Wilbur Smith. SULLA ROTTA DEGLI SQUALI.
Traduzione di Lidia Perria. Copyright 1975 Wilbur Smith. Titolo originale dell'...
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Wilbur Smith. SULLA ROTTA DEGLI SQUALI.
Traduzione di Lidia Perria. Copyright 1975 Wilbur Smith. Titolo originale dell'opera: "The Eye of the Tiger". Copyright 1981 Arnoldo Mondadori Editore S.p.A., Milano. Prima edizione Biblioteca dell'avventura maggio 1981. Prima edizione I Miti agosto 1995. Su concessione Arnoldo Mondadori Editore.
"Tigre! Tigre! Ardente bagliore nelle foreste della notte... In quali abissi o cieli lontani arse il fuoco dei tuoi occhi?" William Blake.
Era una di quelle stagioni in cui il pesce arriva tardi. Tenevo barca ed equipaggio sotto pressione, spingendomi ogni giorno sempre più a nord e rientrando in porto ogni volta a tarda sera, ma era già il sei novembre quando catturammo il primo di quei grossi bestioni che discendono le acque rossastre della corrente del Mozambico. A quel punto ero ridotto alla disperazione. Avevo a bordo un agente pubblicitario di New York di nome Chuck McGeorge, uno dei clienti fissi che compivano il pellegrinaggio annuale di novemilasettecento chilometri fino all'isola di Saint Mary per la pesca del marlin. Era un ometto basso e segaligno, calvo come un uovo di struzzo, con le tempie brizzolate e un muso da scimmia scuro e avvizzito, ma aveva le gambe robuste, necessarie per issare i grossi pesci. Quando finalmente lo avvistammo, il marlin filava alto nell'acqua, mostrando in tutta la sua estensione la pinna dorsale, più lunga del braccio di un uomo e con la curva a scimitarra che lo distingue dallo squalo o dalla focena. Angelo lo individuò nello stesso istante e si sporse sullo straglio di prua, gridando eccitato, i riccioli da gitano spioventi sulle guance scure e i denti scintillanti al sole luminoso dei Tropici. Il pesce s'inarcò e roteò su se stesso fendendo l'acqua, nero, massiccio e imponente come il tronco di un albero secolare, la curva aggraziata della pinna dorsale ripresa dalla coda, prima d'immergersi nel cavo dell'onda successiva, mentre l'acqua si richiudeva sull'ampio dorso lucente. Io mi volsi accigliato a guardare in giù, verso il ponte di poppa. Chubby era già impegnato a installare Chuck sul grosso sedile da pesca, facendo scattare la pesante cintura di sicurezza e aiutandolo a infilare i guanti, ma alzò gli occhi e incrociò il mio sguardo. Aggrottò torvo le sopracciglia e sputò oltre la murata, in netto contrasto con l'eccitazione che aveva preso tutti noi. Chubby è un uomo imponente, alto quanto me ma molto più massiccio. E' anche uno dei più incrollabili pessimisti del mestiere. «E' un pesce diffidente!» grugnì Chubby, e sputò di nuovo. Io gli rivolsi un bel sorriso. «Non si preoccupi, Chuck» gridai «il vecchio Harry le servirà quel pesce su un piatto d'argento.» «Scommetto mille bigliettoni che non ce la farà» gridò di rimando
Chuck, il viso contratto per difendersi dal riverbero del sole, ma gli occhi brillanti di eccitazione. «Ci sto!» Accettai una scommessa che non potevo permettermi e rivolsi la mia attenzione al pesce. Chubby aveva ragione, naturalmente. Dopo di me, è il miglior pescatore di marlin del mondo intero. Il pesce era grosso, diffidente e timido. Cinque volte gli lanciai le esche, dando fondo a tutte le mie riserve di abilità e astuzia per lavorarmelo. Ogni volta si allontanò e s'immerse proprio mentre io portavo il "Wave Dancer" su una rotta convergente per incrociare il suo muso. «Chubby, nella ghiacciaia c'è un'esca di delfino fresco: ritira le lenze, lo attireremo con un'esca singola» gridai disperato. Preparai il delfino. Avevo sistemato l'esca con le mie mani e nuotava nell'acqua con un bel movimento naturale. Riconobbi l'istante in cui il marlin abboccò. Ingobbì il dorso massiccio e intravidi in un lampo il ventre, come uno specchio sotto la superficie, mentre si voltava. «Abbocca» gridò Angelo. «Abbocca!» Cedetti il pesce a Chuck poco dopo le dieci del mattino, e restai a distanza ravvicinata. Qualunque manovra superflua avrebbe imposto uno sforzo supplementare all'uomo impegnato alla canna. Il mio compito richiedeva un'abilità infinitamente superiore a quella necessaria per digrignare i denti e aggrapparsi alla pesante canna di fibra di vetro. Mantenni il "Wave Dancer" sulla scia del marlin durante le prime cariche furiose e i fulminei balzi frenetici, finché Chuck non poté sistemarsi sul sedile da pesca e dedicarsi interamente al pesce sfruttando le sue gambe robuste, fatte per la lotta. Pochi minuti dopo mezzogiorno Chuck aveva sconfitto il pesce. Il marlin era affiorato in superficie e descriveva il primo degli ampi circoli che Chuck avrebbe ristretto a ogni tornata fino ad attirarlo alla portata della fiocina. «Ehi, Harry!» esclamò d'un tratto Angelo, turbando la mia concentrazione. «Abbiamo un visitatore!» «Che c'è, Angelo?» «Un grosso squalo controcorrente.» Puntò il dito. «Il pesce sanguina, lui l'ha fiutato.» Guardai, e vidi arrivare lo squalo. La pinna smussata sempre più vicina, attratto dalla lotta e dall'odore di sangue. Era un grosso pesce martello, e io lanciai un richiamo ad Angelo. «Sul ponte, Angelo» e gli passai il timone. «Harry, lasci che quel bastardo mi azzanni il pesce e lei può dire addio ai suoi mille dollari» grugnì Chuck dal sedile da pesca, immerso in un bagno di sudore, e io mi tuffai nella cabina principale. Atterrando sulle ginocchia spostai i cavigliotti che tenevano abbassato il portello del motore e lo aprii. Disteso sulla pancia, mi protesi sotto coperta e afferrai il calcio della carabina FN sospesa ai ganci speciali nascosti fra le tubature interne. Uscendo sul ponte controllai che il fucile fosse carico e spinsi il selettore sul fuoco automatico. «Angelo, accosta su quel vecchio squalo.» Sporgendomi oltre il parapetto a prua del "Wave Dancer", guardai giù verso lo squalo, mentre Angelo puntava su di lui. Era proprio un pesce martello, grosso, più di tre metri e mezzo dal muso alla coda, color bronzo ramato nell'acqua limpida. Mirai con cura fra i mostruosi prolungamenti degli occhi, che appiattivano e deformavano la testa dello squalo, e sparai una corta raffica. L'FN ruggì, i bossoli vuoti vennero espulsi dall'arma e in un attimo l'acqua s'increspò di spruzzi secchi. Lo squalo sussultò convulsamente mentre le pallottole gli penetravano nella testa, frantumando l'osso cartilaginoso e spappolando il minuscolo cervello. Si rovesciò su un fianco e cominciò ad affondare. «Grazie, Harry» ansimò Chuck, sudato e congestionato. «Fa parte del servizio» replicai con un largo sorriso, e andai a rilevare Angelo al timone. All'una meno dieci Chuck portò il marlin alla distanza giusta per la fiocina, fiaccandolo finché il grosso pesce non affiorò di fianco, battendo piano la coda a falce, il lungo muso boccheggiante in un
movimento spasmodico. L'unico occhio vitreo era grosso come una mela matura e il lungo corpo pulsava e scintillava, variegato da migliaia di sfumature cangianti d'argento, oro e porpora. «Ora fa' un lavoro pulito, Chubby» gridai, posando la mano guantata sulla tirella d'acciaio e tirando pian piano il pesce fin dove Chubby era in attesa, brandendo già il gancio d'acciaio della fiocina. Chubby m'incenerì con un'occhiata, ricordandomi che lui già fiocinava i marlin quando io ero ancora un sudicio monello dei bassifondi di Londra. «Aspetta la cresta dell'onda» gli raccomandai di nuovo, tanto per stuzzicarlo un po', e il labbro di Chubby si arricciò a quel consiglio non richiesto. L'onda fece rotolare il pesce verso di noi, scoprendo il petto ampio che brillava argenteo fra le ali spiegate delle pinne pettorali. «Ora!» esclamai, e Chubby spinse a fondo l'acciaio. Sprizzando un fiotto di sangue arterioso rosso acceso, il pesce entrò nelle convulsioni dell'agonia, inondandoci tutti con più di duecento litri d'acqua di mare. Appesi il pesce al gancio di una gru, sul molo dell'Ammiragliato. Benjamin, il capitano del porto, firmò il certificato per un peso totale di trecentonovantaquattro chili e seicento grammi. Anche se i vividi colori erano svaniti con la morte, trasformandosi in un piatto nero fuligginoso, era pur sempre imponente... quattro metri e quarantuno centimetri dalla punta del muso all'estremità dell'ampia coda ricurva. «Il signor Harry ha appeso un bestione all'Ammiragliato.» La voce fu portata per le strade dai ragazzini che scorrazzavano a piedi nudi, e gli isolani furono felici di cogliere al volo l'occasione per interrompere il lavoro e affollarsi festosi sul molo. La notizia arrivò fino al vecchio palazzo del Governo sulla scogliera e la Land Rover presidenziale scese a tutto gas giù per la strada tortuosa, con la bandierina che sventolava allegra sul cofano. Si aprì la strada tra la folla e depositò sul molo il grand'uomo. Prima dell'indipendenza, Godfrey Biddle era stato l'unico avvocato di Saint Mary, nato sull'isola ed educato a Londra. «Signor Harry, che magnifico esemplare» esclamò in estasi. Un pesce del genere avrebbe dato impulso alla nascente attività turistica di Saint Mary e lui venne a stringermi la mano. Rispetto al livello medio dei presidenti di questa parte del mondo, era il primo della classe. «Grazie, signor presidente.» Con tutto il feltro nero in testa, mi arrivava appena all'ascella. Era una sinfonia in nero, abito di lana nera e scarpe di vernice, la pelle del colore dell'antracite lucida e un solo ciuffo di capelli, di un bianco incredibile, che gli si arricciavano alle orecchie. «Bisogna proprio farle le congratulazioni.» Il presidente Biddle saltellava eccitato, e io capii che anche per questa stagione avrei cenato al palazzo del Governo nelle serate di ricevimento. C'era voluto un anno o due, ma alla fine il presidente mi aveva accettato come se fossi nativo dell'isola. Ero uno dei suoi ragazzi, con tutti i privilegi speciali che questa posizione comportava. Arrivò anche Fred Coker sul suo carro funebre, ma armato dell'attrezzatura fotografica, e mentre sistemava il treppiede e spariva sotto il panno nero per mettere a fuoco la macchina fotografica antidiluviana, ci piazzammo per lui accanto alla colossale carcassa. Chuck in mezzo con la canna, e tutti noi raggruppati intorno, la braccia incrociate come una squadra di calcio. Angelo e io sorridevamo, e Chubby fissava l'obiettivo con un cipiglio terribile. La fotografia avrebbe fatto un bell'effetto nel mio nuovo dépliant pubblicitario... equipaggio leale e capitano intrepido, con i riccioli che spuntavano dal berretto e i peli dall'apertura della camicia, tutto muscoli e sorrisi... li avrebbe attirati a frotte, per la prossima stagione. Diedi disposizioni perché il pesce fosse conservato nella cella frigorifera, giù al deposito di esportazione degli ananas. L'avrei consegnato alla Rowland Wards di Londra per farlo imbarcare col prossimo carico di merci refrigerate. Poi lasciai ad Angelo e Chubby l'incarico di tirare a lucido i ponti del "Dancer", fare rifornimento
al bacino della Shell e portarlo all'ormeggio. Mentre Chuck e io ci arrampicavamo nella cabina del mio vecchio furgoncino Ford tutto ammaccato, Chubby ci affiancò come un informatore alle corse, parlando a fior di labbra con aria misteriosa. «Harry, a proposito del premio straordinario...» Sapevo bene cosa stava per chiedermi, la scena si ripeteva ogni volta. «La signora Chubby non deve saperlo, vero?» finii per lui. «Proprio così» ammise con aria lugubre, spingendo indietro sulla testa il berretto sudicio. Misi Chuck a bordo dell'aereo alle nove del mattino seguente e per tutta la strada di ritorno cantai, suonando il clacson del furgoncino alle ragazze dell'isola che lavoravano nelle piantagioni di ananas. Loro si raddrizzavano con ampi sorrisi smaglianti sotto la tesa dei larghi cappelli di paglia e agitavano la mano. All'agenzia di viaggi Coker cambiai i travellers' cheques, mercanteggiando sul tasso di cambio con Fred Coker. Era in pompa magna, marsina e cravatta nera. A mezzogiorno aveva un funerale. Messi da parte macchina fotografica e treppiede, da fotografo si trasformava in impresario di pompe funebri. L'impresa di Coker si trovava nel retro dell'agenzia di viaggi, e Fred usava il carro funebre per andare a prendere i turisti all'aeroporto, premurandosi di cambiare prima il cartello pubblicitario sul veicolo e d'inserire i sedili sulla rotaia destinata alle bare. Io mi servivo di lui per ottenere tutte le prenotaclienti e lui si ritagliava dai miei travellers' cheques una fetta del dieci per cento. Gestiva anche l'agenzia di assicurazioni e dedusse il premio annuo per il "Dancer" prima di completare con cura il conto. Io ricontrollai i conti con altrettanta cura perché, sebbene Fred abbia l'aspetto di un maestro di scuola, alto, sottile e compassato, con quel tanto di sangue isolano sufficiente a garantirgli una sana abbronzatura integrale, conosce tutti i trucchi del manuale e anche qualcuno che non è ancora stato messo per iscritto. Lui attese con pazienza mentre contavo, senza offendersi, e quando ficcai il rotolo di banconote nella tasca posteriore, il suo pince-nez d'oro scintillò mentre mi raccomandava con un tono da padre affezionato: «Non si scordi che c'è un gruppo di clienti in arrivo domani, signor Harry». «Va bene, signor Cocker, non si preoccupi, la mia ciurma sarà in gran forma.» «Sono già al Lord Nelson» mi avvertì con tatto. Fred controlla saldamente il polso dell'isola. «Signor Coker, io comando un battello da noleggio, non una società di temperanza. Non si preoccupi» ripetei, alzandomi. «Nessuno è mai morto per i postumi di una sbornia.» Attraversai Drake Street diretto all'emporio di Edward, dove ricevetti un'accoglienza da eroe. "Ma" Eddy in persona uscì da dietro il banco e mi strinse in un abbraccio sul suo petto caldo e sodo. «Signor Harry» tubò, schioccandomi un bacio «sono andata giù al molo per vedere il pesce che lei ha appeso ieri.» Poi si girò, continuando a tenermi stretto, e gridò a una delle sue commesse: «Shirley, adesso porti al signor Harry una bella birra gelata, capito?». Io tirai fuori il malloppo. Le graziose piccole ragazze isolane pigolarono come passeri quando lo videro e "Ma" Eddy roteò gli occhi e mi strinse più forte. «Quanto le devo, signora Eddy?» Da giugno a novembre c'è una lunga stagione morta in cui i pesci non risalgono la corrente e "Ma" Eddy mi aiuta a superare quei tempi magri. Mi appoggiai al bancone, scegliendo dagli scaffali le merci che mi servivano e sbirciando le gambe delle ragazze mentre si arrampicavano sulle scalette per tirarle giù... il vecchio Harry si sentiva vispo come un fringuello, con quel grosso rotolo di verdoni nella tasca posteriore. Quindi scesi al bacino della Shell, e il direttore mi venne incontro sulla porta del suo ufficio, tra i grandi serbatoi argentei di carburante. «Santo cielo, Harry, è tutta la mattina che la aspetto. La sede centrale fa il diavolo a quattro per il suo conto.»
