno prevale l'economia di mercato e quelli dove il principio del libero scambio è assente. In effetti, quando tale principio è assente, le modalità in cui avviene la circolazione dei beni dipendono dallo statuto sociale delle parti in causa e i trasferimenti non avvengono sulla base di un sistema di scambio qualitativamente eterogenea dei [T17.41 sistemi economici. Gli studi compiuti da Polanyi sulle economie antiche consentirono di mostrare come i processi economici potessero dipendere anche da logiche differenti da quelle del mercato e della concorrenza. Polanyi dimostrò come la dimensione economica non avesse una vita autonoma rispetto al sistema sociale ma fosse, al contrario, un campo di attività fortemente subordinato alle regole costitutive di quest'ultimo. Le leggi dell'economico dipendono, per Polanyi, dalla logica riproduttiva del sistema sociale nel senso che, affinché una società possa conservare la propria integrità, la circolazione dei beni deve avvenire secondo regole che non alterino tendenzialmente la struttura dei rapporti sociali esistenti. L'economico appare così "imbricato" nel sistema sociale. Nell'economia di mercato lo scambio avviene invece sulla base del principio della libera concorrenza. Nel sistema capitalista l'economico sembra in effetti ritagliarsi uno spazio separato dal sociale ordinandolo in base a regole proprie. Polanyi ebbe dunque il merito di mostrare gli aspetti ideologici ed etnocentrici del ragionamento dei formalisti. Ma anche quello di aver riproposto le economie arcaiche come oggetto di un sapere specifico, diverso da quello di ispirazione comportamentista che animava le ricerche sulle economie "primitive". A Polanyi va infine riconosciuto il merito di aver presentato un modello generale di interpretazione del fenomeno economico capace di considerare la diversità dei contesti sociali, culturali e storici della sua articolazione.
182 L'antropologia americana e la "rinascita nomotetica"
Bibliografia critica
Carneiro R., «Leslie White», in Silverman S., Totems and Teachers. Columbia University Press, New York 1981. Scarduelli P., «Metodo comparativo ed evoluzione multilineare». in P. Rossi (a cura), La storia comparata, Il Saggiatore, Milano 1990. Sibilla P., Introduzione all'antropologia economica. La sostanza e la forma, UTET, Torino 1996. Murphy RE, Introduction, in Steward J.C. e Murphy R.F. (a cura), Evolution and Ecology, University of Illinois Press, Urbana 1977. Murphy R.F., «Julian Steward», in Silverman S., Totems and Teachers. Columbia University Press, New York 1981.
Capitolo
18 L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
La ricerca e l'opera teorica di Claude Lévi-Strauss (1908-) possono essere considerate come uno sviluppo dell'etnologia francese di ispirazione durkheimiana. Non sarebbe però esatto ricondurre l'antropologia di Lévi-Strauss solo ed esclusivamente a questa tradizione di pensiero. Lévi-Strauss dichiarerà il proprio debito di "discepolo incostante" nei confronti di Durkheim. Tuttavia, filosofo di formazione, Lévi-Strauss rigetterà tanto la filosofia quanto la sociologia per proclamarsi studioso delle «società cosiddette primitive di cui si occupano gli etnologi» (1966: 371). Soprattutto, in Lévi-Strauss confluiscono temi e suggestioni in larga misura estranei alla tradizione antropologica francese ed europea, oltre che istanze teoriche provenienti da altri ambiti delle scienze umane. Dopo aver compiuto varie missioni di ricerca in Brasile tra il 1934 e il 1939, in seguito all'occupazione della Francia da parte dei tedeschi Lévi-Strauss si rifug iò nel 1941 ne g li Stati Uniti, dove risiedette fino al 1948. Durante il suo soggiorno in America Lévi-Strauss entrò in contatto con gli etnologi della scuola di Boas, tra i quali Kroeber e Lowie. Ma Lévi-Strauss conobbe anche filosofi e linguisti europei anch'essi espatriati, come ad esempio il russo Roman Jakobson ed altri esponenti della linguistica strutturale. L'influenza esercitata dallo strutturalismo linguistico sulla produzione teorica di Lévi-Strauss è per esempio assai nota, e costituisce un elemento indispensabile per la comprensione di gran parte del suo lavoro. Ma anche la linguistica strutturale non è che un segmento della complessa costellazione culturale entro la quale Lévi-Strauss si muove. «Frammenti di musica e poesia». espressione di un raffinato clima intellettuale da cui Lévi-Strauss proviene e che spesso costituiscono la materia di affascinanti operazioni di "bricolage" teorico, funzionano altrettanto bene come tracce di una memoria quasi proustiana nelle cui pieghe la teoria riacquista una pertinenza di senso all'interno di una esperienza vissuta. Questa esperienza è quella dell'etnologo. figura socialmente "anomala" la cui vocazione lo spinge «a risalire il corso dei millenni» alla ricerca di un tempo doppiamente perduto, tanto dalla società alla quale e gli appartiene. quanto da lui stesso che cerca, lontano, il senso del distacco dai propri simili.
Bororo e Nambikwara
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Claude LéviStrauss in Amazzonia nel 1934
L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
Accanto ad una produzione teorica in senso stretto, esiste infatti in Lévi-Strauss un versante affettivo-esistenziale che spesso si mescola alla prima per attenuarla in quegli aspetti che forse risentono in modo eccessivo di una ispirazione positivista identificabile coll'impiego analogico e non sempre giustificabile di modelli epistemologici appartenenti ad altri continenti scientifici. Infatti Lévi-Strauss non è solo l'autore di una importante opera sui sistemi di parentela e di una quadrilogia consacrata all'analisi dei miti; egli è anche l'autore di un libro come Tristi tropici che è stato, e forse continua ad essere, responsabile di molte "vocazioni antropologiche". La parte «scientifica» e quella «esistenziale» non sono tuttavia che le due facce solo arbitrariamente separabili di un pensiero che ha sempre amato trovare nell'antinomia del vissuto da un lato e nel lavoro della sua ricomposizione intellettuale dall'altro, il senso dell'esistenza umana. Espressione di una inquietudine generazionale che pone il suo autore a fianco di figure intellettuali seppure tra loro diverse come quelle di André Malraux, Paul Nizan e Antoine de Saint-Exupéry, l'opera di Lévi-Strauss rappresenta un momento decisivo nella storia dell'antropologia. Lo studio della parentela La prima opera di rilievo, ed anche quella che procurerà a Lévi-Strauss fama internazionale, è Le strutture elementari della parentela del 1949. Questo è il lavoro nel quale Lévi-Strauss presenta, a partire dalla critica dei suoi predecessori, una teoria della proibizione dell'incesto, delle origini della cultura e dello scambio matrimoniale'.
L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
gole sociali», possiede il carattere dell'universalità. Dove per universalità si deve intendere il fatto che, indipendentemente dalla categoria di parenti toccati di volta in volta dalla proibizione, il divieto in quanto tale è sempre presente, in tutte le società. Appartenente alla sfera della cultura in quanto regola (norma), ma radicata allo stesso tempo nella natura in quanto fenomeno universale, la proibizione dell'incesto segna il passaggio dalla natura alla cultura.
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[T18.11
L'esogamia e l'atomo di parentela È tuttavia nell'aspetto positivo e prescrittivo della regola, e non in quello negativo (il divieto), che per Lévi-Strauss risiede il significato della proibizione dell'incesto. Infatti, precludersi l'accesso alle donne del proprio gruppo significa automaticamente renderle disponibili per i membri di un gruppo differente, i quali a loro volta dovranno adottare un comportamento identico nei confronti delle proprie donne. L'esogamia si presenta allora come «espressione allargata» della proibizione dell'incesto, come il principio che, prescrivendo la ricerca del partner matrimoniale al di fuori della cerchia degli individui «proibiti», consente ai gruppi umani di stabilire un rapporto di comunicazione fondato sul principio dello scambio reciproco. In tal modo la proibizione dell'incesto si accompagna con una pratica – l'esogamia – che permette di definire i sistemi di parentela come sistemi di comunicazione e di scambio tra i gruppi. È qui che si inserisce la riflessione di Lévi-Strauss su ciò che egli chiama «atomo di parentela». Questo "atomo" è l'unità minima parentale, l'elemento irriducibile senza il quale non potrebbero essere pensabili né lo scambio matrimoniale né l'esogamia né, quindi, la parentela stessa.
Proibizione dell'incesto e passaggio dalla natura alla cultura Per Lévi-Strauss la proibizione dell'incesto (il divieto di unirsi sessualmente e/o in matrimonio con determinati individui) è una regola che, «unica tra tutte le re' Il primo tipo di spiegazione. di carattere eugenetico, è quello sostenuto da Morgan nel 1871 e da altri suoi contemporanei. Esso vede, nella proibizione dell'incesto, il mezzo per prevenire i possibili esiti dannosi dell'unione tra individui consanguinei. Per Lévi-Strauss questa spiegazione attribuisce anche alle società "più primitive" una eccesssiva"chiaroveggenza genetica". Tale ipotesi contrasta inoltre con gli stessi dati della genetica moderna che vede in una lunga tradizione di pratica esogamica la causa degli esiti nefasti dell'unione tra individui consanguinei. La seconda spiegazione, sostenuta da E. R'estermark nel 1891 e da altri. è di tipo psicologico. Essa considera la proibizione dell'incesto conte il risultato della repulsione o della caduta del desiderio sessuale nei confronti di quegli individui coi quali esiste una forte familiarità. A Lévi-Strauss questa spiegazione appare inaccettabile perché è in contraddizione con le scoperte di Freud, il quale ha mostrato come non sia tanto la ripugnanza provata per le relazioni incestuose ad essere ovunque presente, quanto piuttosto il desiderio represso di esse. Questa spiegazione non porge inoltre attenzione alla ovvia considerazione che non vi sarebbe alcuna necessità di proibire in maniera così categorica ciò che andrebbe contro gli istinti degli individui. Un terzo tipo di spiegazione, di tipo sociologico, è quello dato da altri evoluzionisti, e tra questi J$ McLennan. ta proibizione avrebbe infatti origine nella pratica del matrimonio per canora tipico delle popolazioni guerriere
amiche. Benché proibizione dell'incesto ed esogamia vengano ad essere qui considerate conte due fenomeni intimamente legati, la loro connessione appare a Lévi-Strauss fondata su una generalizzazione arbitraria di fenomeni troppo contingenti. Viene infine la spiegazione fornita da Durkheim. Questi ritiene la proibizione dell'incesto conte una conseguenza dell'esogamia a sua volta interpretata in funzione di fenomeni di altra natura. Per Durkheim infatti l'esogamia sarebbe la conseguenza di una operazione tipica della mentalità primitiva la quale consiste nell'identificare il clan col totem, e nell'assimilare il sangue clanico, simbolo sacro del gruppo, al sangue mestruale delle donne di quest'ultimo. La proibizione nei confronti delle donne del gruppo, così come tale proibizione si esprime nella regola dell'esogamia. appare quindi conte l'effetto lontano di una credenza religiosa. Secondo Lévi - Strauss l'interpretazione di Durkheim pretende di stabilire tra fenomeni eterogenei un rapporto di causalità che non possiede però i caratteri di evidente necessità logica.
L'atomo di parentela si compone di quattro individui: la madre, il padre, il figlio e il fratello della madre. Quest'ultimo (che rappresenta il gruppo della donna ceduta) risulta detenere sempre, sul figlio della sorella e su quest'ultima, un'autorità inversamente proporzionale a quella esercitata dal padre nei confronti del figlio e della moglie. Infatti, più i rapporti tra padre e figlio e tra marito e moglie sono improntati a confidenza ed affetto, maggiore sarà l'autorità dello zio materno sul figlio di sua sorella e su quest'ultima. Al contrario, quanto maggiore è l'autorità del padre sul figlio e sulla moglie, tanto più affettuosi saranno i rapporti tra zio da un lato e nipote e sorella del primo dall'altro. Le società mostrano una diversa gradualità nell'articolazione dei rapporti tra gli individui costituenti l'atomo di parentela, il quale resta comunque il riflesso primario del principio esogamico. Considerare l'atomo di parentela come l'elemento irriducibile della parentela medesima significa non solo rendere ragione della presenza dello "zio materno" nel sistema dell'autorità di molte società matrilineari (v. Cap. 11), ma anche conferire, diversamente da altri autori, all'alleanza matrimoniale (o affinità) un ruolo più importante di quello della discendenza nel processo di costruzione delle strutture parentali. Quella che abbiamo ora esposto nei suoi tratti essenziali è stata definita la teoria generale della parentela, la quale fornisce appunto il quadro generale di riferimento delle analisi compiute da Lévi-Strauss nel libro del 1949. Accanto a
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L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
questa vi è anche una teoria ristretta della parentela, la parte più tecnica di questo lavoro di Lévi-Strauss. Strutture elementari e strutture complesse Ne Le strutture elementari della parentela Lévi-Strauss scrive: «Intendiamo per strutture elementari della parentela i sistemi nei quali la nomenclatura permette di determinare immediatamente il giro di parenti [i consanguinei] e quello degli affini ["acquisiti" ]: ossia i sistemi che prescrivono il matrimonio con un certo tipo di parenti; o, se lo si preferisce, i sistemi che, pur definendo tutti i membri del gruppo come parenti, li distinguono in due categorie: coniugi possibili e coniugi proibiti. Riserviamo il nome di strutture complesse ai sistemi che si limitano a definire il giro dei parenti e che abbandonano ad altri meccanismi, economici o psicologici, il compito di procedere alla determinazione del coniuge» (1969: 11). La teoria ristretta della parentela coincide con l'analisi delle «strutture elementari», cioè di quei sistemi che prescrivono il matrimonio tra certe categorie di parenti distinguendo in maniera esplicita e netta tra individui proibiti e coniugi possibili. Alle strutture elementari Lévi-Strauss oppone quelle che egli chiama «strutture complesse», ossia quei sistemi di parentela, come per esempio il nostro, che si limitano a proibire determinati individui senza indicare a quale categoria o gruppo di individui debba appartenere, d'obbligo o di preferenza, il partner matrimoniale. I cugini incrociati e l'organizzazione dualista La struttura più elementare di unione è rappresentata, secondo Lévi-Strauss, dal matrimonio tra cugini incrociati 2. Tra le varie caratteristiche, questo tipo di unione matrimoniale possiede quella di esprimere meglio d'ogni altra il principio di reciprocità. Così, come l'organizzazione dualista' esprime una dicotomia a livello del gruppo fornendo un criterio perla scelta del coniuge che deve essere sempre reperito nell'altra metà del gruppo medesimo, ugualmente la distinzione tra cugini incrociati e cugini paralleli 4 discrimina automaticamente gli individui consentiti da quelli proibiti. Secondo Lévi-Strauss però, il matrimonio tra cugini incrociati è il tipo di unione che definisce, meglio dell'organizzazione dualista, gli individui coi quali è lecito sposarsi. Un esempio di struttura elementare ci è offerto dai Bororo dell'Amazzonia, un gruppo di indios brasiliani a cui Lévi-Strauss ha dedicato numerosi e importanti lavori. I Bororo hanno villaggi divisi in metà esogamiche abitate da clan matrilineari. Gli uomini, quando si sposano, vanno ad abitare nella metà del clan della moglie. Secondo questo schema prevale il modello dualista: tutti i membri dei clan della metà est devono sposarsi con membri dei clan della metà ovest, e viceversa. In base a questo modello i matrimoni sono chiaramente prevedibili e descrivibili in riferimento ad un insieme di relazioni che mettono in rapporto individui '-Cugini incrociati: fili di fratelli di sesso differente. Organizzazione da-ansia: forma di ripartizione di tutti i membri di una società o di un villaggio in due metà esogamiche. Cugini paralleli: figli di fratelli dello stesso sesso. Riguardo alla distinzione che Levi-Strauss fa tra cugini incrociati e paralleli. non e vero che questi ultimi siano sempre e comunque proibiti. Nel mondo arabo-islamico. ad esempio, il matrimonio con la hbtt'anun. o figlia dello zio paterno (quindi con la cugina parallela patrilalerale), costituisce un modello di unione abbastanza frequente e rappresenta un vero e proprio ideale matrimoniale. LcviStrauss non prende in considerazione questo tipo di unione che. evidentemente. costituisce un caso "anomalo" rispetto alla sua teoria.
O = Ovest E = Est
precisi, all'interno di gruppi precisi (clan), facenti parte a loro volta di precise metà. Possiamo conoscere qual è il "destino" (matrimoniale) di un individuo in quanto il nostro modello ce lo dice con sicurezza. Tra i Bororo il matrimonio tra cugini incrociati bilaterali è un modello di unione matrimoniale altamente apprezzato e ricercato perché si accorda con l'organizzazione dualista che, per costoro, è "il modello" della società. Reciprocità e strutture elementari A differenza di coloro che si sono proposti uno studio delle relazioni storiche che legano le due istituzioni dell'organizzazione dualista e del matrimonio tra cugini incrociati (Morgan e Tylor considerarono il secondo un «residuo» della prima). Lévi-Strauss ritiene indispensabile «trattare il matrimonio dei cugini incrociati. le regole dell'esogamia e l'organizzazione dualista come altrettanti esempi della ricorrenza di una struttura fondamentale» (Lévi-Strauss 1969: 188). Questa struttura fondamentale è la struttura di scambio fondata sulla reciprocità la quale costituisce l'elemento costante dei fenomeni di parentela: «tra tutte queste forme la differenza è di grado e non di natura. di generalità e non di specie. Per intenderne la base comune bisogna rivolgersi a certe strutture fondamentali dello spirito umano piuttosto che a questa o a quella regione privilegiata del mondo, oppure a questo o a quel periodo della storia della civiltà... Quali che siano i cambiamenti, la forza che opera resta sempre la stessa e riorganizza sempre nello stesso senso gli elementi che le vengono offerti o abbandonati» (ivi: 127-128). La nozione di reciprocità costituisce infatti per Lévi-Strauss la struttura mentale soggiacente a tutte le relazioni di scambio, e il matrimonio tra cugini incrociati, così come l'organizzazione dualista, ne rappresentano la codificazione più semplice, più «elementare». Infatti il principio di reciprocità, lungi dall'essere il frutto della riflessione esplicita, si presenta come un elemento di provenienza inconscia, una relazione già data nel momento stesso del passaggio dalla natura alla cultura. Il principio di reciprocità è dato con la proibizione dell'incesto, cioè con l'obbligo dell'esogamia. La domanda filosofica di partenza relativa al passaggio dalla natura alla cultura ottiene così una risposta nel momento in cui la teoria dell'alleanza matrimoniale viene a soddisfare i termini generali della teoria strutturalista della parentela. Ne Le strutture elementari della parentela la va-
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L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss rietà dei sistemi matrimoniali viene ridotta all'espressione di pochi principi «strutturali» di base sui quali domina quello della reciprocità. Il concetto di struttura
Lévi-Strauss parla dunque di strutture di parentela, elementari e complesse. Ma quando si parla di strutturalismo antropologico, di "antropologia strutturale" (un termine entrato nell'uso dalla pubblicazione di un libro nel 1958 di LéviStrauss che porta questo titolo), si vuole indicare un'altra cosa. Con l'espressione «antropologia strutturale» si intende definire una teoria più ampia, di cui Lévi-Strauss è il fondatore, la quale include anche le riflessioni sulla parentela, e che ruota attorno ad una concezione particolare del concetto di "struttura". Come sappiamo, la qualifica di strutturale viene applicata anche alle teorie di Radcliffe-Brown relative alla «rete» delle relazioni sociali che, per l'antropologo britannico, costituivano un insieme di elementi interconnessi, una struttura appunto. In Lévi-Strauss invece questo termine designa un livello di fenomeni radicalmente differente da quello cui si riferiva la nozione di struttura in Radcliffe-Brown, per il quale essa individuava una realtà concreta, corrispondente, come abbiamo detto, al complesso delle relazioni sociali (v. Cap. 15). Il problema dello statuto ontologico della struttura sociale venne in effetti sollevato da Lévi-Strauss in un articolo del 1953 intitolato Il concetto di struttura in etnologia (Lévi-Strauss 1966: 309-356). Qui Lévi-Strauss ridiscusse l'uso che di questo termine si era fatto nei settori più disparati della disciplina antropologica. Rispondendo a chi, come A.L. Kroeber, vedeva ormai nel termine "struttura" una parola priva di qualunque valore euristico, egli insisteva invece sulla sua utilità, in quanto il termine stesso designava per Lévi-Strauss un concetto dotato di un significato molto specifico. Nell'articolo del 1953 Lévi-Strauss criticava Radcliffe-Brown per quanto riguarda il suo modo di concettualizzare la struttura sociale. Lévi-Strauss criticava in primo luogo l'analogia tra la struttura dell'organismo e quella della società, una analogia che riduce la struttura ad una forma fenomenica; inoltre il fatto di ricondurre lo studio delle strutture sociali ad un livello che è quello della morfologia e della fisiologia descrittive: infine, egli rigettava la riduzione della struttura sociale alla semplice somma delle relazioni sociali. Per Lévi-Strauss, in conclusione, quello di Radcliffe-Brown era un piatto empirismo. Il concetto di struttura sociale, sostiene invece Lévi-Strauss, non ha alcun referente empirico. I suoi referenti sono i modelli costruiti in base ad essa. Risulta così la differenza tra due concetti poiché, dice Lévi-Strauss, «le relazioni sociali sono la materia prima impiegata per la costruzione dei modelli che rendono manifesta la struttura sociale» (ibidem). La struttura è per Lévi-Strauss una «categoria» dello spirito umano. Il pensiero funziona grazie all'opposizione tra termini come alto/basso, destra/sinistra, crudo/cotto ecc. Si tratta di opposizioni prive di contenuto, "vuote", che servono a ordinare il mondo dell'esperienza, naturale e sociale, al fine di farne un oggetto del pensiero. I modelli, una via per le strutture [T18.31 I modelli, tanto quelli coscienti quanto quelli inconsci, sono costruiti a partire dalle strutture. Sta quindi all'etnologo superare la soglia delle apparenze e cogliere i modelli inconsci, rivelatori delle strutture. Si prenda, a titolo di esempio, il caso, già citato, dell'organizzazione del villaggio degli indiani Bororo. Il modello dualista è il modello che gli stessi Bororo presentano della loro società. Un at-
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tento esame dei dati etnografici mostra tuttavia, precisa Lévi-Strauss, che questo non è altro che un modello incompleto. Infatti i dati etnografici, almeno quelli più accurati, ci dicono che ogni clan (A, B, C, D ecc.) è costituito di tre «sezioni» una «superiore», una «media» e una «inferiore». Le regole in base alle quali avvengono le unioni matrimoniali prescrivono effettivamente che i membri di un clan debbano sposarsi con quelli di un clan di un'altra metà ma, oltre a ciò, obbligano i membri di una sezione «superiore» a sposarsi con quelli di un'altra sezione «superiore», quelli di una sezione «media» con quelli di un'altra sezione «media» ecc. Quest'ultimo dato svela l'esistenza di una struttura diversa da quella dualista presentata spontaneamente dai Bororo: si tratta di una struttura tripartita dove gli scambi matrimoniali si svolgono a tre livelli non comunicanti: superiore, medio, inferiore. La società stessa non appare più fondata su due metà, ma su tre gruppi, ciascuno dei quali è diviso in due metà, come nel grafico seguente:
OVEST
Tale modello tripartito contiene però pur sempre una bipartizione, la quale interessa tre gruppi. Il principio dell'opposizione complementare è salvo, ed è questa la struttura che si nasconde sia dietro il modello conscio sia dietro quello inconscio. Inconscio strutturale Le strutture, sostiene Lévi-Strauss, oltre che prive di contenuto, sono inconsce, come il principio di reciprocità che è all'origine del passaggio dalla natura alla cultura. Per Lévi-Strauss ciò che vale per i sistemi di parentela vale anche per qualsiasi processo di simbolizzazione, poiché l'opposizione originaria è quella che fonda tutte le altre, a qualunque livello si situi la rappresentazione: «Il passaggio dallo stato di natura allo stato di cultura si definisce con l'attitudine, da parte dell'uomo, a pensare le relazioni biologiche sotto forma di sistemi di opposizioni... allora bisognerà forse ammettere che la dualità, l'alternanza, l'opposizione, la simmetria, sia che si presentino sotto forme definite, sia che si manifestino sotto forme sfumate, non costituiscono tanto i fenomeni da spiegare, quanto invece i dati fondamentali e immediati della realtà mentale e sociale, nei quali dobbiamo riconoscere i punti di partenza di ogni tentativo di spiegazione» (Lévi-Strauss 1969: 204).
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L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss La natura inconscia del principio di reciprocità trova piena espressione nella nozione di inconscio strutturale. Con Lévi-Strauss non si tratta più di caratterizzare la differenza tra pensiero logico e pensiero "prelogico", tra pensiero razionale e pensiero "mistico" contrapponendo così pensiero "civilizzato" da un lato e pensiero "primitivo" dall'altro. Si tratta invece di definire quelle leggi del pensiero che in entrambi i casi «sono le stesse» (Lévi-Strauss 1969: 583). Le leggi del pensiero sono le stesse perché identiche sono le strutture grazie alle quali esso si articola. Che si tratti dell'inconscio del "selvaggio" o quello dell'antropologo importa poco. Una sostanziale identità di strutture porta i due universi a comunicare, come si può inferire dalla lettura di un passo del 1950. Qui Lévi-Strauss si richiama alla linguistica che, come abbiamo detto, costituisce per l'antropologo francese una specie di ideale "paradigmatico". «E stata... la linguistica, e più particolarmente la linguistica strutturale, che ci ha reso familiare... l'idea che i fenomeni fondamentali della vita dello spirito, quelli che la condizionano e determinano le sue forme più generali, si collocano sul piano del pensiero incosciente. L'inconscio sarebbe così il termine mediatore tra me e gli altri. Approfondendo i suoi dati, non ci prolunghiamo, se così si può dire, nel senso di noi stessi: raggiungiamo un piano, che non ci sembra estraneo, perché racchiude il nostro io più segreto; ma (molto più normalmente) perché, senza farci uscire da noi stessi, ci pone in coincidenza con forme di attività che sono, insieme nostre e altrui, condizioni di tutte le vite mentali di tutti gli uomini e di tutti i tempi» (Lévi-Strauss 1965: XXXV). Linguistica strutturale e cultura come comunicazione La logica binaria e oppositiva che plasma le rappresentazioni della realtà naturale e sociale è analoga alla logica binaria e oppositiva dei sistemi fonologici studiati dalla linguistica strutturale. L'attenzione rivolta da Lévi-Strauss agli studi degli etnolinguisti americani e del fonologo russo Roman Jakobson, gli valse l'apertura verso quella che egli non ha mai cessato di considerare la scienza sociale che «per la prima volta riesce a formulare relazioni necessarie». Lo stesso impianto teorico de Le strutture elementari della parentela risentiva già fortemente di alcuni assunti della linguistica strutturale. Lévi-Strauss scriverà infatti circa trent'anni più tardi: «come il fonema', mezzo senza significato proprio per formare significati, la proibizione dell'incesto mi apparve come il campo di giuntura tra due campi ritenuti separati. All'articolazione del suono e del senso rispondeva così su un altro piano, quella della natura e della cultura» (Lévi-Strauss 1978: 13). Questa analogia tra linguaggio e cultura è resa possibile in virtù di una scelta di partenza compiuta da Lévi-Strauss. Tale scelta consistere nell'assumere come campo problematico la sfera della comunicazione. II linguaggio è comunicazione, ed anche la cultura lo è, in Lévi-Strauss, in quanto la cultura è frutto di un passaggio (dalla natura) reso possibile appunto da un atto comunicativo: la proibizione dell'incesto e l'esogamia sono entrambi fondati sul principio di reciprocità, quindi su una disposizione allo scambio che è per definizione comunicazione tra i gruppi.
` Fraterna: suono distintivo appartenente ad una data lingua. Sc all'interno di una stessa lingua due suoni tra loro intercambiabili distinguono il significato di due parole. allora questi due suoni sono due fonemi. Esempio: nella lingua italiana la ípí di padre e la /nn!di madre sono due talloni.
L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss
Totemismo, pensiero selvaggio e analisi dei miti Se, come abbiamo visto, il concetto di struttura non ci consente più di stabilire una cesura tra pensiero logico e pensiero prelogico, tra pensiero civilizzato e pensiero selvaggio, molte delle interpretazioni relative alla simbologia "sacra" in uso presso i popoli primitivi devono essere riviste. È questo il caso del totemismo. Il totemismo e le classificazioni totemiche In un piccolo libro del 1962, 11 totemismo oggi, Lévi-Strauss fornì una interpretazione radicalmente nuova del fenomeno totemico. Il totemismo, che consiste come già sappiamo in una associazione tra un individuo o un gruppo da una parte, e un simbolo animale o vegetale dall'altro, era stato interpretato in prevalenza come una manifestazione del pensiero mistico o religioso dei primitivi. Durkheim Io aveva ritenuto addirittura la forma aurorale della religione. Secondo Lévi-Strauss questa ed altre interpretazioni, come ad esempio quella di LévyBruhI che scorgeva nel totemismo una manifestazione della natura mistica del pensiero primitivo, dovevano ora essere rigettate. Lévi-Strauss propone infatti una interpretazione del totemismo che vede in esso un semplice «sistema di classificazione». Non vi è alcuna unione mistica o prelogica degli esseri umani con le specie animali o vegetali; né, come sosteneva Malinowski e aveva preteso in un primo tempo Radcliffe-Brown, gli animali e i vegetali erano fatti oggetto d'attenzione rituale o simbolica perché "buoni da mangiare". Gli animali e i vegetali che compaiono nei sistemi totemici diventano invece portatori, come era quasi riuscito a intuire in un secondo tempo Radcliffe-Brown nel saggio sul metodo comparativo del 1952, di «relazioni concepite dal pensiero speculativo a partire dai dati dell'osservazione» (Lévi-Strauss 1964a: 26). La loro presenza nei sistemi totemici non è la conseguenza del fatto che essi sono utili o "buoni da mangiare", bensì del fatto che essi sono «buoni da pensare» (ibidem). I fenomeni della natura, gli animali e i vegetali offrono infatti agli esseri umani un repertorio da cui attingere per le loro classificazioni, opposizioni, relazioni. Il pensiero primitivo non è diverso da quello civilizzato. La sola differenza è che esso si esercita su cose concrete piuttosto che astratte. Il «pensiero selvaggio» Sulla base di queste considerazioni il pensiero primitivo e quello scientifico non risultano più essere in un ordine di successione come avevano ritenuto alcuni, ad esempio Frazer. Essi sono piuttosto due "strade parallele" compiute dallo spirito umano per poter pensare il reale. Come tali essi diventano analizzabili entrambi sulla base di principi formali simili. Per Lévi-Strauss l'espressione «pensiero selvaggio» si riveste così di una sfumatura ironica, in quanto non indica più un pensiero rozzo, grossolano che a stento cerca di comprendere e spiega il mondo. Il pensiero "selvaggio" è fondato invece sulle stesse operazioni logiche di quello "civilizzato", e costituisce la base comune su cui tutte le espressioni del pensiero umano prendono forma, tanto del pensiero dei "selvaggi" quanto di quello dei "civilizzati". Il totemismo è quindi il frutto di un atteggiamento mentale che assume i dati dell'esperienza sensibile per costruire dei sistemi di classificazione e di relazioni. Come tale è un codice che, come Lévi-Strauss scriverà ne 11 pensiero selvaggio (1962), si presta «a fare da tramite a messaggi convertibili nei termini di altri codici e ad esprimere nel proprio sistema i messaggi ricevuti attraverso il canale di codici differenti» (Lévi-Strauss 1964b:89).
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L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss Questa possibilità di convertire altri codici nel proprio sarebbe tipico di tutti i sistemi di classificazione, ed è indicata da Lévi-Strauss con l'espressione sistema di trasformazione. Sistemi di trasformazione I sistemi di trasformazione individuano le analogie, i parallelismi che, sul piano formale presentano i sistemi di classificazione e la possibilità che il pensiero avrebbe di passare dall'uno all'altro sistema e al codice relativo a ciascuno. Un esempio di ciò è costituito dal confronto, operato dallo stesso Lévi-Strauss, tra le classificazioni del totemismo australiano e il sistema delle caste hindu. Totemismo e caste esprimono relazioni sociali diverse, in quanto i gruppi australiani che si identificano con i totem sono esogami, mentre le caste hindu sono endogame. Nonostante ciò, sostiene Lévi-Strauss, totem dell'Australia e caste dell'India sono riconducibili agli stessi principi. Se noi compiamo una serie di «trasformazioni» possiamo passare da un ordine all'altro. Il totemismo australiano consiste nell'associazione di una pianta o di un animale con un individuo o con un gruppo sociale. Il totemismo distingue i gruppi tra loro avvalendosi delle diversità esistenti tra le specie naturali. Il sistema tastale distingue invece gli esseri umani in base alla loro occupazione, quindi sulla base di un fattore culturale. Mentre per il totemismo le differenze tra le specie (distinzioni naturali) sono assimilabili a quelle tra i raggruppamenti sociali (distinzioni culturali), per il sistema castale le differenze tra gruppi occupazionali (culturali) sono assimilate a delle differenze naturali. Accade così che il totemismo concepisca la natura attraverso la cultura e che, al contrario, il sistema delle caste concepisca la cultura attraverso la natura. Poiché i gruppi totemici si concepiscono come gruppi culturali, essi si scambiano donne, atti magici e atti cerimoniali. Le caste, al contrario, poiché si percepiscono come gruppi naturali, sono unità endogame e ritualmente separate le une dalle altre sulla base di precisi tabù. La conclusione che si può trarre da tutto ciò è che, secondo Lévi-Strauss, «il totemismo, che è stato sovrabbondantemente formulato in termini di "linguaggio della primitività", potrebbe... grazie a una trasformazione semplicissima, essere formulato in quello del regime di caste, che è tutto il contrario della primitività» (1964b: 144). Secondo Lévi-Strauss questa è la dimostrazione del fatto che «non si ha qui a che fare con un'istituzione autonoma definibile mediante proprietà distintive, e tipica di certe regioni del mondo e di certe forme di civiltà, ma con un modus operandi, che è delineabile anche dietro strutture sociali tradizionalmente definite in diametrale opposizione al totemismo» (ibidem), come appunto il regime delle caste hindu. L'analisi dei miti E nello studio dei miti che Lévi-Strauss farà pienamente valere il concetto di trasformazione. In un saggio contenuto in Antropologia strutturale del 1958, ma ancor più nei quattro volumi delle Mitologiche (1964-1970), Lévi-Strauss analizza il funzionamento del pensiero mitico la cui logica costituisce, assieme a quella delle classificazioni totemiche, il fondamento dell'attività simbolica caratteristica del "pensiero selvaggio". Nell'analisi dei miti non è più l'opposizione originaria natura/cultura a fare da sfondo al discorso teorico di Lévi-Strauss, bensì la semplice analogia formale la quale assimila le grandi unità costitutive del mito (mitemi) alle unità della lingua (fonemi).
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Mitemi I mitemi, o grandi unità costitutive del mito, sono pensati da Lévi-Strauss sul modello dei fonemi e, come nel caso di questi ultimi, il loro significato viene concepito come dato solo in virtù dei rapporti di correlazione che li oppongono agli altri mitemi. Così Lévi-Strauss definisce il mitema: «Nella lingua corrente il sole è l'astro del giorno, ma preso in sé e per sé, il mitema "sole" non ha nessun senso. i miti che si sceglie di considerare esso può ricoprire i contenuti ideali più diversi. In realtà nessuno, vedendo apparire il sole in un mito, potrà prevedere la sua individualità, la sua natura e le sue funzioni. E solo dai rapporti di correlazione e di opposizione che esso ha, all'interno del mito, con altri mitemi, che può scaturire un significato. Questo non appartiene in proprio a nessun mitema: risulta dalla loro combinazione» (Lévi-Strauss 1978, p. 17). I miti si prestano in tal modo ad una lettura di tipo formale, una lettura cioè che, una volta isolati i mitemi, può stabilirne la variabilità all'interno delle differenti versioni in cui il mito si presenta. La stessa formazione dei miti appare come il risultato di un continuo farsi e disfarsi degli aggregati che li compongono, determinando l'emigrazione di un mitema da un contesto all'altro. Ma se questo farsi e disfarsi dei miti appare come il frutto del caso e dell'evento, esso mostra di possedere una ragione profonda proprio nel processo di riaggregazione secondo relazioni coerenti. Il mito come prodotto dell'attività speculativa del «pensiero selvaggio» Il mito, che la tradizione precedente aveva interpretato ora come un tentativo confuso di spiegazione della realtà naturale, ora come codificazione della realtà sociale, diventa con Lévi-Strauss l'altro grande campo di attività del "pensiero selvaggio". Il mito si situa infatti a quel livello della produzione simbolica che, invece di avere per oggetto il mondo sensibile a scopi pratici (le classificazioni), ha per oggetto se stesso. Mentre ne Il toremisrno oggi e ne Il pensiero selvaggio (entrambi pubblicati nel 1962) Lévi-Strauss produceva una immagine del sapere "primitivo" come di una attività orientata verso la comprensione del mondo della natura, nelle Mitologiche egli cerca di conferire la stessa coerenza logica a quello che potrebbe essere definito come l'aspetto puramente speculativo del pensiero selva ggio. Scrive infatti Lévi-Strauss: «[la mitologia] non ha un'evidente funzione pratica; all'opposto dei fenomeni precedentemente esaminati [la parentela e le classificazioni totemiche] essa non è in presa diretta su una realtà differente dotata di un'oggettività più alta della sua... Di conseguenza, lo spirito... sottratto all'obbligo di accordarsi con gli oggetti, si ritrova in un certo qual modo ad imitare se stesso come oggetto» (Lévi-Strauss 1966:25). La logica del pensiero mitico appare così altrettanto esigente del pensiero classificatorio e quindi del pensiero positivo. La differenza tra questi ultimi riguarda infatti «non tanto la qualità delle operazioni intellettuali, quanto la natura stessa delle cose su cui tali operazioni vertono» (Lévi-Strauss 1966: 258). Il viaggio e la memoria: la «tristezza» dei tropici All'inizio di questo capitolo si è detto di come in Lévi-Strauss coesistano due ispirazioni. Da un lato quella che fa capo ad un progetto "scientifico", che mira a fondare un modello di scienza etnologica capace di andare al di là dei fenomeni e di dispiegare la grande mappa del pensiero umano; dall'altro un'ispirazione di tipo affettivo-esistenziale che fa da sfondo ad una riflessione più esplicitamente
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L'antropologia strutturale di Claude Lévi-Strauss estetica e morale. Se Le strutture elementari della parentela e i quattro volumi delle Mitologiche sono gli ideali punti di partenza e di arrivo rispettivamente di una ricerca che si pone come compito quello di percorrere in senso inverso la strada che dalla natura porta alla cultura, ossia alla scoperta delle strutture inconsce che determinano le scelte degli esseri umani, Tristi tropici, pubblicato nel 1955, è la grande metafora di questo cammino compiuto nell'intimità della memoria personale dell'autore. Un'opera letteraria?
Tristi tropici è un'opera che procurò un'enorme fama al suo autore. E a ragione. Il libro è un "viaggio" in un duplice senso. Parla dei viaggi compiuti da Lévi-Strauss, dal Brasile al Pakistan, ma è anche un viaggio nella memoria, alla riscoperta delle motivazioni personali che hanno determinato un destino professionale. Tristi tropici è poi un libro denso di meditazioni sul senso della civiltà umana e sul destino di essa. Così, in questi Claude Lévimotivi, svolti per mezzo di una pratica di scrittura sempre notevole, è reperibile l'a Strauss nel lone affettivo più remoto dello strutturalismo antropologico di Lévi-Strauss. 1993 L'immagine delle società primitive contenuta in Tristi tropici è – e lo sviluppo della riflessione teorica di Lévi-Strauss lo conferma – quella di società più vicine allo "stato di natura" di quanto non lo siano la società occidentale e quelle dell'area mediterranea e orientale. Fortissima ed esplicita è qui la matrice russoiana in cui Levi-Strauss ritrova il senso della propria opzione, professionale e teorica al tempo stesso, tanto della propria vocazione antropologica quanto della scelta del punto di partenza della sua speculazione, cioè l'opposizione natura/cultura.
L'antropologia strutturale di Caude Lévi-Strauss I tropici «tristi» e il rimorso dell'antropologo Se questo libro del 1955 evoca il senso della perdita, esso è anche un atto di denuncia. Perdita e denuncia si riflettono nel titolo stesso di quest'opera. I tropici, che la letteratura di viaggio aveva dipinto come luogo di straniamento e d'evasione, in cui l'onnipotenza del bianco trovava soddisfazione nell'imposizione della propria presenza e della propria volontà ad una natura e ad un'umanità "altre" entrambe soggiogate, con Lévi-Strauss diventano tristi. La loro tristezza è il frutto della devastazione portata da una civiltà, quella occidentale, che non rispetta la natura e le società, da una civiltà che non rispetta l'Altro. Tristezza tanto più penetrante in quanto la civiltà dell'Occidente, di fronte a «questi primitivi che basta aver visto solo una volta per esserne edificati... recita a se stessa la commedia di nobilitarli nel momento in cui riesce a sopprimerli, mentre quando erano davvero avversari, provava per essi solo paura e disgusto» (1960:39). All'antropologo, figura nella quale si esprime il rimorso dell'Occidente, spetta l'ultimo e quasi impossibile compito: ripercorrere quei legami necessari tra l'uomo e l'universo nei quali si esprime, al di là della storia e al di là dell'evento, l'immutabilità delle strutture dello spirito umano. Come è stato detto, "in Lévi- Strauss l'antropologia si fa tramonto interiore di una autocoscienza segnata dal rimorso dei secoli oscuri, e per riscatto sbocca in una contemplazione di entità freddamente avulse dal dramma interiore dell'umanità: le strutture formali" (Lanternari 1970:29)
Società «fredde» e società «calde» La riflessione di Lévi-Strauss sulle "società primitive" produce infatti una grande distinzione con valore di metafora nella quale si esprime il sentimento della nostalgia e della perdita: la distinzione tra «società fredde» e «società calde» riproporrà, qualche anno più tardi, ne Il pensiero selvaggio, la meditazione sul senso della storia umana già annunciata in Tristi tropici. Ciò che qui viene designato col termine "progresso" appare come il prodotto, piuttosto recente, di una società "calda" come quella occidentale, di una società che dai propri disequilibri interni trae energia per produrre una effervescenza di tipo "innovativo" in senso culturale ma anche per "bruciare" il mondo che la circonda. Diversamente dalle «società fredde», che non producono disequilibri interni e quindi energia capace di alterare l'ambiente – umano e naturale – che le circonda, e che pertanto cadono al di fuori dei processi di trasformazione storica, le «società calde», e tra queste quella occidentale in modo particolare, hanno rotto l'equilibrio che le legava al mondo. La distinzione tra «società fredde» e «società calde» rieccheggia chiaramente certe distinzioni troppo radicali attraverso cui, in passato, si era cercato di rendere ragione di una diversità tra l'Occidente e gli "Altri". Tuttavia si deve notare la peculiarità della loro utilizzazione in un'opera come Tristi tropici. Le espressioni «società fredde» e «società calde» servono a Lévi-Strauss per produrre un discorso sulla perdita di quell'unità tra universo naturale e tra universo sociale che pure fino ad un'epoca relativamente recente aveva caratterizzato l'esistenza dell'intero genere umano. Ciò che è perduto è infatti la convivenza con le altre specie e con altre forme di vita sociale.
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Bibliografia critica Comba E., Introduzione a Lévi-Strauss, Laterza, Roma 2000. Dumont L., Introduction d deus théories d'andtropologie sociale, Mouton-E.P.H.E., Paris 1971. Geertz C., «The Cerebral Savage. On the Work of Claude Lévi-Strauss ” , in Interpretation of Cultures, Basic Books, New York 1973. Geertz C., Opere e vite. L'antropologo come attore, Il Mulino, Bologna 1990 (ed. or. 1988). Leach E., Lévi-Strauss, Fontana Collins, London 1970. Moravia S., La ragione nascosta, Sansoni, Firenze 1969. Nannini S., Il pensiero simbolico. Saggio su Lévi-Strauss, Il Mulino, Bologna 1981. Remotti E, Lévi-Strauss. Struttura e Storia, Einaudi,Torino 1970.
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Capitolo
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L'antropologia "sociale" di Radcliffe-Brown incise profondamente sulla tradizione degli studi in Gran Bretagna. Nonostante ciò molti punti di divergenza teorica nei confronti di essa si erano manifestati, come abbiamo visto a proposito di Evans-Pritchard, già alla metà del secolo. Negli anni del secondo dopoguerra si svilupparono, in seno a questa tradizione, nuove prospettive teoriche e metodologiche. In un Sudafrica caratterizzato dall'impatto tra un'Africa "Nera" tradizionale e un'Africa "Bianca" dinamica e razzista presero slancio gli studi sul cambiamento. Nel Sudest asiatico e nel Medio Oriente, aree di una "attenzione" rinnovata da parte del mondo occidentale, nacquero quegli interessi per le "società complesse" che la tradizione precedente, specialmente identificabile con l'antropologia sociale di Radcliffe-Brown, aveva invece lasciato ai margini delle proprie indagini.
La «Scuola di Manchester» La cosiddetta "scuola di Manchester" fu espressione di un orientamento di ricerca che, discostandosi in maniera significativa dall'ortodossia strutturai-funzionalista, produsse risultati importanti sia sul piano metodologico sia nell'analisi delle società africane caratterizzate dalla interconnessione tra istanze tradizionali e spinte generatrici di mutamento. Questa problematica aveva radici in una considerazione della realtà "multietnica" e "multirazziale" tipica del Sudafrica della metà del XX secolo. Conflitto, ordine e rituale: Max Gluckman Il fondatore della scuola di Manchester fu Max Gluckman (1911-1975). Gluckman ricevette gran parte della sua formazione di antropologo in Sudafrica, dove era nato. Profondamente influenzato dalle teorie di Radcliffe-Brown, divenne professore a Manchester, in Inghilterra, e uno dei punti di riferimento dell'antropologia britannica. In Sudafrica e in Rhodesia (Zambia) egli condusse tutta la propria attività di ricerca sul campo. Quest'ultimo fatto è importante per capire l'impostazione da lui data agli studi delle società africane.
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L'allontanamento dal fitnzionalismo Già nei primi lavori di Gluckman, risalenti agli inizi degli anni 1940, si avverte un certo scarto rispetto alle posizioni allora dominanti del funzionalismo strutturale. Secondo Gluckman infatti, l'equilibrio della struttura sociale, e più in generale l'integrazione della società, non sono la risultante di un semplice adattamento reciproco degli elementi che la compongono, ma il prodotto di un aggiustamento di fenomeni contraddittori e conflittuali. In questa prospettiva i sistemi sociali sarebbero caratterizzati da una fondamentale instabilità che solo periodicamente viene sostituita da una condizione di equilibrio, il quale scaturisce dalla ricomposizione delle contraddizioni che si producono nel sistema stesso per cause tanto interne quanto esterne. Così, la competizione politica tra gruppi per l'assegnazione di una carica ad un loro componente, o la ribellione nei confronti di un sovrano hanno, presso le popolazioni dell'Africa australe, un effetto simile: quello di produrre, dopo una fase di incertezza, la ricostituzione dell'ordine iniziale, la continuità della carica, la riaffermazione della regalità. Nonostante la considerazione dell'opposizione e del conflitto come aspetti dinamici della realtà sociale, Gluckman rimase, in questa fase, ancora legato alla problematica della conservazione della struttura, senza affrontare quella della sua trasformazione. Da questo punto di vista egli si mantenne all'interno della prospettiva struttural-funzionalista, fatto che lui stesso parecchi anni dopo riconobbe scrivendo: «pensavo ancora in termini di semplice funzionalità delle istituzioni contribuenti al mantenimento di una struttura sociale concepita in maniera abbastanza rigida» (Gluckman 1963: 18). Oltre che tra gli Zulu, Gluckman compì ricerche tra i Barotse, i Tonga e i Bemba della Rhodesia, producendo una quantità notevole di monografie e di studi raccolti poi in volumi dai titoli assai noti. In tutti i suoi lavori Gluckman diede particolare importanza allo studio dei processi di integrazione politica e al sistema delle dispute giuridiche. Tra le sue molte opere troviamo così Ordine e ribellione nell'Africa tribale (Order and Rebellion in Tribal Africa) del 1963. e Potere, diritto e rituale nelle società tribali (Politics, Law and Ritual in Tribal Society) del 1965, che è il libro più teorico e maggiormente sistematico da lui scritto sui temi dell'organizzazione politica, del conflitto e dell'ordine sociale.
Barotse
Le dinamiche del conflitto e dell'ordine La dimensione del conflitto e dell'ordine portarono Gluckman a definire analiticamente i concetti di competizione, lotta, conflitto e contraddizione riferibili a livelli diversi e specifici di opposizione. Con il termine competizione (competition) Gluckman indica le contrapposizioni individuali; con lotta (struggle) i contrasti ricorrenti, i quali hanno implicazioni più profonde e di maggiore gravità rispetto a quelli generatori di competizione ma che non oltrepassano il livello dello scontro individuale; con il termine conflitto (conflict) designò quelle opposizioni interne alla struttura che «mettono in moto processi che producono alterazioni nel personale delle posizioni sociali ma non nel modello delle posizioni» (Gluckman 1977: 141). II caso di conflitto tra principi interni alla struttura sociale è illustrato dal caso dei Bemba presso i quali le guerre civili si presentano con ritmi ciclici determinati dal carattere contraddittorio dei principi che regolano la successione al trono. Tuttavia tali crisi ricorrenti non conducono ad alterazioni nel modello (pattern) fondamen-
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tale, per cui, una volta risolta la lotta (struggle) tra i contendenti il sistema torna in equilibrio (Gluckman 1954). Infine, con contraddizione (contradiction) egli indicò «quelle relazioni tra principi e processi discrepanti interni alla struttura sociale che devono inevitabilmente condurre ad un cambiamento radicale del modello» (Gluckman 1977: 141).
L'accentuazione dell'aspetto dinamico dell'interazione sociale finiva per spostare l'attenzione dalla norma all'azione, accentuando gli aspetti processuali del divenire piuttosto che quelli integrativi della struttura. Questo cambiamento di prospettiva doveva manifestarsi soprattutto nel lavoro degli allievi di Gluckman i quali adottarono, invece, quello che è stato appunto definito «metodo di analisi dinamica dei casi» (extended case method).
Funzioni del rituale Nonostante la sua apertura al tema del cambiamento e l'adozione del concetto di contraddizione (un riflesso, quest'ultimo, dell'influenza esercitata su di lui dal pensiero di Marx), l'antropologia di Gluckman rimase legata a quegli aspetti della conflittualità sociale attraverso cui si producono stati di equilibrio all'inter[T19.2] no del sistema. Gluckman analizzò infatti il rituale in questa prospettiva, cioè come un fattore di espressione del conflitto che tuttavia contribuiva alla sua risoluzione, e quindi al ristabilimento dell'equilibrio sociale. Secondo Gluckman il rituale sarebbe in taluni casi associato ai movimenti di ribellione e agirebbe come un atto "liberatorio" in conflitti tanto individuali che di gruppo inerenti al sistema sociale stesso: l'opposizione di due individui che aspirano al trono, il contrasto tra la componente maschile e quella femminile della popolazione, la tensione 'tra giovani e anziani e così via. La lotta, una volta ritualizzata, cioè sottoposta a regole prefissate e a comportamenti stereotipati, oltre che socialmente approvati in quanto appunto rituali, renderebbe esplicito il contrasto tra quelli che Gluckman aveva chiamato i principi inerenti alla struttura. Il rito sarebbe una metafora del conflitto in grado di rendere espliciti agli individui i principi da cui deriva l'unità della loro società. Siamo qui di fronte ad una concezione della solidarietà sociale che richiama quella di Durkheim, un motivo che Gluckman aveva recepito attraverso Radcliffe-Brown. Ma Gluckman si discosta da quest'ultimo per il fatto di assegnare alla dimensione del conflitto, e non all'integrazione delle parti della struttura, il ruolo centrale nel processo di produzione dell'equilibrio. Verso un nuovo metodo di analisi Tipico della «Scuola di Manchester» fu il modo nuovo di avvicinarsi all'analisi delle realtà sociali in trasformazione sotto le spinte dei contrasti tra gruppi etnici, tra generazioni, lignaggi, classi ecc. Il metodo d'analisi fino allora prevalentemente praticato dalla scuola funzionalista individuava nella norma e nell'istituzione i principali fattori di considerazione al fine di ricostruire l'assetto strutturale di una determinata società. Come lo stesso Gluckman ebbe a scrivere, «gli antropologi della mia generazione si erano occupati della morfologia delle strutture sociali tribali e adducevano come prova delle loro ipotesi esempi appropriati e isolati. Fu in questi termini che Evans-Pritchard condusse la sua analisi sul modo in cui stregoneria, oracoli e magia operano come un unico sistema che esprime una filosofia della causazione e della moralità». Invece, prosegue Gluckman, «le analisi di questi [più giovani] studiosi si rivolgono allo sviluppo delle relazioni sociali stesse, sotto la pressione conflittuale di principi e valori antagonistici, come le trasformazioni generazionali e il raggiungimento della maturità da parte di nuovi individui. Se osserviamo queste relazioni per un lungo periodo di tempo, vedremo come le varie parti interessate e i loro sostenitori producano e manipolino le credenze mistiche per difendere i propri interessi. Tali credenze vengono osservate nel loro processo dinamico, nel divenire quotidiano della vita sociale, e lo stesso vale per la creazione di nuovi gruppi e di nuove relazioni» (Gluckman 1977: 283-284, corsivo nostro).
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Dramma sociale e simbolismo rituale: Victor Turner Tra gli studi prodotti all'insegna dei principi metodologici della scuola di Manchester si devono ricordare quelli di Victor Turner (1920-1983). Turner, che compì la sua carriera negli Stati Uniti inaugurando il filone di ricerca che si è soliti chiamare "antropologia del teatro", fu allievo di Gluckman e compì le proprie ricerche in Africa. In Scisma e continuità in una società africana (Schism and Continuity in an African Society) pubblicato nel 1957,Turner analizzò la vita in un villaggio degli ndembu, una popolazione di agricoltori della Rhodesia del nord, oggi Zambia. Il «dramma sociale» Con l'espressione dramma sociale (social drama) Turner indicò quei conflitti che caratterizzavano la società ndembu e che egli descrisse in una prospettiva processuale e dinamica, ossia concentrandosi sull'interazione tra gli individui, sui loro comportamenti e la manipolazione, da parte di questi, delle credenze e delle norme sociali. Descrivendo la vita nei villaggi, Turner individuò la dimensione conflittuale della società ndembu nella contrapposizione tra due principi fondamentali: la discendenza matrilineare e la residenza virilocale (presso il gruppo del marito). Tra gli ndembu, quando l'uomo che esercita l'autorità muore o si ritira, deve essere sostituito, in base al principio della matrilinearità, dal figlio della sorella. Quest'ultima tuttavia. sposandosi. va a vivere, nel rispetto del principio virilocale, presso il gruppo del marito dove abitano anche i figli avuti da quest'ultimo. Sono però i fratelli figli di una stessa madre, e più in generale tutti gli uomini uniti per via matrilineare a formare il principale gruppo solidale_ Allo scopo di rafforzare la propria posizione, o per non farsi superare da gruppi rivali simili, gli uomini devono fare in modo che i propri figli restino nel villaggio e, al tempo stesso, fare in modo che i figli delle sorelle (i quali appartengono al loro stesso lignaggio ma abitano coi loro padri) tornino nel villaggio. Gli uomini devono per contro impedire che i propri figli lascino il villaggio sotto una pressione analoga, ma inversa, esercitata su di essi dai loro zii materni, i quali abitano altrove. Questi obiettivi sono contraddittori e quindi generatori di conflitto. I conflitti tipici della società ndembu non riguardano però soltanto la lotta tra individui ambiziosi o tra lignaggi concorrenti. Essi possono toccare lo stesso matrilignaggio dall'interno. Dal momento che l'aggressione fisica verso i consanguinei non è moralmente ammessa, ecco che la conflittualità tra membri dello stesso lignaggio viene espressa in termini di accuse di stregoneria. Tuttavia il principio della competizione è mitigato da quello della consanguineità, per cui «i consanguinei matrilineari fanno spesso tutto il possibile pur di non
Ndembu
Victor Turner
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condannare uno dei loro membri accusato di essere un mago o una strega» (Turner 1976: 191). Turner non mostra interesse per le norme in quanto tali: esse infatti non producono l'assetto reale della società ndembu, che è invece prodotto dall'aggiustamento dialettico delle parti in lotta (struggle): «il conflitto è endemico nella struttura sociale; esiste però un insieme di meccanismi per cui lo stesso conflitto è utilizzato ai fini dell'unità del gruppo» – scrive Turner (ibidem) riecheggiando Gluckman. In ciò Turner riprende la tesi dell'ordine generato dal conflitto e del rituale come metafora di quest'ultimo. Ciò che distingue Turner e i suoi colleghi della «scuola di Manchester» è invece il fatto di mettere in primo piano l'individuo e i suoi comportamenti, fatti di scelte, di strategie e di manipolazioni del "patrimonio" simbolico della propria comunità.
Queste osservazioni servono a Turner per sviluppare la sua teoria dell'opposizione tra struttura e anti-struttura (Turner 1972). Quest'ultima è caratteristica di tutte quelle situazioni (liminali) in cui la dimensione della communitas (riconoscimento di rapporti sociali non espressi in termini strutturali) prevale su quella della societas, come è il caso di tutte quelle situazioni in cui gli individui si trovano a vivere situazioni liminali: quali un rito di iniziazione o la partecipazione ad un pellegrinaggio. Per Turner questa realtà richiede di essere indagata con strumenti diversi da quelli utilizzati nell'ambito dell'analisi stuttural-funzionale. Poiché a quest'ultima resta, dicevamo, preclusa una visione "dal di dentro" dei rapporti sociali.
I simboli e il rituale Il patrimonio simbolico della comunità è al centro del processo rituale. Lo studio del rito, forse il principale contributo di Tu rn er all'antropologia (in particolare [T19.4] con La foresta dei simboli del 1967 e con II processo rituale dei 1969), ha messo in rilievo come l'analisi funzionai-strutturale non sia in grado di svelare "dal di dentro" il senso dei rapporti sociali. Turner è infatti dell'avviso che lo studio del rituale, e in particolare dei rituali di iniziazione tra gli Ndembu, consenta di mettere in evidenza quegli aspetti della struttura sociale meno "visibili" e che tuttavia costituiscono, per gli attori sociali, i momenti cruciali della percezione che essi hanno della loro vita comunitaria. Partendo dai riti di passaggio studiati per la prima volta da Van Gennep (v. Cap. 7), Tu rn er nota come questi ultimi – tipico il caso dei riti di iniziazione – non chiamino in causa direttamente i rapporti strutturali tra i membri della comunità. I riti di iniziazione, come tutti i riti di passaggio del resto, mettono in evidenza i principi della struttura sociale. Mediante l'uso di simboli, i riti mettono soprattutto in gioco le concezioni del mondo, le rappresentazioni dei principi vitali, e quindi dei valori sui quali si fonda la vita sociale. Lo studio del simbolismo ndembu suggerisce a Turner di tener conto, nello studio del significato dei simboli, di tre livelli: livello esegetico, livello operazionaie e livello posizionale. Turner studia infatti sia l'interpretazione locale del significato dei simboli (il livello esegetico), sia le connessioni tra i simboli e i loro significati, mettendo così in chiaro che la visione che i membri di una cultura hanno di quest'ultima non coincide con quella dell'antropologo, il quale è alla ricerca di nuove connessioni di significato (Turner 1976). Per studiare i simboli l'antropologo deve quindi osservare come vengono utilizzati dai membri di una società (questo è il livello operazionale). I simboli, che Turner definisce le "unità elementari del rito", hanno un valore polisemico: i simboli sono cioè in grado di significare cose diverse in relazione al contesto della loro utilizzazione (questo è il livello posizionale). I simboli vengono "attivati" dalla società nel corso della celebrazione dei riti, e specialmente di quei riti che Van Gennep chiamava "di passaggio". È infatti durante questi riti che diventa più facile, per i membri della società, avere una qualche consapevolezza dei valori e i simboli che li veicolano. Si tratta di riti che prevedono quelle fasi "di margine", o "liminali" che sono identificabili con fasi a-strutturali, marginali appunto, durante le quali gli individui cambiano status (passano cioè, potremo dire, da una posizione strutturale ad un'altra) e in cui le contraddizioni sociali hanno modo di essere espresse in forma simbolica (ribellione, travestimento ecc.).
Critica dell'equilibrio strutturale: Edmund Leach Il processo di revisione critica dell'ortodossia funzionalista giunse ad una fase critica con Edmund Leach (1910-1989). Leach non fu allievo di RadcliffeBrown, ma di Malinowski. La sua ricerca etnografica contribuì senza dubbio a determinare il suo orientamento teorico. Infatti Leach non era, a differenza di molti suoi colleghi della "grande generazione" britannica, un africanista. La sua ricerca si svolse quasi interamente tra il Sudest asiatico (Birmania) e l'Asia Meridionale (Ceylon, oggi Sri Lanka). I suoi esordi furono addirittura, fatto assolutamente anomalo per un antropologo britannico di quel periodo, mediorientali. Nel 1938 Leach compì infatti una breve ricerca tra i kurdi dell'Iraq e i risultati di essa vennero pubblicati nel 1940 in un libro intitolato Organizzazione sociale ed economica dei kurdi Rowanduz (Social and Economic Organization of the Rowanduz Kurds). In quella breve monografia è possibile intravedere alcune delle problematiche del percorso successivo di Leach. Leach è uno dei primi antropologi ad aver condotto ricerche sul campo in aree caratterizzate dalla presenza di quelle che allora erano un tempo chiamate società "complesse", ossia società caratterizzate da una accentuata specializzazione produttiva, dalla scrittura, da forme marcate di stratificazione sociale, dalla presenza di organismi politici centralizzati oltre che da religioni universalistiche e salvifiche come l'hinduismo, il buddhismo, l'ebraismo, il cristianesimo e l'islam. L'antropologia, come sappiamo, si era sviluppata nei decenni precedenti soprattutto grazie a studi condotti sulle società "primitive" ritenute, a torto o a ragione, "semplici" o "elementari", ma ad ogni modo diverse da quelle presenti nell'area euroasiatica considerata come la culla delle grandi civiltà storiche. Pochi erano stati, fin verso gli anni '30, coloro che avevano osato intraprendere, in una prospettiva antropologica, l'analisi di realtà "complesse". Il lavoro di Leach è stato messo in relazione con quello di Gluckman (Kuper 1996). Se un parallelo può essere stabilito tra i due antropologi e tra coloro che ad essi si sono ispirati, questo va cercato nell'abbandono dell'ipotesi dell'equilibrio strutturale come dato e nell'importanza attribuita ai temi del conflitto e della manipolazione delle risorse materiali e simboliche dalla cui gestione dipende l'esercizio del potere. La critica della prospettiva normativa Nel suo lavoro sui kurdi Leach mise in questione l'assunto fondamentale del funzionalismo strutturale osservando che la società in questione sottostava a forze economiche e politiche esterne generatrici non tanto di modificazioni
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Kurdi
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Kachin
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strutturali, ma piuttosto di veri rivolgimenti. Le comunità kurde apparivano a Leach come «in uno stato di flusso costante e di cambiamento potenziale» (1940: 62) in quanto non era possibile immaginare, in questo caso, un sistema sociale come un'entità composta di parti permanentemente integrate (Radcliffe-Brown) o periodicamente in conflitto (l'idea di Gluckman), ma piuttosto come un sistema costituito da un complesso di interazioni generate da «interessi conflittuali e da attitudini divergenti» (ibidem). I temi dell'instabilità, del conflitto, del cambiamento e della manipolazione, nonché il tema dell'allontanamento dalla norma e quello della modellizzazione teorica, costituirono infatti l'orizzonte dell'antropologia di Leach. A questi temi si aggiunge quello della critica alla considerazione della società e delle culture studiate dagli antropologi come `,`sistemi chiusi'.'; provvisti cioè di confini netti e pertanto identificabili con gruppi distinti e definibili, di solito, come "tribù". È con questo spirito che, agli inizi degli anni 1960, Leach criticò la metodologia comparativa tipica dell'antropologia sociale britannica. Questi temi si trovano sviluppati nel libro più celebre di Leach, Sistemi politici birmani (Political Systems of Highland Burma) del 1954, frutto di una ricerca condotta in Birmania negli anni della seconda guerra mondiale, quando Leach coordinava alcuni gruppi della guerriglia indigena impegnata nella resistenza anti-giapponese. Sino ad allora le comunità, i villaggi, le tribù ecc. venivano presentate, negli studi antropologici, come entità chiuse, circoscritte. Le comunità kachin avevano invece lingue e culture diverse in continuo contatto; erano comunità animiste e buddhiste in rapporto di interazione e di scambio; mostravano sistemi sociali stratificati accanto a sistemi egualitari; presenza dello stato e comunità di villaggio governate da membri di lignaggi "anziani". Quanto a "complessità" la realtà incontrata da Leach in Birmania non si discostava di molto da quella da lui studiata poco tempo prima in Iraq, dove anche qui la pressione delle istituzioni politiche centralizzate, la stratificazione sociale, la specializzazione produttiva tra pastori nomadi e agricoltori sedentari, una tradizione scritturale, e il pluralismo linguistico erano gli elementi costitutivi del paesaggio culturale. Una simile realtà andava analizzata sulla base di una prospettiva diversa da quella prevalente nell'ambito della tradizione britannica.
colloca all'interno di un complicato meccanismo di scambio matrimoniale tra lignaggi "datori" (maya) e "prenditori" (dama) di mogli. Una volta raggiunta la forma gumsa (aristocratica) il sistema non si stabilizza come negli stati shan, ma tende, per via del limite dei meccanismi politico-matrimoniali che hanno favorito l'insorgenza del sistema gumsa, a far ritorno alla forma gumlao (egualitaria). La conclusione a cui giunge Leach è alquanto diversa dalla concezione allora dominante della struttura sociale: «se da un punto di vista analitico è corretto considerare i due sistemi gumsa e gumlao come due modelli distinti di struttura sociale, i due tipi, nella loro applicazione pratica, sono poi sempre interrelati... Un'organizzazione politica gumsa tende a sviluppare caratteristiche che innescano una rivolta che si risolve, temporaneamente, in un ordinamento gumlao. Ma una comunità gumlao... manca dei mezzi per tenere uniti i lignaggi che la compongono in uno stato di eguaglianza. Il risultato sarà o che si disgregherà del tutto attraverso un processo di fissione, oppure le differenze di status tra i gruppi di lignaggio restituiranno il sistema al modello gumsa» (ivi: 248). Gumlao e gumsa sono pertanto due possibili "stati" del sistema complessivo ma rappresentano anche, secondo Leach, due "ideali" in riferimento ai quali gli attori sociali tendono a descrivere la propria società. C'è discrepanza, nota Leach, tra ideale (norma) e realtà (azione) perché mentre un capo si trova ad agire all'interno di una situazione tendente allo stato gumlao (egualitario) egli di fatto 4 pensa" in termini di sistema gumsa (aristocratico). Questa discrepanza lascia spazio alla manipolazione, da parte degli individui, delle risorse simboliche della comunità allo scopo di trarne vantaggi e potere. Tale manipolazione è riscontrabile, secondo Leach, in occasione del comportamento rituale. È tale comportamento che, a giudizio di Leach, risponde alla rappresentazione che gli individui hanno della propria condizione sociale. I kachin che vivono in un sistema gumlao condividono l'ideologia gumsa ma manipolano il significato del rito. Entrambi, kachin gumsa e kachin gumlao, ritengono che in occasione di certe cerimonie, in cui i bovini sono ritualmente sacrificati agli antenati, offrire le cosce dell'animale macellato ad un capo significhi riconoscerlo come proprio signore, ma i kachin gumlao, scrive Leach, "non riconoscono capi e perciò non pagano alcun tributo" (Leach 1979: 146); essi si sottraggono cioè a quelli che dovrebbero essere i loro doveri poltico-rituali. Appare qui nella sua compiutezza la critica della prospettiva normativa riconducibile a Radcliffe-Brown e successivamente adottata da altri autori britannici. Gli individui, osserva Leach, non si conformano affatto alle norme in tutto e per tutto. La norma si presta ad essere interpretata a seconda degli interessi contingenti ed è la reazione degli individui a tali interessi che determina il processo di cambiamento, fino a produrre un diverso assetto strutturale. La proposta teorica e metodologica di Leach enunciata in Sistemi politici birmani era infatti la seguente: l'antropologo deve costruire un modello della struttura come se questo fosse la struttura; egli deve poi descrivere tutte le discrepanze tra il modello e la realtà al fine di rendere conto delle deviazioni individuali dalla norma.
Il sistema oscillatorio dei kachin L'immagine della struttura sociopolitica dei kachin dataci da Leach corrisponde a quella di un sistema sottoposto e ricorrenti "collassi strutturali". Il "sistema" kachin, sosteneva Leach, consiste in un continuum di forme sociopolitiche compreso tra due estremi – o, se si vuole, modelli – di organizzazione: una "aristocratica" ed una "egualitaria". Queste organizzazioni emergono alternativamente a intervalli di quasi un secolo come prodotti della dinamica interna al sistema complessivo. Tale dinamica prevede l'emergenza del sistema egualitario gumlao e di quello aristocratico gumsa, dove quest'ultimo "tende" a riprodurre, su scala minore, la struttura statuale caratteristica delle popolazioni shan, vicine dei kachin le quali sono dotate di un sistema sociale stratificato stabile. Il passaggio dalla forma gumlao (egualitaria) a quella gumsa (aristocratica) è determinato da una contraddizione interna al sistema. Tale contraddizione si
Le nozioni di rete e di organizzazione sociale Uno degli esiti più rilevanti delle critiche allo struttural-funzionalismo fu l'elaborazione di nuove strategie di analisi e di nuove prospettive di ricerca. L'analisi dinamica dei casi, lo studio del mutamento e la prospettiva dell'azione come scelta, e non solo come riflesso della norma, rapresentano queste novità. Un'altra novità fu 1' introduzione della nozione di rete e della prospettiva, ad essa correlata, conosciuta come network analysis, ossia "analisi di rete".
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Lo struttural-funzionalismo considerava la società come un complesso integrato, composto da istituzioni e da gruppi altamente stabili, e nel quale gli individui agivano in base a regoISOLE SALOMONE le e secondo delle norme. La descrizione di regole e norme diventava così lo scopo ultimo dell'analisi antropologica poi\Mawrtd Guadarcàny^5^ ché, in base a tale descrizione, sarebbe stato possibile spiegaSan CY MbaI a sana Crua re il comportamento dei membri della società. o Aunuta Agli inizi degli anni 1950 la crisi dello struttural-funzionaliMar delle Tikopia o Salomone smo coincise con l'abbandono della prospettiva dell'equiliIsole , Mar Torres (Sole dei Coralli brio strutturale e con la conseguente apertura alle tematiche ,Banks Espiritu Santo ,, del mutamento. Il mutamento è, in un certo senso, deviazione dalla norma, dalla regola, e tale "deviazione" è quello che si verifica spesso nel comportamento reale quando gli indiTikopia vidui, in base a valutazioni proprie, cercano di adattare le norme alle scelte, e queste ultime alle norme. Questa prospettiva consentiva di indagare sfere d'azione che non erano riconducibili ad espliciti schemi normativi né potevano essere regolate da tali schemi. Si ebbe così uno sviluppo notevole di analisi vertenti su quelle forme di relazioni sociali che, sottratte al campo della norma, risultavano tuttavia decisive per il funzionamento della struttura sociale. Alla prospettiva normativa subentrava così un diverso approccio analitico consistente nello studio delle reti sociali ovvero delle relazioni che, in maniera informale, connettono individui indipendentemente dalla loro comune appartenenza a dei gruppi istituzionalizzati. L'analisi di rete venne affermandosi soprattutto nelle studio di realtà "complesse" come i contesti urbani o le società industrializzate, ma anche in quei casi di contatto e di interazione tra contesti "tribali" e contesti "nazionali". Tale prospettiva si tradusse nella ricerca di termini più precisi per indicare i processi e le relazioni sociali. Questo è il significato della distinzione operata da Raymond Firth (1901-) tra struttura sociale e organizzazione sociale. Neozelandese, allievo di Malinowski e autore di celebri studi sulle culture polinesiane (il più noto dei quali resta Noi, Tikopia del 1936), Firth è una delle figure più significative della tradizione che fa capo all'antropologia sociale britan[T19.71 nica. Firth operò questa distinzione tra struttura ed organizzazione sociale nel segno di un ripensamento della prospettiva normativa tipica di RadcliffeBrown. Raymond Mentre la nozione di struttura sociale indica il sistema delle relazioni normatiFirth nel 1958 ve tipiche di una certa società, quella di organizzazione sociale starebbe ad indicare "i processi di coordinamento delle azioni e delle relazioni in riferimento a determinati fini sociali, come adattamenti frutto di scelte compiute dai membri della società" (1964:45). II concetto di organizzazione sociale tenderebbe così a cogliere la realtà della società in maniera più dinamica di quello di struttura sociale. Mentre quest'ultima, infatti, è espressione di un sistema normativo, l'organizzazione sociale è il frutto di strategie e scelte che, adattandosi reciprocamente, tendono a produrre integrazione (organizzazione). Nella prospettiva di Firth, che non utilizza mai le nozioni di "rete" o di "analisi di rete", organizzazione sociale individua inoltre tutte le pratiche che, al di fuori degli schemi normativi. consentono ad una società di ovviare i problemi derivanti dai conflitti tra "principi strutturali" come quelli messi ad esempio in evidenza da Turner tra gli ndembu, cioè tra principio matrilineare e principio virilocale. OCEANO PACIFICO MERIDIONALE
La parabola del funzionalismo britannico: conflitti e mutazioni strutturali
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La ridefinizione del gruppo etnico: Fredrik Barth Norvegese, ma profondamente influenzato dalla tradizione anglosassone sviluppatasi sulle due rive dell'Atlantico nel corso degli anni 1950, Fredrik Barth (1928-) può essere annoverato tra gli antropologi di tradizione britannica. Barth è stato infatti allievo di Leach, e come quest'ultimo esordì sul campo nel Kurdistan iracheno. Le sue ricerche successive tra i nomadi dell'Iran e del Baluchistan, tra i pathan del Pakistan e nelle città dell'Arabia meridionale, nonché tra i pescatori norvegesi e gli agricoltori del Sudan, tra gli aborigeni della Nuova Guinea e i contadini di Bali, unitamente alle sue proposte teoriche relative a molteplici aspetti della riflessione antropologica, ne fanno uno degli antropologi etnograficamente più "versatili" e teoricamente più stimolanti della seconda metà del Novecento.
Fredrik Barth in Nuova Guinea (1970)
Gruppi e confini etnici Tra i molteplici contributi di Barth all'antropologia, vi è quello, molto importante, della ridefinizione delle nozioni di gruppo e di confine etnico. A questi temi Barth ha dedicato un'opera collettiva – a cui parteciparono altri antropologi della scuola norvegese – che non a torto è stato ritenuto come una svolta decisiva in questo campo di studi: Gruppi e confini etnici (Ethnic Groups and Boundaries) del 1969. La problematica di fondo di questo libro, nella quale si può intravedere un'eco di quella da cui era partito Leach nel suo lavoro sui kachin, è frutto del rifiuto di considerare le comunità studiate dall'antropologia come entità chiuse e circoscritte. Per gruppo etnico, sostiene Barth, si intende solitamente un insieme di individui rivendicanti origini storiche, linguistiche e culturali comuni. Per lungo tempo è prevalsa la tendenza a considerare il gruppo etnico come una entità immutabile, dai confini netti e la cui continuità nel tempo è garantita da fattori di carattere essenzialmente demografico. Ora, questa immagine del gruppo etnico si basa essenzialmente sull'equazione, nel complesso arbitraria, tra i fattori della "razza", della cultura, della lingua e della collocazione geografica. Il risultato di ciò è stato l'affermarsi dell'idea di gruppo etnico come entità sociale chiusa, dai confini stabiliti una volta per tutte. Non è un caso che nel lessico dell'antropologia uno dei termini oggi ancora ricorrenti sia proprio quello di "etnia", parola mediante la quale si è soliti indicare un gruppo definito in base a criteri linguistici, culturali e geografici (in antropologia non viene infatti ormai attribuito alcun valore scientifico a qualsiasi considerazione di una presunta componente "razziale"). Secondo Barth un gruppo etnico non è utilmente definibile in base a criteri culturali e linguistici. Esso è invece definibile in base ai criteri che gli interessati elaborano per sentirsi uniti tra loro o per stabilire una distinzione tra sé e gli
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La parabola del funzionalismo britannico: conflitti e mutazioni strutturali altri. Ciò è plausibile in quanto le distinzioni etniche sono particolarmente vive là dove coesistono, gli uni accanto agli altri, gruppi con culture pressoché identiche e lingue mutualmente comprensibili. Bisogna allora, sostiene Barth, studiare i gruppi etnici non dal punto di vista delle "diversità" culturali che li caratterizzano, ma dal punto di vista delle dinamiche pratiche e simboliche che tali gruppi producono allo scopo di stabilire dei confini tra sé e gli altri gruppi. La produzione del confine etnico è l'aspetto più interessante del problema perché è a partire da pochi elementi differenziali che viene ottenuta una separazione identitaria. La produzione sociale della differenza culturale
Basseri, Pathan, Baluchi e Arabi
Come lo stesso Barth ha dimostrato coi suoi studi condotti nel Pakistan settentrionale alla fine degli anni 1950, il confine etnico non è qualcosa che impedisce il cambiamento di identità. Nel suo studio sul cambiamento dell'identità tra i pathan che "diventano" baluchi, il confine è qualcosa che può essere attraversato, ma è comunque qualcosa che "serve" a dare corpo a ciò che Barth stesso chiama "la produzione sociale della differenza culturale" (Barth 1969, 1969a). Mare aaviro Un gruppo che interagisce con altri deve cioè elaborare criidionati teri di autoidentificazione che consentano ai suoi membri di interagire con i membri di gruppi che si autodefiniscono in maniera diversa, in modo tale da favorire lo scambio ma, allo stesso tempo, da non annullare la propria identità. Il gruppo etnico finisce così per autodefinirsi mediante una serie di strategie contingenti che, assicurandone la continuità a livello di autorappresentazione, gli consentono di interagire con altri differenti. Per Ba rt h insomma, le entità definite come etnie corrispondono a qualcosa di notevolmente diverso rispetto ai mondi socioculturali "chiusi" risultanti dalle solite trattazioni del problema. I gruppi etnici sono allora "configurazioni locali" e circostanziate di un "continuum" più ampio. La definizione del gruppo etnico assume così un carattere "dinamico", dal momento che essa permette di pensare i gruppi come entità in relazione reciproca. Questa possibilità di relazione, che è un fatto saliente del paesaggio culturale di vaste regioni come il Pakistan occidentale o la regione del Golfo Persico studiate da Barth, discende dalla stessa fluidità dei confini culturali e linguistici che separano un gruppo "etnico" da altri. La concezione dinamica delle relazioni interetniche, e più in generale della società e della cultura come campi pervasi da continui processi di cambiamento, ha senz'altro trovato origine e conforto nel contesto del lavoro etnografico condotto da Barth. Il Medio Oriente, l'area nella quale si è svolta la maggior parte del lavoro di ricerca dell'antropologo norvegese, ospita infatti comunità plurietniche, caratterizzate da forte specializzazione produttiva (si pensi al ruolo dci pastori nomadi) e da millenni in contatto con forme di organizzazione politica a base urbana. Un quadro complessivo che è ben lontano dal confortare quell'immagine di "staticità" che per tanto tempo aveva fatto da sfondo, in maniera più o meno esplicita, al discorso dell'antropologia struttural-funzionalista.
La parabola del funzionalismo britannico: conflitti e mutazioni strutturali Bibliogra fi a critica
Arrighi G., e Passerini L., Introduzione a ID. (a cura), La politica della parentela, Feltrinelli, Milano 1976. De Matteis S., Echi lontani, incerte presenze. Victor Turner e le questioni dell'antropologia contemporanea, Editrice Montefeltro, Urbino 1995. Ethnos 47,111-1V, 1982 (fascicolo dedicato a F. Barth). Kuper A., Anthropologists & Anthropology. The British School. Penguin, London 1996. Lombard J., L'anthropologie hritannique contemporaine, P.U.F., Paris 1972. Sacchi E, »Fredrick Barth e l'analisi "generativa" dei gruppi etnici», Rassegna Italiana di Sociologia, XXXI, 3, luglio-settembre 1990.
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L'etnoscienza negli Stati Uniti
Capitolo
20 L'etnoscienza negli Stati Uniti
Alla metà del Novecento venne sviluppandosi, negli Stati Uniti, un indirizzo noto come "etnoscienza" o "antropologia cognitiva". Esso prevedeva la ricostruzione del modo in cui una cultura organizza la conoscenza del proprio mondo sul piano linguistico, percettivo, categoriale. Per molti aspetti l'etnoscienza può essere considerata il prodotto di quel clima che è stato definito. "rinascita fornotetica" (v. Cap. 17).