«L'attesa è finita, fratello» gli assicurai. Ma la mia barca, come quasi tutte le belle donne, è un'amante costosa, e quando risalii sul furgoncino il rotolo nella mia tasca aveva subito un fiero salasso. Alla birreria all'aperto del Lord Nelson mi aspettavano. L'isola è molto fiera dei suoi rapporti con la Royal Navy, per quanto non sia più un possedimento britannico, ma vanti un'indipendenza che data da sei anni; tuttavia nei due secoli precedenti era stato uno scalo regolare della flotta inglese. Vecchie stampe di artisti morti da tempo decoravano il bar, ritraendo le grandi navi che risalivano bordeggiando il canale o si cullavano nel porto grande, lungo il molo dell'Ammiragliato: guerrieri e mercanti della Compagnia delle Indie vi avevano fatto rifornimento di viveri e si erano rimessi in forze prima della lunga corsa a sud del Capo di Buona Speranza, verso l'Atlantico. Saint Mary non ha mai dimenticato il suo posto nella storia, né gli ammiragli e le navi possenti che vi erano approdati. Il Lord Nelson è una parodia dell'antica grandezza, ma la sua eleganza decaduta e logora e i suoi legami col passato mi attirano più della torre di vetro e acciaio che Hilton ha eretto sul promontorio che sovrasta il porto. Chubby e sua moglie sedevano fianco a fianco sulla panchetta lungo la parete di fondo, tutti e due con gli abiti della domenica. Era questo il modo più facile per distinguerli: il fatto che Chubby portasse il vestito col gilet che si era fatto cucire per il matrimonio, coi bottoni tesi sulla giacca, che sbadigliava e in testa il berretto macchiato di cristalli di sale e sangue di pesce, mentre sua moglie indossava un abito nero di lana pesante, reso verdastro dall'età, e ai piedi stivaletti abbottonati. Per il resto i loro visi color mogano scuro erano quasi identici, per quanto Chubby fosse rasato di fresco e lei avesse un accenno di baffi. «Salve, signora Chubby, come va?» le chiesi. «Bene, grazie, signor Harry.» «Allora, desidera prendere qualcosa?» «Magari un po' di gin all'arancia, signor Harry, con un goccio di birra amara per mandarlo giù.» Mentre lei sorseggiava il liquore dolce, io contai nelle sue mani il salario di Chubby e le sue labbra si mossero mentre contava silenziosamente all'unisono. Chubby osservava con ansia e io mi chiesi per l'ennesima volta come avesse fatto in tutti quegli anni a ingannarla sulla gratifica straordinaria. «Allora me ne vado, signor Harry.» La signora Chubby si alzò con aria maestosa e veleggiò fuori del cortile. Io attesi che svoltasse in Frobisher Street prima di allungare sotto il tavolo a Chubby il piccolo fascio di banconote, e poi entrammo insieme nella sala interna. Angelo aveva due ragazze ai lati e una in grembo. La sua camida nera di seta era aperta fino alla fibbia della cintura, scoprendo i muscoli lucenti del torace. I pantaloni di tela gli aderivano come una seconda pelle, non lasciando alcun dubbio sul suo sesso, e gli stivaletti erano da cow-boy, lavorati a mano e lucidati a specchio. Si era passato la brillantina sui capelli lisciandoli all'indietro, nello stile del giovane Presley. Fece lampeggiare il suo sorriso attraverso la sala come un riflettore e quando lo pagai ficcò una banconota nella scollatura a ogni ragazza. «Su, Eleanor, va' a sederti sulle ginocchia di Harry, ma sta' attenta, mi raccomando. Harry è vergine... trattalo bene, capito?» Scoppiò in una risatina deliziata e si rivolse a Chubby. «Ehi, Chubby, piantala di sghignazzare così tutto il tempo, amico! E' stupido star sempre a ridere come uno scemo.» Il cipiglio di Chubby s'incupì, tutto il suo viso si raggrinzì in una rete di pieghe e rughe, come il muso di un bulldog. «Ehi, signor barista, ora dai qualcosa da bere al vecchio Chubby. Forse lui la smetterà di prenderci in giro, ridacchiando a quel modo.» Alle quattro di quel pomeriggio Angelo aveva liquidato le ragazze e se ne stava seduto col bicchiere di fronte a sé sul ripiano del tavolo. Vicino c'era il suo coltello per le esche, affilato come la lama di un rasoio e scintillante in modo sinistro sotto le luci. Lui borbottava cupo fra sé, sprofondato nella malinconia dell'alcool. Ogni tanto
saggiava col pollice il filo del coltello e squadrava la sala con sguardo fiero. Nessuno gli faceva caso. Chubby sedeva dall'altra parte e sorrideva come un grosso rospo bruno, mettendo in mostra una fila di enormi denti bianchissimi dalle gengive di plastica rosa. «Harry» mi diceva con aria espansiva, il braccio muscoloso passato intorno al mio collo. «Sei un gran bravo ragazzo, Harry. Lo sai, Harry, ora ti dirò una cosa che non ti ho mai detto prima.» Annuì con aria saggia preparandosi alla dichiarazione che mi faceva tutti i giorni di paga. «Harry, ti voglio bene, amico. Ti voglio bene più che a mio fratello.» Io sollevai il berretto macchiato e accarezzai leggermente la cupola bruna e calva della sua testa. «E tu sei la mia bionda al platino preferita» gli dissi. Lui mi tenne per un attimo a distanza di un braccio, studiando il mio viso, poi scoppiò a ridere con un ruggito. La sua risata era terribilmente contagiosa e ridevamo ancora tutti e due, quando Fred Coker entrò e si sedette al nostro tavolo. Si aggiustò il pince-nez e disse con aria sostenuta: «Signor Harry, ho appena ricevuto un espresso da Londra. Il suo cliente ha disdetto la prenotazione». Smisi di ridere. «Che diavolo!» esclamai. Due settimane senza lavoro nel bel mezzo dell'alta stagione e solo duecento pidocchiosi dollari di caparra. «Signor Coker, deve trovarmi dei clienti.» Mi erano rimasti in tasca appena tremila dollari del noleggio di Chuck. «Deve trovarmi dei clienti» ripetei, e Angelo prese il coltello e con uno scatto conficcò a fondo la punta nel ripiano del tavolo. Nessuno gli badò, e lui si guardò intorno con aria corrucciata. «Ci proverò» disse Fred Coker. «Ma ormai è un po' tardi.» «Telegrafi ai clienti che abbiamo dovuto respingere.» «Chi pagherà i telegrammi?» chiese Fred. «All'inferno, pagherò io.» E lui annuì, uscendo. Fuori sentii il carro funebre mettersi in moto. «Non preoccuparti, Harry» disse Chubby. «Ti voglio sempre bene, amico.» A un tratto Angelo si addormentò. Cadde in avanti e batté la fronte sul tavolo con uno schianto che risuonò nel locale. Gli girai la testa in modo che non affogasse nella pozza di liquore versato, gli rimisi il coltello nel fodero e presi in consegna il suo rotolo di banconote per proteggerlo dalle ragazze che si aggiravano nei dintorni. Chubby ordinò un altro giro, e cominciò a biascicare una cantilena senza capo né coda nel gergo dell'isola, mentre io restavo lì seduto a preoccuparmi. Ancora una volta mi trovavo sull'orlo del disastro finanziario. Dio sa quanto odio il denaro... o piuttosto la sua mancanza. Quelle due settimane potevano decidere se il "Dancer" e io saremmo sopravvissuti alla stagione morta tenendo fede ai nostri buoni propositi. Sapevo che non sarebbe stato possibile. Sapevo che saremmo tornati ai viaggi notturni. Al diavolo, se dovevamo farlo, tanto valeva farlo adesso. Avrei passato parola che Harry era pronto a trattare. Presa quella decisione, sentii di nuovo quel piacevole tendersi dei nervi, la sensazione istintiva che si accompagna al pericolo. Le due settimane di prenotazione annullata non sarebbero andate sprecate, dopo tutto. Mi unii a Chubby nel canto, non troppo sicuro che si trattasse della stessa melodia, perché mi ritrovavo alla fine di ogni ritornello in anticipo su Chubby. Probabilmente fu questo numero musicale a richiamare la legge A Saint Mary questa assume la forma di un ispettore e quattro agenti, il che è più che sufficiente per l'isola. A parte un buon numero di "rapporti carnali con minorenni" e qualche caso di percosse alle mogli, non si verificano crimini degni di questo nome. L'ispettore Peter Daly era un giovanotto con i baffi biondi, il colorito inglese sulle guance lisce e occhi celesti ravvicinati come quelli di un topo di fogna. Portava l'uniforme della polizia coloniale inglese, il berretto col distintivo d'argento e la visiera di vernice, la divisa di tela kaki inamidata e stirata al punto da scricchiolare
leggermente quando camminava, il cinturone di cuoio lucido con le bandoliere incrociate. Impugnava un frustino da ufficiale, coperto anche quello di cuoio lucido. A parte le spalline gialle e verdi di Saint Mary, pareva incarnare l'orgoglio dell'Impero, ma come l'Impero anche gli uomini che indossavano l'uniforme erano decaduti. «Fletcher» esordì torreggiando sul nostro tavolo e facendo schioccare piano il frustino sul palmo della mano. «Spero di non avere noie, stasera.» «Signor Fletcher» gli suggerii. L'ispettore Daly e io non eravamo mai stati amici... non mi piacciono i prepotenti e i tipi che trovandosi in posti di fiducia arrotondano un salario perfettamente adeguato con bustarelle e tangenti. In passato mi aveva alleggerito di una buona parte dei miei sudati guadagni, macchiandosi così di un peccato imperdonabile. La bocca gli s'indurì sotto i baffi biondi e il suo colorito si accese subito. «Signor Fletcher» ripeté di malagrazia. Ora, è vero che una volta o due, in un lontano passato, Chubby e io avevamo dato sfogo a un eccesso di esuberanza giovanile dopo aver portato a riva un grosso pesce; ciò nonostante questo non offriva all'ispettore Daly nessuna scusa per parlare in quel tono. Dopo tutto era un semplice immigrato trattenuto sull'isola da un contratto triennale... che come sapevo dal presidente in persona, non sarebbe stato rinnovato. «Ispettore, sono nel giusto se ritengo che questo è un luogo pubblico e che né i miei amici né io stiamo commettendo un'infrazione?» «E' così.» «Sono nel giusto anche pensando che cantare canzoni melodiose e decenti in luogo pubblico non costituisce reato?» «Be', questo è vero, ma...» «Ispettore, se ne vada» gli dissi in tono cordiale. Lui esitò, guardando Chubby e me. Fra tutt'e due facevamo una bella montagna di muscoli e lui dovette scorgere il sacrilego lampo bellicoso nei nostri occhi. Si capiva che avrebbe voluto avere con sé i suoi agenti. «Vi terrò d'occhio» assicurò, e stringendosi addosso i resti della sua dignità come un mendicante i suoi cenci, si allontanò. «Chubby, canti come un angelo» gli dissi, e lui mi guardò raggiante. «Harry, voglio pagarti da bere.» E Fred Coker arrivò in tempo per essere incluso nel giro. Bevve birra chiara con succo di cedro, il che mi dava un po' la nausea, ma le notizie che portava costituirono un antidoto efficace. «Harry, le ho trovato dei clienti.» «Signor Coker, la adoro.» «Anch'io le voglio bene» affermò Chubby, ma in fondo in fondo io sentii una punta di delusione. Avevo pregustato un'altra corsa notturna. «Quando arrivano?» chiesi. «Sono già qui... mi aspettavano in ufficio quando sono rientrato.» «Non faccia scherzi.» «Sapevano che il suo primo noleggio era stato annullato e hanno chiesto proprio di lei. Devono essere arrivati sullo stesso aereo dell'espresso.» In quel momento i miei riflessi dovevano essere un po' appannati dall'alcool, altrimenti avrei riflettuto un istante sulla felice combinazione per cui un cliente si era ritirato e gli era subentrato un altro. «Alloggiano all'Hilton.» «Vogliono che li vada a prendere?» «No, la incontreranno al molo dell'Ammiragliato domani mattina alle dieci in punto.» Mi rallegrai che i clienti avessero fissato l'ora di partenza così tardi. Quella mattina l'equipaggio del Dancer era composto di zombie. Angelo gemeva e assumeva un color cioccolato chiaro ogni volta che si chinava per addugliare un cavo o sistemare le canne, e Chubby per poco non trasudava alcool e aveva un'espressione sinceramente terrificante. Non aveva detto una parola in tutta la mattina. Neanch'io mi sentivo molto allegro. Il "Dancer" era accostato al molo
e io stavo appoggiato al parapetto del ponte di comando, sugli occhi il paio di Polaroid più scuro che avevo e anche se il cuoio capelluto mi prudeva non osavo togliermi il berretto, per paura che la sommità del cranio potesse partire insieme con quello. L'unico taxi dell'isola, una Citroën del '62, scese lungo Drake Street e si fermò in cima al molo per scaricare i miei clienti. Erano in due, e io me ne aspettavo tre, Coker aveva detto senz'altro tre. Percorsero il lungo molo pavimentato di pietra, camminando fianco a fianco, e io mi raddrizzai lentamente, osservandoli. Sentii il mio malessere dileguarsi nel regno dell'irrilevante cedendo di nuovo il passo alla percezione istintiva del pericolo, quel lento aggrovigliarsi e tendersi delle viscere, e il lieve formicolio lungo le braccia e alla nuca. Uno era alto e camminava con l'andatura agile e sciolta dell'atleta professionista. Era senza cappello e i suoi capelli erano rosso chiaro, pettinati con cura su una testa prematuramente calva, tanto che s'intravedeva il cuoio capelluto roseo. Tuttavia era snello di vita e di fianchi ed era all'erta. Era l'unico termine adatto a descrivere il senso di prontezza che emanava da lui. Bisogna essere simili per riconoscersi. Questo era un uomo allenato a vivere in mezzo alla violenza. Era il braccio, un "soldato", in gergo. Non importava da quale lato della barricata esercitasse i suoi talenti... se a difesa della legge o a suo detrimento... portava pessime notizie. Avevo sperato di non vedere mai questo genere di barracuda incrociare nelle placide acque di Saint Mary. Sapere che mi avevano ritrovato mi procurò un lieve attacco di nausea. Lanciai una rapida occhiata all'altro uomo; in lui non era tanto evidente, il filo della lama era un po' smussato, il profilo sfocato dal tempo e dal grasso superfluo, ma anche lui portava cattive notizie. "Che bella prospettiva, Harry" dissi a me stesso con amarezza. "Tutto questo, e per giunta un'emicrania coi fiocchi." Ora mi rendevo conto chiaramente che l'uomo più anziano era il capo. Camminava avanti di mezzo passo, un tangibile segno di rispetto da parte dell'uomo più alto e più giovane. Era di qualche anno più vecchio anche di me; probabilmente si avviava verso i quaranta. Sopra la cintura di coccodrillo aveva un accenno di pancia e rotoli di carne lungo la linea della mascella, ma i capelli erano tagliati nello stile di Bond Street e indossava una camicia di seta e mocassini di Gucci. Mentre percorreva il molo si tamponò il mento e il labbro superiore con un fazzoletto bianco e io valutai sui due carati il diamante che portava al mignolo. Era incastonato in un semplice anello d'oro e l'orologio da polso era d'oro anche quello, probabilmente un Lanvin o un Piaget. «Fletcher?» chiese, fermandosi sotto di me sul molo. Aveva gli occhi neri, piccoli e sporgenti, come quelli di un furetto. Occhi da rapace, che brillavano senza calore. Vidi che era più vecchio di quanto avessi creduto, perché i capelli erano certamente tinti per nascondere il grigio. La pelle delle guance era tesa in modo innaturale e scorsi le cicatrici della plastica all'attaccatura dei capelli. Si era fatto un lifting al viso, quindi era un uomo che teneva molto alla sua persona. Poteva essere un'informazione utile. Era un vecchio soldato, salito dai ranghi a una posizione di comando. Lui era la mente e l'uomo che lo seguiva era il braccio. Qualcuno aveva mandato quaggiù una squadra al completo, e in un lampo di intuizione capii perché i miei clienti originari avessero disdetto la prenotazione. Una telefonata seguita dalla visita di quella coppia avrebbe fatto passare per sempre al cittadino medio la voglia di dedicarsi alla pesca del marlin. Probabilmente si erano fatti male nella fretta di disdire la prenotazione. «Materson? Salga pure a bordo.» Una cosa era certa, non erano venuti a pescare, e decisi di defilarmi con prudenza finché non avessi calcolato i rischi, così aggiunsi in ritardo un: «... signore». Il tipo muscoloso saltò sul ponte, atterrando con la leggerezza di un gatto, e dal modo in cui la giacca ripiegata sul braccio ondeggiò capii che nella tasca c'era qualcosa di pesante. Lui squadrò il mio
equipaggio, spingendo in fuori le mascelle e passandolo rapidamente in rassegna. Angelo sfoggiò una versione annacquata del suo celebre sorriso e si toccò la tesa del berretto. «Benvenuto, signore.» E il cipiglio di Chubby si rischiarò per un attimo mentre lui borbottava qualcosa che pareva un'imprecazione, ma doveva essere un saluto caloroso. L'uomo li ignorò e si voltò per aiutare Materson a scendere sul ponte, dove lui rimase in attesa mentre la sua guardia del corpo ispezionava la cabina principale del "Dancer". Quindi entrò e io lo seguii. La nostra sistemazione è lussuosa, a centoventicinquemila bigliettoni non potrebbe non esserlo. Il condizionatore d'aria aveva attenuato la morsa dell'afa mattutina; Materson sospirò di sollievo e si asciugò di nuovo col fazzoletto, sprofondando in uno dei sedili imbottiti. «Questo è Mike Guthrie.» Indicò il tipo muscoloso che si muoveva per la cabina, controllando gli oblò, aprendo sportelli, per farla breve interpretando con zelo eccessivo la sua parte di duro. «Piacere, signor Guthrie.» Io gli sorrisi sfoderando tutto il mio fascino giovanile e lui agitò la mano con disinvoltura senza nemmeno guardarmi. «Qualcosa da bere?» chiesi, aprendo l'armadietto dei liquori. Loro presero una Coca-Cola a testa, ma io avevo bisogno di un rimedio contro lo choc e i postumi della sbornia. Il primo sorso di birra fredda dalla lattina mi fece rivivere. «Be', signori, penso di potervi offrire dello svago. Proprio ieri ho catturato un magnifico pesce e tutti gli indizi sono per una buona stagione.» Mike Guthrie si fermò davanti a me e mi fissò diritto in faccia. Aveva gli occhi screziati di marrone e verde chiaro, come un tweed tessuto a mano. «Non ci conosciamo?» chiese. «Non credo di aver mai avuto il piacere.» «Lei è di Londra, vero?» Aveva riconosciuto l'accento. «Ho lasciato Blighty parecchio tempo fa, amico» risposi con un largo sorriso. Lui si lasciò cadere sul sedile di fronte a me, le mani posate sul tavolo fra noi, allargando le dita col palmo rivolto in giù. Continuava a fissarmi. Un tipetto piuttosto duro, davvero coriaceo, l'amico. «Temo che per oggi sia troppo tardi» seguitai a blaterare senza scoraggiarmi. «Se vogliamo pescare nel canale di Mozambico dobbiamo uscire dal porto verso le sei. Comunque, domani possiamo partire presto...» Materson interruppe la mia tiritera. «Dia uno sguardo a quella lista, Fletcher, e ci faccia sapere che cosa le manca.» Mi tese un foglio ripiegato di carta formato protocollo e io abbassai gli occhi sulle righe scritte a mano. Era tutta attrezzatura per immersioni e apparecchiature da recupero. «Allora i signori non sono interessati alla pesca d'altura?» Il vecchio Harry mostrava sorpresa e stupore di fronte a un'eventualità tanto improbabile. «Siamo venuti a fare una piccola esplorazione... questo è tutto.» Mi strinsi nelle spalle. «Voi pagate, noi facciamo quello che volete.» «Ha tutta quella roba?» «Quasi tutta.» Nella stagione morta gestisco una piccola impresa di attrezzature subacquee di seconda mano che mi aiuta a pagare le spese. Avevo un assortimento completo di mute e nella sala macchine del "Dancer" c'era un compressore d'aria per ricaricare le bombole. «Non ho i galleggianti né tutte quelle funi...» «Può procurarsele?» «Sicuro.» "Ma" Eddy aveva un ottimo assortimento di attrezzature marinare e il padre di Angelo era un fabbricante di vele. Poteva confezionare i galleggianti in un paio d'ore. «Bene, allora lo faccia.» Annuii. «Quando volete cominciare?» «Domani mattina. Ci sarà un'altra persona con noi.» «Il signor Coker vi ha detto che sono cinquecento dollari al giorno... e che dovrò mettervi in conto questa attrezzatura extra?» Materson inclinò la testa e fece il gesto di alzarsi.
«Si potrebbero vedere un po' di quattrini in anticipo?» chiesi piano, e loro rimasero di ghiaccio. Io sorrisi con aria accattivante. «E' stato un inverno duro e lungo, signor Materson, devo comperare questa roba e riempire di carburante i serbatoi.» Materson tirò fuori il portafoglio e contò trecento sterline in biglietti da cinque. Nel frattempo disse con la sua voce dolce da gatto che fa le fusa: «Non ci serve l'equipaggio, Fletcher. Noi tre la aiuteremo a governare la barca». Fui preso in contropiede. Questo non me l'ero aspettato. «Dovranno ricevere il salario completo, se li lascio a terra. Non posso ridurre la tariffa.» Mike Guthrie era ancora seduto di faccia a me, e ora si chinò in avanti. «Ha sentito, Fletcher? Sbarchi i suoi negri senza tante storie» disse piano. Ripiegai con cura il fascio di banconote da cinque, che chiusi nel taschino, poi lo guardai. Fu molto pronto, lo vidi tendersi e per la prima volta in quegli occhi screziati affiorò un'espressione. Era di attesa. Sapeva di aver colpito nel segno e pensava che volessi metterlo alla prova. Lo desiderava. Non vedeva l'ora di farmi a pezzi. Lasciò le mani sul tavolo, palme in giù, dita allargate. Pensai che avrei potuto afferrare il mignolo di ciascuna e spezzarlo alla seconda falange come un paio di crackers al formaggio. Sapevo che avrei potuto farlo prima che avesse la possibilità di muoversi e saperlo mi dava un gran piacere, perché ero furioso. Non ho molti amici, ma apprezzo i pochi che ho. «Mi ha sentito?» sibilò Guthrie, e io riesumai il mio sorriso da ragazzo ingenuo e lo inalberai a mezz'asta, con un effetto ridicolo. «Sissignore, signor Guthrie» dissi. «E' lei che paga... come desidera.» Per poco quelle parole non mi restarono di traverso in gola. Lui si rilassò sul sedile e vidi che era deluso. Era un soldato e il suo lavoro gli piaceva. Credo di aver capito allora che lo avrei ammazzato e da quel pensiero ricavai abbastanza soddisfazione da permettermi di mantenere inalterato il sorriso. Materson ci osservava con i suoi occhietti vivaci. Il suo interesse era distaccato e clinico, come quello di uno scienziato che studia un paio di cavie. Vide che per ora il confronto si era risolto e la sua voce ridivenne dolce e ronzante. «Benissimo, Fletcher.» Attraversò il ponte. «Metta insieme quell'attrezzatura e si prepari a salpare alle otto di domattina.» Li lasciai andare e mi sedetti a finire la birra. Forse erano solo i postumi della sbornia, ma cominciavo ad avere sinistri presentimenti su quell'affare e mi accorsi che dopo tutto forse era meglio lasciare a terra Chubby e Angelo. Uscii ad avvertirli. «Abbiamo un paio di tipi strani, mi spiace ma hanno un grosso segreto e non vi vogliono fra i piedi.» Collegai le bombole al compressore per farle riempire e lasciammo il "Dancer" al molo, mentre io facevo un salto da "Ma" Eddy, e loro portavano il mio schizzo dei galleggianti alla bottega del padre di Angelo. I galleggianti furono pronti per le quattro, io li caricai sulla Ford e li riposi nell'armadietto delle vele sotto i sedili del quadrato di poppa. Poi passai un'ora a smontare e rimontare le valvole di alimentazione delle bombole e a controllare il resto dell'attrezzatura. Al tramonto riportai da solo il "Dancer" all'ormeggio e stavo per tornare a riva col canotto quando mi venne un'idea luminosa. Tornai nella cabina e aprii il portello della sala macchine. Presi dal nascondiglio la carabina FN, inserii una cartuccia nella culatta, la predisposi per il fuoco automatico e feci scattare la sicura prima di riappenderla ai ganci. Prima di sera presi la mia vecchia rete da lancio e guadai la laguna fino alla barriera. Vidi mulinelli e guizzi sotto la superficie dell'acqua, che il sole al tramonto aveva brunito fino a un color rame, e mandai la rete a roteare in alto con un'oscillazione delle spalle e delle braccia. Si gonfiò come un paracadute e ricadde in un ampio circolo sul branco di cefali striati. Quando tirai il cavo di
trazione e chiusi la rete su di loro, c'erano cinque grossi pesci argentei, lunghi come il mio avambraccio, che guizzavano e pulsavano fra le ruvide pieghe umide. Ne arrostii due sulla griglia e li mangiai sulla veranda della mia capanna. Erano più saporiti di una trota di montagna e dopo cena mi versai un altro whisky restando seduto al buio. Di solito questa è l'ora del giorno in cui l'isola m'infonde un gran senso di pace e mi pare di capire quale sia il significato della vita. Ma quella sera non fu così. Mi faceva rabbia che quella gente fosse arrivata sull'isola portando con sé il suo particolare tipo di veleno per contaminarci. Cinque anni prima ero fuggito da tutto questo, credendo di aver trovato un rifugio sicuro. Eppure, a voler essere onesto con me stesso, sotto la collera riconoscevo anche l'eccitazione, un'eccitazione piacevole. Di nuovo quella sensazione istintiva, la percezione di essere ancora una volta nella mischia. Non sapevo ancora con certezza quale fosse la posta, ma capivo che era alta e che ero rientrato nel gioco forte. Adesso, ero di nuovo sul sentiero dell'illegalità. Lo stesso che avevo scelto a diciassette anni, quando avevo deciso deliberatamente di rifiutare la borsa di studio per l'università che mi era stata assegnata. Me l'ero data a gambe dall'orfanotrofio di Saint Stephen, nella zona nord di Londra, e avevo mentito sulla mia età per imbarcarmi su una baleniera diretta verso l'Antartico. Laggiù, ai confini del mondo di ghiaccio, avevo perso gli ultimi residui d'interesse per la vita accademica. Quando il denaro che avevo guadagnato nel sud si era esaurito, mi ero arruolato in un battaglione dei servizi speciali dove avevo appreso che la violenza e la morte improvvisa si possono praticare come un'arte. Avevo esercitato quell'arte in Malacca e nel Vietnam e più tardi nel Congo e nel Biafra... finché, a un tratto, un giorno, in un remoto villaggio della giungla, mentre le capanne di paglia bruciavano levando colonne di fumo catramoso in un cielo vuoto, d'ottone, e le mosche ronzavano sui morti in sciami bluastri, mi ero sentito sopraffare dalla nausea fino in fondo all'anima. Volevo uscirne. Nell'Atlantico del Sud avevo imparato ad amare l'oceano e ora volevo un posto sulla riva del mare, con una barca e un po' di pace nelle lunghe sere. Prima di tutto mi serviva il denaro per comperare tutto questo... molto denaro... tanto che l'unico modo per procurarmelo era mettere a frutto la mia arte. Ancora un'ultima volta, avevo pensato, e l'avevo progettata con estrema cura. Avevo bisogno di un assistente e avevo scelto un uomo che avevo conosciuto nel Congo. In due avevamo trafugato tutta la collezione di monete d'oro del British Museum of Numismatology di Belgrave Square. Tremila rare monete d'oro che entravano alla perfezione in una borsa portadocumenti di medie dimensioni, monete dei Cesari romani e degli imperatori di Bisanzio, degli antichi Stati d'America e dei re inglesi... fiorini e "leopardi" di Edoardo Terzo, "nobili" degli Enrico e "angeli" di Edoardo Quarto, triple sovrane e monete dell'unione di Giacomo Primo, "corone della rosa" del regno di Enrico Ottavo e pezzi da cinque ghinee di Giorgio Terzo e della regina Vittoria... tremila monete che anche a svenderle valevano non meno di due milioni di dollari. Era stato allora che avevo commesso il mio primo errore da criminale professionista. Mi ero fidato di un altro criminale. Incontrandomi con il mio assistente in un albergo arabo di Beirut avevo sostenuto con lui una discussione piuttosto vivace e quando alla fine gli avevo chiesto che cosa avesse fatto della borsa di monete, lui aveva estratto da sotto il materasso una Beretta .38. Nella colluttazione, si era spezzato l'osso del collo. Era stato un errore. Non avevo intenzione di ucciderlo... ma, d'altra parte, desideravo ancor meno che mi uccidesse lui. Avevo appeso sulla porta il cartello "Non disturbare" ed ero saltato sul primo aereo in partenza. Dieci giorni dopo, la polizia aveva trovato la valigetta con le monete nel deposito dei bagagli della stazione di Paddington. La notizia era comparsa sulla prima pagina di tutti i giornali nazionali. Avevo tentato di nuovo il colpo a un'esposizione di diamanti ad
Amsterdam, ma le mie ricerche sul sistema di allarme elettronico erano risultate insufficienti ed ero incappato in una cellula fotoelettrica imprevista. Le guardie di sicurezza in borghese ingaggiate dagli organizzatori della mostra si erano lanciate a testa bassa contro i poliziotti in divisa che entravano dall'ingresso principale e ne era seguito uno scontro a fuoco spettacolare, mentre Harry Fletcher, completamente disarmato, se la svignava nella notte accompagnato dal suono di grida e spari. Ero già arrivato a metà strada dall'aeroporto di Schipol quando era stato proclamato il cessate il fuoco fra le opposte forze della legge... ma non prima che un sergente della polizia olandese ricevesse una grave ferita al torace. Ero rimasto seduto a mangiarmi le unghie per l'ansia e a bere innumerevoli birre nella mia stanza all'Holiday Inn, presso l'aeroporto di Zurigo, seguendo al televisore la lotta per la vita del valoroso sergente. Detestavo l'idea di avere sulla coscienza un'altra vittima e avevo fatto voto solenne che se il poliziotto fosse morto avrei messo per sempre una croce sul mio posto al sole. Invece il sergente olandese se l'era cavata benissimo, e io avevo provato un enorme senso di orgoglio quando finalmente era stato dichiarato fuori pericolo. E quando era stato promosso vice ispettore e aveva ottenuto una gratifica straordinaria di cinquemila corone, mi ero persuaso che io ero il suo genio benefico e l'uomo mi doveva eterna gratitudine. Con tutto ciò, ero ancora scosso dai due insuccessi e mi ero trovato un posto di istruttore per sei mesi alla Outward Bound School per riflettere sul mio futuro. Alla fine dei sei mesi mi ero deciso a fare un altro tentativo. Stavolta avevo svolto il lavoro preliminare con cura meticolosa. Ero emigrato in Sud Africa, dove con le mie referenze ero riuscito a ottenere un posto di agente nella ditta di sorveglianza responsabile delle spedizioni dei lingotti dalla South African Reserve Bank di Pretoria alle destinazioni oltremare. Avevo lavorato per un anno al trasporto di verghe d'oro che valevano centinaia di milioni di dollari, e avevo studiato il sistema fin nei minimi dettagli. Il punto debole, avevo scoperto, era a Roma... ma ancora una volta mi serviva aiuto. Stavolta mi ero rivolto a dei professionisti, ma avevo fissato il mio prezzo a un livello tale che diventava più facile pagarmi che sopprimermi e avevo preso almeno un centinaio di precauzioni contro un tradimento. Era filata liscia come avevo previsto e stavolta non c'erano state vittime. Non avevamo fatto altro che dirottare un carico e sostituirvi delle casse piombate. Poi avevamo trasferito due tonnellate e mezzo di verghe d'oro oltre il confine svizzero dentro un camion da traslochi. A Basilea, seduto nello studio privato di un banchiere, arredato con pezzi d'antiquariato di valore inestimabile con una splendida vista sull'ampio corso impetuoso del Reno, dove gli austeri cigni bianchi incedevano maestosi, avevo ricevuto la mia parte del bottino. Manny Resnick aveva firmato l'ordine di trasferimento sul mio conto numerato di centocinquantamila sterline e aveva riso, con la sua risata grassa e avida. «Ci ricascherai, Harry... ormai hai assaggiato il sangue e tornerai. Fatti una bella vacanza, poi torna da me quando avrai messo a punto un altro colpo del genere.» Aveva torto, non mi ero più fatto vivo. Ero andato a Zurigo con un'auto presa a nolo e di lì ero partito in volo per Parigi. Nella toilette di Orly mi ero sbarazzato della barba e avevo ritirato dal deposito la borsa che conteneva il passaporto intestato a Harold Delville Fletcher. Poi mi ero imbarcato su un volo della Pan Am per Sydney, in Australia. Il "Wave Dancer" mi era costato centoventicinquemila sterline e con la coperta stipata di barili di carburante l'avevo condotto fino a Saint Mary, con un viaggio di duemila miglia in cui avevamo imparato ad amarci. A Saint Mary avevo acquistato dieci ettari di pace e avevo costruito con le mie stesse mani un bungalow... quattro stanze, un tetto di paglia e un'ampia veranda, circondato dalle palme sulla spiaggia