Lo studio del «pensiero primitivo» Lo studio della natura del pensiero primitivo è un tema che percorre l'intera storia dell'antropologia. Ad affrontarlo sistematicamente furono, all'inizio, gli evoluzionisti vittoriani, seguiti da Durkheim e dai suoi allievi, da Lévy-Bruhl e, successivamente, da Leenhardt, Griaule, Evans-Pritchard e Lévi-Strauss. Costoro cercarono di collegare il pensiero o la mentalità primitiva a fenomeni quali la credenza negli esseri soprannaturali, il totemismo, la stregoneria, la classificazione dei gruppi umani e la produzione dei miti. Nella tradizione dell'antropologia essi si preoccuparono di stabilire ora differenze ora somiglianze tra "noi" e "loro", i primitivi, credendo di poter trovare ora degli elementi di continuità, ora dei punti di rottura, tra "pensiero civilizzato" e "pensiero selvaggio". Nessuno di questi studiosi entrò tuttavia nel merito dei meccanismi cognitivi che determinano variazioni e continuità nel modo in cui individui appartenenti a culture diverse entrano in rapporto con la realtà di cui hanno esperienza. L'interesse per lo studio dei meccanismi cognitivi che regolano i processi di costruzione delle rappresentazioni relative al mondo naturale e sociale, è invece da ricondursi agli studi e ai test di psicologia sperimentale effettuati da Rivers e dai suoi collaboratori in occasione del loro soggiorno nell'area dello Stretto di Torres (1898-99) (v. Cap. 9). Rivers lavorò sulla costituzione dei processi percettivi e i suoi colleghi su altri aspetti della reattività sensoriale. Come altre prospettive di ricerca messe da parte dall'irrompere sulla scena del paradigma funziona!-strutturalista nella Gran Bretagna degli anni '20, anche gli studi a sfondo psicologico di Rivers e dei suoi colleghi non ebbero praticamente alcun seguito. In America la situazione si configurò invece in maniera diversa. Infatti, si deve
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probabilmente al retaggio dell'onnipresente figura di Boas se l'antropologia americana ha visto emergere, a partire dagli anni 1950, una corrente di ricerca molto differenziata al proprio interno ma comunemente designata con vari nomi tra cui quello di etnoscienza. I significati di etnoscienza Il termine etnoscienza si diffuse verso la metà degli anni 1950 venendo a designare alternativamente due diverse prospettive di ricerca. Con un termine composto dal prefisso etno- e dalle parole biologia, botanica, geologia, medicina, scienza ecc. si possono intendere due cose diverse ogni volta. Come ha scritto Giorgio R. Cardona, «etnobotanica può significare: a) una vera botanica scienti-. fica, ma ritagliata sull'habitat, uso ecc. di una determinata etnia; b) la scienza botanica posseduta da una specifica etnia. Nel primo caso il ricercatore è soprattutto un naturalista, che compie il suo lavoro consueto anche se con una particolare. attenzione alle denominazioni locali; nel secondo il ricercatore è piuttosto un antropologo conoscitivo, che studia come venga categorizzato il mondo naturale da una determinata etnia... Nella seconda accezione l'indagine è molto più ambiziosa... essa aspira addirittura a ricostruire il modo in cui il soggetto vede e categorizza il mondo naturale» (Cardona 1985: 16). È all'etnoscienza intesa in questa seconda accezione che noi faremo qui riferimento. Boas e l'ipotesi Sapir-Whorf Negli Stati Uniti, intorno alla metà degli anni 1930, Edward Sapir (v. Cap. 8) che come abbiamo visto era anch'egli allievo di Boas, e un geniale linguista dilettante, Benjamin Lee Whorf (1897-1941.) avevano rivolto la propria attenzione alle relazioni tra la struttura grammaticale della lingua e la visione del mondo di una data popolazione. Sapir e Whorf, ma soprattutto quest'ultimo, erano giunti alla conclusione secondo cui la struttura di una lingua sarebbe determinata dall'esperienza ma sarebbe a sua volta responsabile della visione del mondo tipica di una cultura. Né Sapir né Whorf sembrano aver sviluppato questa loro idea di re- lativismo linguistico (la cosiddetta "ipotesi Sapir-Whorf') dalle idee dei filosofi romantici tedeschi (Cardona 1976: 64), quanto piuttosto in relazione a Boas. Questi si distingueva però dai due etnolinguisti per l'importanza da lui attribuita al pensiero in quanto elemento determinante nella sua relazione con la lingua, e non viceversa. Boas inoltre, al contrario di Sapir (1971) e Whorf (1970), non estremizzava la propria posizione relativistica fino al punto di dubitare della possibilità di tradurre una lingua (pensiero) in un'altra molto diversa, una conclusione che invece sembrava essere implicita negli studi di Whorf sulle lingue degli indiani d'America. Per Boas la differenza tra la mentalità dei "primitivi" e quella dei "civilizzati" era da mettere in rapporto al fatto che mentre questi ultimi erano gli eredi di una lunga tradizione di sistematizzazione in forma scritta della riflessione astratta, i popoli primitivi non avevano mai avuto la possibilità di fissare la propria. Le posizioni di Boas relative alla questione della differenza mentale tra civilizzati e primitivi vanno considerate alla luce della battaglia relativistica e antirazzista che egli sostenne nel corso di tutta la sua vita. Per Boas popoli come quello eschimese o quello indiano possedevano esattamente le stesse facoltà mentali e la stessa possibilità di ragionare in maniera astratta dei popoli civilizzati, cosa che d'altra parte essi imparavano a fare ogniqualvolta si sottoponesse loro ripetutamente una questione sollecitante questo tipo di reazione mentale. Il
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L'etnoscienza negli Stati Uniti
[T20.2] fatto però che il ragionamento astratto non facesse parte del loro campo d'esperienza abituale produceva, agli occhi degli occidentali, dei comportamenti interpretati come segno di pre-logicità o di irrazionalità. L'etnoscienza, che può dunque essere definita come lo studio delle modalità in cui il sistema di pensiero di una comunità si plasma in relazione al suo campo esperienziale, è un settore di ricerca fortemente influenzato dalla linguistica. Il linguaggio è infatti considerato, indipendentemente dal tipo di relazione attiva o passiva che esso intrattiene con il resto della sfera simbolica di cui è parte esso stesso, come il mezzo privilegiato di espressione dei concetti e delle relazioni tra tali concetti. L'idea fondamentale che sottostà alla possibilità di una etnoscienza è quella per cui ogni cultura non costituisce tanto un insieme di "usi e costumi" o di tecniche materiali e di istituzioni elaborate per far fronte alle necessità della vita sociale, quanto piuttosto un sistema di pensiero formato da "elementi" (concetti e gruppi di concetti) interrelati tra loro i quali fungono da "mappa di orientamento" per il comportamento di quanti fanno parte di quella determinata cultura. La conoscenza delle «organizzazioni cognitive» L'etnoscienza diventa così «un tentativo di comprendere i principi di organizzazione che stanno alla base del... comportamento. Si ritiene che ogni popolo abbia un unico sistema per percepire e organizzare fenomeni di tipo materiale: cose, eventi, comportamenti, emozioni... Oggetto dello studio non sono questi fenomeni materiali in quanto tali, ma il modo in cui essi sono organizzati nella mente degli uomini. Le culture non sono fenomeni materiali, bensì organizzazioni cognitive di fenomeni materiali» (Tyler 1969: 3, corsivo nostro). Siamo qui in presenza di una concezione della cultura alquanto diversa da quella tradizionalmente intesa e risalente alla definizione di Edward B. Tylor del 1871 (v. Cap. 2). Emico/etico I termini emico ed etico furono ripresi dalla linguistica antropologica (phonemic, phon-etic) e stanno ad indicare due differenti prospettive di analisi che sono anche due opzioni teoriche ben definite. La prospettiva etica dà particolare valore alle teorie dell'osservatore e mette in secondo piano (o ignora completamente) il punto di vista dell'osservato, il quale viene invece tenuto in particolare considerazione da quanti privilegiano la prospettiva etnica, ossia una analisi centrata sulle categorie "interne" ad una determinata cultura. Ponendosi come obiettivo lo studio delle modalità di costituzione e di funzionamento del sistema cognitivo di una determinata cultura, gli "etnoscienziati" privilegiano il cosiddetto "punto di vista emico", cioè il modo stesso di conoscere proprio degli individui che fanno parte di una determinata cultura. Al punto di vista emico si contrappone il punto di vista etico, ossia la prospettiva che valorizza l'applicazione delle categorie "scientifiche" dell'osservatore ponendo in secondo piano il "punto di vista dell'osservato", ossia il livello emico dell'analisi. Secondo gli antropologi che si identificano con il filone dell'etnoscienza il problema della efficacia conoscitiva dell'antropologia si pone a livello della corrispondenza tra quanto viene elaborato dall'osservatore e quanto viene pensato dall'osservato. Charles O. Frake, che assieme ad Harold Conklin, Floyd G. Lounsbury e Ward Goodenough è considerato come uno dei fondato-
L'etnoscienza negli Stati Uniti ri dell'etnoscienza e uno dei suoi più autorevoli rappresentanti, ha scritto: «Un etnografo dovrebbe cercare di definire gli oggetti [della sua analisi] in accordo con il sistema concettuale della popolazione che egli studia. Mi si lasci allora dire che ci si impegna nella raccolta dei nomi di cose non come se fosse un esercizio di registrazione linguistica, ma piuttosto un modo di scoprire cosa sono di fatto quelle "cose" nell'ambiente della popolazione studiata» (Frake 1969: 28). Uno degli effetti immediati di questa impostazione è che lo studio "emico" di una data cultura comporta l'esplorazione degli ambiti semantici tipici di quella cultura, ossia ambiti di discorso al cui interno gli enunciati acquistano senso solo nel sistema complessivo delle relazioni con altri enunciati. Un sistema terminologico di parentela, le nozioni relative alla salute e alla malattia, i termini impiegati per indicare i colori, un sistema di classificazione delle specie vegetali, un sistema religioso ecc sono tutti "ambiti semantici" che vengono esplorati nell'intento di cogliere le relazioni tra ì termini che li costituiscono ed eventualmente allo scopo di scoprire se i criteri di strutturazione di un ambito semantico sono omologhi a quelli di un altro, il tutto al fine di capire in che modo i membri di una cultura utilizzano tali conoscenze per orientare il proprio comportamento, sia mentale, sia pratico. Le critiche e il punto di vista «etico» La prospettiva "emica" dell'etnoscienza è stata criticata da coloro che si sono mostrati contrari nei confronti di qualunque prospettiva che intenda porre il problema della conoscenza antropologica in termini di conoscenza del "punto di vista dell'indigeno". Marvin Harris ha ad esempio sostenuto che non si può giungere ad una conoscenza oggettiva della realtà socio-culturale facendo riferimento alle idee espresse dagli attori sociali. In effetti Frake ha scritto: «Ogni etnografia dovrebbe essere una teoria del comportamento culturale in una determinata società, la cui adeguatezza va giudicata in base alla capacità di un estraneo alla cultura (che può essere lo stesso etnografo) di utilizzare le proposizioni dell'etnografia come istruzioni per anticipare opportunamente gli scenari sociali» (Har ri s 1971: 768). Per Harris questa è una illusione. Come infatti egli sosterrà in un lavoro del 1974, è impossibile ricostruire il complesso delle regole che determinano le scelte reali degli individui, in quanto i "nativi" possiedono sempre una regola per infrangere la regola, in maniera da non "chiudere mai il cerchio" della spiegazione ma da innescare una infinita "regressione" alla ricerca di altre regole. Le regole emiche la cui conoscenza dovrebbe consentire all'antropologo di pervenire alla comprensione della cultura, non avrebbero perciò alcun valore esplicativo. Solo le regole "etiche", quelle formulate dall'antropologo, hanno tale valore dal momento che sono "logicamente conclusive". Sono infatti queste le regole che, secondo Harris, possono condurci alla reale comprensione della cultura da noi studiata, e non «l'insorgere di una corrente cognitiva, strutturalista, mentalista [che] ha assegnato alla nostra professione la singolare peculiarità che consiste nell'evitare precipitosamente qualunque contatto con ciò che in fin dei conti la gente fa, e nel favorire ciò che, forse, la gente pensa» (Harris 1974:248). La critica di Harris può essere però criticata a sua volta, anche se non dal punto di vista dell'etnoscienza. Infatti, come è stato fatto osservare, «la gente è in g rado. anche se non del tutto, di predire il comportamento reciproco... Anche se non è in grado di predire atti specifici, essa sa di poter contare su una certa gamma di azioni possibili... Questa è la ragione per la quale il regresso infinito di
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L'etnoscienza negli Stati Uniti
L'etnoscienza negli Stati Uniti
Hanis non si verifica mai... ma si arresta sempre a un certo punto» (Holy e Stuchlick 1983:73). L'analisi componenziale Una delle tecniche elaborate allo scopo di analizzare dei campi semantici in questa prospettiva è quella conosciuta come analisi componenziale dei termini di parentela. Questa tecnica, sviluppata da Goodenough (1956; 1968) e Lounsbury (1956), parte dalla considerazione che le terminologie di parentela, di cui come già sappiamo Morgan aveva colto fin dal secolo scorso il carattere di "sistema", formano dei domini semantici al cui interno i singoli termini acquistano significati particolari a seconda che siano pensati in contrasto o in relazione gerarchica rispetto ad altri termini dello stesso "dominio". Un esempio tratto dalla linguistica, che come abbiamo detto e la disciplina più direttamente chiamata in causa dagli "etnoscienziati", ci aiuterà a cogliere meglio il problema in relazione ai sistemi di parentela. In italiano i pronomi nominali io, tu, lei, voi, loro ecc., stanno in una relazione contrastiva in base ai criteri distintivi della persona (prima/seconda/terza), e le specificazioni di genere (maschile/femminile) e numero (singolare/plurale). A differenza dell'inglese, che riconosce anch'esso i criteri distintivi di persona, genere e numero, l'italiano ha, al pari del francese, una specificazione di genere alla terza persona plurale: essi, esse (mentre l'inglese ha solo they); inoltre l'italiano, come il francese e sempre diversamente dall'inglese (che ha solamente you), ha due forme per la seconda persona singolare, tu e Lei (in francese tu e vous) che definiscono una sfumatura di significato importante in ciò che viene chiamato grado di confidenza. Le componenti Questi elementi, e cioè i criteri distintivi e le specificazioni, sono le componenti dell'analisi in quanto si configurano come "valori semantici" di ciascun termine (in questo caso i pronomi): le "componenti" del pronome italiano egli sono ad esempio la terza persona, il maschile e il singolare in relazione ai criteri distintivi della persona, del genere e del numero. L'analisi componenziale applicata al dominio semantico dei sistemi di parentela rivela l'esistenza di connessioni e opposizioni spesso inattese tra i vari termini che di tali sistemi fanno parte. Prendiamo, anche in questo caso a titolo di esempio, otto termini del nostro sistema di parentela: nonno, nonna, padre, madre, figlio, figlia, nipote maschio e nipote femmina (ma nel solo significato di figlio/a del figlio/a). La relazione contrastiva
Le "componenti" (cioè i criteri distintivi e le specificazioni) di questi otto termini emergono però pienamente in tutto il loro significato qualora essi vengano contrapposti ad altri termini del sistema di parentela, come ad esempio cognato/a, cugino/a, fratello/sorella e via di seguito. La relazione gerarchica Oltre che in una relazione contrastiva basata sulla differenza generazionale e sul sesso, questi termini si dispongono in una relazione gerarchica, come nella tabella sottostante. Parente
Genitore
Padre
Figlio/a
Madre
Figlio
Figlia
figura si può ad esempio notare che i termini di parentela stanno tra loro in un rapporto di inclusione gerarchica simile a quello delle tassonomie animali: specie, genere, classe ecc. Infatti gli individui designati come genitore e figlio rientrano entrambi in una categoria più generale di individui, i parenti. Si può notare che i termini collocati allo stesso livello stanno in una relazione contrastiva per quanto riguarda i criteri della generazione e del sesso (Genitore m-f/ Figlio-a; Padre-Madre/Figlio-Figlia), mentre i termini posti a livelli diversi sono in relazione con quelli del livello superiore secondo un criterio di inclusione gerarchica. L'opposizione in base alla generazione, al sesso, al rapporto di inclusione, oltre naturalmente a quella risultante dalla relazione con altri termini del sistema, è alla base di quelle «componenti» da cui si origina il significato inerente all'uso di ciascun termine. Tale significato è a sua volta alla base della costituzione della "mappa orientativa" del comportamento degli individui. Queste osservazioni, che potranno apparire banali in quanto fanno riferimento a situazioni che ci sono estremamente familiari, hanno invece una notevole rilevanza se riferite ad analisi componenziali condotte su domini semantici "culturalmente distanti" dai nostri. I sistemi di parentela offrono una gamma di variazioni assai grande, e assai più ne offrono i sistemi di classificazione del mondo vegetale e animale, per non parlare poi dei sistemi nozionali che fanno riferimento all'anatomia del corpo umano, alle concezioni di salute e di malattia, alla percezione dei colori e così via. In questa
Percezione e terminologia del colore
Questi otto termini, disposti su una tabella (vedi sotto), sono in relazione di contrasto dal punto di vista del sesso e dal punto di vista generazionale. Generazione
Maschile"
Femminile
+ 2
Nonno
Nonna
+ 1
Padre
Madre
-1
Figlio
Figlia
- 2
Nipote (m)
Nipote (O
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In quanto prospettiva attenta a riprodurre nella maniera più fedele possibile le mappe concettuali e conoscitive di cui dispongono i nativi per orientare il proprio comportamento e classificare il mondo, l'etnoscienza si configura come un sapere emico. Da questo punto di vista l'etnoscienza è un sapere "relativistico", nel senso che fonda la possibilità stessa della propria scientificità nello studio di uno o più domini semantici "interni" a culture determinate. Tuttavia non sono mancati i tentativi di produrre studi in una prospettiva generalizzante allo scopo di identificare, se possibile. regolarità nei meccanismi che presiedono alla plasmazione delle categorie culturali.
[T20.31
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L'etnoscienza negli Stati Uniti I colori di base
Il campo nel quale questa prospettiva ha mostrato una propria validità – per altro contestata, come vedremo – è quello della classificazione terminologica dei colori "di base", un tema a cui due studiosi americani, Brent Berlin e Paul Kay, [T20.4] dedicarono un celebre studio pubblicato 1969, Basic Color Terms. In questo libro veniva avanzata la teoria secondo la quale i gruppi umani, qualunque sia la "complessità" della loro cultura, possiedono una gamma limitata di termini-base per indicare i colori: da un minimo di due ad un massimo di undici. Per "termini di base" Berlin e Kay intendono quei termini che indicano fenomeni di percezione cromatica i quali non hanno bisogno di alcun altro referente per essere compresi. In italiano rosso, ad esempio, è un termine di base, in quanto non abbiamo bisogno di altro termine di colore per intenderci su che cosa esso significhi "scarlatto" o "ruggine", invece, richiedono che si faccia (concettualmente) riferimento al rosso, termine di base, per poter essere compresi. Perché il numero di questi termini di base varia da due a undici a seconda delle diverse culture? Secondo Berlin e Kay la terminologia di base si sviluppa secondo un andamento di tipo evolutivo, nel senso che, in tutti i sistemi che possiedono solo due termini, questi sono «chiaro» e «scuro»; in quelli che ne hanno tre, sono «bianco», «nero» e «rosso»; in quelli che ne possiedono cinque, oltre ai tre precedenti abbiamo sempre «giallo» e «verde», mentre il sesto termine è sempre «blu», seguito poi in sistemi più complessi dal «marrone» e così via fino ad un massimo di undici. Regolarità e complessità La duplice domanda che sorge a questo punto è: da che cosa dipendono tanto la regolarità riscontrabile nelle terminologie cromatiche di base quanto la loro diversa complessità? Tale domanda è ciò che ha suscitato risposte più o meno consenzienti o più o meno dissenzienti nei confronti della teoria di Berlin e Kay. Per quanti aderiscono alla loro ipotesi evolutiva, la quale dà per scontata una forma di regolarità percettiva nei diversi gruppi umani, la diversa complessità dei sistemi terminologici sarebbe riconducibile, fatta appunto salva la facoltà sensoriale comune, ad un differente grado di organizzazione sociale: più un gruppo è "semplice" sul piano socio-culturale, più la sua terminologia cromatica sarà ristretta (Burling 1970). Tuttavia, come Boas (1972), e dopo di lui Whorf (1970) avevano dimostrato, le terminologie che hanno come referente il campo della percezione tattile e visiva dipendono dal posto che le cose e i fenomeni a cui esse si riferiscono occupano nell'esperienza di una determinata popolazione: così gli Eschimesi hanno una organizzazione sociale meno "complessa" della nostra, ma hanno anche quaranta modi diversi per dire "neve". Stabilire quindi una inferenza diretta tra livello di complessità socio-culturale e repertorio lessicale appare una operazione discutibile. Determinismo ambientale o sociale? Maggiormente perspicue sembrano le osservazioni di quei ricercatori che hanno messo in relazione le diverse terminologie dei colori con le variazioni che si registrano tra gruppi viventi in ambienti diversi. Così, ad esempio, alcuni gruppi insediati in regioni vicine all'Equatore e in possesso di una terminologia di base limitata, risulterebbero portatori di una pigmentazione scura della retina, un fatto che consentirebbe loro di cogliere una quantità di tonalità cromatiche inferiore a quella percepita da soggetti con una minore pigmentazione, come ad esempio i
L'etnoscienza negli Stati Uniti popoli stanziati a latitudini maggiormente distanti dall'Equatore (Bock 1980: 234). Non sono infine mancati coloro che, allo scopo di spiegare la diversa ricchezza della terminologia cromatica di base, hanno tentato di conciliare il fattore fisiologico con quello sociologico: «Un'alta complessità sociale corrisponde alla presenza di un ampio lessico cromatico di base solo a latitudini relativamente alte e la latitudine alta corrisponde alla presenza di un ampio lessico cromatico di base solo quando la complessità sociale è elevata. [Ciò] suggerisce che siamo qui di fronte a fattori culturali e biologici interagenti i quali determinano un dominio semantico» [cioè quello del colore] (Ember 1978: 366-367). La critica «culturalista» Critiche alla impostazione di Berlin e Kay sono giunte da chi propende invece per una visione "culturalista" del problema. Molti hanno insistito sul fatto che il sistema percettivo di una popolazione è profondamente influenzato dalle determinanti culturali in quanto i colori possiedono dei significati contestuali che variano a seconda della situazione. Inoltre le regolarità nelle terminologie cromatiche messe in risalto da Berlin e Kay non tengono conto del fatto che i colori non sono percepiti soltanto sul piano cromatico, cioè fisico-percettivo, ma possono avere ulteriori connotazioni che talvolta precedono la definizione cromatica in senso stretto. I colori in alcuni casi possono essere percepiti prima di tutto come "caldi" o "freddi" o, in altri casi ancora, come "secchi" o "umidi", come ha per esempio mostrato Harold Conklin a proposito di una popolazione dell'arcipelago filippino. Inoltre, la valutazione di un colore può variare a seconda dell'individuo, la cui stessa percezione è determinata dai domini semantici della cultura al cui interno egli si muove: il sesso, l'età, lo stesso contesto di riferimento cromatico al cui interno avviene la valutazione del singolo colore. La posizione dei culturalisti in merito al problema è riassumibile in questa affermazione di Sahlins: «soltanto certe percezioni cromatiche sono individuate come fondamentali (basic), e precisamente quelle che per le loro caratteristiche e relazioni specifiche possono funzionare come significanti (signifiers) in sistemi portatori di informazioni... Non è allora che i termini possiedano dei significati imposti dai limiti della natura umana e fisica; ma piuttosto che essi assumono tali limiti in quanto essi sono significanti (meaningful)» (Sahlins 1977: 167). L'etnoscienza e il problema del significato Al di là delle critiche che possono essere rivolte all'etnoscienza. tanto nella sua versione relativistica quanto in quella generalizzante, rimane ad essa il merito di aver elaborato strumenti di analisi e di aver prodotto studi rilevanti per la conoscenza dei "sistemi di pensiero". Certo sarebbe un peccato se questo filone di ricerca finisse per accentuare, come spesso sembra fare, gli aspetti strettamente formali dell'analisi per perdere di vista quello che era stato un po' il motivo della sua nascita, ossia il tentativo di definire meglio di quanto fosse stato fatto sino ad allora, le relazioni di significato tra idee e concetti che contribuiscono a determinare il comportamento degli individui. Un simile sviluppo non potrebbe portare che ad una visione "computerizzata" della cultura, dove il problema del "senso" e del "significato" sarebbero perduti per sempre. Ci paiono allora molto indicative le parole dell'antropologo Stephen Tyler che era stato in passato uno dei ma g giori promotori dell'etnoscienza ma che ha in seguito scritto: «Da un modo di pensare che svuotava il pensiero di ogni contenuto non avremmo dovuto aspettarci niente di meno della morte del significato: ma che cosa d'altro potevamo attenderci da un metodo d'analisi che aveva la pretesa di dimostrare che
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L'etnoscienza negli Stati Uniti il significato poteva emergere in maniera misteriosa dalla concatenazione meccanica di elementi privi di significato?... Nell'arte come nella scienza non c'è niente di più chiaro della povertà intellettuale del formalismo» (Tyler 1978:465).
Capitolo
21 Prospettive «critiche» nell'antropologia francese: dinamista, marxista, primitivista
Tra 1950 e il 1970, l'antropologia francese vide affermarsi alcune prospettive di ricerca che mettevano in discussione le categorie e gli orientamenti della disciplina così come questa si era configurata sino ad allora. Con l'espressione "prospettive critiche" vogliamo qui indicare una serie di posizioni che, talvolta anche in netto contrasto tra loro, hanno contribuito a mutare in maniera sostanziale la stessa concezione dell'antropologia. È così che l'antropologia, da sapere proteso alla conoscenza delle culture e delle società "altre", comincia a trasformarsi in un sapere votato alla conoscenza di un mondo nel quale le culture, compresa quella dell'antropologo, sono tutte coinvolte in un processo "globale". Con l'espressione "prospettive critiche" indichiamo nell'ordine: una antropologia "dinamista" che, a partire dagli anni 1950, si pone in maniera nuova di fronte allo studio del cambiamento e al fenomeno dell'acculturazione; poi una prospettiva di ispirazione marxista che imposta su nuove basi l'analisi dei rapporti di potere all'interno delle società studiate dall'antropologia e si propone di cogliere i processi di sfruttamento delle comunità della "periferia" del pianeta da parte di un "centro" industrializzato e capitalista; infine una antropologia "primitivista" che ha prodotto, a partire dalla denuncia della distruzione delle culture più deboli, un discorso di condanna globale dell'Occidente.
L'antropologia dinamista
Bibliografia critica Cardona G.R.. Introduzione all'etnolinguistica, Il Mulino, Bologna 1976. Cardona G.R., La foresta di pitone. Manuale di etnoscienza, Laterza. Roma-Bari 1985. Tornay S. (a cura). Voir et Nommer les couleurs, Laboratoire d'ethnologie et de sociologie comparative, Nanterre 1978. Tyler S., Cognitive Anthropology, Holt, Rinehart and Winston, New York 1969. Shweder R.A. e LeVine R. (a cura), Mente, Sé, emozioni, Argo, Lecce 1997 (ed. or. 1984).
Negli anni 1950 si andò costituendo, in Francia, una corrente di studi etnologici che si poneva in una prospettiva diversa tanto dall'etnologia così come questa era stata concepita da Griaule (lo studio dei "sistemi di pensiero") quanto nei confronti dell'antropologia strutturale di Lévi-Strauss. La rapida trasformazione delle società tradizionali africane in conseguenza dell'impatto coloniale, le migrazioni, l'estensione dei mercati e la nascita dei culti sincretici (cioè prodotti dall'incontro tra tradizioni religiose differenti) furono all'origine di nuove domande e di nuove prospettive d'inchiesta in campo etno-antropologico. Soprattutto fu chiaro che l'indagine etno-antropologica non poteva più considerare i propri oggetti come avulsi dalla storia, quali risultavano essere ad esempio i sistemi di pensiero studiati dalla scuola di Griaule, o le "strutture" di Lévi-Strauss.
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese Di qui l'espressione "antropologia dinamista" con la quale, da un certo momento in poi, si cominciò ad indicare non tanto una scuola particolare, ma una prospettiva interessata a leggere le società e le culture in una prospettiva dinamica, capace cioè di cogliere le dimensioni della storia del movimento, della contraddizione e della trasformazione sociale. In Francia stava accadendo qualcosa di simile a quanto avveniva negli stessi anni in seno all'antropologia britannica dove il declino del funzionalismo andava di pari passo con lo studio dei conflitti, dei mutamenti strutturali e delle trasformazioni sociali (v. Cap. 19).
La «situazione coloniale»: Georges Balandier
Georges Balandier (1960 ca.)
[T21.1]
L'espressione "situazione coloniale", introdotta da Georges Balandier (1920- ) nella prima metà degli anni 1950, costituì un po' il punto di riferimento per quanti erano interessati allo studio della problematica delle trasformazioni sociali. Fin dall'immediato dopoguerra Balandier compì ricerche sulle società africane reinterpretando in maniera originale i contributi del funzionalismo britannico. Nella prospettiva di una "sociologia dinamica"/ come contrapposta alla prospettiva tradizionale dell'etnologia classica, Balandier mise a fuoco il rapporto tra società tradizionali e società occidentale definendolo concettualmente come situazione coloniale. Nel libro Sociologie actuelle de l'Afrique noire del 1955, nel quale venivano sintetizzati alcuni studi da lui condotti negli anni precedenti, Balandier definì la "situazione coloniale" come «il dominio imposto da una minoranza straniera "razzialmente" e culturalmente diversa, in nome di una superiorità razziale (o etnica) e culturale affermata in maniera dogmatica, ad una maggioranza autoctona inferiore sul piano materiale; il contatto tra civiltà eterogenee; una civiltà meccanizzata, con una economia forte, rapida e d'origine cristiana che si impone a delle civiltà prive di tecnologia complessa, con una economia arretrata, a ritmo lento e radicalmente "non cristiane"; il carattere antagonistico delle relazioni che si instaurano tra due società il quale si spiega grazie al ruolo di strumento cui è condannata la società dominata; la necessità, per mantenere il dominio, di ricorrere non solo alla "forza" ma anche ad un insieme di pseudo-giustificazioni e di comportamenti stereotipati» (Balandier 1971: 34-35). Dinamica interna e dinamica esterna Era questa situazione (coloniale) a segnare la vita delle società studiate dagli antropologi. Di conseguenza bisognava interrogare i fatti sociali, economici, religiosi ecc. in una prospettiva diversa da quella che aveva fatto di queste società delle società "prive di storia". Balandier svilupperà questa prospettiva nelle opere successive, particolarmente ne Le società conuinicanti (Sens et puissance) del 1971. Qui egli precisa che tutte le società, e specialmente quelle "tradizionali", sono sottoposte, nono' L'uso del termine "sociologia" al posto di etnologia o antropologia, va ricondotto alla tradizione francese che, risalendo a Durkheim e a Mauss ha preferito, in alcuni casi, definirsi "sociologica". Negli anni sessanta-settanta, molti etnologi e antropologi vicini alle nuove problematiche si dichiaravanosociologi piuttosto che etnologi e antropologi, in polemica con politiche di ricerca a loro giudizio troppo "compromesse" con una visione delle società "tradizionali" come società prive di storia, oltre che con l'amministrazione coloniale.
Prospettive «critiche» nell'antropologia francese
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stante il termine che le designa e che le farebbe ritenere "società statiche", a due tipi di dinamica: "interna" ed "esterna". Con le espressioni "dinamica interna" e "dinamica esterna" Balandier voleva indicare da un lato come ciascuna società sia un'entità capace di autotrasformarsi sulla spinta delle proprie contraddizioni interne, dei propri conflitti, interessi di parte e di gruppi gerarchizzati. Mentre, dall'altro, egli voleva sottolineare come qualunque società, e specialmente quelle tradizionali inglobate nella situazione coloniale, subisse la pressione di forze sociali "esterne" e come fosse quindi chiamata a rimodellare le proprie istituzioni, strutture e credenze sotto la spinta proveniente dal di fuori. Balandier non fu certamente l'unico studioso, né il primo, ad aver sottolineato la "novità" rappresentata dall'impatto della società occidentale su quelle "tradizionali". Tuttavia è indubbio che i riflessi del suo lavoro su un'intera generazione di antropologi francesi fu decisivo per orientare la ricerca secondo nuove prospettive.
Sincretismo e antropologia applicata: Roger Bastide Prima ancora di Balandier, l'etnologo Roger Bastide (18981974) aveva posto l'accento sulle dinamiche tipiche delle società coinvolte in fenomeni di forte e prolungato contatto culturale. Iniziata la propria carriera come professore di sociologia in'Brasile nel corso degli anni 1930, all'epoca in cui anche Lévi-Strauss insegnava all'Università di San Paolo e compiva ricerche tra gli indi dell'Amazzonia, Bastide prese contatto con le comunità afro-americane studiando l'intreccio tra la cultura bianca, india e africana. La doppia causalità Come Balandier, anche Bastide parla di una doppia "causalità", una "interna" ed una "esterna", da cui dipende la dinamica sociale. La causalità "esterna" però, non ha a che vedere soltanto con il contatto con una società o con una cultura dominanti. Causalità esterna è, per Bastide, anche la pressione che il passato di una società può esercitare sul presente di quest'ultima. La ricerca antropologica non dovrà quindi limitarsi alla considerazione del presente di una società, bensì volgersi allo studio della situazione globale. in cui confluiscono il passato, il presente e le aspettative del futuro: "i cambiamenti del presente – scrive Bastide – sono prefigurati nei cambiamenti del passato e preludono ai cambiamenti del futuro" (Bastide 1975: 54). Nevrosi culturale e sincretismo Studiando le comunità dei discendenti degli schiavi africani importati in Brasile nei secoli passati, e quindi situazioni di sradicamento culturale, Bastide inaugurò una "sociologia della malattia mentale" che poneva l'accento sulla situazione di "nevrosi culturale" vissuta dai membri di tali comunità. Questa "nevrosi" consiste in un attaccamento esasperato alla religione ancestrale (africana) come mezzo di risposta all'ostilità che circonda gli individui e come mezzo per conservare una propria identità. L'effetto di questa situazione. determinata da una idea del proprio passato (africano) e da una realtà del proprio presente (americano). porta ad una radicalizzazione della tradizione che
Roger Ba s tide (anni 1950)
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese
[T21.2]
contro delle religioni originarie dell'Africa con quelle del continente americano e con quella cristiana. Queste religioni sono religioni sincretiche che nascono, nonostante l'apparente chiusura verso l'esterno, dall'incorporazione di simboli, idee e credenze molto spesso estranee alla religione africana considerata tuttavia come "autentica". In un lavoro successivo, Memoria collettiva e sociologia del bricolage (1970), Bastide offrirà un'interpretazione. del "funzionamento" di queste religioni. Le religioni africane in Brasile sono praticate da gruppi costituiti da individui con origini africane spesso molto diverse. Poiché è il sistema delle relazioni degli individui organizzati in un gruppo che fonda la memoria collettiva (e non viceversa), lo sradicamento ha frammentato i gruppi originari, e quindi la loro memoria. Solo alcuni frammenti di essa sopravvivono, specialmente in campo religioso. II risultato è che i gruppi che si costituiscono nuovamente in base a circostanze contingenti e ad interessi concreti non hanno una memoria comune. Essi devono. quindi "fabbricarsela". Poiché provengono da culture diverse, essi devono "rimettere insieme" i vari frammenti di memoria e, laddove non abbiano a disposizione gli elementi per colmare i vuoti, "prendere" tali elementi da altre tradizioni, amerindiane o bianche, connettendoli a quelli che già possiedono e attribuendo loro un nuovo significato. «La società afro-americana - egli scrive - cerca allora a trovare altrove nuove immagini per colmare i vuoti nella trama dello scenario complessivo e conferire nuovamente a quest'ultimo quel significato che non emerge dalla somma dei semplici elementi, ma dal modo in cui sono organizzati» (Bastide 1970: 96).
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L'antropologia applicata L'immagine dinamica, sincretica delle culture afro-americane portò Bastide a riflettere sui processi di acculturazione. ossia di trasferimento di modelli culturali da società più forti a società più deboli (ma anche viceversa). Il tema dell'acculturazione si fuse ben presto con quello dell'antropologia applicata, un aspetto particolarmente delicato del --mestiere di antropologo - . L'antropologo, preso tra il distacco dello scienziato nei confronti delle popolazioni da lui studiate, e il coinvolgimento nella vita di queste ultime, cade spesso vittima dei "pianificatori" impersonati da agenzie governative e non, le quali sono interessate a operare nel campo dello "sviluppo". Bastide critica l'atteggiamento che porta gli antropologi a farsi interpreti degli interessi di quanti vorrebbero piegare i popoli a "piani di sviluppo" decisi da altri e che non rispettano la loro esistenza sociale e i loro valori culturali. Bastide critica però anche l'atteggiamento troppo distaccato con cui gli antropologi guardano talvolta a queste operazioni. Bastide propone allora di considerare l'antropologia applicata come una "nuova antropologia", qualcosa che vada da un lato «al di là della ricerca pura o fondamentale, nella quale predomina l'interesse scientifico, e, dall'altro della ricerca applicata, nella quale predomina l'interesse dell'utilizzatore, per l'istituzione di un rapporto di cooperazione tra le due, all'interno di una comune ricerca, operativa e orientata» (Bastide 1975: 167). In questa prospettiva l'antropologia applicata, scrive Bastide. «non è orientata verso l'azione e la pianificazione, bensì analizza l'azione e la pianificazine come la vecchia antropologia analizzava i sistemi di parentela, le istituzioni economiche e politiche e i processi spontanei di cambiamento, esattamente con gli stessi metodi e le stesse tecniche di approccio» (ibidem: 172).
Religioni afrobrasiliane
Prospettive «critiche» nell'antropologia francese I piani di sviluppo, i progetti di cooperazione. di cui si è sempre più parlato in Occidente negli anni successivi a quando Bastide ha scritto su questi argomenti, dovrebbero essere intesi nella prospettiva di una "antropologia applicata" che prenda tali piani e tali programmi ad oggetti di una analisi critica capace di tutelare gli interessi delle popolazioni coinvolte, capace cioè di comprenderne i valori, le rappresentazioni, i conflitti e le contraddizioni.
L'antropologia di ispirazione marxista Con le sue analisi contenute in Sociologia attuale dell'Africa nera (1955) Balandier aveva mostrato come le comunità tradizionali africane vivessero un processo di trasformazione dovuto in larga misura al rapporto di sottomissione nei confronti delle società colonizzatrici. Lo studio delle società dell'area coloniale indicava come queste si trasformassero, sotto la pressione del colonialismo, secondo una logica che non discendeva esclusivamente dall'azione esercitata su di esse dalla formazione sociale dominante, ma secondo regole che erano l'effetto della combinazione di questa azione con quella che era la logica specifica di funzionamento delle società tradizionali.' Fu nell'ambito degli studi di africanistica, i quali in Francia già godevano di una solida' tradizione, che si sviluppò una la corrente marxista in antropologia. Molti degli allievi di Balandier che utilizzavano gli strumenti analitici del pensiero di Marx erano africanisti. Ma non fu solo per motivi di "genealogia" che l'antropologia marxista si indirizzò prevalentemente verso l'Africa. Infatti la realtà socioculturale africana mostrava di possedere uno "spessore storico" particolarmente adatto a stimolare analisi in questa prospettiva. Il clima culturale L'indirizzo marxista in antropologia non emerse solo dall'antropologia dinamista di Balandier, ma anche dalle suggestioni esercitate dalle analisi di Karl Polanyi sui sistemi economici e dalla critica alle dottrine ortodosse del comunismo sovietico in materia di teoria della storia. Il comunismo sovietico, interessato a propagare una visione della storia come processo evolutivo lineare sfociante necessariamente nell'instaurazione di una società socialista, riduceva le formazioni sociali studiate dagli antropologi a semplici "rappresentanti" di fasi arcaiche dello sviluppo storico. E in base a questa visione della storia che le idee di Marx erano state integrate, in Unione Sovietica, da quelle di Morgan esposte ne La società antica del 1877.Tale "integrazione", avvenuta da parte dell'Accademia delle Scienze di Mosca negli anni 1930, era legittimata dal fatto che Marx, ma soprattutto Engels, avevano giudicato le teorie di Morgan conformi alle loro vedute circa l'evoluzione della società. Engels, ne L'Origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1896) aveva divulgato l'opera di Morgan negli ambienti socialisti presentandola in pratica come "la parte antropologica" della visione marxista della storia. I1 punto di partenza: la teoria dei modi di produzione La stessa filosofia marxista francese degli anni 1950, spesso in aperto contrasto con l'ortodossia sovietica, fornì d'altronde gli spunti teorici che dovevano condurre ad una nuova lettura delle teorie di Marx sulla esistenza storica dei "modi di produzione". Nella elaborazione teorica più matura di Marx, cioè ne II Capitale (1867-94), un "modo di produzione" risulta essere una forma storica di
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese esistenza sociale (come per esempio il feudalesimo o il capitalismo) determinata in primo luogo dalla combinazione di tre fattori principali: i mezzi di produzione, la manodopera e i rapporti di produzione, essendo questi ultimi la relazione sociale che determina la connessione tra mezzi di produzione e manodopera. I mezzi di produzione sono le risorse e la tecnologia di cui una società dispone in un momento dato della sua storia; la manodopera è l'energia umana impiegata nel processo produttivo. Se cambia la relazione sociale (cioè i rapporti di produzione) tra mezzi di produzione e manodopera, cambia anche il modo di produzione. A seconda cioè di come mezzi di produzione e manodopera entrano in rapporto (socialmente) si ha la presenza di un modo di produzione piuttosto che di un altro'-. Le riletture delle teorie di Marx condotte negli anni 1960 dai filosofi francesi (Althusser e Balibar 1968), ritenevano che oltre che per la combinazione di questi fattori, un modo di produzione si distinguesse da altri per il ruolo svolto dall'ideologia (valori, rappresentazioni del mondo, dell'autorità politica e religiosa ecc.) a sostegno dei rapporti sociali dominanti. Nascevano allora nuove domande: quali sono i rapporti di produzione nelle società studiate dagli antropologi? Sul controllo di che cosa (mezzi di produzione? manodopera? religione?) si costituiscono, presso queste società, il controllo sociale e il potere? E inoltre: come si sono trasformati, e come si trasformano tali rapporti di produzione a contatto con società nelle quali predominano altri tipi di rapporti di produzione? Qual è, infine, il destino dei rapporti di produzione tipici delle società "tradizionali" quando queste entrano in contatto con il capitalismo portato dalla colonizzazione? Queste erano domande a cui il pensiero marxista ortodosso, promosso dalla propaganda sovietica, non poteva dare risposta, a meno di non ripresentare la teoria di uno sviluppo ineluttabile della società verso una forma finale di comunismo.
Dal modo di produzione lignatico a quello domestico: Claude Meillassoux Una delle prime ricerche etnografiche — forse la prima in assoluto — compiute nella prospettiva di un marxismo "critico" fu condotta da Claude Meillassoux (1925-) in Costa d'Avorio tra il 1958 e il 1959. Tale ricerca venne pubblicata nel 1964 in un libro, Anthropologie économique des Gouro de la Gite Tarriale G ouro 1 T i )' d'Ivoire, che molti considerano ormai un'opera chiave delàa„a^ GhatZn l'antropologia della seconda metà del Novecento. COSTA D'AWORI Kumasi Meillassoux, allievo di Balandier ma economista di formad zione, definì lignatico il modo di produzione dominante presso i Gouro e altre società vicine. Infatti esso si fonda sulla presenza dei lignaggi al cui interno gli individui sono disposti in una successione generazionale per via della discendenza maschile o femminile. I rapporti di produzione sono infatti modellati sulla dipendenza dei "giovani" (cadets) dagli "anziani" (ainés), gestori delle risorse materiali e degli scambi matrimoniali, entrambi fattori vitali per la sopravvivenza della comunità. Qui le nozioni di giovane e uzgaaaugou '. URKINA F ASO^\
Monrovia JBERIA
Gouro
' Nella società capitalista. conte è noto. i rapporti di produzione dominanti (cioè la relazione sociale che connette mezzi di produzione e manodopera) si riflettono nel lavora salariato, con coloro che acquistano la manodopera (i capitalisti) e coloro che la vendono (i lavoratori). Con il capitalismo la manodopera diventa forza-lavoro. una merce sottoposta alle leggi del mercato che ne regola l'applicazione ai mezzi di produzione. Ma non è sempre stato così e. conclude Marx. un giorno potrebbe non essere più cosi.
Prospettive «critiche» nell'antropologia francese di anziano si riferiscono a "età sociali", senza riferimento stretto all'età biologica degli individui. Tali nozioni designano infatti la posizione che un individuo ha nella scala della successione generazionale (lignatica), e non una "giovinezza" o una "anzianità" assoluta. I "giovani" (cadets) sono in primo luogo i figli di un individuo ("anziano"), poi i suoi fratelli minori, i suoi cugini minori ecc. In queste società il legame di parentela può essere reale oppure fittizio, in quest'ultimo caso conseguenza di una adozione. I Gouro studiati da Meillassoux erano una società dell'Africa occidentale ex-francese (Costa d'Avorio) passata da una economia "di sussistenza" ad una economia di piantagione con l'arrivo del colonialismo. La loro produzione si era dovuta adeguare alle necessità imposte dall'economia di piantagione, poiché le comunità presso cui essa era in vigore erano entrate in contatto con un modo di produzione diverso, quello capitalista portato dai colonizzatori europei. Infatti il modo di produzione lignatico non scompariva, ma coesisteva accanto a quello capitalista. Il modo di produzione domestico Per studiare le ragioni di questa coesistenza Meillassoux avviò una riflessione che trova una forma compiuta in Donne, granai e capitali (Femmes, greniers & capitaux) del 1975. Quest'opera è un tentativo di delineare le caratteristiche fondamentali di ciò che Meillassoux chiama modo di produzione domestico, il quale sarebbe antecedente a quello lignatico nel senso che costituirebbe la base di quest'ultimo. Il modo di produzione domestico corrisponde infatti all'esistenza della comunità domestica, caratteristica di tutte le società agricole africane (e più in generale di tutte le società "tradizionali") precoloniali. La comunità domestica si caratterizza per una serie di caratteristiche: 1. una produttività sufficientemente elevata da permettere il mantenimento di una popolazione necessaria a fornire la manodopera per la ripetizione del ciclo di lavoro agricolo; 2. l'utilizzazione della terra come mezzo di lavoro, cioè resa produttiva a scadenze differite nel tempo e non immediatamente (come è invece il caso dei cacciatori-raccoglitori); 3. l'impiego dell'energia umana come fonte di energia principale per ogni tipo di attività; 4. l'uso individuale di mezzi di produzione agricoli fabbricabili individualmente. La produzione dei produttori e il destino della comunità domestica Secondo Meillassoux la forma sociale corrispondente al modo di produzione domestico — cioè la comunità domestica — è stata «funzionalmente incorporata» dai modi di produzione che l'hanno successivamente dominata nel corso della storia (compreso il modo di produzione lignatico). Ciò che questi modi di produzione hanno trovato, e conservato, della comunità domestica, è la sua capacità di svolgere la fondamentale funzione di luogo di riproduzione della manodopera. Meil-
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Claude Meillassoux a una manifestazione di solidarietà con gli immigrati (1996)
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese
lassoux prende spunto da un'osservazione di Engels, a suo giudizio misconosciuta, contenuta ne L'origine della famiglia, della proprietà privata e dello Stato (1884) secondo cui «il momento determinante della storia, in ultima istanza, è la produzione e la riproduzione della vita immediata... [la quale] è di duplice specie. Da un lato la produzione di mezzi di sussistenza... dall'altro la riproduzione degli uomini stessi» (Engels 1970: 33). Meillassoux pone così al centro della propria analisi la comunità domestica, al cui interno avviene la riproduzione della manodopera destinata, con l'affermarsi del modo di produzione capitalistico, a trasformarsi in forza lavoro. Al momento dell'impatto coloniale il modo di produzione «lignatico», che caratterizzava le comunità agricole africane, e che incorpora il modo di produzione domestico fondato sulla comunità domestica, non si presentava già più come "puro", bensì come già articolato con altri modi di produzione. Il modo di produzione lignatico rappresenta per Meillassoux una evoluzione storica del modo di produzione domestico. Quest'ultimo si presenta infatti come fondato su un processo di produzione e riproduzione schematizzabile in questo modo. Nella comunità domestica non esiste alcun vero controllo sui mezzi di produzione. In casi come quello delle comunità agricole africane dove terra e strumenti di lavoro sono accessibili a tutti, il controllo tende a fondarsi su quelli che sono i mezzi della riproduzione fisica: le sementi per poter iniziare i nuovi cicli produttivi agricoli, ma anche, e soprattutto, le donne, le «produttrici di produttori», cioè di esseri umani la cui energia lavorativa potrà essere investita nella terra rendendola produttiva. [T21.4] È così che i "giovani", una volta prestato il loro lavoro al servizio degli "anziani" per un periodo di tempo più o meno lungo, riceveranno a loro volta una moglie che li metterà in grado di avere una prole del cui lavoro potranno un giorno beneficiare a loro volta. L'avvicendamento delle generazioni nel ruolo di cadetti e di anziani conferisce infatti a chiunque la possibilità di beneficiare, una volta raggiunta l'anzianità sociale, del lavoro di chi viene dopo di lui. La peculiarità di questo tipo di società coincide infatti con la possibilità che tutti gli uomini hanno, nel corso della loro vita, di accedere ai mezzi della riproduzione sociale, e cioè ai beni di sussistenza e alle donne. Ciclo produttivo e ciclo riproduttivo vengono così ad essere strettamente connessi, dal momento che non è possibile, per un individuo pre-produttivo (cioè troppo giovane), acquisire i mezzi della propria riproduzione sociale, e cioè una moglie. Questa gli verrà data più tardi quando, dopo aver prodotto per l'anziano, la necessità della riproduzione sociale impone a quest'ultimo di concedere ai "giovani" la possibilità di crearsi a loro volta una discendenza, e quindi una dipendenza. Quando infine la sua prole sarà entrata a sua volta nel periodo produttivo, l'ex giovane potrà entrare nell'età post-produttiva assumendo a sua volta tutte le prerogative sociali dell'anziano. L'analisi di Meillassoux si pone dunque principalmente nella prospettiva della riproduzione in quanto, nelle società caratterizzate da un basso sviluppo delle forze produttive, il controllo e la gestione della «politica» comunitaria nel suo complesso non dipendono tanto dal tipo di gestione dei mezzi di produzione, [T21.51 quanto piuttosto dal controllo sulla «riproduzione dei produttori». Il destino della comunità domestica Nei suoi lavori Meillassoux ha messo in risalto la dimensione contraddittoria del contatto tra modi di produzione differenti e, seguendo Marx nella sua concezione della storia come processo contraddittorio, ha analizzato le modalità di articolazione del modo di produzione domestico con gli altri che lo assumono sotto di sé, in primo luogo quello lignatico. Ciò ha posto in evidenza quelle trasforma-
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zioni suscettibili di alterare in maniera decisiva la logica del modo di produzione domestico e di far emergere "categorie" di sfruttatori e sfruttati all'interno di un sistema altrimenti fondamentalmente egualitario. Attraverso lo studio delle società africane tradizionali Meillassoux ha messo in rilievo come le comunità domestiche, fulcro produttivo e riproduttivo di tutte le comunità agricole subsahariane, siano state inglobate da modi di produzione diversi da quello domestico. Il sistema lignatico, presente già nell'epoca precoloniale, si instaura quando, in determinate circostanze, gli "anziani" giungono a formare una categoria in grado di sfruttare i "giovani", ad esempio "affittandoli" ad altri anziani. Ma il modo di produzione lignatico, in certe circostanze, è andato ben oltre, come quando, all'epoca della tratta degli schiavi, gli "anziani" potevano arrivare a vendere i "giovani" ai trafficanti europei e musulmani. È in base a queste premesse che Meillassoux ha potuto esaminare il regime schiavistico caratteristico dell'Africa precoloniale e coloniale (Meillassoux 1990).11 processo di inglobamento della comunità domestica in modi di produzione capaci di trarre da essa la manodopera necessaria al proprio funzionamento, culmina con la distruzione della comunità domestica stessa da parte del capitalismo. Il sistema capistalistico, sebbene interessato alla conservazione della comunità domestica in quanto luogo della riproduzione della forza-lavoro a basso costo nei paesi del Sud del mondo, mina le basi dell'esistenza stessa di tale comunità, trasformando la propria dominazione là uno sfruttamento esercitato sui singoli individui anziché sull'intera comunità, e quindi dissolvendo i rapporti tradizionali all'interno di quest'ultima.
[[21.6]
Infrastruttura e sovrastruttura: Maurice Godelier L'antropologia marxista si è dimostrata critica nei confronti della tradizione disciplinare. Non sorprende se, oltre a criticare la prospettiva funzionalista per gli effetti "ideologici" contenuti nell'immagine della realtà sociale come costituente un tutto integrato e stabile, essa sia intervenuta nel merito di una delle problematiche più discusse dagli antropologi: quella relativa ruolo preminente esercitato dalla parentela nelle società "primitive", "arcaiche" e "tradizionali". II «dominio» esercitato dalla parentela in queste società poneva in effetti all'antropologia marxista il problema di come conciliare tale dominio con l'idea di una storia determinata dalle condizioni materiali di esistenza, un'idea più volte espressa dallo stesso Marx. L'antropologo che per primo ha affrontato questo tema in maniera critica è Maurice Godelier (1930-). Allievo di Lévi-Strauss, e specialista dell'Oceania (Nuova Guinea) al contrario della maggior parte dei suoi colleghi marxisti, Godelier si pose il problema di "conciliare" economia e parentela sotto forma di un riesame del rapporto infrastruttura-sovrastruttura. Tale rapporto era infatti concepito prevalentemente dai marxisti come un rapporto di determinazione più o meno diretta delle condizioni materiali e sociali di esistenza (infrastruttura) nei confronti della sfera rappresentazionale o ideologica (sovrastruttura). La funzione della parentela Nelle società "primitive" è in effetti «impossibile "isolare" dei rapporti di produzione autonomi e specifici [se non] nel funzionamento stesso dei rapporti di parentela». I rapporti di parentela, aggiunge Godelier, «funzionano come rapporti di produzione, rapporti politici, schema ideologico... la parentela è al tempo stesso infrastruttura e sovrastruttura» (Godelier I977a: 220). È in ragione del fatto che funzionano conte rapporti di produzione che le rela- zioni di parentela fungono da regolatrici dei rapporti nella sfera politica e religio-
[T21.7]
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese sa (Godelier 1977b). In questo modo era salva l'idea marxista che individuava nell'infrastruttura, cioè nei rapporti di produzione, la determinante dell'organizzazione sociale. Restava però, anche in questo caso, aperto il problema di sapere perché i rapporti di parentela dovrebbero funzionare come rapporti di produzione. Godelier esprime qui una prospettiva diversa da quella di Meillassoux. Quest'ultimo aveva infatti insistito sul fatto che nelle società caratterizzate dal modo di produzione domestico i rapporti di parentela sembrano essere il dato primario (biologico) del suo funzionamento. Questo dato primario costituisce poi il modello per la creazione della parentela "sociale", ossia quella che "classifica" gli individui in determinate categorie parentali ma che non sono necessariamente "parenti" tra loro in senso biologico. E per tale motivo, sostiene Meillassoux, che nella maggior parte delle società esistite tra il neolitico e l'età industriale la parentela ha svolto un ruolo "dominante" sul piano sociale e ideologico. Per Godelier invece, non si tratta di ridurre l'universo della parentela ad un "livello base", biologico, ma di considerarlo come un campo autonomo di rappresentazioni, rispondente a "leggi" sue proprie, come aveva cercato di dimostrare Lévi-Strauss. Il ruolo infrastrutturale della religione
[T21.8]
La prospettiva di Godelier ha avuto il merito di porre in termini nuovi – almeno in ambito antropologico – il "problema" marxista del rapporto tra infrastruttura e sovrastruttura, cioè tra il piano dell'esistenza materiale e quello dell'ideologia. Ciò appare in maniera più chiara nella definizione del ruolo sostenuto dalla religione nel processo di riproduzione delle formazioni sociali "arcaiche". La religione è considerata come una sovrastruttura, il luogo per eccellenza – scrive Godelier – delle «rappresentazioni fantasmatiche». Tuttavia, egli sostiene, sarebbe errato credere che tali rappresentazioni non abbiano alcun ruolo nella costituzione dei rapporti di produzione. Fondandosi sull'opera di Karl Polanyi (v. Cap. 17), e su quella dell'americanista John Murra (Murra 1956), Godelier ha cercato di rendere conto del ruolo svolto dalla religione nell'economia dell'impero inka precolombiano. Poiché gran parte dell'eccedente della produzione agricola e artigianale destinata allo stato veniva incamerato dai templi sotto forma di tributi dovuti al dio solare, la divinità suprema degli inka, la religione costituiva la principale struttura dei rapporti di produzione che legavano le comunità contadine con l'organizzazione statuale e con la classe dominante (Godelier 19776). La religione, quindi, considerata la sovrastruttura per eccellenza dalla tradizione marxista ortodossa, può rivestire, a giudizio di Godelier, un carattere infrastrutturale. Il tentativo di impostare su basi nuove il rapporto infrastruttura-struttura si traduce così, nel caso di Godelier, anche in quello di conferire alla sfera delle rappresentazioni simboliche piena autonomia nei confronti dell'infrastruttura e delle basi materiali d'esistenza. Ciò facendo Godelier ha aperto una prospettiva interessante per capire le trasformazioni del mondo attuale, in quanto ha messo l'accento sul fatto che se l'apparato rappresentazionale di una certa società cambia sotto la spinta di fattori materiali, questo cambiamento avverrà soprattutto secondo una logica determinata dall'apparato rappresentazionale preesistente, e non in virtù di una causalità lineare tra mutate condizioni materiali e sfera del simbolico (Godelier 1976).
L'eredità dell'antropologia marxista Ponendo al centro della propria analisi l'articolazione dei modi di produzione
Prospettive «critiche» nell'antropologia francese nel contesto della situazione coloniale e postcoloniale, l'antropologia di ispirazione marxista ha dato un contributo notevole allo studio delle comunità attratte nell'orbita del mercato globale. Alcuni studi antropologici o economici condotti in precedenza sulle comunità contadine del Terzo Mondo non avevano mai prodotto analisi del modo in cui questi diversi tipi di formazione sociale fossero in grado di entrare in un contatto di tipo "organico" con il modo di produzione capitalistico. Gli studi dell'antropologo americano Robert Redfield sulla «comunità folk», e quelli degli economisti Maurice Dobb e André Gunder Frank sul capitalismo centrale e periferico rispettivamente sono tutti, da questo punto di vista, abbastanza esemplari. Nel caso di Redfield, ad esempio, l'impossibilità di collegare teoricamente le società contadine al contesto più ampio nelle quali esse sono inserite, portò alla creazione di una categoria speciale per queste stesse comunità, che venivano appunto chiamate «folk» per distinguerle dalle società «tribali» da un lato e da quelle «statuali» dall'altro (Red fi eld 1976). Nel caso degli studi economici di Dobb e di Gunder Frank invece, l'analisi del processo di estrazione e di trasferimento della ricchezza dalla periferia del sistema verso il centro capitalista non teneva conto della natura delle stesse società periferiche da cui tale ricchezza proveniva. L'antropologia marxista ha adottato invece una prospettiva che ha consentito di "colmare il vuoto" tra centro e periferia. È però innegabile che nel corso degli anni 1980 essa abbia conosciuto un forte declino. Come la sua emersione e il suo sviluppo avevano tratto origine da una complessa congiuntura culturale e politica, il declino di essa va attribuito a quello più generale del marxismo come ideologia, oltre che al crollo di quei sistemi politici che ponevano una particolare interpretazione di tale ideologia a proprio fondamento, anche se l'antropologia marxista non è mai stata benevola – semmai il contrario – con i regimi burocratici e totalitari dell'est europeo. Forse, bisogna aggiungere, il declino di questa corrente antropologica è da ascriversi anche alla "cattiva coscienza" di una società che ha voluto «rimuovere», con il totalitarismo, anche Marx e la realtà di uno sfruttamento del centro sulla periferia. Se la prospettiva marxista non è più manifesta, in antropologia, come lo è stata negli anni 1960 e 1970, è anche perché l'antropologia ha conosciuto, da allora, altre vie di lettura della cultura e della società. Tuttavia l'impostazione data dall'antropologia marxista, come del resto da quella dinamista a cui è strettamente correlata, alla interpretazione delle dinamiche sociali e culturali del mondo attuale è ancora presente in molti studi, tanto etnografici quanto teorici. Gli studi condotti sulle comunità delle "periferie" del mondo, su come le loro economie si intersecano con quella dominante; nonché sul modo in cui le comunità della periferia che sono interessate da tali fenomeni si rappresentano ed elaborano simbolicamente questi ultimi, sono stati fortemente influenzati dall'antropologia marxista. È in questo senso che, come è stato detto, l'antropologia marxista potrà essere ricompresa in analisi capaci di "pensare senza rotture rapporti di senso e rapporti di forza, simboli e ideologie, dominazione e determinazione" (Augé 1982:98). L'antropologia marxista ha certamente sofferto del discredito che ha investito la pedissequa, monotona e burocratica ripetizione delle tesi di Marx, nonché la loro estensione indebita a realtà diverse da quella occidentale. Marx aveva concentrato la propria analisi sull'Occidente e sulla sua storia; l'antropologia marxista ha guardato fuori dall'Occidente e ha rifiutato, nella prospettiva propria della tradizione antropologica, una applicazione dogmatica di interpretazioni precostituite a realtà sociali storicamente e culturalmente diverse da quella occidentale. In quei paesi dove più gli antropologi hanno lavorato e lavorano, permangono delle realtà sociali che tendono ad essere influenzate dal sistema mon-
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Prospettive «critiche» nell'antropologia francese diale delle merci e dello «scambio ineguale» tra centro e periferia. Anche se i rapporti tra questi due "poli" del "sistema mondo" necessitano oggi di analisi culturali che l'antropologia marxista non è stata in grado a suo tempo di elaborare, essa ha dato un contributo alla analisi della contemporaneità che, se ignorato, ci renderà più difficile, e parziale, la comprensione del mondo attuale.
La tendenza «primitivista» Sulla spinta di ragioni solo parzialmente analoghe a quelle che determinarono l'emergenza di una antropologia marxista nel corso degli anni 1960, nella Francia di quel periodo prese vigore ciò che potremmo definire una "rinascita dell'ideologia primitivistica". Quest'ultima si inscriveva nell'insorgenza di un più ampio movimento intellettuale, particolarmente diffuso tra gli antropologi, che mirava alla denuncia dello sterminio degli indiani sudamericani perpetrato all'insegna dello sfruttamento della foresta amazzonica, e di cui i governi della regione portavano gravissime responsabilità. Si riconosceva il furore distruttivo della civiltà dei bianchi – «la pace bianca», come si diceva con un'espressione allora di moda – oppure, come lo stesso Lévi-Strauss ebbe a scrivere in una solenne e vibrante lettera di protesta, del «turbine della civiltà delle macchine» (LéviStrauss 1971: 237). Il tema dell'etnocidio Accanto a questo atteggiamento di indignazione e di protesta nei confronti della politica di stermino assunse consistenza uno stile argomentativo che tendeva a spostare sulla figura dell'indio un discorso critico nei confronti della civiltà occidentale. Il termine etnocidio, con il quale si iniziò allora ad indicare la distruzione di una cultura più debole da parte di un'altra più forte ed aggressiva, divenne centrale nel discorso etnografico che, partendo da un atteggiamento di denuncia, si fece promotore di un rilancio, stavolta in sede antropologica, e non più filosofica, del mito settecentesco del buon selvaggio. Mentre l'antropologia marxista cercava di spiegare i meccanismi più reconditi del sistema dello scambio ineguale tra i paesi industrializzati e paesi sottosviluppati, gli antropologi dell'etnocidio si interrogavano sulla natura delle società primitive, considerate come antitetiche a quella occidentale. Sviluppato da antropologi americanisti, il tema dell'etnocidio radicalizzava un elemento tipico della riflessione di Lévi-Strauss, il quale è presente nell'intera sua opera ma che emerge con particolare forza in Tristi tropici: si tratta della distinzione tra società «fredde» e società «calde», tra società più vicine allo «stato di natura» e società che da questo si sono allontanate. Si tratta, in breve, della antica contrapposizione selvaggio-civilizzato che in Lévi-Strauss si colora del sentimento della perdita di un passato nel quale gli uomini avevano realizzato un'armoniosa convivenza con le altre forme naturali e in cui, forse, essi erano "meno infelici". Questi temi lévi-straussiani, temi filosofici, poetici, estetici, affettivi, espressi con grande intensità in Tristi tropici, assumono una centralità assoluta nel discorso degli eredi più diretti dell'antropologo strutturalista. Non va infatti dimenticato che gran parte di coloro che scelsero in quegli anni il "primitivo" come referente del proprio discorso critico erano stati allievi di LéviStrauss e quasi tutti filosofi di formazione. Lo strutturalismo di Lévi-Strauss costituisce una costruzione di notevole sofisticazione teorica, ma la congiuntura culturale e politica nella quale esso raggiunse il massimo grado di sistematizzazione non lo fece assurgere a paradigma da tutti condiviso. Furono pochi gli allievi che proseguirono sulla strada indicata
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dal maestro, conferendo un carattere prevalentemente "formale" ai loro studi sulla parentela e sul mito. Altri si volsero al marxismo cercando di conciliare le preoccupazioni teoriche caratteristiche di quest'ultimo con le suggestioni dello strutturalismo. Altri, infine, svilupparono i temi del "primitivo", delle società "fredde", della "perdita", all'interno di un più vasto discorso sull'etnocidio e sulla logica distruttiva della civiltà occidentale contrapposta a quella "armonica","tollerante", "mite" delle culture indie. La società contro lo Stato: Pierre Clastres L'antropologo che forse meglio di ogni altro ha interpretato questa tendenza è Pierre Clastres (1934-1977) il quale, ne La società contro lo Stato del 1974, sviluppò il tema del primitivismo incentrandolo su una analisi della natura del potere nelle società amazzoniche. Significative sono le tesi di Clastres relative alla funzione del capo e quelle riguardanti la «filosofia politica» delle comunità indie, idee elaborate a partire dalla sua esperienza di ricerca tra i Guayaki del Paraguay orientale. Presso le società amazzoniche il capo è designato sulla base dei meriti che egli acquisisce comportandosi generosamente (donando i suoi beni) e saggiamente (parlando con senno) nei confronti del gruppo. In cambio ottiene il privilegio di praticare la poliginia, ma nulla di più, nel senso che il suo potere non può esercitarsi in forma coercitiva. Questa impossibilità, da parte del capo, di esercitare un potere simile a quello al quale noi siamo abituati, sarebbe l'effetto di un meccanismo per mezzo del quale il gruppo stesso nega il capo come personaggio la cui autorevolezza oltrepassa la semplice funzione di moderatore e di consigliere. Tale meccanismo consiste proprio nel concedere al capo il privilegio esclusivo della poliginia. Alterando la regolare «circolazione delle donne» a favore del capo (egli non potrà mai renderne in numero pari a quello che riceve), lo si pone automaticamente fuori della sfera della cultura, il cui fondamento consiste proprio – qui Clastres riprende la tesi di Lévi-Strauss – nello «scambio delle donne», ossia nell'esogamia. Il potere, sostiene Clastres, è coercizione, negazione della cultura, riemergenza della natura. Le società primitive lo hanno capito ed hanno risolto il problema combattendolo con le armi della natura stessa: interrompendo lo scambio che fonda la cultura (beni e parole a vantaggio esclusivo del gruppo; donne a vantaggio esclusivo del capo), lo hanno estromesso dalla cultura stessa. Relegandolo nella natura. hanno negato al potere ogni diritto di cittadinanza. Clastres nega che le società "primitive" siano società prive della dimensione politica. Per Clastres ciò che caratterizza il «politico» presso queste società è l'assenza di uno Stato. Questa mancanza non è un difetto, bensì un pregio, nel senso che l'inesistenza di un apparato repressivo è condizione della libertà dell'individuo e della sua non-alienazione economica. L'idea di Clastres è che lo sfruttamento economico è conseguenza della sottomissione ad un potere: l'alienazione economica è conseguenza dell'alienazione politica. Che bisogno avrebbero i primitivi di lavorare più del necessario? Poiché non c'è nessuno che li costringe a farlo – non esiste cioè uno Stato – essi si accontentano di lavorare quel tanto che basta per soddisfare i propri bisogni primari. Lungi dall'essere delle società senza economia o delle società viventi al limite dell'indigenza, le società primitive sono invece società d'abbondanza, perché basta lavorare poco per vivere; sono società del tempo libero perché una volta soddisfatti i bisogni vitali, il resto del tempo è dedicato ad attività diverse da quelle produttive. Le società primitive alle quali Clastres attribuisce quella "razionalità sociologica" che man-
Guayaki
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ca invece all'Occidente, sarebbero perfettamente consapevoli del fatto che la presenza di uno Stato metterebbe fine alla loro situazione idilliaca. Da sempre esse hanno lottato (si veda il destino dei capi) contro la nascita dello Stato. La critica all'antropologia marxista e la destoricizzazione del «primitivo»
Questa particolare immagine delle società indie doveva portare ad una profonda frattura tra "primitivisti" e marxisti, questi ultimi accusati dallo stesso Clastres di essere dei «burocrati delle scienze umane». Per Clastres, come per altri antropologi schierati sulle sue posizioni, i marxisti giungono «alla soppressione pura e semplice della società primitiva, come società specifica, come essere sociale indipendente» (Clastres 1979: 109). Come si è visto, infatti, la società «primitiva» sarebbe in possesso di una propria identità fondata sulla consapevolezza che uno Stato metterebbe fine alla sua esistenza. Perché, si chiede allora Clastres, tentare di inserire la società primitiva all'interno di un discorso come quello marxista che vuole ricostruire la logica di funzionamento delle formazioni sociali analizzando i processi produttivi generatori della disuguaglianza sociale? Non solo le società primitive sono al di fuori di questa logica; anche la stessa storia dei rapporti tra economia e politica è il risultato di un processo contrario a quello immaginato dai marxisti: «come non si può pensare la società indivisa, senza l'assenza dello Stato, ugualmente non si può pensare la società divisa senza la presenza dello Stato. E riflettere sull'origine dell'ineguaglianza, della divisione sociale, delle classi. della dominazione, significa riflettere nel campo della politica, del potere, dello Stato e non nel campo dell'economia, della produzione ecc. L'economia si genera a partire dal politico, i rapporti di produzione derivano dai rapporti di potere, lo Stato genera le classi» (Clastres 1979: 107). In questo rovesciamento della prospettiva da cui partivano gli antropologi marxisti si può vedere un'eco lontana, ma estremizzata, delle tesi di LéviStrauss. Tale prospettiva riflette una ribellione nei confronti dell'etnocidio, del totalitarismo statuale e dello strapotere del mercato; essa assimila l'antropologia marxista alle dottrine statalistiche del comunismo sovietico, ritenuto responsabile, al pari del capitalismo, della uniformizzazione planetaria delle culture. Essa assume tuttavia i toni di una polemica ideologica difficilmente sostenibile attraverso i dati dell'etnografia. Le società indie, quelle che secondo tale prospettiva incarnerebbero la "primitività". conoscono infatti anch'esse forme di controllo, di coercizione e di violenza che mal si accordano con quel modello di saggezza politica e di armoniosa convivenza con altre forme di vita sociale umana presentatoci dagli eredi "radicali" di Lévi-Strauss. Nei lavori di questi ultimi il "primitivo" torna infatti ad essere quel personaggio fuori dal tempo e dalla storia contro cui si erano espresse tutte le altre tendenze critiche dell'antropologia moderna. Bibliografia critica
Amselle J.-L. (a cura), Le sausage ti la mode, Le Sycomore, Parigi 1978. Bloch M., Marxism and Anthropology. The History of a Relationship, Clarendon Press, Oxford 1983. Chiozzi P, La socioetnologia francese, 2 voll., La Nuova Italia, Firenze 1974. Gellner E. (a cura), Soviet and Western Anthropology, Columbia University Press, 1980. Nannini S., «Materialismo storico_e antropologia in Meillassoux, Godelier, e la scuola di Althusser» , in Annali dell'Istituto di Filosofia, III. Olschki, Firenze 1981. Semenov I., «The Doctrine of Morgan, Marxism and Contemporary Ethnograph y», in Soviet Antropology and Archaeology, IV, 2, 1965. Sofri G., Il modo di produzione asiatico. Storia di tuta controversia marxista, Einaudi, Torino 1969. Terray E., Il marxismo e le società primitive, Samonà e Savelli. Roma 1969.
22 Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità
A partire dagli anni '70, l'antropologia ha attraversato quella che è stata chiamata una "crisi della rappresentazione etnografica" (Marcus e Fischer 1986). Tale crisi ha riguardato il modo in cui l'antropologia aveva potuto sino ad allora "parlare degli altri" senza porsi troppe preoccupazioni circa il modo in cui questi "altri" potevano essere legittimamente rappresentati all'interno di un testo etnografico. Le prospettive critiche avutesi in seno all'antropologia francese, nonché certi sviluppi del funzionalismo britannico, portarono, come in effetti abbiamo potuto constatare, ad un modo nuovo di considerare gli oggetti dell'antropologia. Le dimensioni del conflitto, del mutamento, dello sradicamento e dello sfruttamento cominciarono a sostituire quelle dell'equilibrio, della funzionalità e della coerenza culturale. Erano questi i segni non solo del fatto che molti antropologi cominciavano a porsi domande diverse rispetto al passato, ma anche che il mondo delle culture non poteva più essere rappresentato come una volta. Con le espressioni "antropologia interpretativa" e "antropologia della contemporaneità" indichiamo qui due prospettive emerse a partire proprio da queste premesse.
Antropologia interpretativa Per "antropologia interpretativa" si intende una prospettiva di ricerca e di analisi affermatasi in America a partire dalla fine degli anni 1960, ma che ha le proprie radici soprattutto nella filosofia e nelle scienze umane così come queste di sono sviluppate in Europa nel secondo dopoguerra. L'antropologia interpretativa "nasce" nel 1973 con la pubblicazione di Interpretazione di culture (The Interpretation of Cultures) di Clifford Geertz. Sebbene da allora in poi si sia configurata come una tendenza riconoscibile all'interno dell'antropologia, la prospettiva interpretativa è tuttavia parte, come del resto alcuni indirizzi dell'etnoscienza, di una corrente più generale di studi nota come "antropologia simbolica". Nelle parole di David M. Schneider, che è stato uno dei più autorevoli esponenti della corrente "etnoscientifica" dell'antropologia simbOlica, «l'oggetto di una teoria della cultura è di contribuire ad una comprensione dell'azione sociale, dal momento che la cultura, che io definisco come un sistema di simboli e di significati, ha un ruolo nel determinare tale azione» (Schneider 1976: 197).
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Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità La matrice filosofica e antropologica Nell'antropologia simbolica, e in particolare nella sua variante interpretativa, confluiscono stili filosofici e intellettuali in senso lato come la fenomenologia, lo strutturalismo, la sociologia di Max Weber, la linguistica, la semiotica, la teoria critica della scuola di Francoforte e l'ermeneutica. Al tempo stesso però l'antropologia interpretativa è anche debitrice dell'impostazione particolarista sviluppatasi in America agli inizi del Novecento sotto l'influenza di Boas (v. Cap. 4). Sarebbe esagerato dire che l'antropologia simbolica nella sua variante interpretativa è l'erede più diretta della prospettiva idiografica maturata all'interno dello storicismo tedesco della seconda metà dell'Ottocento e importata negli Stati Uniti da Boas. Tuttavia, se assumiamo la tendenza generalizzante da un lato, e quella particolarizzante dall'altro, come i due poli dialettici dello sviluppo disciplinare, è decisamente il secondo dei due che attira le preferenze e che ispira la ricerca di coloro che aderiscono alla prospettiva interpretativa. Tutte le correnti e le risorse intellettuali confluite in questa prospettiva (correnti e risorse che, come spesso è successo nella storia della cultura americana, provengono dall'Europa, e in special modo dalla Francia e dalla Germania) hanno consentito di sviluppare una riflessione piuttosto sofisticata su almeno tre grandi tematiche: a) la considerazione del cosiddetto "punto di vista del nativo" attraverso una riformulazione su basi del tutto nuove della problematica "eroica" già affrontata dall'etnoscienza; b) una discussione dei processi comunicativi che si instaurano sul campo tra l'etnografo e il suo informatore, ossia nell'incontro tra culture; infine c) il tema di come l'esperienza di questo incontro possa essere trascritta in un testo etnografico. A livello epistemologico infatti, l'antropologia interpretativa pone il problema della conoscibilità delle culture in termini di una visione "dall'interno" delle culture stesse; avanza poi la questione dei mezzi che consentono di raggiungere la conoscenza dell'altro, ovvero del procedimento etnografico o, come possiamo anche dire, della traduzione di una cultura in un'altra; e infine il problema della trasmissibilità di tale traduzione ad un pubblico. L'antropologia interpretativa si pone in contrasto con quelle prospettive come lo struttural-funzionalismo o il cosiddetto neo-evoluzionismo che avevano fatto della cultura, del comportamento e della struttura sociale degli oggetti suscettibili di una trattazione tipologica, formale o istituzionale mirante alla formulazione di proposizioni generali. Essa non risparmia neppure lo strutturalismo lévi-straussiano nel quale vede un eccesso di "cerebralismo" e di "astrattismo" decontestualizzante (Geertz 1973: 345; 1987: 442-443); infine, non concorda neppure con l'etnoscienza laddove essa tenta di «mostrare che il significato può emergere in maniera misteriosa dalla concatenazione meccanica di elementi privi di significato» (Tyler 1978: 284). La prospettiva interpretativa, pur ponendo anch'essa l'accento sul comportamento, sul linguaggio e sull'aspetto simbolico della cultura, riconosce al tempo stesso che quest'ultima e la vita sociale sono una "negoziazione di significati". Che cosa si deve intendere per significato, e per "negoziazione di significati" in questo preciso contesto? Incontro tra culture Per comprendere il programma dell'antropologia interpretativa bisogna partire dal fatto che per essa la base comune d'incontro dell'osservatore e dell'osservato (cioè dell'antropologo e del "nativo") è costituita dalle pratiche realmente agite e rappresentate. Queste pratiche consistono in comportamenti che sono sempre parte di costellazioni più ampie di significato, al di fuori delle quali esse
Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità non avrebbero senso. Un po' come accade in un gioco, i movimenti di un alfiere sulla scacchiera presuppongono ad esempio, un insieme di regole più ampio identificabile con il gioco degli scacchi. Allo stesso modo, le pratiche, per poter essere riconosciute come significanti. devono poter esistere all'interno di un contesto rappresentazionale più ampio. proprio come i movimenti dell'alfiere sono dipendenti dal complesso più ampio (della semplice mossa) delle regole del gioco degli scacchi. Come tali, le pratiche e i significati che esse veicolano e nei quali sono calate, sono di natura intersoggettiva, nel senso che non sono puramente riducibili agli stati psichici individuli o alle credenze personali. Un ulteriore punto su cui poggia la prospettiva interpretativa in antropologia, che può essere messo in relazione con l'idea delle Geisteswissenschaften ("scienze dello spirito") teorizzata dallo storicismo tedesco, è quella della vita socioculturale come sistema aperto. Una cultura non può essere messa al riparo da influenze esterne e studiata in laboratorio. I criteri della verifica e della misurazione, caratteristici delle Natarwissenschaften ("scienze della natura") non valgono nel caso delle scienze umane. In antropologia inoltre, l'osservatore e l'osservato sono calati nella stessa situazione (l'incontro etnografico), e non esiste di conseguenza una posizione che sia veramente privilegiata per poter descrivere che cosa succede, dal momento che tanto l'antropologo quanto il nativo stanno in una relazione di influenza reciproca per quanto riguarda l'elaborazione di proposizioni e di giudizi relativi alla cultura che viene studiata. Non c'è, in antropologia, quel «distacco» tra osservatore e osservato, tra scienziato e oggetto della ricerca che si può avere in altri campi di studio. C'è, piuttosto, una "circolarità ermeneutica" tra soggetti, ciascuno dei quali è "produttore di significati". L'antropologia parte anche dall'assunto che, oltre ad essere "animali simbolici" (Cassirer 1969), gli esseri umani sono anche "animali auto-interpretanti" e "auto-definitori". Questo fatto, che come vedremo tra breve è alla base della concezione stessa che la prospettiva interpretativa ha sia della cultura che dell'antropologia, preclude qualsiasi spazio a quelle prospettive che pretendono di fondare lo statuto conoscitivo del sapere antropologico sulla semplice "osservazione" (quindi rifiuto dell'etnografia intesa come mera raccolta di dati "grezzi") e anche di quelle che si illudono di poter usare un linguaggio "neutro" per descrivere i dati (come fa in certi casi l'etnoscienza). Nessuno di questi due presupposti (oggettività della osservazione e neutralità del linguaggio descrittivo) ha valore nelle scienze umane, perché il contesto significante. che è dato dall'interazione dialogica tra antropologo e informatore, è un dato assolutamente primario dal quale non è possibile prescindere se non a prezzo di distorsioni assai gravi. L'insieme delle pratiche di ricerca che possiamo, per comodità, definire come appartenenti ad un filone interpretativo si caratterizza dunque per l'attenzione che queste prestano alle variabilità concrete dei significati culturali nella loro complessità contestuale. La considerazione attorno alla quale ruota l'intera prospettiva interpretativa è che tanto l'oggetto della ricerca (la trama del linguaggio, le istituzioni, le credenze ecc.) quanto gli strumenti di essa (le categorie concettuali dell'antropologo) appartengono entrambi allo stesso contesto, il "mondo dell'uomo", "animale" simbolico e "interpretativo". Si deve precisare che qui non siamo di fronte ad un ritorno del soggettivismo romantico: poiché in questo caso il mondo non è concepito come il prodotto di una auto-coscienza, e neppure il soggetto è concepito come portatore di una consapevolezza "più alta" rispetto a quella fornitaci dalla scienza. L'indirizzo interpretativo, che rifiuta la nozione di soggettivismo così come questa si presenta all'interno di una certa tradizione filosofica, enfatizza piuttosto il carattere
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Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità
OCEANO S5 di Gbllte , ATLANTICO
«pubblico» dei significati che nascono. come abbiamo detto più sopra, da relazioni di natura intersoggettiva dialogica e negoziale. Cultura come testo, descrizione densa e punto di vista del nativo: Clifford Geertz
Sefrou (Marocco)
Clifford Geertz (1983 ca.)