bianca. A parte le occasioni in cui ero stato costretto a fare del contrabbando, da allora mi ero mantenuto sulla retta via. Quando i ricordi si esaurirono era ormai tardi e la marea saliva sulla spiaggia al chiaro di luna, ma poi dormii il sonno del giusto. La mattina dopo furono puntuali. Charly Materson guidava un gruppo efficiente. Il taxi li depositò in cima al molo mentre io tenevo il "Dancer" parallelo alla banchina, con i due motori che gorgogliavano dolcemente. Li osservai venire, concentrandomi sul terzo membro del gruppo. Non era quello che mi aspettavo. Era alto e snello, con un largo viso cordiale e morbidi capelli scuri. A differenza degli altri aveva il viso e le braccia abbronzati e i denti grandi e bianchissimi. Indossava calzoncini di tela jeans e una maglietta bianca sopra le ampie spalle slanciate e le braccia possenti da nuotatore. Capii all'istante chi avrebbe usato l'attrezzatura da immersione. Portava a tracolla una grossa sacca sportiva di tela verde. La portava senza sforzo, anche se mi accorsi che era pesante, e chiacchierava allegramente con i due compagni, che gli rispondevano a monosillabi. Lo affiancavano come un paio di guardie del corpo. Quando arrivarono alla mia altezza alzò gli occhi su di me e vidi che era giovane e impaziente. In lui c'era un'eccitazione, un'aspettativa che mi fecero pensare a me stesso dieci anni prima. «Salve» esclamò sorridendo, un largo sorriso facile e amichevole, e io mi accorsi che era un giovanotto straordinariamente attraente. «Salve» ribattei, trovandolo subito simpatico, incuriosito dalla sua presenza nel branco di lupi. Sotto la mia direzione salparono gli ormeggi e da questo breve esercizio appresi che il ragazzo era l'unico di loro che avesse familiarità con le barche di piccolo cabotaggio. Appena lasciammo il porto, lui e Materson salirono sul ponte di comando. Materson si era lievemente colorito e aveva il respiro irregolare per il leggero esercizio fisico. Presentò il nuovo venuto. «Questo è Jimmy» mi disse appena ebbe ripreso fiato. Ci stringemmo la mano e calcolai che non aveva superato di molto i vent'anni. A vederlo da vicino non ebbi motivo di correggere la mia impressione iniziale. Aveva uno sguardo franco e leale, occhi grigio-mare e una stretta salda e asciutta. «E' un gioiello di barca, comandante» mi disse, il che era più o meno come dire a una madre che il suo bambino è magnifico. «Non se la cava troppo male.» «Quanto è lunga... sui tredici metri?» «Tredici metri e settanta» risposi, apprezzandolo ancora di più. «Jimmy le darà le direttive» mi disse Materson. «Lei seguirà i suoi ordini.» «Bene» ribattei, e Jimmy arrossì un po' sotto l'abbronzatura. «Niente ordini, signor Fletcher, le dirò solo dove vogliamo andare.» «Bene, Jim, io vi ci porterò.» «Appena saremo al largo dell'isola, punti a ovest.» «Fin dove intendete arrivare, in quella direzione?» chiesi. «Vogliamo incrociare lungo la costa del continente africano» intervenne Materson. «Magnifico» esclamai. «Grandioso. Nessuno vi ha detto che laggiù non mettono fuori lo zerbino per dare il benvenuto agli estranei?» «Ce ne resteremo al largo.» Riflettei un istante, esitando, tentato di tornare al molo dell'Ammiragliato e sbarcare tutta la compagnia. «Dove volete andare... a nord o a sud della foce del fiume?» «A nord» rispose Jimmy, e questo modificò la proposta in meglio. A sud del fiume pattugliavano le coste con gli elicotteri ed erano molto permalosi in fatto di acque territoriali. Non mi ci sarei mai avventurato alla luce del giorno. A nord c'era una scarsa attività costiera. Esisteva una sola motovedetta, a Zinballa, ma quando i motori erano in grado di funzionare, il che si verificava per pochi giorni alla settimana, l'equipaggio era per lo più fuori combattimento a causa del potente liquore di palma distillato lungo la costa. Quando equipaggio e motori funzionavano all'unisono, potevano raggiungere al massimo quindici
nodi, mentre il "Dancer" poteva arrivare a venticinque ogni volta che glielo chiedevo. Il mio asso nella manica era che avrei potuto guidare il "Dancer" attraverso il labirinto di barriere coralline e di isole in una notte senza luna e nel pieno di un monsone, mentre sapevo per esperienza che il comandante della motovedetta evitava questa sorta di stravaganze. Anche in un giorno di sole e in piena bonaccia, preferiva la quiete e la pace della baia di Zinballa. Avevo sentito dire che soffriva terribilmente il mal di mare e ricopriva il suo incarico attuale solo perché lo teneva lontano dalla capitale, dove in qualità di ministro del governo era stato coinvolto in uno scandaletto relativo alla scomparsa di grosse somme di aiuti finanziari stranieri. Dal mio punto di vista, era l'uomo ideale per quell'incarico. «D'accordo» conclusi, rivolto a Materson. «Ma quanto mi chiedete vi costerà altri duecentocinquanta dollari al giorno. Un'indennità di rischio. «Lo temevo» ribatté lui piano. Portai il "Dancer" al largo, vicino al faro di Oyster Point. Era una mattinata limpida, con un cielo alto e sereno in cui le nuvole stazionarie che segnalavano la posizione di ogni gruppo di isole torreggiavano in grandi colonne soffici di un bianco accecante. Il solenne incedere degli alisei attraverso l'oceano era interrotto dal baluardo del continente africano sul quale s'infrangevano. Qui, nel canale interno, ne incontrammo lo strascico, e bufere saltuarie e colpi di vento improvvisi si avventarono cupi sulle acque verde pallido, spruzzando di bianco la superficie. Il "Dancer" se la godeva un mondo, trovava una scusa per dimenarsi e sculettare. «Cercate qualcosa di preciso... o state solo dando un'occhiata?» chiesi con fare disinvolto, e Jimmy si voltò per dirmi tutto. Fremeva di eccitazione e quando apri la bocca i suoi occhi grigi scintillavano. «Diamo solo un'occhiata» intervenne Materson con un campanello d'allarme nella voce e un espressione brusca di avvertimento, e la bocca di Jimmy si richiuse. «Conosco queste acque. Conosco ogni isola, ogni barriera. Potrei farvi risparmiare parecchio tempo... e un po' di denaro.» «E' molto gentile da parte sua» mi ringraziò Materson con pesante ironia. «Ma credo che sapremo cavarcela da soli.» «Siete voi che pagate.» Mi strinsi nelle spalle, e Materson lanciò un'occhiata a Jimmy, piegò la testa ordinandogli di seguirlo e lo guidò giù sul ponte di poppa. Rimasero vicini accanto alla battagliola, e Materson gli parlò in tono basso ma serio per un paio di minuti. Vidi Jimmy arrossire vivacemente, la sua espressione passare dalla costernazione a un broncio infantile, e intuii che stava ricevendo una severa tirata d'orecchi in materia di discrezione e sicurezza. Quando tornò sul ponte di comando ribolliva di collera e per la prima volta notai la linea decisa della mascella. Non era solo un bel ragazzo, conclusi. Evidentemente su ordini di Materson, Guthrie, il braccio, uscì dalla cabina e spostò il grosso sedile girevole da pesca in modo da fronteggiare il ponte. Ci si stravaccò, emanando anche in ozio una promessa di violenza, come un leopardo in riposo, e rimase a guardare, una gamba appoggiata sul bracciolo e la giacca di lino con il pesante oggetto in tasca ripiegata in grembo. "Che nave allegra", osservai fra me, e portai fuori il "Dancer" fra le isole seguendo una bella rotta pulita nelle acque verde pallido, dove le barriere coralline erano in agguato sotto la superficie come mostri malevoli e le isole erano orlate di sabbia corallina di un bianco abbagliante come la neve e incoronate di folta vegetazione verde cupo, sulla quale i tronchi delle palme svettavano con le loro curve aggraziate, le cime scosse dai deboli residui degli alisei. Fu una giornata lunga in cui incrociammo a caso, e io tentai di carpire qualche indizio sullo scopo della spedizione. Ma Jimmy, cui la ramanzina di Materson bruciava ancora, era cupo e taciturno. A intervalli chiedeva dei cambiamenti di rotta, dopo che io avevo fatto il punto sulla carta nautica a grande scala che aveva tirato fuori
dalla sacca. Anche se non c'era nessun segno estraneo sulla carta, esaminandola di sottecchi riuscii a capire che eravamo interessati a un'area che si trovava da quindici a trenta miglia a nord del delta del fiume Rovuma e circa sedici miglia al largo. Una zona che comprendeva circa trecento isole, di dimensioni variabili da pochi ettari a molti chilometri quadrati... un enorme pagliaio in cui trovare il loro ago. Io mi accontentavo di starmene appollaiato sul ponte del "Dancer" e correre in silenzio lungo le vie del mare, godendomi la sensazione del ponte sotto i piedi e osservando l'attività delle creature marine e degli uccelli. Sul sedile da pesca il cuoio capelluto di Mike Guthrie cominciava a brillare attraverso il sottile strato di capelli, come strisce di luci al neon rosso scarlatto. "Cuoci, bastardo", pensai allegramente, e trascurai di metterlo in guardia contro il sole tropicale finché non fummo diretti verso casa nel crepuscolo. Il giorno dopo era sfigurato da vesciche bianche sparse sui lineamenti gonfi e violacei e si riparava la testa con un largo cappello di tela, ma il viso gli brillava come l'oblò di un transatlantico. A mezzogiorno della seconda giornata non ne potevo già più. Jimmy era di scarsa compagnia perché, anche se aveva recuperato un po' del suo buonumore, era tanto preoccupato della sicurezza che rifletteva trenta secondi perfino prima di accettare un caffè. Più per avere qualcosa da fare che per mangiare del pesce a cena, quando vidi un branco di piccoli sgombri che attaccavano un banco di sardine davanti a noi, lasciai la ruota a Jimmy. «La tenga su questa rotta» gli dissi, e calai sul ponte di poppa. Guthrie mi sorvegliò diffidente mentre davo un'occhiata nella cabina e notavo che Materson aveva aperto il mio bar e si stava preparando un gin and tonic. A settecentocinquanta dollari al giorno non potevo negarglielo. In due giorni non aveva mai messo il naso fuori della cabina. Tornai al piccolo ripostiglio degli utensili, scelsi un paio di esche di piume e le lanciai fuori bordo. Quando incrociammo la rotta del banco presi uno sgombro e lo tirai su che guizzava, brillando dorato al sole. Poi riavvolsi le lenze e le riposi, passai la lama del mio pesante coltello sulla mola per affilare il taglio e spaccai il ventre dello sgombro dall'orifizio anale fino alle branchie, tirando fuori una manciata di interiora sanguinolente che gettai nella scia. Subito un paio di gabbiani che roteavano sopra di noi stridettero avidi e si tuffarono sugli avanzi. Il loro eccitamento ne richiamò altri e in pochi minuti a poppa ce ne fu un intero stormo stridulo e svolazzante. Il frastuono che facevano non era tanto forte però, da coprire lo scatto metallico proprio alle mie spalle e il suono inconfondibile dell'otturatore di un'automatica che veniva tirato indietro e lasciato andare per caricare e armare. Mi mossi per puro istinto. Senza il mio intervento cosciente, il grosso coltello da esche roteò nella mia destra mentre passavo senza soluzione di continuità a una solida presa, mi giravo e mi gettavo sul ponte in un solo movimento, frenando la caduta con i talloni e il braccio sinistro mentre il coltello si sollevava sopra la spalla destra e io mi preparavo a lanciare nell'istante in cui avessi inquadrato il bersaglio. Mike Guthrie aveva nella destra una grossa auto matica. Un'antiquata calibro 45 della marina, un'arma da killer, che poteva aprire nel petto di un uomo un foro in cui sarebbe potuto passare un taxi londinese. Due cose salvarono Guthrie dal ritrovarsi infilzato allo schienale come una farfalla dalla lunga lama del mio coltello. Primo, il fatto che la .45 non era puntata su di me e, secondo, l'espressione comica di stupore sul suo viso scarlatto. Mi trattenni dal lanciare il coltello, bloccando il gesto istintivo con un grande sforzo di volontà, e ci fissammo negli occhi. Allora capì quanto ci era arrivato vicino e il sorriso che si sforzò di mettere insieme con le labbra gonfie, riarse dal sole, fu tremolo e
poco convincente. Io mi alzai e piantai il coltello nel tavolo per tagliare le esche. «Faccia un favore a se stesso» gli dissi piano. «Eviti di giocare alle mie spalle con quell'affare.» Allora lui scoppiò a ridere, di nuovo sicuro di sé. Girò il sedile e mirò fuori bordo. Sparò due volte, con un boato forte che sovrastò il pulsare dei motori del "Dancer", e la zaffata di cordite fu spazzata via dal vento. Due dei gabbiani che roteavano esplosero in scoppi grotteschi di sangue e di penne, ridotti in poltiglia dalle pesanti pallottole, e il resto dello stormo si disperse con strida di panico. Il modo in cui gli uccelli erano rimasti dilaniati mi fece capire che Guthrie aveva caricato con pallottole esplosive, un'arma più selvaggia di una carabina a canne mozze. Roteò sulla sedia per guardarmi in faccia e soffiò nella canna della pistola, alla maniera di John Wayne. Sparare con un'arma di calibro così pesante era un capriccio. «Bella prodezza» applaudii, girandomi verso la scaletta del ponte, ma Materson era ritto sulla soglia della cabina con il suo gin in mano e quando feci un passo indietro parlò a bassa voce. «Ora so chi è lei» disse con quella sua voce dolce e ronzante. «Ci aveva dato da pensare, eravamo convinti di conoscerla.» Lo fissai e lui si rivolse a Guthrie, dietro di me. Guthrie scosse la testa. Credo che non si fidasse della sua voce. «Allora portava la barba, pensaci bene... una foto segnaletica.» «Cristo» esclamò Guthrie. «Harry Bruce!» Provai un lieve choc al sentir pronunciare quel nome ad alta voce dopo tanti anni. Avevo sperato che fosse dimenticato per sempre. «Roma» aggiunse Materson. «La rapina dell'oro.» «L'aveva organizzata lui.» Guthrie fece schioccare le dita. «Ero sicuro di conoscerlo. E' stata la barba a trarmi in inganno.» «Penso che lor signori abbiano sbagliato indirizzo» ribattei con tono freddo, in un tentativo disperato, ma intanto riflettevo in fretta, cercando di valutare questa informazione fresca fresca. Avevano visto una foto segnaletica... Dove? Quando? Erano uomini della legge o dall'altro lato della barricata? Avevo bisogno di tempo per riflettere... e mi arrampicai su fino al ponte. «Mi spiace» borbottò Jimmy, quando gli tolsi la ruota. «Avrei dovuto dirglielo che aveva una pistola.» «Già» risposi. «Forse sarebbe stato meglio.» La mia mente galoppava e la prima svolta che prese fu lungo il sentiero dell'illegalità. Dovevano sparire. Avevano mandato all'aria la mia elaborata copertura, mi avevano stanato e c'era una sola via d'uscita sicura. Guardai indietro sul ponte di poppa, ma sia Materson sia Guthrie erano scesi sottocoperta. Un incidente, eliminarli tutti e due in un sol colpo; a bordo di una barca c'erano parecchi modi in cui un tipo inesperto poteva farsi il peggiore dei mali possibile. Dovevano sparire. Poi guardai Jimmy e lui mi sorrise. «Lei si muove alla svelta» osservò. «Per poco Mike non se la faceva sotto, credeva proprio di beccarsi quel coltello nello stomaco.» "Anche il ragazzo?", mi chiesi... se eliminavo gli altri due, avrebbe dovuto sparire anche lui. Poi d'un tratto provai la stessa nausea fisica che avevo conosciuto per la prima volta tanto tempo prima, nel villaggio del Biafra. «Tutto bene, comandante?» chiese pronto Jimmy. Dovevo aver lasciato trasparire dall'espressione i miei pensieri. «Sto benissimo, Jim» risposi. «Perché non va a prendere una lattina di birra?» Mentre era dabbasso raggiunsi la mia decisione. Avrei stretto un accordo. Ero certo che non volevano veder sbandierare in piazza i loro affari. Avrei barattato discrezione con discrezione. Probabilmente nella cabina di sotto stavano arrivando alla stessa conclusione. Bloccai la ruota e mi diressi senza far rumore verso l'angolo del ponte, assicurandomi che i miei passi non fossero avvertiti nella cabina sottostante. Lì il ventilatore incanalava aria fresca nella presa d'aria sopra il