[T22.1]
L'idea di una cultura come testo, che possiamo considerare come la metafora fondante il «paradigma interpretativo» nel suo significato più ampio, trae origine dalla ermeneutica filosofica contemporanea, e costituisce il punto nodale del lavoro teorico di Clifford Geertz (1926-), il virtuale «caposcuola» dell'antropologia interpretativa. Allievo dell'antropologo Clyde Kluckhohn (1905-1960) e del sociologo Talcott Parsons (1902-1979) a Harvard, Geertz è una delle figure di maggior rilievo dell'antropologia contemporanea. I suoi studi sul campo lo hanno portato a toccare gli estremi geografici del mondo musulmano: l'Indonesia e il Marocco, in un grande "volo etnografico" che ha costituito la base di lavori a sfondo comparativo (Geertz 1973; 1988a). Cos'è l'interpretazione in antropologia? Nella Introduzione a Interpretazione di culture, che come abbiamo detto è ormai considerato una specie di testo fondativo di questo indirizzo, Geertz ha esposto i principi direttivi di una "teoria interpretativa della cultura". Bisogna per la verità precisare che non esiste nulla di più ostico della prospettiva interpretativa in antropologia quando si tratta di una esposizione sistematica delle sue procedure di analisi. D'altra parte è lo stesso Geertz a farci sospettare della possibilità di cogliere i fondamenti teorici dell'interpretazione: «Il vizio di fondo degli approcci interpretativi a qualunque genere di cosa – la letteratura, i sogni, i sintomi, la cultura – è che essi tendono a resistere, o viene loro permesso di farlo, all'articolazione concettuale e a sfuggire così alle ripartizioni e alle valutazioni di tipo sistematico. Si capisce un'interpretazione oppure no, se ne vede l'importanza oppure no, la si accetta oppure no. Imprigionata nell'immediatezza del suo proprio dettaglio, è presentata come autoconvalidantesi o, peggio, convalidata dalla sensibilità sviluppata presumibilmente dalla persona che la presenta: un qualunque tentativo di esprimere ciò che dice in termini diversi dai propri è considerato un travisamento» (Geertz 1987: 63). Questa affermazione di Geertz ha offerto ai suoi critici l'occasione per mettere in evidenza come l'antropologia interpretativa sia lontana dal poter esplicitare le proprie premesse teoriche. Prendendo tale osservazione di Geertz per una ammissione del fatto che "la teoria interpretativa manca di criteri precisi per valutare le interpretazioni culturali" (Shankman 1984:263), i suoi critici hanno insistito su ciò che potremmo chiamare "l'indeterminatezza della teoria interpretativa" (ibidem). Il carattere pubblico del significato e la cultura come testo Potrebbe sembrare che Geertz ammetta l'identificazione dell'antropologia interpretativa con una forma di soggettivismo, come se i significati, che la prospettiva interpretativa assume come oggetto privilegiato di studio, fossero qualcosa di "personale". In realtà non è così perché egli aggiunge: «Questo [il fatto cioè
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che molte interpretazioni siano soggettive] non va assolutaau mente bene per un campo di studio che afferma di essere una scienza... Non vi è nessuna ragione per cui la struttura concettuale di un'interpretazione culturale dovrebbe essere me- ,s no formulabile, quindi meno suscettibile di essere valutata in base a canoni espliciti di quella, ad esempio, di un'osservazione biologica, o di un esperimento fisico» (Geertz 1987: 63). Nasce così il problema di definire la natura dell'oggetto dell'antropologia e del metodo mediante il quale «raggiungere l'accesso al mondo concettuale in cui vivono i nostri soggetti così che possiamo dialogare con loro, nel senso esteso del termine» (ivi: 64). «Raggiungere l'accesso al mondo concettuale» sembra voler dire che dobbiamo scavare oltre una superficie al di là della quale soltanto si Java e Bali trova la "verità". Questo raggiungimento di un mondo concettuale nascosto non è però per nulla simile a quello teorizzato da Lévi-Strauss: infatti, per Geertz non si tratta di oltrepassare la soglia dei fenomeni per cogliere la verità in un luogo come l'inconscio strutturale; si tratta di "sfogliare" uno ad uno i significati stratificati la cui trama (texture) costituisce il testo (text) della cultura. In che senso possiamo dire che la cultura è un testo e che il metodo per conoscerla consisterebbe in un lavoro di de-stratificazione dei significati? Bisogna tornare alla concezione del significato tipica della prospettiva interpretativa in genere. Il significato non è un fatto privato (e qui Geertz riconosce il ruolo svolto da Wittgenstein e da altri nel de-privatizzare il significato). Il significato è intersog- [T22.2] gettivo, pubblico, una caratteristica, questa, che Geertz attribuisce alla cultura nella sua globalità. Per Geertz infatti, la cultura, costituita da azioni simboliche, e quindi da ragnatele di significati (un'espressione ripresa da Max Weber), si configura proprio come un testo o un insieme di testi che l'antropologo tenta di leggere, come egli stesso dirà nelle ultime righe di uno dei suoi più celebri lavori etnografici, «sopra le spalle di quelli a cui appartengono di diritto» (ivi: 447). La descrizione densa Come farà però l'antropologo a leggere questi testi, costellazioni di azioni e di simboli significanti, che sono la cultura? Una semplice lettura del dato fenomenico – un comportamento. un'affermazione – non è infatti una lettura del testo culturale che, proprio come il testo letterario, ha una sua coerenza e una significazione specifica fatta di rimandi interni. di riferimenti al proprio con-testo. Il concetto di «descrizione densa» dovrebbe poter spiegare che cosa fa. o dovrebbe fare l'antropologo quando cerca di comprendere una cultura aliena. Geertz riprende a tale proposito un passaggio del filosofo inglese Gilbert Ryle dove questi mostra come un semplice gesto può essere interpretato differentemente a seconda del contesto. Una strizzatina d'occhio può voler dire molte cose: può essere un tic o un ammiccamento, ma questo ammiccamento può, a sua volta, significare cose diverse secondo il noto giochetto "dell'io so che tu non sai che egli non sa che io so". La differenza tra «un tic e un ammiccamento, per quanto non fotografatile – dice Geertz – è grande, come sa chiunque è abbastanza sfortunato da aver scambiato l'uno per l'altro. Come fa notare Ryle non è che chi ammicca ha fatto due cose, contratto le palpebre e ammiccato. mentre chi ha un tic ne ha fatta una sola, contratto le palpebre. Contrarre le palpebre apposta quando esiste un codice pubblico in cui farlo è un significato d'intesa, è ammiccare» (ivi: 42, corsivo nostro).
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Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità Antropologia, etnografia e scrittura etnografica
È all'interno di questo "testo" costituito dalla trama dei significati stratificati, un testo «pubblico» che si crea nell'interazione tra i soggetti che opera l'antropologo. Ecco quindi dove «risiede l'oggetto dell'etnografia: una gerarchia stratificata di strutture significative nei cui termini sono prodotti, percepiti e interpretati tic, ammiccamenti, falsi ammiccamenti, parodie senza di cui [la gerarchia stratificata] di fatto non esisterebbero» (ivi:43). Si noterà che qui Geertz parla di oggetto dell'etnografia e non dell'antropologia. Sarebbe sbagliato credere che egli stia stabilendo implicitamente una distinzione tra un momento etnografico inteso come momento di raccolta dei dati, e un momento «antropologico» visto invece come momento dell'elaborazione teorica di quei dati stessi. Infatti per Geertz l'etnografia è antropologia (e viceversa), in quanto è nel momento stesso in cui l'antropologo de-stratifica (interpretandole) le strutture significative che egli "fa dell'antropologia". Il momento etnografico, insomma, è già un momento teorico-interpretativo nel quale risiede [T22.3] gran parte della portata esplicativa dell'antropologia. La stessa scrittura etnografica, frutto di un processo di destratificazione dei significati, rivela una natura diversa da quella attribuitale da un'idea di descrizione fondata su criteri "oggettivi" e "neutrali". In Opere e vite L'antropologo come autore (Works and Lives. The Anthropologist as Author) del 1988, Geertz ha accentuato ulteriormente l'importanza della descrizione etnografica accostandola esplicitamente all'opera letteraria. «La gente continuerà a leggere I Nuer di Evans-Pritchard – egli scrive – anche se la teoria delle società segmentarie finisce, come di fatto è stato, per irrigidirsi in un dogma» (Geertz 1988b: 4); e, rendendo esplicito che cosa egli intenda per lettura del testo etnografico, aggiunge: «Così come la critica della narrativa e della poesia si sviluppa meglio da un coinvolgimento immaginativo con la narrativa e la poesia stesse, e non da nozioni importate dall'esterno circa ciò che esse dovrebbero essere, allo stesso modo la critica della scrittura antropologica (che non è né narrativa né poesia in senso stretto ma che è entrambe in senso lato) dovrebbe svilupparsi da un simile coinvolgimento con esso [il testo antropologico] e non da concezioni esterne relative a che cosa dovrebbe somigliare per poter essere qualificato come scientifico» (ivi: 6). La vocazione ideografica dell'antropologia interpretativa Appare dunque qui, in maniera del tutto esplicita, la vocazione idiografica e particolaristica dell'antropologia interpretativa, una vocazione che certamente può essere messa in rapporto con il taglio dato da Boas allo studio delle culture. Sarà bene però non fraintendere. Boas era un "interpretativo" tanto quanto lo sono stati e lo sono attualmente tutti gli antropologi che si pongono il problema di capire la cultura da loro studiata. Niente di più. Dietro l'impostazione interpretativa di Geertz vi sono filosofi, sociologi e critici letterari come Wilhelm Dilthey, Max Weber, Ludwig Wittgenstein, Edmund Husserl, Alfred Schutz, Peter Burke, Paul Ricoeur e Susan Langer, per citare solo alcuni nomi; dietro la sua considerazione del testo etnografico come testo letterario ci sono soprattutto Michel Foucault e Roland Barthes (Malighetti 1991). Il particolarismo della posizione geertziana costituisce, assieme ad una mancata dichiarazione esplicita delle premesse fondanti la sua prospettiva, uno dei principali motivi delle critiche a lui rivolte. I suoi critici gli riconoscono il merito di aver prodotto studi non-interpretativi o comunque condotti in una prospettiva di tipo comparativo: Agricultural Involution e Peddlers and Princes entrambi
Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità del 1963, Islam del 1968. Tuttavia lo accusano di aver trascurato questo genere di lavori e di aver privilegiato quelli "interpretativi" proprio al fine di affermare la validità scientifica dell'antropologia e addirittura la superiorità della prospettiva interpretativa su tutte le altre (Shankman 1984: 265). Eppure uno degli studi più noti dell'antropologo americano, uno studio comparativo a largo raggio, visto che in esso vengono presi in considerazione tre contesti tra loro assai lontani tanto sul piano spaziale che culturale – l'islamizzata isola di Giava, l'induista Bali e il Marocco musulmano – è proprio un esempio ormai classico di antropologia interpretativa: Dal punto di vista dei nativi: sulla natura della comprensione antropologica (1988a). La nozione di «persona»: un esempio di comparazione interpretativa Dal punto di vista dei nativi consiste in un esame comparativo di tre modi di costituzione dell'idea di persona in tre contesti culturali distinti: Giava, Bali e una cittadina del Marocco, i quali sono poi i tre luoghi della ricerca sul campo di Geertz. Tuttavia all'idea di persona Geertz non vuole conferire alcun "contenuto" predefinito. Geertz non intende capire in che modo sia concepita la persona a Giava, a Bali e in Marocco dando quasi per scontato che essa sia qualcosa provvista di caratteristiche emotive e razionali analoghe a quelle che noi occidentali siamo soliti conferirle. Non si tratta di ritrovare in altri contesti culturali "la persona" concepita come «un mondo motivazionale e cognitivo armonico, unico, più o meno integrato, un centro dinamico di consapevolezza, emotività, giudizio e azione organizzato in un insieme distinto ed in contrapposiziòne ad altri di questi insiemi e al suo retroterra sociale e culturale» (Geertz 1988: 66). Si tratta invece di vedere, egli precisa, «quali siano le esperienze dei giavanesi, dei balinesi e dei marocchini all'interno del quadro concettuale della loro idea di ciò che è il sé» (ibidern). La rilevanza di questo lavoro di Geertz, la cui discorsività non può essere ripresa in questa sede, è teorica. È teorica, e in particolare di natura metodologica in quanto, in sintonia con la sua concezione dell'antropologia come etnografia, egli vuole esplorare il modo in cui, attraverso la descrizione etnografica, un antropologo arriva a cogliere il punto di vista dei nativi. Lo spunto di questo lavoro di Geertz è fornito dalle reazioni che si ebbero tra gli antropologi alla pubblicazione, avvenuta postuma nel 1967. dei diari di Malinowski. Da questi diari emergeva un'immagine di Malinowski ben diversa da quella che ci si era fatti di costui: Malinowski esprimeva un forte disagio di fronte ad una cultura che gli era estranea, che percepiva a volte come ostile, e del tutto «incomprensibile» (v. Cap. 10). Malinowski esprimeva non solo «il disagio dell'antropologo» di fronte alla cultura aliena; non solo rivelava, attraverso questi diari, che l'antropologo è ben lontano dall'essere un «camaleonte» etnografico – un'immagine che invece lo stesso Malinowski aveva contribuito ad accreditare con le sue opere. Anche se nessuno se ne era reso conto, dice Geertz, attraverso i suoi diari Malinowski poneva un problema di tipo epistemologico: come possiamo conoscere un'altra cultura se è impossibile, come appunto dimostrano i suoi diari, capire l'altro per empatia? «Cosa accade – si chiede infatti Geertz – al verstehen (comprendere) quando l'einfuhlen (immedesimarsi) scompare?» (ivi: 72). Concetti vicini e concetti lontani dall'esperienza La ricerca di una soluzione porta Geertz a ritenere che il processo conoscitivo in antropologia si articoli attraverso due tipi di concetti, quelli «vicini» e quelli
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«lontani» dall'esperienza del nativo. I primi sono quelli «che chiunque... nel nostro caso un informatore – può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire ciò che lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pensano, immaginano e che comprenderebbe prontamente quando utilizzati in modo simile da altri» (ivi: 73). I concetti «lontani dall'esperienza» sono quelli con caratteristiche contrarie: «amore» e «nirvana» sono due concetti vicini all'esperienza per noi e per l'indù, così come «cathexis dell'oggetto» e «sistema religioso» sono, per la maggior parte degli innamorati e dei credenti rispettivamente due concetti «lontani» dall'esperienza. La conoscenza antropologica, afferma Geertz, oscilla tra questi due poli, tra la ripresa dei concetti «vicini» e quelli «lontani» dall'esperienza dei nativi, in un continuo tentativo, diremmo noi, di traduzione controllata dei primi nei secondi e di controllo nella gestione di questi ultimi per "interpretare" i primi. Se infatti adottassimo la prospettiva secondo la quale dobbiamo usare solo i concetti vicini all'esperienza, rischieremmo di essere travolti dalla dimensione vernacolare: saremmo cioè così «dentro» all'altra cultura che non la capiremmo più, non avremmo il distacco sufficiente per poterla analizzare e trasmettere i significati ai destinatari del nostro lavoro di antropologi. Se invece adottassimo l'altra soluzione, quella di utilizzare solo i concetti «lontani dall'esperienza» (del nativo), rischieremmo di allontanarci dalla vita di coloro che studiamo al punto di perdere di vista Ia specificità di essa: «il vero problema, quello che è messo in luce da Malinowski dimostrando che nel caso dei nativi non occorre essere uno di loro per conoscerli, è che tipo di ruolo giocano i due tipi di concetti nell'analisi antropologica. O, più esattamente, come, in entrambi i casi, bisogna utilizzarli per ottenere un'interpretazione di come vive una popolazione che non sia né imprigionata nei suoi orizzonti mentali, un'etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente sorda alle tonalità peculiari della sua vita, una etnografia della stregoneria scritta da un geometra» (ivi: 73). L'utilizzazione, la ripresa, l'analisi dei concetti «vicini all'esperienza», ed un loro continuo "confronto" con quelli "lontani" usati dall'antropologo per comunicare con il suo pubblico, appaiono a Geertz come le operazioni necessarie per tentare una comprensione «dal punto di vista dei nativi». Poter cogliere i concetti «vicini» all'esperienza ha difatti un vantaggio, in quanto le idee che essi racchiudono e le realtà che essi voglio significare sono legate le une alle altre in maniera indissolubile. La dimensione comparativa In questa prospettiva egli affronta, dicevamo, la costituzione della nozione di «persona» nei tre contesti culturali di Giava, di Bali e di una cittadina del Marocco per giungere ad una caratterizzazione del modo specifico in cui, in questi tre diversi contesti, si produce «l'idea di ciò che è il sé». Geertz non rifiuta dunque la dimensione comparativa se per comparazione si intende il raggiungimento di una conoscenza del modo in cui una realtà "universale" come l'idea del sé si articoli nelle diverse forme culturali. Egli rifiuta però la comparazione intesa come prospettiva generalizzante che fa astrazione dal punto di vista del nativo, che impone i propri concetti "etici" e che si muove solo a livello di concetti «lontani dall'esperienza». Così come del resto respinge l'estremismo "eroico" che rischia l'illusione dell'empatia totale col nativo o che ritiene di poter conoscere una cultura individuando «tutto ciò che si deve sapere o credere per operare in maniera accettabile ai suoi membri» (Geertz 1987: 48).
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L'antropologia interpretativa dopo Geertz Nonostante la dichiarata avversione, da parte di Geertz, per le prospettive generalizzanti. per il «mentalismo» nelle sue varianti dello strutturalismo e di una certa etnoscienza, per il determinismo materialista e per il descrittivismo che si pretende obiettivo in quanto si illude di impiegare un supposto linguaggio «neutro», la sua antropologia mostra di aderire alla vita concreta delle popolazioni studiate. Certo, questa "aderenza" consiste più nell'esplorare il "punto di vista del nativo", che non nella presentazione di statistiche sulla produttività, sui matrimoni tra cugini, nella descrizione di un mercato o dei rapporti tra potere centralizzato e uomini di religione (tutte cose che peraltro Geertz ha abbondantemente studiato e su cui ha altrettanto abbondantemente scritto). Ci sembra che, nonostante le critiche mossegli in relazione al fatto che la sua antropologia non consenta di «spiegare» altri ordini di realtà che non siano quelli del «significato» (Shankman 1984; Keesing 1987), nella sua prospettiva vi sia pur sempre una esigenza di oggettività. Geertz può essere considerato, almeno in un certo senso, come il fondatore dell'antropologia interpretativa, ma non ne è né il solo né l'ultimo rappresentante. Sulla sua scia si è sviluppata ad esempio, dalla metà degli anni 1970 ad oggi, una corrente di studi che ha accentuato l'elemento ermeneutico e dialogico del rapporto tra antropologi e "informatori". [1 privilegiamento di questa prospettiva ha decisamente spostato, in molti casi, l'attenzione su questo rapporto a scapito di uno sguardo "oggettivante" più attento alle condizioni "concrete" di vita di una popolazione, agli effetti del comportamento degli individui, allo studio del cambiamento sociale come processo inscritto nelle forme di relazioni tra gli uomini e nelle istituzioni che risultano da quel cambiamento. Questa "corrente interpretativa", o interpretative turn come è stata definita da due dei suoi più noti e brillanti rappresentanti (Rabinow e Sullivan 1979). a cui riconosciamo il potere di una certa fascinazione letteraria, non è sempre convincente sul piano del contenuto del sapere che essa pretende di trasmetterci. Analisi sicuramente raffinate sul piano stilistico svelano un deciso penchant per il soggettivismo, mentre rischiano di sviare ad ogni passo in direzione di una specie di «isteria interpretativa» (Gellner), dove non si capisce più chi "interpreta" chi e che cosa: l'antropologo interpreta il nativo che a sua volta interpreta l'antropologo che a sua volta interpreta il nativo... Questo non ci pareva esattamente il senso in cui Geertz intendeva il lavoro dell'antropologo quando, riprendendo Ryle, lo esemplificava attraverso la metafora del tic e dell'ammiccamento.... Non bisogna però misconoscere il fatto che sulla scia di Geertz ha preso avvio un esame critico dei processi che determinano, proprio in quanto "fatti comunicativi" coinvolgenti la figura dell'antropologo e quella dei suoi interlocutori. la produzione etnografica, cioè la stessa rappresentazione che l'antropologia produce, ed ha prodotto in passato, delle culture "altre" (Clifford e Marcus 1986: Marcus e Fischer 1986; Clifford 1993, 1999).
Antropologia della contemporaneità È infatti proprio a partire da questioni una volta considerate per Io più "tecni-
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Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità che" e secondarie quali il dialogo tra l'antropologo e l'informatore che l'antropologia ha potuto riconsiderare il rapporto con il proprio oggetto in termini di contemporaneità. Considerati il più delle volte come depositari di una cultura "tradizionale", "arcaica" o "autentica", gli informatori sono stati sovente collocati in un tempo "altro" come le culture studiate, grazie alla loro collaborazione, dagli antropologi. Del resto, come è stato persuasivamente dimostrato, l'antropologia sembra aver costruito gran parte del proprio sapere sul presupposto che gli "Altri" sono in un tempo "altro" (Fabian, 2000). Invece una attenzione maggiore al rapporto tra l'antropologo e i suoi informatori, e in particolare ai processi dialogici che sono alla base della raccolta delle informazioni etnografiche quindi ad un momento cruciale di elaborazione del sapere antropologico – tende inevitabilmente a porre le figure dell'antropologo e dei suoi interlocutori su un piano di "contemporaneità", con una conseguente "restituzione" all'Altro di una "parola" precedentemente negata. La dimensione contemporanea "Contemporaneità" è in effetti un termine che non evoca soltanto l'oggi, il tempo presente, ma che indica anche, e soprattutto, il carattere simultaneo con cui i fatti e le idee, i quali avvengono o prendono forma in un determinato contesto culturale, si ripercuotono su altri contesti e sulla vita di esseri umani appartenenti a culture diverse. Se si vuole, la dimensione della contemporaneità è un correlato della "globalizzazione" che fa sì che le società e le culture non siano più, per quanto riguarda la loro vita presente, analizzabili a prescindere da un contesto ampio – a volte addirittura planetario – che le connette con altre culture. L'antropologia della contemporaneità non è una antropologia "del qui e dell'ora". Le culture sono infatti il prodotto di storie, di stratificazioni, di incontri, di scambi e di tensioni, anche se tali storie e tali stratificazioni sono sempre selezionate, filtrate da una memoria generatrice di tradizione. Fare antropologia della contemporaneità dovrebbe voler dire studiare le culture oggi ma nel loro ambiente globale che non si risolve nei rapporti di tali culture con quelle ad esse coeve, ma che prende in considerazione il rapporto che tali culture hanno con il proprio passato. rapporto sulla base del quale esse costruiscono il proprio presente (Borutti e Fabietti 1997). Abbiamo usato l'espressione `antropologia della contemporaneità" non tanto per dare il nome ad una corrente, scuola di pensiero o indirizzo teorico particolare, quanto piuttosto a quella che potremmo forse definire come una "preoccupazione". Tale preoccupazione consistente nel non ridurre l'antropologia ad una mera rivisitazione del patrimonio classico da un lato, né ad una esclusiva "autointerrogazione" sul modo in cui vengono prodotte le conoscenze antropologiche dall'altro. Né, tantomeno, ad una `scienza del presente", incapace di leggere il "presente culturale" in quanto prodotto della storia. Infatti non solo l'antropologia ha, come d'altra parte si spera di aver mostrato in questo libro. una sua "profondità" storica che rende possibile la sua stessa esistenza odierna; e sicuramente l'antropologia ha anche la necessità di rivolgersi criticamente a se stessa per meglio utilizzare il proprio patrimonio concettuale in un continuo lavoro di rivisitazione dei propri presupposti teorici, ideologici, etici e politici. La comprensione del mondo attuale – da un punto di vista antropologico beninteso – dovrebbe però avere "qualcosa in più" che, a nostro avviso, giustifica la possibilità di rispondere alle questioni della contemporaneità. Tale antropologia, dicevamo, consiste nell'applicazione degli strumenti analitici e teoretici della disciplina alle condizioni della vita culturale presente.
Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità
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laddove queste ultime sono impegnate a riformulare identità, confini e somiglianze in contesti nuovi precedentemente sconosciuti. Sguardi sulla contemporaneità Sono sempre più numerosi gli studiosi che hanno cercato di collocare, all'interno del discorso antropologico, la dimensione della contemporaneità. È il caso dell'antropologo statunitense di origine indiana Arjun Appadurai, il quale ha parlato di "etnografia cosmopolita", dove con questa espressione si vuole indicare una prospettiva di ricerca capace di cogliere, a livello locale, i motivi di connessione tra quest'ultima dimensione ed un mondo sempre più "globale" (Appadurai 1992). Parallelo a quello di Appadurai sembra essere il ragionamento dell'inglese Adam Kuper il quale, invece che di etnografia cosmopolita, parla di una "antropologia cosmopolita", capace di far dialogare tra loro modelli esplicativi della realtà appartenenti a culture differenti (Kuper 1996). Su una linea di pensiero simile pare muoversi lo svedese Ulf Hannerz con la sua riformulazione del concetto di cultura in una prospettiva di "organizzazione sociale del significato". Qui le culture, oltre che insiemi complessi (Tylor), apparati strumentali (Malinowski), configurazioni (Benedict) e testi (Geertz), si presentano come «strutture di significato che viaggiano su reti di comunicazione sociale non interamente situate in alcun singolo territorio» (Hannerz 1998: 322). Tale definizione di cultura si accorda con la dimensione "transnazionale" che questo autore attribuisce a molte delle espressioni culturali emergenti della nostra epoca. Forse colui che ha affrontato in maniera più perspicua il tema della contemporaneità è il francese Mare Augé (1935-), il quale parla appunto di una "antropologia dei mondi contemporanei" (Augé 1997). Tra i temi da lui messi in rilievo vi è un tentativo di lettura del modo in cui la globalizzazione viene oggi percepita in Occidente alla luce del modo in cui i popoli coloniali, e in special modo quelli africani, si rappresentarono il proprio destino all'epoca dell'incontro con i bianchi. Attraverso un confronto basato sulla percezione del tempo, dello spazio e dell'identità che popoli colonizzati di ieri e popoli occidentali di oggi hanno elaborato in due momenti diversi, ma caratterizzati da crisi di tipo analogo (fine del senso della storia, impressione di un restringimento dello spazio planetario, sensazione di un destino individuale svincolato da un progetto collettivo), Augé giunge a mettere in rilievo la dimensione cosmopolita dell'antropologia nell'epoca attuale. Tutti questi tentativi miranti ad individuare in maniera più precisa i contorni della pratica e della riflessione antropologica non vanno disgiunti dalle etnografie che oggi gli antropologi dovrebbero auspicabilmente produrre. Queste non riguardano soltanto i rapporti, gli intrecci, gli scambi, i processi di risignificazione a cui, nel mondo attuale, gli "incontri tra culture" danno luogo, oggi più intensamente di un tempo (Fabietti, Malighetti, Matera 2000). Tali etnografie dovrebbero prefiggersi il compito di esplorare, mediante gli strumenti concettuali ed analitici della disciplina antropologica, i rapporti di forza e di gerarchia, di sfruttamento e di mimesi culturale cui tali "incontri" danno luogo, e il modo in cui essi vengono rappresentati. E ciò tanto nei casi in cui simili esiti si producano tra culture diverse, quanto nei casi in cui essi si manifestino all'interno delle culture stesse, le quali sono comunque sempre più coinvolte in un processo globale sottoposto alla "logica della contemporaneità".
Marc Augé (metà anni 1990)
[T22.61
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Antropologia interpretativa e antropologia della contemporaneità Bibliogra fi a critica Borutti S., Filosofia delle scienze umane. Le categorie dell'Antropologia e della Sociologia, Bruno Mondadori, Milano 2000. Clifford J., Strade. Viaggio e traduzione alla fine del secolo XX, Bollati, Torino 1999 (ed. or. 1997). Fabietti U. (a cura), Etnografia e culture. Antropologi, informatori e politiche dell'identità, Carocci, Roma 1998. Fabietti U.,Antropologia culturale. L'esperienza e l'interpretazione, Laterza, Roma 1999. Fabietti U., Malighetti R. e Matera V., Dal tribale al globale, Bruno Mondadori, Milano 2000. Knauft B.M., Genealogies for the Present in Cultural Anthropology, Routledge, London 1996. Malighetti R., Il filosofo e il confessore. Antropologia e ermeneutica in Clifford Geertz, Unicopli, Milano 1991. Marcus G. e Fischer M., Antropologia come critica culturale, Meltemi, Roma 1998 (ed. or. 1986). Remotti F., Noi primitivi. Lo specchio dell'antropologia, Bollati, Torino 1990.
Louis - Francois Jauffret Il progetto della Société des Observateurs de l'Homme
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Capitolo 1 Louis-Francois Jauffret II progetto della Société des Observateurs de l'Homme'
Se v'è uno spettacolo degno di fissare lo sguardo degli uomini, di suscitare la curiosità degli uni, di risvegliare l'attenzione degli altri, di accendere l'ammirazione di tutti, è senza dubbio quello di vedere il genere umano elevarsi sin dai secoli più lontani ad una superiore industriosità, che colloca manifestamente la nostra specie sopra tutte le altre, o piuttosto che ne fa una specie a parte, di cui la terra intera è il dominio e alla quale tutte le altre specie sono subordinate. La società [degli osservatori dell'uomo], gettando lo sguardo sulle diverse parti del mondo antico, rileverà sia la successione rapida e continua delle generazioni che l'hanno di volta a volta abitata, sia l'ardimento dell'uomo che la copri di monumenti, alcuni dei quali sussistono ancora dopo una così lunga serie di secoli. Essa risalirà fino a quelle epoche nelle quali la tradizione ha posto la culla delle arti, delle leggi e delle scienze; cercherà le tracce della grandezza umana fino nelle rovine che attestano la sua nullità; si sforzerà di individuare l'origine e le diverse migrazioni dei popoli; e mentre i suoi membri viaggiatori le faranno conoscere le diverse nazioni che occupano oggi la superficie della terra, i suoi membri storici le faranno conoscere quelle che vi brillarono un tempo. Indagini sistematiche e
Statuetta che rappresenta gli «spiriti protettivi»: Isole Leti, Indonesia del Sud (Metropolitan Museum of Art, New York)
numerosi studi particolari sopra i popoli antichi e in special modo sopra quelli che, non avendo avuto una funzione di primo piano nella storia, sono quasi completamente sconosciuti, getteranno una grande luce sull'Antropologia comparata: da questo punto di vista la società ha dovuto raccomandarli allo zelo di quei suoi membri i quali coltivano la scienza dell'antichità. Mentre le ricerche sui costumi e le usanze dei popoli antichi favoriranno quelle che si potranno fare sui costumi e le usanze dei popoli moderni, le osservazioni dei navigatori sugli abitanti attuali delle diverse regioni del globo potranno fornire lumi preziosi sulle prime epoche della storia del genere umano. Che cosa v'è di più adatto, infatti, per illuminare i punti più oscuri della storia primitiva, che il paragonare al tempo stesso sia i costumi, sia le abitudini, sia il linguaggio, sia l'industria dei diversi popoli, di quelli soprattutto che non sono ancora civili! È che cosa v'è di più ricco di soddisfazioni, possiaI Da: Louis-Francois Jauffret, Introduction aver mémoires de la Société rtes Observateurs de t'Homnre, 1800, trad. it. in S. Moravia. La scienza dell'uomo nel Seuecemo, Laterza, Bari, 1970, pp. 278-79.
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Joseph-Marie de Gérando II programma del viaggiatore -filosofo
mo aggiungere, che il dedicarsi a questa attività, e stringere per così dire legami di conoscenza con un numero infinito di popolazioni, che meritano così poco l'ingiurioso disprezzo che noi abbiamo per esse! Vi fu un tempo in cui il desiderio di osservare l'uomo non entrava per nulla nell'esecuzione dei viaggi organizzati dai governi. Riportare dai paesi lontani animali, vegetali, sostanze mine-
rati, ecco qual era l'unico movente di tutte le spedizioni scientifiche. Quanto alle spedizioni commerciali, esse non avevano altro scopo che quello di andare lontano a propagare i nostri vizi e a disonorare l'umanità. La fine del XVIII secolo ha aperto una via nuova, e l'inizio di un nuovo secolo favorirà l'impulso dato. [...]
Joseph-Marie de Gérando II programma
del viaggiatore-filosofo' Ma qual è il mezzo per ben studiare l'uomo? Qui la storia della filosofia, la voce del mondo scientifico ci possono rispondere. Il tempo dei sistemi è trascorso. Stanco di essersi invano agitato, nel corso dei secoli, in vane teorie, il genio del sapere si è infine fermato sulla strada dell'osservazione. Ha riconosciuto che il vero maestro è la natura; ha concentrato tutta la sua arte nell'ascoltarlo con cura, e qualche volta nell'interrogarlo. Anche la scienza dell'uomo è una scienza naturale, una scienza di osservazione, la più nobile di tutte. L'uomo quale si mostra a noi, negli individui che ci circondano, si trova modificato contemporaneamente da mille circostanze diverse: dall'educazione, il clima, le istituzioni politiche,i costumi, le opinioni stabilite, le conseguenze dell'imitazione, l'influenza dei bisogni artificiali che si è creato. In mezzo a tante cause diverse che si riuniscono per produrre questo grande ed interessante effetto prietà che li caratterizzano: potremo riconoscere che è l'uomo, noi non potremo mai enucleare l'aquali sono i bisogni, le idee. le abitudini che si mazione precisa che appartiene a ciascuna di esse, se nifestano in ogni età della società umana. Presso di non troveremo dei termini di paragone in grado di loro, trovandosi Io sviluppo delle passioni e delle isolare l'uomo dalle circostanze particolari nelle facoltà dello spirito molto più limitato, ci diverrà quali egli si offre a noi, e di togliergli quelle forme assai più facile penetrarne la natura, assegnarne le accessorie sotto le quali l'arte ha celato in qualche leggi essenziali. Presso di loro, non avendo le genemodo ai nostri occhi l'opera della natura. razioni esercitato che un'assai leggera influenza le Ora, di tutti i termini di paragone che possiamo une sulle altre, noi ci troveremo in qualche modo scegliere, non ve n'è alcuno più curioso, più fecon- riportati alle prime epoche della nostra propria do di meditazioni utili che quello rappresentato dai storia; potremo compiere sicure esperienze sulle popoli selvaggi. Presso di loro noi possiamo rilevaorigini e la generazione delle idee. sulla formaziore anzitutto le diversità fra gli uomini dovute al cli- ne ed i progressi del linguag gio, sulla concatenazioma, all'organizzazione, alle abitudini della vita fisi- ne che esiste fra questi due ordini di operazioni. ca, e noteremo anche che in seno a nazioni molto Il viaggiatore filosofo che naviga verso le estremeno sviluppate dall'opera delle istituzioni morali mità della Terra ripercorre in effetti il cammino queste diversità naturali devono emergere in modo dei tempi; viaggia nel passato; ogni passo che commolto più sensibile: meno distinte fra loro da circopie è un secolo che oltrepassa. Le isole sconosciute stanze secondarie, esse devono esserlo soprattutto che raggiunge sono per lui la culla della società da quelle circostanze primarie e fondamentali che appartengono al principio stesso dell'esistenza. I Da: Joseph-Marie de Gérando, Considr4rninrs.s ti r Ie rliverces Presso di loro noi potremo trovare i materiali neìr suivre dmu I'obsen v ation des peoples .sativages. ISOtl, cessari per comporre una scala esatta dei diversi ,nétluules trad. il. in S. Moravia, La scienza dell'uomo nel. Settecento, Latergradi di civiltà, e per assegnare ad ognuno le pro- m. nari. 1970. pp. 396.65.
Richard Whately Il selvaggio è incapace di progredire
umana. I popoli disprezzati dalla nostra ignorante vanità si rivelano a lui come antichi e maestosi monumenti dell'origine dei tempi: monumenti mille volte più degni della nostra ammirazione e del nostro rispetto di quelle celebri piramidi di cui si inorgogliscono le rive del Nilo. Queste non ci attestano altro che la frivola ambizione ed il potere passeggero di alcuni individui di cui il nome stesso ci è a stento pervenuto; quelli ci delineano la condizione dei nostri propri antenati, e la prima storia del mondo. E quand'anche non scorgessimo nei popoli selvaggi un utile oggetto di istruzione per noi stessi, non sarebbero sufficienti i nobili sentimenti della filantropia per indurci ad attribuire un'alta importanza alle comunicazioni che possiamo stabilire con essi? [,..] Noi non abbiamo l'intenzione di svalutare i numerosi servizi resi alla società dai viaggiatori che vi hanno preceduto. Non avessero fatto altro che preparare la strada, attraverso i loro arditi tentativi, a quelli che dovevano seguirli, e fornir loro preziose indicazioni, tessi avrebbero già acquisito soltanto con questo grandi diritti alla nostra riconoscenza. Essi hanno anche cominciato a stabilire qualche rapporto con le nazioni selvagge; hanno riportato
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varie informazioni sui loro costumi e sul loro linguaggio. Senonché, presi da altre cure, più ansiosi di scoprire nuovi paesi che di studiarli, sempre in movimento quando ci sarebbe stato bisogno di molto riposo, mal disposti forse da quei pregiudizi ingiusti che avviliscono ai nostri occhi le nazioni selvagge, o almeno testimoni dell'indifferenza che la nostra Europa ha per loro, essi non hanno abbastanza cercato di riportarci notizie esatte e complete. È accaduto così, come accade sempre a coloro che osservano con troppa precipitazione e leggerezza, che hanno osservato piuttosto male, e l'imperfezione delle loro relazioni è stata la punizione della nostra incuria. Poiché l'uomo è sempre più curioso di novità che colpiscono i suoi sensi che di istruzioni rivolte alla sua ragione, si è attribuito molto maggior valore a riportare da quei paesi sconosciuti piante, animali e sostanze minerali, che non esperienze sui fenomeni del pensiero. Così, i naturalisti arricchivano di giorno in giorno i loro gabinetti con numerosi generi ignoti, mentre i filosofi consumavano il tempo a discutere vanamente nelle loro scuole intorno alla natura dell'uomo, invece di riunirsi per studiarlo nel teatro dell'universo.
Richard Whately II selvaggio è incapace di progredire' Un tema al quale ho dedicato attenzione per parecchi anni, dal momento che l'ho considerato tanto interessante quanto estremamente importante sotto molteplici aspetti, è quello dell'origine della civiltà. Perciò vi sottoporrò alcuni risultati delle ricerche e delle relative riflessioni da me condotte sull'argomento, cosa che, spero, non risulterà né inutile né superflua. [...] È stato dato per scontato, non solo dagli scrittori antichi, ma anche da quelli moderni, che lo stato selvaggio fu quello originario, e che l'umanità, o una qualche parte di essa, gradualmente sia giunta a sollevarsi da quello stato in virtù dell'esercizio autonomo delle proprie facoltà fisiche e intellettuali. Dico «dato per scontato» in quanto non è possibile riscontrare alcuna argomentazione in tal senso che sia sostenuta da prove o da un ragionamento fondato: ma è appunto considerato qualcosa su cui non può sussistere il minimo dubbio.[...] Un uomo, così la cosa ci viene presentata, volendo sottrarsi al disturbo di dover vagare per i boschi in cerca di frutti selvatici e radici, avrebbe pensato
l Da: Richard Whattlp. On the Ori,ght uf Cirilìsrrrìnn. Nishett & Co, London. 1554. pp. 9-11:13: I 7 -19. -trad. U. Fahictti.
Il selvaggio degenerato (dal frontespizio dell'opera di Whately)
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Charles Lyell I principi della natura sono uniformi
bene di raccogliere i semi di essi e di coltivarli in uno spazio di terra disboscato e preparato allo scopo.[...] Ma per simili selvaggi – ossia per gente caduta così in basso o in uno stato simile, come molte tribù che i nostri viaggiatori ci hanno rese familiari – non esiste alcun esempio che sia stato osservato e che riguardi un innalzamento allo stato civilizzato, o ad un qualsiasi livello superiore, senza istruzione ed assistenza da parte di un popolo già civilizzato. L'uomo lasciato senza assistenza in quello che viene chiamato «stato di natura» non si è mai innalzato – in quanto non ne è mai stato capace – da
Charles Lyell
e selvaggi
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quella condizione. La domanda che allora dobbiamo porci è: quando e dove ebbe origine la civiltà? Com'è che il mondo non è abitato solo da selvaggi? [G-.[ Secondo quanto è lecito ritenere, il primo ad aver introdotto la civiltà tra i selvaggi è stato, deve essere stato, l'uomo in uno stato più avanzato. Pertanto all'origine della razza umana, dal momento che tale uomo non esisteva, questo incivilimento deve essere consistito nel frutto dell'opera di un altro Essere. Deve esserci stata una sorta di Rivelazione alla prima generazione, o ad una successiva, della nostra specie.
I principi della natura sono uniformi'
Noi rigettiamo tutte quelle teorie le quali assumono catastrofi e rivoluzioni improvvise e violente che avrebbero interessato il pianeta e i suoi abitanti – teorie che non sono controllabili mediante il riferimento a fattori analoghi attualmente esistenti. L'importanza che lo studioso attribuirà a tali ricerche dipenderà soprattutto dal grado di confidenza che egli ripone nei principi sopra esposti. Se costui crede fermamente nella somiglianza o identità dei sistemi antichi e presenti dei cambiamenti terrestri, egli considererà ogni dato raccolto relativo alle forze al giorno d'oggi attive, come dati suscettibili di offrirgli una chiave per interpretare al1 Da: Charles Lyell, Principles of Geology, 1830. Murray, London, 1830, vol. I. pp. 165-66. Trad. tJ. Fabieni.
John Lubbock
cuni misteri del passato. Eventi occorsi nelle più remote epoche della storia del mondo animato e inanimato saranno considerati capaci di gettar luce l'uno sull'altro, e le lacune nelle informazioni relative ad alcuni dei più oscuri aspetti delle trasformazioni in atto al giorno d'oggi saranno in questo modo colmate. Dal momento che, così come attraverso Io studio della configurazione esteriore delle terre attuali e dei loro abitanti possiamo ricostruire nell'immaginazione l'aspetto degli antichi continenti scomparsi, allo stesso modo possiamo ottenere dai depositi di antichi mari e laghi un'idea chiara della natura dei processi subacquei attualmente operanti e delle molte forme di vita organica che, sebbene attualmente esistenti, si sottraggono alla nostra vista.
dell'Europa preistorica e selvaggi'
Abitanti
L'uomo dimora in Europa da un'epoca tanto remota, che la tradizione e la storia non ci danno la minima luce intorno alla sua origine ed al suo modo di vivere. Perciò molti hanno creduto che il passato sia nascosto al presente da un velo, che probabilmente il tempo renderà più fitto senza mai strapparlo. [...] Tuttavia in questi ultimi anni è sorto un nuovo campo di conoscenze e, dirò così, è nata in mezzo a noi una scienza nuova, la quale si occupa di tempi e di avvenimenti molto più antichi che non quelli 1 Da: John Lubbock Pretvstoric fines, 1865. trad. it. (modificata) tempi preistorici, UtET,Torino,1875, pp. 9-10: 307-8.
I
John Lubbock Abitanti dell'Europa preistorica
di cui si era fino ad ora occupato l'archeologo. Il geologo non conta né a giorni né ad anni, e quei sei mila anni che, ancora ultimamente, rappresentavano la somma totale dell'età del mondo, non sono altro per lui che una unità di tempo nella lunga successione delle epoche passate - Certo le nostre cognizioni geologiche sono ancora assai incomplete, e su molti punti dovremo cambiare avviso: ma sostanzialmente le conclusioni indicate dalla geologia sono tanto definite quanto quelle della zoologia, della chimica, o altra scienza affine. Ora, perché mai i metodi di esame che riuscirono così bene per la geologia non potrebbero applicarsi per gettare qualche luce sulla storia dell'uomo
preistorico? In verità l'archeologia costituisce il legame fra la geologia e la storia. E ben vero che coll'esame delle ossa e dei denti degli animali noi ci possiamo fare un concetto delle loro abitudini e del loro modo di vita, mentre nello stato attuale delle nostre cognizioni non potremmo sempre distinguere lo scheletro di un selvaggio da quello di un filosofo; ma, d'altra parte, gli animali scomparsi non hanno lasciato dietro di sé che le loro ossa e i loro denti, mentre per studiare gli uomini del passato ci restano le loro opere; le case che abitavano, le tombe nelle quali chiudevano i loro morti, le fortificazioni che costruivano, i templi nei quali pregavano, gli strumenti che adoperavano, gli ornamenti che portavano. [...] Benché le tradizioni e i miti siano di grande importanza e gettino indirettamente molta luce sulla condizione dell'uomo nei tempi antichi, non dobbiamo aspettarci di imparare da loro grandi cose. In ogni caso, riguardo alla età della pietra in Europa, tace tanto la storia quanto la tradizione; in Inghilterra, come in ogni altro paese da lungo tempo incivilito, le armi e le teste di freccia vengono considerate come fulmini o attribuite agli Elfi. Privato, per conseguenza, di qualunque soccorso storico, ma nello stesso tempo libero dell'incomodo concorso della tradizione, l'archeologo non può se non impiegare i procedimenti che tanto utili riu-
scirono al geologo: i rozzi utensili d'osso e di pietra delle età trascorse sono per l'uno quello che sono per l'altro gli avanzi degli animali. Si può spingere la analogia ancor più in là. Molti mammiferi che non esistono più in Europa, hanno rappresentanti che vivono ancora in altre contrade. Non si potrebbero, per esempio, capire i nostri pachidermi fossili senza le specie che abitano ancora certe parti dell'Asia e dell'Africa; grazie ai loro rappresentanti attuali dell'Australia e dell'America del Sud si spiegano i marsupiali secondari. Se con lo stesso procedimento vogliamo giugere a capire chiaramente le antichità dell'Europa, dobbiamo paragonarle colle armi e coi rozzi utensili di cui si valgono oggi, o si servivano ancora in tempi a noi vicini, le razze selvagge delle altre parti del mondo. In realtà, l'indigeno dell'isola Van Diemen (Tasmania) e l'Americano del Sud sono per antiquario ciò che l'opposum e il bradipo sono per il geologo. Non sarà dunque fuori di proposito in questa opera un capitolo consacrato all'esame dei selvaggi moderni, e quantunque un tal soggetto richieda, per esser trattato a dovere, interi volumi, è pur tuttavia possibile raccogliere, sia pure soltanto in poche pagine, un certo numero di fatti i quali getteranno qualche luce sulle antichità trovate in Europa e sulla condizione delle razze che per prime hanno abitato il nostro continente.
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Edward B. Tylor Il concerto di cultura
Edward B. Tylor L'evoluzione della cultura e le sopravvivenze
Capitolo 2 Edward B. Tylor Il concetto
di
cultura t
La cultura, o civiltà, intesa nel suo ampio senso etnografico, è quell'insieme complesso che include la conoscenza, le credenze, l'arte, la morale, il diritto, il costume e qualsiasi altra capacità e abitudine acquisita dall'uomo come membro di una società. La condizione della cultura nelle varie società del genere umano, nella misura in cui può essere indagata sulla scorta di principi generali, è un argomento che si presta allo studio delle leggi del pensiero e dell'agire umani. Da un lato, l'uniformità che pervade così estesamente la cultura può essere attribuita in larga misura all'azione uniforme di cause uniformi; dall'altro, i suoi vari gradi possono essere considerati come stadi di sviluppo o di evoluzione, ciascuno dei quali è il risultato della storia precedente e si appresta a compiere la parte che gli compete nel plasmare la storia futura. La nostra analisi è dedicata all'indagine di questi due grandi principi in diversi settori dell'etnografia, con particolare attenzione per la civiltà delle tribù inferiori in rapporto alla civiltà delle nazioni superiori. [...] Il primo passo nello studio della civiltà è quello di sezionarla in aspetti particolari e di classificare questi in gruppi appropriati. Così, quando si esaminano delle armi, queste devono essere classificate come lancia, mazza, fionda, arco e freccia, e così via; nelle arti tessili devono essere collocate la confezione delle stuoie e delle reti e varie specie di confezioni e di intrecci delle fibre; i miti si dividono sotto titoli come i miti dell'alba e del tramonto, i miti dell'eclisse, i miti del terremoto, i miti locali che spiegano i nomi dei luoghi sulla scorta come i vari tipi di sacrifici allo spirito dei defunti e di qualche racconto fantastico, i miti eponimi che ad altri esseri spirituali, il rivolgersi verso oriente spiegano l'origine di una tribù trasformando il suo in adorazione, la purificazione dall'impurità cerinome in quello di un immaginario antenato; sotto moniale o morale per mezzo dell'acqua o del fuoil nome di riti e di cerimonie rientrano pratiche co. Questi sono alcuni esempi presi alla rinfusa da un elenco di centinaia, e il lavoro dell'etnografo consiste nel classificare tali particolari allo scopo I Da: Edward B.Tyler, Primitive Cul tu re, 1871, trad. it. del primo capitolo in Pietro Rossi (a cura), Il concetto di cultura, Einaudi stabilire la loro distribuzione geografica e storidi,Torino, 1970, pp. 7; 13. ca e le relazioni che intercorrono tra essi.
Edward B. Tylor L'evoluzione della cultura e le sopravvivenzet
Essendo provato che gli aspetti particolari della cultura possono essere classificati in un gran numero di gruppi etnografici di arti, di credenze, di costumi e così via, viene immediatamente fatto di considerare in quale misura i fenomeni sistemati
in questi gruppi siano prodotti dall'evoluzione dell'uno nell'altro. Non è quasi necessario rilevare che i gruppi in questione, per quanto tenuti insieme ciascuno da un carattere comune, non sono affatto definiti accuratamente. Per ricorrere ancora
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Ragazza una volta all'esempio della storia naturale, si può romana che dire che essi siano delle specie che tendono ad arfila la lana ticolarsi in un gran numero di varietà. Quando si passa a studiare le relazioni reciproche di questi gruppi è chiaro che lo studioso delle abitudini della razza umana ha un grande vantaggio rispetto allo studioso delle specie vegetali e animali. Tra i naturalisti è una questione aperta se una teoria dello sviluppo da specie a specie rappresenti una constatazione di transizioni realmente avvenute o non piuttosto un puro e semplice schema ideale utile per la classificazione di specie originariamente indipendenti. Ma tra gli etnografi non esiste nessun dubbio intorno alla possibilità, per esempio, che una specie di attrezzi o di abiti o di credenze si sviluppi da un'altra, perché lo sviluppo nella cultura viene riconosciuto dalla conoscenza più comune. L'invenzione meccanica offre esempi appropriati del tipo di sviluppo che si riscontra nella civiltà in generale. [...] Tra le prove che ci aiutano a tracciare il corso che la civiltà ha effettivamente seguito c'è quella grande classe di fitti che abbiamo trovato conveniente designare col termine di asopravvvvenzeo. Essa consta di processi, di costumi, di opinioni ecc., che sono stati conservati per la forza dell'abitudine in uno stato della società diverso da quello in cui storicamente note, con l'aiuto dell'inferenza aravevano la loro sede d'origine; essi rimangono così cheologica dagli avanzi delle tribù preistoriche, prove ed esempi di una condizione precedente sembra possibile stabilire in modo approssimativo della cultura da cui se n'è sviluppata una nuova. la prima condizione generale dell'uomo, che dal Per esempio, conosco una vecchia del Somersetnostro punto di vista dev'essere considerata come shire il cui telaio a mano risale a un'epoca anteriore all'introduzione della ffvirtgslaarle, apparecchio una condizione primitiva, qualsiasi stato più remopiù moderno che essa non ha mai imparato ad to possa averla in realtà preceduta. Questa ipotetica condizione primitiva corrisponde in misura usare, e ho avuto modo di vederla passare la spola considerevole a quella delle tribù selvagge dei noda una mano all'altra nella classica maniera d'un stri giorni, le quali, nonostante la loro differenza e tempo: questa vecchia non vive un secolo indietro la distanza che le separa, hanno in comune certi al suo tempo. ma è un caso di sopravvivenza. Esempi di questo genere ci riportano sovente alle elementi di civiltà che sembrano essere le vestigia di uno stato iniziale della razza umana in generale. abitudini di centinaia e perfino di migliaia di anni Nel caso che questa ipotesi sia vera, la tendenza addietro. La prova della chiave e della Bibbia, che principale della cultura dall'età primordiale ai è ancora in uso, è una sopravvivenza; il falò di Fertempi moderni risulterà, nonostante l'interferenza ragosto è una sopravvivenza; la cena di Ognissanti per le anime dei morti, in uso tra i contadini bret- continua della degenerazione, quella dallo stato selvaggio verso lo stato civilizzato. Sul problema toni, è una sopravvivenza. [...] Nel realizzare il grande compito dell'etnografia del rapporto tra vita selvaggia e vita civilizzata quasi ognuno delle migliaia di fatti trattati nei carazionale, vale a dire l'indagine delle cause che hanno prodotto i fenomeni della cultura e delle pitoli seguenti ha un'incidenza diretta. La sopravleggi a cui questi sono sottoposti, è consigliabile vivenza nella cultura, ponendo lungo il cammino elaborare il più sistematicamente possibile uno della civiltà pietre miliari gravide di significato per schema dell'evoluzione di questa cultura lungo le quelli che sono in grado di decifrarne i segni, erige tuttora in mezzo a noi monumenti primordiali di sue varie linee. [...1 pensiero e di vita barbarica. Il suo studio parla con Confrontando i vari stadi della civiltà tra le razze forza a favore della concezione secondo la quale l'europeo può trovare tra i groenlandesi o tra i l Da: Edward B. Tylor. Primitive Cultu re . 1871. trad. it. del primauri più d'un tratto per ricostruire l'immagine di cultura. Einau11 concetto mo capitolo in Pietro Rossi (a cura). dei suoi antenati primitivi. di, tìtrino.1`170.pp. 19-21;25-a.
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William Robertson Smith La
derivazione del mito dal rito
William Robertson Smith La derivazione del
mito dal rito'
Sbaglieremmo di molto se dessimo per scontato che ciò che è per noi l'aspetto più importante e rilevante della religione lo era anche nella società antica di cui stiamo trattando. In relazione ad ogni società, antica o moderna che sia, troviamo da un lato la presenza di certe credenze e, dall'altro, di certe istituzioni, pratiche rituali e regole di condotta. L'abitudine di noi moderni è di guardare alla religione dal punto di vista delle credenze piuttosto che da quello delle pratiche. [...] Di conseguenza lo studio della religione ha significato lo studio delle credenze cristiane, e dove l'istruzione religiosa ha d'abitudine inizio con la confessione di fede, dove i doveri religiosi sono presentati al discepolo come se discendessero dalle verità dogmatiche che gli si insegna ad accettare. [...] Le antiche religioni erano per Io più prive di fede. Consistevano interamente di istituzioni e di pratiche. Certamente gli uomini non seguivano d'abitudine alcune pratiche senza collegare ad esse un qualche significato; ma di regola constatiamo che mentre la pratica era rigorosamente fissata, il significato ad essa connesso era estremamente vaI Da: William Robertson Smith, Lectures on the Religion of the Semites, Black, London, 1907' (ed. or. 1889), pp. 16-18. Tad. U. Fabietti.
go, e il medesimo rito era spiegato da persone diverse in maniera differente, senza che di conseguenza venisse sollevata una questione di ortodossia o eterodossia in materia. Nell'antica Grecia, ad esempio, certe cose venivano fatte in un tempio, e la gente concordava sul fatto che sarebbe stato empio non farle. Ma se aveste chiesto perché erano fatte, avreste probabilmente ricevuto molte diverse risposte contraddittorie da individui differenti e nessuno avrebbe pensato che il fatto di sceglierne una piuttosto che un'altra avrebbe avuto un significato religioso inferiore. La verità è che le diverse spiegazioni avanzate' non erano di quelle che suscitano sentimenti particolarmente forti; poiché in molti casi esse sarebbero coincise con storie diverse riguardanti semplicemente le circostanze in cui il rito venne stabilito per la prima volta per effetto di un ordine o di un esempio direttamente fornito dalla divinità. Il rito, insomma, non era connesso con un dogma, ma con un mito.[...] In una certa serie di miti la credenza non era considerata obbligatoria in quanto parte della vera religione, né si riteneva che, per il fatto di credere, un uomo acquistasse un qualche merito religioso e si conciliasse il favore degli dèi. Obbligatorio e meritorio era l'espletamento preciso di certi atti
William Robertson Smith La funzione sociale del sacrificio
sacri previsti dalla tradizione religiosa. Stando così le cose, ne consegue che la mitologia non doveva avere quel posto preminente che le è così spesso assegnato nello studio scientifico delle antiche religioni. Sebbene i miti consistano in spiegazioni del rituale, il loro valore è tuttavia secondario, e si può affermare con sicurezza che in quasi tutti i casi il mito era derivato dal rituale, e non il rituale dal mito; questo perché il rito era fisso e il mito variabile, il rito era obbligatorio e la credenza nel mito era a discrezione del fedele. Ora, la grandissima maggioranza dei miti delle religioni antiche era connesso coi riti di certi santuari, o con i comandamenti religiosi di tribù e regioni particolari. In tutti i casi del genere è probabile, e nella maggior parte di essi è sicuro, che il mito era la semplice spiegazione dell'usanza religiosa; e che
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di solito si tratta di una spiegazione tale che non avrebbe potuto emergere finché il significato originario della pratica non fosse più o meno caduto nell'oblio. Di regola il mito non costituisce la spiegazione dell'origine del rituale per chiunque non creda che si tratti del racconto di fatti realmente accaduti, e il più temerario studioso di mitologia non lo crederà di certo. Ma se non è vero, il mito stesso richiede una spiegazione, e qualunque principio della filosofia e del senso comune richiede che la spiegazione vada ricercata non in arbitrarie teorie allegoriche, ma nei fatti reali riguardanti il rito o le pratiche religiose a cui il mito è collegato. La conclusione è che nello studio delle religioni antiche dobbiamo cominciare non con il mito, ma con il rito e con la pratica della tradizione.
William Robertson Smith La funzione sociale del
sacrificio'
Qualunque atto di culto, per essere veramente completo – un semplice voto non poteva essere considerato tale finché non era dichiarato accompagnandolo con un sacrifico – aveva un carattere pubblico o quasi pubblico. La maggior parte dei sacrifici venivano offerti a periodi fissi, nelle grandi feste collettive o di carattere nazionale, ma anche un'offerta privata era considerata incompleta senza la presenza di ospiti e senza che i resti delle carni sacrificali, anziché essere vendute, fossero distribuite con grande generosità. Pertanto qualunque atto di culto esprimeva l'idea secondo cui l'individuo non vive per sé stesso ma solo per i suoi simili, e che questa comunanza di interessi è la sfera su cui vegliano le divinità e a cui queste ultime dispensano la loro benedizione. Il significato etico che va dunque attribuito al pasto sacrificale, considerato come un atto sociale, ricevette un'enfasi particolare per via di certe abitudini e di certe idee connesse con gli atti di mangiare e di bere. Secondo le idee anticamente connesse con tali atti, coloro che mangiano e bevono insieme sono, per il fatto stesso di compiere tali atti in comune, legati da amicizia e obbligazione reciproca. Di conseguenza, quando troviamo, nelle religioni antiche, che tutte le funzioni ordinarie di culto sono riassunte nel pasto sacrificale, e che il normale rapporto tra gli dei e gli uomini non riveste altra forma che questa. dobbiamo ricordarci che I Da: William Robertson Smith.
Lectures
On the
Reli,giun of die
Semites, Black, London, 1917' (ed. or. IS89), pp. 261-66.Trad. U. Fabieui.
l'atto di mangiare e di bere insieme è l'espressione solenne e riconosciuta del fatto che coloro che condividono il pasto sono fratelli, e che i doveri dell'amicizia e della fratellanza sono implicitamente riconosciuti nella loro comune azione. Accogliendo l'uomo alla sua tavola, il dio lo accoglie come amico; ma questo favore è esteso non ad un uomo in quanto individuo privato; egli è ricevuto, piuttosto, come un membro della comunità, a mangiare e a bere con i suoi compagni, e nella stessa misura in cui l'atto di culto cementa il legame tra lui e il suo dio. tale atto cementa anche il legame tra lui e i suoi fratelli in una fede comune_ Abbininocosì raggiunto un punto della nostra discussione a partire dal quale è possibile tentare una stima generale del valore etico del tipo di religione che è stato descritto. Il potere della religione sulla vita è duplice: da un lato tale potere consiste nella associazione di essa con particolari norme di condotta a cui assegna delle sanzioni sovrannaturali; ma soprattutto tale potere consiste nel determinare il tono generale e la tempra delle menti degli individui, che in tal modo vengono spronate al coraggio e a più alti ideali, e le eleva al di sopra della brutale servitù nei confronti degli istinti fisici insegnando agli uomini che la loro vita e la loro felicità non sono il semplice trastullo delle cieche forze della natura, ma che un potere più alto li sorveglia e si prende cura di loro- In quanto fonte ispiratrice di comportamento, questa influenza è più potente della paura nelle sanzioni sovrannaturali, dal momento che funge da stimolo. mentre quest'ultima è semplicemente regolativa.
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James George Frazer I principi della magia
Lewis H. Morgan L'organizzazione politica degli Irochesi
1 Da: James George Frazer, The Oolden Bough. A Stud y in Ma18911, trad. it. Il ramo d'oro, Boringhieri,Torino, 1965, pp. 23-24.
gic and Religion,
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Capitolo 3
James George Frazer I principi della magia' Se analizziamo i principi di pensiero su cui si basa la magia, troveremo probabilmente che essi si risolvono in due: primo, che il simile produce il simile, o che l'effetto rassomiglia alla causa; secondo, che le cose che siano state una volta a contatto, continuano ad agire l'una sull'altra, a distanza, dopo che il contatto fisico sia cessato. Il primo principio può chiamarsi legge di similarità, il secondo, legge di contatto o contagio. Dal primo di questi principi il mago deduce di poter produrre qualsiasi effetto, semplicemente coll'imitarlo. Dal secondo, a sua volta, deduce che qualunque cosa egli faccia a un oggetto materiale, influenzerà ugualmente la persona con cui l'oggetto è stato una volta in contatto, abbia o no fatto parte del suo corpo. Incantesimi basati sulla legge di similarità si possono chiamare magia omeopatica o imitativa. Incantesimi basati sulla legge di contatto o di contagio si possono chiamare magia contagiosa. Per denotare il primo di questi rami della magia è forse da preferirsi il termine di omeopatica, perché i termini di imitativa o mimetica, anche se non implicano, suggeriscono un agente conscio che imita, e pongono quindi dei limiti troppo ristretti al campo della magia. Infatti gli stessi principi che il mago applica in pratica alla sua arte, sono da lui implicitamente considerati come regolatori degli eventi della natura inanimata; in altre parole egli ammette tacitamente che le leggi di similarità e di contatto sono di applicazione universale e non limitate soltanto alle azioni dell'uomo. Insomma, la magia è tanto un falso sistema di leggi naturali quanto una guida fallace della condotta; tanto una falsa scienza quanto un'arte abortita. In quanto sistema di leggi naturali, ossia in quanto esposizione di quelle regole che determinano il succedersi degli eventi nel mondo, può prendere il nome di magia teoretica; considerata come una serie di precetti che gli uomini osservano per conseguire i loro scopi, si può chiamare magia pratica. Nello stesso tempo bisogna bene fissarsi in mente che il mago primitivo conosce la magia soltanto dal lato pratico: egli non analizza mai i processi mentali su cui la sua pratica poggia, né riflette mai sui principi astratti impliciti nelle sue azioni. Per lui, come perla maggior parte degli uomini, la logica è implicita, non esplicita;
Lewis H. Morgan L'organizzazione politica degli Irochesi' I fondatori della Confederazione irochese non cercarono di annullare le divisioni tribali del popolo per introdurre una diversa organizzazione sociale; al contrario, essi basarono la Lega stessa sulle tribù e. attraverso queste, cercarono di fondere la loro razza in un'unica famiglia politica. Una meticolosa esplorazione di queste relazioni tribali che caratterizzavano il sistema politico degli Irochesi si rende, perciò, indispensabile. Senza una conoscenza di questo genere, la forma stessa del governo risulterebbe completamente incomprensibile e inesplicabile. In ciascuna nazione si trovavano otto tribù, ordinate in due divisioni e chiamate nel modo seguente: Lupo Cervo
egli ragiona come digerisce il suo cibo, in completa ignoranza dei processi intellettuali e fisiologici che sono essenziali tanto a l'una che a l'altra operazione. La magia, in fondo, per cui è sempre un'arte. non mai una scienza; l'idea stessa di scienza manca del tutto nella sua mente poco sviluppata. È compito del filosofo rintracciare il processo mentale nascosto sotto la pratica del mago e trovare il bandolo dell'intricata matassa; estrarre i principi astratti dalle loro applicazioni concrete; insomma, discernere la falsa scienza sotto l'arte bastarda. Se la mia analisi della logica del mago è corretta, i suoi due grandi principi non sono altro che due diverse e cattive applicazioni del principio dell'associazione delle idee. La magia omeopatica è fondata sull'associazione delle idee per similarità; la magia contagiosa sull'associazione per contiguità. La magia omeopatica commette l'errore di postulare che le cose che si somigliano siano le stesse; la magia contagiosa commette l'errore di postulare che le cose che siano state una volta a contatto continuino a esserlo sempre.
Castoro Orso Beccaccino Airone
Giovane donna irochese (1850 ca.)
Tartaruga Falco
Questi [animali] sono comuni a tutte le latitudini. dalla Louisiana a Montreal, perciò in se stessi non possono gettare alcuna luce sul territorio o sulla località in cui la razza ebbe origine. Questi nomi avevano senza dubbio un significato simbolico. che andava oltre l'oggetto stesso. Sulle origini delle divisioni tribali si conosce pochissimo e, forse. queste hanno ben scarsa importanza. La tradizione afferma che le tribù originarie erano quelle dell'Orso e del Cervo e che le altre si formarono per suddivisione. [...] La suddivisione delle persone di ciascuna nazione in otto tribù, siano esse preesistite alla Confederazione o perfezionate al momento della sua fondazione, non esauriva il suo scopo entro la nazione stessa'-. Essa divenne il mezzo per realizzare la più perfetta unione di nazioni separate amai concepita dall'ingegno dell'uomo.. In effetti, la tribù del Lupo era suddivisa in cinque sezioni e ciascuna di esse era distribuita presso ognuna delle cinque nazioni. Le restanti tribù erano soggette alla stessa suddivisione e distribuzione. Tra quelle che portavano lo stesso nome – o, in altre parole, tra le sezioni separate di ciascuna tribù – esistevano legami di fratellanza che univano le nazioni con vincoli indissolubili. I Mohawk della tribù del Lupo ri-
I Da: Lewis II. Morgan. The League of the lui-de'-no-.eau-nee or Iroquois. 1851. trad. it. La Lega degli Ho-de'-no-san-nee. n Irochesi, CISIA Roma. 1998. pp. 53-56. 2 I Seneca avevano otto tribù, i Cayuga otto, i Tuscarora sette. gli Onondaga otto. gli Oneida tre e i Mohawk tre. I discendenti degli antichi Oneida e Mohawk affermano che i loro antenati non ebbero mai pii, di tre tribù. il Lupo. l'Orsoe la - tartaruga. In anti-
conoscevano i Seneca della tribù del Lupo come loro fratelli ed erano legati fra loro da vincoli di consanguineità. In maniera analoga gli Oneida della Tartaruga o di un'altra tribù ricevevano i Cavuga o gli Onondaga della stessa tribù come fratelli e con accoglienza fraterna. Tale relazione non era ideale, ma fondata sulla consanguineità effettiva. Agli occhi degli Irochesi, ciascun membro della tribù, in qualsiasi nazione, era suo fratello o sua sorella tanto quanto lo erano i figli della propria madre. Queste relazioni trasversali fra le diverse tribù che portavano lo stesso nome, che
chi trattati con queste nazioni. ora conservati al Dipartimento di Stato, questi titoli compaiono conte le uniche suddivisioni. Tuttavia, in base alle leggi originarie della Lega, nessuna di queste tribù poteva sposarsi al proprio interno. Così sembra evidenziarsi la necessità dell'esistenza in origine delle restanti tribù. o di alcune di esse, se si ammette la correttezza di questa legge relativa al matrimonio.
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Lewis H. Morgan Sistemi descrittivi e sistemi classificatori
era più forte ancora, se possibile, del vincolo di fratellanza tra le diverse tribù della stessa nazione, è tuttora serbato in tutta la sua forza originaria. Senza dubbio, esso costituisce la principale ragione della saldezza con la quale i frammenti della Lega ancora aderiscono fra loro. Se qualcuna delle cinque nazioni avesse desiderato abbandonare l'alleanza, avrebbe dovuto spezzare anche questi legami di fratellanza. Se le nazioni fossero entrate in conflitto, avrebbero opposto la tribù del Falco contro la tribù del Falco, l'Airone contro l'Airone, il fratello contro il fratello. La storia degli Ho-de'no-sali-me mostra la saggezza di questi accorgimenti organizzativi, perché durante il lungo perio-
do in cui la Lega sopravvisse, non sprofondò mai nell'anarchia e neppure si avvicinò alla dissoluzione a causa di disordini interni. [...] In questo modo venne costruita la Lega degli Hode'-no-sau-nee, in se stessa un esempio straordinario di legislazione indiana. Semplice nel suo fondamento basato sulle relazioni familiari, efficace nel perdurante vigore inerente ai legami di parentela, e perfetta nel suo successo nel conseguire l'unione permanente e armoniosa delle nazioni, essa si configura come un durevole monumento a quella razza fiera e capace di miglioramento, che seppe innalzare, sotto la sua protezione, una vasta sovranità indiana.
Lewis H. Morgan Sistemi descrittivi e sistemi
classificatori In senso generale, come è stato affermato altrove, non esistono che due diverse forme di consanguineità tra le nazioni: una è descrittiva, l'altra è classificatoria. La prima, che è quella delle famiglie ariana, semitica e uralica, evitando di classificare i parenti, descrive i consanguinei collaterali servendosi di modifiche o di combinazioni dei termini di relazione primari. Questi termini, che sono quelli di marito e moglie, padre e madre, fratello e sorella, figlio e figlia ai quali vanno aggiunti, nelle lingue che li possiedono, i termini di nonno. nonna e nipote, sono perciò ristretti al significato primario in cui sono qui impiegati. Tutti gli altri termini sono secondari. Ciascuna relazione di parentela è così resa indipendente e distinta da ogni altra. La seconda forma, invece, che è quella delle famiglie turanica, amerindiana e malese, evita sempre le proposizioni descrittive e applica gli stessi termini ai membri della stessa classe. Essa confonde perciò le relazioni che nel sistema di tipo descrittivo sono distinte, e allarga il significato tanto dei termini primari quanto dei termini secondari al di là del senso che è apparentemente loro proprio. [...] Nel sistema di parentela caratteristico delle famiglie ariana, semitica e uralica le linee collaterali sono mantenute distinte e sempre divergenti rispetto alla linea diretta, fatto che comporta tanto sul piano teorico quanto sul piano pratico una dispersione dell'unità del sangue. Il valore delle re1 Da: Lewis H. Morge n. St:+tents of Consanguinity and Affini:c o( the Munii" 'inni!. 1571. trod. it. parziale in Ugo Fabietti (a Cura). Afte origini delrantropoh,gia. Bollati- Boringhieri. Torino. 19982 , pp. 214; 215-17.
fazioni tra consanguinei collaterali è sminuito fino ad andare perduto sotto la laboriosità del metodo descrittivo. Questa divergenza è una delle caratteristiche del sistema descrittivo. Nel sistema delle famiglie turanica, amerindiana e malese, invece, le molte linee collaterali, siano esse prossime o remote, sono tutte ricondotte alla linea diretta e incorporate in essa così da prevenire, in teoria anche se non proprio in pratica, la dispersione dell'unità del sangue. Le relazioni con i parenti consanguinei collaterali sono così tenute in conto e allo stesso tempo conservate. L'incorporazione è parimenti una delle caratteristiche del sistema classificatorio. È assolutamente impossibile riuscire a spiegare l'origine di queste due forme di consanguineità così diverse nelle loro rispettive concezioni di fondo e così differenti nella loro struttura. Come primo problema si deve considerare la natura di queste due forme e la loro distribuzione etnica; una volta risolto questo problema, potrà essere presa in considerazione la ricerca delta loro probabile origine. L'esistenza di due forme radicalmente distinte sembra dividere la famiglia umana in due grandi gruppi, l'indoeuropeo e l'indoamericano, mentre lo stesso fatto sembra avvicinare tra loro le molte famiglie che compongono questa grande suddivisione, senza però per questo precludere la possibilità di scoprire il punto di separazione tra i due gruppi. Il fatto che i dati che si ricavano da questi sistemi di parentela tendano in effetti a confermare l'appartenenza delle famiglie suddette a uno dei due grandi gruppi, è un fatto importantissimo che parla in favore di una loro origine comune.
Lewis H. Morgan Le tecniche di sussistenza e i periodi etnici
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Lewis H. Morgan Le tecniche di sussistenza
e i periodi etnici' I remoti antenati delle nazioni ariane passarono presumibilmente attraverso un'esperienza simile a quella dei barbari e delle tribù selvagge attualmente esistenti. Sebbene l'esperienza di queste nazioni contenga in sé tutte le informazioni necessarie per illustrare i periodi della civiltà, sia antica che moderna, inclusa una parte propria del più tardo periodo della barbarie, la loro esperienza anteriore deve tuttavia venir dedotta principalmente dalla connessione che è possibile tracciare tra gli elementi delle loro istituzioni e invenzioni attualmente esistenti e gli elementi simili tuttora conservatisi nella cultura delle tribù selvagge e barbare. È possibile infine rilevare come l'esperienza dell'umanità abbia percorso canali pressoché uniformi; come in condizioni simili le necessità umane siano state sostanzialmente le stesse e come le 1 Da: Lewis H.' Morgan, Ancient Sxierr, 1877, trad. it. La società antica, Feltrinelli, Milano, 1970, pp. 5-6:9.
L'avanzata del
operazioni mentali si siano svolte in modo uniforme grazie alla specifica identità del cervello in tutte le razze dell'umanità. Questa tuttavia non è che una parte della spiegazione della risultante uniformità. I germi delle principali istituzioni e tecniche di vita si erano sviluppati quando l'uomo era ancora selvaggio. L'esperienza dei successivi periodi della barbarie e della civiltà, in larghissima misura venne spesa a sviluppare ulteriormente quelle concezioni originarie. Ovunque, in differenti continenti, sia possibile tracciare una connessione tra un'istituzione presente e uno di quei germi comuni, è implicata la derivazione del popolo stesso da un comune ceppo originario. La discussione di queste diverse classi di fatti verrà facilitata stabilendo un certo numero di periodi etnici, ciascuno dei quali rappresenti una distinta condizione della società e distinguibile per un modo di vita ad esso peculiare. I termini «età della pietra», «del bronzo» e «del ferro», dovuti agli archeologi danesi, si sono rivelati estrema-
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Franz Boas 11 metodo storico
Franz Boas 11 metodo storico
mente utili a certi determinati fini, e tali rimarranno per la classificazione di oggetti delle tecniche antiche; ma il progresso della conoscenza ha reso necessario introdurre altre, differenti suddivisioni. L'utilizzazione della pietra non era stata interamente abbandonata con l'introduzione del ferro, e tantomeno con quella del bronzo. Più esattamente, anzi, posto che il periodo degli utensili in pietra si sovrappone parzialmente ai periodi dei metalli, e data a sua volta anche l'intersezione di quello del bronzo con quello del ferro, si rende impossibile racchiudere ciascun periodo in una delimitazione che lo lasci indipendente e distinto dagli altri. Le tecniche di sussistenza, emerse a lunghi intervalli l'una dopo l'altra, finiranno probabilmente per fornire le basi più soddisfacenti di cosiffatte divisioni, considerata anche la grande influenza che esse debbono aver esercitato sulle condizioni dell'umanità. Ma in questa direzione le ricerche non sono state ancora condotte avanti in misura sufficiente per consegnarci le necessarie informazioni. Con ciò di cui disponiamo al livello attuale del sapere, il risultato più notevole potrà ottenersi selezionando ciascuna diversa invenzione o scoperta che possa offrire prove di progresso in sufficiente misura per caratterizzare ogni volta l'ingresso in qualche periodo etnico successivo. Anche se accettati soltanto in via provvisoria, que-
sti periodi risulteranno convenienti o utili, e si scoprirà come ciascuno di quelli che intendiamo proporre sia in grado di coprire una distinta cultura e di rappresentare un particolare modo di vita. [...] I. Stadio inferiore dello stato selvaggio: dall'infanzia della razza umana all'inizio del periodo successivo. II. Stadio intermedio dello stato selvaggio: dall'acquisizione della pesca come mezzo di sussistenza e dalla conoscenza dell'uso del fuoco al periodo successivo. • III. Stadio superiore dello stato selvaggio: dall'invenzione dell'arco e della freccia fino all'inizio del periodo successivo. IV. Stadio inferiore della barbarie: dall'invenzione dell'arte della ceramica fino allo stadio successivo: V. Stadio intermedio della barbarie: nell'emisfero orientale, dalla domesticazione degli animali in poi e, nell'emisfero occidentale, dalla coltivazione del mais e altre piante tramite irrigazione, insieme all'uso di pietre e mattone cotto al sole, fino allo stadio successivo. VI. Stadio superiore della barbarie: dall'invenzione del procedimento di fusione del ferro greggio, insieme all'uso di utensili di ferro, ecc. VII. Stadio della civiltà: dall'invenzione di un alfabeto fonetico, con l'uso della scrittura, fino ai giorni nostri. •
Capitolo 4 Franz Boas II metodo storico' Non possiamo affermare che l'evento dello stesso fenomeno è sempre dovuto alle stesse cause, e che in tal modo è dimostrato che la mente umana obbedisce alle stesse leggi in ogni luogo. Dobbiamo fare in modo che le cause dalle quali si è sviluppato siano ricercate, e che i paragoni siano ristretti a quei fenomeni i quali siano, per dimostrazione, effetti delle stesse cause. Dobbiamo insistere sul fatto che questa ricerca costituisce un preliminare per tutti gli studi comparativi di una certa ampiezza. [...]
In breve, prima di fare studi comparativi di una certa ampiezza è necessario dimostrare che è possibile sottoporre a paragone il materiale. [...] Abbiamo visto che i fatti non favoriscono per nul1 Da: Franz Boas, t tintiti del metodo comparativo in untropolo,tin- 1896, trad. it. in Laura Bonin e Antonio Marazzi, Antropologia culturale. Hoepli. Milano. 1970. pp. 131-33.
la l'assunto di cui stiamo parlando; che essi tendono invece verso la direzione opposta. Pertanto dobbiamo anche considerare che tutti i tentativi ingegnosi di costruire un vasto sistema dell'evoluzione della società hanno un valore molto dubbio, se non è fornita, contemporaneamente, una prova che gli stessi fenomeni debbono sempre aver avuto la stessa origine. Fino al momento in cui ciò non avviene, la supposizione è sempre a favore di una varietà di direzioni che lo sviluppo storico può aver assunto. Uno dei principali scopi della ricerca antropologica sarà quello di mettere a punto questo problema. Abbiamo convenuto che esistono certe leggi le quali regolano lo sviluppo della cultura umana, ed è nostro sforzo scoprirle. Oggetto della nostra ricerca è di scoprire i processi mediante i quali certi livelli di cultura si sono sviluppati. Anche gli stessi costumi e credenze non sono l'oggetto defi-
nitivo della ricerca. Desideriamo conoscere le ragioni per cui tali costumi e credenze esistono: in altre parole. desideriamo scoprire la storia del loro sviluppo. Il metodo attualmente impiegato più di frequente in ricerche di questo tipo. confronta le variazioni sotto l'influsso delle quali ricorrono i costumi o le credenze, e si sforza di trovare la causa psicologica comune che ne è alla base. Ho affermato che si deve sottoporre questo metodo ad una obiezione di carattere fondamentale. Abbiamo a disposizione un altro metodo, che per certi riguardi è molto più sicuro. Uno studio dettagliato dei costumi nella loro relazione con la cultura complessiva della tribù che li pratica, in correlazione con una ricerca della distribuzione geografica fra le tribù limitrofe, ci offre quasi sempre un mezzo per determinare con considerevole accuratezza le cause storiche le quali hanno portato alla formazione dei costumi in questione ed ai processi psicologici che operavano durante il loro sviluppo. I risultati di ricerche condotte con questo metodo possono essere triplici. Essi possono rivelare le condizioni ambientali che hanno creato o modificato elementi culturali; possono chiarire fattori psicologici che contribuiscono alla formazione della cultura; o possono metterci innanzi agli occhi gli effetti che le relazioni storiche hanno avuto sullo sviluppo della cultura. Abbiamo, con questo metodo, un mezzo per ricostruire la storia dello sviluppo delle idee con una accuratezza ben maggiore di quella che ci sarebbe consentita dalle generalizzazioni del metodo comparativo. Quest'ultimo deve sempre procedere da un tipo di sviluppo ipotetico. la probabilità del quale deve essere soppesata, più o meno accuratamente, per mezzo di dati osservati. Ma, finora. non ho ancor visto alcun ampio tentativo di provare la correttezza di una teoria. dimostrandola alla luce di sviluppi colle cui storie abbiamo familiarità. Mettere a tutti costi i fenomeni nella camicia di forza di una teoria è contrario al metodo induttivo dal quale si possono far derivare le effettive relazioni di determinati fenomeni. Quest'ultimo non è altro che il metodo storico molto ridicolizzato. Il suo modo di procedere, naturalmente, non è quello dei primi tempi, allorché lievi somiglianze di cultura erano considerate prove di parentela, ma riconosce, in maniera opportuna, i risultati ottenuti da studi comparativi. La sua applicazione si basa innanzitutto, su un piccolo territorio geografico ben definito, e le sue comparazioni non si estendono oltre i limiti dell'area culturale che forma la ba-
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se dello studio. Solo quando si saranno ottenuti precisi risultati concernenti quest'area sarà ammissibile estendere l'orizzonte oltre i suoi limiti, ma si dovrà avere la massima cura di non procedere con questo sistema in modo troppo affrettato. poiché diversamente, l'affermazione fondamentale che ho in precedenza formulato, potrebbe essere trascurata; vale a dire che. quando troviamo sing oli tratti analo g hi di cultura tra popoli lontani fra loro, non vale la congettura che vi sia stata una comune origine storica, ma quella che essi sono sorti separatamente. Pertanto la ricerca deve sempre esigere una continuità di distribuzione come una delle condizioni essenziali per dimostrare la connessione storica, e la supposizione di anelli di collegamento perduti deve essere applicata con la maggior moderazione possibile. Questa chiara distinzione fra i vecchi e i nuovi metodi storici tuttora è spesso trascurata dai difensori appassionati del metodo comparativo. Essi non apprezzano la differenza fra l'uso indiscriminato di somiglianze di cultura atte a dimostrare una connessione storica e lo studio accurato e lento dei fenomeni locali.