tavolo della cabina principale. Avevo scoperto che il tubo di ventilazione costituiva un portavoce abbastanza efficace, che portava il suono di lì fino al ponte. Tuttavia l'efficacia di questo congegno di ascolto dipendeva da un gran numero di fattori, in primo luogo la direzione e la forza del vento e la posizione precisa di chi parlava nella cabina sottostante. Il vento era a nostro favore e soffiava nell'apertura del ventilatore, cancellando frammenti della conversazione nella cabina. Per fortuna Jimmy doveva essersi messo proprio sotto la presa d'aria, perché la sua voce mi arrivava forte quando il rombo del vento non la soffocava. «Perché non glielo chiedete adesso?» E la risposta giunse confusa, poi il vento soffiò e quando cadde parlava di nuovo Jimmy. «Se lo fate stasera, dove...» e il vento ruggì «... per avere la luce dell'alba allora dovremo...» Tutta la discussione pareva vertere su tempi e luoghi e mentre mi chiedevo per un istante che cosa sperassero di ottenere lasciando il porto all'alba, lui lo ripeté. «Se la luce dell'alba è dove...» Tesi le orecchie per cogliere le parole seguenti, ma il vento le cancellò per dieci secondi, poi: «... non riesco a capire perché non possiamo...» stava protestando Jimmy e a un tratto la voce di Mike Guthrie mi arrivò nitida e aspra. Doveva essere andato a mettersi vicinissimo a Jimmy, probabilmente in atteggiamento di minaccia. «Sta' a sentire, ragazzo, lascia sbrigare a noi questa parte della faccenda. Il tuo compito è di trovare quel maledetto affare e finora non te la sei cavata troppo bene.» Dovevano essersi spostati di nuovo, perché le loro voci divennero confuse. Sentii aprirsi la porta scorrevole che dava sul ponte di poppa e mi diressi in fretta al timone, allentando la maniglia che lo tratteneva proprio mentre la testa di Jimmy compariva oltre l'orlo del ponte. Mi tese la birra, e ora sembrava più rilassato. Dai suoi modi era sparito il riserbo. Mi sorrise con aria cordiale e fiduciosa. «Il signor Materson dice che per oggi basta. Dobbiamo puntare verso casa.» Invertii la rotta del "Dancer" per tornare da ovest, superando l'imboccatura di Turtle Bay, e potei vedere la mia capanna stagliarsi fra le palme. Sentii un gelo improvviso, presagio di sconfitta. Il destino aveva deciso un nuovo giro di carte e il gioco era più pesante, la posta era troppo alta per i miei gusti, ma ormai non c'era modo di tirarmi indietro. Con tutto ciò, vinsi il gelo dello sconforto e mi rivolsi a Jimmy. Avrei approfittato del suo nuovo atteggiamento di fiducia per tentare di carpire tutte le informazioni possibili. Chiacchierammo di cose senza importanza durante il percorso lungo il canale fino al porto grande. Era chiaro che gli avevano detto che non ero più sulla lista nera. Stranamente il fatto che avessi un passato criminale mi rendeva più accettabile. Ora potevano regolarsi. Avevano trovato una leva, così potevano manovrarmi... anche se ero piuttosto sicuro che non avevano spiegato nei minimi particolari tutta la questione al giovane James. Evidentemente era un sollievo per lui comportarsi in modo naturale. Era un tipo cordiale e aperto, senza un filo di astuzia. Ne faceva fede il fatto che mentre il suo cognome era stato nascosto come un segreto militare, lui portava al collo una catenella d'argento con una piastrina che avvertiva i soccorritori che il portatore, J.A. NORTH, era allergico alla penicillina. Ormai aveva dimenticato tutte le sue precedenti riserve e pian piano gli estorsi piccoli frammenti di informazioni che in futuro potevano tornarmi utili. In base alla mia esperienza è proprio quello che non sai che può nuocerti sul serio. Scelsi l'argomento che pensavo l'avrebbe fatto capitolare definitivamente. «Vede quella barriera attraverso il canale, laggiù dove l'onda s'infrange adesso? Quella è la Devil Fish Reef e ci sono quaranta metri di profondità dalla parte del mare. E' un posto frequentatissimo da certe vecchie cernie davvero enormi. L'anno scorso laggiù ne ho presa una che pesava più di duecento chili.»
«Duecento...» esclamò. «Dio mio, sono quasi quattrocentocinquanta libbre.» «Già, uno poteva infilargli in bocca la testa e le spalle.» Le ultime riserve scomparvero. Aveva frequentato i corsi di storia e filosofia a Cambridge, ma passava troppo tempo in mare e aveva dovuto mollare. Ora gestiva una piccola impresa di attrezzature da immersione e da recupero che gli dava da vivere e gli permetteva di immergersi per la maggior parte della settimana. Svolgeva la sua attività da privato e aveva dei contatti con il governo e la marina per alcuni lavori. Più di una volta si lasciò sfuggire il nome "Sherry" e io tastai il terreno con cautela. «E' la sua ragazza o sua moglie?» Lui sorrise. «Mia sorella, una sorella maggiore, ma è un tipo in gamba... tiene i registri e bada alla bottega» rispose in un tono che non lasciava dubbi su quello che James pensava di tenere i registri e stare al banco. «E' una formidabile esperta di conchiglie e ne ricava duemila sterline all'anno.» Ma non spiegò perché si era messo nella compagnia equivoca che ora frequentava, né che cosa stava combinando agli antipodi del suo negozio di articoli sportivi. Li lasciai sul molo dell'Ammiragliato e portai il "Dancer" al bacino della Shell per fare rifornimento prima di notte. Quella sera avevo arrostito alla griglia lo sgombro, avevo cotto nella brace un paio di grosse patate dolci con tutta la buccia e stavo innaffiando la cena con una birra fredda, seduto sulla veranda della capanna ad ascoltare la risacca, quando vidi i fari avvicinarsi fra le palme. Il taxi parcheggiò vicino al mio furgoncino e l'autista rimase al volante, mentre i passeggeri salivano i gradini fino al portico. Avevano lasciato James all'Hilton e ora erano solo in due... Materson e Guthrie. «Da bere?» Indicai le bottiglie e il ghiaccio sul tavolinetto. Guthrie versò del gin per tutti e due e Materson sedette di fronte a me e mi osservò finire il pesce. «Ho fatto qualche telefonata» disse quando spinsi da parte il piatto. «E mi dicono che Harry Bruce è scomparso nel giugno di cinque anni fa e da allora non si è più fatto vivo. Ho chiesto in giro e ho scoperto che Harry Fletcher è arrivato qui nel porto grande a vele spiegate tre mesi dopo... senza scalo da Sydney, in Australia.» «Davvero?» Mi tolsi dal dente una spina di pesce e accesi un sigaro dell'isola, lungo e nero. «Un'altra cosa, qualcuno che lo conosceva bene mi dice che Harry Bruce ha una cicatrice di coltello sul braccio sinistro» disse con la sua voce carezzevole, e io lanciai uno sguardo involontario alla linea sottile come un capello che guarniva il muscolo del mio avambraccio. Con gli anni si era ristretta e appiattita, ma spiccava ancora bianchissima sulla pelle scura brunita dal sole. «Be', è una straordinaria coincidenza» osservai, tirando una boccata dal sigaro. Era forte e aromatico, sapeva di mare, di sole e di spezie. Ora non ero preoccupato... volevano venire a patti. «Già» convenne Materson, guardandosi in giro con aria studiata. «Lei si è sistemato bene, Fletcher. Un bel posticino, non è vero? Proprio bello e comodo.» «Ci si stufa a morte di lavorare per vivere» ammisi. «... o di spaccare rocce, o di cucire i sacchi della posta.» «Immagino di sì.» «Domani il ragazzo le farà delle domande. Cerchi di essere gentile con lui, Fletcher. Quando ce ne andremo potrà dimenticare di averci visti e noi ci scorderemo di fare parola a qualcuno di questa buffa coincidenza.» Dopo la conversazione che avevo sentito nella cabina del "Dancer" mi aspettavo che chiedessero di partire presto, la mattina dopo, perché la luce dell'alba sembrava importante per i loro piani. Invece nessuno dei due vi accennò e quando se ne furono andati io capii che non avrei dormito, così feci una passeggiata lungo la sabbia seguendo la curva della baia fino a Mutton Point per osservare la luna levarsi fra le
palme. Restai seduto lì fin dopo mezzanotte. La mattina dopo il canotto era scomparso dal molo, ma Hambone, l'uomo del traghetto, mi portò a forza di remi all'ormeggio del "Dancer" prima del levar del sole, e mentre accostavamo vidi una sagoma familiare aggirarsi sul ponte di poppa e il canotto legato alla murata. «Ehi, Chubby.» Saltai a bordo. «Che c'è, la tua signora ti ha buttato fuori dal letto?» La coperta del "Dancer" risplendeva bianca perfino nella luce scarsa e tutte le parti metalliche erano lucidate a specchio. Doveva essere lì da un paio d'ore; Chubby ama il "Dancer" quasi quanto me. «Sembrava un gabinetto pubblico, Harry» brontolò. «E' un branco di maiali quello che hai a bordo» e sputò rumorosamente oltre la fiancata. «Non hanno rispetto per una barca, ecco come stanno le cose.» Aveva del caffè pronto, forte e aromatico come solo lui sa farlo, e lo bevemmo seduti nel salone. Chubby aggrottò tetro la fronte e soffiò sul liquido nero fumante. Aveva voglia di dirmi qualcosa. «Come sta Angelo?» «Accontenta le vedove di Rawano» borbottò. L'isola non fornisce posti di lavoro sufficienti per tutti i giovani abili... perciò molti di loro s'imbarcano con un contratto triennale per la stazione guida dei satelliti e la base dell'aeronautica militare, sull'isola di Rawano. Si lasciano dietro le giovani mogli, le vedove di Rawano, e le ragazze isolane sono giustamente celebrate per l'alta temperatura del sangue e il carattere cordiale. «Quell'Angelo si farà andare in acqua il cervello... non fa altro, giorno e notte, da lunedì.» Nel suo brontolio riconobbi più di una traccia d'invidia. La signora Chubby gli teneva le briglie corte... lui riprese a sorseggiare rumorosamente il caffè. «Come va con i clienti, Harry?» «I soldi sono buoni.» «Non stai pescando, Harry.» Mi guardò. «Ti osservo dalla cima del Coolie Peak, amico, non ti avvicini nemmeno al canale... stai lavorando verso riva.» «Esatto, Chubby.» Lui riportò la sua attenzione sul caffè. «Dammi retta. Harry. Sorvegliali. Sta' bene attento. Sono farabutti, quei due. Non so il giovane... ma gli altri sono brutta gente.» «Starò attento, Chubby.» «Conosci la ragazza nuova dell'albergo... Marion? Quella che hanno assunto per la stagione?» Annuii, era una ragazzina graziosa, snella, dalle belle gambe lunghe, sui diciannove anni, con i capelli neri e lucidi, le lentiggini, gli occhi arditi e un sorriso impertinente. «Be', ieri sera è uscita col biondo, quello con la faccia rossa.» Sapevo che a volte Marion combinava gli affari col piacere e forniva a ospiti selezionati dell'albergo prestazioni che non rientravano nel servizio. Sull'isola questo genere di attività non comportava nessun marchio d'infamia. «Sì» incoraggiai Chubby. «L'ha picchiata, Harry. Le ha fatto molto male.» Chubby prese un altro sorso di caffè. «Poi le ha dato tanto denaro che lei non ha potuto andare alla polizia.» Ora Mike Guthrie mi piaceva ancor meno. Solo una bestia avrebbe abusato di una ragazza come Marion. La conoscevo bene. Aveva un'innocenza, un'infantile accettazione della vita, che rendeva la sua promiscuità stranamente attraente. Ricordavo di aver pensato che un giorno o l'altro avrei potuto vedermi costretto a uccidere Guthrie... e tentai di non lasciar svanire il pensiero. «E' brutta gente, Harry. Ho pensato che era meglio che lo sapessi.» Mi aiutò a portare il "Dancer" al molo dell'Ammiragliato e poi alzò le vele diretto a casa, mugugnando e borbottando oscure minacce... Incrociò Jimmy che veniva in direzione opposta e gli scoccò un'occhiata tanto malevola che avrebbe dovuto incenerirlo all'istante. Jimmy era solo, fresco in viso e vivace. «Salve, comandante» esclamò saltando sul ponte del "Dancer", e io scesi nella cabina con lui e versai il caffè per tutte e due.