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Alfred L. Kroeber I principi delle terminologie di parentela
Franz Boas II potlatch
Franz Boas Il potlatch' È necessario descrivere il modo in cui il rango sociale viene acquisito. Questo consiste nel potlatch, o distribuzione di proprietà. Tale costume è stato descritto spesso, ma è stato largamente frainteso dalla maggior parte degli osservatori. Il principio sottostante ad esso è quello dell'investimento finalizzato all'ottenimento di un interesse.[...] Il possesso della ricchezza è considerato onorevole e lo scopo di ogni indiano è quello di accumulare una fortuna. Ma non è tanto il possesso di ricchezza, quanto piuttosto la possibilità di dare grandi feste ciò che fa della ricchezza l'oggetto delle aspirazioni degli indiani. Quando un ragazzo giunge all'età in cui prende il suo secondo nome e acquisisce lo status di adulto per mezzo di una distribuzione di beni, i quali nel tempo gli ritorneranno con l'interesse, il nome dell'individuo acquista maggior peso nei consigli della tribù, ed una maggiore fama tra la gente tutta nella misura in cui egli è in grado di distribuire quantità sempre maggiori di beni in feste successive. Di conseguenza ragazzi e adulti gareggiano tra loro per organizzare grandi distribuzioni di beni. Ragazzi di clan differenti sono incitati a contrapporsi dagli uomini più anziani, e ciascuno di loro viene esortato a fare del proprio meglio per superare il rivale. Allo stesso modo si comportano i capi e gli interi clan, per cui lo scopo di ogni indiano è quello di sconfiggere il proprio antagonista. Un tempo le dimostrazioni di coraggio contavano quanto la distribuzione dei beni ma oggi, dicono gli indiani, vi rivali si combattono solo con la proprietà. .[...1 Lungo tutta la costa del Pacifico settentrionale, sono usate delle strane tavole di rame modellato che in passato venivano prodotte utilizzando rame presente in Alaska e probabilmente anche nel fiume Nass, ma che oggi sono fabbricate grazie al rame d'importazione. La tipica forma di queste tavole di rame è quella della figura in alto a destra. La parte a forma di T che costituisce le due linee in rilievo, è martellata. La parte superiore è chiamata «la faccia», mentre la parte inferiore è la parte posteriore. La parte anteriore del rame è ricoperta di piombo nero, su cui è incisa una faccia, rappresentante l'animale-emblema del possessore. Questi rami hanno la stessa funzione che le banconote di grosso taglio hanno tra di noi. Il valore in senso stretto di ogni pezzo è piccolo, ma la sua funzione è quella di rappresentare un grande numero di coperte e può essere venduto solo in cambio di esse. 1 Da: Fran Boas, Tire Social Organization and the Secret Societiesofdte Kwakiutl Indians, Report of the U,S. National Museum for 1895. Government Printing Office, Washington, 1897, pp. 34144:353-54. Trad. U. Fahictti.
II valore di un rame non è fissato in maniera arbitraria, ma dipende dalla quantità di beni distribuiti nella festa in cui il rame viene venduto. Nel complesso quanto più spesso un rame viene venduto tanto più alto è il suo valore, dal momento che ogni nuovo compratore cerca di investire in esso un maggior numero di coperte. Di conseguenza l'acquisto di un rame porta distinzione a chi lo acquista poiché prova che il compratore è in grado di mettere assieme una grande quantità di beni. [...] La rivalità tra capi e clan ha la sua manifestazione più rilevante nella distruzione dei beni. Un capo brucerà coperte. una canoa, o romperà un rame, indicando così il suo distacco nei confronti della proprietà distrutta e mostrando che il suo spirito è più forte, e il suo potere maggiore di quello del rivale. Se quest'ultimo non è in grado di distruggere la stessa quantità di beni entro breve tempo. il suo nome sarà «spezzato». Sarà vinto dal suo rivale e la sua influenza nella tribù verrà perduta, mentre il nome dell'altro capo acquisterà, per contro, maggiore fama. Anche le feste possono essere considerate come distruzione di beni, in quanto il cibo offerto non potrà essere reso se non dando un'altra festa. Il tipo di festa più dispendiosa – chiamato «festa del grasso» – è quello in cui viene consumata e bruciata una enorme quantità di olio di pesce. Pertanto anch'essa contribuisce ad elevare il nome di chi può permettersi di darla, e mancare di ricambiarla in tempi brevi comporta una forte perdita di prestigio. Ancor più temuta è la rottura di un rame di valore. Un capo può rompere un rame e dare le parti rotte di esso al suo rivale. Se quest'ultimo tiene a conservare il proprio prestigio, deve rompere un rame di valore uguale o superiore, e dare tanto
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il suo rame spezzato quanto i frammenti ricevuti in un primo tempo al suo rivale. Quest'ultimo allora può pagare per il rame che ha così ricevuto. Il capo al quale sono stati dati i frammenti del primo rame può anche tuttavia rompere il suo rame e gettare il tutto in mare. [...] Nella grandissima maggioranza dei casi in cui le tavole di rame vengono spezzate, il rame è conservato. Il possessore spezza o taglia via una parte dopo l'altra finché rimane solo la struttura a forma di T. Questa è valutata due terzi del valore dell'intera tavola ed è l'ultima ad essere data via. [...] Pertanto un rame può essere spezzato in contesti differenti con rivali diversi. Alla fine qualcuno riesce a comprare tutti i frammenti, i quali sono nuovamente rimessi insieme facendo sì che il rame acquisti un valore ancora maggiore. Dal momento che il rame spezzato indica il fatto che il possessore ha distrutto dei beni, gli indiani sono orgogliosi di possederli.
Donna kwakiutt con un rame spezzato (1890 ca.)
Alfred L. Kroeber I principi delle terminologie
di parentela' La distinzione tra sistemi di parentela classificatori e sistemi di parentela descrittivi è stata largamente accettata, e si è fatta strada nei manuali e nei testi di carattere generale. Secondo l'opinione prevalente, i sistemi di certe nazioni o di certe lingue raggruppano insieme relazioni di parentela distinte chiamandole con lo stesso nome, e sono pertanto classificatori. Si afferma poi che altri sistemi di consanguineità indicano, al contrario, differenze secondarie tra le relazioni di parentela mediante I Da: Alfred L. Krocher, Claesi/icawr Spumi, of Relationship. 191ri1. trod. it. .Sistemi classificatori di parentela - in A.L. Kroeber. La natura della cultura- It Mulino, Bologna. 1974 (ed. or. 1952). pp. 31.1-14:314.
epiteti descrittivi aggiunti ai rispettivi termini primari, e si dicono pertanto descrittivi. Nulla potrebbe essere più erroneo di questo modo di vedere comune. [...] La parola inglese cousin [cugino] denota sia cugini che cugine, sia cugini per parte di padre sia cugini per parte di madre, cugini che discendono dal fratello di uno dei genitori o dalla sorella di uno dei genitori, cugini rispettivamente più vecchi e più g iovani di un determinato individuo, o cugini i cui genitori sono rispettivamente più vecchi o più giovani dei genitori di quell'individuo, nonché cugini di uomini o di donne. Una sola parola inglese denota pertanto trentadue relazioni di parentela diverse. [...]
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Alfred L. Kroeber (principi delle terminologie di parentela
4. Il sesso del parente.– In inglese questa distinzione viene realizzata in modo così coerente (l'unica eccezione è rappresentata dalla parola cousin, di origine straniera), che la discriminazione sembrerà probabilmente ovvia. Presso diversi popoli, tuttavia, molte relazioni di parentela non vengono distinte in base al sesso. Nonno e nonna, cognato e cognata, suocero e suocera, e perfino parenti stretti come figlio e figlia, vengono rispettivamente espressi con una stessa parola. 5. Il sesso di chi parla.– Questa categoria, che non è rappresentata in inglese e nella maggior parte delle lingue europee, risulta esere di grande importanza in molte altre lingue. Il padre, la madre, il fratello, la sorella e anche parenti più lontani possono essere designati in un modo da un uomo e in un altro da sua sorella. 6. 11 sesso
della persona attraverso cui passa la relazione di parentela. – In inglese questa categoria non è espressa. Perciò in diverse occasioni si
è costretti a spiegare se uno zio è fratello del padre o della madre, e se una nonna è paterna o materna.
7. Distinzione dei parenti di sangue dai parenti acquisiti per matrimonio. – Benché questa distin-
È evidente che ciò che dovremmo cercare di prendere in considerazione non sono le centinaia o migliaia di relazioni di parentela – dalle variazioni spesso insignificanti – che sono o possono venire espresse dalle diverse lingue umane, bensì i principi o le categorie che sono alla base delle relazioni di parentela. Si possono distinguere otto di queste categorie.
1. Differenza tra persone della stessa generazione e di generazioni diverse. – Il riconoscimento di questa categoria è implicito nelle distinzioni tra padre e nonno, tra zio e cugino, e tra una persona e suo padre.
2. Differenza tra parentela in linea retta e parentela collaterale.– Questa categoria è operante quando si distinguono il padre e il fratello del padre; è inoperante quando con uno stesso termine vengono designati il fratello e il cugino.
3. Differenza di età nell'ambito di una stessa generazione. – Un esempio è dato dalla frequente distinzione tra fratello maggiore e fratello minore. In inglese questa categoria è inoperante.
zione venga comunemente espressa dalla maggior parte delle lingue. di tanto in tanto si riscontrano omissioni, come quando nel linguaggio familiare inglese spesso si chiama padre il suocero. Non compreso rigorosamente nel campo delle relazioni di parentela, ma analogo alla saltuaria omissione dell'espressione di questa categoria, è il fatto che spesso i popoli primitivi ignorano la differenza tra parenti reali e parenti fittizi, clanici o tribali che siano_
8. La condizione di vita della persona attraverso cui passa la relazione di parentela. – La relazione può essere di sangue o acquisita per matrimonio, e la persona che funge da tramite della relazione può essere viva o morta, sposata o non più sposata. Molti indiani dell'America settentrionale evitano di adoperare termini come «suocero» o «suocera» dopo la morte della moglie o dopo essersi separati da essa. Alcuni arrivano al punto di possedere termini riservati a tali relazioni di parentela interrotte. È naturale che la relazione tra lo zio e il nipote orfano tenda a differenziarsi alquanto dalla relazione che egli aveva nei confronti dello stesso ragazzo quando era vivo suo padre, il protettore naturale. Talvolta, pertanto, si incontrano termini distinti per indicare parenti del gruppo degli zii e delle zie dopo la morte di un genitore. [...] Risulta che l'inglese esprime soltanto quattro categorie; ad eccezione però dell'unica parola coo-
Alfred L. Kroeber La natura della civiltà
sin, di origine straniera, ogni termine inglese implica il riconoscimento di ciascuna di queste quattro categorie. Tutte le lingue indiane esprimono da sei a otto categorie, e quasi tutti ne riconoscono sette. [...] I cosiddetti sistemi descrittivi esprimono in modo completo un piccolo numero di categorie di relazioni di parentela; invece, i sistemi erroneamente chiamati classificatori esprimono con minore re-
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golarità un numero maggiore di categorie. Giudicato dal suo punto di vista, l'inglese è il meno classificatorio; osservato dal punto di vista indiano è invece il più classificatorio, in quanto in ciascuno dei suoi termini manca la possibilità di riconoscere certe distinzioni compiute spesso da altre lingue; da un punto di vista generale e comparativo, nessuno di questi sistemi è più o meno classificatorio dell'altro.
Alfred L. Kroeber La natura della civiltà' ne del lento processo di ebollizione dell'acqua. L'espansione del liquido procede a lungo; la sua alterazione può essere osservata mediante il termometro, oltre che nel suo volume, nel suo potere dissolvente, e nella sua agitazione interna; ma rimane acqua. Alla fine, tuttavia, si raggiunge il punto di ebollizione. Si genera vapore e il tasso di incremento volumetrico aumenta di mille volte: in luogo di un fluido scintillante, che cola da ogni parte, si diffonde un gas volatile e invisibile. Non vengono violate né le leggi della fisica né quelle della chimica; la natura non viene spinta da parte; eppure si è verificato un salto: le lente transizioni accumulatesi da zero a cento vengono trascese in un istante,e la condizione di una sostanza caratterizzata da proprietà e possibilità nuove comincia ad apparire. Tale dev'essere stato in qualche modo il risultato della comparsa di questa cosa nuova, la civiltà. Non c'è alcun bisogno di ritenere che essa abbia abolito il corso dello sviluppo della vita, senza dubbio non ha minimamente eliminato il proprio sostrato costituito dall'organico, e non c'è motivo di credere che sia nata già con tutte le piume. Questi casi e queste modalità dell'inizio del sociale sono dopo tutto scarsamente importanti ai fini della comprensione della sua natura specifica, e della relazione tra la sua natura e il carattere della sostanza organica che l'ha assolutamente preceduta nel tempo e che ancora la sostiene. Ciò che conta è che vi fu l'aggiunta di qualcosa di qualitativamente nuovo, l'inizio di qualcosa che avrebbe seguito una strada propria. [...] II fatto che le nostre istituzioni, le nostre conoscenze e l'attività delle nostre menti siano avanzate vertiginosamente negli ultimi ventimila anni non è una buona ragione perché i nostri corpi e cervelli, il nostro equipaggiamento mentale e la sua base fisiologica siano avanzati in misura corrispondente, come sostengono talvolta gli scienziati II superur1 Alfred L. Kroeber, The Superor,,ani , 1017. trad. it. e come di solito dà per scontato l'opinione pubbliIl Mulino. Bolocultura. delta natura in A.L. Kroeber, !_n garico. ca in genere. gna, 1974 (ed. or. 1952), pp. 88-9 I.
L'inizio dell'evoluzione sociale, o della civiltà che è l'oggetto della storia, coincide dunque con quel mistero del pensiero volgare che è l'anello mancante. Ma l'espressione «anello» è ingannevole, perché fa pensare a una catena continua. Nel caso degli sconosciuti portatori della civiltà quale si era determinatta alle sue prime origini e andava gradatamente manifestandosi avvenne invece una profonda alterazione, anziché un mero miglioramento di ciò che già esisteva. Un fattore nuovo che avrebbe prodotto le proprie conseguenze indipendentemente, lentamente, che a prima vista appariva di scarsa importanza, ma che avrebbe acquistato sempre maggior peso, dignità e influenza, era ormai emerso. Si trattava di un fattore che era andato al di là della selezione naturale, che non dipendeva più interamente da qualche agente dell'evoluzione organica, e che per quanto scosso e agitato dalle oscillazioni dell'ereditarietà sottostante. riusciva tuttavia a galleggiare su di essa senza lasciarsi sommergere. L'alba del sociale non è dunque un anello di una catena. un passo lungo un cammino, ma un balzo su un piano diverso. Essa può essere paragonata al primo manifestarsi della vita nell'universo fino a quel tempo privo di vita, cioè al momento in cui tra un numero infinito di combinazioni chimiche ha avuto luogo quella che ha posto in essere l'organico. facendo sì che da quel momento in poi esistessero due mondi invece di uno. Allorché si svolse quell'evento apparentemente trascurabile le qualità e i movimenti degli atomi non subirono alcuna alterazione, la maestà delle leggi meccaniche del cosmo non fu diminuita, ma alla storia di questo pianeta fu inestinguibilmente aggiunto qualcosa di nuovo. Si potrebbe paragonare l'inizio della civiltà alla fi-
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Robert H. Lowie La specificità dell'etnologia
Robert H. Lowie La specificità dell'etnologia' È ormai chiaro che i fenomeni culturali contengono elementi che non possono essere ridotti a principi psicologici. La ragione di questa insufficienza è stata già individuata dalla definizione di cultura data da Tylor: «capacità ed abiti acquisiti dall'uomo come membro di una società». La scienza della psicologia, invece, anche considerando le sue più moderne ramificazioni, quali la psicanalisi e lo studio delle variazioni individuali del soggetto, non ha nulla a che fare con le caratteristiche intellettuali acquisite e nemmeno con l'influenza della società su pensiero, sentimento e volontà di un individuo. Essa, in linea di principio, agisce esclusivamente sulle caratteristiche innate dell'indivi-
duo. Ora, se consideriamo che una netta separazione tra l'innato e l'acquisito, tra l'attività individuale determinata unicamente da potenzialità individuali e quella determinata dall'ambiente sociale, possa esistere praticamente o meno, ci rendiamo conto che una cosa è chiara: ci sono fenomeni che sono acquisiti e non innati, che sono determinati socialmente e non individualmente. Quando un cristiano reagisce in una data maniera alla percezione della croce, appare chiaro che ciò non è dovuto ad una peculiarità soggettiva, perché gli altri cristiani reagiscono allo stesso modo. E, d'altra parte, non siamo di fronte ad una caratteristica dell'umanità in generale, dato che musulmani e buddisti reagiscono in maniera ben diversa. Innumerevoli esempi di questo tipo stanno a dimostrare che il pensiero individuale, i sentimenti, la volontà sono condeterminati da influenze sociali. Fin dove si estende il potere di tali fattori sociali noi abbiamo una cultura; quando, invece, conoscenza, emozione e volontà non sono il risultato dell'ambiente naturale, ma sono partecipate da altri membri della comunità senza essere su basi organiche meramente individuali, siamo davanti a qualcosa sui generis che richiede, per il suo studio, una scienza autonoma. Dobbiamo quindi dedurre da quanto abbiamo detto che non può esistere alcun rapporto tra psicologia e cultura e che l'etnologo può non tener in alcun conto i risultati conseguiti dallo psicologo? Nell'intento di rivendicare un posto al sole alla loro branca del sapere, alcuni etnologi si sono avvicinati a conclusioni di questo genere, se attualmente non le hanno addirittura raggiunte. Personalmente, vedo la questione da un diverso punto di vista. Qualsiasi divisione del lavoro si possa deRobert H. Lowie, Culture and Ethnology, 1917, trad. it. Cultura ed etnologia, Casini, Roma, 1968. pp. 2532.
siderare per l'economia di una ricerca scientifica, non dobbiamo dimenticare che la conoscenza, in quanto tale, ignora i compartimenti stagni. Inoltre, le scienze nominalmente distinte non sono subordinate le une alle altre, ma sussistono su di unpiano di assoluta eguaglianza e di reciproca utilità. Non possiamo ridurre le espressioni culturali a fenomeni psicologici, come la biologia non può venir confusa con la meccanica o la chimica, poiché in ciascun caso ciò che intendiamo spiegare viene ignorato da formulazioni più generiche. Tuttavia, per scopi specifici, lo studioso di fenomeni culturali può benissimo rivolgersi, per chiarire alcuni problemi, ad altre branche del sapere. È un problema culturale di grande importanza scoprire se gli aborigeni del Sud America conoscessero la tecnica del bronzo, cioè se essi producessero coscientemente la lega di rame e stagno. Evidentemente un etnologo può risolvere tale problema solo con l'aiuto di un chimico. Ben pochi potrebbero quindi negare che, per lo studio delle culture, servizi del tipo di questo fornito dalla chimica non possano essere resi anche dalla psicologia. Senza dubbio, molta gente ammetterebbe subito che la parentela con la psicologia è a priori positiva e che pertanto essa andrebbe maggiormente estesa e approfondita. Alcuni esempi serviranno ad illustrare come può essere concepita una tale parentela. Tra le idee pittoresche di cui abbondano le culture primitive c'è quella di attribuire a determinati numeri un peculiare carattere sacro. Una volta, un indiano dei Crow mi disse che ogni cosa nell'uni-, verso andava per quattro. Difatti molta parte della vita religiosa dei Crow risulta in armonia con questa concezione. Un importante atto cerimoniale viene simulato per tre volte, in modo da poter essere realizzato alla quarta; le processioni religiose
Émile Durkheim Le società segmentarie e la solidarietà meccanica
si fermano quattro volte; le canzoni vengono intonate da quartetti; nei racconti mitici è sempre il quarto attacco che porta l'eroe alla vittoria. Ora, questo fatto culturale sfugge ad ogni interpretazione psicologica. La prima cosa che ci colpisce è che una manifestazione del genere non è peculiare dei Crow, ma è presente tra i loro vicini e perfino fra tribù indiane lontane e collegabili lungo un'area continua. Dato che, al di fuori di quest'area, prevalgono come mitici altri numeri, non possiamo più considerare la visione sacra del numero quattro un tratto comune alla psicologia umana; dobbiamo invece dedurne che il concetto fu preso in prestito dalla maggior parte delle tribù che oggi lo detengono. Una ricerca più vasta ci insegna che concezioni analoghe, anche se non identiche, sono molto comuni. Il numero sette figura in
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alcune regioni dell'Asia, il tre nel folklore europeo, il cinque nell'Oregon e nel Nevada settentrionale, il sei tra gli Ainu di Yezo, il nove tra gli Yakuti, il dieci tra i filosofi pitagorici dell'antica Grecia: tutti numeri considerati sacri allo stesso modo del quattro per i Crow. Ora il fatto che un indiano Crow consideri il quattro come un numero sacro non significa che questa sia una sua peculiarità del tutto individuale, così come la reazione di un cristiano di fronte alla croce: non è la prova di una sua idiosincrasia psicologica. Individualmente, un indiano Crow potrebbe essere indifferente al numero quattro eppure considerarlo come sacro, poiché gli è stato insegnato a vederlo in quella determinata maniera. Ecco la differenza fondamentale tra etnologia e psicologia, la stessa che abbiamo già messo in luce.
Capitolo 5 Emile Durkheim Le società segmentarie e
la solidarietà meccanica' È una legge storica che la solidarietà meccanica, la quale dapprima è sola o press'a poco sola, perda progressivamente terreno, e che la solidarietà organica divenga progressivamente preponderante. Ma quando il modo in cui gli uomini sono solidali si modifica, la struttura delle società non può non mutare anch'essa. La forma di un corpo si trasforma necessariamente quando le affinità molecolari non sono più le stesse. Di conseguenza, se la proposizione precedente è esatta, vi devono essere due tipi sociali corrispondenti a queste due specie di solidarietà. Se cerchiamo di costituire col pensiero il tipo ideale di una società la cui coesione risulterebbe esclusivamente dalle rassomiglianze, dovremo concepirla come una massa assolutamente omogenea, le cui parti non si distinguerebbero le une dalle altre e quindi non si adatterebbero tra loro, una massa. in breve, sprovvista di qualunque forma definita e di qualunque organizzazione. Sarebbe l'autentico protoplasma sociale, il germe da cui sarebbero scaturiti tutti i tipi sociali. Noi proponiamo di definire orda l'aggregato così caratterizzato. E vero che non sono state ancora osservate, in maniera davvero autentica, società che rispondano in1 Da: tintile Durkheim, De !u dinniune du tra vail soda. 1893, trad. it. La divisione del lavoro sociale, Newton Compton, Roma. 1977'. pp. 153-86. 2 Si tratta degli Irochesi studiati da Nlorg,[n (e. Cap. 31.
teramente a queste caratteristiche. Tuttavia, si ha il diritto di postularne l'esistenza poiché le società inferiori, dunque più vicine a questo stadio primitivo, sono costituite da una semplice ripetizione di aggregati del genere. Troviamo un modello quasi perfettamente puro di questa organizzazione sociale tra gli Indiani dell'America settentrionale. Ogni tribù irochese, ad esempio, è formata da un certo numero di società parziali (la più voluminosa ne comprende otto). le quali presentano tutte i caratteri che abbiamo appena indicato. Gli adulti dei due sessi vengono considerati eguali. I capi'- che guidano ciascuno di questi gruppi, il consiglio dei quali amministra gli affari comuni della tribù, non godono di alcuna superiorità. La parentela stessa non è organizzata; infatti non si può dare questa definizione alla distribuzione della massa per strati di generazioni. Nell'epoca tarda in cui furono osservati questi popoli, vi erano alcuni obblighi specifici che univano il bambino ai suoi parenti materni; ma le sue relazioni si riducevano ancora a poca cosa e non si distinguevano sensibilmente da quelle che egli intratteneva con gli altri membri della società. In linea di principio, tutti gli individui di una stessa età erano allo stesso grado parenti. In altri casi, ci avviciniamo anche di più all'orda; Fison e Howitt descrivono delle tribù australiane che comprendono solo due di queste divisioni. Diamo il nome di clan all'orda che ha cessato di
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Emile Durkheim Totem, religione e società
Emile Durkheim Clan e totem
essere indipendente, per divenire l'elemento di un gruppo più esteso, e quello di società segmentarie a base di clan ai popoli che sono costituiti da un'associazione di clan. Diciamo che queste società sono segmentarie per indicare che sono formate dalla ripetizione di aggregati simili tra loro, analoghi agli anelli del lombrico, e diciamo che questo aggregato elementare è un clan, perché questa parola ne esprime correttamente la natura mista, insieme familiare e politica. È una famiglia, nel senso che tutti i membri che la compongono si considerano parenti gli uni degli altri, e infatti essi sono per la maggior parte consanguinei. Le affinità che la comunità del sangue genera sono principalmente quelle che li tengono uniti. Inoltre, essi intrattengono gli uni con gli altri relazioni che possiamo qualificare domestiche, poiché le ritroviamo altrove, nell'ambito di società il cui carattere familiare è incontestabile; intendo parlare della vendetta collettiva, della responsabilità collettiva e, quando comincia a fare la sua apparizione la proprietà individuale, dell'eredità reciproca. Ma, da un altro lato, non si tratta di una famiglia nel senso proprio del termine; infatti, per farne parte, non è necessario avere con gli altri membri del clan rapporti definiti di consanguineità. È sufficiente presentare un criterio esterno, che consiste generalmente nel fatto di portare uno stesso no-
me. [ ..]
In qualunque modo la definiamo, questa organiz-
zazione, come l'orda di cui non è che un prolungamento, non comporta evidentemente altra solidarietà da quella che deriva dalle affinità, poiché la società è formata da segmenti similari e questi ultimi, a loro volta, racchiudono solo elementi omogenei. Senza dubbio, ogni clan ha una fisionomia propria e di conseguenza si distingue dagli altri; ma in tal modo la solidarietà è tanto più debole quanto più essi sono eterogenei, e inversamente. Perché l'organizzazione segmentaria sia possibile, è necessario insieme che i segmenti si assomiglino, senza di che non sarebbero uniti, e che differiscano, senza di che si perderebbero gli uni negli altri e si cancellerebbero. Secondo le società, queste due necessità contrarie vengono soddisfatte in differenti proporzioni; ma il tipo sociale rimane identico. Questa volta siamo usciti dal campo della preistoria e delle congetture. Non soltanto questo tipo sociale non ha nulla d'ipotetico, ma è quasi il più diffuso tra le società inferiori; e sappiamo che esse sono le più numerose. Abbiamo già visto come fosse generale in America e in Australia. Post lo segnala come molto frequente tra i negri dell'Africa'; gli Ebrei si sono attardati in esso, e i Kabili non l'hanno ancora superato. 3 Afrikaniscitelurisprudenc, 1 . 4 Cfr. Hanoteau e Letourneus, La Kabylie et les cotuamès krebyles, II e Masquerav. Formativi' des cités chez les populations sédentaires de l'Algérie- Paris. 1586, cap. V.
Emile Durkheim Clan e totem' Alla base della maggior parte delle tribù australiane troviamo un gruppo che occupa nella vita collettiva un posto preponderante: è il clan. Due aspetti fondamentali lo caratterizzano. In primo luogo, gli individui che lo compongono si considerano uniti da un legame di parentela, che è però di natura molto particolare. Questa parentela non deriva dal fatto che essi abbiano tra loro relazioni definite di consanguineità; essi sono parenti per il solo fatto di portare uno stesso nome- Essi non sono reciprocamente padri, madri, figli o figlie, zii o nipoti, nel senso che diamo attualmente a queste espressioni; e tuttavia si considerano come membri di una sola famiglia, grande o piccola secondo le dimensioni del clan, per il solo fatto di essere collettivamente indicati da una stessa parola. E se diciamo che si considerano di una stessa fa1 Da: Emile Durkheim, Le formes élémentaires de la vie religiense, 1912, trad. it. Le forme elementari della vita religiosa, Comunità, Milano, 1963, pp. I05-1O.
miglia, è perché essi si riconoscono reciprocamente doveri identici a quelli che in ogni tempo spettano ai parenti: doveri di assistenza, di vendetta, di lutto, obbligo di non sposarsi tra di loro ecc. Ma per questo primo carattere il clan si differenzia dalla gens romana e dal ghènos greco: anche la parentela dei gentili proveniva esclusivamente dal fatto che tutti i membri della gens portavano Io stesso nome, il nonren gentilicinm. E senza dubbio. in un certo senso la gens è un clan: ma è una varietà del genere che non deve essere confusa con il clan australiano. Ciò che distingue quest'ultimo ì; il fatto che il nome che esso porta è anche quello di una specie determinata di cose materiali con cui crede di avere rapporti particolari, dei quali esporremo più tardi la natura: si tratta comunque di rapporti di parentela. La specie di cose che serve a designare collettivamente il clan si chiama totem: il totem del clan è anche quello di ciascuno dei suoi membri. [...]
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Cerimonia totemica (Aborigeni australiani Warramunga,1895 ca.)
Di conseguenza due gruppi che abbiano lo stesso totem possono essere soltanto due sezioni dello stesso clan. Certamente accade spesso che un clan non risieda interamente in un'unica località, ma abbia rappresentanti in luoghi diversi. La sua unità non cessa tuttavia di essere sentita, anche quando non abbia una base geografica. Quanto alla parola totem, è quella che adoperano gli Ojibwai, tribù algonkina, per designare la specie di cose di cui un clan porta il nome. Benché l'espressione non abbia nulla di australiano e si incontri anzi in una sola società dell'America, gli etnografi l'hanno definitivamente adottata e se ne servono per indicare in generale l'istituzione che stiamo descrivendo- Schoolcraft ha per primo esteso in questo modo il senso della parola, parlando di un «sistema totemico». Questa estensione - di cui vi sono abbastanza numerosi esempi in etnografia - non è certo senza inconvenienti. Non
è normale che un'istituzione di questa importanza rechi un nome di fortuna, preso da una lingua strettamente locale e che non ricorda affatto i caratteri distintivi della cosa indicata. [...] Gli oggetti che servono da totem appartengono, nella maggioranza dei casi, al regno vegetale o al regno animale, ma soprattutto a quest'ultimo: le cose inanimate sono impiegate molto più raramente. Su oltre cinquecento nomi totemici rilevati da Howitt fra le tribù dell'Australia sud-orientale ce n'è soltanto una quarantina che non siano nomi di piante o di animali; e sono le nubi, la pioggia, la grandine, la brina, la luna, il sole, il vento, l'autunno, l'estate, l'inverno, certe stelle, il tuono, il fuoco, il fumo, l'acqua, l'ocra rossa, il mare. Si osserverà il posto limitato fatto ai corpi celesti ed anche, in genere, ai grandi fenomeni cosmici, che pure erano destinati a una così grande fortuna nel successivo sviluppo religioso. [...]
Emile Durkheim Totem, religione e società' Poiché il totemismo è dominato interamente dalla nozione di un principio quasi divino, immanente a certe cate g orie di uomini e di cose e concepito sotI Da: dmile Durkheim. Les torn u's élétnentttires de le rie re/igiea.re, 1912. trad. it. Le [orme elementari della vita religiosa. Comunità. Milano. 1'1(3; pp. 227-28.
to una forma animale o vegetale, spiegare questa religione vuol dire essenzialmente spiegare questa credenza, cioè ricercare in quale modo gli uomini abbiano potuto essere indotti a costruire questa idea e con quali materiali l'abbiano costruita. Evidentemente non è attraverso le sensazioni che potevano sorgere nelle coscienze le cose che servi-
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Emile Durkheim Totem, religione e società
Lucien Lévy-Bruhl La legge di partecipazione
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Lucien Lévy-Bruhl La legge di partecipazione i
vano da totem; ed infatti abbiamo mostrato che queste sono spesso insignificanti. La lucertola, il bruco, il topo, la formica, la rana, il tacchino, la reina, il susino, il cacatoa, e via dicendo – per citare alcuni nomi che ritornano spesso nelle liste dei totem australiani – non sono di natura tale da produrre nell'uomo quelle grandi e forti impressioni che possono in qualche modo assomigliare alle emozioni religiose e imprimere un carattere sacro agli oggetti che le suscitano. Indubbiamente lo stesso non vale per gli astri e per i grandi fenomeni atmosferici, che hanno invece tutto ciò che occorre per colpire vivamente le immaginazioni: ma è stato giustamente riscontrato che essi servono da totem soltanto in caso eccezionale; ed anzi è probabile che siano stati chiamati ad assolvere tale compito solo più tardi. Non è dunque la natura intrinseca della cosa di cui il clan portava il nome a designarla conte oggetto di colta D'altra parte, se i sentimenti che questa ispira fossero realmente la causa determinante dei riti e delle credenze totemiche, essa costituirebbe l'essere sacro per eccellenza; e gli animali o le piante usati come totem avrebbero un posto eminente nella vita religiosa. Ma noi sappiamo che il centro del culto è altrove: sono le rappresentazioni figurative di questa pianta o di questo animale, sono gli emblemi e i simboli totemici
di ogni specie che posseggono il massimo grado di santità; in essi risiede dunque la fonte della religiosità di cui gli oggetti reali che questi emblemi rappresentano ricevono soltanto un riflesso. Così il totem è anzitutto un simbolo, un'espressione materiale di qualche altra cosa: ma di che cosa? Dall'analisi stessa che abbiamo condotto risulta che esso esprime e simboleggia due specie di cose diverse. Da un lato esso costituisce la forma esteriore e sensibile di ciò che abbiamo chiamato il principio o il dio totemico; ma dall'altro è anche il simbolo di questa società determinata che si chiama clan. Ne è la bandiera; è il segno in virtù del quale ogni clan si differenzia dagli altri, il segno visibile della sua personalità, impresso su tutto ciò che fa parte del clan a qualsiasi titolo – uomini, animali e cose. Se esso è dunque insieme il simbolo del dio e della società, ciò non vuoi forse dire che il dio e la società fanno tutt'uno? In quale modo l'emblema del gruppo avrebbe potuto diventare l'immagine di questa quasi-divinità, se il gruppo e la divinità costituissero due realtà distinte'? Il dio del clan, il principio totemico, non può esser dunque che il clan medesimo, ma ipostatizzato e presentato all'immaginazione sotto la forma sensibile del vegetale o dell'animale che serve da totem.
Non soltanto le sequenze dei fenomeni più sorprendenti passano spesso inavvertite allo spirito dei primitivi, ma altrettanto spesso essi credono fermamente a sequenze che non si verificano mai. L'esperienza non ha per loro né la funzione di disingannarli, né quella di istruirli. In un'infinità di casi la loro mentalità, e lo abbiamo visto più sopra, è impermeabile all'esperienza. Pertanto, quando attribuiscono alle sottane dei missionari la responsabilità della siccità o quando rinvengono la causa di un'epidemia nella presenza di un ritratto, non è semplicemente l'effetto di una consecutività nel tempo, che si registrerebbe nel loro spirito e diventerebbe per loro un rapporto di causalità. Il loro processo mentale è differente, più complesso. Quel che noi chiamiamo esperienza e consecutivita dei fenomeni non trova presso i primitivi spiriti semplicemente pronti a riceverle e disposti a subirne passivamente l'impressione. Al contrario questi spiriti occupati innanzitutto da un gran numero di rappresentazioni collettive, in virtù delle quali qualsiasi oggetto, che sia esso un essere vivente, un oggetto inanimato o strumento uscito dalla mano dell'uomo, si presentano a loro tutti pieni di proprietà mistiche. Di conseguenza, indifferenti il più delle volte ai rapporti oggettivi, questi spiriti sono soprattutto attenti ai legami mistici, attuali o virtuali. Questi legami precostituiti non derivano la loro origine dall'esperienza presente e contro di essi nulla può assolutamente fare l'esperienza. [...] Consideriamo piuttosto questi legami in se stessi e cerchiamo se essi non dipendano da una legge generale, fondamento comune di questi rapporti mistici, che la mentalità dei primitivi tanto spesso paventa, tra gli esseri e gli oggetti. Orbene. esiste un elemento che non manca mai in questi rapporti. Sotto forme e gradi diversi, tutti implicano una partecipazione» tra gli esseri e gli oggetti legati in una rappresentazione collettiva. E per questo che, in mancanza di un termine migliore, io chiamerò legge di partecipazione il principio proprio della mentalità «primitiva» che è alla base dei legami e dei prelegami di queste rappresentazioni. [...] Per esempio, «i Trumai (tribù del nord del Brasile) affermano di essere degli animali acquatici. – I Bororo (tribù vicina) si vantano di essere degli araras (pappagalli) rossi». Ciò non significa soltanto che dopo la loro morte essi diventano ara-
I Da: Ldvy-Bruhl, Les functions nrentale.s clans Its socierè.s inferieures, 1910, trad. it. Psiche e socierù primirirr. Newton Compton, Roma, 1970, pp. 103-105. 2 K. von den Steinen, Ueter den Natunvlkern Zeruralhrdsiliens, pp. 305 e 306.
ras e neppure che gli araras sono dei Bororo che hanno subito una metamorfosi e debbono essere trattati come tali. Si tratta di cosa ben diversa. «I Bororo (dice von den Steinen, che non voleva crederlo ma che ha dovuto cedere di fronte alle loro formali affermazioni). danno freddamente ad intendere che essi sono attualmente degli araras, esattamente come se un bruco dicesse di essere una farfalla»'. Non è un nome che essi si danno, non è una parentela che proclamano. Quel che essi vogliono far comprendere è un'identità essenziale. Che essi allo stesso tempo siano degli esseri umani, come in realtà sono, e degli uccelli dalle rosse piume, è una cosa assolutamente inconcepibile per von den Steinen. Ma per una mentalità che si basa sulla legge di partecipazione non v'è difficoltà alcuna ad accettarla. Tutte le società di tipo totemico comportano rappresentazioni collettive dello stesso genere. che implicano un'identità simile tra gli individui di un gruppo totemico e il loro totem.
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Lamberto Loria e Aldobrandino Mochi
Capitolo 6 Lamberto Loria e Aldobrandino Mochi
Importanza dell'etnografia dell'Italia' Giustamente gli etnologi procurano di raccogliere nei loro musei e nei loro scritti la maggior copia possibile di notizie e di manufatti dei popoli più distanti da noi per posizione geografica e per civiltà, innanzi che il progresso livellatore porti'anche tra i barbari e tra i selvaggi i prodotti industriali e i costumi nostri, destinati certo ad imporsi rapidamente ad un numero sempre crescente di popoli, innanzi che questi stadi di civiltà così differenti dal nostro vadano scomparendo o trasformandosi. Ma per trovare documenti e tracce non scarse di civiltà ben diverse da quella in cui viviamo noi europei civili, e interessanti e degni di studio quanto quelle dei selvaggi, non' occorre davvero andare molto lungi. Anche vicino a noi, nello stesso ambito geografico in cui si sono svolte e fioriscono le nostre attuali civiltà, sopravvive pur oggi un popolo che in alcune delle sue manifestazioni si dimostra ancora molto simile ai barbari o ai selvaggi: vive tra noi un popolo presso il quale l'industria rimane ancora in gran parte in quello stato di tecnica e di indifferenziazione in cui la ritroviamo presso le razze meno evolute; un popolo la cui morale è in ritardo di parecchi secoli rispetto alla nostra, i cui prodotti artistici sono sempre molto lontani dal nostro gusto estetico e si accostano piuttosto a quelli delle antiche stirpi preistoriche o dei selvaggi d'Africa, d'Australia, d'America; un popolo che in certi luoghi si accontenta di abitare in naturali caverne come i vetusti trogloditi, o in casupole di pietre e di fango, che spesso costruisce nei campi, con paglia e rami di albero, rifugi ben più miseri delle capanne di tanti selvaggi, che usa ancora talvolta, per difendersi dal sole o dal vento, il riparo degli Australiani; un popolo la cui fede più salda (nonostante l'apparenza dei riti esterni) è tuttora il primitivo animismo, le cui concezioni intellettuali non sorpassano quelle dell'umanità infantile. E questo il popolo vivente in romiti villaggi, in isole poco frequentate, lungo le spiagge, nei piani e sui monti d'Italia, in tutti quegli angoli riposti delle nostre campagne dove non è ancora giunta la civiltà irradiante dai centri popolosi; è il popolo infimo delle nostre città, che la miseria esclude dai benefici del viver civile e tiene lontano da ogni proI Da: Lamberto Loria e Aldobrandino Muchi, Museo di Finografia Italiana in Firenze. Sulla raccolta di materiali per la Etnografia italiana, 1906, ora in Sandra l'uccisi (a cura). L'uomo e gli uomini. Scritti di antropologi italiani dell'Ottocento. CISL. Ruma, 1991, pp. 245-47.
Robert Hertz La morte è un «transito»
Importanza dell'eutografta dell'Italia
venze, dovrebbe a parer nostro interessare l'antropologo almeno quanto quello degli indigeni del centro dell'Africa e dell'Australia. E ciò per molte ragioni. Vedendo il baratro grande che sta tra la vita misera e quasi selvaggia dei contadini, dei marinai, dei pescatori, dei montagnoli, dei popolani tutti delle nostre regioni meno evolute, e quella delle agiate classi cittadine saremmo certo tratti a tentare di colmarlo, di attenuarlo almeno, con ogni nostra forza. Eppoi,si profonde differenze presenta la vita locale nelle diverse regioni della patria (parliamo specialmente per noi italiani), che l'unità politica è per ora in molti casi l'unico vincolo, e quasi artificiale, che leghi in una sola compagine i vari popoli della penisola fino ad oggi rimasti pressoché estranei gli uni agli altri. [...] Si aggiunga infine che siffatti studi permetteranno di conoscere la varia indole, il diverso valore intellettuale, le differenti qualità morali delle genti che costituiscono la nostra nazione: dati dei quali abbisogna l'educatore e talvolta anche l'uomo di Stato.
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E ci faranno intendere pure nella loro pienezza il pensiero ed il sentimento nazionale, che non sono né deve credersi siano solo quelli espressi dai portavoce dei pochi eletti, o dalla letteratura e dell'arte officialmente riconosciute come italiane, bensì ancora quelli che fioriscono spontanei e rozzi si manifestano fra i milioni e milioni di fratelli nostri pur oggi lontani dalla coltura civile, ma non per questo indegni di essere ascoltati, non per questo meno italiani di noi. [..-] Lo studio del nostro popolo dovrebbe dunque interessarci ben più di qualunque altro capitolo di Etnografia, come argomento a noi più vicino e di sicura utilità pratica. E dovremmo anche affrettarci a raccogliere dappertutto quello che resta dei caratteristici documenti della locale vita popolare, se non vogliamo ritrovarne in un avvenire assai prossimo solo scarsi ed alterati avanzi; perché la nostra civiltà modernissima invaderà ben presto (auguriamocelo, convinti che, nonostante i suoi vizi inevitabili, la civiltà offre sempre grandi vantaggi) i più riposti cantucci delle campagne e le spiagge più remote e i più isolati paeselli montani.
Capitolo 7 Robert Hertz La morte è un «transito» gresso. Di questo popolo e delle secolari sopravvivenze che esso presenta facciamo troppo scarso conto e troppo facilmente dell'uno e delle altre ci dimentichiamo, noi che della civiltà nostra italiana parliamo, nello stesso modo in cui altri parla di quella tedesca, francese, spagnuola, inglese, ecc., e tutti della europea in genere, come se queste civiltà si distendessero in modo omogeneo e continuo sui paesi da cui prendono il nome. [...] E non pensiamo che anche tra noi, in Italia, come in Germania, in Francia e in tutti i paesi europei o europeizzati, la civiltà di cui ci vantiamo è finora un privilegio di pochi, di pochissimi anzi; e che la gran massa del nostro popolo ha ancor oggi appena appena di che invidiare quei selvaggi, i quali a prima vista ci sembrano così lontani da noi e a noi tanto inferiori. Ma ricordiamo che anche tra noi accanto all'automobile sopravvive la treggia, presso allo strumento del più fino acciaio quello di pie-
tra, vicino al solido palazzo, eccellente difesa contro i rigori del clima, il tugurio provvisorio e mal chiuso, insieme all'ode del Carducci ed al pensiero di Spencer, il rozzo canto popolare e la bassa superstizione. Lo studio di questo popolo e di queste sopravvi-
La morte non si limita a metter fine all'esistenza corporea, visibile, di un vivo; essa distrugge contemporaneamente l'essere sociale che si sovrappone all'individualità fisica, a cui la coscienza collettiva attribuiva un'importanza. una dignità più o meno grandi. Ora, la società ha istituito questo «essere» sociale mediante veri e propri riti di consacrazione, mettendo in gioco energie proporzionali al valore sociale del defunto: la sua distruzione equivale a un sacrilegio che implica l'interven-
go di potenze dello stesso ordine, ma di un carattere in qualche modo negativo. L'opera di Dio non può essere disfatta che da lui stesso o da Satana. È per questa ragione che gli uomini primitivi non vedono nella morte un fenomeno naturale: essa è sempre dovuta all'azione di influssi spirituali, sia che con la violazione di qualche tabù il defunto abbia attirato sudi sé la disgrazia, sia che un nemico lo abbia ucciso con incantesimi o riti magici. Gli etnografi che ci riferiscono questa credenza generale la ritengono un errore grossolano e perI Da: Robert Herz, (nude our la repre,emion collective de la
mors, 19117. trad. ii. in 12. Hertz. Stilla rappreseaa:rone collettiva della morte. Savelli. Ronca. 1978. pp. 84-88.
sistente; ma noi dobbiamo considerarla piuttosto come l'espressione ingenua di una necessità sociale permanente. Difatti la società comunica agli individui che la compongono il suo carattere di perennità: poiché si sente e si considera immortale, essa non può credere normalmente che i suoi membri, soprattutto quelli in cui incarna, nei quali si identifica, siano destinati a morire; la loro distruzione non può essere che l'effetto di una sinistra macchinazione. [._] Poiché ha fede in se stessa, una società sana non può ammettere che un individuo che ha fatto par-
te della sua sostanza, sul quale ha impresso il suo marchio, sia perduto per sempre; l'ultima parola deve restare alla vita: in forme diverse, il defunto uscirà dal mondo angoscioso della morte per rientrare nella pace della comunione umana. Questa liberazione, questa reintegrazione costituiscono, come abbiamo visto, uno degli atti più solenni della vita collettiva nelle società meno avanzate di cui abbiamo notizia. E quando, più vicino a noi, la Chiesa cristiana garantisce a quelli che saranno entrati pienamente in essa «la resurrezione e la vita», non fa che formulare, rinnovandola, la promessa che ogni società religiosa fa implicitamente
Robert Hertz La polarità religiosa
Cerimonia funebre dei Warramunga (Australia 1895 ca.)
ai suoi membri. Solo ciò che era opera della collettività stessa, operante per mezzo di riti adatti, diventa attributo di una persona divina, di un Salvatore che, con la sua morte-sacrificio, ha trionfato sulla morte e ne ha liberato i suoi fedeli; la resurrezione, invece di essere effetto di una determinata cerimonia, è un effetto della grazia di Dio, rinviato a un termine indefinito. Così, in qualunque momento dell'evoluzione religiosa noi ci situiamo, all'idea della morte si lega quella di una resurrezione; all'esclusione succede una nuova reintegrazione. [...] Ma la stessa concezione è presente. in modo oscuro e vago, fin dall'inizio dell'evoluzione religiosa: raggiungendo i suoi padri, il morto rinasce trasfigurato, elevato a una potenza e a una dignità superiori: in altri termini, la morte agli occhi dei primitivi è una iniziazione.
Questa formula non è semplice metafora; se è vero che per la coscienza collettiva la morte è il passaggio dalla società visibile a quella invisibile, questa è un'operazione esattamente analoga a quella con cui il giovane viene tolto dalla società delle donne e dei bambini e introdotto in quella degli uomini adulti; questa nuova integrazione che permette all'individuo di accedere ai misteri sacri della tribù implica, anch'essa, un cambiamento profondo della sua persona, un rinnovamento del suo corpo e della sua anima che gli fa acquisire la necessaria capacità religiosa e morale. E l'analogia tra i due fenomeni è così fondamentale che questo cambiamento si verifica molto spesso attraverso la morte figurata dell'aspirante, seguita dalla sua rinascita a una vita superiore.
Robert Hertz La polarità religiosa' La prevalenza della mano destra è obbligatoria, contrario, un vero e proprio interdetto pesa sulla imposta dalla costrizione, garantita da sanzioni; al • mano sinistra e la paralizza. La diversità di valore e di funzione esistente tra i due lati del nostro cor po presenta quindi al più alto grado i caratteri di una istituzione sociale; e lo studio che intende dar1 Da: Robert Herte. La préeminence de la n n is droitr. Eturk stir ne conto dipende dalla sociologia. Più precisala potarité religieuse. trad. it. La prenunerr_ n drQu mano destra. in mente, si tratta di tracciare di nuovo la genesi di R. Hertz. Sulla rappresentazione collettiva della morte. Savelli Roma.1' 75', pp. 133-140. un imperativo in parte estetico e in parte morale. _
È sotto una forma mistica, sotto il dominio di credenze e di emozioni religiose che sono nati e si sono sviluppati gli ideali che, laicizzati, dominano ancor oggi il nostro comportamento. La spiegazione del privilegio di cui gode la mano destra dobbiamo dunque cercarla nello studio comparato delle rappresentazioni collettive. Il mondo spirituale dei primitivi è dominato da un'opposizione fondamentale: quella tra il sacro e il profano. Alcuni esseri o oggetti, in virtù della loro natura e dei riti compiuti, sono come impregnati di un'essenza particolare che li consacra, li isola, gli comunica poteri straordinari e d'altra parte li assoggetta a un insieme di regole rigide e di restrizioni. Le cose o le persone, private di questa qualità mistica, non dispongono di alcun potere, di alcuna dignità; esse sono comuni, libere, a parte l'interdizione, di entrare in contatto con ciò che è sacro. Ogni accostamento, ogni confusione degli esseri e le cose appartenenti alle classi opposte sarebbe nefasto per ambedue: da ciò deriva il gran numero di queste interdizioni, di questi tabù che, mentre li séparano, proteggono al tempo stesso i due mondi. [...] Il dualismo, essenziale per il pensiero dei primitivi, domina la loro organizzazione sociale. Le due metà o fratrie che costituiscono la tribù si oppongono reciprocamente come il sacro e il profano. Tutto ciò che si trova all'interno della mia fratria è sacro e mi è interdetto; per questo non posso mangiare il mio totem, né versare il sangue di uno dei miei, né toccare il suo cadavere, né sposarmi nel mio clan. Al contrario, la metà opposta è per me profana; spetta ai clan che la compongono fornirmi i viveri, le donne e le vittime umane, sotterrare i miei morti e preparare le mie cerimonie sacre. Dato che la comunità primitiva si sente investita di un carattere religioso, la vita sociale ha come condizione necessaria l'esistenza, nella stessa tribù, di una frazione opposta e complementare, che possa Iiberamente assumere le funzioni interdette ai membri del primo gruppo. L'evoluzione sociale sostituisce questo dualismo reversibile con una struttura gerarchica e rigida: al posto dei clan, distinti ma equivalenti, compaiono classi e caste di cui una, al vertice, è essenzialmente sacra, nobile, votata alle attività superiori mentre l'altra, alla base, è profana o immonda e dedita a compiti vili. Il principio che assegna agli uomini il loro rango e la loro funzione è rimasto lo stesso: la polarità sociale è sempre un riflesso e una conseguenza della polarità religiosa. L'intero universo si divide in due mondi contrari: le cose, gli esseri, i poteri si attirano o si respingono, si implicano o si escludono, secondo che gravitino verso l'uno o l'altro dei due poli. Nel principio sacro risiedono i poteri che conservano e ac-
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crescono la vita, che danno la salute, la preminenza sociale, il coraggio in guerra e la superiorità nel lavoro. Al contrario, il profano (in quanto irrompe nel mondo sacro), l'impuro sono essenzialmente debilitanti e letali; è da questo lato che provengono le influenze funeste che opprimono, sminuiscono, rovinano gli esseri. Così, da una parte, abbiamo il polo della forza, del bene, della vita; dall'altra il polo della debolezza, del male, della morte. O se si preferisce una terminologia più recente, da una parte gli dei, dall'altra i demoni. Tutte le opposizioni presenti in natura manifestano questo fondamentale dualismo. La luce e le tenebre, il giorno e la notte, l'oriente e il sud da una parte, l'occidente e il nord dall'altra, traducono in immagini e localizzano nello spazio le due classi opposte di poteri soprannaturali: da un lato, la vita risplende e sale, dall'altro scende e si spegne. Lo stesso contrasto esiste tra l'alto e il basso, tra il cielo e la terra: lassù la sacra dimora degli dei, degli astri che non conoscono la morte; quaggiù la regione profana dei mortali che la terra inghiotte e, ancora più giù, le tenebrose regioni in cui si nascondono i serpenti e la folla dei demoni. Il pensiero primitivo attribuisce un sesso a tutti gli esseri dell'universo e persino agli oggetti inanimati; tutti vengono ripartiti in due immense classi secondo che siano considerati maschi o femmine. Presso i maori, l'espressione torna tane, «lato maschile», designa le cose più diverse: la virilità dell'uomo, la discendenza in linea paterna, l'est, la forza creatrice, la magia offensiva, ecc., mentre l'espressione opposta tanta wahine, alato femminile», vale per tutti i contrari. Questa distinzione che è di portata cosmica, cela in fondo la primordiale antitesi religiosa. Infatti generalmente l'uomo è sacro e la donna è profana; esclusa dalle cerimonie del culto, la donna vi è ammessa solo per una funzione caratteristica, quando occorra levare un tabù, cioè compiere nelle condizioni volute una vera e propria profanazione. [...] Come potrebbe il corpo dell'uomo, il microcosmo sfuggire alla legge di polarità che regola tutte le cose? La società, l'universo intero hanno un lato sacro, nobile, prezioso e un altro profano e comune, un lato maschile, forte, attivo e un altro femminile, debole, passivo; in una parola, un lato destro e uno sinistro: e soltanto l'organismo umano dovrebbe essere simmetrico? Ciò, se ci pensiamo bene è impossibile: un'eccezione simile non costituirebbe solo un'inespicabile anomalia, distruggerebbe l'intera economia del mondo spirituale. Poiché l'uomo è al centro della creazione, tocca a lui manipolare, per dirigerle al meglio, le temibili forze che fanno vivere e morire. E pensabile che tutte queste cose e questi poteri. separati e contrari, che si escludono a vicenda, possano abominevolmente
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Arnold Van Gennep La classificazione dei riti
confondersi nella mano del sacerdote e dell'artigiano? È una necessità vitale che ognuna delle due mani «ignori ciò che fa l'altra»: il precetto evangelico non fa che applicare a una circostanza speciale questa legge d'incompatibilità dei contrari, che vale per tutto il mondo religioso. [...] Presso i maori, la destra è il lato sacro, sede dei poteri buoni e creatori; la sinistra è il lato profano, che non possiede alcuna virtù ma solo, come vedremo, alcuni poteri oscuri e sospetti. Lo stesso contrasto si presenta, nel corso dell'evoluzione religiosa, in forme più precise e meno impersonali: la destra è il lato degli dei, sul quale plana la bianca figura di un buon angelo tutelare; il lato sinistro destinato a esserne dominato. Se anche oggi la destra è designata come la mano bella e buona e la sinistra come la mano brutta e cattiva, possiamo individuare in queste locuzioni puerili l'eco attenuato delle qualifiche e delle emozioni religiose che per molti secoli sono state applicate ai due lati del nostro corpo. [...]
Emile Durkheim e Marcel Mauss Le classificazioni australiane
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A mano a mano che si discende la serie delle civiltà – termine questo da intendersi nella sua accezione più ampia – si riscontra un più esteso predominio del mondo sacro su quello profano; infatti, nelle società meno evolute a noi note, esso ingloba pressappoco tutto: nascere, partorire, cacciare ecc. sono azioni che attengono, per la maggior parte dei loro aspetti, al sacro. Analogamente le società speciali sono organizzate su basi magico-religiose, e il passaggio dall'una all'altra assume l'aspetto di quel passaggio particolare che da noi è contraddistinto da riti determinati, quali il battesimo, l'ordinazione sacerdotale ecc. Ancora in questo tipo di civiltà, società speciali intersecano parecchie società generali: un gruppo totemico, per esempio, 'costituisce una stessa unità presente nelle diverse tribù australiane, e i suoi membri si considerano come fratelli allo stesso titolo di tutti i preti cattolici, in qualsiasi paese essi vivano.
Emile Durkheim e Marcel Mauss Le classificazioni australiane' Arnold Van Gennep La classificazione dei riti' In qualsiasi tipo di società la vita dell'individuo consiste nel passare successivamente da un'età all'altra e da un'occupazione a un'altra. Là dove le età, e quindi le corrispondenti occupazioni, sono tenute separate, questo passaggio si accompagna ad atti particolari: essi. per esempio, costituiscono, rispetto ai nostri mestieri, l'apprendistato, mentre, per i popoli semicivilizzati, si espletano in cerimonie religiose, giacché presso di loro nessun atto è completamente svincolato dal sacro. Ogni mutamento di situazione dell'individuo viene a comportare dunque delle azioni e delle reazioni tra il profano e il sacro: queste azioni e reazioni devono essere appunto regolamentate e controllate, affinché la società generale non subisca né disagi. né danni. È il fatto stesso di vivere che rende necessario il passaggio successivo da una società speciale a un'altra e da una situazione sociale a un'altra. cosicché la vita dell'individuo si svolge in una successione di tappe nelle quali il termine finale e l'inizio costituiscono degli insiemi dello stesso ordine: nascita, pubertà sociale, matrimonio, paternità, progressione di classe. specializzazione di occupaI Da: Arnold Van Gennep. Les rites de passage. 1909, trad. ti ili passaggio, Boringhicri,Torino, 1981. pp. 4-7.
il. I ri-
zione, morte. A ciascuno di questi insiemi corrispondono cerimonie il cui fine è identico: far passare l'individuo da una situazione determinata a un'altra anch'essa determinata. Essendo identico il fine, è perciò necessario che i mezzi per conseguirlo siano, se non proprio identici nei particolari, almeno analoghi: l'individuo infatti si è venuto modificando, giacché ha superato parecchie tappe e ha oltrepassato molte frontiere. Di qui la somiglianza generale delle cerimoine della nascita, dell'infanzia, della pubertà sociale, del fidanzamento, del matrimonio, della gravidanza, dalla paternità, dell'iniziazione alle società religiose e dei funerali. Né l'individuo né la società, d'altra parte, sono indipendenti dalla natura, dall'universo; il quale, peraltro, è esso stesso soggetto a ritmi che hanno le loro ripercussioni sulla vita umana. Persino nella vita dell'universo esistono tappe e momenti di passaggio, avanzamenti e fasi di arresto relativo, interruzioni. È necessario perciò anche riconnettere le cerimonie dei passaggi cosmici alle cerimonie di passaggio umane: da un mese all'altro (cerimonie del plenilunio, per esempio), da una stagione all'altra (cerimonie dei solstizi e degli equinozi), da un anno all'altro (cerimonie di Capodanno ecc.).
Non soltanto la nostra nozione attuale della classificazione ha una storia, ma questa stessa storia presuppone una considerevole preistoria. In realtà, lo spirito umano ha preso le mosse da uno stato di massima indistinzione. [...] Se discendiamo fino alle società meno evolute. quelle che i Tedeschi definiscono col termine alquanto vago di Naturvolker, troveremo una confusione mentale ancora più completa. Oui l'individuo perde la sua personalità. Nessuna distinzione c'è fra l'individuo e la sua anima esteriore, e nessuna ce n'è fra l'individuo e il suo totem. La sua personalità e quella del suo fellow-anirnal sono un tutt'uno. L'identificazione giunge al punto che l'uomo finisce col prendere i caratteri della cosa o dell'animale a cui egli si è in tal guisa accostato. Per esempio, a Mabuiag, gli uomini del clan del coccodrillo sono ritenuti avere il temperamento del coccodrillo: sono superbi. crudeli, sempre disposti al combattimento. Presso certi Sioux esiste una sezione della tribù, che vien detta rossa e che comprende i clan del leone di montagna, del bufalo, dell'alce. tutti animali tipici peri loro istinti violenti; i membri di questi clan sono, fin dalla nasci-
I Da: Emile Durkheim e Marcel Mauss. De gaelques formes primitives de classificatimi, 1901-2, trad. it. Su alcune forme primitive di classificazione, in E. Durkheim. H. Hubert. \7. Mauss. Le origini dei poteri uu{gici, noringhicri, Torino. 1972. pp. 20-32.
ta, gente da guerra. Quelli che coltivano la terra, gente invece tranquilla per natura, appartengono a dei clan i cui totem sono animali essenzialmente pacifici. [...] Non è vero, dunque, che l'uomo classifichi spontaneamente e per una sorta di necessità naturale: agli inizi, fanno difetto all'umanità anche le condizioni indispensabili alla funzione classificatrice. E poi basta analizzare l'idea di classificazione per comprendere che l'uomo non poteva trovare in se stesso gli elementi essenziali. Una classe è un gruppo di cose; orbene, le cose non si offrono all'osservazione di per se stesse raggruppate. Noi possiamo sì scorgerne più o meno vagamente la somiglianza; ma il solo fatto di codeste similitudini non basta a spiegare in qual modo siamo indotti ad aggruppare gli esseri che in tal guisa si assomigliano, e a riunirli in una sorta di mezzo ideale, chiuso in limiti determinati, mezzo che noi chiamiamo genere. specie, ecc. Nulla ci autorizza a supporre che il nostro spirito. nel nascere, porti già fatto in sé il prototipo del quadro elementare di ogni classificazione. [...] E d'altra parte il classificare non sta solamente nel costituire dei gruppi, ma nel disporre i gruppi secondo peculiarissime relazioni. I gruppi noi ce li rappresentiamo come coordinati o subordinati gli uni agli altri. diciamo che questi (le specie) sono inclusi in quelli (i generi). che i secondi sussumono i primi. Ve ne sono di quelli che dominano e altri
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Emile Durkheim e Marcel Mauss Le classificazioni australiane
che sono dominati, e altri ancora che non dipendono né dagli uni né dagli altri. Ogni classificazione implica un ordine gerarchico cui né il mondo sensibile nè la nostra coscienza offrono il modello. È dunque il caso di chiederci ove lo abbiamo cercato. Le stesse espressioni di cui ci serviamo per caratterizzarlo ci autorizzano a pensare che tutte codeste nozioni logiche siano di origine extra-logica: diciamo che le specie di uno stesso genere sono strette da rapporti di parentela, certe classi le chiamiamo famiglie; e il termine stesso non designava forse, primieramente, un gruppo familiare (yévo5)? Questo complesso di fatti ci porta a congetturare che lo schema della classificazione non sia un prodotto spontaneo dell'intendimento astratto, ma il risultato di una elaborazione in cui sono entrati ogni sorta di elementi estranei. [...] In realtà l'unico modo di rispondere al problema è d'indagare le classificazioni più rudimentali che uomo abbia fatto, allo scopo di vedere con quali elementi esse classificazioni sono state edificate. Riporteremo qui appresso un certo numero di classificazioni assai primitive, e il cui significato complessivo non pare dia luogo a dubbi. I sistemi di classificazione più elementari, fra quanti ne conosciamo, sono quelli osservati nelle tribù australiane. È noto quale sia il tipo di organizzazione più diffuso in tal tipo di società: ogni tribù si divide in due grandi sezioni fondamentali chiamate fratrie. Ciascuna fratria, a sua volta, comprende un certo numero di clan, gruppi di individui, cioè, aventi uno stesso totem. In linea di principio, i totem di una fratria non si ritrovano nell'altra fratria. Oltre ad essere divisa in clan, ogni fratria si divide in due classi che chiameremo matrimoniali. Si tratta infatti di una organizzazione che ha il precipuo scopo di regolare i matrimoni: una determinata classe di una fratria non può contrarre matrimonio se non con una determinata classe dell'altra fratria. L'organizzazione generale della tribù finisce quindi col disporsi nel seguente modo: classe matrimoniale A FRATRIA I
classe matrimoniale B
FRATRIA II
clan dell'emu clan del serpente clan del bruco, ecc,
classe matrimoniale A' clan del canguro clan dell'opossum classe matrimoniale ! B' clan del COfVO. ecc.
Il connubio è autorizzato fra le classi designate con una stessa lettera (A A' e B B'). Tutti i membri della tribù si trovano pertanto classificati in quadri definiti, i quali si inseriscono gli uni negli altri: orbene, la classificazione delle cose
riproduce le classificazione degli nomini.[...]
Una classificazione siffatta è di una semplicità estrema, poiché si riduce ad una mera bipartizione: ogni cosa è collocata nelle due categorie che corrispondono alle due fratrie. Il sistema si fa più complesso quando a inquadrare la distribuzione degli esseri interviene non più soltanto la divisione in fratrie, ma anche la suddivisione nelle quattro classi matrimoniali. È quello che accade fra i Wakelbura del Queensland nord-centrale. [...] Un altro sistema di classificazione, più completo c forse anche più caratteristico, è quello in cui le cose sono ripartite non più per fratrie e per classi matrimoniali, ma per fratrie e per clan o totem. L'esempio si riferisce alla tribù del Mont-Gambier, e le informazioni relative sono dovute allo Stewart che l'ha conosciuta a fondo. La tribù in questione si divide in due fratrie chiamate l'una Kumite e l'altra Kroki; due nomi che del resto sono assai diffusi in tutta l'Australia del sud, ove li si adopera nello stesso senso. Ciascuna delle fratrie è, a sua volta, divisa in cinque clan totemici a filiazione uterina. E fra questi clan si ripartiscono le cose. A nessuno dei clan è lecito consumare i commestibili che vengono in tal guisa a essergli assegnati. «Un uomo non uccide e non mangia nessun animale che appartenga alla ripartizione cui egli stesso appartiene». Ma oltre alle specie animali e vegetali interdette, a ogni classe si collega una moltitudine infinita di cose di ogni specie. «Le fratrie Kumite e Kroke (Kroki) si dividono ciascuna in cinque sotto-classi (s'intenda clan.totemici) sotto di cui (sic) si dispongono taluni oggetti che essi chiamano loontan (che significa carne) o wingo (che significa amico). Tutte le cose della natura appartengono all'uno o all'altro di questi dieci clan. Il Curr ci indica, ma solo a titolo di esempio, alcune delle cose in tal guisa classificate. Il primo dei totem Kumite, è il totem del Mula o falco prescatore; gli appartengono, ovvero – come dicono Fison e Howitt – vi sono inclusi il fumo, il caprifoglio, degli alberi, ecc. Il secondo totem è quello del Paragal o pellicano, al quale si collegano l'albero del legno nero, i cani, il fuoco, il ghiaccio, ecc. Il terzo è quello del Wa o corvo, a cui sono sottoposti la pioggia, il fulmine, il lampo, la grandine, le nuvole, ecc. Il quarto totem è quello del Wila o cacatoa nero, al quale si rifanno la luna, le stelle, ecc. Infine al totem del Karato (serpente innocuo) appartengono il pesce, l'albero dai filamenti, il salmone, la foca, ecc. ecc. Sui totem della fratria Kroki, siamo meno informati: non ne conosciamo che tre. AI totem Werio (albero del te) si ricollegano le anitre, i wallabies, le galline, i gamberi, ecc.; a quello del Murna (specie di radice commestibile) si collegano il dolvich
Marcel Mauss Lo spirito della cosa donata
(specie di piccolo canguro), le quaglie, ecc.; a quello del Karaal (cacatoa bianco, senza cresta), il canguro, la falsa quercia, l'estate, il sole, l'autunno (genere femminile), il vento (stesso genere). In conclusione siamo in presenza di un sistema ancor più complesso del precedente e più esteso di quello. Non si tratta più soltanto di una classificazioni in due generi fondamentali (fratrie), ciascuna comprendente due specie (le due classi matrimoniali). Non vi è dubbio che anche qui il numero dei generi fondamentali è ancora quello, ma il numero delle specie di ciascun genere è assai più considerevole, poiché i clan possono essere molto numerosi. Ma intanto, in questa organizzazione più differenziata permane tuttavia, ed è sensibile, lo stato di confusione iniziale da cui lo spirito umano ha preso le mosse. Sei gruppi distinti si sono moltiplicati, all'interno di ciascun gruppo elementare l'indistinzione è tuttora sovrana. Le
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cose attribuite ad una fratria. sononettamente separate da quelle attribuite all'altra fratria: altrettanto distinte sono le cose assegnate ai diversi clan di una stessa fratria. Però tutte le cose comprese in un solo e unico clan sono, in larga misura. indifferenziate. Esse sono di una identica natura; non contemplano linee di dermarcazione così come non ne contemplano le varietà più basse delle nostre classificazioni. Gli individui del clan, gli esseri della specie totemica, quelli delle specie finitime, sono tutti aspetti diversi di una sola e identica realtà. Le ripartizioni sociali penetrate nella primitiva massa delle rappresentazioni, hanno potuto – sì – tagliarvi dentro un certo numero di quadri delimitati, ma l'interno di tali quadri è rimasto relativamente amorfo, il che testimonia la lentezza e la difficoltà con la quale si è fissata la funzione classificatrice.
Marcel Mauss Lo spirito della cosa donata' Taonga indica in maori, in tahitiano, in togano e in magarevano tutto ciò che è proprietà vera e propria, tutto ciò che rende ricchi, potenti, influenti, tutto ciò che può venire scambiato, essere oggetto di compensazione. Si tratta esclusivamente dei tesori, dei talismani, dei blasoni, delle stuoie e degli idoli sacri, e qualche volta anche delle tradizioni, dei culti e dei rituali magici. [...] Questa osservazione ci induce a una constatazione molto importante. I taonga, almeno nell'ambito del pensiero giuridico e religioso maori, sono fortemente legati alla persona, al clan, al suolo; sono il veicolo del suo «mana», della sua forza magica, religiosa e spirituale. In un proverbio, fortunatamente raccolto da Sir G. Gray e C.O. Davis, essi sono pregati di distruggere l'individuo che li ha accettati. Il che vuol dire che contengono tale forza, nei casi in cui il diritto, e soprattutto l'obbligo di ricambiare, non venisse rispettato. [...) A proposito dello hau, dello spirito delle cose e, in particolare, di quello della foresta e della selvaggina che essa contiene, Tamati Ranaipiri, uno dei migliori informatori muori di Elsdom Best, ci offre del tutto casualmente e senza alcuna prevenzione, la chiave del problema. «Vi parlerò dello han... Lo han non è il vento che soffia. Niente affatto. Supponete di possedere un oggetto determinato (taonga) I Da: Marcel Mauss. !usai sur lr don. 1923-24, triti. it. Saggio sul domo. in M. Mats. Moria generale drtia magia e e altri saggi. Einaudi,'tùrino, I965, pp. 168-72.
e di darmi questo oggetto; voi me Io date senza un prezzo già fissato. Non intendiamo contrattare al riguardo. Ora, io do questo oggetto a una terza persona che, dopo un certo tempo, decide di dare in cambio qualcosa come pagamento (uni): essa mi fa dono di qualcosa (taonga). Ora, questo taonga che essa mi dà è lo spirito (han) del taonga che ho ricevuto da voi e che ho dato a lei. I taortga da me ricevuti in cambio dei taonga (pervenutimi da voi), è necessario che ve li renda. Non sarebbe giusto
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Fritz Graebner La comparazione nella teoria diffnsionista
(tika) da parte mia conservare per me questi taonga, siano essi graditi (rawe) o sgraditi (kino). Io sono obbligato a darveli, perché sono uno hau del taonga che voi mi avete dato. Se conservassi per me il secondo taonga, potrebbe venirmene male, sul serio, perfino la morte. Questo è lo hau, Io hau della proprietà personale, lo han dei taonga, lo hau della foresta. Kati ena (basta su tale argomento)». Questo testo fondamentale merita qualche commento. Prettamente maori, impregnato di uno spirito teologico e giuridico ancora impreciso (le dottrine della «casa dei segreti»), ma mirabilmente limpido a tratti, è oscuro solo in un punto: l'intervento di una terza persona. Tuttavia, per comprendere bene il giurista maori, basta dire: «I taonga e tutti i beni rigorosamente personali sono dotati di uno hau, di un potere spirituale. Voi me ne date uno, io lo do a una terza persona; quest'ultima me ne dà un altro perché è spinta a fare ciò dallo hau del mio regalo; ed io sono obbligato a darvi questo oggetto, perché è necessario che vi renda ciò che in realtà è il prodotto dello hoe del vostro taonga». Così interpretata, l'idea non solo diventa chiara.. ma appare come una delle idee fondamentali del diritto maori. Ciò che obbliga, nel regalo ricevuto e scambiato, è che la cosa ricevuta non è inerte. Anche se abbandonata dal donatore, è ancora qualcosa di lui. Per mezzo di essa, egli ha presa sul beneficiario, così come, per mezzo di essa, ha presa, in quanto proprietario, sul ladro. Il taonga, infatti, è animato dallo hau della sua foresta, della sua terra, del suo suolo; è veramente «native»: lo han insegue tutti i detentori. Esso insegue non solo il primo donatario, ed anche eventualmente un terzo, ma ogni individuo al quale il taonga venga semplicemente trasmesso. In fondo, è lo han che desidera tornare al luogo della sua nascita, al santuario della foresta e del clan e al proprietario. È il taonga o il suo han – elle, d'altra parte, è esso stesso una specie di individuo – che si attacca a tutti coloro che ne beneficiano, fino a che questi ultimi non rendano, prendendolo dai propri
taonga, dai propri beni, o dal proprio lavoro o dal proprio commercio, con banchetti, feste e donativi, un equivalente o un valore superiore, che, a sua volta, darà ai donatori autorità e potere sul primo donatore, divenuto ultimo donatario. Ed ecco l'idea fondamentale che sembra presiedere, alle Samoa e in Nuova Zelanda, alla circolazione obbligatoria delle ricchezze, dei tributi e dei doni. Quanto precede illumina due importanti sistemi di fenomeni sociali polinesiani e anche non polinesiani. Innanzitutto, si coglie la natura del vincolo giuridico creato dalla trasmissione di una cosa (ritorneremo tra poco su questo punto e mostreremo come tali fatti possano costituire un contributo per una teoria generale della obbligazione). È chiaro, per il momento, che nel diritto maori, il vincolo giuridico, vincolo attraverso le cose, è un legame di anime, perché la cosa stessa ha un'anima, appartiene all'anima. Donde deriva che regalare qualcosa a qualcuno equivale a regalare qualcosa di se stessi. In secondo luogo, ci si rende meglio conto, in tal modo, della natura stessa dello scambio di doni, di tutto ciò che noi chiamiamo prestazioni totali e, tra queste ultime, del «potlàc». Si comprende chiaramente e logicamente, nel quadro di questo sistema di idee, che è necessario rendere altrui ciò che è in realtà una particella della sua natura e della sua sostanza; accettare, infatti, qualcosa da qualcuno equivale ad accettare qualcosa della sua essenza spirituale, della sua anima; tenere per sé questa cosa sarebbe pericoloso e mortale, non solo perché sarebbe illecito, ma anche perché questa cosa che proviene da una persona, non solo moralmente, ma anche fisicamente e spiritualmente, questa essenza, questo nutrimento, questi beni, mobili o immobili, queste donne o questi discendenti, questi riti o queste comunioni. dànno una presa magica e religiosa su di voi. La cosa donata, infine, non è una cosa inerte. Animata, spesso individualizzata, essa tende a rientrare in quello che Hertz chiamava il suo «focolare d'origine» o a produrre, per il clan e il suolo da cui è uscita, un equivalente che la sostituisca.
Capitolo 8 Fritz Graebner La comparazione nella teoria diffusionista' Rilevare e comparare tratti simili incontrati in diversi complessi culturali distribuiti attraverso il globo è un'operazione che merita sempre di essere intrapresa. Tuttavia. nonostante le intuizioni
siano qua e là giustificate, le conclusioni relative alla presenza di un tratto con l'aiuto di analogie sono non abbastanza fondate, e i tentativi di confrontare tali tratti,o addirittura gli stessi complessi culturali, restano frutto della speculazione nella I Da: Fritz Grachner. Kulturkreise and Kuhurschìchtcn in Ozea- misura in cui non si è compiuto in precedenza un nien, Zeitschrift ffir Etimologie, 37. t'Ali. p. 23. Trad. V. l'ahiettii. altro lavoro. In effetti non conosciamo la grande
Wilhelm Schmidt L'essere supremo tra i primitivi e l'origine de! monoteismo
maggioranza dei popoli della terra che in maniera assai superficiale, e le similitudini devono giungere sino alla più assoluta identità perché si possa essere sicuri che non si tratta di elementi eterogenei. Anche comparando degli insiemi di tratti (la qual cosa diminuirebbe i rischi d'errore), la questione fondamentale resta quella di sapere se tratti diversi, benché legati strettamente gli uni agli altri, non appartengano dopo tutto a cerchi culturali o strati culturali differenti. Dobbiamo infine fare l'ipotesi che praticamente nessuna delle attuali configurazioni abbia un'unica origine e aggiungere che, più una cultura è evoluta, meno ciò si verificherà.
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La nostra comprensione della storia dello sviluppo umano dipenderà dalla nostra capacità di esplorare la storia culturale di singole regioni, prive di testimonianze e di vestigia preistoriche. Ora, quando è possibile individuare nel cerchio più ristretto di una regione determinata un insieme di tratti legati tra loro in modo organico, la diversità delle rappresentazioni consente di giungere ad una conclusione relativamente alla forma originaria comune. È così che noi possiamo tentare di rilevare non le relazioni dei tratti tra loro, ma delle relazioni da cultura a cultura, le quali vanno allora interpretate.
Wilhelm Schmidt L'essere supremo tra i primitivi e l'origine del monoteismo' Alcuni autori oppugnano specialmente l'idea che l'Essere Supremo della cultura primitiva sia un vero Dio, unico, e che la religione di esso sia un vero monoteismo. A costoro si può rispondere che esiste ancora un buon numero di tribù, nelle quali appare a prima vista molto chiaro il carattere veramente monoteistico del loro Essere Supremo. Così, per esempio, l'Essere Supremo di quasi tutte le tribù dei Pigmei. meglio conosciute; poi quello dei Fueghini, dei vetero-Boscimani, dei Kurnai, Kulin e Yuin nell'Australia sud-orientale, quello dei popoli del ciclo culturale artico, eccetto i Korjaki, e di quasi tutti gli altri popoli primitivi dell'America del nord. In altre tribù è avvenuto un offuscamento della realtà monoteistica. sia per mescolanze con forme posteriori, sia per distacchi, sia in altri modi, che però l'analisi storica esatta è oggi in grado di spiegare chiaramente. Un «distacco», molto caratteristico, si riscontra nei popoli della cultura artica, dove in origine l'Essere Supremo era il padrone degli animali da caccia, formanti uno dei principali loro mezzi di sostentamento. e dove. in seguito, dalla figura dell'Essere Supremo si è staccata la figura distinta di un «genio protettore degli animali» da caccia e degli altri animali. Questo processo di distacco si può controllare ancora molto chiaramente in quelle regioni. La caratteristica ampiezza data colà al concetto dell'Essere Supremo, che abbraccia cielo, aria, nembi, spesso anche l'universo intero, rende spie-
I Da: Wilhelm Schmidt. L'Essere Supremo tra i primitivi e l'origismo (.Manuale di storia comparata delle religioni. i e t ne del mono 1934). Morcelliana. Brescia. 194 9', pp. 2(1:222-23.
Pigmei congolesi riproducono coni flauti la voce del ghepardo, manifestazione dello Spirito
gabilc la formazione di altre simili figure. differenziate per i singoli elementi dell'universo. [...I Nel VI volume sintetico della mia opera «Dar Ursprung der Gottesidee» (1935) ho elaborato metodicamente il confronto tra le diverse culture primitive, ho stabilito il loro reciproco rapporto di età ed ho tentato di penetrare fino a quelle forme di religione più antiche che le hanno precedute e che possiamo ancora etnologicamente accertare. Anche la seconda difficoltà è di molto diminuita. in quanto che mi è già riuscito di analizzare integralmente le religioni dei pastori africani. mentre ho già iniziato lo studio di quelle dei pastori asiatici. La possibilità di risolvere il problema della più antica forma di religione etnologicamente accertabile è quindi di molto agevolata e non c'è motivo di differire più oltre il tentativo di risolverlo.