«Il signor Materson dice che lei ha delle domande da farmi, vero?» «Senta, signor Fletcher, vorrei farle capire che non era mia intenzione offenderla non parlandole prima. Non ero io... ma gli altri.» «Certo» lo rassicurai. «Tutto a posto, Jimmy.» «La cosa più sensata sarebbe stata chiedere il suo aiuto molto tempo prima, invece di girare a vuoto come abbiamo fatto. Comunque ora gli altri hanno deciso tutt'a un tratto che va bene.» Mi aveva appena detto molto di più di quanto immaginasse e dovetti rivedere la mia opinione sul giovane James. Era chiaro che era in possesso di informazioni e che non le aveva comunicate agli altri. Erano la sua garanzia, e probabilmente aveva insistito per vedermi da solo allo scopo di mantenere intatta la sua polizza di assicurazione. «Comandante, stiamo cercando un'isola, un'isola ben precisa. Non posso dirle il perché, mi dispiace.» «Non fa niente, Jimmy. Va benissimo così.» "Che cosa ne sarà di te, James North" mi chiesi a un tratto. "Che sorte ha in serbo per te quel branco di lupi, una volta che li avrai guidati a questa tua isola speciale? Sarà qualcosa di gran lunga meno piacevole dell'allergia alla penicillina?" Guardai quel bel viso giovane e provai per lui un insolito slancio di affetto... forse era per la sua giovinezza e innocenza, per il senso di eccitazione col quale considerava questo vecchio mondo stanco e crudele. Lo invidiavo e lo ammiravo per questo, e non mi piaceva l'idea di vederlo rotolare nel fango. «Jim, fino a che punto lei conosce bene i suoi amici?» gli chiesi piano e lui fu colto di sorpresa, poi quasi subito si mise in guardia. «Abbastanza bene» rispose prudente. «Perché?» «Li conosce da meno di un mese» dissi, come se lo sapessi, e vidi la conferma nei suoi occhi. «E io conosco tipi del genere da quando sono al mondo.» «Non vedo che cosa c'entra, signor Fletcher.» Ora si stava irrigidendo, lo trattavo come un bambino e questo non gli andava a genio. «Stia a sentire, Jim. Si scordi di quest'affare, qualunque sia. Lasci perdere e torni alla sua bottega e all'impresa di recupero.» «E' pazzesco» ribatté lui. «Lei non capisce.» «Capisco, Jim. Sul serio. Ho percorso la stessa strada e lo so bene.» «So badare a me stesso. Non si preoccupi per me.» Sotto l'abbronzatura era arrossito fino alla radice dei capelli e i suoi occhi grigi brillavano di sfida. Ci guardammo negli occhi per qualche istante e capii che stavo sprecando tempo e fatica. Se qualcuno mi avesse parlato in questo tono quando avevo la sua età, l'avrei giudicato rimbecillito. «D'accordo, Jim» conclusi. «Lascerò perdere, ma ora lei sa come stanno le cose. Solo, ci vada coi piedi di piombo, ecco tutto.» «Okay, signor Fletcher.» Si rilassò lentamente e poi sorrise, col suo sorriso irresistibile. «Grazie, comunque.» «Sentiamo di quest'isola» suggerii, e lui lanciò un'occhiata intorno a sé nella cabina. «Saliamo sul ponte» proposi, e uscito all'aria aperta lui prese un mozzicone di matita e un blocknotes dall'armadietto sopra il tavolo delle carte. «Secondo i miei calcoli si trova al largo della costa africana da sei a dieci miglia, e da dieci a trenta miglia a nord della foce del fiume Rovuma...» «Questo significa un territorio immenso, Jim... come forse avrà notato nei giorni scorsi. Che altro sa?» Esitò un po' più a lungo, prima di sganciare a malincuore qualche altra moneta del suo gruzzolo. Prese la matita e tracciò sul blocco una linea orizzontale. «Al livello del mare...» spiegò, e poi sopra la linea disegnò un profilo irregolare che partiva dal basso e quindi s'innalzava ripido, formando tre cime distinte prima di interrompersi bruscamente «... e questo è il profilo che mostra dal mare. Le tre colline sono di basalto vulcanico, roccia nuda con scarsa vegetazione.» «"I Tre Vecchi"» la riconobbi subito «... ma lei si sbaglia di molto
negli altri calcoli, dista più di venti miglia dalla costa.» «Ma in vista della terraferma?» chiese subito. «Dev'essere così.» «Certo, dalla cima delle colline si vede molto lontano» precisai mentre lui strappava il foglio dal blocco e lo lacerava con cura in frammenti, che gettò nell'acqua del porto. «Quante miglia a nord del fiume?» Si voltò a guardarmi in faccia. «Grosso modo sessanta o settanta.» E lui apparve pensieroso. «Sì, potrebbe andare. Potrebbe corrispondere, dipende da quanto tempo ci vuole...» Non terminò la frase, stava seguendo il mio consiglio di procedere con prudenza. «Può portarci laggiù, comandante?» Annuii. «Ma è un lungo viaggio ed è meglio essere preparati a pernottare sul battello.» «Andrò a prendere gli altri» ribatté, ancora una volta impaziente ed eccitato. Ma sul molo si volse a guardare il ponte. «A proposito dell'isola, dell'aspetto che ha e di tutto il resto, non ne parli con gli altri, d'accordo?» «Va bene, Jim» risposi sorridendo. «Stia tranquillo.» Scesi per dare un'occhiata alla carta nautica dell'Ammiragliato. "I Tre Vecchi" erano il punto più alto di una catena di basalto, una lunga barriera rocciosa che correva parallela alla terraferma per trecentoventi chilometri. Scompariva sotto il livello dell'acqua, ma affiorava a intervalli, costituendo un punto fermo fra le spruzzatine irregolari di corallo, isole sabbiose e secche. Era segnalata come disabitata e priva di acqua e gli scandagli mostravano l'esistenza di un gran numero di profondi canali attraverso la barriera che la circondava. Anche se era molto a nord del mio territorio di pesca abituale, avevo visitato la zona l'anno prima, facendo da guida a una spedizione di biologi marini dell'UCLA che studiavano le abitudini riproduttive delle tartarughe verdi che lì abbondavano. Ci eravamo accampati per tre giorni su un'altra isola, separata dai Tre Vecchi da un canale scavato dalla marea, dove c'era un ancoraggio permanente in una laguna chiusa e acqua salmastra ma potabile in un pozzo di pescatori fra le palme. Visti dall'ancoraggio, i Tre Vecchi mostravano esattamente lo stesso profilo che Jimmy aveva disegnato per me, ecco perché l'avevo riconosciuta con tanta prontezza. Mezz'ora dopo arrivò tutta la comitiva; assicurato da cinghie sul tetto del taxi c'era un oggetto voluminoso, protetto da un telone impermeabile verde. Assoldarono un paio di isolani sfaccendati per trasportare questo e i bagagli lungo il molo, fino al punto in cui li aspettavo io. Collocarono il fagotto di tela sul ponte di prua, senza svolgerlo, e io non feci domande. La pelle del viso di Guthrie cominciava a venir via a strati, lasciando esposta la carne viva. Ci aveva spalmato sopra della crema bianca. Io lo immaginai mentre sbatacchiava la piccola Marion da una parte all'altra del suo appartamento all'Hilton, e gli sorrisi. «Ha proprio un aspetto magnifico. Mai pensato di concorrere al titolo di Miss Universo?» e lui mi fulminò di sotto la tesa del cappello, prendendo posto sul sedile da pesca. Durante il viaggio verso nord bevve birra dalla lattina e usò i vuoti come bersaglio, colpendoli con la grossa pistola mentre cadevano e sobbalzavano nella scia del "Dancer". Poco prima di mezzogiorno cedetti a Jimmy la ruota del timone e scesi per usare la toilette sotto coperta. Mi accorsi che Materson aveva aperto il bar e tirato fuori la bottiglia di gin. «Quanto ci vuole ancora?» chiese, sudato e congestionato nonostante l'aria condizionata. «All'incirca un'altra ora» risposi, e pensai che Materson sarebbe finito alcolizzato, a giudicare dal modo in cui reggeva i liquori a mezzogiorno. Comunque, il gin l'aveva addolcito un po' e io, il solito opportunista, gli feci sganciare altre trecento sterline come anticipo sul mio compenso, prima di salire a guidare il "Dancer" nell'ultima tappa attraverso il canale a nord che portava ai Tre Vecchi. Le tre cime apparvero nella foschia dell'afa, di un grigio spettrale e funesto, come se fluttuassero incorporee sul canale. Jimmy esaminò le cime col binocolo, poi l'abbassò e si volse verso di me, al settimo
cielo. «Sembra proprio quella giusta, comandante» e scese a precipizio sul ponte di poppa. Salirono tutti e tre sul ponte di prua, oltrepassarono il carico avvolto nel telone e rimasero appoggiati al parapetto, spalla a spalla, a fissare l'isola oltre il braccio di mare, mentre io risalivo pian piano il canale. Avevamo la marea a favore e fui ben lieto di sfruttare il suo abbrivio per accostare alla punta orientale dei Tre Vecchi e approdare sulla spiaggia sotto il picco più vicino. Questa costa ha un dislivello di marea di cinque metri e diciotto centimetri all'equinozio di primavera ed è poco saggio avventurarsi in acque basse col riflusso. E' facile ritrovarsi in una secca mentre le acque ti scorrono via di sotto la chiglia. Jimmy prese a prestito la mia bussola da polso e la mise nel suo zaino insieme con la carta, un thermos d'acqua gelata e un flacone di pastiglie di sale preso dalla cassetta dei medicinali. Mentre io mi avvicinavo con cautela alla spiaggia, Jimmy e Materson si tolsero scarpe, calze e pantaloni. Quando il Dancer batté dolcemente la chiglia sulla dura sabbia bianca della spiaggia io alzai la voce: «Okay, andate» e con Jimmy in testa scesero la scaletta che avevo calato dalla fiancata del "Dancer". L'acqua gli arrivava alle ascelle e James tenne lo zaino sopra la testa mentre guadavano verso la spiaggia. «Due ore!» gli gridai dietro. «Se ci mettete di più potete dormire a terra. Non tornerò a prendervi con la bassa marea.» Jimmy agitò la mano e sorrise. Io feci macchina indietro e mi allontanai con prudenza, mentre loro due raggiungevano la spiaggia e saltellavano goffamente per infilarsi pantaloni e scarpe e poi si addentravano fra i boschetti di palme, scomparendo alla vista. Dopo aver incrociato dieci minuti, sbirciando in giù nell'acqua chiara come un torrente di montagna, scorsi sul fondo l'ombra scura che cercavo e calai un'ancora leggera. Mentre Guthrie osservava con interesse m'infilai una maschera e i guanti e mi tuffai oltre la murata con una piccola rete da ostriche e una pesante leva. Sotto di noi c'erano dodici metri d'acqua e fui lieto di scoprire che avevo ancora fiato sufficiente per immergermi e staccare in un solo tuffo una retata di grossi molluschi bivalve. Li sgusciai sul ponte di poppa e poi, ricordando gli ammonimenti di Chubby, gettai fuori bordo i gusci vuoti e ramazzai con cura il ponte prima di portare giù in cambusa un secchio di molluschi dalla carne dolce. Finirono in una casseruola con vino e aglio, sale e pepe macinato e appena un pizzico di peperoncino rosso. Regolai il fuoco basso e misi il coperchio sulla pentola. Quando tornai sul ponte Guthrie era ancora seduto sul sedile da pesca. «Cosa c'è che non va, il grande capo si annoia?» gli chiesi con sollecitudine. «Non ci sono ragazzine da prendere a calci?» Socchiuse gli occhi riflettendo. Intuii che cercava di individuare la mia fonte di informazioni. «Lei ha una gran boccaccia, Bruce. Un giorno o l'altro qualcuno gliela chiuderà.» Ci scambiammo qualche altra piacevolezza, tutte più o meno dello stesso livello, ma servì a passare il tempo finché le due figure distanti apparvero sulla spiaggia e agitarono la mano, salutando a gran voce. Io salpai l'ancora e andai a prenderli. Appena furono a bordo convocarono Guthrie e si radunarono sul ponte di prua per una delle loro riunioni di gruppo. Erano molto eccitati, più di tutti Jimmy, che gesticolava e indicava il canale, parlando con voce bassa ma decisa. Una volta tanto parevano tutti d'accordo, ma quando ebbero finito di discutere restava solo un'ora di luce e io mi rifiutai di acconsentire alle richieste di Materson di continuare le esplorazioni quella sera. Non avevo nessuna voglia di brancolare nel buio con la bassa marea. Portai risolutamente il "Dancer" all'ancoraggio sicuro nella laguna oltre il canale e quando il sole tramontò sotto l'orizzonte infuocato il "Dancer" era saldamente ormeggiato a due pesanti ancore e io ero seduto sul ponte a godermi la fine della giornata e il primo scotch della sera. Sotto di me, nella cabina principale, si sentiva l'interminabile mormorio delle discussioni. Lo ignorai, senza sprecarmi nemmeno a usare il condotto
di ventilazione, finché le prime zanzare non arrivarono dall'altro lato della laguna e cominciarono a ronzarmi intorno alle orecchie. Scesi dabbasso e al mio ingresso la conversazione languì. Feci addensare il sugo e servii la mia casseruola di molluschi con patate dolci al forno e insalata di ananas e tutti mangiarono in religioso silenzio. «Dio mio, questo è ancora meglio della cucina di mia sorella» commentò Jimmy alla fine. Io gli sorrisi. Sono piuttosto fiero delle mie capacità culinarie e il giovane James era chiaramente un "gourmet". Dopo mezzanotte regnava un gran silenzio, turbato solo dal sommesso sciabordare della marea contro la murata del "Dancer"... e in lontananza dal rombo della risacca sulla barriera esterna. Arrivava possente e alta dall'oceano aperto e s'infrangeva tuonando e schiumeggiando sul corallo di Gunfire Reef, la Barriera della Cannonata. Il nome era ben scelto, il rumore sordo e profondo ne scuoteva le viscere proprio come le salve regolari di un cannone. Il chiaro di luna inondava il canale di barbagli d'argento e faceva risaltare le cupole calve delle cime dei Tre Vecchi, facendole brillare come avorio. Ai loro piedi le nebbie della notte che si levavano dalla laguna guizzavano, torcendosi come anime in pena. A un tratto colsi alle mie spalle il fruscio di un movimento e mi girai di scatto. Guthrie mi aveva seguito, silenzioso come un leopardo a caccia. Portava solo un paio di slip e al chiaro di luna il suo corpo era bianco, muscoloso e snello. La grossa calibro 45 nera gli penzolava lungo la coscia destra. Ci guardammo un attimo negli occhi prima che io mi rilassassi. «Sai, tesoro, devi proprio rassegnarti. Non sei affatto il mio tipo» gli dissi, ma nel mio sangue c'era un fiotto di adrenalina e avevo la voce roca. «Quando verrà il momento di farti il culo, userò questa» ribatté lui sollevando l'automatica e sogghignò. Facemmo colazione prima dell'alba e io portai sul ponte la mia tazza di caffè per berla mentre risalivamo il canale verso il mare aperto. Materson era sotto coperta e Guthrie era abbandonato sul sedile da pesca. Jimmy era in piedi accanto a me e mi esponeva le richieste del giorno. Era teso dall'eccitazione, pareva che fremesse come un giovane cane da caccia che ha appena fiutato la selvaggina. «Voglio prendere rilevamenti delle cime dei Tre Vecchi» spiegò. «Voglio usare la sua bussola da polso e dovrò ricorrere al suo aiuto.» «Mi dia le coordinate, Jim, io farò il punto e la porterò sul posto giusto» ribattei. «Facciamo a modo mio, comandante» ribatté lui imbarazzato, e nel rispondere non potei reprimere un moto d'irritazione. «D'accordo, allora, boy-scout.» Lui arrossì e si diresse alla ringhiera di babordo per osservare le cime attraverso la lente della bussola. Passarono all'incirca dieci minuti prima che parlasse di nuovo. «Possiamo virare di due gradi a babordo, ora, comandante?» «Certo che possiamo» gli replicai sorridendo «ma questo ci porterebbe dritti filati a fracassarci all'estremità di Gunfire Reef e la barca si sfonderebbe.» Ci vollero altre due ore di brancolamenti nel labirinto di barriere prima che riuscissi a portare il "Dancer" fino in mare aperto attraverso il canale e fare il giro all'indietro per accostarmi da est a Gunfire Reef. Era come giocare a nascondino: Jimmy gridava "fuoco" o "acqua" senza fornirmi le due coordinate che mi avrebbero permesso di condurre il "Dancer" sul punto preciso che stava cercando. Qui al largo le onde marciavano in processione maestosa verso terra, diventando più alte e minacciose man mano che il fondo saliva. Il "Dancer" rollava e dondolava mentre puntavamo sulla barriera esterna. Nel punto in cui le onde incontravano la barriera di corallo, la loro dignità si trasformava in furia improvvisa, ribollivano ed esplodevano in giganteschi spruzzi di schiuma, riversandosi selvaggiamente sul corallo con la forza esplosiva dell'impatto. Poi si ritiravano,