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Clark Wissler La diffusione della cultura
I. In primo luogo dobbiamo registrare il fatto molto importante che presso i popoli etnologicamente più antichi, i Pigmei, i Fueghini, gli Australiani sudorientali, i Californiani nord-centrali, gli Algonchini, non c'è mai alcun indizio che la loro religione sia il risultato delle loro proprie ricerche o esigenze, ma invece si constata sempre che essi fanno risalire la religione, nelle loro tradizioni, all'Essere Supremo come tale, il quale sia in via immediata, sia col tramite del capostipite da esso incaricato, avrebbe comunicato e inculcato agli uomini le dottrine di fede, i precetti morali e le forme di culto. 2. Volendo poi attingere argomenti dal contenuto intrinseco delle antiche religioni, noi vi incontriamo due importanti dottrine fondamentali, che difficilmente avrebbero potuto essere escogitate dalle indagini umane, meno che mai nella loro fusione, e cioè: la dottrina che l'Essere Supremo è buono per affetto, e quindi praticamente provvido e benefico, e la dottrina che egli è buono in senso morale; e dunque che l'Essere Supremo è santo, in linea negativa e positiva. Nella fusione di queste due dottrine è incluso il più grave di tutti i problemi umani, quello dell'origine del male fisico e morale nel mondo. Anche questo problema è stato afferrato dai popoli primitivi e quantunque fosse loro costato molta fatica, pure non hanno mai smarrito le due accennate verità di fede, eccettuate alcune transitorie incertezze. Il pensiero e l'indagine puramente naturali, siano essi di indirizzo causale o finale, non potrebbero, ci sembra, spiegare questa fede universale e salda degli uomini più antichi nella bontà immutabile congiunta alla illibatezza morale del loro Essere Supremo. Il raziocinio umano può condurre bensì
all'idea della creazione e suggerire l'esistenza di un ordine di finalità morale tra il nostro mondo e l'aldilà, e fino a questo punto avrebbero potuto giungere di propria virtù anche gli uomini più antichi; ma non avrebbero potuto conservarsi a lungo a questo livello, senza che si sviluppassero ben presto molteplici divergenze, che però di fatto non si riscontrano nelle questioni più essenziali. Si deve dunque supporre che qualche cosa di grande, qualche cosa di imponente abbia profondamente impressionato la loro anima, creando e conservando quella forza ed unità di fede; né si può immaginare che tale cosa grande e impressionante possa essere di natura puramente soggettiva, perché non avrebbe potuto ottenere effetti tanto vasti. Deve dunque trattarsi di una realtà molto potente che li ha creati. Ma non può nemmeno trattarsi di una cosa o di un avvenimento insolito puramente materiale, perché non avrebbero potuto colpire e affascinare in tal modo la personalità degli uomini antichi. Deve quindi trattarsi di una personalità potente e imponente che si è affacciata allora a quegli uomini, che ha incatenato il loro intelletto con verità luminose, ha vincolato la loro volontà con nobili alti comandamenti ed ha guadagnato il loro cuore colla sua affascinante bellezza e bontà_ Chi fosse questa potente personalità è fuori di dubbio, e quei popoli antichissimi lo dicono nelle loro più antiche tradizioni con rara unanimità: è l'Essere Supremo, realmente esistente, il creatore del cielo e della terra e specialmente dell'uomo, e come tale anche l'unico testimonio di quegli avvenimenti fondamentali, che solo può darne piena testimonianza e che secondo quelle tradizioni, ne ha dato insegnamento al primo progenitore.
Clark Wissler La diffusione della cultura' I dati relativi alla distribuzione dei tratti culturali sono i fondamenti a partire dai quali è possibile comprendere una cultura, poiché sebbene questi dati non rendano conto dell'origine degli elementi culturali, essi sono rivelatori dei processi culturali. Così, ci sembra evidente che l'antropologo sia soprattutto un ricercatore nel campo della distribuzione dei dati, tanto nello spazio quanto nel tempo. I Da: Clark Wissler, htan and Culture, Crowell, New York, 1923, pp. 110: t 15-18.Trad. U. Eabictti.
Siccome è d'uso distinguere tra culture primitive e culture civilizzate, tra culture superiori e culture inferiori. sceglieremo alcuni esempi da entrambe sebbene, riteniamo, i processi che sottostanno a tutte siano della stessa natura. Così abbiamo scelto l'esempio del domesticamento del cavallo, un tratto culturale diffusosi nel Vecchio Mondo e poi in quello Nuovo.[...] I paleontologi ci dicono che il cavallo anticamente presente nell'America settentrionale e meridionale era estinto da molto tempo quando giunse Colombo, e probabilmente già assai prima che gli
Edward Sapir La velocità di propagazione dei tratti culturali
Amerindiani raggiungessero il continente- Di conseguenza gli Amerindiani sono rimasti privi di qualunque cultura equestre fino al 1492. Colombo non portò con sé cavalli nel suo primo viaggio, ma gli Spagnoli arrivati nel Nuovo Mondo per installarvisi ne portarono, dal momento che si consideravano ancora come discendenti di cavalieri. A scuola abbiamo imparato come Cortés terrorizzò gli Aztechi attraversando il loro paese sul dorso di un mostruoso animale con due teste. De Soto portò, nel 1541, un gruppo di cavalli sino al Mississippi, e ovunque gli Spagnoli si installarono in un certo numero, i cavalli si diffusero. Gli Inglesi giunsero un po' più tardi sulla costa atlantica e importarono dei cavalli, soprattutto tra gli aristocra tici della Virginia.[...] Al riguardo abbiamo poche notizie sugli indiani nel 1700, ma La Salle riferisce dell'uso dei cavalli da parte degli indiani nel 1682. Egli segnala anche. che tutte le tribù amerindie del corso meridionale del Missouri utilizzavano cavalli prima di questa data.[..,] Sembra d'altronde che, in generale, gli Amerindiani delle pianure meridionali abbiano avuto cavalli già prima del 1680. Da quanto tempo lo ignoriamo. Ma era trascorso più di un secolo da quando De Soto aveva raggiunto il Mississippi e da quando oli Spagnoli si erano insediati nel Nuovo Messico. E quindi probabile che gli indiani delle pianure possedessero cavalli già prima del 1650. Questo non è un fatto privo di importanza poiché tutte le culture amerindiane hanno avuto la possibilità di adottare una cultura equestre prima di entrare in contatto con gli Europei, fatto che solleva la questione di come gli Amerindiani usavano i loro cavalli. Diedero vita ad una nuova cultura, diversa da quella del Vecchio Mondo, o ripeterono lo stesso sviluppo di essa? Non si deve dimenticare che il cavallo non arrivò tra gli Amerindiani come un animale allo stato selva gg io. ma che esso giunse con dei cavalieri spagnoli. Per cui gli indiani non ebbero la possibilità di inventare alcunché di nuovo. Coloro che erano in stretto contatto con gli invasori impararono a utilizzare in cavallo e a loro volta trasmisero que-
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Cavalli sulle pareti delle capanne indiane (1890 ca.)
sto sapere e la cultura equestre ai loro vicini ben prima dell'epoca delle esplorazioni e della colonizzazione.[...] Gli antropologi parlano spesso della cultura equestre come di un complesso culturale. Essi insistono anche sul fatto che questa cultura non è solo segnata dalla presenza del cavallo, ma che dal suo uso nascono abitudini, tecniche, utensili, distinzioni sociali, idee letterarie ed anche pratiche religiose. Dal momento che tutti questi elementi riguardano l'equitazione e si connettono l'uno con l'altro, essi costituiscono un complesso culturale. Al fine di poter comprendere pienamente il significato della presenza del cavallo tra gli Amerindiani, dobbiamo identificare la natura di tale complesso culturale. Così gli Amerindiani utilizzavano selle, benché in certe occasioni montassero senza di esse. Le donne, in particolare, utilizzavano selle ed anche la staffa.
Edward Sapir La velocità di propagazione
dei tratti culturali' È noto che una storia divertente di propaga più velocemente di una cerimonia, un dispositivo per la cattura di animali più rapidamente della nomenclatura di un sistema di parentela, una danza
più alla svelta di un sistema di successione, la coltivazione di una pianta più in fretta dell'agricoltura nel suo insieme. Di conseguenza non possiamo comparare le aree di distribuzione dei tratti senza
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Edward Sapir La velocità di propagazione dei tratti culturali
tener conto della natura stessa dei tratti in questione e dei fattori che intervengono nel processo di distribuzione. [...] Si può dire, semplificando, che la velocità di propagazione della cultura dipende da tre fattori indipendenti uno dall'altro o, piuttosto, da tre serie di fattori: la relativa facilità o rapidità con cui un tratto culturale è trasmesso da una tribù ad un'altra: la rapidità con cui è adottato dalla tribù che lo prende in prestito; le condizioni esterne che favoriscono o ostacolano l'adozione di quel tratto. Quando i tre gruppi di fattori sono favorevoli, la velocità di diffusione è massima. a. Condizioni di trasmissibilità culturale: una delle condizioni maggiormente favorevoli alla velocità di diffusione di un elemento culturale è che esso non sia circondato da segreti o tabù che ne farebbero qualcosa di esoterico. Così, il cerimoniale spettacolare caratteristico di una religione è preso a prestito da una tribù vicina più facilmente degli elementi esoterici conosciuti soltanto da pochi. Una pianta medicinale conosciuta, o qualunque altro rimedio praticato alla luce del giorno da un'intera tribù, si trasmetterà con facilità a una 1 Da: E. Sapir, Time perspective in Aboriginal A mericun Culture: a Study in Method, Canada, dpt. of Mines geological Survey, Memoir 90, Anthropological Series, n. 13, Government Printing Bureau, 1916. Ora in D. Mandelbaum (a cura). Selected Writings of Edward Sapir, University of California Press. Berkele y, 1963. pp. 414-16.Trad. U. Fabietti.
tribù vicina, mentre una terapia il cui segreto è gelosamente custodito da una famiglia o da una confraternita religiosa si opporrà per sua natura a essere trasmessa.[....] b. Il contesto di accoglienza: quasi sempre constatiamo che nuove idee o attività prese al di fuori finiscono per essere in linea con quelle già esistenti. Solo nella stragrande minoranza dei casi una idea o una attività nuova presa a prestito si inserisce in toro in un complesso di idee o di attività preesistenti della tribù che l'accoglie senza andare incontro a modifiche. Per quanto concerne il problema della velocità di trasmissione dei tratti, siamo in grado di poter affermare con assoluta sicurezza che più un elemento si adatta al nuovo ambiente culturale, più esso risponde ai bisogni o agli interessi immediati di coloro che lo prendono a prestito. Spesso, mentre un tratto viene ceduto, il significato originario di quest'ultimo viene distorto o perduto; questa perdita o distorsione sono quasi sempre espressione del potere di assimilazione della cultura ricevente. E solo in un numero assai ridotto di casi che un elemento risulta essere trapiantato in toto, senza andare incontro ad una qualche modifica nel processo di assimilazione. [....] c. Le condizioni esterne della diffusione: la comunicabilità di un elemento culturale e la sua ricettività da parte del gruppo che lo riceve sono entrambi condizionati, come abbiamo già detto, dalla stessa natura dell'elemento in questione. Fattori esterni di varia natura sono tuttavia di solito molto importanti nel determinare il corso e la rapidità della trasmissione. Queste condizioni formano il terzo gruppo di riferimento in base al quale si determina la velocità della diffusione. Tutti, o quasi tutti questi fattori, possono essere ricondotti al grado di intimità esistente tra due gruppi. Così, tribù che sono in buoni rapporti per lunghi periodi si scambiano elementi culturali più rapidamente e più frequentemente di quanto non facciano quei gruppi che sono continuamente in uno stato di ostilità reciproca. I Missisagua costituiscono un buon esempio: benché Algonchini, grazie ai buoni rapporti con gli Uroni e. più tardi, con gli Irochesi, hanno assimilato in un lasso di tempo assai breve molti più aspetti della cultura irochese di quanto non abbiano fatto altri Algonchini (Malecite e Abenaki) che furono sempre, sino a tempi recenti, in cattivi rapporti con gli Irochesi.
Grafton Elliott Smith Le culture eliolitiche
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Grafton Elliott Smith. Le culture eliolitichet Ho scelto di trattare della mummificazione come del più peculiare, e di conseguenza come del più distintivo e conclamato, di una serie di strani costumi strettamente interconnessi i quali fortuitamente si legarono l'uno all'altro fino a costituire un complesso culturale all'incirca trenta secoli fa, complesso che si diffuse lungo le coste di gran parte dei continenti, stimolando a nuove e peculiari attività culturali i popoli ignavi e incolti, i qualiuno dopo l'altro andarono soggetti a questo vento esotico. Se prendiamo un planisfero e fissiamo su di esso la distribuzione di questi particolari costumi quali l'erezione di monumenti megalitici, il culto del sole e del serpente,' 1' usanza di forare le orecchie, il tatuaggio, la pratica della circoncisione, quello strano costume conosciuto come couvadez, la pratica del massaggio, la complessa storia della creazione, il diluvio, la trasformazione di esseri umani in pietre, l'origine divina dei re unita alla storia di un popolo sltperiore nato da un'unione incestuosa, l'uso del simbolo della svastica, la pratica della deformazione del cranio - solo per ricordare alcuni dei molti elementi che potrebbero essere citati potremo rilevare che per molti aspetti le aree in cui questo straordinario assortimento di bizzarri costumi e credenze è stato rintracciato coincidono. In alcune sequenze vi sono dei vuoti, cosa dovuta, molto probabilmente e nella maggioranza dei casi, più a mancanza d'informazioni che non all'assenza delle pratiche in questione; in altri luoghi uno o l'altro elemento di questa complessa mescolanza di tratti culturali è fuoriuscito dal flusso comune ed è sfociato in nuove aree. Tuttavia, considerati nella loro relazione reciproca, questi dati ci autorizzano a tracciare con sicurezza e con precisione la via seguita da questo particolare gruppo di bizzarrie partorite dalla mente umana. Se ciascuna di esse è considerata isolatamente ci sono molti vuoti nella catena e molte incertezze relative alla loro direzione precisa; ma quando queste cose sono prese tutte insieme i vuoti vengono colmati. Inoltre, in molte delle aree considerate si ritrovano tradizioni riguardanti delle figure di eroi culturali ai quali viene attribuita l'introduzione di alcune o di tutte queste pratiche in un solo momento e che, in aggiunta, introdussero l'agricoltura e la tessitura. Per quanto ne so, nessuno ha prestato attenzione sino ad oggi al fatto che la pratica della mummificazione ha una distribuzione geografica che corri1 Da: Grafton Elliot Smith, The Migrations of Early Cultures, Manchester Universit y Press. Manchester, 1915, pp. 1-4; 98-99. trad. tl. Fabietti. 2 V. Cap. 2
sponde esattamente all'area occupata da quel curioso assortimento di altre pratiche che abbiamo appena elencato. E anche del tutto chiaro che la coincidenza non è puramente casuale. Ciò è una conseguenza del fatto che in molte delle regioni considerate, il popolo che introdusse le costruzioni megalitiche e il culto solare (una combinazione per la quale è opportuno usare il termine distintivo di «cultura eliolitica» dovuto al Professor Brockwell), portò con sé al tempo stesso anche la pratica della mummificazione. La pratica di imbalsamare il defunto è difatti parte integrale della «cultura eliolitica» e, forse, come cercherò di dimostrare, la sua componente più importante. Dal momento che questa pratica, e le credenze che crebbero in associazione con essa, furono responsabili dello sviluppo di alcuni degli elementi principali di questo complesso culturale. e incidentalmente del legame con altri fattori non così strettamente ad esso collegati in senso generale.[...] Un particolare dell'imbalsamazione praticata in Australia degno d'attenzione è che il corpo era sempre piegato, e non disteso come nella regione dello Stretto di Torres. All'inizio fui portato a credere che questa caratteristica fosse dovuta all'influenza della pratica adottata dagli antichi Egizi (Seconda dinastia), ma una più attenta considerazione dei fatti mi induce a concludere che l'adozione della posizione ripiegata è il prodotto di un sincretismo tra quella pratica e i costumi funebri locali, i quali erano osservati quando i portatori della cultura « eliolitica» raggiunsero l'Australia. E probabile che il boomerang sia giunto dall'Egitto, passando per l'Africa orientale, l'India e l'Indonesia nello stesso periodo.
William H.R. Rivers Terminologie di parentela e istituzioni sociali
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Capitolo 9 Terminologie di parentela e istituzioni sociali'
Wi ll iam H.R. Rivers
Il mio intento è di dimostrare che la terminologia di parentela è rigorosamente determinata dalle condizioni sociali e che, una volta stabilito e accettato questo presupposto, i sistemi di parentela forniscono lo strumento più valido per indagare la storia delle istituzioni sociali. [...] Mi prefiggo di iniziare con un'usanza terminologica che ci è da tempo familiare e che accompagna quel costume, di vasta diffusione, noto come matrimonio tra cugini incrociati._ Un matrimonio di' questo genere comporta determinate. conseguenze. Prendiamo il caso in cui un uomo sposa la figlia del fratello di sua madre - così come viene rappresentato nel diagramma seguente:
B=
C
I
I
I
d
E
f
Una conseguenza del matrimonio tra C e d sarà che A - il quale, prima del matrimonio di C, era soltanto il fratello di sua madre - ora diventa pure padre della moglie, mentre b - la quale, prima del matrimonio, era la moglie del fratello della madre di C- ora diventa madre della moglie. Reciprocamente, C- il quale, prima del matrimonio, era il figlio della sorella di A e il figlio della sorella del marito di b - ora diventa loro genero. Inoltre, E e f, cioè gli altri figli di A e di h - i quali, prima del matrimonio, erano soltanto i cugini di C - ora diventano fratello e sorella della moglie. In modo analogo, a - la quale. prima del matrimonio di d, era la sorella di suo padre - ora diventa pure madre del marito; e B. marito della sorella di suo padre, si pone ora nella relazione di padre del marito; se poi C avesse qualche fratello e qualche sorella, questi cugini divengono suoi cognati. Le combinazioni di parentela, che conseguono al matrimonio di un uomo con la figlia del fratello di sua madre, sono quindi diverse per un uomo e per una donna; ma se - come avviene di solito - un uomo può sposare la cugina che è figlia tanto del fratello di sua madre quanto della sorella di suo padre, queste combinazioni di parentela saranno valide sia per l'uomo che per la donna. 1 Da: William H.R. Rivers, Kinship ,a,) Socia! Organization. 1914. trad. pare. in F. Renani (a cura), f sìstezni di parentela. Loescher, !urino, 1974, pp. 285-88.
rella del padre, la moglie del fratello della madre e la suocera. Il termine tavole è impiegato da un uomo per designare il figlio del fratello della madre o della sorella del padre, così come per designare il fratello della moglie e il marito della sorella. Ndavola serve a indicare non soltanto il figlio del fratello della madre o della sorella del padre - allorché il suo sesso è diverso da chi parla -
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ma questa parola è pure usata da un uomo per indicare la sorella di sua moglie e la moglie di suo fratello, e da una donna per indicare il fratello di suo marito e il marito di sua sorella. Ognuno di questi dettagli del sistema Mbau è la conseguenza diretta e inevitabile del matrimonio tra cugini incrociati, nei, caso che esso sia una pratica stabile e abituale.
William H.R. Rivers Natura e vantaggi del metodo genealogico'
A=b
a
William H.R. Rivers Natura e vantaggi del metodo genealogico
Un'ulteriore, e più remota, conseguenza del matrimonio tra cugini incrociati - nel caso che esso divenga un'istituzione stabile - è che la relazione di fratello della madre e quella di marito della sorella del padre si combineranno in una sola e identica persona, e si verificherà una combinazione analoga tra la relazione di sorella del padre e quella di moglie del fratello della madre. Se il matrimonio tra cugini incrociati fosse un costume abituale, B e b sarebbero, nel nostro diagramma, fratello e sorella; di conseguenza, A sarebbe, nello stesso tempo, il fratello della madre e il marito della sorella del padre di C, mentre b sarebbe tanto sorella di suo padre, quanto moglie del fratello di sua madre. Tuttavia, dato che il fratello della madre è pure il suocero, e la sorella del padre è pure la suocera, si verificherà in ciascun caso una combinazione di tre diverse relazioni. Mediante il matrimonio tra cugini incrociati le relazioni di fratello della madre, di marito della sorella del padre e di suocero verranno dunque combinate in una sola e identica persona, e in modo analogo verranno combinate le relazioni di sorella del padre, di moglie del fratello della madre e di suocera. In diversi luoghi in cui il matrimonio tra cugini incrociati era, secondo quanto abbiamo potuto notare, un'istituzione stabile, abbiamo osservato proprio quelle designazioni comuni che sono state appena descritte. Per esempio, nel dialetto Mbau delle isole Figi, la parola vungo è applicata al fratello della madre, al marito della sorella del padre e al suocero. La parola nganei designa la so-
È cosa risaputa che molti popoli conservano lunghe genealogie dei loro antenati, le quali risalgono fino a molte generazioni e spesso sfumano nel mito. Non è però altrettanto noto che molti popoli di cultura inferiore conservano le loro genealogie oralmente per parecchie generazioni in tutte le linee collaterali, sicché possono presentare in forma genealogica tutti i discendenti del nonno del loro nonno, o del nonno del nonno di loro nonno, e che perciò essi conoscono benissimo tutti quegli individui che noi chiameremmo secondi o terzi cugini, e talvolta la loro memoria risale ancora più addietro nel tempo. È quest'ultimo tipo di genealogie a venire usato nel metodo che presento in questo lavoro. Inizio col raccogliere le genealogie che forniscono la base del metodo. Il primo punto da tenere presente è che, a causa della grande differenza esistente tra i sistemi di relazioni dei popoli selvaggi e di quelli civilizzati. conviene utilizzare il minore numero possibile di termini di parentela, e che genealogie complete possono essere ottenute quando i termini si limitano ai seguenti: padre, madre, figlio/a, marito e moglie. La breve genealogia fornita qui di seguito come esempio è stata ottenuta a Guadalcanal, nelle Isole Salomone orientali. In questo caso cominciai l'inchiesta chiedendo al mio informatore, Kurka o Arthur. il nome di suo padre e di sua madre, facendo ben presente che volevo i nomi dei suoi genitori reali, e non di qualche altro individuo che egli avrebbe chiamato nella stessa maniera in virtù del sistema classificatorio di relazioni.'- Dopo aver accertato che Kulini aveva avuto solo una moglie e Kusua solo un marito, ho re-
gistrato i nomi dei loro figli e delle loro figlie in ordine di età e ho compiuto indagini sui matrimoni é sulla prole di ciascuno di loro. Così è stato ottenuto il piccolo gruppo comprendente i discendenti dei genitori di Arthur. Poiché Guadalcanal è un'isola il cui sistema sociale è caratterizzato dalla discendenza matrilineare, Arthur conosceva la genealogia di sua madre meglio di quella di suo padre. Ho così ottenuto i nomi dei genitori di lei, accertandomi come in precedenza che ciascuno fosse stato sposato solo una volta, e poi ho chiesto i nomi dei loro figli e ho raccolto dati sui matrimoni e sui discendenti di ciascuno di loro. Arthur era un uomo che era vissuto a lungo nel Queensland [Australia] e non era in grado di andare oltre i suoi nonni; tuttavia se avesse avuto una conoscenza più vasta, avrei condotto ricerche sui parenti di Sinei e Koniava, e ottenuto i discendenti dei loro genitori esattamente nello stesso modo, e sarei andato avanti fino a che la conoscenza genealogica del mio informatore sulla sua famiglia si fosse esaurita [...] II primo e più ovvio uso che si può fare delle genealogie è quello di applicarle ai sistemi di relazioni. In quasi tutti i popoli di cultura inferiore questi sistemi di relazioni differiscono così tanto dal nostro che si rischia facilmente di cadere nell'errore se si cerca solo di ottenere gli equivalenti dei nostri termini attraverso il solito metodo della domanda e della risposta. Il mio procedimento consiste nel chiedere al mio informatore i termini che costui applicherebbe ai diversi membri della sua genealogia, e i termini che reciprocamente quelli applicherebbero a lui. Così, nel caso della genealo-
I Da: W.H.R. Rivers. da ))The Genealogical Method of Anthropological Inquiry« (77íe Sac iol3gi«d Recieu . vol. 3. pp. 1-12. Jattuary 1910). Ripubblicato in W.H.R. Rivers. Kies/ùp and Social Organization. London,"ihe Athlone Press, 196:4, pp. 97-5; I I0--2: 1)51-9."Gad. 11, Fabietti.
2 Nei sistemi terminologici di parentela di tipo classalearnrio (al contrario che nei sistemi di tipo drscritico) i consanguinei in linea collutvralc non sono distinti (dal punto di vista terminologico) da quelli in linea diretta. La distinzione tra sistemi classificatori e descrittivi d di Lewis It. Morgan (v. Cap. 3).e fu successivamente criticata da Al(red C Krocher (v. Cap. 4).
286
Bronislaw Malinowski Cogliere il punto di vista dell'indigeno
Genealogia di Kurka o Arthur s.L = senza figli; m.g.= morto giovane
Bronislaw Malinowski Cogliere il punto di vista dell'indigeno
SINE = Koniava
Kindapalei Lakwili
I
I
I
TUAN = Kokilokina
VAKOI = Komboki
Lakwili I Kindapalei
Ilaumbata Lakwili
KULINi = Kusua
Kindapalei Lakwili
si GEORGE = Kolovali
BENJE m. g.
TOKHO = Datovi
Lakwili I kakau
Kindapalei Lakwili
s.L
GEIMBA = Geli (Savo) Lakwili Kakau
TIARO = Tarakamana
Haumbata Lakwili I
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KURKA o ARTHUR
I
SINEI Koani Koperoa gia di Guadalcanal che ho fornito come esempio, ho chiesto ad Arthur come chiamasse Tokho, il che equivaleva a «fratello maggiore» quando colui che parla è un uomo, mentre il nome dato da Tokho ad Arthur era il corrispondente di «fratello minore». I termini applicati reciprocamente da Vakoi ed Arthur hanno dato l'equivalente di «figlio della sorella» e di «fratello della madre» rispettivamente, e la relazione di Komboki nei confronti di Arthur ha dato i termini equivalenti a «moglie del fratello della madre» e a «figlio della sorella del marito», mentre le altre relazioni da parte di madre sono state ottenute nella stessa maniera [,..] Dopo aver visto i principali aspetti della ricerca in cui il metodo genealogico è utile o essenziale, riassumerò adesso brevemente alcuni dei suoi vantaggi in termini molto generali. In primo luogo ricorderò la sua estrema concretezza. Chiunque conosca i popoli di cultura inferiore deve ammettere la difficoltà che circonda lo studio di qualunque problema astratto; questo non tanto perché il selvaggio non possieda idee astratte, quanto piuttosto perché non possiede parole nella propria lingua per esprimere tali idee, mentre certamente non ci si può aspettare da lui che apprezzi i termini astratti della lingua di chi si reca presso di lui o di
I GUSA
I
Koriki
V
Kondatshikai
ogni altra lingua straniera che serve come mezzo di comunicazione. Il metodo genealogico rende possibile investigare problemi astratti su basi assolutamente concrete. Da questo punto di vista il metodo è particolarmente utile a coloro che, come il sottoscritto, sono in grado di recarsi presso i popoli selvaggi o barbari per periodi di tempo relativamente brevi, periodi del tutto insufficienti per acquisire quel grado di padronanza della lingua dei nativi che faccia di quest'ultima uno strumento di comunicazione. [...] Il metodo genealogico, inoltre, non solo infonde confidenza nelle proprie capacità di osservare, ma ha anche l'effetto forse altrettanto importante, di infondere nel selvaggio la confidenza nei confronti di colui che lo interroga. Tutti conoscono la vecchia storia secondo cui la caratteristica principale del selvaggio è che questi vi dirà qualunque cosa voi vogliate sapere. Quando fa così è perché questa gli pare la via più semplice per assolvere un compito che non lo interessa, spesso perché non capisce la natura delle domande, ma io credo anche perché egli si accorge che nemmeno chi lo interroga Ie capisce. Io credo che il metodo genealogico metta il ricercatore europeo sullo stesso piano del nativo.
Capitolo 10 Bronislaw Malinowski Cogliere il punto
di vista dell'indigeno' Il terzo comandamento del lavoro sul terreno dice: scoprii modi tipici di pensare e di sentire corri1 Da: Bronislaw Malinowski, Argonauts of the Western Pacific, it.. Argonauti del Pacifico occidentale. Newton Compton, Roma. 1973. pp.47-49.
trad.
spondenti alle istituzioni e alla cultura di una data comunità e formula i risultati nella maniera più convincente. Con quale metodo si procederà? I migliori autori di etnografia (qui di nuovo occupa il primo posto fra gli etnografi inglesi la scuola di
Cambridge con Haddon. Rivers e Seligman) hanno sempre cercato di citare testualmente le affermazioni di importanza decisiva. Essi riportano anche i termini di classificazione indigeni (i termini tecnici. di carattere sociologico, psicologico e industriale) e hanno reso il contorno verbale del pensiero indigeno nel modo più preciso possibile. Un passo più avanti in questa direzione può essere compiuto dall'etnografo che acquisti la conoscenza del linguaggio indigeno e possa usarlo come strumento di ricerca. Io lavoravo nella lingua di Kiriwina e trovavo qualche difficoltà nel trascrivere le dichiarazioni direttamente tradotte, cosa che all'inizio ero solito fare al momento di prendere appunti. La traduzione spesso privava il testo di tutte le sue caratteristiche significative, cancellandone tutte le particolarità, così che gradatamente fui portato ad annotare certe frasi importanti proprio come venivano dette, nella lingua indigena. Man mano che la mia conoscenza della lingua progrediva. scrivevo sempre più in kiriwino, finché alla fine mi ritrovai a scrivere esclusivamente in quella lingua. a prendere rapidi appunti, parola per parola, di ogni dichiarazione. [...] Le nostre considerazioni mostrano quindi che all'obbiettivo del lavoro etnografico sul terreno ci si deve avvicinare da tre strade: I. L'organizzazione della tribù e l'anatomia della stia cultura devono essere registrate in uno schema solido e chiaro. Il metodo della documenrazione statistica concreta è il mezzo con cui deve essere elaborato un tale schema. 2. All'interno di questa struttura vanno inseriti gli imponderabili della vita reale e il tipo di comportamento. Questi dati devono essere raccolti attraverso osservazioni minuziose e dettagliate in forma di una qualche sorta di diario etnografico, reso possibile da uno stretto contatto con la vita degli indigeni. 3. La raccolta di affermazioni etnografiche, narrazioni caratteristiche. espressioni tipiche, elementi di folklore e formule magiche deve essere fornita come un corpus inscriptiottuat, come documenti della mentalità indigena. Queste tre linee di analisi conducono all'obbiettivo finale, che l'etnografo non dovrà mai perdere di vista. Questo obbiettivo è, in breve, quello di afferrare il punto di vista dell'indigeno, il suo rapporto con la vita. di rendersi conto della sua visione del suo mondo. Dobbiamo studiare l'uomo e ciò che lo riguarda più intimamente. cioè la presa che ha su di lui la vita. in ogni cultura i valori sono lievemente diversi. la gente persegue fini diversi. segue diversi impulsi_ desidera una diversa forma di felicità. In
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ogni cultura troviamo istituzioni diverse con cui l'uomo persegue i suoi interessi vitali, costumi diversi con cui l'uomo soddisfa le sue aspirazioni, codici di leggi e di morale diversi per ricompensare la sua virtù o punire le sue colpe. Studiare le istituzioni, i costumi e i codici o studiare il comportamento e la mentalità senza il desiderio soggettivo di provare di cosa vive questa gente, di rendersi conto della sostanza della loro felicità, è, a mio avviso, perdere la più grande ricompensa che possiamo sperare di ottenere dallo studio dell'uomo. Queste affermazioni di carattere generale il lettore le troverà illlustrate nei capitoli seguenti. Vedremo allora il selvaggio nel suo sofrzo di soddisfare certe aspirazioni, di adeguarsi al suo modello di valori, di perseguire le sue ambizioni sociali. Lo vedremo trascinato in imprese pericolose e difficili da un tradizione di gesta magiche ed eroiche, lo vedremo seguire l'allettamento della sua avventura. Forse leggendo il resoconto di questi remoti costumi potrà nascere un sentimento di solidarietà con gli sforzi e le ambizioni di questi indigeni; forse il modo di pensare dell'uomo ci sarà rivelato e avvicinato lungo cammini che non avevamo mai percorso prima; forse prendendo coscienza della natura umana in una forma molto lontana ed estranea a noi, una qualche luce si riverserà anche sulla nostra. In questo e solo in questo caso, sarà giustificata la nostra convinzione che per noi è valsa la pena di capire questi indigeni, le loro istituzioni e i loro costumi.
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Bronislaw Malinowski Che ne è della mia più intima vita?
Bronislaw Malinowski Il significato sociologico dello scambio kula
Bronislaw Malinowski II significato sociologico dello scambio kula'
Bronislaw Malinowski Che ne è della mia
più intima vita?' Poi andai al villaggio; la notte illuminata dalla luna era splendente. Non mi sentivo troppo esausto e godetti la passeggiata. Nel villaggio diedi a Kavaka un po' di tabacco. Poi, siccome in quel momento non c'erano né danze né assemblee, camminai lungo la spiaggia fino a Oroobo. Meraviglioso. Era la prima volta che vedevo quella vegeta = zione al chiar di luna. Tutto era molto strano ed esotico. L'esotismo penetra leggermente, attraverso il velo delle cose familiari. Stato d'animo alieno dalla quotidianità. Un esotismo abbastanza forte da rovinare la normale percezione delle cose, ma troppo debole per creare una nuova sorta di umore. Andai nella boscaglia. Per un momento fui spaventato. Mi calmai. Cercai di guardare nel mio proprio cuore. «Che ne è della mia più intima vita?». Nessuna ragione di essere contento di me stesso. Il lavoro che sto facendo è una sorta di sonnifero più che un'espressione creativa. Non sto cercando di ricollegarlo a cause più profonde: di organizzarlo. Il leggere romanzi è semplicemente disastroso. Andai a letto e pensai ad altre cose in modo impuro. [...] Nulla, proprio nulla, mi induce a leggere studi etnografici. Verso le 5 del pomeriggio andai al villaggio e mi abbandonai artisticamente parlando, alle impressioni della nuova Kulturkreis. Complessivamente, il villaggio mi colpì molto sfavorevolmente. Le capanne - di vecchio tipo, con i tetti curvi sono certamente più interessanti e più graziose delle case di Mailu. Ma c'era una certa disorganizzazione, i villaggi sono sparsi: il chiasso e la persistenza della gente che ride e fissa e dice bugie mi scoraggiò alquanto. Osservai tre tipi di case - dovrò trovare il modo di sbrogliarmela in tutto ciò. [...] Visitai alcune capanne nella giungla ed entrai in una casa abbandonata. Al ritorno iniziai a leggere Conrad. Chiacchierata con Tiabubu e Sixpence. Momentanea agitazione. Poi fui di nuovo sopraffatto dal torpore. A stento trovai la forza di volontà per finire i racconti di Conrad. Non c'è bisog no di dire che si trattava di una melanconia terribile, grigia come il ciclo intorno. turbinante ai limiti del mio interno orizzonte. Sollevai gli occhi dal libro e riuscii a stento a credere di essere tra gli inI Da: Bronislaw Malinowski, A Diary in the Strict Sense of the Tern. 1967, trad. i t. Giornale di uri antropologo, Armando, Roma. 1992, pp.31:39:46: 56_
digeni neolitici, e che mentre io ero seduto lì in pa ce, laggiù, in Europa, stavano avvenendo cose terribili. A tratti ebbi l'impulso di pregare per Mamma. Uno stato di inerzia e la sensazione che da qualche parte, lontana da tutte le possibilità di fare qualcosa, stavano avvenendo cose orribili e insopportabili. La necessità, la terribile, la mostruosa e l'inesorabile necessità prende la forma di qualcosa di personale. [...] La fresca e pura aria mattutina mi fece un effetto tonificante; come al solito, mi sono dispiaciuto per il fatto che non sempre mi alzo all'alba. Andai al villaggio sperando di fotografare le diverse fasi del bara. Allungai mezza stecca di tabacco, poi osservai alcune danze; poi feci delle foto - ma con scarsi risultati. Non c'era luce sufficiente perle istantanee; ed essi si rifiutarono di posare a lungo per il tempo di esposizione. Mi capitava allora di essere furioso con loro, soprattutto perché dopo aver dato loro la propria porzione di tabacco se ne andavano via tutti. Insomma, il mio sentimento nei confronti degli indigeni tende decisamente a: «Che si sterminino i bruti!». In molte situazioni ho agito in modo ingiusto e stupido - nella gita a Domara, per esempio, avrei dovuto pagare 2 libbre ed essi lo avrebbero fatto. Come risultato persi certamente una delle migliori opportunità. [...]
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Il kula è una forma di scambio di carattere intertribale ad ampio raggio che viene effettuato da comunità situate in un ampio cerchio di isole che formano un circuito chiuso. Questo circuito lo si può vedere nella mappa V, dove è rappresentato dalle linee che uniscono un certo numero di isole a nord e ad est dell'estremità orientale della Nuova Guinea. Lungo questa strada viaggiano continuamente articoli di due specie, e solo di queste due specie. Uno di questi due tipi di oggetti, delle lunghe collane di conchiglie rosse chiamate spulava, si muove sempre nel senso delle lancette dell'orologio, l'altro tipo, dei braccialetti di conchiglia bianca chiamati nnwali, si muove nella direzione opposta. Ciascuno di questi oggetti, viaggiando nella propria direzione lungo il circuito chiuso, incontra sulla sua strada oggetti dell'altra categoria con cui viene continuamente scambiato. Ogni spostamento degli oggetti kula, ogni particolare delle transazioni'è fissato e regolato da una serie di norme e di convenzioni tradizionali e alcuni atti del kula sono accompagnati da un elaborato rituale magico e da cerimonie pubbliche. [...] Lo scambio cerimoniale dei due articoli costituisce l'aspetto principale e fondamentale del kula. Ma associato ad esso e sotto la sua protezione trovia1 Da: Bronislaw Malinowski. Argonauts of the Western Pacific. 1922. trad. it.. Argonuati del Pacifico occidentale. Newton Compton. Roma.1973. pp. 100-112:107-OS: 110.
Anello del kula
mo un gran numero di attività e di caratteristiche secondarie. Così accanto allo scambio rituale dei bracciali di conchiglie e delle collane, gli indigeni svolgono un commercio ordinario, barattando da un'isola all'altra una grande quantità di beni utili, che sono indispensabili e che spesso è impossibile procurarsi nel distretto dove vengono importati. Inoltre, vi sono delle altre attività preliminari al kula o associate ad esso, come la costruzione delle canoe d'alto mare per le spedizioni, certe forme notevoli di cerimonie funebri e i tabù preparatori. [1 kula è quindi un'istituzione estremamente complessa e vasta, sia nella sua estensione geografica sia nella molteplicità dei fini che persegue. Essa salda insieme un numero considerevole di tribù e abbraccia un vasto complesso di attività interconnesse e che agiscono l'una sull'altra in modo da formare un tutto organico. Cerchiamo adesso di gettare uno sguardo d'insieme sugli effetti cumulativi delle regole che governano le relazioni. Vediamo che lungo l'anello del kula vi è tutta una rete di relazioni e che l'insieme di queste relazioni forma naturalmente un tessuto solo. Degli uomini che vivono a centinaia di miglia di distanza l'uno dall'altro, sono uniti da una relazione diretta o mediata, effettuano scambi reciproci. si conoscono l'un l'altro e in certe occasioni si incontrano in un grande raduno intertribale. Gli oggetti dati da una persona raggiungono col tempo l'uno o l'altro dei lontani compagni indiretti, e non
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Bronislaw Malinowski II significato sociologico dello scambio kula
Bronislaw Malinowski Il principio di reciprocità pe rv ade la vita tribale
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Bronislaw Malinowski Il principio di reciprocità pe rv ade la vita
Asinistra:braccialetti (mwali) e collana soulava); ;opra: un atto del cerimoniale kula solo gli oggetti kula, ma vari oggetti di uso domestico e doni minori. È facile vedere che sulla strada del kula viaggiano non solo oggetti di cultura materiale, ma anche costumi, canti, motivi artistici e influenze culturali in genere. È una vasta rete di relazioni intertribali, una grande istituzione che comprende migliaia di uomini tutti uniti dalla comune passione per lo scambio kula e, secondariamente, da numerosi legami e interessi minori. [-..] Perché, dunque, questi oggetti sono considerati preziosi? a che cosa servono? Una risposta esauriente a questa domanda si ricaverà solo dall'intero racconto contenuto nei capitoli seguenti, ma se ne può dare subito un'idea approssimativa. Poiché è sempre meglio accostare l'ignoto mediante il noto. riflettiamo per un momento se noi stessi non abbiamo dei tipi di oggetti che svolgono un ruolo analogo e che sono posseduti e usati nella stessa maniera. Quando, dopo un'assenza di sei anni trascorsi nei Mari del Sud e in Australia. ritornai in Europa e feci la mia prima visita turistica al Castello di Edimburgo, mi furono mostrati i gioielli della corona. il guardiano ci raccontò tante storie: come erano stati portati da questo o da quel re. da questa o da quella regina in tale e talaltra occasione: come alcuni di essi erano stati trasportati a Londra con grande e giusta indignazione di tutto il popolo scozzese; come erano stati restituiti e come adesso tutti potevano essere soddisfatti, perché erano al sicuro sotto chiave e nessuno poteva toccarli. Mentre li guardavano e riflettevo quanto fossero brutti, inutili, sgraziati e perfino di cattivo g usto, ebbi la sensazione che qualcosa del genere-mi era stata raccontata da poco e che avevo visto parecchi oggetti di questo tipo che mi avevano fatto un'impressione simile. Mi apparve allora dinanzi la visione di un villaggio indigeno costruito sul suolo corallino e di una piccola. traballante piat-
taforma eretta provvisoriamente sotto una tettoia di pandano, circondata da una quantità di uomini bruni e nudi, uno dei quali mi mostrava lunghe collane sottili e rosse e dei grandi oggetti bianchi logori, rozzi a vedersi e unti al tatto. Con reverenza egli li nominava e ne raccontava la storia: da chi e quando erano stati portati, come avevano cambiato di mano e come il loro temporaneo possesso fosse un chiaro segno delI'importanza e della gloria del villaggio. L'analogia fra i vaygu'a (oggetti di valore) europei e quelli trobriandesi va precisata maggiormente. I gioielli della corona, infatti, troppo preziosi e troppo scomodi da portare, rappresentano la stessa cosa dei vaygy'a in quanto sono posseduti semplicemente per il piacere di possederli e la proprietà, con la fama che ne deriva, è la fonte principale del loro valore. Inoltre, sia i cimeli di famiglia sia i vaygu'a sono amati per il significato storico che hanno assunto. Per quanto brutto, inutile e privo di valore, secondo l'opinione corrente, possa essere un oggetto, se è apparso sulla scena della storia ed è passato per le mani di personaggi storici, divenuto un inesauribile veicolo di importanti associazioni sentimentali, non può che. essere prezioso per noi. Questo sentimentalismo storico, che ha una gran parte nel nostro interesse generale per lo studio degli avvenimenti del passato, esiste anche nei Mari del Sud. Ogni oggetto kula veramente bello ha un suo nome proprio e una sua storia o leggenda che fa parte delle tradizioni indigene. I gioielli della corona o i cimeli di famiglia sono insegne di rango e simboli di ricchezza rispettivamente, e. da noi in passato, in Nuova Guinea fino a pochi anni fa, rango e ricchezza andavano insieme. La principale differenza è che i beni kula sono posseduti solo per un periodo di tempo, mentre il tesoro europeo per avere valore pieno deve essere posseduto in permanenza.
Ho trovato un solo autore che apprezzi pienamente l'importanza della reciprocità nell'organizzazione sociale dei primitivi. [...] In tutta la sua monografia, che è forse il miglior resoconto dell'organizzazione sociale di una tribù selvaggia esistente, il prof. Thumwald mostra come la simmetria della struttura e delle azioni sociali pervada tutta la vita degli indigeni 2 . La sua importanza come forma legale vincolante non è tuttavia esplicitamente affermata dall'autore, che sembra consapevole del suo fondamento psicologico `nel sentimento umano' piuttosto che della sua funzione sociale di salvaguardia della continuità e dell'adeguatezza dei servizi reciproci. Le vecchie teorie della dicotomia tribale, le discussioni sulle `origini' delle `fratrie' o `metà' e della dualità nelle suddivisioni tribali, non sono mai entrate nel merito dei fondamenti interni o differenziali del fenomeno esterno della divisione in due. Il recente trattamento della `organizzazione duale' da parte del dr. Rivers e della sua scuola presenta il grave difetto di cercare delle cause recondite invece di analizzare il fenomeno stesso. Il principio duale non è il risultato né della-fusione' né di una 'divisione' né di qualsiasi altro cataclisma sociologico. Esso è il risultato integrale dell'intrinseca simmetria di tutte le transazioni sociali, della reciprocità dei servizi, senza la quale nessuna comunità primitiva potrebbe esistere. Una organizzazione duale può apparire chiaramente nella divisione di una tribù in due 'metà', o essere completamente obliterata; ma oso predire che ovunque sia fatta un'accurata indagine, la simmetria della struttura sarà trovata in ogni società selvag g ia, come base indispensabile degli obblighi reciproci. La maniera sociologica in cui le relazioni di reciprocità sono ordinate le rende ancora più severe. Fra le due comunità, gli scambi non vengono effettuati casualmente, né due individui presi a caso commerciano tra di loro. Al contrario, ciascuno ha il proprio partner permanente nello scambio, e i due devono commerciare tra di loro. Essi sono spesso dei parenti acquisiti. oppure amici giurati, o partner nell'importante sistema di scambio cerimoniale chiamato kula. Anche all'interno di ciascuna comunità i singoli partner sono disposti in 1 Da: Bronislaw Malinowski. Crime we! Cus'rom Dr Savage Societ y , 1926. trad. it. Diritto e castrone nella societri prinútrn. Newton Compton, Roma, 1972. pp. 63-5: 77, 79. 2 ,,Chiamiamo la simmetria delle azioni il principio della rappresaglia. Questo è profondamente radicato nel sentire umano - come reazione adeguata - e ad esso spettò fin da tempi immemorabili la massima importanza nella cita sonale- (Die Gemeinde der MMrinar°. Stuttgart. 1921. p. I(1).
tribale'
Omamento della prora di una canoa
sotto-clan totemici. Cosicché lo scambio stabilisce un sistema di legami sociologici di natura economica, spesso combinati con altri legami fra individuo e individuo, gruppo parentale e gruppo parentale, villaggio e villaggio, distretto e distretto. Ritornando alla relazioni e alle transazioni descritte precedentemente. è facile vedere che lo stesso principio di mutualità fornisce la sanzione per ciascuna regola. In ogni atto c'è un dualismo sociologico: due parti che si scambiano servizi e funzioni, ciascuna parte sorvegliando la misura dell'adempimento e la lealtà della condotta dell'altra parte. Il padrone della canoa, i cui interessi e le cui ambizioni sono legati alla sua imbarcazione, sorveglia l'ordine nelle transazioni interne tra i membri dell'equipaggio e rappresenta quest'ultimo nei rapporti con l'esterno. A lui è legato ogni membro dell'equipaggio al tempo della costruzione e anche dopo, quando è necessaria la cooperazione. Reciprocamente, il padrone deve dare a ciascun uomo il pagamento cerimoniale alla festa della costruzione: il padrone non pùò rifiutare a nessuno il suo posto nella barca; e deve controllare che ognuno riceva la sua giusta parte di pesce. In questa e in tutte le molteplici attività di ordine economico, il comportamento sociale degli indigeni è basato su un ben ripartito dare-e-ricevere, sempre «spuntato» mentalmente. e a lungo andare bilanciato. Non c'è nessuno sconto all'ingrosso dei doveri o accettazione di privilegi; nessuna noncuranza 'comunistica' di marchi e contrassegni. Il modo libero e facile in cui vengono effettuate tutte le transazioni, le buone maniere che pervadono tutto e coprono tutti gli intoppi o disaccordi, rendono difficile per l'osservatore superficiale vedere l'interesse personale e l'attento calcolo che regola il tutto. Per uno che conosca intimamente gli indigeni. nulla è più evidente di questo. Lo stesso con-
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Bronislaw Malinowski Che cos'è la cultura?
trollo che il padrone assume all'interno della sua canoa, è assunto all'interno della comunità dal capo, che di regola è anche il mago ereditario. [...J Se lo spazio lo permettesse, sarebbe facile tradurre questi esempi isolati in un quadro coerente e mostrare che in tutte le relazioni sociali e in tutti i vari campi della vita tribale si può rintracciare esattamente lo stesso meccanismo legale, e che questo pone gli obblighi vincolanti in una speciale categoria e li distingue dalle regole del costume di altro tipo. Una rapida ma estensiva rassegna sarà sufficiente. Per prendere dapprima le transazioni economiche: il baratto di beni e servizi viene per la maggior parte effettuato con una controparte fissa o è associato con definiti legami sociali o accoppiato con una mutualità in materia non-economica. La maggioranza, se non la totalità. degli atti economici appartengono alla stessa catena di doni e contro-doni reciproci, che a lungo termine si bilanciano, beneficiando in egual misura entrambe le parti. [...^ La vera ragione per cui tutti questi obblighi economici sono osservati, e osservati scrupolosamen-
I Dai Bronislaw Malinowski.'I Scientilic Theurr of Cuhure. 1941. trad. it. Moria scientifica della cultura. in B. Malinowski. Teoria scientifica della cultura e altri saggi. Fellrinelli. Milano. 1971 (ed. or. 194t). pp. 44-46.
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te, è che l'inosservanza colloca l'individuo in una posizione intollerabile, mentre la negligenza nel loro adempimento lo copre di obbrobrio. L'uomo che disobbedisce persistentemente agli obblighi legali nei suoi affari economici si troverebbe subito fuori dell'ordine sociale ed economico, ed egli è perfettamente cosciente di questo. Comprove sono fornite al giorno d'oggi,quando un certo numero di indigeni, per indolenza, eccentricità o spirito d'impresa non conformistico, hanno scelto di ignorare gli obblighi del loro status, e sono automaticamente diventati dei proscritti e dei parassiti dei bianchi. Il cittadino onorabile è tenuto a rispettare i propri doveri, anche se la sua sottomissione non è dovuta a nessun istinto o impulso intuitivo o a un misterioso 'sentimento di gruppo', ma al dettagliato ed elaborato funzionamento di un sistema in cui ogni atto ha il proprio posto e deve essere effettuato senza fallo. Sebbene nessun indigeno, per quanto • intelligente, sappia formulare questo stato di cose in maniera astratta e generale, o presentarlo come una teoria sociologica, tuttavia ognuno è ben cosciente della sua esistenza e sa, in ogni caso concreto, prevederne le conseguenze.
Bronislaw Malinowski Che cos'è la cultura?' All'inizio sarà bene dare uno sguardo sintetico alla cultura, nelle sue varie manifestazioni. Essa evidentemente è il tutto inte grale consistente degli strumenti e dei beni di consumo. delle carte costituzionali per. i vari raggruppamenti sociali, delle idee e delle arti, delle credenze e dei costumi. Sia che noi consideriamo una cultura molto semplice o primitiva o una cultura estremamente complessa o sviluppata, noi ci troviamo di fronte a un vasto apparato, in parte materiale. in parte umano e in parte spirituale con cui l'uomo può venire a capo dei concreti, specifici problemi che gli stanno di fronte. Questi problemi sorgono dal fatto che l'uomo ha un corpo soggetto a vari bisogni organici e vive in un ambiente che è il suo miglior amico giacché fornisce i materiali grezzi del lavoro umano, e anche il suo nemico più pericoloso poiché alberga molte forze ostili. In questo giudizio un po' approssimativo e certamente senza molte pretese, che sarà elaborato
Bronislaw Malinowski Che cos'è la cultura?
pezzo per pezzo_ noi abbiamo implicato per prima cosa che la teoria della cultura deve prender posizione sul fatto biologico. Gli esseri umani sono una specie animale. Essi sono soggetti a condizioni elementari che debbono essere soddisfatte affinché gli uomini sopravvivano. la razza continui e tutti gli organismi siano mantenuti in grado di funzionare. Ancora, col suo intero apparato di manufatti e con la sua capacità di produrli e valutarli, l'uomo crea un secondo ambiente. Fin qui non c'è nulla di nuovo e si sono spesso date ed elaborate definizioni simili della cultura. Noi, comunque, ne trarremo una o due conclusioni addizionali. In primo luogo, è chiaro che il soddisfacimento dei bisogni organici o fondamentali dell'uomo e della razza è una serie minima di condizioni imposte a ciascuna cultura_ Si devono risolvere i problemi avanzati dai bisogni nutritivi, riproduttivi e igienici dell'uomo. Essi sono risolti con la costruzione di un ambiente nuovo, secondario o artificiale. Que, sto ambiente che non è né più né meno che la cultura stessa, deve essere continuamente riprodotto, mantenuto e diretto. Ne consegue ciò che potrebbe essere descritto nel senso più generale del ter-
mine come 'un nuovo livello di vita, che dipende dal livello culturale della comunità, dall'ambiente e dall'efficienza del gruppo. Un livello culturale di vita, inoltre, significa che nuovi bisogni si manifestano e nuovi imperativi o determinanti sono imposti al comportamento umano. Chiaramente, la tradizione culturale deve essere trasmessa da ciascuna generazione alla successiva. Metodi e meccanismi di carattere educativo debbono esistere in ogni cultura. L'ordine e la legge debbono essere mantenuti, giacché la cooperazione è l'essenza di ogni realizzazione culturale. In ogni comunità debbono esistere misure per sanzionare il costume, l'etica e la legge. Il sostrato materiale della cultura deve essere rinnovato, e mantenuto in grado di funzionare. Perciò, alcune forme di organizzazione economica sono indispensabili, anche nelle culture più primitive. Così l'uomo deve, innanzitutto, soddisfare tutti i bisogni dell'organismo. Deve creare dispositivi e compiere attività per nutrirsi, riscaldarsi, alloggiare, vestirsi o proteggersi dal freddo, dal vento e dalle intemperie. Egli deve proteggere se stesso e organizzare tale protezione contro nemici e pericoli esterni, fisici, animali o umani. Tutti questi problemi primari degli esseri umani sono risolti mediante prodotti, mediante l'organizzazione in gruppi cooperativi, e anche mediante lo sviluppo della conoscenza, il senso dei valori e l'etica. Noi cercheremo di mostrare che si può sviluppare una
teoria in cui i bisogni fondamentali e il loro soddisfacimento culturale possono essere connessi con la derivazione di nuovi bisogni culturali: che questi nuovi bisogni impongono all'uomo e alla società un tipo secondario di determinismo. Noi potremo distinguere gli imperativi strumentali – che sorgono da attività come quella economica, quella normativa, quella educativa e quella politica – e gli imperativi integrativi. Fra questi elencheremo la conoscenza, la religione e la magia. Le attività artistiche e ricreative potremo riferirle direttamente a certe caratteristiche fisiologiche dell'organismo umano e potremo anche mostrare la loro influenza e dipendenza da modi di azione concordata, da credenze magiche, industriali e religiose. Se una tale analisi ci fa vedere che, prendendo una certa cultura come un tutto coerente, possiamo stabilire un numero di determinanti culturali alle quali essa deve conformarsi, noi potremo produrre un certo numero di giudizi di previsione come guide per l'osservazione, come metro per l'analisi comparativa, e come misure comuni nel processo di adattamento e trasformazione culturale. Da questo punto di vista la cultura non ci apparirà un "insieme di ritagli e brandelli" come è stata molto recentemente descritta da uno o due competenti antropologi'-. Noi potremo rifiutare l'opinione secondo cui 2 La definizione è di R. Lowic (v. Cap. 4).
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Bronislaw Malinowski Magia e religione
"Non si può trovare nessuna misura comune dei fenomeni culturali e Le leggi dei processi culturali sono vaghe, insulse e inutili." L'analisi scientifica della cultura, però, può indicare un altro sistema di realtà che anch'esso si conforma a leggi generali, e può così essere utiliz-
zato come guida per l'osservazione, come mezzo di identificazione di realtà culturali, e come base dell'ingegneria sociale. L'analisi ora delineata, in cui noi tentiamo di definire la relazione fra un'azione culturale e un bisogno umano, fondamentale o derivato, può essere chiamata funzionale.
Bronislaw Malinowski Magia e religione' La magia e la religione nascono e funzionano ambedue in situazioni di tensione emotiva: crisi esistenziali, carenze in occupazioni importanti, morte e iniziazione ai misteri tribali, amore infelice e odio insoddisfatto. Sia la magia sia la religione offrono scampo da situazioni e impasse tali da non offrire altra via d'uscita pratica all'infuori del rituale e della fede nel regno del sovrannaturale. Questo regno abbraccia, nella religione, le credenze nei fantasmi e negli spiriti, il presentimento primitivo della provvidenza, i custodi dei misteri tribali; nella magia, la forza e la virtù primordiali della magia. Sia la magia sia la reglione si basano strettamente sulla tradizione mitologica ed esistono ambedue in un'atmosfera di miracoloso, in una costante rivelazione del loro potere di operare miracoli. Ambedue sono circondate da tabù e pratiche che separano le loro azioni da quelle del mondo profano. Ora, cosa distingue la magia dalla religione? Abbiamo preso come punto di partenza una distinzione ben precisa e tangibile: abbiamo definito la magia. all'interno della sfera del sacro. come I Da: Bronislaw Malinowski, Magic Science and religion. 1945. trai. íL .1f agia. scienza. religione, Neuron Compton. Roma. 1976. pp.91-4.
un'arte pratica consistente in azioni che sono solo mezzi per un fine preciso che ci si attende segua più tardi; la religione, come un insieme di azioni indipendenti che sono esse stesse la realizzazione del proprio scopo. Possiamo adesso approfondire questa differenza. L'arte pratica della magia ha la sua tecnica limitata e circoscritta: formula magica, rito e la condizione dell'esecutore costituiscono sempre la sua banale trinità. La religione, con i suoi aspetti e obiettivi complessi, non ha una tale semplice tecnica, e la sua unità non può cogliersi né nella forma delle sue azioni né nell'uniformità del suo oggetto, ma piuttosto nella funzione che adempie e nel valore del suo credo e del suo rituale. Ancora, il credo della magia, in relazione alla sua natura puramente pratica, è estremamente semplice. La magia è sempre affermazione del potere dell'uomo di causare certi effetti determinati con una determinata formula magica e un determinato rito. Nella religione, d'altra parte, abbiamo tutto un modo soprannaturale di fede: il pantheon degli spiriti e dei demoni, le potenze benigne del totem, dello spirito guardiano, del dio tribale, la visione della vita futura. creano una seconda realtà sovrannaturale per l'uomo primitivo. La mitologia della religione è anche molto più variata e corn-
Bronislaw Malinowski .Magia e religione
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vaggi fornito sopra. Abbiamo mostrato lì che la plessa, oltre che più creativa: di solito si incentra fede religiosa sceglie, fissa e potenzia tutti gli atsui vari dogmi di fede li sviluppa in cosmogonie, teggiamenti mentali validi, come il rispetto per la storie di eroi culturali. racconti delle gesta di dei e tradizione, l'armonia con l'ambiente, il coraggio e semidei. la fiducia nella lotta contro le avversità e nella Nella magia, per quanto importante, la mitologia è prospettiva della morte. Questa fede, realizzata e invece una continua esaltazione delle imprese primantenuta dal culto e dal cerimoniale, ha un immordiali dell'uomo. menso valore biolo gico e rivela così all'uomo priLa magia, arte specifica per fini specifici, è, in mitivo la verità nel senso più ampio e pragmatico ognuna delle sue forme, venuta una volta in posdella parola. sesso dell'uomo per essere poi trasmessa nella liQual è la funzione culturale della magia? Abbianea di discendenza diretta da una generazione almo visto che tutti gli istinti e le emozioni, tutte le l'altra. Quindi rimane fin dai tempi più antichi nelattività pratiche conducono l'uomo in vicoli ciechi le mani di specialisti, e la prima professione dell'udove le deficienze della sua conoscenza e i limiti manità è quella di stregone o mago. La religione, del suo primitivo potere di osservazione e di rada parte sua, nelle condizioni primitive è un'affare gionamento lo tradiscono nel momento cruciale. di tutti, cui ognuno prende parte attiva ed eguale. L'organismo umano reagisce a ciò con slanci sponOgni membro della tribù deve passare per l'iniziatanei, in cui si generano modi di comportamento zione e quindi inizierà egli stesso gli altri. Tutti rudimentali e rudimentali credenze nella loro effipiangono, portano il lutto, scavano la fossa e comcacia. La magia fissa queste credenze e questi riti memorano, e a tempo debito tutti saranno a prorudimentali e li standardizza in forme tradizionali pria volta oggetto di lutto e di commemorazione. permanenti. Così la magia fornisce all'uomo priGli spiriti sono per tutti e tutti diventano spiriti. mitivo un certo numero di atti rituali e di credenze La sola spécializzazione della religione – cioè, il belli e fatti. una precisa tecnica mentale e pratica primitivo medianismo spiritistico – non è una proche serve a colmare le lacune pericolose in ogni fessione ma un dono personale. Un'ulteriore diffeoccupazione importante o in ogni situazione critirenza fra magia e religione è il gioco di nero e ca. Essa mette l'uomo in grado di compiere con fibianco che esiste nella magia, mentre la religione nei suoi primi stadi possiede in scarsa misura il ducia i suoi compiti importanti. di mantenere il contrasto fra bene e male, fra potenze benigne e suo equilibrio e la sua integrità mentale negli accessi d'ira e negli spasmi dell'odio, dell'amore non maligne. Ciò è dovuto anche al carattere pratico della magia, che mira a risultati quantitativi diret- corrisposto. della disperazione e dell'ansietà. La funzione della ma gia è quella di ritualizzare l'ottiti, mentre la reli ione primitiva, sebbene esseng mismo dell'uomo. di accrescere la sua fede nella zialmente morale, ha a che fare con avvenimenti fatali, irreparabili e con forze ed esseri sovranna- vittoria della speranza sulla paura. La magia esprime il valore maggiore per l'uomo della fiducia rituali, così che in essa non rientra il disfare le cose spetto al dubbio. della fermezza rispetto alla irrefatte dall'uomo. La massima che per prima la paura creò gli dei dell'universo non è certamente vera solutezza, dell'ottimismo rispetto al pessimismo. Guardando da lontano e dall'alto, dall'eccelsa rocalla luce dell'antropologia. Per afferrare la differenza fra religione e magia e caforte della civiltà sviluppata, è facile vedere tutavere una chiara visione del triangolo formato da ta la rozzezza e l'inadeguatezza della magia. Ma magia, religione e scienza, vediamo di capire la senza il suo potere e la sua guida l'uomo primitivo non avrebbe potuto dominare come ha fatto le sue funzione culturale di ciascuna. La funzione della difficoltà pratiche. né l'uomo sarebbe potuto avanconoscenza primitiva e il suo valore sono già stati valutati e non sono affatto difficili da afferrare. La zare fino agli stadi più alti della cultura. Da qui deriva la ricorrenza universale della magia nelle soscienza, la conoscenza primitiva, facendo conoscecietà primitive e la sua influenza enorme, da qui re all'uomo l'ambiente che lo circonda, consentendogli di usare le forze della natura, gli concede un deriva il fatto che troviamo la magia quale invariaimmenso vantaggio biologico, collocandolo ben al bile complemento di tutte le attività importanti. Io credo che dobbiamo vedere in essa l'incarnazione di sopra del resto del creato. La funzione della religione e il suo valore abbiamo imparato a com- della sublime follia della speranza, che è stata malgrado tutto la migliore scuola del carattere umano. prenderli nell'esame delle credenze e dei culti sel-
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Sigmund Freud
ll tabù e l'ambivalenza emotiva Capitolo 11 Sigmund Freud Il tabù e l'ambivalenza
emotiva' Proviamo adesso a trattare il tabù come se la sua I divieti tabù più antichi e più importanti danno natura fosse quella di un divieto ossessivo dei noluogo alle due leggi fondamentali del totemismo: stri malati. Dobbiamo costatare innanzitutto che non uccidere l'animale totem ed evitare i rapporti molti dei divieti da tabù che ci vien fatto di rileva- sessuali con membri dello stesso totem appartere sono di tipo secondario, spostato e deformato. nenti all'altro sesso. Accontentiamoci dunque di gettare un po' di luce Queste dovrebbero essere quindi le voglie più anappena sui divieti più originari e significativi deritiche e più intense degli uomini. Poiché ciò è per vanti dal tabù. Inoltre le differenze tra la situazionoi inconcepibile, non possiamo verificare la none del selvaggio e quella del nevrotico sono prostra premessa su questi esempi fin quando il senso babilmente sufficientemente importanti da esclu- e l'origine del sistema totemistico ci restino così dere la possibilità di una concordanza completa e completamente sconosciuti. Ma a chi conosce i rida impedire che l'analogia si trasformi in una persultati della ricerca psicoanalitica sui singoli indifetta identità. vidui basta l'enunciato di questi due tabù, e la loro Diremo in primo luogo che non ha alcun senso in- concomitanza, per richiamare alla mente qualcosa terpellare i selvaggi sulla motivazione reale delle di ben definito, che gli psicoanalisti considerano il loro proibizioni, sulla genesi del tabù. Stando alle punto nodale dei desideri infantili e poi il nucleo premesse che abbiamo stabilito essi non possono della nevrosi. dirci alcunché in proposito, perché questa motivaQuanto alla molteplicità di fenomeni connessi col zione è per loro "inconscia". Tuttavia, possiamo tabù, che ha indotto ai tentativi di classificazione costruire la storia del tabù nel modo seguente, secitati prima, essa è a nostro parere riconducibile a condo il modello dei divieti ossessivi. I tabù sono unità nel modo seguente: fondamento del tabù è divieti antichissimi imposti un tempo dall'esterno un'azione proibita verso la quale esiste nell'incona una generazione di uomini primitivi; ciò significa scio una forte inclinazione. che senza dubbio essi furono inculcati in costoro a Noi sappiamo, pur senza comprenderlo, che colui viva forza dalla generazione che li aveva preceduche compie l'atto proibito, che trasgredisce il tabù, ti. Questi divieti hanno colpito attività verso le diventa a sua volta tabù. Ma come conciliamo quali esisteva una forte inclinazione. I divieti si so- questo fatto con l'altro, secondo il quale il tabù no quindi conservati di generazione in generaziocoinvolge non soltanto chi ha compiuto l'atto ne, forse soltanto a causa della tradizione, rappre- proibito, ma anche persone che si trovano in situasentata dall'autorità dei genitori e della società; o zioni particolari, così come coinvolge queste stesse forse, invece, si sono già 'organizzati" nelle gene- situazioni, nonché oggetti impersonali? Che caratrazioni successive come parte di un patrimonio teristica pericolosa sarà mai questa, per mantenerpsichico ereditato. Chi potrebbe mai decidere, e si identica in tutte queste diverse circostanze? proprio in rapporto al caso in discussione, se tali Non c'è alcun dubbio: non può che essere la pro"idee innate" esistono, se hanno causato la fissaprietà di stuzzicare l'ambivalenza dell'uomo e inzione dei tabù da sole o con il concorso dell'edudurlo nella tentazione di violare il divieto. cazione? Comunque, dal permanere dei tabù scaL'uomo che ha trasgredito un tabù diventa anch'eturisce una costatazione: la voglia originaria di fagli tabù perché ha la pericolosa proprietà di indurre ciò che è proibito continua a sussistere anche re altri nella tentazione di seguire il suo stesso nei popoli che rispettano i tabù. Queste popolaesempio. Egli desta invidia: perché a lui dovrebbe zioni hanno dunque un atteggiamento ambivalenessere permesso ciò che ad altri è vietato? Egli è te verso i loro tabù: a livello inconscio niente sadunque realmente contagioso, nella misura in cui rebbe loro più gradito che trasgredirli, ma hanno ogni esempio è un incitamento all'imitazione; per anche timore di farlo; la violazione del tabù li spaquesto egli va evitato. venta proprio perché la vorrebbero, e il timore è E possibile però che un uomo non abbia violato più forte della voglia. Quest'ultima è tuttavia innessun tabù e tuttavia sia, in permanenza o tempoconscia in ogni singolo individuo della popolazioraneamente, tabù, perché si trova in una condizione ne come è inconscia nel nevrotico. che ha la proprietà di eccitare le voglie proibite degli altri. di destare in loro il conflitto dell'ambivaI Da: Sigmund Freud, Totem and Tnhu, 1913, trad. it. totem e lenza. La maggior parte delle posizioni e situazioni tabù, in Opere VII, Horinghieri,Torino,1975, pp. 39-41. eccezionali sono di questo tipo e hanno questa for-
Bronislaw Malinowski Il complesso matriarcale
za pericolosa. II re o il capo eccita l'invidia per i suoi privilegi; tutti forse vorrebbero essere re. Il defunto, il neonato e la donna che soffre esercitano un'attrazione perché particolarmente bisognosi d'aiuto; l'individuo che ha appena raggiunto la ma-
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turità sessuale, per il nuovo godimento che da lui ci si ripromette. Tutte queste persone e queste situazioni in tanto sono tabù in quanto non bisogna cedere alla tentazione che esse rappresentano.
Bronislaw Malinowski Il complesso matriarcale' Ogni uomo o donna delle Trob ri and arriva al ma- e successori di lui, ed egli esercita sopra di loro trimonio dopo un periodo infantile di giochi ses- una potestas diretta. Quando muore, i suoi beni terreni passano a toro, e durante la vita deve trasuali, seguito da una generale licenza nell'adolesmettere loro ogni speciale abilità o competenza scenza e poi da un periodo nel quale gli amanti viche possegga: danza, canto, miti, magia e arti - È lui, vono insieme in maniera più stabile, abitando in comune con due o tre altre coppie una «casa da inoltre, che procura alla sorella e alla sua famiglia il cibo, e la maggior parte dei prodotti del suo orto scapoli». Ii matrimonio, che è in genere monogava a loro. Il padre, perciò, viene considerato dai fimico, eccetto fra i capi che hanno più mogli, è gli solo per le cure affettuose e per la tenera amiciun'unione permanente, che richiede esclusività zia che li lega. Il fratello della madre rappresenta sessuale, comunanza economica e vita domestica il principio di disciplina, autorità e potere esecutiindipendente. A prima vista, un osservatore superficiale potrebbe credere che si tratti di un tipo vo nella famiglia. [...1 Le forze repressive e modellatrici in Melanesia sodi matrimonio del tutto simile al nostro. In realtà, no due: la sottomissione alla legge matriarcale triinvece, esso è del tutto differente. Per cominciare, bale e la proibizione imposta dall'esogamia. La il marito non è considerato il padre della prole nel prima è causata dall'influenza del fratello della senso da noi dato a questa espressione; fisiologicamente egli non ha nulla a che fare con la loro na- madre, che facendo appello al senso di onore, orgoglio e ambizione, viene a porsi nei riguardi del scita, secondo le idee degli indigeni, che ignorano fanciullo in un rapporto per molti rispetti analogo la paternità fisica. [ figli, secondo la credenza india quello del padre fra noi. D'altra parte, sia gli gena, vengono introdotti nell'utero materno sotto sforzi che egli impone sia la rivalità fra successore forma di spiriti piccolissimi, generalmente dallo e predecessore introducono gli elementi negativi spirito di una parente della madre. Il marito deve allora proteggere e amare i piccoli. «riceverli nelle della gelosia e del risentimento. Così si forma un atteggiamento «ambivalente» nel quale la venerabraccia quando nascono», ma essi non sono zione assume un posto dominante e riconosciuto, “ suoi., nel senso che egli abbia partecipato alla lomentre l'odio represso si manifesta solo indirettaro procreazione. mente. Il padre è, così, un amico benevolo e amato, ma Il secondo tabù, la proibizione dell'incesto, circonnon un parente riconosciuto del fanciullo. È un da di un velo di mistero sessuale la sorella e, in estraneo che ha autorità per le sue relazioni personali col bambino, ma non per la sua posizione so- grado minore, tutti i parenti di sesso femminile del lato materno, come pure tutte le donne dello stesciologica nella famiglia. Parentela reale, cioè identità di sostanza, «identità fisica., esiste soltanto at- so clan. Di tutta questa categoria di donne, la sorella è la figura più rappresentativa, alla quale il traverso la madre. Ed è il fratello della madre che tabù viene applicato con maggior rigore. Abbiamo è investito di autorità sui figli. Ora, questa persovisto che questo tabù, che impone una netta sepana, a causa del severo tabù che vieta ogni stretta relazione tra fratelli e sorelle, non può mai essere razione, entrando nella vita del ragazzo già nell'infanzia, tronca l'incipiente tenerezza verso la sorelin intimità con la sorella, né, perciò, con la famiglia la che è un impulso naturale del fanciullo. Esso, di questa. Essa riconosce l'autorità del fratello e si poi, giacché rende delitto anche un contatto accichina dinanzi a lui come un suddito dinanzi a un dentale nelle cose sessuali, fa sì che il pensiero delcapo. ma fra essi non possono esistere rapporti di la sorella sia sempre presente e, al tempo stesso, tenerezza. I figli di lei sono tuttavia gli unici eredi recisamente represso. Paragonando brevemente i due sistemi di attegI Da: Bronislaw Mnlinoaki. Ser and Sexual Repressimi an ong giamento familiare, vediamo che nella società padie Sarages. 1927, t od. il. Sesso e repressione sessuale tra i selvagtriarcale le rivalità infantili e le successive funzioni Bollati: forino, 2(59). pp. 31- 33:74.75. gi,
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Lidio Cipriani L'inferiorità degli africani
sociali introducono nell'atteggiamento del padre e del figlio, oltre a un muto attaccamento, anche un certo risentimento e dell'antipatia. Fra madre e figlio, d'altra parte, la separazione prematura nell'infanzia lascia un profondo e ardente desiderio insoddisfatto, che in seguito, quando s'introduce l'interesse sessuale, si mischia nella memoria con le nuove attrazioni fisiche e assume spesso un carattere erotico che emerge in sogni e altre fantasie. Nelle Trobriand non c'è frizione tra padre e figlio, e tutto l'ardente desiderio infantile per la ma-
dre viene lasciato consumarsi in modo spontaneo e graduale. L'atteggiamento ambivalente di venerazione e antipatia può essere sentito da un uomo per il fratello della madre, mentre l'atteggiamento sessuale represso di tentazione incestuosa si può formare solo verso le sorelle. Applicando a entrambe le società una chiara ma alquanto grossolana formulazione, possiamo dire che nel complesso di Edipo c'è il desiderio represso di sopprimere il padre e sposare la madre, mentre nella società matrilineare delle Trobriand il desiderio è di sposare la sorella e uccidere lo zio materno. [...1 Con la mia analisi ho stabilito che le teorie di Freud non solo corrispondono più o meno alla natura umana, ma che seguono strettamente le modificazioni di questa, causate dalle varie costituzioni sociali. In altre parole, ho stabilito una profonda correlazione fra il tipo di società e il complesso nucleare che in essa si riscontra. Ciò, mentre è in un certo senso una conferma del dogma principale della psicologia freudiana, ci può indurre a modificare alcuni dei suoi elementi o piuttosto a rendere più elastiche alcune delle sue formule. Per venire al concreto, sembra necessario seguire più sistematicamente la correlazione tra le influenze biologiche e quelle sociali; non per asserire l'esistenza universale del complesso di Edipo, ma per stabilire, nell'analisi di ogni tipo di civiltà, il particolare complesso che le è proprio.
Capitolo 12 Lidio Cipriani L'inferiorità degli africani' Intorno alle razze africane e alla loro possibilità di portarsi efficacemente verso la civiltà europea è noto che si contendono ancora il campo due opposte tendenze: l'una che ammette, l'altra che nega tale possibilità. La disputa non è oziosa, perché dal modo di risolverla dipendono profonde modificazioni nella legislazione coloniale e in parte anche in quella dei territori metropolitani. A scopi pratici si può dire che il problema è discusso appena da dopo la guerra europea, e ciò in conseguenza dello sviluppo preso da giovani discipline scientifiche, quali l'antropologia e la etnologia, in precedenza quasi estraniatesi dalle applicazioni riguardanti il governo delle Colonie. Un ventennio addietro, però, i legislatori stessi si I Da: Lidio Cipriani, Razze africane e civiltà d'Europa, Africa. Atti ile/1'VIII Convegno della Fondazione Alessandro Volta, Roma 1935, pp. 594-95.559.
ostinavano a riconoscere nella loro opera solo un'indole politica ed economica, non richiedente l'ausilio della scienza pura. Per convertirli, in particolare per quanto riguarda i metodi da usare con le genti africane, occorse che gli antropologi si mettessero a percorrere il Continente nero, non tanto per raccogliere crani e misure antropometriche, quanto per indagare, come essi soli potevano. sulle popolazioni odierne e del passato onde scrutarne l'anima e la vita, indi volgere i risultati per assegnare il giusto posto agli Africani nella gerarchia delle razze umane. In questo modo, e in parallelo a studi condotti al medesimo scopo soprattutto sui popoli di razza bianca, le scienze antropologiche si sono impadronite a poco a poco di importanti leve di comando della vita di alcune Nazioni, fra cui in primo luogo la Germania e l'Italia. Ma siccome è per tutti l'ora di decidere per una delle due indicate tendenze – e su quale
Ernesto de Martino Concetto, compiti e fine del sapere etnologico
non dovrebbe esservi dubbio, – è inevitabile che ogni Nazione vi si adegui col tempo. Frattanto, ripeto, non è così, per cui differenze sostanziali e talora pericolose si osservano nelle leggi africane e metropolitane delle Potenze coloniali. Per noi Italiani è fissato ormai in maniera inequivocabile l'atteggiamento da assumere verso le razze di colore in Africa. Esso si ispira alla convinzione che una inferiorità irriducibile, legata a cause biologiche e quindi trasmissibile nelle generazioni, contraddistingue coteste razze, rispetto ai Bianchi. Da ciò la necessità di evitare miscugli di sangue, oltre al dovere per noi di una considerazione appropriata dell'accennata inferiorità, le cui manifestazioni hanno importanza specialmente nel campo psichico. È nostra salda opinione che l'incrocio con gli Africani sia un attentato contro la civiltà europea perché la espone a decandenza: dato che essa è un prodotto possibile solo nelI'ambito delle razze europee. Di queste è il compito, o meglio l'obbligo di mantenerla in vita e di assicurarne l'ascesa. Non altra razza, comunque, ha dimostràto finora di riuscire a contribuirvi; né vi è riuscito nessuno fra i milioni di bastardi bianco-neri comparsi in Africa, in America e purtroppo anche sul suolo stesso dell'Europa. [...) Ha ben motivo, dunque, l'irrigidirsi della politica indigena italiana nei riguardi del meticciato. Da questo rifuggiamo consci dei pericoli che trascina con sé, ma al tempo stesso cerchiamo senza illusioni l'elevazione degli indigeni nell'interesse loro e nostro, e per averli utili ausiliari nello sfruttamento delle aziende coloniali. Non pensiamo, cioè, a metterli da parte, o all'opposto ad assimilarli, ma a guidarli verso un livello sociale consono alle immutabili capacità naturali di cui dispongono. Non ci preoccupa, ed anzi incoraggiamo il loro aumento numerico. Curiamo perciò il miglioramento fisiolo-
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gico delle razze soggette e con l'assistenza materna lottiamo contro la mortalità infantile, grossa piaga dell'Africa. Si provvede, insomma, quotidianamente, all'incremento e all'organizzazione scientifica della collaborazione indigena: ottimo mezzo, a nostro parere. per valorizzare i territori africani. All'uopo sono istruiti i funzionari coloniali italiani e resi consapevoli, a causa della sua portata economica e sociale, di quale è l'effetto della civiltà europea sugli indigeni. Né ignoriamo che nonostante la composizione etnica del territorio etiopico, scelta in confronto al rimanente dell'Africa, è assurdo pretendere di portarvi la prosperità a mezzo di un incivilimento che resta sempre sproporzionato alle forze di chi dovrebbe riceverlo. Si sa, inoltre, che proprio in virtù di tali singolari doti razziali dei sudditi ci è necessario studiare metodi di governo nuovi, senza possibilità di prenderne nessuno a modello. In primo luogo rinunziamo totalmente alle ormai viete menzogne coloniali, care alle maggiori potenze. Non diciamo quindi, imitandole, che stiamo in Africa per importarvi nuovi metodi di vita, innalzare le popolazioni al governo autonomo ed andarcene. Invece stiamo in Colonia sapendo e dicendo che non ce ne andremo più, lieti se potremo sostituire nelle mani dei nostri amministrati, i fucili con le zappe. Di conseguenza assistiamo gli indigeni, ma non alimentiamo in essi velleità parlamentari e di indipendenza: di un'indipendenza che nessuno ha intenzione di elargire e che risulterebbe dannosa, secondo quanto dimostra il contegno degli Africani nei rapporti fra loro e perla messa in valore di quelle risorse naturali che sono giustificazione più che bastante dell'ingerenza europea nel Continente. Alla base di questo nostro originalissimo indirizzo coloniale, è, ripeto, la convinzione di una inferiorità mentale irriducibile nei sudditi di colore, connessa a cause razziali di cui sarebbe pericoloso contaminarsi.