scoprendo le terribili zanne nere, in una cascata d'acqua bianca e spumeggiante che si rovesciava dalla barriera, mentre l'onda seguente muoveva all'attacco, incurvando il grande dorso liscio per il prossimo assalto. Jimmy mi faceva dirigere costantemente a sud, lungo una rotta che convergeva gradualmente con la barriera, e intuii che eravamo molto vicini al suo obiettivo. Sbirciava con impazienza attraverso la bussola, prima l'una e poi l'altra vetta dei Tre Vecchi. «Avanti così, comandante» esclamò. «La faccia avanzare piano su quella rotta.» Io guardai avanti, distogliendo per pochi istanti gli occhi dal corallo minaccioso, e osservai l'onda successiva caricare e infrangersi... tranne che in un punto stretto, cinquecento metri più avanti. Qui il frangente manteneva la sua forma e continuava a correre senza ostacoli verso terra. Ai lati la cresta si rompeva sul corallo, ma in quell'unico punto c'era un varco. A un tratto mi ricordai le vanterie di Chubby. "Avevo appena diciannove anni quando tirai fuori dalla tana il mio primo pesce a Gunfire Break. Nessun altro voleva venire a pescare con me... non posso dire di biasimarli. Non ci tornerei nemmeno io... adesso ho un po' più di cervello." Gunfire Break... di colpo capii che era lì che eravamo diretti. Tentai di ricordare con precisione che cosa mi aveva detto Chubby in proposito. "Se entri dalla parte del mare circa due ore prima dell'alta marea punta verso il centro del varco, finché non arrivi all'altezza di una grossa vecchia testa di corallo a tribordo, la riconoscerai quando la vedi; passaci più vicino che puoi e poi accosta tutto a tribordo e ti ritroverai in un grosso tratto profondo nascosto proprio dietro la barriera principale. Più resti al riparo della barriera meglio è, amico..." Mi pareva quasi di vederlo, Chubby, nella sua fase loquace, al pub del Lord Nelson, che si vantava di essere uno dei pochissimi uomini che fossero passati da Gunfire Break. "Non c'è ancora che tenga, laggiù, devi stare ai remi per rimanere al centro del varco... la fossa di Gunfire Break è profonda, amico, altro che, ma i pesci là dentro sono grossi, enormi. Un giorno ne ho presi quattro e il più piccolo pesava duecento chili. Avrei potuto prenderne di più, ma il tempo era scaduto. A Gunfire Break non si può restare più di un'ora dopo l'alta marea... l'acqua viene risucchiata attraverso il varco come se togliessero un tappo a tutto il maledetto mare. Si esce dalla stessa via per cui si entra, solo che all'uscita devi pregare un po' più forte... perché hai una tonnellata di pesce a bordo e tre metri d'acqua in meno sotto la chiglia. C'è un'altra via d'uscita, attraverso un canale sul retro della scogliera. Ma di quella non voglio nemmeno parlare. L'ho tentata una volta sola." Ora stavamo puntando direttamente sul varco, Jimmy ci stava portando proprio tra le fauci del Break. «Okay, Jim» gridai. «Fine della corsa.» Aprii la manetta e presi il largo, prima di girarmi per fronteggiare la collera di Jimmy. «C'eravamo quasi, accidenti a lei» gridò con violenza. «Avremmo potuto avvicinarci un po' di più.» «Hai dei problemi lassù, ragazzo?» gridò Guthrie dal ponte di poppa. «No, va tutto bene» gridò di rimando Jimmy e poi si rivolse a me inferocito. «Lei è sotto contratto, signor Fletcher...» «Voglio mostrarle una cosa, James...» e lo portai al tavolo di rotta. Il punto era segnalato sulla carta nautica dell'Ammiragliato con un solo scandaglio laconico di cinquantaquattro metri: non c'erano né il nome né istruzioni per la navigazione. In un attimo aggiunsi a matita i rilevamenti delle due vette estreme dei Tre Vecchi dal varco e poi usai il goniometro per misurare l'angolo che sottendevano. «Esatto?» gli chiesi, e lui fissò le mie cifre. «E' giusto, vero?» insistetti, e lui annuì riluttante. «Sì, il posto è questo» ammise, e io seguitai a descrivergli il Break in tutti i dettagli. «Ma dobbiamo entrare di lì» disse lui alla fine del mio discorso, come se non ne avesse sentito nemmeno una parola. «Non c'è niente da fare» risposi. «L'unico posto che m'interessa, ora
come ora, è il porto grande dell'isola di Saint Mary» e misi il "Dancer" su quella rotta: Per quanto mi riguardava l'ingaggio era finito. Jimmy scomparve giù per la scaletta e tornò pochi minuti dopo con i rinforzi, Materson e Guthrie, entrambi infuriati e offesi. «Di' soltanto una parola, e io stacco il braccio a questo bastardo e glielo spezzo sulla testa» disse Mike Guthrie, pregustando la scena. «Il ragazzo dice che lei si tira indietro» incalzò Materson. «Ora, questo non va... mi spiego?» Illustrai ancora una volta i rischi di Gunfire Break e loro si calmarono all'istante. «Mi porti più vicino che può... il resto della strada lo farò a nuoto» propose Jimmy, ma io risposi direttamente a Materson. «Lo perderebbe, questo è poco ma sicuro. Vuole correre il rischio?» Lui non rispose, ma intuii che per loro Jimmy era troppo prezioso. «Mi lasci provare» insistette Jimmy, ma Materson scosse la testa irritato. «Se non possiamo passare dal varco, mi lasci almeno fare una corsa lungo la barriera con la slitta» riprese Jimmy, e allora capii che cosa c'era sotto l'involto di tela sul ponte di prua. «Solo un paio di passaggi lungo il bordo anteriore della barriera, oltre l'ingresso del varco.» Ora stava supplicando, e Materson mi guardò con aria interrogativa. Non capita spesso di vedersi offrire su un piatto d'argento occasioni del genere. Sapevo che avrei potuto portare il "Dancer" a un tiro di sputo dal corallo senza pericolo, ma corrugai la fronte con aria preoccupata. «Correrei un'infinità di rischi... ma se potessimo accordarci su una piccola indennità...» Avevo Materson in pugno e gli estorsi un giorno in più di nolo, cinquecento dollari, pagamento anticipato. Mentre noi concludevamo l'affare, Guthrie aiutava Jimmy a liberare dall'involucro la slitta e a trasportarla fino al ponte di poppa. Io intascai il mio rotolo di banconote e andai a sistemare i cavi da traino. La slitta era un toboga ben costruito di acciaio inossidabile e plastica. Al posto dei pattini da neve aveva delle tozze alette direzionali, timone e stabilizzatori, manovrati da una corta leva di comando posta sotto lo schermo di perspex del pilota. Il muso era munito di un anello per accogliere il cavo da traino col quale avrei rimorchiato la slitta nella scia del "Dancer". Jimmy doveva stendersi bocconi dietro lo schermo trasparente, respirando aria compressa dai due serbatoi gemelli inseriti nel telaio della slitta. Sul cruscotto c'erano indicatori di profondità e di pressione, bussola direzionale e cronometro. Con la barra di comando Jimmy poteva controllare la profondità d'immersione della slitta e deviare a sinistra o a destra rispetto alla poppa del Dancer. «Un vero gioiellino» osservai, e lui arrossi di piacere. «Grazie, comandante, l'ho costruito con le mie mani.» Stava indossando la spessa muta di neoprene nero e mentre aveva la testa infilata nel cappuccio aderente io mi chinai a esaminare il marchio di fabbrica fissato al telaio della slitta mandando a memoria la scritta. NORTH'S UNDERWATER WORLD 5, PAVILION ARCADE BRIGHTON - SUSSEX Mi raddrizzai proprio mentre il suo viso spuntava dall'apertura del cappuccio. «Cinque nodi è una buona velocità di traino, comandante. Se si manterrà a cento metri dalla scogliera, potrò deviare all'esterno e seguire il contorno del corallo.» «Benissimo, Jim.» «Se mando in superficie un segnale giallo, lo ignori, indica solo un ritrovamento e ci torneremo più tardi... ma se ne mando uno rosso, allora sono nei guai, cerchi di allontanarsi dalla barriera e mi tiri su a bordo.» Annuii. «Ha tre ore» lo avvisai. «Poi la marea comincerà a defluire dal varco e dovremo filarcela.»
«Dovrebbe bastare» convenne. Guthrie e io sollevammo oltre la murata la slitta, che s'immerse bassa nell'acqua. Jimmy si calò e prese posto dietro lo schermo, provando i comandi, sistemandosi la maschera e il boccaglio del respiratore. Respirò rumorosamente e poi alzò i pollici. Io salii svelto sul ponte e aprii le manette. Il "Dancer" prese velocità e Guthrie filò da poppa lo spesso cavo di nylon, mentre la slitta si allontanava alle nostre spalle. Se ne andarono centocinquanta metri di gomena, prima che la slitta risalisse in superficie e cominciasse a seguirci. Jimmy agitò la mano, e io spinsi il "Dancer" a una velocità costante di cinque nodi. Descrissi ampi circoli, poi accostai verso la barriera, affrontando le grosse ondate al traverso, tanto che il "Dancer" rollava pericolosamente. Jimmy agitò di nuovo la mano e lo vidi spingere in avanti la barra di comando centrale della slitta. Ci fu uno spumeggiare d'acqua lungo le alette direzionali, poi a un tratto il veicolo puntò il muso in giù e affondò in fretta sotto la superficie. L'angolazione del cavo di nylon cambiò rapidamente via via che la slitta scendeva e poi deviava nettamente verso la barriera. La tensione impressa al cavo lo faceva vibrare come una freccia quando colpisce il bersaglio, sprizzando acqua dalle fibre. Correvamo lentamente in direzione parallela alla barriera, passando di fronte al varco. Io osservavo il corallo con rispetto, senza correre rischi, e immaginavo Jimmy, sotto la superficie, che scivolava silenzioso sul fondo, deviando per rasentare l'alta muraglia di corallo sottomarino. Doveva essere una sensazione esaltante, e lo invidiai, ripromettendomi di scroccare una corsa sulla slitta appena se ne fosse presentata l'occasione. Arrivammo all'altezza del passaggio, lo superammo e proprio allora sentii Guthrie gridare. Lanciai subito un'occhiata verso poppa e vidi il grosso pallone giallo sobbalzare sulla nostra scia. «Ha trovato qualcosa» urlò Guthrie. Per segnalare la posizione, Jimmy aveva mollato una sottile fune piombata e una lampadina a scintilla aveva gonfiato automaticamente il pallone giallo di diossido di carbonio. Io continuai a procedere a velocità costante lungo la scogliera, e quattrocento metri più avanti l'angolo del cavo di traino diminuì e la slitta sbucò in superficie in un ribollire d'acqua. Deviai allontanandomi dalla scogliera a distanza di sicurezza e poi scesi per aiutare Guthrie a recuperare la slitta. Jimmy si arrampicò sul ponte di poppa e quando si tolse la maschera le labbra gli tremavano e gli occhi grigi scintillavano. Prese Materson per un braccio e lo trascinò nella cabina, allagando il ponte tanto amato da Chubby. Guthrie e io addugliammo il cavo, poi issammo la slitta sul ponte di poppa. Io tornai sul ponte di comando e guidai il "Dancer" in un lento ritorno verso l'ingresso di Gunfire Break. Materson e Jimmy risalirono sul ponte prima che ci arrivassimo. Materson era stato contagiato dall'eccitazione di Jimmy. «Il ragazzo vuole tentare il recupero di un oggetto.» La sapevo troppo lunga per chiedere di che si trattava. «Di quali dimensioni?» chiesi invece, guardando l'orologio. Avevamo un'ora e mezzo prima che la marea cominciasse a defluire turbolenta dal passaggio. «Non molto grande» mi assicurò Jimmy. «Al massimo una ventina di chili.» «Sicuro, James? Non di più?» Non ero certo che il suo entusiasmo non minimizzasse lo sforzo necessario. «Lo giuro.» «Vuole assicurarci un galleggiante?» «Sì, lo solleverò con un galleggiante per poi trainarlo lontano dalla barriera.» Feci indietreggiare con cautela il "Dancer" verso il pallone giallo che scherzava spensierato fra le irose mascelle di corallo del Break. «Più avanti non vado» gridai rivolto al ponte di poppa, e Jimmy
accettò con un cenno della mano. Con l'andatura goffa di un'anitra si diresse a poppa e sistemò l'attrezzatura. Aveva preso due galleggianti, più la coperta di tela della slitta, e si era assicurato al cavo di nylon. Lo vidi rilevare la posizione del segnale giallo con la bussola da polso, poi alzò ancora una volta gli occhi verso di me, prima di saltare all'indietro e sparire. Il suo respiro regolare esplose sotto la poppa in un'eruzione di bollicine bianche, poi cominciò a muoversi verso la barriera. Guthrie filò il cavo dietro di lui. Manovrando le macchine io mantenevo il "Dancer" in posizione, a un centinaio di metri dalla punta meridionale del Break. Lentamente le bollicine di Jimmy si avvicinarono al segnale giallo e poi continuarono a infrangersi contro il pallone. Stava lavorando sott'acqua e lo immaginai mentre fissava i galleggianti vuoti all'oggetto con le cinghie di nylon. Sarebbe stato un lavoro ingrato, con il risucchio della corrente che gli strappava di mano le voluminose borse. Una volta sistemate le cinghie poteva cominciare a riempire le sacche con l'aria compressa delle bombole. Se la sua valutazione delle dimensioni era esatta, sarebbe bastato gonfiarle di poco per sollevare dal fondo l'oggetto misterioso, e una volta libero potevamo trainarlo in una zona più sicura prima di issarlo a bordo. Per quaranta minuti tenni il "Dancer" in posizione costante, poi tutt'a un tratto due grosse sfere verdi scintillanti ruppero la superficie a poppa. Le sacche d'aria erano a galla... Jimmy aveva recuperato la sua preda. Subito la sua testa incappucciata affiorò accanto ai galleggianti e lui sollevò in alto il braccio destro. Il segnale di cominciare a trainare. «Pronto?» gridai a Guthrie sul ponte di poppa. «Pronto!» Aveva assicurato il cavo e io mi allontanai dalla barriera, lentamente e con prudenza per evitare di capovolgere le sacche e riversare fuori l'aria che le faceva galleggiare. A cinquecento metri dalla barriera, spensi i motori del "Dancer" e andai ad aiutare a issare a bordo il nuotatore e i galleggianti verdi. «Resti dove si trova» ringhiò Materson quando mi avvicinai alla scaletta, e io mi strinsi nelle spalle e tornai al timone. "All'inferno tutti", pensai, accendendomi un sigaro... ma non potei reprimere un fremito di eccitazione mentre loro facevano accostare le sacche alla murata e poi le portavano verso prua. Aiutarono Jimmy a salire a bordo e lui si scrollò dalle spalle le pesanti bombole d'aria compressa, lasciandole cadere sul ponte e spingendo la maschera sulla fronte. La sua voce, stridula e acuta, mi arrivò chiaramente mentre ero appoggiato al parapetto. «Tombola!» gridò. «Attento!» lo ammonì Materson; James s'interruppe e tutti mi guardarono, sollevando il viso verso il ponte. «Non fate caso a me, ragazzi» sorrisi agitando allegramente il sigaro. Mi voltarono le spalle per confabulare fra loro. Jimmy bisbigliava e Guthrie esclamò: «Gesù Cristo!» a voce alta, assestando una pacca sulle spalle di Materson, poi tutti si misero a schiamazzare e a ridere affollandosi alla battagliola e cominciarono a sollevare a bordo le sacche e il loro carico. Lo fecero goffamente: il "Dancer" rollava forte e io mi chinai in avanti divorato dalla curiosità. La mia delusione e la mia contrarietà furono intense quando mi accorsi che Jimmy aveva preso la precauzione di avvolgere la sua preda nella copertura di tela della slitta. A bordo era arrivato un fagotto zuppo e informe, stretto da rotoli di cavo di nylon. Era pesante, lo si intuiva dal modo in cui lo maneggiavano, ma non voluminoso: aveva le dimensioni di una valigetta. Lo posarono sul ponte e vi fecero capannello intorno, felici. Materson mi sorrise. «Okay, Fletcher. Venga a dare un'occhiata.» Fu un piano ben congegnato, lui giocò sulla mia curiosità come un pianista da camera sul pianoforte. A un tratto mi assalì un desiderio