Ernesto de Martino Concetto, compiti e fine
del sapere etnologico' È oramai venuto il tempo di dichiarare esplicitamente come debbano essere determinati, dal punto di vista dello storicismo, il concetto, i compiti e il fine del sapere etnologico, nonché entro quali limiti possono essere utilizzate le tre principali metodiche che si sono avvicendate nella storia di questo dominio della riflessione storiografica, la metodica evoluzionistica, quella storico-culturale e quella funzionale. Per maggior chiarezza di 1 Da: Ernesto de Martino. Nantrali.vno e a-torici.cnr nell'e•tnuln,qia. 194t, Argo. Lecce, 1997, pp. 224-28.
esposizione fisseremo in vari articoli il codice della etnologia storicista: 1. Nei confronti dell'evoluzionismo, l'etnologia storicista respinge il concetto di un'evoluzione meccanica per fasi che tutta l'umanità in blocco avrebbe attraversato, procedendo dal semplice al complesso e dal basso verso l'alto. E respinge questo concetto perché implica una storia universale e generale vuota di pensiero e di realtà, una storia procedente per schemi. nei quali si perde la varietà, la complicazione, l'organicità e la determina-
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Marcel Griaule Cosmologia dogon
Ernesto de Martino Concetto, compiti e fine del sapere etnologico
tezza dell'effettivo divenire storico. Dal punto di vista filologico, l'etnologia storicistica rifiuta la tecnica di lavoro della etnologia evoluzionistica perché insufficiente a determinare prospettive cronologiche sicure, e quindi incapace a fornire allo storico quelle agevolezze di cui questi deve pur avvalersi nella sua ricostruzione. Inoltre la tecnica evoluzionistica assumeva il mondo primitivo come una totalità: non ne sapeva ordinare la massa confusa di fatti in aree culturali distinte o interferenti. [...1 3. Nei confronti del funzionalismo, l'etnologia storicistica respinge il concetto biologico di funzione, nonché il rinnovato materialismo e naturalismo dell'indirizzo. Respinge altresì il concetto di esperimento pur riconoscendo, nella tentata determinazione delle azioni e delle reazioni fra la civiltà europea e le civiltà inferiori, la forma inadeguata di un concetto giusto: e cioè che il mondo primitivo si apre e si dichiara solo nel rapporto con la nostra civiltà, senza di che l'etnologia resta al grado di sapere più o meno ozioso, e non attinge la storicità. Quanto poi al contributo che la etnologia funzionale darebbe, mercé la conoscenza del mondo primitivo, ai problemi della colonizzazione e dell'amministrazione coloniale, e quanto all'auspicata collaborazione fra l'etnologo militante e il funzionario coloniale, è da osservare che i servigi che l'etnologia può rendere alla civiltà sono anche di questo genere, ma non le appartengono in proprio: è chiaro che una politica coloniale, che si illumini di sapere etnologico, è politica e non etnologia, com'è anche chiaro che l'etnologo che offre servigi al funzionario coloniale è egli stesso, almeno in quell'atto dell'offrir servigi politici, un politico e non un etnologo. Il che certo non guasta, sempre che la ragion politica non induca l'etnologo a tradire il vero (il contrario, e cioè che il funzionario coloniale tradisca la vera politica per amore della etnologia è in minore misura nell'ordine delle cose). In ogni caso, qui non si tratta tanto di orientare la nostra civiltà o il nostro paese nella pratica amministrazione e colonizzazione di altre civiltà (si tratterà anche di questo, ma in una cerchia estranea a quella del concetto di etnologia come tale), quanto di promuovere un orientamento d'altra natura, di noi in noi stessi, mercé l'ampliata coscienza del nostro essere che deve risultare dal sapere etnologico. 4. L'etnologia è storia delle civiltà più lontane da quella occidentale. Come tale non è affatto una scienza autonoma, con metodi suoi propri, ma costituisce una delimitazione empirica - e pertanto approssimativa - di una sfera di possibili ricerche storiografiche. Il carattere scientifico (nel senso idealistico del termine) dell'etnologia dipende
esclusivamente dalla sua natura storica, essendo la storia l'unica scienza. Come vi sono i medievalisti, i sinologi, gli egittologi e altrettali, così vi sono gli etnologi, cioè quella classe di studiosi che si occupano delle civiltà che sono da noi più lontane. Senza dubbio la ricerca etnologica si avvale, nel suo ambito, di espedienti euristici particolari che molto opportunamente potranno essere raccolti e illustrati in appositi manuali tecnici: ma non si creda che la natura storica e scientifica dell'etnologia dipenda dalla ingegnosità di tali espedienti e dalla compiutezza di tali manuali! 5. Come storia della civiltà più lontana da quella occidentale, l'etnologia ha per obbietto le cosidette civiltà primitive, le quali sono da noi lontane per eccellenza. È indifferente che tali civiltà siano attualmente viventi ovvero già scomparse: pertanto l'etnologia deve comprendere nel suo concetto anche ciò che in oggi costituisce l'ambito della paletnologia, la quale inopportunamente è tenuta distinta dall'etnologia. Più precisamente la paletnologia deve costituire il momento di riattacco della etnologia stricto senso con la storia della civiltà occidentale, ovvero, più precisamente ancora, attraverso la ricerca paletnologica l'etnologo deve aiutare l'anamnesi di quel momento di scelta e di elezione da cui procede sia la direzione a cui egli appartiene, sia la direzione che attualmente è così remota dalla sua civiltà. Per me europeo culto, il presente cronologico, idealmente così lontano, di un membro di una qualche tribù totemistica può diventare idealmente presente solo se riuscirò a ricordare il momento storico in cui ebbe inizio la divergenza tra le due direzioni di cultura che mettono capo, rispettivamente, a me e a lui. In ogni caso occorre disancorare il concetto di etnologia da quello di mondo primitivo a noi contemporaneo, e identificarlo con quello di civiltà idealmente più lontane, materialmente viventi o morte che siano_ 1 --1
7. È d'uopo altresì disancorare il concetto di etnologia da quello di civiltà esterne alla nostra. Anche nello spazio geografico del nostro continente o del nostro paese, anche nell'ambito della civiltà occidentale, possono ritrovarsi relitti di atteggiamenti culturali idealmente più o meno lontani. Pertanto anche la Demologia (Folklore, Volkskunde) deve essere considerata come momento di una etnologia storicistica: nella determinazione degli anelli che ci legano al mondo primitivo, la demologia può fornire un materiale documentario notevole. 8. L'etnologia non può non essere europeo-centrica, non può, cioè, non essere accompagnata dalla coscienza che la civiltà occidentale, maturatasi attraverso il cristianesimo, la riforma, l'illuminismo
e lo storicismo, rappresenta il livello più alto a cui, fin ora, il genere umano è riuscito ad elevarsi. 9. L'antropologia, o scienza delle razze, è disciplina naturalistica: come tale è da tenersi rigorosamente distinta dall'etnologia, che è storia. Purtroppo un prepotente naturalismo, giovandosi in parte di contingenze extrascientifiche, sembra tornare in onore e tende di nuovo a cancellare quella distin-
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zione fra antropologia e etnologia che è merito della scuola storico-culturale avere, in un modo o nell'altro, mantenuto. Si parla ora di qualità spirituali della razza, di trasmissione ereditaria di tali qualità, di una «Etnobiologia», e simili. La cosa meriterebbe un lungo discorso, tanto più che anche negli etnologi che impugnano queste tesi fa difetto quella solida preparazione speculativa che per l'occorrenza è necessaria.
Capitolo 13 Marcel Griaule Cosmologia dogon' Per i Dogon delle falesie nigeriane, al principio del mondo, prima che le cose avessero inizio, apparve Amma, grande dio onnipotente, il dio classico delle grandi religioni e dei filosofi, maschio e solo. Egli mette in moto il sistema planetario, palle di terra trasformate in stelle che le donne, in seguito, coglieranno dal cielo per darle ai loro figli. Questi ultimi le bucheranno con un fuso e faranno girare per sempre queste trottole luminose. Amma fece il sole femmina: un vaso d'argilla portato al biancore incandescente in maniera definitiva, e circondato da una spirale a otto avvolgimenti di rame rosso. La luna maschio non è riscaldata che un quarto alla volta ed è anch'essa circondata da una spirale a otto avvolgimenti, benché il rame sia bianco. Infine Amma fa la terra, budello d'argilla che egli ha stretto in una mano e che, nello spazio, si tende avanzando verso nord, si allunga a sud, si distende a oriente e ad occidente. separa le proprie membra come farebbe il feto nell'utero, e come ricorda la parola che significa «corpo» nel dialetto dogon: «ciò che separa». La terra diventa una donna, orientata da nord a sud, la schiena piatta rivolta a occidente. Il suo sesso è un formicaio, un nido di termiti la sua clitoride. A questa donna Amma vuole unirsi per generare degli esseri che possano far vivere la sua creazione. Ma nel momento in cui egli le si avvicina la clitoride si drizza, sbarra il passaggio e mostra la sua mascolinità. È maschio, e quindi simile al sesso del partner straniero. Quest'ultimo esce tuttavia vincitore dalla competizione, dal momento che egli è il dio onnipotente: abbatte il termitaio ribel1 Da: Marcel Griaule. .Descente du troi'ieme Verbo•. Psiclré. n. 6 e 13-14, 1947. era in ID. Uescentr Ju rru3imte t érbr, Fata Morgana, Paris, 1996.pp.311-33.'rrud. V. Fabiettì.
le e si unisce alla terra escissa. Questa mette al mondo un essere unico, lo Yourougou, lo sciacallo, che più tardi diverrà l'animale della divinazione. Questa nascita fu un insuccesso poiché in seguito fu chiaro che la regola fondamentale della creazione era quella della gemelliparità; insuccesso imputabile all'incidente dei primi rapporti e forse, più alla lontana, alla solitudine originaria del dio che aveva dovuto, per potersi accoppiare, creare una donna, ossia far scaturire dalla propria natura divina il supporto e il mezzo di trasformazione della propria semenza. Forse siamo qui in presenza di una specie di incesto delle essenze, preludio alle rotture cui andrà soggetta l'armonia dell'universo. Lo Yourougou era il solo a vivere sulla sua madre terra. Egli era certamente munito, come dovevano essere tutte le creature comparse in seguito, di dueanime, corrispondenti una alla sua personalità maschile, l'altra al sesso femminile che si riteneva fosse rappresentato dal suo prepuzio. Il suo numero era dunque, e giustamente, quello dell'essere completo: 7. Questo numero è infatti la somma di 4, simbolo della donna (le quattro labbra) e di 3, simbolo maschile (i due testicoli e la verga). Ma questo primo essere creato non possedeva l'elemento atto a mettere in moto il meccanismo della riproduzione, che ha il numero 8, e che consiste nella Parola. Egli visse dunque nella solitudine e nella sterilità sino al giorno in cui venne a conoscenza dell'esistenza dell'amore vedendo suo padre Amma unirsi a sua madre la terra. Amma ebbe infatti altri rapporti con la terra, rapporti che non furono disturbati dal momento che l'escissione aveva distrutto la causa del primo disordine. La generazione seguì allora il ciclo regolare della gemelliparità: l'acqua, seme divino,
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Marcel Griaule La scelta dell'informatore
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Marcel Griaule La scelta dell'informatore'
formò due Nommo, geni con il corpo la testa e le braccia di forma umana e con il resto del corpo, dalla vita in giù, in forma di rettile. Erano fatti d'acqua, e il loro colore verde annunciava le vegetazioni e le germinazioni dell'avvenire [...] Questi Nommo erano dunque dei prodotti omogenei di Dio, concepiti senza ostacoli e sviluppati normalmente nell'utero della terra. Essi seguirono il loro normale destino che doveva portarli in cielo. Essi dovevano qui ricevere quell'insegnamento che avrebbe fatto di loro i guardiani del mondo. Non che Dio dovette insegnare loro la parola, cosa essenziale di tutti gli esseri e del sistema universale. Essi la possedevano già per il fatto di essere perfetti, poiché il loro numero era 3, il che può in-
terpretarsi in diversi modi. Questo mumero si scompone infatti in 4 (femmina), 3 (maschio). 1 (Parola), intendendo che l'unità non è valida, come simbolo della Parola, che quando fa parte di un complesso di 8. Quest'ultimo numero si scompone poi in due volte 4 (femmina), dal momento che la perfezione massima è il doppio femminile:e questo doppio 4 è rappresentato dalle otto membra dei gemelli degli esseri umani di cui è l'annuncio. Esso è infine due volte 3 (maschile), ai quali si aggiunge il 2, simbolo dell'uguaglianza, dell'identità e dell'intercambiabilità dei gemelli. I due Nommo sono tutte queste cose in una sola volta, dal momento che essi non sono solo perfetti, ma rappresentano tutte le perfezioni.
La scelta del collaboratore indigeno, o anche la giusta valutazione di quello che ci è a volte imposto dalle circostanze, richiede un'attenzione particolare. [...] Non tutti gli indigeni sono degli informatori. Queste società hanno i loro zucconi, i loro taciturni, i loro emotivi incapaci di esprimersi. Le qualità che sono richieste all'indigeno sono di diverso tipo: sociali, tecniche, intellettuali e morali, e fisiche. Un principio abbastanza ovvio è quello per cui gli addetti ad un culto particolare, gli artigiani praticanti a un certo mestiere, sarebbero i più qualificati per descrivere o spiegare quel tal culto e quel tale mestiere. Questa verità, di per sé banale, deve essere comunque ribadita perché spesso si pensa che un indigeno sia al corrente di tutte le tecniche, di tutte le istituzioni e di tutte le rappresentazioni della società di cui fa parte. Bisogna invece rifiutarsi di vedere nel vegliardo una fonte inestinguibile di informazioni. [...] In certi casi, per esempio se si si tratta di ricette medico-magiche, bisognarà trovare per ciascuna di esse l'uomo competente. Il fattore della competenza non dovrà tuttavia obnubilare il ricercatore. Per il fatto che sa e comprende, o crede di comprendere, un informatore cade sovente in vicoli ciechi. Al contrario l'incompetente, il quale conosce le cose solo a metà. fornirà a volte dei rapporti preziosi senza rendersi conto della loro serietà. Così un bambino farà delle indiscrezioni rivelatrici che saranno talvolta all'origine di una scoperta. Un adulto, che per paura dei suoi parenti tacerà su un aspetto di un certo costume che tuttavia conosce bene, fornirà delle indicazioni preziose sui costumi di un villaggio vicino che però conosce poco. [....] Le principali qualità morali e intellettuali dell'informatore che interessano l'etnografo sono la memoria e la buona fede. Il bugiardo, di solito, è tale una sola volta. Alcuni controlli incrociati lo imbrogliano alla svelta e va a finire che le sue stesse menzogne rivelano delle verità fondamentali. Il mentitore agisce per scherzo, perché è un venale, per compiacenza, per paura dei suoi parenti o dei suoi dèi. I primi casi presentano scarso interesse, l'ultimo, invece, merita tutta l'attenzione del ricercatore.che di solito scoprirà, sotto il groviglio delle affermazioni o sotto la coerenza della storia inventata, un motivo di fondo che illuminerà molti punti oscuri. L'informatore più pericoloso è quello che dimentica. o il mentitore per omissione, il quale fornisce una serie di informazioni apparentemente coerenI Da: Marcel Griaule. da Méthode de /'er/rnorraphìe. Paris. Presses Universitaires de France. I957. pp. 54-99. Trad. U. Fai-netti.
ti e d'altronde sincere mascherando il principio o i principi essenziali dell'istituzione [...] Un genere di mentitore che bisogna utilizzare con circospezione è l'informatore che ha subito l'influenza degli europei. Convertito a religioni straniere, ricoperto di una vernice di cui va quasi sempre fiero, l'indigeno evoluto, indipendentemente dal grado della sua evoluzione, dà origine ad un personaggio che, comunque sia, non è particolarmente favorevole all'inchiesta. Disprezzando la cultura dei suoi fratelli, e desideroso al tempo stesso di brillare per la sua conoscenza dei costumi. oltre ad essere contemporaneamente un individuo del tutto sradicato, non produce che discorsi verso i quali bisogna essere estremamente prudenti, e che dovranno essere accuratamente vagliati mediante verifiche incrociate. Il meno pericoloso è quello che ignora apertamente i propri costumi,. prendendosi gioco dell'Europeo interessato dalla «selvatichezza primitiva». Ne abbiamo conosciuti parecchi, come quell'interprete alfabetizzato del Camerun settentrionale che rideva a crepapelle vedendoci prendere nota dei passi di danza del sultano Kotoko di Gulfeil: oppure quel maestro elementare della foce del Niger che, pur vivendo tra la sua gente, ignorava praticamente tutto del culto degli antenati praticato nel suo villaggio natale. Non si può essere nel medesimo tempo a scuola e nel bosco sacro. Gli informatori dovranno essere scelti non solo per il loro valore in quanto individui, ma anche in quanto elementi di un gruppo nel quale dovranno integrarsi presto o tardi. anche e soprattutto se non
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Robert Montagne Il carattere ciclico del sistema politico berbero
vivono volentieri gli uni con gli altri. Essi devono in effetti formare un insieme vivente, ma non necessariamente coerente ed omogeneo. Le lotte intestine, generatrici di emulazione, e che favoriscono la sorveglianza reciproca, saranno le benvenute. [...] Una volta scelto l'informatore, non resta che utilizzarlo. A questo punto entra in scena soltanto l'numanità» del ricercatore. Tutte le attitudini sono produttive se sono osservate in maniera pertinente.Tutte quelle dell'indigeno sono produttive se sono utilizzate al momento opportuno. Il ruolo di segugio del fatto sociale è in alcuni casi confrontabile con quello del detective e del giudice istruttore. Il crimine è il fatto, il colpevole è l'interlocutore, i complici sono tutti i membri della società. Questa molteplicità dei responsabili, l'ampiezza dei luoghi nei quali agiscono, l'abbondanza delle prove conducono in realtà entro labirinti spesso organizzati. Il tavolo di lavoro diventa il teatro di scene di vita. Il ricercatore, di volta in volta compagno affabile per il personaggio messo sul banco degli accusati, amico distante, straniero severo, padre comprensivo, mecenate interessato, ascoltatore apparentemente distratto davanti alle porte aperte sui miste-
ri più pericolosi, amico compiacente vivamente attento al racconto dei problemi familiari più insignificanti, deve condurre una lotta paziente, ostinata, senza respiro, piena di tatto e di passione controllata. II premio consiste in documenti umani. Una delle difficoltà maggiori dell'inchiesta orale è la raccolta delle singole deposizioni. È pericoloso guidare l'indigeno, così come lo è il lasciarlo parlare. Dirigere l'inchiesta significa mettere i paraocchi all'informatore, ricondurlo senza respiro sulla via maestra, sezionare la sua volontà di divagare che conduce spesso a fatti del tutto nuovi. L'informatore indigeno diventa un «paziente»; si stanca presto e lascia tra le mani del suo interlocutore nient'altro che un documento largamente incoerente, ossia falso, avente l'andatura equivoca di una citazione lasciata a metà. Non dirigere l'inchiesta significa incoraggiare nell'informatore il bisogno istintivo che costui ha di nascondere i puniti più delicati. Egli coglierà molto facilmente la minima occasione per sviare dall'argomento e metterne un altro in primo piano. L'inchiesta deve essere considerata un'operazione strategica.
Robert Montagne II carattere ciclico del sistema
politico berbero' Ciò che sappiamo della storia delle province ci permette soltanto di percepire un'alternanza monotona di periodi d'organizzazione e di anarchia, le cui cause profonde non è facile cogliere di primo acchito. Ma se noi limitiamo strettamente il campo della nostra osservazione, scegliendo una parte del Maghreb nella quale si trovano riuniti al tempo stesso entro uno spazio ristretto e un periodo breve, gli aspetti successivi di un'evoluzione che avviene ovunque in base alle stesse leggi, è possibile cogliere la natura del grande ritmo della vita berbera. E possibile osservare innanzitutto l'esistenza agitata delle piccole repubbliche anarchiche, poi la comparsa e lo sviluppo dei capi, che comporta al tempo stesso l'ordine e l'oppressione, infine il ritorno al disordine e alla libertà. Immaginiamo di partire a piccole tappe attraverso le piste della montagna dell'Alto Atlante per raggiungere la valle del wadi 2 Sous e le prime pendici
dell'Anti-Atlante. Alcuni cavalieri del Makhzen', fedeli ai loro signori, ci accompagnano; lasciamo che ci descrivano la situazione del paese così come questa si presenta alla mente dei grandi capi e soprattutto così come essi giudicano opportuno presentarla a degli stranieri'. Non è il desiderio di utilizzare un comodo procedimento di esposizione del nostro argomento ad averci indotti a immaginare la finzione d'una cavalcata attraverso il Sous sotto la guida di accompagnatori dei grandi caid', poi quella di una ascensione a una delle sommità della montagna, grazie alle indicazioni degli abitanti delle alte valli. Di fatto abbiamo potuto esaminare in questo modo i due aspetti opposti del paese, quello dell'Atlante visto da Marrachechb , così come il Makhzen e i capi lo percepiscono o lo vogliono descrivere, e quello delle repubbliche berbere, di cui non è possibile osservare la varietà e la vitalità se non liberandosi per un istante delle guide ufficiali e spostando invece lo
I Da: Robert Montagne, Les llerhère, erte alokhzen duns le Sud 1930. Alcun, Paris, 1930, pp.6: 121: 140-46. trad. U. Fabietti_ 2 Wadi: nome arabo di un corso d'acqua non permanente (ma anche ..fiume,). 3.%tukh:es: «governo in arabo.
4 In questa descrizione del paese, il nostro pensiero va all'epoca in cui i grandi mentali non hanno ancora subito trasformazioni in conseguenza della nostra azione politica, cioè a prima del 1924 [nota di Montagne]. 5 Cani: sono i rappresentanti del Makhzen a livello locale. 6 La sede del Makhzen.
du .Maroc.
Robert Montagne 11 carattere ciclico del sistema politico berbero
sguardo dalle regioni più elevate verso la pianura. L'opposizione di questi due quadri ci permetterà adesso di comprendere meglio le fasi successive della trasformazione del paese. Tra questi due regimi politici opposti – il governo delle assemblee berbere e il Makhzen – sono spesso nate forme intermedie nelle aree del paese meno accessibili della montagna, quelle stesse che potevano, grazie alla loro posizione, sottrarsi alle conseguenze troppo brutali della lotta accanita tra due forze naturalmente ostili. Si sono visti allora dei piccoli capi che hanno tentato di riunire tutte le forze del paese rimasto libero per metterle un'ultima volta ancora contro il temuto dominio del Makhzen. Quasi sempre, è vero, questi campioni dell'indipendenza hanno tradito la causa che pretendevano servire. Diventati padroni delle tribù, hanno saputo, al momento giusto, far precipitare una evoluzione ormai inevitabile e sono diventati essi stessi agenti del governo centrale. Possiamo allora indicare le tappe successive dell'evoluzione politica. In tutte le 'regioni che, grazie alla distanza, si sottraggono all'azione diretta dei caid del Makhzen, l'organizzazione repubblicana democratica o oligarchica è qui. come in tutta l'Africa del nord, la forma di governo scelta spontaneamente dalle comunità berbere; la forza della tradizione non è ancora tanto forte da far sì che talvolta non si veda comparire, a causa delle lotte tra famiglie, un potere personale ancora precario ed effimero. Allorché le circostanze sono favorevoli, l',' amghar»r che è riuscito ad elevarsi al di sopra dei notabili della sua piccola circoscrizione (canton) giunge a consolidare ciò che de Foucauld s ha chiamato con espressione felice un «potere dispotico». È di solito grazie alla guerra che il capo emerso in questa maniera incrementa il suo potere, così come lo ha fondato assassinando i propri rivali. Ben presto egli riesce a costituire, nel bel mezzo delle tribù repubblicane. un vero e proprio staterello che dirige a suo piacimento. Due vie si offrono allora all'amghar vincitore: egli può continuare ad essere il campione dell'indipendenza berbera ed estendere ulteriormente, per mezzo di un abile protettorato, la sua influenza sulle repubbliche vicine; a volte, invece, le circostanze gli suggeriscono, per prudenza o ambizione, di mettere le sue forze al servizio del Sultano e di diventare un agente del Makhzen. In quest'ultimo caso, diventato egli stesso un caid, 7 ,vlrnghun. (pl. imgharen), termine berbero: capo temporale che comanda una tribù o una frazione di tribù. In questa regione r»amghar„ detiene il potere con la forza, mentre il nurzladdem (pl. mogaddemin) è eletto o designai,» a rotazione tra i notabili [nota ali Montagne. p. 1 34. 8 Charles de Foucauld 11855-1916): religioso francese studioso dei Tuareg.
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il capo berbero si incontra con gli altri capi del Makhzen, partiti dai piedi della montagna o dei rilievi importanti alla conquista delle tribù indipendenti e autonome. Ma al tempo stesso, mescolati ai caid arabi delle pianure. i caid berberi della montagna , figli degli amghar indipendenti delle alte vallate, si affretteranno a dimenticare le ultime usanze delle loro tribù che avevano mantenuto, e faranno di tutto per vivere e pensare al modo dei grandi personaggi delle città, personaggi di cui cercano l'amicizia o che aspirano a rimpiazzare. Entreranno ancor più completamente nella tradizione dell'Impero. Per una conseguenza naturale di questo spirito di imitazione. l'esercizio del loro potere tenderà a divenire simile a quello dei capi delle regioni sottoposte al Makhzen da diversi secoli; così la rovina definitiva delle istituzioni berbere ha già ridotto le tribù ....[a una] massa organizzata di contadini rovinati, curvi sui loro campi. i quali non conoscono padroni se non per pagar loro le imposte, e la cui sola speranza è quella della prossima rivolta alla morte del Sultano. E così che il ciclo dell'evoluzione delle tribù del Sous, che trae origine dall'anarchia organizzata per giungere al dispotismo rovinoso del Makhzen e non tarda a ritornare al punto di partenza, grazie al disordine delle siba' non sarà per noi nient'altro che l'aspetto più umile, la forma elementare d'un altro ritmo: quello della nascita, dello sviluppo e della rovina degli imperi musulmani, il cui ricorso regolare basta a riempire l'intera storia del Maghreb con una incessante monotonia.
9 Sibu:
ribellione.
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Gregory Bateson Il travestitismo nel rituale naven
Ruth E Benedict Lo studio della configurazione culturale
Il travestitismo nel rituale naven'
Capitolo 14 Ruth F. Benedict Lo studio della configurazione
culturale' La diversità di costumi nel mondo non è un fatto che possiamo solo passivamente registrare. L'autotortura in un luogo, la caccia alle teste in un altro, la castità prematrimoniale in una tribù e la licenza degli adolescenti in un'altra, non sono una serie di fatti privi di relazioni, di cui dobbiamo accogliere con sorpresa la presenza qui e l'assenza altrove. Anche i tabù del suicidio e dell'assassinio, pur non riferendosi a una norma assoluta, non per questo sono fortuiti Quando avremo capito chiaramente che il comportamento in quanto condizionato dalla cultura è locale, è stato elaborato dall'uomo ed è estremamente variabile, non ne avremo esaurito il significato. Esso tende anche ad essere integrato. E per integrazione, intendiamo questo: una cultura, come un individuo, è un insieme più o meno coerente di pensieri e di azioni, e nell'ambito di ogni cultura si delineano certi scopi caratteristici, che possono essere soltanto suoi, non condivisi da nessun altro tipo
significherebbe rinunciare alla possibilità di un'interpretazione intelligente. Gli antropologi hanno dedicato molto più lavoro all'analisi dei fattori culturali che non allo studio delle culture intese come complessi articolati; e questo dipese in gran parte dalla natura stessa delle prime descrizioni etnologiche. L'antropologo classico non aveva una conoscenza di prima mano dei popoli primitivi: era uno studioso da tavolino, che lavorava sugli aneddoti narrati da viaggiatori e da missionari e sui resoconti schematici dei primi etnologi. Da tanti particolari, era possibile delinerare la distribuzione del costume di strappare i denti, per esempio, o della divinazione attraverso l'esame delle viscere, ma non vedere come questi elementi si inquadrassero, nelle diverse tribù, in configurazioni caratteristiche che davano forma e significato ai costumi. [...] La necessità di uno studio "funzionale" della cultura è stata sottolineata più e più volte da Malinowski, il quale critica i soliti studi della diffusione di un costume come dissezioni post-mortem di or-
di società. Perseguendo tali scopi ogni popolo dà alla sua vita forme sempre più ferme, e in proporzione alla loro forza gli eterogenei modi di comportamento si fondono in un'immagine sempre più coerente. Raccolti da una civiltà ben integrata, i tratti di comportamento peggio assortiti diventano caratteristici dei suoi scopi particolari (spesso attraverso le più improbabili metamorfosi), e possiamo spiegarceli solo dopo aver compreso quali siano le molle del pensiero e del sentimento in quella società. La tendenza all'integrazione non può essere ignorata come un particolare privo d'importanza. Il tutto, come la scienza moderna non si stanca di ripetere a molti propositi, non è soltanto la somma di tutte le parti, ma il risultato di una sistemazione particolare e di un'interrelazione che ha dato vita a un'entità nuova. [...] Le culture non sono semplicemente la somma dei loro elementi costitutivi. Possiamo saper tutto sulle forme di matrimonio, danze rituali, riti della pubertà in una tribù, e tuttavia non capire nulla di quella cultura come un tutto che ha usato quegli elementi ai propri scopi. In vista di questi scopi una cultura sceglie, fra gli elementi offerti dalle civiltà delle regioni circostanti, quelli che può usare, scarta quelli di cui non può far uso, mentre altri ne riplasma secondo le proprie necessità. Naturalmente non è detto che questo processo sia sempre cosciente; ma non tenerne conto nello studio dei modi in cui si configura il comportamento umano
questo passaggio dal singolare al plurale cominciano a diventare evidenti. L'importanza dello studio della configurazione
1 Da: Ruth F. Benedici, Patterns of Culture, 1934, di coltura, Fcl trinclli, Milano, 1960,pp. 52-6.
g lobale, di contro alla sola analisi delle parti diventa sempre più evidente in tutti i campi della scienza moderna.
trad. it. Slone//i
ganismi che potremmo invece studiare nella loro qualità di esseri vivi e funzionanti. Uno dei primi e migliori fra i quadri a grandezza naturale di popoli primitivi che hanno reso possibile l'etnologia moderna è la lunga descrizione fatta da Malinowski degli abitanti delle isole Trobriand, nella Melanesia. Però Malinowski, nelle sue generalizzazioni, si contenta di sottolineare il fatto che i vari tratti stanno nel contesto culturale cui appartengono in un rapporto vivente, ed hanno determinate "funzioni'. Poi generalizza i tratti caratteristici delle Trobriand – l'importanza degli obblighi reciproci. le caratteristiche Iocali della magia, la vita familiare – come se fossero validi per tutto il mondo primitivo, invece di riconoscere quella configurazione delle Trobriand come uno fra molti tipi osservati, ciascuno dei quali con un'economia, una religione, una vita familiare differenti. Lo studio dei fenomeni culturali non può comunque continuare a basarsi sull'identificazione di particolari costumi locali con un generico "primitivo". Gli antropologi stanno volgendo la loro attenzione dallo studio della cultura primitiva a quello delle culture primitive, e le conseguenze di
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Gregory Bateson
Insomma il fatto è chiaro: una donna culturalmente e fisicamente normale indossa, per montare a cavallo, un costume che per il suo sesso è insolito ancora da chiarire vari punti. Consideriamo ad ed è modellato su quello del sesso opposto. Altretesempio il wau: se è normale che faccia il buffone, tanto chiara è la conclusione: dal momento che la non c'è ragione che per questo si travesta da donna. donna è normale, l'elemento insolito è introdotto [...] Bisognerà quindi trovare quella componente dal fatto di montare a cavallo. Da un certo punto della situazione naven che può costituire una spin- di vista non c'è niente di eccezionale in questo, dal ta dinamica al travestitismo. Una risposta forse momento che la storia della nostra cultura ci dice pub venire dall'analisi dell'incidenza del travestiti- che da secoli le donne montano a cavallo. Ma se smo in una società europea. Nel naven il fenome- confrontiamo questa attività con altre che la nono non nasce da una anomalia ormonale o da un stra cultura ha decretato auspicabili e convenienti disadattamento culturale o psicologico dei trave- per una donna vediamo che montare a cavallo, per stiti e quindi se vogliamo analizzare fenomeni il fatto di richiedere un'attività violenta e un grananaloghi in Europa dobbiamo ignorare le aberra- de senso di destrezza fisica, contrasta nettamente zioni e orientarci verso situazioni in cui il travesti- con la maggior parte delle situazioni della vita femminile. tismo è culturalmente normale. Prendiamo il caso di una cavallerizza vestita di L'ethos femminile nella nostra cultura è stato cotutto punto. Indossa calzoni di foggia speciale e ha struito attorno a determinati tipi di situazioni e quello maschile attorno a situazioni totalmente diin testa un tipo di cappello duro che, ci dice, è stato disegnato appositamente per proteggerla dai rami verse. Il risultato è che le donne, poste dalla cultura in una situazione insolita per loro ma normale che sporgono: ma che dire della giacca, di taglio per gli uomini, hanno escogitato un costume che è così decisamente maschile? Eppure è la stessa donna che per il ballo della caccia indossa un abito un travestimento e che la comunità ha accettato da sera femminile e il suo comportamento usuale come appropriato per queste situazioni anormali. è quello di una donna culturalmente normale. Torniamo ora agli Iatmul e vediamo in primo luoNon possiamo quindi spiegare il suo travestitismo go i contesti in cui il travestitismo è parziale e cioè chiamando in causa le ghiandole o una psicologia il caso delle donne che partecipano a cerimonie spettacolari [...]. Qui la loro posizione è strettaanormale. mente analoga a quella delle cavallerizze. La vita normale di una donna iatmul è quieta e schiva Einaudi.ToNarerr. I Da: Grery ^o Bateson, Nomi. 1936. trad. it. mentre quella di un uomo è chiassosa e piena di pp. 187-911988, ri no,
Abbiamo potuto spiegare, attraverso l'analisi dell'ethos iatmul, le sfumature di comportamento dei vari parenti nelle cerimonie naven, ma rimangono
Lo zio materno vestito come una vecchia finge di cadere ed è preso in giro dai ragazzi iatmul
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Margaret Mead Cultura e temperamento sessuale
Gregory Bateson La schismogenesi
ostentazione. Quando partecipano alle cerimonie spettacolari le donne fanno qualcosa che esce dalle norme della loro esistenza e che è invece normale per gli uomini. Per queste occasioni speciali esse adottano elementi della cultura maschile, comportandosi come uomini e indossano ornamenti che solitamente spettano ad essi. Se guardiamo le cerimonie naven sotto questa luce riconosciamo nella situazione naven condizioni che possono spingere entrambi i sessi al travestitismo. La situazione si può riassumere dicendo che quando un bambino ha compiuto un atto degno di nota i suoi parenti devono esprimere pubblicamente la loro gioia e questo è qualcosa di estraneo al loro normale quadro di vita. Gli uomini sono perfettamente abituati dalla loro irreale vita spettacolare alla "prova" della rappresentazione in pubblico ma non sono abituati ad esprimere liberamente le emozioni per qualcosa che riguarda gli altri. Possono esprimere la rabbia e lo scherno, e questo si traduce per loro in un notevole tornaconto, e possono esprimere la gioia e il dolore nel caso in cui venga esaltato o svilito il loro amor proprio; ma manifestare gioia per le azioni di un altro non fa parte delle loro norme di comportamento. Per le donne accade l'inverso: il genere di vita cooperativo fa sì che possano manifestare con naturalezza la gioia e il dolore ma non ha insegnato loro ad assumere un ruolo spettacolare in pubblico. La situazione naven contiene dunque due compo-
nenti, l'elemento di esibizione pubblica e l'elemento di emozione personale: ognuno dei due sessi, quando è posto dalla cultura in questa situazione, si trova di fronte ad una componente che non ha difficoltà ad accettare, mentre l'altra componente è imbarazzante, ha il sapore di una situazione normale per l'altro sesso. E questo disagio la forza dinamica che spinge l'individuo al travestitismo, ad un travestitismo che la comunità è in grado di accettare e che, nel corso del tempo, è divenuto una norma culturale. Dobbiamo infine esaminare il fatto che il wan indossa gli abiti da lutto delle vedove e che le donne indossano gli ornamenti maschili più belli. Nel primo caso si tratta certamente di un modo caricaturale con cui gli uomini esprimono il loro disprezzo per l'ethos femminile. Abbiamo visto che nella situazione di lutto l'opposizione tra i due sessi è più violenta e stridente: indossando gli abiti da lutto delle vedove il wau segue alla lettera la presa in giro che gli uomini fanno delle donne che andando in canoa verso i giardini cantano canti funebri. Ridicolizzandosi il wan esprime incidentalmente il suo disprezzo per l'ethos di chi manifesta con tanta facilità l'afflizione. Tuttavia, poiché il comportamento naven è il modo convenzionale con cui il watt si congratula con il lana per le sue imprese, non vi è dubbio che questo comportamento, per quanto distorto e inappropriato possa sembrare, è inteso dal lana come una forma di congratulazione.
Gregory Bateson La schismogenesi' Ho indicato i processi di differenziazione col termine schis,no.genesi e poiché ritengo che si tratti di fenomeni di ampia rilevanza sociologica e psicologica, mi servirò nel descriverli non soltanto del magro materiale raccolto in Nuova Guinea, su cui è stato originariamente costruito il concetto di schismogenesi, ma anche di incomplete osservazioni di schismogenesi in comunità europee. Vorrei definire la schismogenesi come un processo
di differenziazione nelle norme del comportamento individuale risultante da interazione cumulativa tra individui. Prima di stabilire quale sia l'esatta posizione di questo concetto in rapporto alle varie discipline che ho cercato di separare penso che dovremmo prepararci a studiare la schismogenesi da tutti i punti di vista, strutturale, etologico, sociologico, che ho chiamato in causa; inoltre è abbaI Da: Gregory itateson, :Vacci:, 1936, trod. it. Vuven, Einaudi,Torinu 1985. pp. 166-68.
stanza verosimile che la schismogenesi ha un ruolo importante nella formazione degli individui. Sono propenso a considerare lo studio delle rea-
zioni di individui alle reazioni di altri individui un'utile definizione per quella disciplina che con termine vago viene definita psicologia sociale, definizione che ci tiene lontani dal sospetto di misticismo. Bisognerebbe smettere di parlare di «comportamento sociale degli individui», e di «reazioni dell'individuo alla società», espressioni che portano fin troppo facilmente a concetti come «pensiero di gruppo» e «inconscio collettivo». A mio avviso questi concetti sono pressoché vuoti di significato e perfino evitandoli è sempre possibile confondere, erroneamente, lo studio dei processi psicologici dell'individuo con lo studio sulla società nel suo insieme, confondendo le sfere di pertinenza. Una volta che la nostra disciplina è definita in termini di reazioni di un individuo alle reazioni di al-
tri individui diventa subito evidente che dobbiamo tener conto del fatto che il rapporto tra due individui può di quando in quanto alterarsi anche senza turbamenti dall'esterno e quindi considerare non soltanto le reazioni di A al comportamento di B ma andare oltre e considerare come queste reazioni influiscano poi sul comportamento di B e gli effetti che questo avrà su A. È subito evidente che in molti sistemi di relazione tra individui o tra gruppi di individui, è insita una tendenza al cambiamento progressivo. Se ad esempio uno dei modelli di comportamento culturale, considerato appropriato per l'individuo A, è culturalmente classificato come modello autoritario, mentre da B ci si aspetta che a questo risponda con quel che culturalmente è considerato una sottomissione, è probabile che questa sottomissione incoraggi un altro atto autoritario e che questa autorità richieda ancora un'ulteriore sottomissione. Si tratta quindi di uno stato di cose potenzialmente pro-
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gressivo e, a meno che non intervengano altri fattori a limitare gli eccessi di comportamento autoritario e sottomesso, A diverrà necessariamente sempre più autoritario mentre B diverrà sempre più sottomesso; e questo cambiamento progressivo si avrà sia che A e B siano individui separati sia che appartengano a gruppi complementari. Cambiamenti progressivi di questo tipo possono essere descritti come schismogenesi complementare. Ma vi è un altro modello di rapporto tra individui o gruppi di individui che ugualmente contiene in sé i germi di un cambiamento progressivo. Se, ad esempio, troviamo che vantarsi è un modello culturale di comportamento per un gruppo e che l'altro gruppo risponde vantandosi a sua volta, si può sviluppare una situazione di competizione in cui il fatto di vantarsi conduce a un ulteriore vantarsi e così via. Questo tipo di cambiamento progressivo possiamo definirlo schismogenesi simme-
trica.
Margaret Mead Cultura e temperamento sessuale' Abbiamo fin qui esaminato nei particolari la personalità riconosciuta di ciascun sesso in tre popolazioni primitive. Abbiamo visto che gli Arapesh, uomini e donne, presentano una personalità alla quale, nei limiti storici della nostra ricerca, si può riconoscere un carattere materno (se si considera il comportamento nei confronti della prole) e femminile (se si considera il comportamento sessuale). Abbiamo trovato che tanto gli uomini quanto le donne sono educati alla collaborazione, alla non aggressività, alla comprensione delle necessità e delle esigenze altrui. Nulla fa pensare che, in questo popolo, il sesso sia una potente forza motrice, né nell'uomo né nella donna. In netto contrasto con queste caratteristiche, abbiamo constatato che fra i Mundugumor tanto gli uomini quanto le donne si sviluppano in individui duri, crudeli, aggressivi, con una carica sessuale positiva e gli aspetti materni ridotti al minimo. Tanto gli uomini quanto le donne si avvicinano a un tipo di personalità che, nella nostra cultura, può apparire soltanto in un maschio indisciplinato e molto violento. Né gli Arapesh né i Mundugumor presentano alcun contrasto fra i sessi; l'ideale arapesh, infatti, è rappresentato da un uomo mite e sensibile sposato a una i Da: Margaret Meod. Sex mat temperament in three Primitive Societies. 1935- trod. it. Sesso e temperamento in tre societd primitire, tt Saggiatore, Milano, pp. 295-96;303-04.
Madre e figlia arapesh con Margaret Mead (Nuova Guinea 1935 ca.)
donna mite e sensibile, mentre l'ideale mundugumor è rappresentato dall'uomo violento e aggressivo, sposato a una donna violenta e aggressiva. Nella terza tribù, i Ciambuli. abbiamo trovato il vero e proprio rovescio della nostra cultura, con la
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Alfred R. Radcliffe-Brown Etnologia e antropologia
donna in veste di partner dominante, direttivo, impersonale, e l'uomo nella posizione di minore responsabilità e di soggezione sentimentale. Queste tre situazioni diverse e contrastanti suggeriscono una conclusione molto precisa. Se quegli elementi di temperamento che noi, per tradizione, consideriamo femminili, – come la passività, la sensibilità, la propensione a curarsi dei bambini – possono tanto facilmente, in una tribù, entrare a far parte del carattere maschile, e in un'altra tribù essere invece esclusi sia dal carattere maschile sia da quello femminile, almeno per quanto riguarda la maggioranza degli uomini e delle donne, viene a mancarci ogni fondamento per giudicarli legati al sesso. Conclusione, questa, rafforzata da ciò che abbiamo constatato fra i Ciambuli, dove c'è un vero e proprio rovesciamento della posizione di predominio dei due sessi, nonostante vi esistano istituti formalmente patrilineari. [...] Presso gli Arapesh, come presso i Mundugumor, non abbiamo trovato che un atteggiamento qualsiasi fosse giudicato specifico dell'uno o dell'altro sesso. Tutte le energie di queste due culture sono indirizzate verso la creazione di un tipo umano unico, che prescinde dalla classe sociale, dall'età e dal sesso. Non vi è divisione in classi d'età, alle quali si addica questo o quel motivo o atteggiamento morale. Non v'è una classe di sacerdoti o di veggenti, che si sia organizzata per proprio conto e tragga ispirazione da fonti psicologiche inaccessibili alla maggioranza della gente. È vero che i Mundugumor hanno fatto una scelta arbitraria, ammettendo la capacità artistica solo negli individui che nascono con il cordone ombelicale attorno al collo, negando fermamente il libero esercizio delle attività artistiche a chiunque non sia nato con questa particolarità. È anche vero che i ragazzi arapesh affetti da tigna sono classificati socialmente come individui spostati, antisociali, e che questa società impone a molti ragazzi dal carattere felice, pronto alla collaborazione,
ma afflitti da questa malattia, un contegno che li avvicina a dei paria. Ma, salvo queste due eccezioni, al giovane non è attribuita alcuna parte emotiva, né per nascita né per altra ragione. Come non v'è idea di casta o rango, che ponga l'uno a un livello diverso dall'altro, così non si pensa che alle differenze sessuali debba accompagnarsi un modo di sentire diverso. Manca qualsiasi immaginazione sociale che attribuisca personalità diverse a gruppi diversi della comunità, siano essi gruppi di sesso, d'età o di casta. Quando però consideriamo i Ciambuli, troviamo una situazione che, sebbene inconsueta sotto un certo riguardo, da un altro punto di vista è più intelligibile. I Ciambuli, se non altro, hanno fissato il concetto della differenza sessuale, ravvisando in questa l'elemento formativo della personalità sociale. Ai nostri fini non interessa che, nel far ciò, essi abbiano invertito quello che a noi sembra il quadro normale. Non vi è ragione di credere che ogni donna ciambuli nasca con un temperamento dominante, organizzatore e amministratore, con una sessualità positiva e talc da farle prendere l'iniziativa nei rapporti sessuali, e sia precisa, vigorosa, dotata di senso del possesso, pratica e impersonale nel modo di pensare e di agire; eppure la maggior parte delle ragazze ciambuli rivela, crescendo, queste caratteristiche. Parimenti, mentre nulla dimostra che gli uomini ciambuli siano per natura gli abili e sensibili attori di una commedia rappresentata a beneficio delle donne, la maggior parte dei ragazzi ciambuli manifesta prevalentemente la civetteria dell'attore, che ama rappresentare la sua parte. Grazie al fatto che la formulazione ciambuli delle qualità e delle tendenze dei due sessi è in contrasto con le nostre idee consuete, riusciamo a riconoscere con chiarezza che la cultura ciambuli assegna arbitrariamente certe caratteristiche umane alla donna e, non meno arbitrariamente, certe altre all'uomo.
Capitolo 15 Alfred R. Radcliffe-Brown Etnologia e antropologia' Uno studio più dettagliato dei caratteri razziali e notare che esiste una combinazione di almeno due culturali del Madagascar ci permetterebbe di rico- elementi nella cultura dell'isola, due strati culturastruire un po' meglio la storia dell'isola. Si può li, come talvolta si suole chiamarli, in modo non del tutto appropriato: e inoltre un esame completo 1 Da: Alfred R. Radchffe-nronn. Methods ofEthnnlr,•Sy and so- e sistematico della cultura, comparata a quelle delria/ Anrhropolggy. 1923. trad. i t. I metodi dell emrdogin e dell anle reg i on i sud-orientali dell'Asia e dell'Africa, potropologia sociale. in A.R. Radcliffe-nrown, Il metodo nel/mt• rrnpoh,Fia sociale. Officina. Roma. 1973 (ed. or. 1958), pp. 29-32. trebbe permetterci di analizzare l'insieme dei trat-
Alfred R. Radcliffe-Brown Etnologia e antropologia
ti culturali esistenti, in modo da poter definire, per molti di loro, se furono portati dagli immigranti oppure se appartenenti all'antica popolazione dell'isola. In tal modo potremmo ricostruire alcuni dei caratteri culturali esistenti nell'isola prima dell'invasione. [...] Questo studio storico della cultura ci fornisce solo una vaga conoscenza degli eventi e del loro ordine di successione. Esiste però un altro tipo di ricerca che proporrei di definire come "induttiva dal momento che per intenti e metodi è in tutto analoga a quella caratteristica delle scienze naturali o induttive. [...] La scienza induttiva ha ra g giunto la padronanza su tutti i regni della natura, uno dopo l'altro: prima di tutto essa ha scoperto e spiegato i movimenti delle stelle e dei pianeti e i fenomeni fisici del mondo che ci circonda: poi le reazioni chimiche delle sostanze che compongono il nostro universo; poi vennero le scienze biologiche che permisero la scoperta delle norme generali che governano le reazioni della materia vivente; infine nel secolo scorso gli stessi metodi induttivi sono stati applicati alle operazioni che riguardano la mente dell'uomo. Ai ricercatori dell'epoca nostra spetta il compito di applicare questi metodi ai fenomeni della cultura e della civiltà, alle leggi, alla morale, all'arte, alla lingua. e ad ogni tipo di istituzioni sociali. Ci troviamo dunque di fronte a questi due metodi di ricerca, il cui modo di procedere nei riguardi dei
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fatti della cultura è ben diverso. E considerata la loro differenza sia quanto ai risultati cui tendono, sia quanto al metodo logico con il quale si propong ono di rag g iun g ere quei risultati, ci sembra opportuno considerarli come studi distinti, benché indubbiamente siano connessi tra loro, e conferire loro nomi differenti. Ed i nomi più adatti in questo caso mi sembrano quelli di etnologia e antropologia sociale, per cui propongo di applicarli alle due discipline una volta per tutte. Già esiste a mio avviso una netta tendenza a discriminare, nell'uso. i due termini secondo il criterio qui detto: tuttavia tale uso non è mai stato. per quanto ne so. sistemizzato. Proporrei dunque di adottare il termine etnologia per lo studio della cultura secondo il metodo della ricostruzione storica descritto sopra. e di adottare il termine antropologia sociale per le ricerche che mirano a determinare le regole generali a cui soggiacciono i fenomeni della cultura:. Penso, dando questo suggerimento, di non far altro che, in realtà. rendere esplicita una distinzione già implicita nella maggior parte nei casi in cui i termini vengono usati correntemente. 2 Ci si potrebbe chiedere per quale ragione non mi serva della parola "sociologia" al posto dell'altra, ceno più ingombrante. "antropologia sociale - . Cinici di questo termine ha un valore preciso. dam che in linea di massima la cosiddetta sociologia nei paesi di lingua inglese e una ricerca in ceno senso priva di forma definita, dei Cui carie nitori Stcinme, scrive: ••on désire des vdriu.s larger, it<• rnrllca i :lablcs pour brute rhumanite, commc pris de quclqucs heures de spd vLuìon s:nmrlente,,.
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Alfred R. Radcliffe-Brown
Lo studio delta
struttura sociale
Alfred R. Radcliffe-Brown Lo studio
Alfred R. Radcliffe-Brown If sistema kariera
Alfred R. Radcliffe-Brown Il sistema kariera'
della struttura sociale' Io concepisco l'antropologia sociale come la parte teorica della scienza naturale della società umana, cioè l'indagine dei fenomeni sociali con metodi sostanzialmente simili a quelli usati nelle scienze fisiche e biologiche. Sono del tutto disposto a chiamare la materia «sociologia comparata» se qualcuno lo preferisce. Ciò che è importante è l'oggetto della ricerca non la sua denominazione. Come sapete, ci sono alcuni etnologi e antropologi che ritengono impossibile, o perlomeno non conveniente, applicare ai fenomeni sociali i metodi teorici delle scienze naturali. Per queste persone l'antropologia sociale, come l'ho definita, è qualcosa che non esiste e che non esisterà mai. Secondo costoro, natùralmente, le mie osservazioni non hanno alcun significato o, quanto meno, non quello che io attribuisco loro. [...] Consideriamo ora quali sono i fatti concreti e osservabili di cui si occupa l'antropologo sociale. Se intraprendiamo lo studio, ad esempio, degli aborigeni di una parte dell'Australia, troviamo un certo numero di individui inseriti in un certo contesto naturale. Possiamo osservare il loro comportamento, ivi compreso, naturalmente, il loro modo di esprimersi e i risultati materiali delle loro azioni passate. Con ciò non osserviamo una «cultura», giacché questo termine non individua una realtà concreta ma costituisce un'astrazione – e, stando all'uso che se ne fa normalmente, un'astrazione generica –. Una osservazione diretta ci rivela invece che questi individui sono legati tra loro da una complessa trama di rapporti sociali. Uso il termine «struttura sociale» per definire questa trama di rapporti realmente esistenti. Considero questo il mio argomento di studio se devo svolgere una ricerca, non come etnologo o come psicologo, ma come antropologo sociale. Non voglio dire che l'antropologia sociale si esaurisce nello studio della struttura sociale, ma ritengo che esso sia, in un senso molto importante, la parte più fondamentale di questa scienza. [...] I fenomeni sociali costituiscono una classe a sé tra i fenomeni naturali. Essi sono tutti collegati, in un Da: Alfred R. Radcliffe-Brown, The Social Structure. 1940, trad. il. La struttura sociale, in A.R. Radcliffe-Brown, Struttura e Jimrione nella societd primitiva, Jaca Book, Milano, 1968 (ed. or. 1952), pp. 23-25.
Da quando Fison e Howitt pubblicarono nel 1880 la loro opera Kamilaroi and Kurnai2, l'organizzazione sociale delle tribù aborigene australiane ha ricevuto grande attenzione da parte degli antropologie la letteratura al riguardo è oggi abbondante. Tale letteratura ha fortemente accreditato un certo numero di concezioni sbagliate. Questo lavoro è un tentativo di indicare, nella maniera più concisa possibile, in che cosa consista quella organizzazione, e di fornire un resoconto complessivo delle conoscenze attuali ad essa relative.[...] Gran parte delle tribù australiane possiede forme di divisione interna in due, quattro o otto parti che, dal momento che si presume siano regolative delle relazioni matrimoniali, sono state chiamate «classi matrimoniali». Questa qualifica è, per molte ragioni, inadeguata. In sociologia conviene considerare il termine «classe» come un termine tecnico per indicare quei gruppi sociali distinti l'uno dall'altro per rango o occupazione. Dimostreremo che è alquanto fuorviante chiamare queste divisioni «divisioni matrimoniali» o «divisioni esogamiche». Inoltre, le quattro divisioni di una tribù come ad esempio quella dei Mara, sono alquanto diverse, per natura e costituzione, dalle quattro divisio1 Da: Alfred R. Radcliffe-Brown. «The Social Organization of Australian Tribes», Oceania, 1, (1), 1930, ora in Adam Kuper (a cura). The Social Anthropology of Radcliffe-Brown, Routledge and Kegan Paul. London. 1977, pp. 131: 134-35.Trad. U. Fabietii. 2 Vedi Cap. 9. modo o nell'altro, all'esistenza delle strutture sociali, sia che essi ne facciano parte, sia che ne derivino. Le strutture sociali sono altrettanto reali che i singoli organismi. Un organismo complesso è un insieme di cellule viventi e di fluidi interstiziali aventi una certa struttura; una cellula vivente a sua volta costituisce la struttura di molecole complesse. I fenomeni fisiologici e psicologici che osserviamo nella vita degli organismi non sono semplicemente il risultato della natura delle molecole o degli atomi che costituiscono l'organismo, ma sono il risultato della struttura entro la quale sono riuniti. La stessa cosa vale per i fenomeni sociali che si osservano in qualsiasi società umana: essi non sono il risultato immediato della natura degli individui, ma sono il risultato della struttura sociale che li unisce.
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ni dei Kamilaroi o dei Kariera. sebbene siano tutte chiamate egualmente «classi». Eviterò pertanto di parlare di classi, e cercherò di sostituire questo termine con uno diverso. Dove esistono due divisioni parlerò di metà (moieties). Tanto nell'Australia occidentale quanto in quella orientale, sono presenti tribù ripartite in metà matrilineari. Così, nei dintorni di Perth la tribù era divisa in due parti chiamate Manitjmat e Wardangmat dal nome del corvo (wardang) e del cacatua bianco (manitj). Un uomo di una divisione (metà) doveva obbligatoriamente sposarsi con una donna dell'altra divisione (metà). La prole apparteneva alla metà della madre. Altre tribù erano divise in metà patrilineari. Così nel Central Victoria i nativi si dividevano in metà che prendevano il nome dal falco e dal corvo. Un uomo appartenente alla metà del falco poteva sposare solo una donna appartenente alla metà dal corvo, e la proie sarebbe stata del falco come il padre. Un gran numero di tribù possiede una divisione in quattro parti, che qui chiameremo sezioni. Così, presso i Kariera, le quattro sezioni prendono il nome di Banaka, Burung, Karimera e Palyeri rispettivamente. Un uomo di una sezione può sposare soltanto una donna di un'altra sezione particolare. Così, un uomo Banaka può sposare solo una donna Burung. I loro figli appartengono a una sezione differente tanto da quella del padre quanto da quella della madre. I figli di un uomo Banaka e di
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Alfred R. Radcliffe-Brown La teoria del totemismo
Alfred R. Radcliffe-Brown 11 principio dell'unità dei siblings
una donna Burung sono Palyeri, ed essi, a loro volta, potranno sposarsi solo con Karimera. È opportuno rappresentare il sistema matrimoniale e quello di discendenza per mezzo di uno schema.
Banaka = Burung Karimera = Palyeri Il segno = connette le due sezioni che di sposano tra loro: la freccia connette la sezione di una madre con quella dei suoi figli. Sostituendo ai nomi delle lettere corrispondenti abbiamo, come modello generale per le quattro sezioni, lo schema seguente: A–B C=D Sulla base della regola matrimoniale vigente, abbiamo allora questa situazione:
Propongo di designare le due sezioni che si sposano tra di loro come formanti un paio. Le due paia sono perciò AB, CD. Le sezioni che contengono il padre e il figlio (maschio e /o femmina) le chiameremo coppia. Le due coppie sono pertanto AD e BC. Se un uomo appartiene ad una sezione i suoi figli (maschi e femmine) apparterranno all'altra sezione della coppia. I figli e le figlie di un uomo Banaka sono sempre Palyeri. Sarà facile notare come questo sistema a quattro sezioni comporti una divisione della società in due metà matrilineari ed anche una divisione trasversale in due metà patrilineari. Perciò nel diagramma le sezioni A e D (Banaka e Palyeri) costituiscono una metà patrilineare, e B e C (Boning e Karimera) l'altra. Mentre A e C costituiscono una metà matrilineare e B e D l'altra. In molte delle tribù dell'Australia orientale ci sono nomi per le metà matrilineari in aggiunta ai nomi delle sezioni. È importante ricordare che le metà esistono in ogni sistema a sezioni, tanto che esse abbiano un nome oppure no.
considerevoli. In molti sistemi, nelle diverse parti del mondo, i rapporti tra un uomo e la sorella di suo padre presentano caratteristiche tali per cui è lecito affermare che egli la considera come una specie di «padre donna» (female father). Di fatto in alcuni sistemi è questo il termine usato oppure è una variante del termine di Padre. Se a qualcuno può sembrare impossibile che un uomo consideri la sorella di suo padre un parente dello stesso genere del padre, è perché considera questo rapporto non un rapporto sociale definito dal tipo di comportamento, che è ciò di cui stiamo trattando, ma un rapporto psicologico, estraneo al contesto in esame. Quanto abbiamo detto vale anche per il »sibling group» della madre.
Alfred R. Radcliffe-Brown La teoria
A sposa b, la prole è D ed B sposa a, la prole è C e c C sposa d, la prole è B e b D sposa c, la prole è A ea
dei totemismo'
Alfred R. Radcliffe-Brown Il principio dell'unità
dei siblings' Il >' sibling group», è costituito dai figli e dalle figlie di un uomo e delle sue mogli, dove esiste la poliginia; di una donna e dei suoi mariti, dove esiste la poliandria. Il legame che unisce fratelli e sorelle all'interno di un gruppo sociale, è ovunque considerato un legame importante, anche se in alcune società più che in altre. La solidarietà del »sibling group» si rivela in primo luogo nei rapporti sociali che intercorrono tra i suoi membri. Da questo principio ne deriva un altro, che definirò il principio della unità del «sibling group». Il principio della unità non si riferisce alla unità all'interno del gruppo, come potrebbe risultare dal comportamento reciproco dei membri, ma all'unità del gruppo nei confronti di una persona estra-
I Da: Alfred R. Radcliffe-Brown, The Study of Kinship Systems, 1941, trad. it. I sistemi di parentela, in A.R. Radcliffe-Brown, Struttura e funzione nella .rodete primitiva. Jaca Book, Milano. 1965 (ed. or. 1952). pp. 52.84.
porta con suo padre. Il termine di parentela che egli usa per essi è quello usato per il padre, e il comportamento verso di essi, soprattutto per quanto riguarda certi aspetti importanti, è lo stesso comportamento che contraddistingue i suoi rapporti con il padre. Ciò che definisce questo comportamento è diverso, naturalmente, nei diversi sistemi. Nei sistemi in cui si dà molta importanza all'anzianità, la differenza tra il fratello maggiore e il fratello minore può esprimersi solo dal comportamento nei loro riguardi, oppure da quest'ultimo unitamente alla terminologia; resta comunque un elemento comune nel modello di comportamento verso tutti i «padri». La differenza di sesso è ancora più importante della differenza di età, e nei sistemi che stiamo esaminando le diversità a questo proposito sono
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nea al gruppo e legata ad esso da un particolare rapporto con uno dei suoi membri. Un grafico chiarirà meglio i concetti. I.o schema sottoriportato rappresenta un «sibling group» di tre fratelli e due sorelle, al quale Ego è legato per il fatto che è figlio di uno dei tre uomini. Nei sistemi di parentela di cui stiamo trattando, Ego si trova ad avere lo stesso tipo generale di rapporto con tutti i membri del gruppo. Per lui, il gruppo costituisce una unità. Il suo rapporto con i fratelli e le sorelle del padre è considerato dello stesso tipo generale del rapporto con il padre stesso. A O A O A Ego Tuttavia all'interno del gruppo esistono due principi di differenziazione: il sesso e l'anzianità. Nei sistemi in cui l'anzianità non ha molta importanza, un uomo si comporta con i fratelli di suo padre siano essi più giovani o più anziani, come si com-
Qual è il principio in base al quale delle coppie come il falco e la cornacchia, l'aquila e il corvo, il coyote e il gatto selvatico, sono scelte a rappresentare la metà di una divisione duale? Il motivo per cui ci poniamo questa domanda non è di semplice curiosità. Possiamo verosimilmente supporre che la spiegazione del principio in questione ci fornirà un'indicazione importante circa il modo nel quale i nativi stessi concepiscono la divisione duale come parte della loro struttura sociale. In altri termini, possiamo chiederci: «Perché proprio falco e cornacchia, e le altre coppie sopra citate?». Ho raccolto molte leggende circa il Falco e la Cornacchia da varie parte dell'Australia e in tutte i due animali sono rappresentati come antagonisti in un qualche conflitto. Basta un unico esempio, che proviene dall'Australia occidentale. Falco era il fratello della madre di Cornacchia. In queste tribù un uomo usa sposare la figlia di un fratello della madre di modo che Falco risultava così il possibile suocero di Cornacchia, ed aveva perciò nei suoi confronti certi obblighi, come quello di fornirgli il cibo. Falco disse a suo nipote di andare a caccia di wallaby. Cornacchia, ucciso un wallaby, lo mangiò, commettendo un'azione estremamente riprovevole secondo la morale della sua tribù. Quando tornò al campo lo zio gli chiese che cosa
I Da: Alfred R. Radcliffe-Brown, The Comparative (Vedimi in Social Anthropology, 1952, trad. it. 11 metodo comparativo nell'antropologia sociale. in A.R. Radcliffe-Brown. Il metodo nell'antropologia
sociale, Officina, Roma. 1973 (cd. or. 1955). pp. 131-38.
avesse preso, e Cornacchia, che era un bugiardo, disse di non essere riuscito a prendere nulla. Allora Falco disse: »Ma qualcosa devi avere in pancia, visto che la tua cintura non è più stretta!». Cornacchia rispose che per calmare gli stimoli della fame si era riempito la pancia con la resina di acacia. Lo zio replicò che non gli credeva e che l'avrebbe costretto a vomitare. [...] Cornacchia vomitò il wallaby che aveva mangiato. Perciò Falco Io prese e lo fece ruzzolare nel fuoco; i suoi occhi divennero rossi di fiamma, egli si annerì di carbone. e nel dolore gridava: «Wa! Wa! Wa!». Falco pronunziò le parole che sarebbero state poi una legge: «Tu non sarai mai più un cacciatore, ma sarai per sempre un ladro». E così infatti ora stanno le cose. [...] Questa è. naturalmente, "solo una storia", che si può ritenere infantile. Essa diverte gli ascoltatori se viene narrata con le dovute espressioni drammatiche. Ma se esaminiamo qualche dozzina di queste leggende troviamo che il tema affrontato è sempre lo stesso. Le somiglianze e le differenze tra le specie animali si traducono in termini di alleanza e di conflitto, di solidarietà e opposizione. In altre parole il mondo della vita animale è rappresentato in termini di relazioni sociali simili a quelle della società umana. [...] L'indagine comparativa ci dimostra perciò che quel che gli Australiani pensano circa il falco e la cornacchia non è che un esempio particolare di un fenomeno ben altrimenti diffuso. Per prima cosa, queste leggende interpretano le somiglianze e le
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Alfred R. Radcliffe-Brown La teoria del totemismo
differenze tra specie animali in termini di relazioni sociali di amicizia e di antagonismo, cioè di relazioni identiche a quelle vigenti nella vita sociale degli esseri umani. In secondo luogo, le specie naturali sono distribuite in coppie di opposti. Ed esse dunque sono prese in considerazione solo se per qualche aspetto si rassomigliano. Ad esempio falco e cornacchia si rassomigliano per essere i due principali uccelli mangiatori di carne. [...] Pensavo, del tutto erroneamente, che la somiglianza di fondo tra il pipistrello e la civetta o nottola consistesse nel fatto che entrambe le specie volano di notte. Ma bisogna considerare anche un'altra specie animale: il rampichino. Questo animale non vola di notte, eppure è il totem delle donne
nella parte settentrionale del Nuovo Galles del Sud. Una volta, mentre mi trovavo nella regione del Fiume Macleay con un nativo, un rampichino fece la sua comparsa ed io chiesi all'indigeno di dirmi qualcosa di quell'animale. «Quello è l'uccello che ha insegnato alla donne ad arrampicarsi sugli alberi., mi disse. Dopo aver continuato un po' a discutere io chiesi: «Che somiglianza c'è tra il pipistrello e il rampichino?»; egli, con un'espressione del volto che indicava sorpresa per il fatto che gli rivolgessi tale domanda, rispose: «Ma è chiaro: essi vivono entrambi nei buchi dei tronchi d'albero». Mi ricordai allora che anche la civetta e la nottola vivono nei fori dei tronchi d'albero. Il fatto che certi animali mangino carne costituisce allora un tipo di affinità sociale, come tra falco e cornacchia, oppure tra dingo e gatto selvatico. [...] A questo punto possiamo rispondere alla domanda «Perché falco e cornacchia?». La risposta sta nel fatto che queste specie sono scelte come rappresentanti di un tipo di relazione che possiamo definire di `opposizione". 11 concetto australiano di quella che qui viene definita "opposizione" consiste in una particolare applicazione del principio di associazione degli opposti, che è una caratteristica universale del pensiero umano, di modo che noi pensiamo per coppie di opposti, come sopra e sotto, forte e debole, nero e bianco. Ma il concetto australiano di opposizione" combina l'idea di "coppia di contrari" con l'altra di "coppia di opponenti". Nelle leggende sul falco e la cornacchia i due uccelli sono "opponenti" nel senso di "antagonisti". Essi però sono anche opposti a causa della loro differenza di carattere, Falco come cacciatore, Cornacchia come predatore. Il cacatoa nero e il cacatoa bianco che rappresentano le due metà nel Victoria Occidentale sono un altro esempio di contrasto. dato che gli uccelli sono sostanzialmente simili. salvo la differenza di colore. In America le due metà si riferiscono ad altre coppie tra loro contrarie, Cielo e Terra, guerra e pace, corrente e controcorrente, rosso e bianco. Dopo un ampio esame comparativo, penso di poter ben a ragione stabilire una legge generale per cui dovunque (in Australia, in Melanesia o in America) esista una struttura sociale di metà esogamiche, si ritiene che le metà stiano tra loro in una relazione che qui è definita di "opposizione".
Edward E. Evans-Pritchard La stregoneria conte spiegazione
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Edward E. Evans-Pritchard La stregoneria come spiegazione' Quando uno zande parla di stregoneria non ne parla come possiamo fare noi per la stregoneria misteriosa e fatidica della nostra storia. Per lui, essa rappresenta un avvenimento del tutto banale e quasi non passa giorno senza che egli vi si riferisca. Laddove noi parliamo di raccolti, di caccia o delle condizioni dei nostri vicini, lo zande introduce nell'argomento della conversazione il tema «stregoneria.. Dire che la stregoneria ha provocato il carbonchio alle colture di arachidi, che ha messo in fuga la selvaggina, che ha fatto ammalare il tal dei tali, tutto ciò equivale a dire, nei termini della nostra cultura, che le arachidi sono state danneggiate dal carbonchio, che la selvaggina in questa stagione scarseggia e che il tal dei tali s'è preso l'influenza. La stregoneria prende parte a tutti gli infortuni: gli Azande ne parlano e se li spiegano in questo idioma particolare. La stregoneria è una classificazione di infortuni che, pur essendo per altri versi differenti tra loro, hanno un unico carattere in comune: il fatto di essere nocivi all'uomo. Ove il lettore non si rendesse conto che la stregoneria è un fattore del tutto normale nella vita degli Azande. un fattore al quale quasi tutti gli avveniDa: Edward E. Evans-Priichard, Witchcraft, Oracles and Magic among the Azatde, 1937. trad. it. Stregoneria. oracoli e mogia tra gli A:ande. Angeli. Milano, 1976, pp. 112-3: 159-10. Guerrieri degli Azande (anni 1920)
menti possono essere rapportati, fraintenderebbe in pieno il loro atteggiamento nei riguardi di essa. Per noi, la stregoneria è qualcosa che ossessionava e indignava i nostri ingenui antenati. Ma lo zande si aspetta di imbattersi nella stregoneria a qualunque ora dei giorno o della notte. A non venirne quotidianamente a contatto, egli sarebbe altrettanto sorpreso che a trovarvisi a confronto. Egli non vi scorge alcunché di miracoloso. Un cacciatore si aspetta che la sua attività sia ostacolata o danneggiata dagli stregoni, ma dispone anche dei mezzi per farvi fronte. Quando gli capitano dei malanni, lo zande non cade preda del timore reverenziale davanti al gioco di forze soprannaturali. La presenza di un nemico occulto non Io terrorizza. Al contrario, ne prova un estremo fastidio. Ciò significa per lui che qualcuno, per fargli un dispetto, ha rovinato Ie sue arachidi o gli ha fatto venir meno la caccia o ha fatto prendere a sua moglie un colpo di freddo, e, di certo, ciò è per lui motivo di rabbia! Egli non ha arrecato male a nessuno, e quindi quale diritto ha chicchessia di intromettersi negli affari suoi? È un'impertinenza, un insulto, un brutto tiro! Parlando di queste azioni, gli Azande sottolineano l'aggressività, non il carattere misterioso e soprannaturale; e nel loro modo di rispondervi. non è il timore reverenziale che si rivela, bensì la rabbia. [...]
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Edward E. Evans-Pritchard I gemelli sono uccelli
Per ottenere la gamma completa delle sue idee sulla causazione, bisogna far sì che sia lo zande stesso a colmare le lacune, altrimenti si rischia di essere fuorviati dalle convenzioni linguistiche. Egli dice: «Il tal dei tali è stato stregato e si è ucciso» o semplicemente che «il tale è stato ucciso dalla stregoneria». Ma quel che riferisce è la causa ultima della sua morte, non le cause secondarie. Se gli domandi: «Come s'è ucciso?», risponderà che si è ucciso impiccandosi al ramo di un albero. Se gli chiedi «Perché si è ucciso?», risponderà che s'era adirato con i suoi fratelli. La causa della morte è stata l'impiccagione ad un albero, e la causa della sua impiccagione ad un albero, la collera nei confronti dei suoi fratelli. Se, a questo punto, chiedi ad
uno zande perché mai egli dovrebbe affermare che l'uomo è stato stregato, quando in realtà s'è suicidato a causa della rabbia coi suoi fratelli, risponderà che soltanto i pazzi commettono il suicidio e che, se chiunque si adira con i propri fratelli dovesse suicidarsi, presto non rimarrebbe più nessuno al mondo; e che, se quell'uomo non fosse stato stregato, non avrebbe fatto quel che ha invece fatto. Se insisti a chiedere perché mai la stregoneria ha fatto sì che l'uomo si uccidesse, lo zande ti risponderà che, secondo lui, doveva esserci qualcuno che odiava quell'uomo; e se gli chiedi perché mai qualcuno lo odiava, l'informatore ti risponderà che questa è la natura degli uomini. In effetti, se gli Azande non sono in grado di enunciare una teoria del rapporto di causalità in termini a noi accettabili, descrivono però gli avvenimenti in un idioma che è esplicativo. Essi sono consapevoli che la prova della stregoneria è costituita dalle particolari circostanze degli avvenimenti nel loro rapporto con gli uomini, nella loro nocività ad una particolare persona. La stregoneria spiega perché gli avvenimenti sono nocivi all'uomo, e non come accadono. Uno zande percepisce il modo del loro accadere esattamente come noi. Non vede uno stregone dare la carica ad un uomo, ma un elefante. Non vede uno stregone far precipitare un granaio, ma le termiti che ne corrodono i sostegni. Non vede una fiamma immateriale che appicca il fuoco alla stoppie della capanna, ma un normalissimo mannello di paglia accesa. La sua percezione della modalità di accadere degli avvenimenti è chiara quanto la nostra.
Edward E. Evans - Pritchard I gemelli
sono uccelli' Il termine nuer che traduciamo con "Dio" è kwoth, Spirito. I nuer parlano anche di lui, in modo più determinato, come kwoth nhial o kwoth a nhial, Spirito del cielo o Spirito che sta nel cielo. Ci sono altri spiriti, minori, che loro classificano come kuth nhial, spiriti del cielo o di lassù, e kuth piny, spiriti della terra o di quaggiù. Queste concezioni di spirito dipendono e possono essere comprese solo in relazione alla concezione di Dio, ragion per cui discuto per prima quest'ultima.' Il termine nuer kwoth, come il latino spiritus, il greco pneuma e il corrispondente termine inglese I Da: Edward E. Evans-Pritchard. Nuer Religion, 1956. Clarendon University Press. Oxford, pp. 123: 129: 131-32. trad. V. Matera.
derivato dagli ultimi due, evoca entrambe l'intangibilità dell'aria e lo spirare o il soffiare dell'aria. Come l'ebraico ruah. è un termine onomatopeico è denota il soffiare violento dell'aria in contrasto con lo spirare normale; come forma verbale è usato per descrivere azioni come soffiare sulla brace: soffiare sul cibo per raffreddarlo [...]. Come sostantivo, kwoth, comunque, significa solo Spirito, e, nel senso particolare che ora vedremo, significa kwoth nhial o kwoth a nhial, Spirito del cielo o Spirito che sta nel cielo, poiché la copula a nella seconda espressione è uno dei verbi che noi traduciamo con "essere". N/riai è il cielo e, legata a certi verbi, la parola può anche riferirsi ad alcuni fenomeni naturali associati al cielo, come la piog-
Edward E. Evans-Pritchard I gemelli sono uccelli
gia e i tuoni; ma può anche avere semplicemente il senso di "in alto" o "lassù". È possibile affermare che i Nuer non ritengono il cielo o qualsiasi altro fenomeno celeste come Dio, e ciò è chiaramente messo in luce dalla distinzione fatta tra Dio e il cielo nelle espressioni "Spirito del cielo" e "Spirito che sta nel cielo". Inoltre, sarebbe sbagliato interpretare troppo alla lettera "del cielo" e"nel cielo"[...] Sarebbe piuttosto contrario al pensiero dei Nuer, come ho sottolineato, e a loro sembrerebbe assurdo, dire che cielo, luna, stelle, pioggia ecc. sono essi stessi, singolarmente o complessivamente, Dio. Dio è lo Spirito, che, come il vento e l'aria, è invisibile c ubiquo. Tuttavia, benché Dio non sia queste cose, egli è in loro nel senso che si manifesta attraverso esse. In tal senso, egli è-nel cielo, cade con la pioggia, illumina nel sole e nella luna, e soffia nel vento. Queste manifestazioni divine devono essere intese come modalità divine e non come la sua essenza, che è lo Spirito. Essendo Dio lassù, tutto è associato con lui. Per questo i corpi celesti e movimenti e azioni che li rig uardano sono associati con lui. Per questo gli spiriti dell'aria sono riconosciuti come gaat kwoth, figli di Dio, in modo diverso da altri spiriti, perché essi, diversamente dagli altri, risiedono nell'aria e sono anche pensati come posti nelle nuvole, che sono vicine al cielo. Per questo motivo anche gli spiriti colrvic sono così strettamente associati a Dio, che li raggiunge con i suoi raggi dalla sfera celeste e li attira a sé. Anche di alcuni uccelli i Nuer parlano come gnat kwoth, specialmente di quelli che volano molto in alto e appaiono, ai Nuer come a noi, appartenere alla sfera celeste piuttosto che alla terra e per questo essere figli della luce e simboli divini. La sensazione che essi siano separati dalla terra è rafforzata nel caso di uccelli migratori, a causa del loro sparire e riapparire. Ho sentito esprimere l'idea che quando sono assenti dalla terra dei Nuer essi vanno a visitare il regno di Dio. Probabilmente non è nient'altro che una fantasia poetica, tuttavia possiamo dire che la scomparsa di questi uccelli rafforza l'allegoria dei figli di Dio che emerge dalla loro capacità di fare ciò che g li esseri umani non possono fare. volare verso Dio e la sfera celeste. Anche i gemelli, in un senso molto speciale, sono gaat kwoth. Appartengono al cielo, e i Nuer dicono che i gemelli sono uccelli. [...] Un esempio [...] di questo modo di parlare è l'asserzione nuer che i gemelli sono una persona e che sono uccelli. Quando dicono "i gemelli non sono due persone. sono una persona", non stanno dicendo che sono un individuo ma che hanno una singola personalità. È significativo che nel parlare dell'unità dei gemelli usino il termine ran che, co-
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me il nostro "persona", lascia indefiniti sesso, età e altre caratteristiche distintive degli individui. Loro non direbbero che gemelli dello stesso sesso sono un dhol, ragazzo, o una nyal, ragazza, ma dicono, che siano o meno dello stesso sesso, che sono una ran, persona. La loro unica personalità sociale è qualcosa che oltrepassa la loro dualità fisica, una dualità che è evidente ai sensi e che è indicata dalla forma plurale usata nel parlare dei gemelli e dal modo in cui sotto tutti gli aspetti nella vita quotidiana vengono trattati come due individui distinti. Solo in certe situazioni rituali, e simbolicamente, è espressa l'unità dei gemelli, in particolare in cerimonie connesse con il matrimonio e la morte, allorché la personalità è sottoposta a un cambiamento. [...] Loro dicono, inoltre, "un gemello non è una persona (ran). è un uccello (dir), nonostante il fatto 'che, come abbiamo appena visto, affermino, in un altro senso, che i gemelli sono una persona (ran). In questo caso usano il termine ran nel senso di essere umano, distinto da altre creature. Può sembrare bizzarro, se non assurdo, a un europeo che gli venga detto come se fosse un fatto ovvio che un gemello è un uccello, a maggior ragione per il fatto che i Nuer non dicono che un gemello è come un uccello, ma che è un uccello. L'affermazione sembra nettamente una contraddizione. Proprio sulla base di affermazioni di questo tipo registrate da osservatori occidentali di popoli primitivi Lévy-Bruhl ha elaborato la sua teoria sulla mentalità prelogica di questi popoli, la cui principale caratteristica è. da questo punto di vista, permettere tali evidenti contraddizioni – il fatto cioè che una cosa possa essere ciò che è e nello stesso tempo qualcosa di totalmente diverso. Tuttavia, in effetti, nessuna contraddizione è implicita nell'affermazione che, al contrario, appare piuttosto ragionevole e persino vera a chi si rappresenti l'idea nei termini della lingua dei Nuer e dall'interno del loro sistema concettuale religioso. Costui non prenderebbe allora le loro a ffermazio-
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Ernesto de Martino Il mago
Edward E. Evans-Pritchard Bisogna spiegare le differenze
ni sui gemelli molto più alla lettera di quanto non le prendano loro stessi. Non dicono che un gemello ha il becco, le piume ecc., né nel rapporto quotidiano con i gemelli i Nuer ne parlano o li trattano come se fossero uccelli. Li trattano per quello che sono, uomini e donne. Ma oltre a essere uomini e donne sono frutti di un parto gemellare, che è una speciale manifestazione dello Spirito. Allora i
Nuer esprimono questo speciale carattere dei gemelli nella formula "i gemelli sono uccelli" perché gemelli e uccelli, sia pure per differenti motivi, sono entrambi associati con lo Spirito. Ciò rende i gemelli, come gli uccelli '-persone di lassù" e "figli di Dio", e rende quindi un uccello un simbolo adatto ad esprimere la relazione speciale in cui un gemello sta a Dio_
è diverso da uno spagnolo o da un italiano, o uno spagnolo da un italiano o da un greco; e dopo per-
ché. L'uso del metodo comparativo finora preso in esame è invece tuttora in voga in America, dove prende il nome di approccio cross-cultura!. Social Structure (1949) di Murdock ne è l'esempio più noto. Una critica completa di quest'opera richie-
I
Da: Edward E. Evans-Pritchard. Die Comparative .MerAod in .Sociu/:tm4ropologv. 1963, trad. it. Il metodo comparativo nell'antropologia sociale. in Edward E. Evans-Pritchard, Lu donna nelle società primitive e altri saggi, Iate¢a, Bari, 1973 (ed or. ItH51.pp.12-16.
che quanto maggiore sarà la loro portata e quanto maggiore la loro aspirazione ad essere universali, tanto più fragili saranno le astrazioni che ne deriveranno. Si può aggiungere inoltre che ogni pretesa di universalità rimanda, per la natura stessa delle cose, a una spiegazione di ordine storico o psicologico, piuttosto che sociologico; essa contrasta infatti con il fine stesso della sociologia, che è quello di spiegare le differenze e non le somiglianze: per esempio se, come sembra sostenibile, nelle favole, considerate nei termini della loro struttura funzionale, esiste un numero strettamente limitato di temi – o addirittura esiste solamente un tema – una spiegazione che faccia riferimento ad una tipologia istituzionale risulterà scarsamente adeguata; a meno che non fosse possibile dimostrare che favole strutturalmente simili abbiano significati differenti a seconda dei diversi popoli, cosa ancora da dimostrare. Quanto maggiore è la pretesa di universalità, tanto più fragile diverrà la spiegazione causale e tanto più evanescente il suo contenuto sociologico. A questo punto vorrei sottolineare l'importanza che per l'antropologia sociale, intesa come disciplina. hanno le diversità visto che nel passato la tendenza è stata, come nel Golden Bough, quella di mettere l'accento sulle somiglianze, quando invece sembrerebbe piuttosto che siano le differenze ad esigere una spiegazione sociologica. Si tratta però di una questione intricata, poiché le istituzioni devono pur essere simili almeno per certi aspetti prima di poter risultare differenti per altri; non ritengo comunque che sia ora il caso di approfondire ulteriormente l'argomento. Posso solamente darvi un'idea di ciò che ho in mente con un esempio. Se noi studiassimo i popoli mediterranei, probabilmente non ci occuperemmo tanto delle loro reciproche somiglianze, la cui spiegazione potrebbe essere di ordine razziale, geografico. psicologico e storico, quanto delle loro diversità, a spiegare le quali è più probabile che una interpretazione sociologica sia rilevante. Noi ci chiederemmo infatti prima in che modo un greco
derebbe una trattazione estesa che non ritengo necessaria. Le classificazioni aride e le definizioni terminologiche di questo libro mi paiono di valore molto limitato; e anche se possono risultare in parte utili per quanto riguarda la frequenza e la distribuzione di una determinata usanza, quanto alle sue conclusioni c'è da chiedersi se il gioco vale veramente la candela.
Capitolo 16
Edward E. Evans-Pritchard Bisogna spiegare le differenze' In Inghilterra, la possibilità di pervenire a leggi o «universali», nel senso di proposizioni che non ammettono eccezioni, per mezzo dell'analisi cornparativa, ha continuato ad essere sostenuta da Radcliffe-Brown, uno dei maestri più influenti e maggiormente impegnati in questo settore. [...] Citerò brevemente qualche esempio. [...] In un saggio (1929) asserisce che dove l'uomo dipende in larga misura dalla caccia e dalla raccolta, ali animali e le piante, in quanto mezzi di sussistenza. sono oggetto di un «atteggiamento rituale», e fa di questa affermazione un caso specifico all'interno di una legge generale, quella cioè per cui ogni oggetto o avvenimento che abbia importanti effetti sul benessere spirituale e materiale di una società tende a diventare oggetto di un «atteggiamento rituale». Ma le cose in realtà non stanno affatto in questo modo, a meno che per «atteggiamento rituale» non si voglia intendere un'attenzione generica, privando così l'espressione di qualunque significato preciso. [...] Generalizzazioni di questo tipo. sorrette da pochi esempi illustrativi scelti in precedenza, o sono talmente generiche da risultare prive di significato, oppure. anche quando sono formulate in maniera più precisa, si basano su una documentazione troppo esigua e non tengono in considerazione alcuna i casi che le contraddicono; e qui vorrei rifarmi a Kroeber il quale afferma, parlando del solito vecchio dilemma in cui si viene a trovare il sociologo. che «quando costui arriva ad una formula a cui nessuno è in grado di trovare eccezioni, è diventata così terribilmente logica e talmente avulsa dai fenomeni reali che nessuno sa più esattamente che cosa farsene.. A prescindere dalla questione di quale sia il valore limitato che tali ipotesi possono avere, è evidente
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Ernesto de Martino Cultura significa iniziativa geniale che si consolida in una tradizione, tradizione che condiziona e . alimenta l'iniziativa geniale, secondo una circolarità che la effettiva considerazione storica vieta di spezzare. Al centro del mondo culturale magico, come sintesi viva di iniziativa e di tradizione, sta il mago, che si apre al dramma esistenziale proprio del magismo, e consegue sul rischio una vittoria che ha significato non solo per sé ma anche per gli altri. L'angoscia, che per gli altri può segnalare un rischio senza compenso, acquista per il mago la funzione di uno stimolo e il significato di un problema. Il non esserci, in cui gli altri possono smarrire la loro presenza, si riplasma nel mago in un ordine di «spiriti» identificati e padroneggiati. Il «perdersi», che per gli altri può essere definitivo, si trasforma per il mago in un momento del processo che conduce alla «salvezza». Il rischio di questo «perdersi» è certo intensificato attraverso le tecniche magiche indirizzate a favorire la condizione di trance: ma l'intensificazione del rischio vale per l'esserci conte la condizione necessaria per iniziare il proprio riscatto. Fin quando l'angosciante sollevazione di realtà psichiche non padroneggiate si produce per entro una presenza che abdica, fin quando le barriere che circoscrivono questa presenza franano sotto l'urto del demoniaco, il caos avanza e tutto inghiotte nella sua notte. Per arrestare la dissoluzione, c'è però una via: portarsi deliberatamente al limite della propria presenza, assumere questo limite come oggetto condendo di una prassi definita, farsi centro e padrone della limitazione, identificare, figurare, evocare gli «spiriti», e limitarsi nel fatto rispetto a essi con l'acquistare il potere di chiamarli a volontà e di giovarsi della loro opera nella pratica professionale. Lo stregone batte appunto questa via: esso riplasma i momenti critici dell'esserci nella coraggiosa e drammatica decisione di porsi
I Da: Ernesto de Martin», Il mondo magico. Prolegomeni u MIO 1948, Boringhieri,'Fa tuo, 1973, pp. 121-22.
storia del magismo,
Il mago'
nel mondo. Il suo esserci come dato rischia di dissolversi: non è ancora stato dato. Attraverso l'istituto della vocazione e della iniziazione, il mago pertanto disfà questo dato per rifarlo in una seconda nascita, ridiscende al limite della sua presenza per ridarsi in una nuova forma delimitata: le tecniche atte a favorire la labilità della presenza, la stessa trance e gli stati affini esprimono proprio questo esserci che si disfa per rifarsi, e che ridiscende al suo ci per ripossedersi in una presenza drammaticamente sorretta e garantita. D'altra parte l'acquisita signoria del limite della propria presenza permette al mago di farsi centro non soltanto della labilità propria ma anche di quella altrui. Il mago è colui che sa andare oltre di sé, non già in senso ideale ma proprio in senso esistenziale. Colui per il quale l'esserci si costituisce come problema. e che ha il potere di darsi la propria presenza. non è una presenza fra le altre presenze. ma un esserci che può farsi presente in tutti gli altri. e leggere il loro dramma esistenziale (identificare p. es. gli «spiriti» altrui) e influenzarne il corso (p. es. liberare la vittima dagli «spiriti.). Colui che ha tolto a proprio oggetto il limite della propria presenza può anche andare oltre questo limite. Ciò significa che, attraverso il riscatto dello stregone. tutta la comunità si apre al riscatto, può accedere alla «salvezza». In questo senso lo stregone si configura come un vero e proprio Cristo magico, mediatore per tutta la comunità dell'esserci nel mondo come riscatto dal rischio di non esserci. D'altra parte questo riscatto è culturale nel senso che le esperienze individuali connesse al dramma esistenziale proprio del magismo non restano isolate e irrelative le une rispetto alle altre, ma si plasmano in tradizione, e come tradizione forniscono le espressioni ideologiche e istituzionali per entro le quali si muoveranno le nuove esperienze individuali, e in virtù delle quali riceverà unità di svolgimento la vicenda di rischi, di ardimenti. di scacchi e di vittorie che caratterizza il mondo magico.
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Ernesto de Martino Crisi della presenza e protezione magica
Ernesto de Martino Crisi della presenza
e protezione magica' Se ci chiediamo quali sono le ragioni che fanno ancora sopravvivere una ideologia così arcaica [la magia] nella Lucania di oggi la risposta più immediata è che tuttora in Lucania un regime arcaico di esistenza impegna ancora larghi strati sociali, malgrado la civiltà moderna. E certamente la precarietà dei beni elementari della vita, l'incertezza delle prospettive concernenti il futuro, la pressione esercitata sugli individui da parte di forze naturali e sociali non controllabili, la carenza di forme di assistenza sociale, l'asprezza della fatica nel quadro di una economia agricola arretrata, l'angusta memoria di comportamenti razionali efficaci con cui fronteggiare realisticamente i momenti critici dell'esistenza costituiscono altrettante condizioni che favoriscono il mantenersi delle pratiche magiche. [...] Tuttavia questo rapporto fra regime esistenziale e magia resta generico e ovvio, e in fondo poco concludente. I temi della forza magica, della fascinazione, della possessione, della fattura e dell'esorcismo, sono senza dubbio in connessione con l'immensa potenza del negativo quotidiano che incombe sugli individui dalla nascita alla morte: ma il carattere di questa connessione resta nel vago. Analogamente le ideologie magiche relative alla gravidanza, al parto, all'allattamento, allo svezzaI Da: Ernesto de Martino. Sud e magia. 1959. Feltrinclli, Milano. 1959, pp. 66-67:71-72.
mento. ai rischi cui è esposto il bambino nei primi anni di vita sono senza dubbio in rapporto con i dati relativi all'alto numero delle gravidanze e degli aborti spontanei, alla nati-mortalità, ai disturbi dell'allattamento, alla carenza di forme assistenziali per la gestante, la partoriente, la madre, il bambino; e si potrà anche fare appello alla ignoranza, all'analfabetismo e simili: ma con ciò non si va oltre una impostazione di tipo "illuministico" o "positivistico" nella quale la magia si confonde in ogni caso con le aberrazioni della mente umana, o addirittura con i deliri di cui si occupa la psicopatologia. Più concludente si fa il discorso analitico quando cercheremo di trarre il significato psicologico di quanto abbiamo indicato come potenza del negativo nel regime esistenziale lucano. Ora questo significato psicologico mette in luce un negativo più grave di qualsiasi mancanza di un bene particolare: mette in luce il rischio che la stessa presenza individuale si smarrisca come centro di decisione e di scelta, e naufraghi in una negazione che colpisce la stessa possibilità di un qualsiasi comportamento culturale. [...] Ora in queste condizioni di labilità della presenza si innesta la funzione protettiva delle pratiche magiche. La magia lucana è un insieme di tecniche socializzate e tradizionalizzate rivole a proteggere la presenza dalle crisi di "miseria psicologica" e a ridischiudere mediatamente – cioè in virtù di tale protezione – le potenze operative realisticamente
A sinistra: musicotcrapia per guarire il morso della tarantola (Salerno anni 1960): A destra: fattucchiera calabrese
Vittorio Lanternari Profetismo moderno e profetismo antico
orientate. In un regime esistenziale in cui la potenza del negativo coinv olge lo stesso centro della positività culturale, cioè la presenza in quanto energia operativa, serba valore e funzione l'impiego della potenza tecnica dell'uomo non già nel senso profano del produrre i beni materiali economici, o gli strumenti materiali e mentali per il migliore controllo della natura, ma nel senso della difesa di quel bene fondamentale che è la condizione stessa di una partecipazione, per angusta che sia, alla vita culturale. Nel regime esistenziale lucano non ha soltanto particolare rilievo il negativo, per es. della fame o della malattia, ma altresì quello – ben più grave – dei rischi di naufragio della stessa presenza individuale che, mediante l'opera, deve pur fronteggiare in un senso realistico la fame o la malattia, o qualunque altra situazione critica dell'esi-
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stenza. E appunto per questo ancora nella Lucania d'oggi hanno corso tecniche magiche che aiutano
la presenza a reintegrarsi dalle sue crisi. Piano realistico e piano magico della tecnica non entrano in contraddizione soggettiva fra di loro perché la magia non ha propriamente per oggetto, come la tecnica profana, la soppressione di questo o quel negativo, ma la protezione della presenza dai rischi della crisi esistenziale di fronte alle manifestazioni del negativo. Finché sussiste il bisogno di protezione il conflitto non ha luogo; ovvero resta puramente ideale e oratorio: qui sta la ragione per cui il piano magico si mantiene sostanzialmente "impermeabile all'esperienza," e cioè sia agli insuccessi delle pratiche magiche, sia alla constatazione che i successi accompagnano più frequentemente i comportamenti realistici che non quelli magici.
Vittorio Lanternari Profetismo moderno
e profetismo antico' La grande maggioranza dei movimenti trattati riguarda culture native venute a contatto con civiltà cristiane occidentali. Si tratta di altrettante situazioni di conflitto fra religioni native e Cristianesimo. Sotto questo riguardo, e in base alla documentazione raccolta, possiamo dire fin d'ora che le società "primitive" sono venute assumendo dall'insegnamento missionario, ed in ispecie paleo-testamentario, una molteplicità di elementi nei quali via via ravvisavano altrettanti modelli. espressi in ling ua gg io culturale occidentale e cristiano, della propria esperienza di vita. In più casi indipendenti l'uno dall'altro, dai maori della N. Zelanda ai kikuyu del Kenya agli indigeni bantu del Sud-Africa ai negri di Giamaica (culto Tafari). ai seguaci della Ghost-Dance (nell'interpretazione data dai Mormoni a tale movimento), i nativi perseguitati dai colonialisti europei hanno trovato nelle persecuzioni subite dall'antico popolo ebraico il prototipo biblico che li autorizzava a proclamarsi discendenti delle perdute tribù d'Israele. La poligamia di Giacobbe, David e Salomone veniva a giustificare religiosamente la tradizionale loro poligamia incongruamente condannata dai missionari. Lo stesso profetismo emancipazionista trovava il più autentico suo modello nel Mosaismo. mentre la passione, l'arresto. la cattura, il sacrificio subito dai singoli profeti-fondatori nativi ha in Gesù il suo precedente più valido. I 17a: Vittorio Lanternari, ilornrtrnti religind di lrlacrtn e dr sahrz• 1 9 74. pp. 293'95. ^a dri pup,ilì oppressi, l9(+I. 1=clirinclli.
Inoltre i nativi hanno potuto rintracciare un'ulteriore convalida e autenticazione delle proprie posizioni religiose, attraverso i movimenti messianici occidentali di derivazione giudaico-cristiana pervenuti fra loro, come in Africa il Russellismo. Se in tale caso sono i seguaci di profeti africani a riconoscere una sorta di parentela coi proseliti del profetismo dei bianchi, v'è anche il caso opposto e integrante per cui i seguaci d'un movimento profetico d'ambiente "colto" – i Mormoni – riconoscono un'autentica fratellanza con i proseliti della GhostDance. In tal modo si rende evidente l'impossibilità di dividere con un taglio netto il mondo "etnologico" dal mondo cosiddetto "colto" o "moderno", poiché v'è tra essi una stringente continuità storica.e dall'esame dell'uno emana una luce chiarificatrice sull'altro. Non per nulla i seguaci dei movimenti nativisti hanno trovato nei profetismi d'ambiente colto una più forte ragione d'autenticità e validità della loro religione. Tale autenticità e validità, se rettamente si guarda, si regge su una notevole corrispondenza di esperienze storiche. Certo i negri africani, gli indigeni oceaniani e americani oggi ripetono esperienze religiose – millenarismo, messianesimo, profetismo. attesa di liberazione e salvezza – che il cristianesimo subì ai suoi primordi. quando i suoi martiri offrivano il sangue non solamente come passivi testimoni d'una fede individuale, bensì come componenti d'una milizia di Cristo consapevole dell'impulso rivoluzionario e combattivo emanante
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Leslie A. White 1 tre sottosistemi culturali
Vittorio Lanternari Profetismo moderno e profetismo antico
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Capitolo 17 Leslie A. White I tre sottosistemi culturali'
dal proprio martirio. Né si tratta di coincidenze puramente casuali. Alla radice del cristianesimo e – prima ancora – del profetismo mosaico e del messianesimo biblico d'età esilica, stanno altrettante condizioni di crisi. Quanto al cristianesimo, l'acuta tensione fra statalismo e individualismo, la stridente frattura tra sacerdotalismo e bisogni relig iosi popolari costituivano all'interno della società, gli estremi d'un conflitto da cui il messianesimo di Gesù doveva trarre il primissimo e necessarissimo germe, onde s'impose come religione di salvezza dei popoli. [...] I popoli nativi oggi ripercorrono dunque, ad opera dell'urto subito coi bianchi, un itinerario religioso che la cultura occidentale percorse a suo tempo nell'atto della sua fondazione e nei suoi primi stadii. Vero è che la cultura moderna, nella sua veste ufficiale, è venuta accantonando quelle antiche esperienze tra i ricordi di una storia lontana. Tuttavia non del tutto quella storia è scaduta dal suo antico valore, nd conflitti culturali e religiosi hanno mancato e mancano, fino ai tempi recenti, di ripresentare in veste più o meno rimodernata revi-
viscenze messianiche e profetiche: basti pensare appunto al Russellismo, al movimento dei Mormoni e di Saint Simon o – per non tornare indietro al Gioachimismo e ai movimenti ereticali del nostro Medio-Evo – al Lazzarettismo nonché ai più vari movimenti di rinnovamento religioso e sociale i quali costellano il mondo culturale d'ogni paese moderno. Essi esprimono alla stesso titolo che presso le società primitive, una condizione di crisi di cui rappresentano ad un tempo il prodotto e il riscatto religioso. Tuttavia conviene discriminare – per entro la varia fenomenologia dei movimenti profetici – due forme storicamente eterogenee, che contrassegnano la vasta fioritura di manifestazioni di tal sorta su terreno etnologico così come presso civilità progredite. Mentre una grande parte di tali manifestazioni hanno radice in conflitti interculturali e pertanto in fattori d'urto di carattere esterno, un'altra parte altrettanto cospicua trova la sua origine in tensioni e conflitti d'ordine interno, provenienti da contraddizioni inerenti alla società stessa nel cui seno esse s'originano.
Per nostra comodità, distingueremo tre sottosistemi della cultura, e cioè, quello tecnologico, quello sociologico e quello ideologico. II sistema tecnologico è composto dagli strumenti materiali, meccanici, fisici e chimici e dalle tecniche relative al loro uso, mediante i quali l'uomo, in quanto specie animale, affronta e domina il suo habitat naturale. Troviamo qui gli arnesi della produzione. i mezzi di sussistenza, i materiali di ricovero, gli strumenti di offesa e difesa. Il sistema sociologico è costituito da relazioni interpersonali espresse in modelli di comportamento, così collettivi come individuali. In questa categoria troviamo i sistemi sociali, di parentela, economici, etici, politici, militari, ecclesiastici, occupazionali e professionali, ricreativi ecc. Il sistema ideologico è composto da idee, credenze, conoscenze, espresse nel linguaggio articolato o in altra forma simbolica. Mitologie e teologie, leggende, letteratura, scienza. saggezza popolare, e «buon senso» comune danno luogo a questa categoria. Queste tre categorie costituiscono in complesso il sistema culturale. Logicamente, sono in corrispondenza tra di loro; ciascuna agisce sulle altre e a sua volta è influenzata da quelle. Ma l'influenza di questa reciproca interazione non è la stessa in tutte le direzioni. I ruoli esercitati dai numerosi sottosistemi nel complesso del processo culturale non sono affatto uguali. Il ruolo principale è esercitato dal sistema tecnologico. Ci si aspettava qualcosa di simile; non potrebbe essere altrimenti. L'uomo come specie animale, e conseguentemente la cultura in complesso. dipendono dai mezzi materiali, meccanici, di adattamento all'ambiente naturale. L'uomo deve aver cibo. Dev'essere protetto dagli elementi. E deve difendersi dai nemici. Queste tre cose deve farle se vuole continuare a vivere, e questi obiettivi si raggiungono solo con mezzi tecnologici. Il sistema tecnologico è pertanto sia principale che fondamentale quanto a importanza: tutta la vita e la cultura umana riposano su di lui e ne dipendono. I sistemi sociali sono realmente secondari e sussidiari a quelli tecnologici. Infatti, un sistema sociale può essere definito realisticamente come lo sforzo organizzato degli esseri umani nell'uso degli strumenti di sussistenza, offesa e difesa. e protezione. Un sistema sociale è una funzione di un sistema tecnologico. Una nave, dice Childe, «e gli arnesi impiegati per la sua costruzione, simbolizzano un intero sistema economico». La tecnologia è la va0:1:
Leslie A. While. Ii,, Science of Culture. 1949_ trac]. it. La Sansuni. Firenze. 1969, pp. 3 0-32.
.scienza della cultura.
riabile indipendente, il sistema sociale quella dipendente. [..] I sistemi ideologici o filosofici sono organizzazioni di credenze in cui l'esperienza umana trova la sua interpretazione. Ma tale esperienza e tali interpretazioni sono potentemente condizionate dalla tecnologia. C'è un tipo di pensiero per ogni tipo di tecnologia. [._] Una tecnologia pastorale, agricola, metallurgica, industriale o militare, troverà comunque una corrispondente espressione sul piano dell'intelletto. Un tipo di tecnologia si esprimerà nel totemismo, un'altra nell'astrologia o nella matematica dei quanti. Ma l'esperienza del mondo esterno non è sentita e interpretata solo relativamente all'articolazione tecnologica; è filtrata anche attraverso il prisma dei sistemi sociali. Le qualità e le caratteristiche dei sistemi sociali, politici, ecclesiastici, economici, militari ecc., sono perciò riflesse sul piano intellettuale. Possiamo considerare un sistema culturale come una serie di tre strati orizzontali: quello tecnologico in basso, quello filosofico in cima e quello sociologico in mezzo. Queste posizioni esprimono i loro rispettivi ruoli nel processo culturale. Il sistema tecnologico è fondamentale e primario. Quelli sociali sono funzioni delle tecnologie: il pensiero esprime le forze tecnologiche e riflette i sistemi sociali. Il fattore tecnologico. pertanto. è la determinante di un sistema culturale preso in comples-
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Julian H. Steward L'ecologia culturale
so. Determina la forma dei sistemi sociali, e la tecnologia e la società insieme determinano il contenuto e l'orientamento del pensiero. Ciò non vuol dire, naturalmente, che i sistemi sociali non condizionino l'operato delle tecnologie, o che i sistemi sociali e tecnologici non siano influenzati dalle correnti di pensiero. Condizionano e sono condizionati. Ma condizionare è una cosa: determinare, tutt'un'altra. Siamo ora in possesso di una chiave per compren-
Marvin Harris l principi teorici del materialismo culturale
dere lo sviluppo e il progresso della cultura: la tecnologia. Un essere umano è un corpo materiale; la specie, un sistema materiale. Il pianeta terra è un corpo materiale; il cosmo, un sistema materiale. La tecnologia è il mezzo meccanico di articolazione di questi due sistemi materiali, l'uomo e il cosmo. Ma questi sistemi sono dinamici, non statici; l'energia e la materia vi sono implicate. Tutto – il cosmo, l'uomo, la cultura – può esser descritto come materia ed energia.
Julian H. Steward L'ecologia culturalet L'ecologia culturale differisce dall'ecologia umana e sociale per il fatto che essa cerca di spiegare l'origine di tratti e modelli culturali particolari, che caratterizzano aree differenti, più che di dedurre principi generali applicabili a qualsiasi situazione I Da: Julian ft. Steward. Theory of Culture Change, 1955, trad. it. Moria del nvrramerno culturale, Boringhieri, Torino. 1977, pp -51_. Uovo di struzzo come recipiente: Boscimani Kung, deserto del Kalahari. Africa meridionale
culturale ambientale. Essa si differenzia dalle concezioni relativistiche e neoevoluzionistiche della storia della cultura in quanto introduce l'ambiente locale come fattore extraculturale nello sterile assunto secondo cui la cultura deriva dalla cultura. L'ecologia culturale ci mette quindi di fronte a un problema e a un metodo al tempo stesso. Il problema è quello di accertare se gli adattamenti delle società umane ai loro ambienti richiedano modalità di comportamento particolari o se essi permettano una certa libertà per una gamma di possibili modelli comportamentali. Formulato in questo modo, il problema distingue anche l'ecologia culturale dal "determinismo ambientale" e dalla teoria con esso imparentata del "determinismo economico", teorie che a giudizio generale contengono le loro conclusioni nei termini stessi del problema. Il problema dell'ecologia culturale deve tuttavia essere ulteriormente specificato attraverso una definizione supplementare di cultura. Secondo la concezione olistica. tutti gli aspetti della cultura sono funzionalmente interdipendenti l'uno dall'altro. Il grado e il tipo d'interdipendenza, però, non sono gli stessi per tutti i tratti. In altri scritti ho proposto il concetto di nucleo culturale – la costellazione dei tratti che sono più strettamente connessi con le attività di sussistenza e con le soluzioni economiche. Il nucleo comprende quei modelli sociali, politici e religiosi che si può determinare empiricamente siano strettamente connessi con queste soluzioni. Innumerevoli altri tratti hanno una grande variabilità potenziale, perché sono meno strettamente legati al nucleo. Questi ultimi, o tratti secondari, sono determinati in misura maggiore da fattori di carattere puramente storico-culturale – da innovazioni sporadiche e causali o dalla diffusione – e conferiscono alle culture con nuclei analoghi l'aspetto esterno della peculiarità. L'ecologia culturale concentra la sua attenzione pricipalmente su quei tratti che l'analisi empirica mostra essere più intimamente connessi con l'utilizzazione dell'ambiente in maniere culturalmente prescritte.
L'espressione "maniere culturalmente prescritte" dev'essere intesa con una certa cautela, poiché nell'accezione antropologica è spesso "carica" di connotazioni. La concezione normativa, che vede la cultura come un sistema di pratiche reciprocamente avvalorantisi sostenute da una serie di atteggiamenti e di valori, sembra considerare ogni comportamento umano determinato in maniera così completa dalla cultura da togliere ogni effetto agli adattamenti ambientali. Essa reputa che l'intero modello della tecnologia, l'uso della terra, il possesso della terra, nonché i tratti sociali derivino interamente dalla cultura. Esemplificazioni classiche della preminenza degli atteggiamenti culturali sopra il senso comune sono il fatto che i cinesi non bevono il latte e che gli eschimesi non mangino le foche d'estate. È vero, ovviamente, che le culture tendono a perpetuarsi, e può darsi che il mutamento sia lento per ragioni del tipo di quelle testé citate. Ma nell'arco dei millenni le culture negli ambienti più diversi hanno conosciuto mutamenti enormi, e questi mutamenti si possono far risalire fondamentalmente a nuovi adattamenti resi necessari dal cambiamento della tecnologia e delle soluzioni produttive. Nonostante alcune barriere culturali occasionali, le arti proficue si sono diffuse con estrema ampiezza e i
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casi in cui esse non siano state accettate a motivo di modelli culturali preesistenti sono insignificanti. Sembra che nell'epoca preagricola, che comprende forse il novantanove per cento della storia culturale, i dispositivi tecnici per la caccia, la raccolta e la pesca si siano diffusi ampiamente al limite della loro utilità. Mazze, lance, trappole, archi. il fuoco. contenitori. reti e molti altri tratti culturali si diffusero in molte aree, alcuni in tutto il mondo. Più tardi anche le piante e gli animali domestici si diffusero molto rapidamente entro i loro limiti ambientali, fermati nel loro cammino soltanto dalle formidabili barriere degli oceani. Il fatto che le nuove tecnologie abbiano o meno un valore è però funzione del livello culturale della società tanto quanto del potenziale ambientale. Tutte le società preagricole trovarono utili le tecniche di caccia e di raccolta. Entro i loro limiti geografici, le tecniche dell'allevamento e della coltivazione vennero adottate. Tecniche più avanzate, come la metallurgia, potevano essere accolte soltanto se erano presenti certi prerequisiti, come quello di una popolazione stabile, di una disponibilità di tempo e di una specializzazione interna. Queste condizioni potevano svilupparsi soltanto sulla base degli adattamenti ecologici di una società agricola.
Marvin Harris I principi teorici
del materialismo culturale' Le strategie idealistiche affrontano la definizione dei fenomeni sociali e culturali esclusivamente da una prospettiva emica 2 : la società esiste nella misu- 1 ra in cui i partecipanti si considerano membri di gruppi sociali, che condividono valori e scopi comuni; l'azione sociale è un tipo particolare di comportamento, definito dalle intenzioni sociali dei partecipanti, e la cultura consiste esclusivamente nell'emica del pensiero e del comportamento che viene condivisa. In versioni estreme, come quelle relative al cognitivismo, si accantona anche l'emica del comportamento e si riduce la cultura a regole che, si sostiene. guidano il comportamento, senza analizzare il comportamento stesso'. I materialisti culturali, invece, affrontano la definizione dei fenomeni sociali e culturali attenendosi inizialmente,e tuttavia non limitandosi, a una prospettiva etica. La natura sociale dei gruppi umani I Da: Marvin Flarris, Cultura( ,%laterialism. 1979. trad. it. .1/aterialismo adunale. Felirinelti. Milano. 198.4. 1) 1). 55-55:61). 2 Sulle nozioni di "emiro" e "etico" s. Cap. 311. 3 Si tratta di alcuni esiti dclretnoscienza (v. Cap. 211).
è dedotta dalla densità d'interazione tra gli esseri umani che si trovano in una particolare collocazione spaziale e temporale. I materialisti culturali non hanno bisogno di sapere se i membri di una particolare popolazione umana si considerino un "popolo" o un gruppo per identificarli come gruppo sociale. Né l'interazione tra i membri di tale gruppo dev'essere in primo luogo di sostegno e cooperazione perché sia considerata sociale. Il punto di partenza di ogni analisi socioculturale per i materialisti culturali è semplicemente l'esistenza di una popolazione umana etica situata in un tempo e in uno spazio etici. Secondo noi una società è un gruppo sociale massimale costituito da entrambi i sessi e da tutte le età e caratterizzato dalla manifestazione di un'ampia gamma di comportamenti interagenti. La cultura si riferisce invece al repertorio acquisito di pensieri e azioni che viene esibito dai membri dei gruppi sociali – repertorio trasmissibile da una generazione a quella successiva indipendentemente dall'eredità genetica. Il repertorio culturale di particolari società contribuisce alla continuità della popolazio-
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Karl Polanyi
Reciprocità, ridistribuzione, scambio
ne e della sua vita sociale. Da qui deriva la necessità di parlare di sistemi socioculturali, con i quali si designa ciò che unisce una popolazione, una società e una cultura e che costituiscono un'organizzazione delimitata di persone, pensieri e attività. La natura sistemica di tali aggregazioni e organizzazioni non è qualcosa da prendere per scontato. Si tratta pittosto di un assunto strategico che può essere giustificato soltanto mostrando come esso conduce a teorie efficaci e controllabili. [...] La struttura universale dei sistemi socioculturali postulata dal materialismo culturale si basa sulle costanti biologiche e psicologiche della natura umana e sulla distinzione tra pensiero e comportamento e tra emica ed etica. Per cominciare, ogni società deve affrontare i problemi di produzione – il soddisfacimento a livello comportamentale delle esigenze minimali della sussistenza; di conseguenza deve esserci un modo comportamentale etico di produzione. In secondo luogo, ogni società deve affrontare a livello comportamentale il problema della riproduzione – evitando deleteri aumenti o diminuzioni della popolazione; deve quindi esserci
Karl Polanyi
Reciprocità, ridistribuzione, scambio
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un modo comportamentale etico di riproduzione. Terzo, ogni società deve tener conto della necessità di mantenere relazioni comportamentali sicure e ordinate tra i gruppi che la costituiscono e nei confronti di altre società. In conformità con considerazioni terrene e pratiche. i materialisti culturali vedono la minaccia di disordine provenire principalmente dai processi economici che determinano la distribuzione del lavoro e dei prodotti materiali del lavoro agli individui e ai gruppi. Quindi, a seconda che l'organizzazione si incentri sui gruppi domestici o sui rapporti interni ed esterni della società nel suo complesso, si può desumere l'esistenza universale di economie domestiche comportamentali etiche e di economie politiche comportamentali etiche. Per finire, data la preminenza degli atti linguistici umani e l'importanza dei processi simbolici per la psiche umana, si può dedurre la ricorrenza universale del comportamento produttivo che conduce a prodotti e servizi etici, ricreativi, sportivi ed estetici. Sovrastruttura comportamentale è il termine adatto per questo settore etico universalmente ricorrente. Tahiti (Polinesia): l'intero villaggio partecipa alla pesca con la rete
Karl Polanyi Reciprocità, ridistribuzione,
scambio' Lo studio del modo in cui i concreti sistemi economici sono istituzionalizzati dovrebbe cominciare dalla spiegazione di come essi abbiano acquistato unità e stabilità, ossia dalla interdipendenza e dalla riapparizione periodica delle parti che li corn- i pongono. Ciò può essere fatto combinando un numero limitato di concetti, che potremmo chiamare forme di integrazione. Poiché queste esistono l'una a fianco dell'altra, ai diversi livelli e nei diversi settori dell'economia è spesso impossibile scegliere una di tali forme come dominante in modo da poterla impiegare per una caratterizzazione e una classificazione globali dei sistemi economici storici. Tuttavia, distinguendo i diversi settori e livelli dell'economia, tali forme ci permettono di descrivere i processi economici in termini relativamente semplici e di introdurre così un certo ordine nelle loro inesauribili trasformazioni. In concreto, tali forme fondamentali risultano essere la reciprocità, la ridistribuzione e lo scambio. La reciprocità sta a indicare movimenti tra punti I Da: Karl Polanyi, Trade aced Markets in the Earle Empire:,. 1957, trad. i l . Traffici:, mercanti negli antichi imperi, Einaudi.T rino.197S,pp.305-12.
correlati di gruppi simmetrici: la ridistribuzione indica movimenti appropriativi in direzione di un centro e successivamente provenienti da esso; lo scambio si riferisce qui a movimenti bilaterali che si svolgono tra due «mani» in un sistema di mercato. La reciprocità ha quindi sullo sfondo gruppi organizzati in forma simmetrica; la ridistribuzione dipende dalla presenza nel gruppo di un certo grado di centralizzazione: lo scambio, per poter produrre integrazione, richiede la presenza di mercati regolatori dei prezzi. E evidente come le diverse forme di integrazione abbiano ciascuna una specifica base istituzionale. A questo punto è probabilmente utile qualche chiarimento. I termini di reciprocità, di ridistribuzione e di scambio, con i quali abbiamo indicato le nostre forme di integrazione. sono spesso impiegati per indicare rapporti tra persone. A un esame superficiale potrebbe quindi sembrare che le forme di integrazione riflettano semplicemente gli aggregati delle rispettive forme di comportamento individuale: se tra gli individui fossero frequenti i rapporti mutuali, emergerebbe una forma di integrazione fondata sulla reciprocità; se fosse comune la ripartizione di quote tra individui, si avrebbe
una integrazione ridistributiva; parimenti, se vi fossero tra gli individui frequenti atti di baratto, ne risulterebbe che lo scambio sarebbe la forma di integrazione. Se così fosse, i modelli di integrazione di cui parliamo non sarebbero che aggregati delle corrispondenti forme di comportamento a livello personale. [...] A uno sguardo superficiale potrebbe sembrare che le forme fondamentali di cui parliamo nascano dall'accumularsi di corrispondenti tipi di comportamento personale; ma in realtà gli elementi vitali che producono l'organizzazione e la sua convalida discendono necessariamente da un genere completamente diverso di comportamenti. [...] Ritorniamo ora alle nostre forme d'integrazione. Un gruppo sociale che intendesse deliberatamente organizzare i propri rapporti economici in forma di reciprocità dovrebbe, per realizzare tale scopo, dividersi in sottogruppi, i cui membri potessero agevolmente identificare la rispettiva appartenenza. I membri del gruppo A potrebbero così stabilire rapporti con la loro controparte nel gruppo B, e viceversa. Il dualismo non è però l'unica forma possibile di simmetria. Tre, quattro o più gruppi possono occupare posizioni simmetriche rispetto a due o più assi; non è neppure necessario che i membri dei due gruppi abbiano l'uno con l'altro rapporti di reciprocità; essi potranno ottenere gli
stessi risultati passando attraverso i membri di un terzo gruppo con il quale stanno in un rapporto analogo. Un abitante maschio delle isole Trobriand è responsabile verso la famiglia di sua sorella. Egli non gode però dell'assistenza del marito di sua sorella, ma, se è sposato, di quella del fratello di sua moglie, membro di una terza famiglia, la quale a sua volta si trova inserita in un sistema di rapporti analogo. [...] Quanto più strettamente sono legati i membri della comunità più larga, tanto più generale sarà la tendenza a sviluppare atteggiamenti di reciprocità tra di loro, riguardo a specifici rapporti definiti nello spazio, nel tempo e in altri modi ancora. La parentela, il vicinato, il totem appartengono al tipo di raggruppamenti più durevoli e generali; al loro interno diverse associazioni volontarie o semivolontarie, di natura militare, professionale, religiosa o sociale, creano situazioni nelle quali, almeno temporaneamente, o in riferimento a una certa località o a una situazione tipica, si formano gruppi simmetrici, i cui membri praticano qualche forma di reciprocità. [...] La ridistribuzione può affermarsi in un dato gruppo nella misura in cui lo stanziamento dei beni sia concentrato in una sola mano e avvenga in base a costumi, leggi e decisioni ad /hoc prese dal centro. Talvolta essa consiste in una vera e propria raccol-
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Claude Lévi-Strauss Dalla natura alla cultura
ta del prodotto e in un immagazzinamento accompagnato da ridistribuzioni; in altre occasioni, invece, la «raccolta» non avviene fisicamente, ma soltanto in termini appropriativi, ossia come diritto di disporre dei beni là dove essi si trovano. Forme ridistributive si incontrano per diversi motivi, in ogni fase della civiltà, a partire dalle tribù primitive di cacciatori fino al vasto sistema di immagazzinamento dell'antico Egitto, della Sumeria, di Babilonia o del Perù. [.,.] Perché lo scambio sia un comportamento capace di integrare è necessario che esso sia orientato a
Claude Lévi-Strauss L'atomo di parentela
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produrre a prezzi fluttuanti e ha di mira un guadagno realizzabile solo attraverso un comportamento che implica un particolare antagonismo tra le parti. L'elemento antagonistico che accompagna questo tipo di scambio, per quanto sia diluito, non può mai essere eliminato. [..,] L'ascesa del mercato a forza determinante nell'economia può essere ricostruita osservando la misura in cui la terra e il cibo venivano mobilizzati mediante lo scambio e il lavoro trasformato in una merce liberamente acquistabile sul mercato. •
Capitolo 18 Claude Lévi-Strauss Dalla natura alla cultural Nessuna analisi reale permette dunque di cogliere il punto di passaggio tra fatti di natura e fatti di cultura, e di riconoscere il meccanismo della loro articolazione. Ma la discussione che precede non ha fruttato solo questo risultato negativo: con la presenza o l'assenza della regola nei comportamenti sottratti alle determinazioni istintive, essa ci ha fornito il criterio più valido per riconoscere gli atteggiamenti sociali. Ovunque si manifesti la regola, noi sappiano con certezza di essere sul piano della cultura. Simmetricamente, è facile riconoscere nell'universalità il criterio della natura: in effetti tutto ciò che è costante presso tutti gli uomini sfugge di necessità al dominio dei costumi, delle tecniche e delle istituzioni che differenziano ed oppongono i gruppi. In difetto di analisi reali, il duplice criterio della norma e della universalità fornisce il principio di una analisi ideale, che,
1 Da: Claude Lévi-Strauss, Let stru<-utrr,, élémemnires de la parenté, 1919, trad. it. Le strutture elementari della parentela. i-cltrinelli. Milano. 1969. pp. 46-47.
almeno in certi casi ed entro certi limiti, può permettere di isolare gli elementi naturali dagli elementi culturali che intervengono nelle sintesi di ordine più complesso. Poniamo dunque che tutto ciò che è universale, presso l'uomo, appartiene all'ordine della natura ed è caratterizzato dalla spontaneità, e che tutto ciò che è assoggettato ad una norma appartiene alla cultura e presenta gli attributi del relativo e del particolare. Ci troviamo allora di fronte ad un fatto, o piuttosto ad un insieme di fatti, che, alla luce delle definizioni precedenti, non è lontano dall'apparire come uno scandalo: intendiamo riferirci a quel complesso insieme di credenze, costumi, norme e istituzioni, che viene sommariamente designato con il nome di proibizione dell'incesto. Infatti la proibizione dell'incesto presenta – senza il minimo equivoco e indissolubilmente riuniti – i due caratteri nei quali abbiamo riconosciuto gli attributi contraddittori dei due ordini esclusivi: essa costituisce una regola, ma è una regola che, unica tra tutte le regole sociali, possiede contemporaneamente un carattere di universalità.
Claude Lévi - Strauss L'atomo di parentela' L'avuncolato [il potere di un uomo sui figli della I conio una relazione interna a un sistema, ed è lo sorella], per essere capito, deve essere trattato stesso sistema a dover essere considerato nel suo insieme, se si vuole scorgerne la struttura. Questa struttura poggia a sua volta su quattro termini I De: Claude Levi-Strauss, L'analn'e strutturale en Gquistiepte et (fratello. sorella, padre, figlio), uniti fra loro da en anthrnpnlo,gie, 1945, trad. it. L'analisi .strutturale in linguistica e due coppie di opposizioni correlative, e tali che, in in antropologia, in C. Levi-Strauss, Antropologia .vtrumrrrle, 11 Saggia t'ire. Milano. 1968 (cd. or. 1958) pp. 59-61: 63:66. ciascuna delle due generazioni in causa, esista
... zio e nipote (Yaomami del Venezuela)
sempre una relazione positiva e una negativa. Che cos'è, ora, questa struttura e quale può esserne la ragione? La risposta è la seguente: questa struttura è la struttura di parentela più semplice che si possa concepire e che possa esistere. E, più precisamente, l'elemento di parentela. A sostegno di questa affermazione, si può far valere un argomento di ordine logico: perché una struttura di parentela esista, occorre che in essa si trovino presenti i tre tipi di relazioni familiari sempre dati nella società umana, ovverossia: una relazione di consaguineità, una relazione di parentela d'acquisto, una relazione di filiazione; in altri termini, una relazione da germano a germana, una relazione da sposo a sposa, una relazione da genitore a figlio. E facile renderci conto del fatto che la struttura qui considerata è quella che permette di soddisfare questa triplice esigenza secondo il principio della maggiore economia. Ma le considerazioni precedenti hanno un carattere astratto, e per la nostra dimostrazione si può far ricorso a una prova più diretta. Il carattere primitivo e irriducibile dell'elemento di parentela quale l'abbiamo definito risulta infatti, in modo immediato, dall'esistenza universale
della proibizione dell'incesto. Tale proibizione equivale a dire che, nella società umana, un uomo non può ottenere una donna se non da un altro uomo, che gliela cede sotto forma di figlia o di sorella. Non c'è dunque bisogno di spiegare come lo zio materno faccia la sua apparizione nella struttura di parentela: non vi appare affatto, vi è immediatamente dato, ne è la condizione. L'errore della sociologia tradizionale, come della linguistica tradizionale, sta nell'aver considerato i termini, e non le relazioni tra i termini. [...] Tale struttura elementare, risultante da relazioni definite tra quattro termini, è per noi vero atomo di parentela. Non c'è esistenza che possa essere concepita o data al di qua delle esigenze fondamentali della sua struttura, e, d'altra parte, esso è l'unica materia prima per costruire sistemi più complessi. [...] Quindi, sono davvero .elementari» non le famiglie, termini isolati, ma la relazione fra tali termini. Nessun'altra interpretazione può render conto dell'universalità della proibizione dell'incesto. di cui la relazione avuncolare, nel suo aspetto più generale, è solo un corollario, ora manifesto e ora implicito.
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Claude Lévi-Strauss Modelli consci e modelli inconsci
Claude Lévi-Strauss Modelli consci e modelli inconsci' Che un modello sia conscio o inconscio, questa condizione non riguarda la sua natura. Si può solo dire che una struttura superficialmente nascosta nell'inconscio rende più probabile l'esistenza di un modello che la maschera, come uno schermo, alla coscienza collettiva. Infatti, i modelli coscienti – che si chiamano comunemente «norme» – sono fra i più poveri che ci siano, a causa della loro funzione che consiste nel perpetuare le credenze e gli usi, più che non di esporne le molle segrete. Così, l'analisi strutturale urta contro una situazione paradossale, ben nota al linguista: più è netta la struttura apparente, più diventa difficile cogliere la struttura profonda, a causa dei modelli consci e deformati che s'interpongono come ostacoli fra l'osservatore e il suo oggetto. L'etnologo dovrà quindi sempre distinguere fra le due situazioni in cui rischia di venirsi a trovare. Può dover costruire un modello corrispondente a fenomeni il cui carattere di sistema non sia stato percepito dalla società da lui studiata. È la situazione più semplice, di cui Boas ha sottolineato il I Da: Claude Lévi-Strauss. Le concept de structure en ethnologic. 1952, trad. it. il concetto di struttura in etnologia, in C. LéviStrauss, Antropologia strutturale, Il Saggiatore, Milano 1968 (ed. or. 1958), pp. 313-14.
fatto che offriva anche il terreno più favorevole alla ricerca etnologica. In altri casi, tuttavia, l'etnologo si trova di fronte non solo a una materia bruta, ma anche a modelli già costruiti dalla cultura considerata, in forma d'interpretazioni. Ho già notato che tali modelli possono essere imperfettissimi, ma non sempre le cose stanno così. Molte culture cosiddette primitive hanno elaborato modelli – delle loro regole di matrimonio – migliori di quelli degli etnologi di professione. Ci sono dunque due ragioni per rispettare quei modelli «fatti in casa». Anzitutto, possono essere buoni, o, perlomeno, offrire una via d'accesso alla struttura; ogni cultura ha i suoi teorici, la cui opera merita un'attenzione pari a quella che l'etnologo concede ai suoi colleghi. Inoltre, anche se i modelli sono tendenziosi o inesatti, la tendenza e il genere di errori che essi nascondono fanno parte integrante dei fatti da studiare; e forse sono fra i più significativi. Ma, dedicando tutta la sua attenzione a questi modelli, prodotti dalla cultura indigena, l'etnologo farà bene a non dimenticare che le norme culturali non sono automaticamente strutture. Sono, semmai, importanti pezze d'appoggio per aiutare a scoprirle: ora documenti bruti, ora contributi teorici. paragonabili a quelli procurati dall'etnologo stesso.
Claude Lévi-Strauss La «verità» dei modelli sono le strutture' Nel corso di questi ultimi anni, si è risvegliata l'attenzione sulle istituzioni di certe tribù del Brasile centrale e orientale che a causa del loro basso livello di cultura materiale erano state classificate come decisamente primitive. Caratteristica di queste tribù è una struttura sociale di grande complessità, che comporta svariati sistemi di metà, intersecantisi a vicenda e dotati di funzioni specifiche, di clan, di classi di età, di associazioni sportive o cerimoniali e di altre forme di raggruppamento. [...] La tendenza generale degli osservatori e degli studiosi di teorie è stata quella di interpretare queste I Da: Claude Lévi-Strauss 4a structures- socials, dans le Brésil central et oriental, 1952, trad. it. Le strutture sociali nel Brasile centrale e orientale, in C. Lév i-Strauss. Aturopotogia strutturale. Il Saggiatore, Milano, 1968 (ed. or. 1958), pp. 140-41: 148: Ua-IS I.
strutture complesse muovendo dall'organizzazione dualista, che sembrava rappresentare la forma più semplice. Si seguiva in realtà l'invito degli informatori indigeni che nella loro descrizione mettevano in primo piano quelle forme dualiste. L'autore della presente comunicazione non si distingue in proposito dai suoi colleghi. Tuttavia. il dubbio che nutriva da tempo l'aveva indotto a postulare il carattere residuale delle strutture dualiste nell'area considerata. Come si vedrà in seguito, quest'ipotesi doveva dimostrarsi insufficiente. Ci proponiamo qui, infatti. di mostrare che la descrizione delle istituzioni indigene fornita dagli osservatori sul terreno – noi compresi – coincide, indubbiamente, con l'immagine che gli indigeni si fanno della loro società, ma che tale immagine si riduce a una teoria, o piuttosto a una trasfigurazione, della realtà che è di natura del tutto diver-
Claude Lévi-Strauss La «verità» dei modelli sono le strutture
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sa. Da questa constatazione che, sinora, era stata intravista solo per gli Apinayé, derivano due importanti conseguenze: l'organizzazione dualista delle popolazioni del Brasile centrale e orientale non è solo aggiunta dall'esterno, spesso è illusoria; e soprattutto, siamo portati a intendere le strutture sociali come oggetti indipendenti dalla coscienza che ne assumono gli uomini (dei quali tuttavia esse regolano l'esistenza), e tali da poter essere tanto diverse dall'immagine che essi se ne formano quanto la realtà fisica differisce dalla rappresentazione sensibile che ne abbiamo, e dalle ipotesi che formuliamo sul suo conto. Nell'ambito dell'organizzazione sociale, l'Albisetti2 precisa che ogni metà matrilinea comprende sempre quattro clan, e che il matrimonio non è solo preferenziale fra certi clan, ma deve unire fra loro sezioni privilegiate di ogni clan. Ogni clan sarebbe, infatti, diviso in tre sezioni, matrilinee come il clan: superiore, media, inferiore. Dati due clan legati da una preferenza matrimoniale, il matrimonio non può avvenire se non fra superiori e superiori, medi e medi, inferiori e inferiori. Se questa descrizione fosse esatta (e le informazioni dei pa-
2 Cesar Albisetti, missionario salesiano ed etnologo, autore. con Antonio Colbacchini di Os Bororos Orientais (1942) e curatore della Enciclopedia Bororo (1962).
dri salesiani si sono sempre dimostrate degne di fiducia) è evidente che lo schema classico delle istituzioni bororo crollerebbe. Indipendentemente dalle preferenze matrimoniali che uniscono fra loro taluni clan, i clan propriamente detti perdereb-
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Claude Lévi-Strauss La natura del pensiero mitico
bero ogni valore funzionale, e la società bororo si ridurebbe a tre gruppi endogami – superiore, medio e inferiore – ciascuno diviso in due sezioni esogamiche. senza che esista nessun rapporto di parentela fra i tre gruppi principali, che costituirebbero davvero tre sottosocietà [cfr. schema cap. 18]. Tre conclusioni emergono da questa esposizione, di cui si scuserà il carattere schematico: 1. Lo studio dell'organizzazione sociale delle popolazioni del Brasile centrale e orientale deve essere interamente ripreso sul terreno. In primo luogo, perché il funzionamento reale di queste società è diversissimo da come appare in superficie [-.-J
2. I ricercatori sul terreno devono abituarsi a considerare le loro ricerche sotto due diversi profili. Essi sono sempre esposti al rischio di confondere le teorie degli indigeni sulla loro organizzazione sociale (e la forma superficiale data alle istituzioni perché si adeguino alla teoria), e il funzionamento reale della società. Tra i due, può esserci una differenza altrettanto grande di quella che esiste, per esempio, tra la fisica di Epicuro o di Cartesio, e le conoscenze tratte dallo sviluppo della fisica con-
temporanea. Le rappresentazioni sociologiche degli indigeni non si riducono a parte o a riflesso della loro organizzazione sociale: ma possono, come nelle società più progredite, contraddirla completamente o ignorarne taluni elementi. 3. Sotto questo profilo abbiamo visto come le rappresentazioni indigene del Brasile centrale e orientale e, d'altro lato, il linguaggio istituzionale in cui esse si esprimono, costituiscano uno sforzo disperato per porre in primo piano un tipo di struttura – metà o classi esogamiche – la cui funzione reale è secondarissima, quando non è addirittura completamente illusoria. Dietro il dualismo e la simmetria apparente della struttura sociale, si indovina una più fondamentale organizzazione tripartita e asimmetrica, al cui armonioso funzionamento l'esigenza di una formulazione dualista impone difficoltà forse insormontabili. Perché mai società che sono così segnate da un forte coefficiente di endogamia, hanno un così urgente bisogno di automistificarsi, e di concepirsi come rette da istituzioni esogamiche di forma classica, senza però averne nessuna conoscenza diretta? Questo problema, [...] è un problema di antropologia generale.
Claude Lévi-Strauss La natura del pensiero mitico' Più decisiva sarà quindi l'esperienza che avviamo ora sulla mitologia. Quest'ultima non ha un'evidente funzione pratica; all'opposto dei fenomeni precedentemente esaminati, essa non è in presa diretta su una realtà differente, dotata di un'oggettività più alta della sua e di cui essa trasmetterebbe gli ordini a uno spirito che sembra perfettamente libero di abbandonarsi alla sua spontaneità creatrice. Di conseguenza, se fosse possibile dimostrare che anche in questo caso l'apparenza arbitraria, lo scaturire che si presume libero, l'invenzione che si potrebbe credere sciolta da qualsiasi vincolo, presuppongono certe leggi che operano a un livello più profondo, si sarebbe necessariamente indotti a concludere che lo spirito, abbandonato a un confronto diretto con se stesso e sottratto all'obbligo di accordarsi con gli oggetti, si ritrova in un certo qual modo ridotto a imitare se stesso come oggetto; e che, poiché le leggi delle sue operazioni non sono allora fondamentalmente diverse da quelle che esso manifesta nell'altra funzione, lo spirito riI Da: Claude Lévi-Strauss, Le era er le cart, M i rhologiques t, 1964, trad. it. Il crudo e il cono. II Saggiatore, Milano, 1966. pp. 25-27.
vela così la sua natura di cosa fra le cose. Senza spingere tanto lontano il ragionamento. ci basterà aver acquisito la convinzione che se lo spirito umano appare determinato perfino nei suoi miti_ allora, a maggior ragione, deve esserlo ovunque.[...] Noi crediamo che nulla, meglio della mitologia. permetta di illustrare questo pensiero oggettivato e di dimostrare empiricamente la sua realtà. Senza escludere che i soggetti parlanti, i quali producono e trasmettono i miti, possano prendere coscienza della loro struttura e del loro modo d'operare, teniamo ad affermare che ciò non potrebbe verificarsi in modo normale, ma parzialmente e per itermittenza. Ciò che vale per il linguaggio vale anche per i miti: il soggetto che nel discorrere applicasse coscientemente le leggi fonologiche e grammaticali, ammesso che egli possieda la scienza e la capacità necessarie, perderebbe però quasi subito il filo delle sue idee. Allo stesso modo, l'esercizio e l'uso del pensiero mitico esigono che le sue proprietà rimangano celate: altrimenti ci si metterebbe nella posizione del mitologo, che non può credere ai miti per il fatto che si applica a sezionarli. L'analisi mitica non ha e non può avere il
Claude Lévi-Strauss 11 viaggio dell'antropologo
fine di mostrare come pensino gli uomini. Nel caso particolare che qui ci interessa, è per Io meno dubbio che gli indigeni del Brasile centrale concepiscano realmente, in vari racconti mitici che li affascinano, il sistema di rapporti ai quali noi stessi li riduciamo. E quando, per mezzo di questi miti, noi convalidiamo certe espressioni arcaiche o immaginifiche della nostra propria lingua popolare,
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si impone la stessa constatazione, giacché è dall'esterno, e sotto l'influsso di una mitologia estranea, che si realizza in noi una presa di coscienza retroattiva. Noi non pretendiamo quindi di mostrare come gli uomini pensino nei miti, ma viceversa come i miti si pensano negli uomini, e a loro insaputa.
Claude Lévi-Strauss II viaggio dell'antropologo' Soprattutto ci si domanda: che cosa siamo venuti a fare qui? Con quale speranza? A quale fine? Che cosa è realmente un'inchiesta etnografica? L'esercizio normale di una professione come le altre, con l'unica differenza che lo studio o il laboratorio sono separati dal domicilio da qualche migliaio di chilometri? O la conseguenza di una scelta più radicale che implica una discussione del sistema nel quale siamo nati e cresciuti'? Avevo lasciato la Francia da quasi cinque anni, avevo abbandonato la mia carriera universitaria; durante questo tempo i miei compagni più saggi erano andati avanti; quelli che, come me un tempo, avevano tendenza per la politica, erano oggi deputati, e quanto prima sarebbero stati ministri. Ed io invece correvo i deserti, perseguendo relitti di umanità. Chi o che cosa aveva dunque fatto esplodere il corso normale della mia vita? Era stato uno stratagemma, un abile raggiro, che mi avrebbe permesso di reintegrare la mia carriera con vantaggi supplementari dei quali si sarebbe tenuto conto? Oppure la mia decisione esprimeva una incompatibilità profonda nei confronti del mio gruppo sociale da cui, qualunque cosa accadesse, avrei dovuto isolarmi sempre di più? Invece di aprirmi un universo nuovo, per un singolare paradosso, la mia vita avventurosa mi restituiva piuttosto il vecchio, mentre quello a cui avevo aspirato si dissolveva fra le mie dita. Tanto più gli uomini e i paesaggi alla conquista dei quali ero partito perdevano, a possederli, il significato che me ne aspettavo, tanto più a queste immagini deludenti, anche se reali, se ne sostituivano altre, tenute in riserva dal mio passato e alle quali non avevo attribuito alcun valore quando appartenevano ancora al mondo che mi circondava, 1 Da: Claude Luci-Strauss. 'Trisres rropiques_ 1955, trad. it. Tristi tropici, II Saggiature, Milano, i960.pp. 364-65.
L'antropologo e il selvaggio». (Lévi-Strauss in Amazzonia, 1934)
Viaggiando per paesi che pochi occhi avevano contemplato, dividendo l'esistenza di popoli la cui miseria era il prezzo – da essi pagato per primi – perch'io potessi risalire il corso dei millenni, non scorgevo più né gli uni né gli altri, ma solo visioni fugaci della campagna francese che mi ero negata, o frammenti di musica odi poesia che erano l'espressione più convenzionale d'una civiltà contro la quale avevo optato, e dovevo persuadermene, per non correre il rischio di smentire il senso che avevo dato alla mia vita. Per settimane, su quell'altipiano del Mato Grosso occidentale, ero stato ossessionato non da ciò che mi circondava e che non avrei rivisto mai più, ma da una melodia nota e arcinota che il mio ricordo impoveriva maggiormente: quella dello studio n. 3, opera 10, di Chopin, nella quale mi sembrava, per una derisione alla cui amarezza ero ancora sensibile, che si riassumesse tutto ciò che avevo lasciato dietro di me.
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Max Gluckman La tipologia del conflitto
Max Gluckman Diritto e rituale
Capitolo 19 Max Gluckman La tipologia del conflitto' Ho deciso di limitare il significato di "conflitto" a quelle opposizioni determinate dalla struttura stessa dell'organizzazione sociale. Pur sapendo che il termine "conflitto" può essere usato nel linguaggio quotidiano per descrivere i disordini di superficie della vita sociale, ritengo che questo settore di studi potrà dare risultati fruttuosi solo se daremo una definizione specialistica di certi termini nel riferirci a diversi livelli di fenomeni. In caso contrario la materia trattata difetterà di chiarezza, né potranno verificarsi veri e propri progressi della nostra 1 Da: Max Gluckman, Power, Low and Ritual in Tribal Society, 1965, trad. it. Potere, diritto e rituale nelle societd 'tribali, Bon nghieri,Torino,1977,p. 141.
analisi. Per i disordini di superficie della vita sociale, a seconda della loro natura, possiamo usare i termini competizione, disputa, controversia, lite, contesa, discordia, rivalità, dissidio ecc. Preferisco riservare il termine "lotta" a quegli eventi le cui origini sono più profonde e basilari, e il termine "conflitto" per le contraddizioni nodali del sistema, ma anche in riferimento al rapporto che esiste tra quelle discrepanze che mettono in moto dei .processi che provocano alterazioni nei ruoli sociali ma non nei modelli di tali ruoli. Preferisco usare il termine più comune di "contraddizione" per quei rapporti tra principi e processi discordi nella struttura sociale, rapporti che portano inevitabilmente a un mutamento radicale del modello di struttura.
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Max Gluckman Diritto e rituale' condizioni coincidono con la natura relativamente indifferenziata delle relazioni sociali. Ognuno partecipa, con gli stessi gruppi di individui, a molteplici ambiti di attività intenzionali. I vincoli di dipendenza che attraversano i gruppi e i processi di sviluppo interni producono in ciascuno di essi ambivalenze e conflitti. Il rituale occulta le disarmonie di base della struttura sociale e sancisce il carattere irrefutabile dei rapporti di fedeltà esistenti. La religione e i rituali tribali sono rappresentazioni ridotte dell'universo. In ogni tribù essi esprimono un elevato grado di particolarismo poiché riferiscono l'ordine universale ai particolari della struttura propria di quella tribù. In questi sistemi di credenze le altre tribù possono essere collocate ai limiti del genere umano. Esse non possono certamente unirsi alla congregazione nei rituali più importanti. Ma anche queste religioni particolaristiche affrontano gli stessi problemi che travagliano tutta l'esistenza umana e sociale e che dovunque hanno assillato gli uomini? Perché esiste il bene e il male, la prosperità e la sventura? Qual è il posto della società umana nel mondo naturale'? Che cos'è l'uomo? Da dove proviene e dove va? Come dovrebbero gli uomini e le donne, i genitori e i figli, i governanti e i governati comportarsi gli uni con gli altri? Le risposte esistono nei miti e nelle legg ende, e persino nei dogmi, anche se -- pur con molte eccezioni importanti – i dogmi sono sovente riduttivi. Ai sacerdoti di professione, armati della scrittura, si chiede di elaborare una spiegazione teologica. Nella società tribale gli enigmi dell'uniy and Ritual fn Tribal Sonin i. I Da: Max Gluckman, Pager, Lar verso vengono elaborati soprattutto nella complesBorinPotere, diritto e rituale ,,elle sucietù tributi, 1965. trad. it. sità del rituale che caratterizza le relazioni sociali. ghierì.Torino. 1977. pp. 316-17.
I rituali tribali implicano la drammatizzazione delle relazioni morali del gruppo interessato. poiché i poteri mistici pervadono l'ordine etico. La rappresentazione dei ruoli nelle relazioni sociali libera un potere benefico. Ma il rituale è efficace poiché mostra tutte le tensioni e l'antagonismo inerente alla vita sociale medesima. Attraverso la rappresentazione drammatica dei numerosi vincoli di unità e dei conflitti esistenti in quegli stessi vincoli vengono confermati i principali legami di fedeltà. Al contrario, nella società tribale tutti i mutamenti nelle relazioni sociali – la nascita, la crescita di un giovane, un trasferimento di terra, lo spostamento di un villaggio, il cambiamento della propria attività, le alterazioni dovute ai cambi di stagione – vengono tendenzialmente considerati come minacce all'ordine naturale, espressione di avvenute modificazioni nei rapporti interpersonali. Per questo tali mutamenti sono più strettamente legati al rituale che non nella società industriale moderna. Il rituale e il cerimoniale conraddistinguono non solo occasioni particolari, ma determinano una separazione dei ruoli in condizioni di vita materiale che impediscono tale separazione. Possiamo comprendere le credenze e il rituale della società tribale solo collegandoli a quelle stesse condizioni che spiegano lo svolgersi dell'attività economica e della lotta politica, la struttura del diritto e dell'ordine nel senso più ampio. Queste
Saluto di un giudice in direzione del palazzo del re dei ltorotse
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Victor Turner Conflitto tra principi strutturali nrlembn
Victor Turner Conflitto tra principi strutturali ndembu' Due sono i princìpi fondamentali che influenzano il modello residenziale: la discendenza in linea materna e il matrimonio virilocale. La matrilinearità ha diritti di priorità nel regolare la residenza, la successione nelle cariche e la trasmissione ereditaria della proprietà. Un uomo ha il diritto di risiedere con i propri parenti di parte materna, in senso primario o classificatorio. Può risiedere nel villaggio del padre se ci vive la madre oppure, se la madre non ci vive, per un privilegio accordatogli dal padre, in virtù dei diritti di cui gode il padre come appartenente alla linea materna del villaggio, un uomo ha il diritto di essere considerato candidato alla dignità di capo del proprio villaggio di parte materna e di avere una parte della proprietà di un parente defunto di parte materna. D'altro canto un uomo ha diritto di portare la moglie a risiedere nel proprio villaggio. Questo potrebbe determinare una situazione difficile per il fatto che le donne, dalle quali dipende la continuità sociale dei villaggi, non vivono in questi stessi villaggi, ma in quelli dei mariti. Questa difficoltà diminuirebbe se esistesse un costume ben preciso sulla base del quale i ragazzi a una certa età, per esempio alla pubertà, andassero a vivere nei villaggi degli zii materni.Tra gli Ndembu questo costume non esiste e il risultato resta incerto. L'onere della scelta è lasciato all'individuo. Gli uomini cercano di tenere con sé il più a lungo possibile i figli maschi e in effetti il rapporto padre-figlio è
I Da: Victor Turner. The Forest of Synrhots, 1967, trad. it. La foresta dei simboli, Morcelliana. Brescia, 1976, pp.26-7.
fortemente ritualizzato, particolarmente nei culti dei cacciatori e nella cerimonia della circoncisione. Il risultato è l'esistenza di forti tendenze patrifocali in un società matrilineare. Il quadro generale che emerge è quello di gruppi mobili di uomini con rapporti di parentela matrilineari che cambiano luogo di residenza due volte circa ogni dieci anni, in lotta gli uni contro gli altri per donne e figli- i figli piccoli di solito rimangono con le madri, che ne ottengono la custodia con divorzio. Gli zii materni, per ottenere che i bambini dipendano da loro, devono prevalere sulle madri dei bambini. In tal modo tende a sorgere una contraddizione tra il ruolo che un uomo ha come marito e come padre che desidera tenere con sé la moglie e i figli e il suo ruolo in quanto fratello uterino e zio, che cerca di assicurarsi la dipendenza residenziale della sorella e dei suoi figli. Questo conflitto, per quanto resti spesso velato e sia mitigato da costumi che prescrivono l'amicizia tra parenti acquisiti della stessa generazione, si riflette in un tasso di divorzi eccezionalmente alto anche per l'Africa Centrale. L'importanza della matrilinearità appare anche nel costume secondo il quale le vedove ritornano nei villaggi della propria parentela uterina o dei più stretti parenti in linea materna, dopo la morte del marito. [...] Quindi, in pratica, in un determinato momento, la struttura matrilineare di un villaggio si compone non solo di rapporti tra parenti maschi in linea materna, ma anche di rapporti tra questi uomini e un numero variabile di parenti femmine in linea materna, che sono tornate da loro in seguito al divorzio o alla vedovanza, portando con sé i propri figli.
Victor Turner II valore polisemico dei simboli' Quando parliamo del `significato' di un simbolo, dobbiamo stare attenti a distinguere fra almeno tre livelli o campi di significato. Propongo di chiamarli: I) il livello dell'interpretazione indigena (o. in breve, il significato esegetico); 2) il significato operazionale; 3) il significato posizionale. Il significato esegetico si ottiene interrogando gli informatori indigeni sul comportamento rituale osservato. Qui di nuovo bisogna distinguere tra le informazioni fornite dagli specialisti del rituale e quelle fornite dai profani, cioè fra interpretazioni esoteriche ed essoteriche. Bisogna anche stare attenti ad 1 Da:Victor Turner, The Forest of S ymhols, 1967, trd. it. La fore Morcelliana. Brescia. 1976, pp. 78-9.
sta dei .rimhnli_
appurare se una determinata spiegazione rappresenta veramente una di queste categorie, o se non è che un'opinione personale. Inoltre si può fare molta luce sul ruolo del simbolo rituale paragonando significato e uso, osservando ciò che gli Ndembu ci fanno e non solo ciò che ne dicono. E quello che io chiamo significato operazionale e questo è il livello più connesso ai problemi di dinamica sociale. L'osservatore infatti deve prendere in considerazione non solo il simbolo, ma la struttura e la composizione del gruppo che lo tratta o che compie atti mimati aventi rapporto diretto con esso. Deve inoltre prendere nota delle qualità affettive di questi atti, osservare cioè se sono aggressivi, tristi, penitenti, gioiosi, derisori cc-
Edmund R. Leach Critica della comparazione
cetera. Deve anche indagare perché certe persone e certi gruppi sono assenti in determinate occasioni e, se sono assenti, se e perché siano stati ritualmente esclusi dalla presenza del simbolo. Il significato posizionale di un simbolo deriva dal suo rapporto con altri simboli in una totalità, in una Gestalt, i cui elementi acquistano il loro valore dal sistema come tutto. Questo livello di significato è direttamente legato alla importante proprietà dei simboli rituali citata prima, la polisemia. Tali simboli hanno molti sensi, ma contestualmente può essere necessario mettere l'accento su uno solo o su pochi. Così l'albero mukula considerato astraendo da uno specifico contesto rituale può significare `matrilinearità', `qualità di cacciatore', `sangue mestruale', `la carne degli animali selvaggi' e molti altri concetti e cose. Il legame associativo tra i diversi sensi è fornito dalla gomma rossa che secerne, che gli Ndembu collegano al sangue. Ora nel rituale di circoncisione dei ragazzi (Mukanda) il significato di mukula è determinato dal suo contesto simbolico. Un ceppo di questo legno viene 'collocato vicino al luogo in cui vengono circoncisi i ragazzi. La circoncisione avviene sotto un albero mudyi che significa tra l'altro la maternità e il rapporto madre-figlio. Poi i ragazzi vengono sollevati sopra un troncone di altre nucyombu, che tradizionalmente viene impiantato come altare perenne agli spiriti ancestrali del villaggio, e posti ancora sanguinanti sul ceppo mukula. Qui il ceppo mukula significa principalmente due cose. Rappresenta il desiderio degli adulti che le ferite della circoncisione si cicatrizzino rapidamente (dal fatto che la gomma mukula si coagula rapidamente a somiglianza di una crosta. Rappresenta anche, mi è stato detto, la virilità (nvuv=a la ) e la vita di un maschio adulto, che come cacciatore e come g uerriero deve spargere sangue. Il rito rappresenta 1) l'allontanamento del ragazzo dalla dipendenza materna (passaggio dall'albero mudyi); 2) la sua morte rituale e conseguente associazione con
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gli antenati (passaggio sopra l'albero muyombu) e 3) la sua aggregazione alla comunità morale maschile dei membri della tribù (la collocazione collettiva sull'albero mukula dove i ragazzi vengono ritualmente nutriti come neonati dai circoncisori e dai padri. Ogni ragazzo riceve una palla di polenta di cassava che deve mangiare direttamente dal coltello del circoncisore). In questo rito la posizione del simbolo mukula relativamente ad altri oggetti ed atti simbolici rappresenta il fattore semantico cruciale. Dello stesso simbolo si possono registrare sensi diversi in fasi diverse di un'esecuzione rituale, o piuttosto sensi diversi prevalgono in momenti diversi. Quale sarà il senso prevalente dipende dall'intento dichiarato dalla fase del rituale nel quale compare.
Edmund R. Leach Critica della comparazione' La comparazione è un processo analogo a quello della raccolta di farfalle: si avvale della classificazione. della sistemazione delle cose in base ai tipi e ai sottotipi. I seguaci di Radcliffe-Brown sono dei I Da: Edmund IZ. Leach, Rethin/ing Anthropoloe% 1961. trad. it. Nuore ti,' deI1'mur,i't h tie. 11 So:zgiatorte . bi iInno. 1973. pp. 15-17.
collezionisti di farfalle antropologici e il loro modo di sistemare i dati raccolti comporta detenninate conseguenze. Ad esempio. in base ai principi di RadcliffeBrown noi dovremmo pensare alla società dei Trohriand conte a un'organizzazione di un tipo strutj turale particolare_
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Edmund R. Leach Modello e struttura
La classificazione potrebbe procedere in questo modo: Tipo principale: società composte di gruppi di discendenza unilineare. Sottotipo: società composte di gruppi di discendenza matrilinea. Sotto-sottotipo: società composte di gruppi di discendenza matrilinea in cui i maschi sposati di linea materna vivono insieme in un unico posto e separati dalle femmine di discendenza matrilineare, e così via. Procedendo in tal modo ogni classe è un sottotipo della classe che nella catalogazione occupa il posto immeditamente precedente. Sono certo che un'analisi di questo genere abbia la sua utilità, ma sono altresì convinto che presenti gravi limitazioni. Uno dei suoi difetti principali è che non ha nessun limite logico. In definitiva, ogni società conosciuta può essere in tal modo individuata come un sottotipo diverso da ogni altro e dato che gli antropologi hanno un concetto piuttosto vago di ,società», sono portati a distinguere sempre nuove società, quasi ad infinitum. Questa non è soltanto un'ipotesi. Il mio collega, dr. Goody, ha avuto il suo daffare per distingure come tipi due società contingue della Costa d'Oro settentrionale da lui chiamate LoWiilli, e LoDagaba. Un lettore attento delle opere del dr. Goody, comunque, scoprirà che queste due «società» rispecchiano semplicemente il metodo da lui scelto per descrivere le curiose discrepanze che si rilevano nelle sue note d'indagine sulle due comunità vicine. Se i metodi d'analisi del dr. Goody fossero stati spinti agli estremi, saremmo in grado di dimostrare che ogni piccola comunità, in qualsiasi parte del mondo si trovi, costituisce una società distinta. individuabile come tipo da ogni altra. Un'altra grave obiezione a questo riguardo è che
Edmund R. Leach Modello e struttura
chi fa della tipologia non spiega mai perché scelga una teoria piuttosto che un'altra. Le istruzioni di Radcliffe-Brown dicevano semplicemente che «è necessario comparare le società con riferimento a un particolare aspetto... il sistema economico, il sistema politico o il sistema di parentela...», il che equivale ad affermare che puoi beatamente catalogare le tue farfalle in base al colore o alla grandezza; o la forma delle ali in base al capriccio del momento, senza badare se un tale procedimento sia scientifico o meno. In un certo senso forse tale procedimento è anche scientifico, ma bisogna riconoscere che la sistemazione precedente crea un pregiudizio iniziale di cui più tardi è estremamente difficile liberarsi. L'antropologia sociale è piena di delusioni di questa fatta. Un chiaro esempio ne è la contrapposizione categoriale tra discendenza patrilinea e discendenza matrilinea. Da quando Morgan si è accinto a studiare gli Irochesi, è diventata una consuetudine degli antropologi it distinguere i sistemi di discendenza unilineare da quelli di discendenza non unilineare e quanto ai primi il differenziare le società patrilinee da quelle matrilinee. Queste categorie ci sembrano ora così elementari e ovvie che ci torna estremamente difficile uscire dal rigido schematismo da esse imposto. Tuttavia se il nostro accostamento all'antropologia vuole essere davvero libero da preconcetti, dobbiamo essere pronti a considerare la possibilità che queste categorie-tipo non abbiano alcun valore sociologico. Può essere che la formulazione di una classe definita di società rnatrilinee abbia, per la comprensione della struttura sociale, la stessa scarsa importanza che la creazione di una classe di farfalle blu ha per la comprensione della struttura anatomica dei lepidotteri. Non dico che le cose stiano in questi termini, ma potrebbe anche darsi; è ora di considerare tale possibilità.
Edmund R. Leach Modello e struttura' Il mio assunto è che all'interno di un'area arbitrariamente delimitata - l'area, cioè, dell'altopiano kachin - esiste un sistema sociale. Le valli tra le colline sono comprese in questa area, cosicché Shan e Kackin sono, a questo livello, parte di un unico sistema sociale. All'interno di questo sistema sociale complessivo esistono, in ogni momento I Da: Edmund C. Leach, Pituita! S ystems ai /lighIan,l lftrnna. 1954. trad. it. Sistemi politici birmani, Angeli. !Stilano, 1979, pp. 1311: 332-33.
dato, numerosi sottosistemi significativamente differenti che sono tra loro in un rapporto di interdipendenza. Tre di questi sottosistemi potrebbero essere caratterizzati come shan, gumsa kachin e gumlao kackin. Considerati semplicemente come modelli di organizzazione questi tre sottosistemi possono essere visti come una variazione sul tema. L'organizzazione giunse, kachin modificata in un senso risulterebbe indistinguibile dal modello shan; modificata in un altro finirebbe con il confondersi con il guntluo kachin. Viste in una
prospettiva storica tali modificazioni avvengono di fatto ed è il caso di parlare di Kachin che "diventano" Shan o di Shan che, viceversa, "diventano" Kachin. Quando, però, io, in quanto antropologo, esamino un particolare contesto kachin o shan devo essere cosciente del fatto che quell'equilibrio che sembra magari esistere può in realtà essere effimero e instabile, come, del resto, devo essere sempre consapevole dell'interdipendenza dei sistemi sociali in genere. In particolare, se esamino una comunità gumsa kachin, devo presumere che buona parte delle mie scoperte sarà intelligibile soltanto in rapporto agli altri modelli contestuali di organizzazione, cioè in rapporto al modello shan o gumlao kachin. Le categorie qui descritte sono le categorie della ideologia kachin gumsa. I Kachin gumlao condividono in larga misura l'ideologia gumsa ma ne valutano in modo diverso i particolari. Ad esempio, gumlao e gumsa concordano che riservare le cosce dell'animale macellato ad un capo equivale a riconoscerlo come proprio signore ma i Kackin gumlao non ricbnoscono capi e perciò non pagano alcun tributo. [...1 In questo capitolo mi sforzo di presentare il sistema dell'ideologia gumsa kachin come se fosse un insieme coerente e integrato di idee. In questo senso, è vero, parlo di un sistema ideale. Il mio punto di vista è che nell'antropologia sociale la teoria dell'equilibrio era un tempo giustificata ma che ora esige una dastica modificazione. Non possiamo più accontentarci di tentare di creare una tipologia dei sistemi fissi. Dobbiamo riconoscere che poche, per non dire nessuna delle società che possono essere oggetto dello studio di un moderno ricercatore sul campo mostrano una spiccata tendenza alla stabilità. [...1 Il franco riconoscimento del fatto che i sistemi sociali non sono necessariamente stabili per natura non deve per questo costringere l'antropologo sociale di formazione strutturalistica ad abbandonare tutte le sue tradizionali tecniche di analisi; egli, anzi, avrà ancora tutte le buone ragioni di continuare ad usare le sue finzioni scientifiche. Nella realtà pratica della ricerca sul campo l'antropologo deve sempre trattare il materiale di osservazione come se fosse parte di un equilibrio globale, altrimenti ogni descrizione diventa quasi impossibile. Tutto ciò che chiedo è un riconoscimento esplicito della natura "fittizia" di questo equilibrio. In questo libro le mie descrizioni dei modelli di organizzazione gumsa, gumlao e shan sono in larga misura descrizioni "come se": si riferiscono a nodelli ideali più che a società reali, e ciò che ho cercato di fare è stato di presentare un modello convincente di ciò che accade quando questi sistemi "ipotetici" interagiscono. Una descrizione sociolo-
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gita del processo di mutamento sociale, se vuole pretendere a una generalità qualsiasi. deve riferirsi a un modello di questo tipo più che a un qualche caso particolare. Non è possibile, voglio dire. descrivere questo processo di cambiamento direttamente dall'osservazione di dati etnografici di prima mano. Ciò che bisogna fare è prima analizzare i dati etnografici in rapporto a sistemi globali astratti concepiti in equilibrio instabile e poi porre come postulato che la confusione del reale nasce dall'interpretazione di questi sistemi ideali instabili. Così descritto, il mio metodo assomiglia a un espediente scolastico della più pura pedanteria. Ma la mia tesi è che in realtà Kachin e Shan "razionalizzano" in questo modo la loro società. I Kachin stessi tendono a prospettare la differenza tra gumsa e gumlao e tra gumsa e shan come differenze dello stesso tipo generale. Di più, essi riconoscono che queste differenze non sono assolute - che gli individui possono passare da una categoria all'altra. I Kachin parlano di persone che -diventano gumlao" o "diventano Shan" (gumlao Fai: sani fili)_ Ciò implica che i Kachin stessi concepiscono la differenza tra Shan e Kachin grrntsu come una differenza di tipo ideale e non, come gli etnologi vorrebbero farci credere, etnico, culturale o razziale.
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Raymond Firth L'organizzazione sociale
Raymond Firth L'organizzazione sociale' Forse sarebbe necessario specificare che quando si parla di organizzazione sociale, non si ha in mente nessuna entità sociale isolata e concreta. La nostra analisi si riferisce a un campo di azione sociale, identificato come sequenza di schemi. [...1 Nel concetto di struttura sociale, gli aspetti presi in considerazione sono prima di tutto quelli della durata, della continuità, della forma e dell'estensione in campo sociale. Ma dire «continuità» è essenzialmente lo stesso che «ripetizione». Secondo come si formula il concetto, ci si aspetta un'identità o una obbligazione all'identità. Principio strutturale è quello che indica una precista linea di condotta sociale e che rappresenta l'ordine in cui essa si presenta. Il concetto di organizzazione sociale ha importanza complementare. Riconosce come il" comportamento viene regolato a seconda di fini determinati, come avviene il controllo dei mezzi in varie circostanze, derivanti da mutamenti dell'ambiente esterno o dalla necessità di risolvere conflitti tra principi strutturali. Se struttura significa ordine, organizzazione significa cercare di raggiungere l'ordine, non necessariamente lo stesso ordine. L'attività può venire regolata in base ai possibili spostamenti dei fattori in gioco. Un principio di organizzazione offre anche un riferimento
I Da: Raymond Drth, Some Principles of Social Organization. 1955. trad. it. Alcuni principi di organizzazione sociale. in Laura Bonin e Antonio Marazzì (a cura). Antropologia culturale. Hoepii. Milano. 1970. pp. 415-19.
di comportamento standard, ma di natura più flessibile, perché possa operare in concomitanza con gli altri principi. L'organizzazione deve essere considerata un aspetto primario della collaborazione, un coordinamento della condotta individuale a scopi economici e sociali. In qualsiasi gruppo sociale organizzare significa assegnare funzioni a persone diverse, fenomeno sconosciuto come distribuzione; e il rapporto di queste funzioni fra loro e con i fini del gruppo va sotto il nome di integrazione. Dalle varie angolazioni, quindi, l'organizzazione sociale deve essere considerata come: a) modificazione del comportamento individuale in seguito alla scelta, fra le varie alternative, dell'azione sociale da perseguire; b) selezione dei ruoli e conseguente adattamento in termini di responsabilità e coordinamento; c) ordinamento degli elementi dell'azione in un sistema, limitandone i rapporti sociali secondo gli scopi prestabiliti, così conte concepiti da chi agisce. Questi son tutti modi di rilevare fenomeni da esaminare analiticamente e di isolare problemi su cui lavorare. Sia la struttura sociale che l'organizzazione sociale sono due concetti euristici, entrambi necessari ad un antropologo che tratti il materiale sociale. Avvicinandosi astrattamente ai fenomeni della società, deve avvenire prima la concettualizzazione dell'intelaiatura (struttura) sociale. Ma per conoscere il sistema sociale, c'è ancora un'intera sfera di attività, i cui caratteri non possono essere colti unicamente da un'analisi strutturale.
Benjamin Lee Whorf Lingua e immagine dell'universo
empirica ricorrente, essa implica una visione preconcetta di quelli che sono i fattori significativi della genesi, della struttura e della funzione di tali gruppi. Cosa ancor più grave, lascia presumere che il mantenimento dei confini non sia problematico, e derivi dall'isolamento che le caratteristiche specificate come singoli elementi implicano: differenza razziale, differenza culturale, separazione sociale e barriere linguistiche, inimicizia spontanea e organizzata. Questo limita anche la gamma dei fattori che usiamo per spiegare la diversità culturale: siamo portati a immaginare che ciascun gruppo sviluppi la sua forma culturale e sociale in relativo isolamento, soprattutto in risposta a fattori ecologici, attraverso una storia di adattamento mediante invenzioni e prestiti selettivi. Questa storia ha prodotto un mondo di popoli separati, ciascuno con la sua cultura e ciascuno organizzato di una società che può essere legittimamente isolata per la sua descrizione come un'isola a sé stante. [...1 È importante riconoscere che, sebbene le categorie etnichd tengano conto delle differenze culturali, non possiamo presumere un semplice rapporto uno-a-uno tra unità etniche e somiglianze e differenze culturali. I tratti di cui si tiene conto non sono la somma delle differenze «obiettive», ma solamente quelli che i soggetti stessi considerano significativi. Non soltanto le variazioni ecologiche evidenziano ed esagerano le differenze; alcuni tratti culturali sono usati dai soggetti come segnali
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ed emblemi delle differenze, altri sono ignorati, e in alcuni rapporti differenze radicali sono minimizzate e negate. I contenuti culturali delle dicotomie etniche parrebbero a livello analitico essere di due ordini: a) segnali o segni manifesti: i caratteri diacritici che le persone cercano ed esibiscono per mostrare la loro identità, spesso caratteri come abbigliamento, linguaggio, forma delle abitazioni o stile generale di vita, e b) fondamentali orientamenti di valore: gli standard di moralità e merito con cui un atto è giudicato. Poiché l'appartenere a una categoria etnica implica l'essere un certo tipo di persona, avere quell'indentità di base, implica anche la richiesta di essere giudicati, e di giudicare se stessi, secondo quegli standard che sono rilevanti per quell'identità. Né l'uno né l'altro di questi tipi di «contenuti» culturali deriva da una lista descrittiva di tratti culturali o di differenze culturali; non si può predire dai principi generali quali tratti saranno sottolineati e resi organizzativamente rilevanti dai soggetti. In altre parole, le categorie etniche forniscono un contenitore organizzativo al quale possono essere date diverse quantità e forme di contenuto, nei diversi sistemi socioculturali. Esse possono essere di grande rilevanza per il comportamento o non esserlo; possono pervadere tutta la vita sociale o possono essere rilevanti soltanto per limitati settori di attività. In questo modo si delinea un chiaro campo d'azione per le descrizioni etnografiche e comparative delle diverse forme di organizzazione etnica.
Capitolo 20 Fredrick Barth Il gruppo etnico' Il termine gruppo etnico è generalmente inteso nella letteratura antropologica a designare una popolazione che a) si perpetua biologicamente con successo; b) condivide i valori culturali fondamentali, realizzati in aperta unità nelle forme culturali: c) produce un campo di comunicazione e di interazione; d) ha un insieme di membri che identifica se stesso ed è identificato dagli altri, in quanto costituisce una categoria distinguibile dalle altre categorie dello stesso ordine. Questa definizione di tipo ideale non si allontana per ora nel contenuto dall'asserzione tradizionale I Da: Fredrick Barth. Introduction ro Ethnic Groups and Bounn arics. 1969. trad. it. l gruppi emiri e i loro confini. in V. Maher (a cura). (Presami di troieirti. Rosenberg & Saltier, Forino. 1994. pp. 35-36: 39-40.
che una razza = una cultura = una lingua e che una società = una unità che rifiuta o descrimina nei confronti degli altri. Eppure, nella sua forma modificata questa definizione è abbastanza vicina a molte situazioni etnografiche empiriche, almeno per il modo in cui esse appaiono e sono state documentate, così che in questo senso continua a servire agli scopi della maggior parte degli antropologi. La mia polemica non è tanto sulla sostanza di queste caratteristiche, per quanto, come mostrerò, possiamo trarre vantaggio da un certo cambiamento di accento; la mia principale obiezione è che una tale formulazione ci impedisce di capire il fenomeno dei gruppi etnici e la loro collocazione nella società e nella cultura umane. Questo perché essa si sottrae a ogni questione critica: pretendendo di dare un modello di tipo ideale di una forma
Benjamin Lee Whorf Lingua e immagine
dell'universo' Si è trovato che il sistema linguistico di sfondo (in altre parole la grammatica) di ciascuna lingua non è soltanto uno strumento di riproduzione per esprimere idee, ma esso stesso dà forma alle idee, è il programma e la guida dell'attività mentale dell'individuo, dell'analisi delle sue impressioni, della sintesi degli oggetti mentali di cui si occupa. La formulazione delle idee non è un processo indipendente, strettamente razionale nel vecchio senso, ma fa parte di una grammatica particolare e differisce, in misura maggiore o minore, in differenti gramI Da: Benjamin Lee Wharf, Language. Thought. ritiri Rnrrhir. 1956, trad. it. Linguaggio. pensiero e renitrì, Boringhieri, Torino, 1970, pp. 169-71.
matiche. Analizziamo la natura secondo linee tracciate dalle nostre lingue. Le categorie e i tipi che isoliamo dal mondo dei fenomeni non vengono scoperti perché colpiscono ogni osservatore; ma. al contrario, il mondo si presenta conte un flusso caleidoscopico di impressioni che deve essere organizzato dalle nostre menti, il che vuol dire che deve essere organizzato in larga misura dal sistema ling uistico delle nostre menti. Sezioniamo la natura. la organizziamo in concetti e le diamo determinati significati, in larga misura perché siamo partecipi di un accordo per organizzarla in questo modo, un accordo che vige in tutta la nostra comunità linguistica ed è condificato nelle configurazioni della nostra lingua. L'accordo è naturalmente implicito e
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Franz Boas Linguaggio e pensiero
Indiano Hopi, Arizona
non formulato, ma i suoi termini sono assolutamente tassativi; non possiamo parlare affatto se non accettiamo l'organizzazione e la classificazione dei dati che questo accordo stipula. Questo fatto è molto importante per la scienza moderna, perché significa che nessun individuo è libero di descrivere la natura con assoluta imparzialità, ma è costretto a certi modi di interpretazione, anche quando si ritiene completamente libero. La persona più libera da questo punto di vista sarebbe un linguista che avesse familiarità con moltissimi sistemi linguistici assai differenti. Ma ancora nessun linguista è in questa posizione. Siamo così indotti a un nuovo principio di relatività, secondo cui differenti osservatori non sono condotti dagli stessi fatti fisici alla stessa immagine dell'universo, a meno che i loro retroterra linguistici non siano simili, o non possano essere in qualche modo tarati. Questa conclusione piuttosto sbalorditiva non è così evidente se confrontiamo tra loro soltanto le lingue europee moderne, con forse il latino e il
Franz Boas Linguaggio e pensiero
greco aggiunti per buona misura. Tra queste lingue c'è un'unanimità nelle configurazioni principali, che a prima vista sembra produrre la logica naturale. Ma questa unanimità esiste soltanto perché queste lingue sono tutte dialetti indoeuropei, costruiti sullo stesso piano fondamentale, trasmessi storicamente da quella che era un tempo una sola comunità linguistica; perché i moderni dialetti hanno tutti cooperato alla costruzione di una cultura comune; e perché la maggior parte di questa cultura e i suoi aspetti più intellettuali sono derivati dal retroterra linguistico del latino e del greco. [...J Che gli scienziati moderni cinesi o turchi descrivano il mondo negli stessi termini degli scienziati occidentali significa naturalmente soltanto che essi hanno adottato in blocco l'intero sistema occidentale di razionalizzazione, e non che essi hanno confermato quel sistema dal loro punto di osservazione originario. Quando le lingue semitiche, cinesi, tibetane o africane differiscono dalle nostre, la divergenza nell'analisi del inondo diventa più evidente; e, quando si aggiungono le lingue indigene delle Americhe, dove per millenni le comunità linguistiche sono andate per la loro strada indipendentemente l'una dall'altra e dal Vecchio Mondo. il fatto che le lingue analizzano la natura in molti modi diversi diventa lampante. Vengono alla luce la relatività di tutti i sistemi concettuali, incluso il nosto, e la loro dipendenza dalla lingua. Il fatto che gli Indiani d'America non vengano mai chiamati a fungere da osservatori scientifici, non nega l'asserto. Escludere gli elementi di conoscenza che le loro lingue offrono riguardo a quello che la mente umana può fare è come aspettarsi che i botanici non studino nient'altro che le piante alimentari e le rose di serra e poi vengano a dirci com'è il mondo delle piante!
Franz Boas Linguaggio e pensiero' Sarà opportuno innanzitutto analizzare la relazione tra linguaggio e pensiero. È stato sostenuto che la concisione e la chiarezza di pensiero di un popolo dipendono in gran parte dalla sua lingua, e che la disinvoltura con cui nelle nostre lingue europee moderne esprimiamo idee molto astratte t Da: Franz Boas, Introduction to Handbook of American india<^ Languages, 191 I, trad. it. Introduzione alle lingue indiane
con un solo termine e la facilità con cui vaste generalizzazioni trovano posto nella struttura di una semplice frase sono una delle condizioni fondamentali della chiarezza dei nostri concetti, della forza logica del nostro pensiero, e della precisione con cui eliminiamo dai nostri pensieri i dettagli irrilevanti. Questa opinione ha. a quanto sembra, molti punti a suo favore. Se paragoniamo l'inglese moderno ad alcune delle lingue indiane più concrete nella loro espressione formativa il contrasto
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è sorprendente. Mentre noi diciamo the eye is the organ of sigla 'l'occhio è l'organo della vista', l'Indiano potrebbe non essere capace di formare l'espressione *l'occhio' e dover invece definire se l'occhio è di persona o di animale; potrebbe anche non essere in grado di generalizzare immediatamente l'idea astratta di un occhio come rappresentante dell'intera classe di oggetti e dover invece specificare con un'espressione come 'quest'occhio qui'; potrebbe infine non essere in grado di esprimere con un solo termine l'idea di organo e doverla specificare con un'espressione come 'strumento del vedere' così che l'intera frase potrebbe assumere questa forma: `l'occhio di una persona non definita è il suo mezzo per vedere'. Eppure si dovrà riconoscere che anche in questa forma più
specifica può pur sempre essere bene espressa l'i-_ dea generale. Fino a che punto le restrizioni nell'uso di certe forme grammaticali possano veramente essere concepite come un ostacolo alla formulazione di idee generalizzate è da discutere: sembra molto più verosimile invece che la mancanza di queste forme sia dovuta alla mancanza di un loro effettivo bisogno. [...] Risulta che elementi di specificazione, così caratteristici di molte lingue indiane, possono essere tralasciati quando per una ragione o per l'altra sia desiderabile generalizzare un termine. Per portare' l'esempio del kwakiutl, l'idea dello stare seduto è quasi sempre espressa con un suffisso inseparabile che indica dove sia seduta la persona: seduto sul pavimento di una casa, a terra, sulla spiaggia, sopra una pila di cose, o su una cosa circolare ecc. Quando invece, per una qualche ragione, si deve sottolineare l'idea dell'esser seduti, si può usare una forma che esprime semplicemente l'essere in posizione seduta. Anche in questo caso quindi esiste il mezzo per esprimere generalizzazioni, anche se l'opportunità di applicarlo si presenta raramente o mai. Quel che è vero in questi casi vale, credo, anche per la struttura di ogni singola lingua. Il fatto che non siano usate forme generalizzate di espressione non prova l'incapacità di formarle, ma soltanto che il modo di vita di quel popolo è tale da non richiederle e che comunque esse potrebbero svilupparsi non appena ce ne fosse bisogno. [...] Se vogliamo arrivare a giudicare concretamente l'influenza che il linguaggio esercita sul pensiero, dobbiamo ricordare che le nostre lingue europee, nella loro forma attuale, sono state modellate in gran parte dal pensiero astratto dei filosofi.Termini come essenza ed esistenza, molli dei quali entrati ormai nell'uso comune, sono in origine mezzi
Boas (a destra) con la famiglia del suo «traduttore informatore» George Hunt (1895 ca.)
artificiali per esprimere i risultati del pensiero astratto. Da questo punto di vista essi possono essere paragonati ai termini astratti artificiali e non dell'uso corrente che si possono formare nelle lingue primitive. Sembrerebbe così che gli ostacoli posti dalla forma di una lingua al pensiero generalizzato siano soltanto di importanza secondaria e che, presumibilmente, la lingua da sola non possa impedire a un popolo di progredire fino a forme più generalizzate di pensiero, sempre che le condizioni generali della sua cultura richiedano l'espressione di un tale pensiero; in questa situazione sarebbe piuttosto la lingua a essere modellata dalle condizioni culturali. Non sembra verosimile perciò l'esistenza di una qualsiasi relazione diretta tra la cultura di una tribù e la lingua che essa parla, se non in quanto la forma della lingua può essere modellata dalle condizioni culturali, ma non perché determinate condizioni culturali vengano condizionate dai tratti morfologici della lingua.
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Georges Balandier La prospettiva dinamista
Ward Goodenough Analisi componenziale
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Brent Berlin e Paul Kay La linea evolutiva
Ward Goodenough Analisi componenziale'
nella percezione del colore' Si può dire che una espressione linguistica designa una classe di concetti o di immagini. Si può dire che essa denota una specifica immagine o sottoclasse di immagini all'interno della classe tutte le volte che viene usata. E si può dire che essa significa i criteri attraverso i quali specifici immagini o concetti sono inclusi o esclusi dalla classe di immagini o concetti che quell'espressione designa. Ciò che viene significato consiste negli attributi che definiscono la classe, le componenti ideazionali dalle quali la classe è concettualmente formata. L'analisi componenziale è un metodo per formulare e verificare ipotesi attorno a ciò che le parole significano. Seguendo tale metodo, registriamo le immagini specifiche o i concetti che gli informatori indicano come denotati da una certa espressione. Il passo successivo è quello di trovare un gruppo di attributi definitivi che renderanno conto di ciò che gli informatori hanno detto essere denotabile o non denotabile da un'espressione e che, in base allo stesso criterio, predicono ciò che gli informatori diranno che può essere denotato in futuro dalla stessa espressione. Possiamo fare ciò grazie alla combinazione di due operazioni. Una consiste nell'ispezionare ciò che è denotato, così come lo abbiamo registrato, sulla base di attributi comuni. L'altra, e più decisiva operazione, consiste nel contrapporre l'insieme dei denotati dell'espressione agli insiemi di denotati di altre espressioni. Il termine di parentela inglese aunt (zia) costituisce un esempio adeguato. Impiegando questo termine, dovrei elencare in relazione ad esso denotati come sorella della madre, sorella del padre, sorellastra della madre o del padre, moglie del fratello (o del fratellastro) della madre, moglie del fratello (o del fratellastro) del padre. Compiendo le suddette operazioni. potremmo giungere alla seguente definizione componenziale di che cosa significhi aunt (zia): tutti i parenti consanguinei e quelli acquisiti che sono simultaneamente A: femmina, B: distanti di due gradi dal Ego' sul piano genealogico, C: non lineari, D: nella generazione più anziana, E: non connessi per via matrimoniale che non sia quella nella generazione più anziana. In questo modo i diversi denotati concettualmente discreti, o disgiuntivi, sono stati collegati tra loro in un insieme concettualmente unificato o congiuntivo. Essi formano una classe o categoria che può essere descritta come il prodotto della combiI Da: Ward FI. Goodenough. Description and Comparison in Cultu ral Anthropolog y , 1969'. Cambridge University Press. Cambridge. 1980 (ed. or. 1969), pp. 72-74.Tnid. U. Fahicui. 2 Ricordiamo che Ego ì: l'individuo (maschile o femminile) in riferimento al quale si parla. to questo caso aunt c la ',zia» di lieu. 3 V. Cap. 4.
nazione di diversi attributi che definiscono la classe stessa. Che essi funzionino in questo caso come attributi che definiscono la classe è reso evidente dal fatto che possiamo osservare come variando uno qualunque di essi si constata che aunt non costituisce più un termine adeguato di riferimento. Cambiate l'attributo A sopraindicato (il sesso del parente) e il termine appropriato diverrà uncle (zio). Great aunt (prozia) sarà invece il termine esatto se variamo B. e grandmother (nonna) se noi variamo C, niece (nipote femmina di zio) se variamo D, e zia della moglie o zia del marito se variamo E. In tal modo possiamo verificare l'adeguatezza di una definizione componenziale. In questo esempio gli attributi che entrano nella definizione e che formano il significato di aunt sono valori di variabili concettuali i cui altri valori formano i significati degli altri termini della terminologia di parentela inglese. Dover usare cinque diverse variabili in una definizione componenziale di aunt può sembrare ridondante rispetto alla corta lista dei denotati. Ma se le stesse variabili rendono conto di altri termini inglesi, si ottiene un vantaggio considerevole se si usano le definizioni componenziali. Essi non solo descrivono i significati delle singole parole, ma mostrano anche come i significati di parole diverse possono essere messi in relazione gli uni con gli altri. Nel caso di aunt (zia), uncle (zio), nephew (nipote maschio di zio), niece (nipote femmina di zio) e così via, i significati rispettivi differiscono in quanto funzioni dell'insieme comune delle variabili definitorie. 1 designati rispettivi, inoltre, sono mutualmente esclusivi e complementari. Sembra che abbiamo a che fare con una sorta di spazio concettuale o ideale - chiamiamolo pure genealogico che è stato suddiviso in celle da un insieme di variabili definitorie, dove ciascuna cella è rappresentata da un'etichetta di tipo linguistico. Tutte le etichette che designano le celle complementari di uno spazio concettuale (o dominio) formano un gruppo ordinato, o sistema terminologico, nel quale il significato di ciascuna etichetta indica per quali aspetti il suo rispettivo designato differisce dai designati delle altre etichette. Conie l'esempio del termine inglese aunt rivela, i criteri che, messi insieme, definiscono il significato dei termini di parentela inglesi, non differiscono dalla vecchia lista di Kroeber relativa agli otto criteri della parentela'. Tuttavia l'analisi delle terminologie di parentela che ho condotto negli ultimi dodici anni mostra che i criteri di Kroeber non sono di per sé adeguati al fine di rendere conto di ciò che significano i termini di parentela, sebbene essi costituiscano un importante contributo in tal senso.
La nostra ricerca attuale giunge a tre conclusioni principali. In primo luogo esistono, per tutti gli esseri umani, undici categorie percettive basilari del colore, che servono come referenti psicofisici degli undici, o meno, termini dei colori di base in tutte le lingue. In secondo luogo, nella storia di una qualsiasi lingua, la traduzione di ognuna delle undici categorie percettive basilari del colore nei termini dei colori di base segue un ordine fisso e parziale. I due possibili ordini temporali sono:
-
bianco -
porpora rosa
--rosso->verde->giallo -->blu-->marrone-> arancione - grigio
nero
e - porpora rosa
bianco->rosso-->giallo->verde ->blu-->marrone-->
arancione _ grigio
nero -
In terzo luogo, l'ordine temporale complessivo è propriamente considerato come evolutivo; i lessici 1 Da: Brent Berlin e Paul Ka y- Basic Color Terms. Their Universality and Evolution, University of California Press, Berkeley. 1968, pp. 104; I09.Trad. U. Fabietti.
dei colori con pochi termini tendono a ricorrere in associazione con culture relativamente semplici e con semplici tecnologie, mentre i lessici dei colori con molti termini tendono a presentarsi in concomitanza cori culture complesse e complesse tecnologie (nella misura in cui la complessità culturale e quella tecnologica possono essere obiettivamente definite). [...] Un problema fondamentale che rimane irrisolto è la spiegazione di un ordine particolare. Dato che fattori culturali di tipo evolutivo possono spiegare la crescita numerica delle dimensioni del vocabolario di base dei colori, per quale ragione i termini vengono aggiunti in un ordine parzialmente fisso e perché proprio in quell'ordine particolare? Le nostre ricerche, di natura essenzialmente linguistica, ci hanno condotto, in maniera pressoché incontrovertibile, alla conclusione che le undici categorie base del colore sono degli universali percettivi caratteristici dell'intero genere umano. Tuttavia non possiamo offrire nessuna spiegazione fisica o fisiologica di una apparentemente maggiore salienza percettiva di questi particolari undici stimoli cromatici, né possiamo spiegare in maniera soddisfacente la loro disposizione relativa. Le teorie correnti della percezione del colore, tanto quelle classiche quanto quelle recenti, offrono diversi plausibili suggerimenti per alcune parti dei modelli osservati, ma nessuna di esse può servire di base per una spiegazione adeguata.
Capitolo 21 Georges Balandier La prospettiva dinamista' A una concezione dinamica della realtà sociale tendono le ricerche innovatrici più recenti, anche se, per la maggior parte, si limitano all'analisi dei fattori e dei processi di mutamento, contestando così le teorie che confinano le formazioni sociali nella mera continuità, senza tuttavia arrivare fino alle estreme conseguenze di tale contestazione, quelle che impongono di considerare la società stessa come sistema dinamico: i dinamismi sono nella società, sono inerenti ai rapporti su cui si fonI Da: Georges Balandier. Sans et puissano . . 1971, trad. it. Le srr riera
crrnr a nicanri. to t erv.n. Bari, 1973. pp. 39-40; 42-43.
da, alle pratiche che ne assicurano il funzionamento, alle relazioni che intrattiene con l'ambiente che la circonda. L'ambiente la fa e la disfa continuamente, creando le condizioni della sua trasformazione a più o meno lunga scadenza. [...] E necessario perciò costruire dei quadri teorici che rendano comprensibili le dinamiche sociali sia nelle loro differenze che nei loro rapporti reciproci. Le società «tradizionali ” , generalmente considerate ripetitive. si concepiscono invece come problematiche; lo dimostrano chiaramente certi recenti studi antropologici. che demoliscono così le armoniose architetture che da gran tempo le definiva-
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Georges Balandier La prospettiva dinamista
no. Tutte le società, anche quelle apparentemente più cristallizzate e più conformi ai propri codici istituzionali, sono ossesionate dal senso della propria fragilità. L'opera che G. Calame-Griaule ha consacrato ai Dogon del Mali, partendo da un'analisi della «teoria della parola» e del sistema dei simboli, mostra come essi si difendano dalla degradazione e provochino una continua trasformazione dello squilibrio in un equilibrio apparentemente conforme al modello primordiale. Secondo il pensiero sociale dogon, la società e il cosmo sono il luogo in cui si scontrano forze opposte e contrastanti – e gli uomini, in loro vece e senza tregua, devono contribuire al «necessario trionfo del partito dell'ordine su quello del disordine» 2 . Questa 2 G. Calame-Griaule. Ethno/ogie et Iangage. La parole che: les Dolton, Paris, 1965, in particolare p. 560.
concezione essenzialmente dinamica, che giustifica le pratiche che garantiscono la conservazione della società e la «marcia in avanti del mondo», promana da una società considerata arcaica e relativamente intatta, ed è pertanto estremamente rivelatrice. Tutte le società «tradizionali», infatti, sono chiaramente consapevoli degli ostacoli che minacciano la loro continuità e limitano la loro capacità di riprodursi, ossia dell'usura dei meccanismi di conservazione – l'azione dell'entropia, da una parte. e dall'altra l'azione delle forze di trasformazione che agiscono in esse e nel campo delle loro relazioni esterne –; e hanno pertanto ideato dei sistemi di disinnesco delle tensioni, di periodica rimessa a nuovo, di rinnovamento dell'ordine costituito. Gli antropologi moderni cominciano ad occuparsi solo adesso di questi procedimenti, che tendono a «purificare» il sistema sociale, padroneggiandone le forze distruttrici, e a rafforzare periodicamente il potere; e ci mostrano fino a che punto le cosiddette società della tradizione e della continuità si rivelino in realtà come società che si rinnovano continuamente. [...] Possiamo tener conto, in prima analisi, di tre ordini di dati dinamici: quello dei dinamismi inerenti al sistema sociale, alle sue condizioni di composizione, di funzionamento e di riproduzione; quello dei dinamismi mediante i quali il sistema tende alla propria totale realizzazione, e quello dei dinamismi che ne provocano la trasformazione, implicando un mutamento di regime strutturale. Fra questi ordini non esiste una vera e propria frattura, ma le necessità logiche esigono che siano separati. Questa schematica tipologia è ovviamente manchevole. I dinamismi rimandano agli agenti sociali attraverso cui si manifestano – e pertanto alle pratiche e alle istanze (o livelli della realtà sociale) che ne costituiscono il luogo d'emergenza; e, soprattutto, esprimono l'azione del tempo sui sistemi sociali, pur risultando in parte da quest'azione creatrice di eterogeneità e discordanze in tutte le società. Questa prima individuazione considera soltanto caratteristiche e proprietà interne, determina cioè le condizioni della dinamica «dell'interno»; e ciò non basta, perché ogni sistema sociale ha delle relazioni d'esterioritd, e la dinamica «dell'esterno» esercita su quella «dell'interno» degli effetti che in certe situazioni possono diventare effetti di dominanza.
Roger Bastide Sincretismo magico e sincretismo religioso
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Roger Bastide Sincretismo magico e sincretismo religioso' Il termine sincretismo ha forse il torto di nascondere, dissimulandola sotto la identità di un medesimo termine, tutta una serie di fenomeni e di processi estremamente differenti. [...] Ma il sicretismo magico obbedisce a leggi diverse da quelle cui obbedisce il sincretismo religioso. Esso è essenzialmente accumulazione di formule e di gesti, addizione pura e semplice di magie medioevali a magie indigene così da aumentarne la forza efficace; il sicretismo religioso è invece selettivo. Il sincretismo nel settore dei gesti e delle cerimonie non è lo stesso sincretismo che si può avere nel settore delle credenze e delle rappresentazioni collettive. Nel primo caso c'è piuttosto giustapposizione (ad esempio, si «aggiunge» ai rituali della iniziazione una messa di ringraziamento a Dio, nei candomblés del Brasile; nel Guatemala, alle preghiere recitate ai santi in Chiesa, si aggiunge la lunga marcia in montagna per offrire un sacrificio agli Spiriti natura). Nel secondo caso c'è ricerca di identificazioni, o per lo meno di corrispondenze mistiche (i Vodouns sono identificati con i santi; le parole di Dio sono «reinterpretate» attraverso le credenze animiste). Ciò dipende senza dubbio dal fatto che occorre distinguere tra le strutture lineari e le strutture ramificate. Le strutture lineari formano delle sequenze di parole e di gesti che vengono gli uni dopo gli altri in ordine fisso, seguendo ben inteso un certo numero di regole date dalla grammatica o dalla sintassi proprie della categoria presa in esame, orale o motrice. Ma, all'interno di una di queste sequenze. un «pacchetto di relazioni» (per usare l'espressione di Lévi-Strauss) può finire con l'essere dimenticato e lo si sostituisce allora con un altro pacchetto di relazioni, mutuate dalla nuova cultura, trionfante. così che non ci siano «vuoti» nella sequenza. È così che certe cerimonie afro-americane colmano con imitazioni dalle cerimonie fuso o ispano-americane le perdite che il tempo ha provocato nella trama dei gesti. È una specie di rattoppo di un tessuto usato con lembi di stoffa di altri tessuti. Oppure. ancora, si prolunga una sequenza di per sé completa appiccicandovi altri rituali così da formare un insieme del tutto nuovo. Si comprende che pur potendosi, in ordine lineare, sostituire o aggiungere dei pacchetti di relazioni, ogni pacchetto in se stesso forma una «unità» indecomponibile. C'è dunque allora sempre addizione e non identificazione. Le strutture ramificate sono quelle che partendo 1 Da. Roger Bastide. Le svn,hreti.nne utrsanne en Amrrique lati•. 1965, trad. it. /l smcretisnu, mistici, in A /neri.« latina_ in R. I3a.tide. Noi e gli altri. tara Book. Milano. 1995) (ed. or. I9711). pp. '95-97.
da un centro, provocano nel conscio o nell'inconscio degli spiriti tutto un complesso insieme di sentimenti, di tendenze, di attitudini mentali che va a formare come un alone attorno al nucleo centrale. La legge del sicretismo sarà allora quella della identificazione. Quando gli schiavi africani hanno voluto, ad esempio, nascondere le loro divinità nere mettendo loro addosso una maschera bianca così da ingannare i padroni, hanno scelto dei santi la cui vita o il cui simbolismo richiamasse i miti o i simboli dei loro Orisha; così Shangó, il dio del tuono è stato identificato con Santa Barbara che protegge dalla folgore; ma la rappresentazione di Santa Barbara farà sorgere nell'animo dei credenti di colore, i compessi affettivi e mentali che erano legati al culti di Shangò. Analogamente, a mano a mano che sotto l'influsso subito dall'ambiente, o sotto la pressione di chi li circonda, i Neri si cristianizzeranno più o meno profondamente, si vedrà la figura di Shangó trasformarsi perché oramai essa evocherà nuovi complessi affettivi e mentali: desiderio di giustizia, volontà di vedere il bene trionfare sul male. Il sincretismo. nell'ambito delle credenze, è dunque il riflesso delle strutture di uomini «emarginati», in via di assimilazione, ed esprime l'alchimia misteriosa delle trasformazioni psichiche. la reinterpretazione dei valori cattolici in valori pagani o dei valori pagani in valori cristiani.
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Roger Bastide Il compito dell'antropologia applicata
Roger Bastide Il compito dell'antropologia
applicata' Richard N. Adams distingue due tipi di antropologia applicata, corrispondenti, grosso modo, alla medicina'? preventiva e alla medicina curativa. La prima si situa alI'inizio dell'azione, cioè prima che vengano introdotte delle innovazioni in una comunità locale, regionale o nazionale; comprende l'analisi etnografica della comunità nel tentativo di prevedere le conseguenze dell'introduzione di tali innovazioni e contemporaneamente di elaborare la migliore strategia dell'intervento, riformatore o rivoluzionario. La seconda viene dopo l'azione, poiché i fini raggiunti determinano spesso effetti inattesi e conseguenze negative, quali la distruzione dei legami familiari, lo sviluppo delle malattie mentali e della delinquenza, le ineguaglianze tra gli uomini, maggiori dopo l'intervento rispetto a prima; occorre quindi esaminare la nuova situazione che si è creata per tentare di ristrutturarla, proponendo misure concrete destinate a porre rimedio ai fenomeni patologici che sono stati involontariamente suscitati. Dal diciannovesimo al ventesimo secolo, pertanto, le tappe dello schema d'intervento dell'antropologia applicata si sono rovesciate. Finché il ritmo del cambiamento era lento, il correttivo precedeva il preventivo; a mano a mano che si manifestavano ostacoli (ostacoli che erano in genere localizzati a certi settori della popolazione o a certi settori della cultura globale) l'antropologia applicata inter1 Da: Roger Bastide, Anthropologic appliqués, 1971, trad. it. Antropologia applicata,
Boringhieri,Torino, 1975, pp. 177-78.
veniva esclusivamente per trovare dei rimedi adeguati. Ma oggigiorno, con l'accelerazione dei ritmi di cambiamento sociale e culturale, non si può aspettare per intervenire che gli avvenimenti si siano prodotti: occorre agire prima degli avvenimenti. Il ruolo di prevenzione diventa più importante di quello terapeutico. E se la terapia è necessaria, essa viene solo dopo. Questo mutamento di prospettive, dall'azione sul presente all'azione progettata in vista dell'avvenire, ha naturalmente costretto gli antropologi a elaborare modelli d'intervento che obbediscano alle regole metodologiche della scienza, i modelli cioè di cui abbiamo precedentemente parlato sotto il nome di ricerca operativa e di ricerca orientata. L'antropologia applicata (secondo la nostra opinione) non dà giudizi di valore su tali modelli, ma li considera come istituzioni sociali allo stesso titolo della famiglia, del fatto economico o del fatto politico. Sono istituzioni di azione innovatrice, senza dubbio, ma pur sempre istituzioni della stessa natura delle altre (che sono istituzioni d'azione cristalizzata). Esse possono pertanto essere l'oggetto di analisi similari. In definitiva, noi proponiamo di considerare i "progetti d'azione" come "opere culturali" della stessa natura di tutte le altre opere dell'uomo, ad esempio del suo sistema di parentela, della sua organizzazione in caste o in classi. Come nel caso delle altre opere culturali, possiamo metterne in rilievo i fini, i valori (nascosti o manifesti), le leggi di funzionamento, i legami fra le parti...
Claude Meillassoux L'autorità nelle società
di autosussistenza I Prenderemo come punto di partenza la cellula sociale tradizionale, che può essere descritta come un insieme di individui dei due sessi che vivono raggruppati su uno spazio comune o che si spostano assieme, sotto l'autorità di un uomo vivente, ritenuto importante, e che hanno tra loto rapporti di
1 Da: Claude Meillassoux, Essai d'interprétation da Muntomene économigne darts les Sociétés traditionnelles d'maosuhsìstrnce, 1960, I tad. ìt. Saggio d'interpretazione del fenomeno economico nelle soci etti tradizionali d'aurostnsistenza, in C. Meillassoux. L'economia della.ran o ra. Fel t rinelli. Milano, 1975, pp. 36-41.
parentela. Questa cellula che chiameremo contonità [...] può esistere isolatamente o può essere integrata, sia in un insieme più vasto di comunità omologhe ugualmente autosussistenti, sia eventualmente in seno ad una società politica più complessa e gerarchizzata. Le altre caratteristiche economiche della comunità, nel senso in cui vogliamo definirla, sono le seguenti: - accessibilità per tutti i membri della comunità alle materie prime e alla terra;
Claude Meillassoux L'autorità nelle società di autosussistenza
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- semplicità dei mezzi di produzione (cioè dei mezzi naturali o artificiali messi in opera per produrre beni di consumo); - relativa complessità delle tecniche di produzione; - divisione del lavoro in funzione del sesso e dell'età; - circolazione dei beni alimentari in funzione di una gerarchia sociale imperniata sulla nozione di anzianità. Già ora si può schematizzare questo fenomeno di circolazione dei beni nel modo seguente:
La cellula sociale è rappresentata da una piramide alla cui sommità si situa l'anziano (A), cioè colui che esercita una autorità sul gruppo, concretizzato dal suo ruolo nella ridistribuzione dei prodotti. In basso si pongono i giovani (G), cioè tutti quelli che lavorano per l'anziano e gli consegnano il prodotto della loro attività. Le donne (D) occupano una posizione mediata, non simmetrica a quella degli uomini, come spiegheremo più avanti. In un tale sistema le donne lavorano per il loro sposo che dà il prodotto agli anziani, i quali lo distribuiscono alla comunità, direttamente, o con la mediazione degli uomini sposati. A questo punto se consideriamo solo i rapporti anziani-giovani, possiamo definire due modi di circolazione dei beni: - una prestazione dai giovani agli anziani; - una ridistribuzione dagli anziani ai giovani. Questo schema, che non è immaginario, rivela dunque una relazione di dipendenza tra due categorie di individui che si caratterizzano economicamente per il fatto che l'una riceve le prestazioni dall'altra e controlla dunque la totalità della produzione del gruppo. Il problema che si pone a questo punto è di sapere: 1. Su cosa si basa questa dipendenza? 2. Che parte g ioca il fatto economico nell'istituzione e nel mantenimento di questa dipendenza? Su cosa si basa l'autorità degli anziani nei confronti dei giovani? I. E chiaro che non è fondata sulla costrizione fisi-
ca: gli anziani rappresentanto non solo la categoria più debole numericamente ma anche la più debole fisicamente. Si osserva inoltre che in tale sistema sociale gli "anziani" non dispongono di alcuna forza di polizia capace di far rispettare le loro decisioni se queste non riflettono un certo consenso sociale. Cosa che non implica l'assenza di antagonismo tra i due gruppi anziani e giovani. 2. Si ammette spesso e implicitamente che l'autorità degli anziani sui giovani si basa sui rapporti parentela. Peraltro la parentela, se la si intende in senso strettamente genetico. non possiede di per se stessa quella virtù capace di assicurare la coesione sociale. [...] 3. La semplicità e l'accessibilità dei mezzi di produzione osservate in queste società non permettono l'esercizio di un controllo efficace sul produttore da parte dell'intermediario. In questo fatto risiede una - differenza fondamentale rispetto alle società tecnologicamente più complesse, dove l'importanza materiale dei mezzi di produzione rappresenta, per coloro che li detengono, il mezzo più efficace di controllo sociale su coloro che li utilizzano. I mezzi di produzione nelle economie tradizionali sono essenzialmente di due ordini: gli utensili e la terra. Gli utensili sono fatti di materie prime direttamente accessibili a tutti i membri del gruppo.[...] Per quanto riguarda la terra, dobbiamo subito distinguere il controllo che si esercita su di essa nei confronti dei membri della comunità, e quello che si esercita nei confronti degli individui che le sono
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Claude Meillassoux La circolazione dei «produttori dei produttori»
estranei. Verso questi ultimi è l'insieme del gruppo che esercita e sanziona questo controllo: gli anziani decidono l'accettazione o meno dello straniero sulle terre della comunità, ma questa decisione non è esecutiva se non per la forza rappresentata dai giovani del gruppo, che sono anche i guerrieri. Riguardo ai membri del proprio lignaggio, gli anziani non dispongono di alcuna forza coercitiva che permetta loro di esercitare il controllo fisico sulle terre, poiché non possono rendere esecutivo questo controllo neppure su coloro che ne sono collettivamente i garanti. Il controllo della terra da parte degli anziani non è né diretto né immediato e non si può porre all'origine della autorità degli anziani sui giovani; è attraverso altri mezzi di controllo sociale che si eser-
Claude Meillassoux La circolazione dei «produttori dei produttori»
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cita eventualmente il controllo sulla terra da parte degli anziani del gruppo. [...] Tutti gli osservatori hanno potuto rendersi conto dell'importanza sociale riconosciuta in queste società a "colui che sa". [...] Per perpetuare la loro autorità, gli anziani sfrutteranno l'estensione del sapere al di là delle conoscenze vitali in nuovi campi (sapere sociale, conoscenze di usanze, di genealogie, della storia, delle regole matrimoniali) e lo prolungheranno in ambiti artificiali (magia, divinazione, riti del culto, ecc.) Essi tenteranno di fare di queste conoscenze la loro esclusività, ponendo sulla via d'accesso alla istruzione barriere che ne regoleranno la trasmissione: barriere istituzionali, come l'iniziazione.
Claude Meillassoux La circolazione
dei «produttori dei produttori»t A questo punto della nostra dimostrazione, l'autorità degli anziani si basa sulla detenzione delle conoscenze, ed è questa che permette e giustifica il controllo sul prodotto del lavoro dei giovani, secondo lo schema riportato in T21.4. Assumendo il compito della ridistribuzione dei beni, gli anziani adempiono inoltre a una funzione utile legittimata socialmente. II controllo sui prodotti alimentari, che si concretizza nelle società agricole con il controllo sul granaio, diviene a sua volta un attributo della condizione di anziano. Tuttavia il sapere e i prodotti alimentari sono deperibili ed effimeri e non permettono ancora di consolidare definitivamente l'autorità degli anziani: le conoscenze sono lentamente acquisite dai giovani mentre i più anziani le perdono; i prodotti alimentari si conservano solo per un periodo limitato, il loro stock deve essere rinnovato continuamente e le prestazioni si ripetono nella misura in cui le condizioni del controllo sociale si perpetuano. Ora, se consideriamo la situazione del giovane a questo stesso stadio si può ammettere che gli è relativamente agevole (malgrado gli ostacoli di cui abbiamo parlato e che si concretizzano solo poco a poco): I Da: Claude Meillassoux. Errai d'interprétation du p/drronrìene économique clans lift sociétrs tradìtiornrelles dutosubsistence, 1960, trad. it. Saggio d'interpretazione del .fenomeno economico nelle snrieta tradizionali d'autasusristenza. in C. Meillassoux, L'e•coaoatia della sartina, Fellrinelli, Milano, 1975, pp. 42-44.
- acquisire le conoscenze vitali necessarie alla soddisfazione dei bisogni elementari; - costruirsi gli utensili necessari al suo lavoro; - occupare un terreno libero. Queste condizioni gli assicureranno tuttavia solo una indipendenza isolata; non gli permetteranno di accedere a una posizione di autorità in seno al suo gruppo. Una tale autorità e nello stesso tempo una relativa indipendenza si possono acquisire solo se l'uomo giovane si costituisce egli stesso una dipendenza, cioè se ricrea a suo vantaggio lo schema sociale da cui deriva e dove occupa ancora una posizione subordinata. In altri termini e più concretamente, egli deve prendere moglie e stabilire rapporti di paternità con i suoi figli. L'affermazione dell'autorità degli anziani sui giovani passa dunque attraverso il controlo dei mezzi d'accesso alle donne puberi. [...] Soprattutto in un'economia dove non si può controllare il prodotto del lavoro se non controllando direttamente il produttore, è logico controllare ugualmente, e forse con maggior vantaggio, il produttore del produttore, cioè la donna procreatrice. Questa funzione di "produttore del produttore" si traduce con la posizione mediana della donna nelle società tradizionali dove essa non occupa una posizione simmetrica a quella dell'uomo e dove essa non forma, propriamente parlando, uno strato sociale inferiore. In effetti non è tanto la sua funzione eli lavoratrice, di prestatore di manodo-
pera, che viene presa in considerazione quanto la sua funzione di procreatrice. È questo potere di procreazione che diventa l'oggetto delle proibizioni, delle restrizioni, dei controlli che circondano la donna. I rapporti sessuali delle ragazze sono generalmente molto liberi in un gran numero di società perché ci si interessa alla donna solo quando è in grado di procreare cioè solo quando si deve decidere il destino della sua prole. Le inchieste sui possibili adulteri, persino le guerre, possono avvenire in occasione delle nascite. L'accesso alle donne sarà dunque regolato da un certo numero di istituzioni di cui cercheremo di descrivere il meccanismo per apprezzare meglio i fenomeni economici che le accompagnano. Il controllo dei matrimoni tra individui appartenenti a uno stesso gruppo consanguineo supporrebbe il regolamento di ogni caso particolare da parte dell'anziano del gruppo e non permettereb-
be lo stabilirsi di una regola rigorosa di applicazione generale. [...] Lo stabilirsi di rapporti matrimoniali tra gruppi omologhi permette invece la fondazione di istituzioni più efficaci. Il problema è di mettere a punto un sistema che permetterà il matrimonio a livello dei giovani, solo attraverso un accordo a livello degli anziani delle comunità in esame. Se si tratta di pochi gruppi, sarà sufficiente il semplice accordo degli anziani di ogni gruppo, a condizione tuttavia che il matrimonio tra individui di una stessa comunità sia proibito al fine di obbligare il giovane a sposarsi con una donna di un gruppo alleato, utilizzando conic mediatore l'anziano della sua comunità. Le regole di esogamia appaiono dunque come il corollario delle regole di alleanza matrimoniale.
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Maurice Godelier Religione e rapporti di produzione
Claude Meillassoux Comunità domestica e modo capitalistico di produzione
Claude Meillassoux Comunità domestica
e modo capitalistico di produzione' È risaputo che, nei paesi sottosviluppati, l'agricoltura orientata verso la produzione di beni di sussistenza resta quasi del tutto estranea alla sfera di produzione del capitalismo, pur essendo direttamente o indirettamente in rapporto con l'economia di mercato attraverso il rifornimento di manodopera mantenuta nel settore domestico, o attraverso la fornitura di derrate d'esportazione prodotte da coltivatori che traggono sussistenza dai loro stessi raccolti. Questa economia orientata verso la produzione di beni di sussistenza appartiene perciò alla sfera di circolazione del capitalismo, e ciò nella misura in cui essa lo rifornisce di forza-lavoro e di derrate, mentre invece essa resta fuori dalla sfera della produzione capitalista in quanto non vi è alcun investimento di capitale in essa, e dal momento che i rapporti di produzione sono al suo interno di tipo domestico e non capitalistico. Le relazioni tra i due settori, quello capitalista e quello domestico, non possono venir considerate come relazioni tra i due rami del capitalismo come è invece sufficiente fare per spiegare lo scambio ineguale: il rapporto è invece tra settori all'interno dei quali dominano dei rapporti di produzione differenti- È attraverso i rapporti organici che viene ad instaurare tra economie capitaliste e domestiche che l'imperialismo mette in gioco i mezzi di riproduzione di una forza-lavoro a buon 1 Da: Claude Meillassoux, Femmes, greniers & capitato, 1975, trad. it. Donne, granai e capitali. Zanichelli. Bologna. 1978, pp. 113:115-16.
mercato a profitto del capitale: processo di riproduzione che, nella sua fase attuale, è la causa essenziale del sottosviluppo e della prosperità del settore capitalista allo stesso tempo. [...] All'inizio il contatto avviene inequivocabilmente tra due modi di produzione, dove l'uno domina e coinvolge l'altro in un processo di trasformazione. Fintantoché persistono i rapporti di produzione e di riproduzione domestici, le comunità rurali in trasformazione rimangono qualitativamente differenti dal modo di produzione capitalistico. Per contro, le condizioni generali della riproduzione dell'insieme sociale non vengono più a dipendere, in conseguenza di ciò, dai determinismi interni al modo di produzione domestico, ma dalle decisioni prese nel settore capitalistico. Attraverso questo processo, per sua essenza contraddittorio, il modo di produzione domestico viene preservato e distrutto allo stesso tempo: preservato come modo di organizzazione sociale produttore di valore a vantaggio dell'imperialismo, distrutto perché privato alla lunga, attraverso lo sfruttamento che viene a subire, dei mezzi della sua riproduzione. In queste circostanze, il modo di produzione domestico è e non è2. 2 Non è più lo stesso a partire dal momento in cui ai rapporti di produzione domestici si sostituiscono, in maniera dominante, rapporti di tipo salariale: allorché la terra, da patrimonio inalienabile diviene merce: allorché i mezzi di lavoro sono acquistati sul mercato capitalista e non più prodotti e trasmessi nel quadro dei rapporti domestici.
Maurice Godelier Il ruolo infrastrutturale e sovrastrutturale
della parentela nelle società primitive' Come concepire quindi il ruolo dominante della parentela nelle società primitive e insieme il ruolo in ultima istanza determinante dell'economia e, più in generale. come concepire il ruolo dominante di una struttura in un determinato tipo di società'? [...] L'errore che in partenza impedisce ogni soluzione è quello di considerare economia e parentela nelle società primitive come strutture esterne l'una al-
1 Da: Maurice Godelier. Ce qui est n,rt et ce qui est Ovaia darei la pens,'e de ,llarr carles societes prinrhives. 1973, trad. it. Citi che ì• morto e ciò che e viro nel pensiero di Mari .sulle.societd primitive. in M. Godelier. Antropologia e mariiento. Editori Riuniti, Roma. 1977 (ed. or. 19731, pp. 219-211.
l'altra, come la struttura e la sovrastruttura. In realtà, l'economista distinguerà con facilità le forme produttive di queste società (caccia, agricoltura, allevamento, ecc.) ma non potrà «isolare» rapporti di produzione «autonomi»: o almeno, li distinguerà nel funzionamento stesso dei rapporti di parentela. Questi determinano i diritti dell'individuo sulla terra e i suoi prodotti, i suoi obblighi di ricevere, dare, cooperare. Essi determinano anche l'autorità di alcuni sugli altri in materia politica e religiosa, costituiscono infine, come dimostra C. Lévi-Strauss, ('«ossatura sociologica» del pensiero «selvaggio», uno degli schemi che organizzano le rappresentazioni mitiche del rapporto cultura-natura, uomo-animali-piante.
Quindi in questo tipo di società, i rapporti di parentela funzionano come rapporti di produzione, rapporti politici, schema ideologico. La parentela di questo caso è struttura e sovrastruttura insieme. Tale plurifimzionalità della parentela nelle società primitive chiarisce, secondo noi, due fatti su cui si è concordi fin dal XIX secolo: la complessità dei suoi rapporti e il loro ruolo dominante. La parentela vi funziona direttamente, interiormente, come rapporto economico, politico, ideologico. Ed è per questo che essa funziona anche come forma simbolica in cui s'esprime il contentuo della vita sociale, come linguaggio generale delle relazioni degli uomini tra loro e con la natura.
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La «corrispondenza» economia-parentela non si presenta come un rapporto esterno ma come un rapporto interno, senza che per questo le relazioni economiche tra parenti si confondano con le loro relazioni politiche, sessuali, ecc. L'unità delle funzioni non implica la loro confusione. Al tempo stesso, questa pluralità di funzioni della parentela è resa necessaria dalla struttura generale delle forze produttive, dal loro scarso sviluppo che impone la divisione sessuale del lavoro e la cooperazione degli individui dei due sessi per sopravvivere e riprodurre le loro condizioni d'esistenza.
Maurice Godelier Religione e rapporti
di produzione' L'inca, figlio del sole, non rappresenta più gli uomini presso gli dèi, ma rappresenta invece gli dèi presso gli uomini. Per cogliere questa trasformazione qualitativa, cioè la divinizzazione delle potenze sociali, bisogna ricordare che la società inca è una società di classe e che dalla sola classe dominante provengono tutti i quadri dello Stato. Siamo qui in presenza di una delle più antiche forme di società classista, la cui base è ancora un insieme di comunità tribali. In tale contesto l'ideologia religiosa non è soltanto la superficie, il riflesso fantastico dei rapporti sociali, ma è altresì un elemento interno del rapporto di produzione e funziona come una delle componenti interne del rapporto economico-politico di sfruttamento dei contadini per opera di un'aristocrazia, detentrice dei poteri statali. La credenza nell'efficacia soprannaturale dell'inca, condivisa tanto dai contadini dominati quanto dalla classe dominante, non è solo un'ideologia che legittima «a posteriori» i rapporti di produzione, ma anche una parte dell'armatura interna di tali rapporti. Dal momento in cui ogni individuo e ogni comunità locale pensa di dovere le proprie condizioni d'esistenza, la fertilità delle donne e dei campi, al potere soprannaturale dell'inca, ogni individuo e ogni comunità si trova a dipendere dall'inca e si sente in obbligo di fornigli lavoro e prodotti per celebrarne la gloria e insieme la realtà trascendente e
I Da: Maurice Godelier Pour niter dtir,rie mar aste des faits relitrad. it. Per arra teoria marxista dei farri religiosi. in M. Godelier, Antropologia e marrisn >, Editori Riuniti. Roma. 1977 (ed. or. t977). pp. 295-Xi.
,gieux,
t
Un Cipaya (Bolivia) rende omaggio a uno spirito dell'antica religione andina
per restituirgli in parte ciò che l'inca compie, in modo per noi simbolico e immaginario, per la riproduzione e la prosperità di tutti. La religione funziona pertanto come rapporto di produzione, e ciò determina il tipo d'informazione di cui dispongono i membri della società inca sulle condizioni
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Pierre Clastres La filosofia del potere primitivo
di funzionamento e di riproduzione del loro sistema. Il tipo d'informazione determina a sua volta la reale portata delle azioni che i gruppi e gli individui compiono per mantenere o trasformare il sistema sociale. Per esempio, di fronte a una crisi provocata da una siccità eccessiva, la risposta degli indios dell'impero inca comporta necessariamente un'intensificazione dei sacrifici religiosi. Molti tessuti preziosi o di uso comune vengono bruciati sul-
le huacas, dimore sacre degli antenati e degli dèi, si sacrificano alcuni lama, si versa birra di mais. Tenuto conto della forma dei rapporti sociali, dominati da una classe politico-religiosa, la risposta degli indios a siffatte situazioni eccezionali consiste per lo più in un immenso lavoro simbolico, rivolto alle potenze soprannaturali dei morti e degli dèi, e che consuma in larga misura le risorse naturali e la forza-lavoro della società.
Clifford Geertz Cos'è l'interpretazione in antropologia?
stesso responsabile di fronte a questo e, tramite le donne, nè è in qualche modo prigioniero. Questo tipo di costituzione della sfera politica può dunque intendersi come un vero meccanismo di
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difesa delle società amerindiane. La cultura afferma la prevalenza del principio che la fonda – lo scambio – proprio istituendo, nel potere, la negazione di tale suo fondamento.
Capitolo 22 Clifford Geertz Cos'è l'interpretazione Pierre Clastres La filosofia del potere primitivo' Si direbbe infatti che queste società costituiscano la loro sfera politica in funzione di un'intuizione che abbia, per loro, valore di regola: che il potere è, nella sua assenza, coercizione; che l'attività uniBeatrice della funzione politica si esercita non a partire dalla struttura della società, e conforme a questa, ma da un al di là incontrollabile, e contro di essa; che il potere, per se stesso, non è che un alibi furtivo del potere della natura. Lungi dunque dall'offrirci l'immagine sbiadita di un'incapacità a risolvere il problema del potere politico, queste società ci stupiscono per la sottigliezza con cui lo hanno posto e regolato. Ben presto esse hanno avvertito che la trascendenza del potere racchiude, 1 Da: Pierre Clastres, É'change et porevoir: philosophie de la chefferire arnérindienne, 1962, trad. it. Scambia e potere: filosofia della ecltiefrairulrip» amerirrdianu in P. Chstres, La società contro lo Stato. Feltrinelli, Milano. 1977 (ed. or. 1974). pp. 38-40.
per il gruppo, un rischio mortale, che il principio di un'autorità esterna e creatrice della sua propria legalità è contestazione della cultura stessa – ed è l'intuizione di questa minaccia, che ha conferito profondità alla loro filosofia politica. Infatti, scoprendo la grande affinità del potere con la natura, in quanto duplice limitazione dell'universo della cultura, le società indiane hanno saputo inventare un mezzo per neutralizzare la virulenza dell'autorità politica: hanno scelto di esserne esse stesse le fondatrici, ma in modo da non lasciar apparire il potere che come negatività subito padroneggiata; lo istituiscono secondo la sua essenza (la negazione della cultura), ma proprio per negargli ogni potenza effettiva. Così la presentazione del potere qual è offre a queste società il mezzo stesso per annullarlo. La medesima operazione che instaura la sfera politica le impedisce di svilupparsi: così la cultura utilizza contro il potere l'astuzia stessa della natura, ed è per questo che si elegge capo l'uomo nel quale si interrompe lo scambio delle donne. delle parole e dei beni. [...] Ciò risulta molto chiaramente nella relazione fra il potere e la parola: se infatti il linguaggio è l'opposto stesso della violenza. la parola deve interpretarsi. più che come privilegio del capo, come il mezzo escogitato dal gruppo per mantenere il potere distinto dalla violenza coercitiva, come la garanzia quotidianamente rinnovata che questa minaccia è lontana. La parola del leader racchiude in sé l'ambiguità di una parola distolta dalla funzione comunicativa immanente al linguaggio. Il discorso del capo ha così poco bisogno di essere ascoltato, che spesso gli indiani non gli prestano alcuna attenzione. [...] Allo stesso modo possiamo interpretare la poliginia: di là dal suo aspetto formale di puro e semplice dono destinato a porre il potere come rottura dello scambio, si profila una funzione positiva analoga a quella dei beni e del linguaggio. Il capo, proprietario di valori essenziali del gruppo, è per ciò
in
antropologia?'
Per comprendere che cosa sia l'interpretazione antropologica e fino a che punto sia interpretazione, è necessario comprendere soprattutto che cosa si gnifichi - e che cosa non significhi - dire che le no-' stre formulazioni dei sistemi di simboli di altri popoli devono essere orientate rispetto agli attori'-. Significa che le descrizioni della cultura berbera; ebrea o francese devono essere espresse nei termini delle interpretazioni che, così come noi le immaginiamo, i berberi, gli ebrei o i francesi attribuiscono al mondo in cui vivono, alle formule che usano per definire quanto accade loro. Ciò non significa che tali descrizioni siano esse stesse berbere, ebree o francesi: vale a dire parte della realtà che stanno palesemente descrivendo. Esse sono atropologiche: cioè parte di un sistema in evoluzione di analisi scientifica. Devono essere espresse nei termini delle interpretazioni a cui persone di un particolare categoria sottopongono la loro esperienza, poiché questo è ciò di cui dichiarano di essere le descrizioni; sono antropologiche perché sono, di fatto, gli antropologi ad avanzarle. Normalmente non è necessario definire in modo tanto sofisticato che l'oggetto dello studio è una cosa e Io studio di esso un'altra cosa: è abbastanza chiaro che il mondo fisico non è la fisica e A Skeleton Key 1 Da: Clifford Geertz. Towards an interpretative Theory of Culture, 1973, trad. it. Verro una teoria interpretativi, della cultura. in C. Geerte, interpretazione di culture, Il Mulino, Bologna. 1987, pp. 23-24. 2 Non solo degli altri popoli: l'antropologia pttrì essere applicata sulla cultura di cui essa stessa fa parte, e questo avviene sempre più spesso: fatto di grande importanza ma che metterò da parte per il momento, visto che solleva alcuni problemi di second'ordine insidiosi e piuttosto particolari.
I nativi e l'antropologo (Nuova Guinea)
to Finnegan's Wake non è Finnegart's Wake. Tuttavia, dato che nello studio della cultura l'analisi penetra nell'oggetto stesso – vale a dire, noi cominciamo con le nostre interpretazioni di ciò che fanno
i nostri informatori, o quello che pensiamo che facciano, e poi le sistematizziamo – il confine tra la cultura (marocchina) come fatto naturale e la cultura (marocchina) come entità teorica tende a divenire confuso. Tanto più che quest'ultima è presentata sotto forma di descrizione (vista con l'occhio di un attore) delle concezioni (marocchine) di ogni cosa, dalla violenza all'onore, dalla divinità alla giustizia, dalla tribù alla proprietà, dal patronato al ruolo di capo. In breve, gli scritti antropologici sono essi stessi interpretazioni, e per di più di secondo o di terzo ordine. (Per definizione solo un «indigeno» fa quelle di prim'ordine: è la sua cultura).
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Clifford Geertz La cultura è pubblica come il significato
Clifford Geertz La cultura è pubblica come
iI significato' Tranne che quando segue (come naturalmente deve fare) le pratiche più automatizzare della raccolta di dati, l'etnografo si trova di fronte a una molteplicità di strutture concettuali complesse. molte delle quali sovrapposte o intrecciate fra di loro. che sono al tempo stesso strane, irregolari e non esplicite, che egli deve in qualche modo riuscire prima a cogliere e poi a rendere. E questo è vero ai livelli più bassi della sua attività di lavoro sul campo: intervistare gli informatori, osservare i rituali, definire i termini usati per la parentela, tracciare i confini delle proprietà, censire le famiglie... e scrivere il diario. Fare etnografia è come cercare di leggere (nel senso di «costruire una lettura di») un manoscritto - straniero, sbiadito, pieno di ellissi, di incongruenze, di emendamenti sospetti e di commenti tendenziosi, ma scritto non in convenzionali caratteri alfabetici, bensì con fugaci esempi di comportamento strutturato. La cultura, questa sorta di documento agito, è quindi pubblica come la parodia di un ammiccamento o una finta incursione contro delle pecore. 1 Da: Clifford Geertz, Towards an interpretative Theory of Colture, 1973, trad. it. Verso una teoria interpretativa delta cultura. in C. Geertz, Interpretazione di culture. Il Mulino, Bologna. 1987. pp. 17-18.
Benché comprenda il mondo delle idee (ideational) non esiste nella testa di nessuno; benché non sia fisica, non è un'entità occulta. L'interminabile (perché non terminabile) dibattito all'interno dell'antropologia se la cultura sia «soggettiva» o «oggettiva», insieme con lo scambio reciproco di insulti intellettuali («idealista!», «materialista!», mentalista!» , «comportamentista!» , «impressionista!». «positivista!») che lo accompagna, è tutto basato su un malinteso. Una volta che il comportamento umano sia visto (la maggior parte delle volte, perché i tic veri comunque esistono) come azione simbolica - azione che come la fonazione nel discorso, iI pigmento nella pittura, la riga nello scritto o il suono nella musica ha un significato -la questione se la cultura sia comportamento strutturato o forma mentale, o anche le due cose in qualche modo mescolate, non ha più senso. Quello che ci si deve chiedere sulla parodia di un ammiccamento o su un'incursione semiseria per rubare delle pecore non è quale sia il loro status ontologico. È lo stesso di quello delle rocce da una parte e dei sogni dall'altra: si tratta di cose di questo mondo. La cosa da chiedersi è quale sia il loro significato: cosa quindi - ridicolo o sfida, ironia o rabbia, snobismo od orgoglio - viene detto quando avvengono e mediante Ia loro azione.
Clifford Geertz Concetti `vicini' e concetti 'lontani' dall'esperienza
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tante la concezione dell'analisi antropologica come manipolazione concettuale di fatti scoperti, come ricostruzione logica di una pura e semplice realtà. Estrarre cristalli simmetrici di significato, purificati dalla complessità materiale in cui erano collocati, e poi attribuire la loro esistenza a principi di ordine autogeni, proprietà universali della mente umana, o vaste Weltanschauungen aprioristiche, è simulare una scienza che non esiste e immaginare una realtà che non si può trovare. L'analisi culturale consiste (o dovrebbe consistere) nell'ipotizzare significati, valutare le ipotesi e trarre conclusioni esplicative dalle ipotesi migliori ma non scoprire il Continente del Significato e tracciarne il paesaggio immateriale su una sorta di carta geografica. Ecco quindi le tre caratteristiche della descrizione etnografica: è interpretativa; quello che interpreta è il flusso del discorso sociale; e l'interpretazione ad essa inerente consiste nel tentativo di preservare il «detto» di questo discorso dalle possibilità che esso svanisca e di fissarlo in termini che ne consentono una lettura. Il kula è scomparso o mutato ma, nel bene e nel male, Gli argonauti del Pacifico occidentale restano.
Clifford Geertz Concetti `vicini' e concetti `lontani' Clifford Geertz L'etnografo «scrive»' dall'esperienza' «Che cosa fa l'etnografo?»: scrive'. Anche questa può apparire una scoperta non proprio sorprendente, e per qualcuno che conosca bene la «letteratura» corrente, pure poco plausibile. Ma poiché la risposta standard alla nostra domanda è stata «egli osserva, registra, analizza» - una specie di concezione alla veni, vidi, vici -, ha forse conseguenze più vaste di quanto non appaia a tutta prima, non ultima quella che può essere normalmente impossibile distinguere queste tre fasi della ri-
cerca cognitiva; ed esse possono di fatto non esistere come «operazioni» autonome. La situazione è anche più delicata perché, come si è già notato, quello che noi iscriviamo (o cerchiamo di iscrivere) non è il discorso sociale bruto a cui non abbiamo accesso diretto, non essendone gli attori se non in modo molto marginale o eccezionalmente, ma soltanto quella piccola parte di esso che i nostri informatori possono portarci a capire'. Questa non è un'affermazione definitiva, come sembra, perché in effetti non tutti i cretesi sono bugiardi e non è necessario sapere tutto per capire qualcosa, ma fa apparire piuttosto zoppi-
I Da: Clifford Geertz, Totcards an Ltterpretative Theory of Cultutrad. it. Verso tua teoria interpretativa della cultura. in C. re, 1973, Geertz, Interpretazione di culture. Il Mulino, Bologna. ]957, pp. .. 3 Nella misura in cui ha rafforzato l'impulso dell'antropologo ad 29-30. 2 O ancora, più esattamente -inscrive-. In effetti la maggior par- ^'.. impegnarsi con i propri informatori come persone più che come te dell'etnografia si trova nei libri e negli articoli. piuttosto che in oggetti. il concetto di -osservatore partecipante= è stato molto film.dischi. esposizioni di musei o altro:ma anche nei libri e negli prezioso. Ma, nella misura in cui ha portato l'antropologo ad articoli possiamo trovare naturalmente fotografie, disegni. diaignorare la natura molto particolare. messa culturalmente tra virgrammi. tabelle e via dicendo. L'auto-consapevolezza degli;m- i golette. del suo ruolo e ad immaginarsi come qualcosa di più di tropologi circa le modalità di rappresentazione (per non parlare un ospite interessato (nel duplice senso della parola), è stata la degli esperimenti su di esse) e stata finora molto carente. nostra fonte maggiore di malafede.
Se, come io penso dobbiamo rimanere fedeli all'ingiunzione di vedere le cose dal punto di vista dei nativi, come la mettiamo quando non possiamo più sostenere di avere un'unica forma di vicinanza psicologica, di identificazione transculturale con i nostri soggetti? Cosa accade al verstehen quando l'einfiihlen scompare? [...] Ma forse il modo più semplice e diretto per porre il problema è nei termini di una distinzione formulata, per altri fini, dallo psicoanalista Heinz Kohut, tra ciò che definisce concetti «vicini all'esperienza» e concetti «distanti dall'esperienza». Un concetto vicino all'esperienza è, sommariamente, un concetto che chiunque - un paziente, un soggetto, nel nostro caso un informatore - può utilizzare naturalmente e senza sforzo per definire 1 Da: Clifford Geertz,'Front the Natives Point of Virw': Ott the Nature of Anthropological Understanding, 1974, trad. it. 'Dal proto di vista dei nativi': -sulla natura della comprensione antropologica. in C. Geertz, Antropologia interpretativa, Il Mulino, Bologna, 1958 (ed. or. 1983), pp. 72-74.
ciò che lui e i suoi colleghi vedono, sentono, pensano, immaginano e così via, e che comprenderebbe prontamente quando utilizzato in modo simile da altri. Un analista, uno sperimentatore, un etnografo, persino un prete o un ideologo - lo utilizzano per fare avanzare i loro obiettivi scientifici, filosofici o pratici. «Amore» è un concetto vicino all'esperienza, la «cathexis dell'oggetto» è un concetto distante dalla esperienza. «Stratificazione sociale» e forse per molte persone anche «religione» (e certamente «sistema religioso») sono concetti distanti dall'esperienza; «casta» e «ni rv ana» sono vicini all'esperienza, almeno per i Buddisti e gli Induisti. Chiaramente è una questione di gradi, non una opposizione polare - «paura» è più vicina all'esperienza di «fobia» e quest'ultima è più vicina di «ego asintonico». E la differenza, almeno per quanto riguarda l'antropologia (la faccenda è diversa perla fisica e la poesia), non è di tipo normativo, nel senso che un concetto debba essere prefe-
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Marc Augé L'esperienza della contetnporaneità: colonizzati e occidentali
James Clifford L'autorità dell'etnografo
Concetti diversi della bellezza femminile
rito ad un altro. Il limitarsi a concetti vicini all'esperienza lascia l'etnografo immerso nelle immediatezze, e intrappolato nel linguaggio comune. Il limitarsi a concetti distanti dall'esperienza lo lascia arenato in astrazioni e soffocato dal gergo. Il vero problema è che tipo di ruoli giocano i due tipi di concetti nell'analisi antropologica. O, più esattamente, come, in entrambi i casi, bisogna utilizzarli per ottenere un'interpretazione di come vive una popolazione che non sia imprigionata né nei suoi orizzonti mentali, un'etnografia della stregoneria scritta da una strega, né sistematicamente sorda alle tonalità peculiari della sua vita, un'etnografia della stregoneria scritta da un geometra. Ponendo il problema in questi termini - nei termini di come bisogna fare l'analisi antropologica e come inquadrare i suoi risultati, piuttosto che nei termini della costituzione psichica che gli antropologi devono avere - si riduce il mistero di quello che significa «vedere le cose dal punto di vista dei
nativi». Ciò, comunque, non rende la cosa più facile né diminuisce il bisogno di essere percettivo da parte dello studioso sul campo. Cogliere concetti che, per altre popolazioni, sono vicini all'esperienza, e farlo sufficientemente bene da collocarli in connessioni illuminanti con concetti distanti dall'esperienza che i teorici hanno costruito per cogliere le caratteristiche generali della vita sociale, è un compito per lo meno delicato, anche se un po' meno magico del mettersi nella pelle di un altro. Il trucco sta nel non entrare in una sintonia di spirito troppo stretta con il proprio informatore. Questi ultimi preferiscono, come tutti noi, sentire come propria la loro anima, e non sono affatto inclini verso uno sforzo del genere. Il trucco sta nel capire cosa loro pensano di stare facendo. Da un certo punto di vista, ovviamente, nessuno lo sa meglio di loro; da qui deriva la passione per lasciarsi trascinare dal flusso della loro esperienza, e l'illusione successiva di esserci in qualche modo riusciti. Ma, in un altro senso, questo semplice truismo è semplicemente non vero. Le persone usano concetti vicini all'esperienza in modo spontaneo, inconsapevole, in modo colloquiale. Esse non riconoscono, tranne che occasionalmente e superficialmente, che vi sono implicati dei «concetti»: questo è ciò che significa vicino all'esperienza - che le idee e le realtà che esse informano sono indissolubilmente e naturalmente legate insieme. In quale altro modo si potrebbe chiamare un ippopotamo? Ovviamente gli dei sono potenti, per quale altra ragione li temeremmo? L'etnografo non percepisce - e secondo me in buona misura non può percepire - quello che percepiscono i suoi informatori. Ciò che egli percepisce, ed in modo piuttosto incerto, è ciò che essi percepiscono «con» - o «per mezzo di» o «attraverso», o qualsiasi sia il termine. Nel mondo dei ciechi, che sono più osservatori di quanto si pensi, l'orbo non è re ma spettatore.
James Clifford L'autorità dell'etnografo' L'etnografo, alla fine, si allontana sempre portandosi via i testi per le successive interpretazioni (e tra questi «testi» trafugati possiamo includere i ricordi: avvenimenti rimodellati, semplificati, strappati dal contesto immediato in vista di essere inI Da: James Clifford, On Ethnographic Authority, 1983. trad. it. Sull'autorìtrì etnografica, in J. Clifford, I fanti puri it»paz ziseono. Etnografia. letteratura e arte nel XX secolo. Bollati. 1993 (ed. or. 1987), pp. 55-57.
terpretati in ricostruzioni e descrizioni differite). II testo, diversamente dal discorso, può viaggiare. Se è vero che molta scrittura etnografica è prodotta sul campo, la composizione effettiva del testo è messa a punto altrove. Dei dati costituitisi in condizioni discorsive, di dialogo, ci si impossessa solo in forme testualizzate. Gli avvenimenti e gli incontri della ricerca si sedimentano in appunti presi sul campo. L'esperienza diventa narrazione, evento significativo o esempio.
Questo tradursi dell'esperienza di ricerca in un corpus testuale, separato dalle circostanze discorsive della sua produzione, ha conseguenze di non scarso rilievo per l'autorità etnografica. Non c'è più bisogno di comprendere i dati così riformulati come comunicazione di singole persone. La spiegazione o la descrizione che un certo informatore ci fornisce del costume non deve più essere immessa in una forma che includa il messaggio: «Ce l'ha riferita il tal dei tali». Un rituale o un evento testualizzati non sono più strettamente connessi al loro prodursi ad opera di specifici attori. Questi testi divengono, invece, testimonianze di un contesto inglobante, di una realtà «culturale». Inoltre, poiché gli autori e gli attori specifici sono stati separati dalle loro produzioni, occorre escogitare un «autore» generalizzato per dar conto del mondo o del contesto dentro cui i testi sono stati immaginariamente trasposti. L'autore generalizzato si presenta sotto una molteplicità di nomi: il punto di vista indigeno, «i trobriandesi., «i nuer., «i dogon» sono le espressioni che compaiono, insieme ad altre analoghe, nei testi etnografici. L'etnografo pare quindi godere di uno specifico
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rapporto con la matrice di una cultura o con un qualche «soggetto assoluto». Si può esser tentati di. accostare l'etnografo all'interprete letterario (un paragone che ha ormai del luogo comune) e più in particolare al critico tradizionale che considera suo compito collocare i significati ribelli di un testo nel quadro di una univoca e coerente intenzione. Rappresentando i nuer, i trobriandesi o i balinesi come soggetti interi, fonte di una intenzione sensata, l'etnografo trasforma le ambiguità della situazione di ricerca e le diversità di significato in un quadro completo. È, però, importante rendersi conto di quel che è stato sottratto alla nostra vista. Il processo della ricerca è stato separato dai testi cui esso stesso ha dato origine e dal mondo immaginario che questi sono chiamati a evocare. La realtà delle situazioni discorsive e degli interlocutori individuali è stata setacciata via. Eppure gli informatori - insieme alle note prese sul campo restano gli intermediari cruciali, regolarmente esclusi dai testi etnografici d'autore. Gli aspetti situazionali e dialogici dell'interpretazione etnografica tendono a essere banditi dal testo rappresentativo finale.
Marc Augé L'esperienza della contemporaneità: colonizzati e occidentali' Ma si può andare oltre e affermare che i movimenti profetici in se stessi costituiscono un'anticipazione, se non una profezia, di una situazione oggi generalizzata e condivisa da tutti: la mondializzazione del pianeta. I popoli colonizzati sono stati i primi a farne l'esperienza perché sono stati i primi a subirla. I colonizzatori, più o meno impregnati di evoluzionismo, e prima ancora persuasi di essere i portatori di un modello di civiltà universale, non hanno visto nell'alterità che una forma primitiva o deformata della propria identità; il contatto con la pluralità e la differenza non ha sovvertito il loro modo di pensare né il loro rapporto con il mondo. Hanno vissuto solo avventure locali, periferiche. Il loro modo di rapportarsi all'universalità non è mai passato attraverso un'autentica esperienza della pluralità. Viceversa, i soggetti colonizzati hanno fatto una triplice esperienza associata alla scoperta dell'altro, una scoperta che è oggi anche nostra e che loro hanno pagato dolorosamenI Da: Marc Auge, Pour mie anthropolo gic des nu>ades
te: l'esperienza dell'accelerazione della storia, del restringimento dello spazio e dell'individualizzazione dei destini. Questa triplice esperienza corrisponde a quella che in iVonluoglii abbiamo definito come espe-
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Marc Augé L'esperienza della contemporaneità: colonizzati e occidentali
rienza della contemporaneità e della supermodernità. È caratterizzata da tre eccessi: un eccesso di eventi che rende la storia difficilmente pensabile, un eccesso di immagini e di riferimenti spaziali che hanno l'effetto paradossale di richiudere su di noi lo spazio del mondo, e un eccesso di riferimenti individuali, intendendosi con questo l'obbligo di pensare da soli il proprio rapporto con la storia e con il mondo in seguito al crollo di ciò che Durkheim chiamava i «corpi intermedi» e all'impotenza confermata dei grandi sistemi d'interpretazione. Naturalmente, oggi non si possono evocare questi tre eccessi senza prendere in considerazione lo sviluppo dei mezzi di trasporto, di comunicazione e d'informazione che li hanno resi pos-
sibili e inevitabili. Ma mi sembra non sia arbitrario sostenere che i popoli colonizzati sono stati i primi ad affrontarli, e che i movimenti profetici, nonché tutti i movimenti «politico-religiosi» analizzati come altrettante reazioni alla colonizzazione, hanno anticipato una situazione attualmente estesa all'intero pianeta e vissuta da tutti come contemporanea. Per essere più chiari, aggiungeremo che questo tentativo di analisi non è un prodotto della malattia franco-californiana che si è deciso di chiamare antropologia «postmoderna»: il carattere spettacolare, variegato e barocco dei profetismi africani invita piuttosto a cercare di capire che cosa li avvicini alle nostre esperienze più attuali.
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Indice dei nomi citati nel testo
Appadurai, A., 241 Augé, M., 241 Bachofen, J. J., 26, 77 Balandier, G., 218-19, 221, 222 Banfi, A., 124 Barth, E, 205-6 Barthes, R., 236 Bastian, A., 26, 77 Bastide, R., 219-221 Bateson, G., 140-142, 146 Baudin, N., 8 Benedict, R., 138-140, 141,143,144,146,172,174, ' 241 Berlin, B., 214-215 Bernardi, B., 170, 171 Beuchat, H., 74 Boas, E, 43-48, 74, 75, 81, 82, 93,123, 132, 138, 139, 142, 144, 159, 172, 173, 179, 183, 209, 214, 232 Boccassino, R., 119 Bonaparte, N., 8, 9 Bougainville, L. A., 8 Bouglé, C., 55 Boutroux, E.-E., 55 Burke, P,236 Caban is, P. J. G.. 8 Calame-Griaule, G., 133 Cantoni, R., 124-125,165 Cardona, G. R., 170, 171, 209 Cassirer, E., 124, 125, 126 Cerulli, E., 119 Chateaubriand, F.-R. de, 10 Cipriani. L., 121 Cirese, A. M., 170,171 Clastres, P., 229-230 Cocchiara, G., 170 Codrington, R. H., 92 Comte, A., 13, 54-55 Conklin, H., 210, 215 Conrad, J., 87 Conti Rossini, C., 119 Croce, B.,122-126,164-165,166,169,170 Cushing, F. H., 43 Custer, G. A., 17 Cuvier, G., 8 D'Ancona, A., 63
Darwin, C. R., 11, 14 De Gérando, J.-M., 8 Delafosse, M., 128 De Maistre, J., 10, 12 De Martino, E., 122-126, 163-169 Destutt de Tracy, A. L. C., 8 Dilthey, W., 46,123 Dieterlen, G., 133 Dobb, M., 227 Durkheim, E., 55-58,59, 60, 67,68,69, 70,71, 72-73, 89,124,128,135 ,136,148,149,150,153,158,159, 166, 183, 184n., 191, 198, 208, 218n Einstein, A., 87 Elliott Smith, G., 84 Engels, E, 36,173, 221, 224 Evans-Pritchard, E. E., 155-160,198, 208, 236
Ferenczi, S., 115 Feuerbach,L.,124 Firth, R.. 100, 204 Fison, L., 87-88, 92 Fletcher, A., 43 Foucault, M., 235 Frake, C. O., 150, 151, 210 Frazer, J., 24-26, 59, 87, 88, 89, 1 00,110,1 11 ,113, 134,156, 191 Freud, S.. 87,110 -113, 114, 115, 117, 142, 144.
184n Frobenius, L., 78-79, Fustcl De Coulangcs, N. D., 21 55 Geertz, C., 101, 232, 234-238, 239, 241 Gentile, G., 124 Geronimo, 16 Gillen, F. J., 89 Gluckman, M., 196-199, 200, 202 Godelier, M., 225-22 Goldenweiser,A., 172 Goodenough, W., 210, 212 Graebner, E, 79-80 Gramsci, A., 166 Grane. M., 55 Griaule, M., 128-133. 134. 136, 208.217 Grottanelli, V.. 120,122, 170 Guarmani, C., 64 Gunder Frank, A., 227 Gusinde, M., 80
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Indice dei nomi citati nel testo
Indice dei nomi citati nel testo
Haddon, A. C., 90, 99,140 Halbwachs, M., 55 Hale, H., 44 Hannertz, U., 241 Harris, M., 176-178, 211-212 Hegel, G. W. F., 124 Heidegger, M., 166 Herder, J.-G., 10 Hertz, R., 67-70,128,166 Hocart, A., 91 Howitt, A. W, 87-88, 92 Hunt, G., 46 Husserl, E., 236 Itard, J., 8 Jakobson, R., 183, 188 Jauffret, L.-F, 5 Jefferson, T., 30 Jung, C. G., 116-118 Kant, I., 124 Kardiner, A., 142-144 Kay, P., 214-215 Kluckhohn, C., 234 Koppers, W , 80 Kroeber, A. L., 48-52,145,151,172,174,175,183, 188 Kuper, A., 241 Lacépède, B. G., 8 Lafitau, J. F., 6-7 Lamarck, J. B., 8 La Marmora, A.. 63 Langer, S., 236 Lanternari, V., 168,170-171 Layard, J., 91, 116-118 Leach, E., 201-203, 205 Leenhardt, M., 133-135, 136,208 Leiris, M., 130 Levi-Strauss, C., 75, 76, 105, 153, 157, 168, 183-195, 208, 217, 221, 225, 228, 229, 230, 235 Lévy-Bruhl, L., 59-61, 72,110,124, 128, 134, 191, 208 Linton, R., 142-144 Loria, L., 64-66, 121 Lounsbury, F. G., 210, 211 Lowie, R. H., 52, 172, 175, 183 Lubbock, J.,14 Lyell, C., 13-14 Maine, H. S., 27 Malinowski, B., 74, 75, 99-109, 114-115,119. 121, 132, 134, 140, 145, 148, 153, 170, 174, 178, 191, 201, 204, 237, 238, 241 Malraux, A., 184 Mantegazza, P.26, 64
R, 64 Marett, R., 91, 99,100,170 Marx, K., 36, 173, 176, 177, 198, 221, 222, 222n, 224, 227 Mauss, M., 70, 72-75, 89, 128, 129, 130, 136, 178, 218n Mc Lennan, J. E, 26-27,184n Mead, M., 144-147, 172 Meillassoux, C., 222-225,226 Mochi, A., 64 Montagne, R., 135-137 Montaigne, M. de, 6 Mooney, J., 39,43 Morgan, L. H., 27, 29-38, 48, 49, 50, 51, 87, 93,151, 173, 184n, 187, 221 Murra, J., 226 Manzoni,
v. Bonaparte Nietzsche, E, 139 Nigra, C., 63 Nizan, P.,184 Napoleone
Og6temeli,130,131 Parsons, T., 234 Paulme, D., 133 Perry, W., 84 Pettazzoni, R.,119,121 Pitré, G., 65 Polanyi, K., 179-181, 226 Radcliffe-Brown, A. R., 106, 108, 148-154,155, 159,191,196,198.201,202,203 Ratzel, E, 78 Redfield, R., 227 Ricardo, D.,10 Richards, A., 100 Rickert, H., 46 Ricoeur, P., 236 Rivers, W. H. R., 91.93-96,103,110,116, 151, 208 Robbins, L., 178-179 Robertson Smith, W. v. Smith, W. R. Roheim, G., 115-116 Rousseau, J.-J., 6 Ryle, G., 235, 239 Saint-Exupéry, A. de. 184 Sapir, E., 83,172, 209 Schebesta, P, 80 Schmidt, W., 80-81.119,121 Schneider, D. M., 232 Schoolcraft, H. R.. 33 Schutz, A., 236 Seligman, C. G., 91, 99. 155 Simmel, G., 124 Smith, A., 10 Smith, W. R., 22-24.58.69,71, 157
Spencer, B., 89 Spencer, H., 13 Steward, J. H., 174-176 Strehlow, C., 92
Van Gennep, A., 69, 70-72, 153, 166, 200 Vittoria, regina. 16 Volney, C.-F., 8 Voltaire, F. M.. 6
Tauxier, L., 128 Tentori, T., 170, 171 Tommaseo. N., 63 Tullio -Altan, C.,170,171 Turner, V., 199Tyler, S., 215-216 Tylor, E. B., 16-22, 58, 59, 77, 87, 89, 110,187, 210, 241
Wathely, R.,10-11,12 Weber, M., 232, 235, 236 Westermark, E., 91, 99, 184n. White, L. A.,172-174,175,176,177 Whorf, B. L., 209, 214 Windelband, W., 46 Wissler, C., 82-83,172 Wittgenstein, L., 235 , 236 Wolf, E. H., 87
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