irresistibile di sapere che cosa avevano strappato al mare. Mi piantai fra i denti il sigaro precipitandomi giù per la scaletta e affrettandomi verso il gruppo. Ero a metà del ponte di prua, proprio allo scoperto, e Materson sorrideva ancora quando disse piano: «Ora!». Solo allora capii che era un tranello, e la mia mente cominciò a muoversi così in fretta che tutto parve avvenire al rallentatore. Vidi nel pugno di Guthrie la massa nera e maligna della .45 sollevarsi lentamente per mirare al mio ventre. Mike Guthrie era nella posizione classica del tiratore, il braccio destro teso, e sorrideva socchiudendo gli occhi screziati e mirando lungo la grossa canna. Scorsi il bel viso di Jimmy North stravolto dall'orrore, lo vidi protendersi per afferrare il braccio che teneva la pistola, ma Materson, sempre sorridendo, lo spinse rudemente di lato e lui barcollò, sospinto lontano dal rollio seguente del "Dancer". Io riflettevo con straordinaria lucidità e prontezza, non era una concatenazione di pensieri ma una serie di immagini simultanee. Pensai con quanta precisione mi avevano gettato il laccio, un colpo da veri professionisti. Pensai quant'ero stato presuntuoso a tentare di concludere affari con un branco di lupi. Per loro era più facile sparare che trattare. Pensai che avrebbero eliminato Jimmy, ora che aveva assistito alla scena. Quella doveva essere stata la loro intenzione fin dall'inizio. Mi dispiaceva. Il ragazzo aveva finito col diventarmi simpatico. Pensai al pesante proiettile esplosivo di piombo tenero sparato dalla .45, a come avrebbe lacerato il bersaglio, colpendolo con una forza d'urto di novecento chili. L'indice di Guthrie si piegò sul grilletto e io cominciai a lanciarmi verso il parapetto accanto a me con il sigaro ancora in bocca, ma sapevo che era troppo tardi. La pistola nelle mani di Guthrie sobbalzò e vidi la canna mandare un bagliore pallido alla luce del sole. Il rombo dell'esplosione e la pesante pallottola di piombo mi colpirono nello stesso istante. Il frastuono mi assordò, facendomi scattare la testa all'indietro, e il sigaro saltò alto nell'aria lasciando una scia di scintille. Poi l'impatto del proiettile mi fece piegare in due, espellendo l'aria dai polmoni, e mi tolse il terreno di sotto i piedi, scagliandomi all'indietro finché il parapetto del ponte non mi colpì alle reni. Non sentivo dolore, solo quel terribile choc che m'intontiva. Era al torace, ne ero certo, e sapevo che doveva avermi aperto uno squarcio. Era una ferita mortale, ero certo anche di questo, e mi aspettavo di perdere i sensi. Mi aspettavo di svenire, di precipitare nell'oscurità. Invece il parapetto mi colpì alla schiena e io feci una capriola, precipitando a capofitto oltre la murata, e il pronto abbraccio gelido del mare mi avvolse. Mi sentii rinvigorito e aprii gli occhi sulle nuvole argentee di bollicine e sul verde chiaro della luce solare filtrata dalla superficie. Avevo i polmoni vuoti, per effetto dell'impatto del proiettile, e l'istinto mi diceva di salire subito in superficie in cerca d'aria, ma sorprendentemente avevo ancora la mente lucida e capii che Mike Guthrie mi avrebbe fatto saltare le cervella non appena fossi salito a galla. Rotolai e m'immersi, scalciando goffamente, e scesi sotto lo scafo del "Dancer". Con i polmoni vuoti fu un tragitto interminabile: il ventre liscio e bianco del "Dancer" passò lentamente sopra di me e io tirai avanti con disperazione, stupito di avere ancora forza nelle gambe. A un tratto m'inghiottì il buio, una nuvola soffice, rosso scuro, e io fui quasi sopraffatto dal panico, pensando di aver perso la vista... finché a un tratto non m'accorsi che era il mio sangue. Enormi nuvole fluttuanti di sangue che macchiavano l'acqua. Minuscoli pesciolini zebrati saettavano alla cieca nella nuvola, inghiottendo avidamente. Allungai un pugno, ma il braccio sinistro non rispondeva. Pendeva inerte al mio fianco e il sangue si diffondeva intorno a me come fumo. Nel braccio destro avevo ancora forza e avanzai, passando sotto la chiglia del "Dancer" e risalendo verso la lontana linea di galleggiamento. Appena venni su vidi il cavo da traino di nylon che pendeva da poppa;
un doppino penzolava sotto la superficie e io lo afferrai, pieno di gratitudine. Emersi sotto la poppa del "Dancer" e aspirai l'aria dolorosamente, sentendo i polmoni come intorpiditi; in bocca l'aria aveva un sapore di rame vecchio, ma la mandai giù. Avevo ancora la mente lucida. Io mi trovavo sotto la poppa, il branco di lupi era a prua; la carabina era sotto il portello del motore nella cabina principale. Mi protesi più su che potevo e mi avvolsi intorno al polso destro un tratto del cavo di nylon, sollevai le ginocchia e posai le punte dei piedi sulla striscia ruvida della linea di galleggiamento del "Dancer". Sapevo di avere forze sufficienti per un solo tentativo, non di più. Dovevo riuscire. Li sentii gridare fra loro dall'alto della prua, le voci rese acute dall'ira, ma li ignorai e raccolsi tutte le mie riserve di energia. Mi tirai su con tutt'e due le gambe e l'unico braccio buono. Lo sforzo mi fece vedere le stelle e al posto del petto mi sembrava di avere una massa insensibile, ma riuscii a uscire dall'acqua e caddi di traverso sul parapetto di poppa, restando sospeso lì come un sacco vuoto su un recinto di filo spinato. Per qualche secondo rimasi disteso, finché la vista mi si schiarì e sentii il fiotto caldo di sangue scorrermi lungo il fianco e il ventre. Il fluire del sangue mi galvanizzò. Mi accorsi di quanto poco tempo avevo prima che l'emorragia mi facesse piombare nel buio. Scalciai con forza selvaggia e ruzzolai a capofitto sul tavolato del ponte di poppa, battendo la testa sull'orlo del sedile da pesca e lasciandomi sfuggire un grugnito per il nuovo dolore. Restai disteso di fianco e detti un'occhiata al mio corpo. Quello che vidi mi terrorizzò: perdevo grosse gocce di sangue denso, che stavano formando una pozza sotto di me. Mi aggrappai al ponte, trascinandomi verso la cabina, e raggiunsi il mancorrente vicino alla porta. Con un altro sforzo immane mi tirai in piedi, aiutandomi con un braccio, sorretto da gambe già deboli e molli. Lanciai in fretta un'occhiata oltre l'angolo della cabina, giù lungo il ponte di prua fino al punto in cui i tre uomini erano ancora riuniti. Jimmy North stava lottando per affibbiarsi di nuovo sulle spalle le bombole d'aria compressa; il suo viso era una maschera d'orrore e d'indignazione e quando gridò contro Materson la sua voce era stridula. «Pazzi assassini sanguinari, andrò giù a trovarlo. Andrò a recuperare il suo corpo... e, quant'è vero Iddio, vi vedrò impiccati tutti e due.» Nonostante le mie condizioni sentii un impeto improvviso di ammirazione per il coraggio del ragazzo. Non credo che gli fosse mai passato per la testa di essere anche lui sulla lista. «E' stato un omicidio, un omicidio a sangue freddo» gridò, e si rivolse al parapetto, sistemandosi la maschera sulla faccia. Materson lanciò un'occhiata a Guthrie: il ragazzo teneva le spalle voltate, e lui annuì. Tentai di gridare un avvertimento, ma il grido mi si strozzò in gola e Guthrie si accostò alle spalle di Jimmy. Stavolta non commise errori. Appoggiò la canna della grossa .45 alla base del cranio di Jimmy e lo sparo fu attutito dal cappuccio di neoprene della muta. Il cranio di Jimmy si afflosciò, frantumato dal passaggio del pesante proiettile, che fuoriuscì dal vetro della maschera da immersione in una nuvola di frammenti. La forza dell'impatto sbalzò Jimmy oltre la murata e il corpo cadde in acqua di fianco alla nave. Poi calò il silenzio, in cui l'eco dello sparo sembrò confondersi con il suono del vento e dell'acqua. «Andrà a fondo» disse con calma Materson. «Aveva una cintura zavorrata... piuttosto dovremmo cercare di trovare Fletcher. Non voglio che torni a galla con quel foro di pallottola nel petto.» «Ha schivato... quel bastardo ha schivato... non l'ho colpito in pieno... protestò Guthrie, poi non lo sentii più. Le gambe mi
cedettero e caddi lungo disteso sul tavolato del ponte di poppa. Ero nauseato dallo choc, dall'orrore e dal rapido defluire del sangue. Avevo assistito a un'infinità di morti violente, ma quella di Jimmy mi aveva colpito come nessun'altra. A un tratto sentii che c'era una cosa sola da fare prima che la morte sopraffacesse anche me. Cominciai a strisciare verso il portello della sala macchine. Il ponte bianco si stendeva davanti a me come il deserto del Sahara, e io cominciavo a sentire la mano di piombo di un'immensa stanchezza posarsi sulla mia spalla. Sentii i loro passi sul ponte e il mormorio delle loro voci. Stavano tornando a poppa. «Dieci secondi, ti prego, Dio» bisbigliai. «tutto quello che mi serve.» Ma sapevo che era inutile. Sarebbero entrati nella cabina molto tempo prima che raggiungessi il portello... eppure mi trascinai disperatamente in quella direzione. Poi a un tratto i passi s'interruppero, mentre le voci continuavano. Si erano fermati a chiacchierare sul ponte e io sentii un'ondata di sollievo perché avevo raggiunto il portello del motore. Ora lottavo con i cavigliotti. Parevano saldati e mi accorsi di quanto fossi debole, ma sentii serpeggiare, sotto la stanchezza, il fremito rivitalizzante della rabbia. Mi contorsi strisciando e sferrai un calcio contro i cavigliotti, che cedettero di colpo. Misi da parte la debolezza e mi sollevai sulle ginocchia. Mentre mi chinavo sul portello, una pioggia di sangue fresco cadde sul ponte immacolato. «Alla faccia tua, Chubby», pensai incoerentemente, e feci leva per issare il portello. Si sollevò con lentezza tormentosa, pesante come piombo, e sentii le prime fitte lancinanti al petto mentre i tessuti lesi si laceravano. Il portello ricadde all'indietro con un tonfo sordo e subito le voci sul ponte tacquero: me li figurai con le orecchie tese. Caddi disteso sul ventre, frugando febbrilmente sotto coperta, e la mia mano destra si chiuse sul calcio della carabina. «Vieni!» Si sentì un'esclamazione forte e riconobbi la voce di Materson e subito dopo il martellare di passi in corsa lungo il ponte verso poppa. Tirai stancamente la carabina, ma sembrava incastrata ai ganci e resisteva ai miei sforzi. «Cristo! Il ponte è pieno di sangue» gridò Materson. «Fletcher» gli fece eco Guthrie. «E' salito a bordo da poppa.» Proprio allora la carabina venne via e io per poco non la lasciai cadere nella sala macchine, ma riuscii a trattenerla il tempo necessario per rotolare al sicuro. Mi sedetti con l'arma in grembo e tolsi la sicura col pollice; sudore e acqua salata mi scorrevano sugli occhi offuscandomi la vista mentre tenevo d'occhio l'ingresso della cabina. Materson entrò di corsa senza vedermi, poi si fermò e mi fissò a bocca aperta. Aveva il viso rosso per lo sforzo e l'agitazione e alzò le mani, allargandole davanti a sé in un gesto di difesa mentre io sollevavo la carabina. Il diamante che portava al mignolo ammiccò allegro. Sollevai la carabina dalle ginocchia con una mano sola, e il suo peso immenso mi atterrì. Quando la canna fu puntata contro Materson, premetti il grilletto. Con un rombo fragoroso e continuo la carabina sputò una raffica ininterrotta di pallottole e il rinculo spostò in alto la canna, facendo scorrere il torrente di fuoco dall'inguine di Materson su fino al ventre e al torace. Lo proiettò all'indietro contro la paratia e lo tagliò in due come il colpo di un coltello che sventra un pesce, mentre danzava una breve e grottesca danza di morte. Sapevo di non dover scaricare la carabina, c'era ancora Mike Guthrie da sistemare, ma non ero in grado di allentare la presa sul grilletto e le pallottole straziarono il corpo di Materson, sfondando e frantumando il legname della paratia. Poi a un tratto sollevai il dito. Il torrente di pallottole cessò e Materson cadde di schianto in avanti. Guthrie si tuffò giù per la scaletta di boccaporto della cabina,
accovacciandosi con il braccio destro proteso in fuori, e mi sparò un colpo solo mentre me ne stavo seduto al centro della cabina. Aveva tutto il tempo che voleva per prendere la mira ma lo fece in fretta, spaventato e disorientato. Lo scoppio mi rintronò nei timpani e la pesante pallottola fendette l'aria contro la mia guancia, mancandomi di un soffio. Il rinculo fece scattare in alto la pistola e mentre lui l'abbassava per il colpo seguente, io mi lanciai di lato e sollevai la carabina. Doveva esserci rimasto un solo proiettile nella culatta, ma fu un colpo fortunato. Non presi la mira, ma mi limitai a premere il grilletto mentre la canna si alzava. Colpì Guthrie nella piega del gomito destro, spappolando l'articolazione, e la pistola gli volò all'indietro sopra la spalla, percorse rimbalzando il ponte e urtò con un tonfo sugli ombrinali di poppa. Guthrie piroettò di fianco, il braccio contorto in modo innaturale appeso all'articolazione rotta, e nello stesso istante il percussore della carabina scattò a vuoto. Ci fissammo l'un l'altro, entrambi feriti in modo grave, ma col vecchio antagonismo ancora vivo fra noi. Fu quello a darmi la forza di alzarmi sulle ginocchia e dirigermi verso di lui, lasciando cadere la carabina scarica. Guthrie grugnì e si allontanò, stringendosi con la mano valida il braccio spappolato. Barcollò verso la .45 che giaceva negli ombrinali. Vidi che non c'era modo di fermarlo. Non era ferito a morte e probabilmente sapeva sparare altrettanto bene con la sinistra. Eppure feci il mio ultimo tentativo e mi trascinai oltre il corpo di Materson, uscendo sul ponte di poppa proprio mentre Guthrie si chinava per raccogliere la pistola. Allora il "Dancer" venne in mio aiuto, impennandosi come un cavallo selvaggio, colpito da un'onda anomala. Fece perdere l'equilibrio a Guthrie e la pistola scivolò via sul ponte. Lui si girò per rincorrerla, scivolò nel sangue che avevo versato sul ponte di poppa e cadde. Piombò a corpo morto, inchiodando sotto di sé il braccio fracassato. Gridò, rotolò sulle ginocchia e cominciò a strisciare rapidamente dietro la lucente pistola nera. Contro la paratia esterna del ponte di poppa le lunghe fiocine erano ritte nella loro rastrelliera come una serie di stecche da biliardo, lunghe tre metri, con i grandi uncini d'acciaio all'estremità superiore. Chubby aveva affilato le punte come stiletti. Erano fatte per penetrare a fondo nel corpo di un pesce d'alto mare, e la violenza del colpo faceva staccare la punta dall'asta. Allora il pesce si poteva tirare a bordo con il tratto di pesante cavo di nylon fissato al gancio. Guthrie aveva quasi raggiunto la pistola quando io abbattei il fermo della rastrelliera e tirai giù una delle fiocine. Guthrie impugnò la sua pistola con la sinistra, maneggiandola con destrezza da prestigiatore per migliorare la presa, e mentre lui concentrava sull'arma tutta la sua attenzione io mi risollevai sulle ginocchia e alzai con una mano la fiocina, bilanciandola bene in alto e puntando alla schiena curva di Guthrie. Appena il gancio si abbassò su di lui spinsi con forza la fiocina, conficcandogliela fra le costole per tutta la sua lunghezza, affondando l'acciaio lucente fino alla curva. Il colpo lo spinse giù sul ponte e ancora una volta la pistola gli cadde di mano e il rollio della barca la spinse lontano da lui. Ora stava gridando, un lamento acuto da agonizzante, con l'acciaio conficcato a fondo nelle carni. Io spinsi più forte, con una mano sola, tentando di farla penetrare nel cuore o in un polmone, e il gancio si staccò dall'asta. Guthrie rotolò attraverso il ponte verso la pistola. La cercò tentoni, freneticamente, e io lasciai cadere l'asta della fiocina e cercai altrettanto freneticamente la fune per trattenerlo. Una volta avevo visto due lottatrici battersi in una pozza di fango nero in un night-club del quartiere di Saint Pauli ad Amburgo... ora
Guthrie e io recitavamo la stessa scena, ma invece che nel fango lottavamo in un bagno di sangue. Sdrucciolammo e rotolammo sul ponte, sbattacchiati senza pietà dal movimento del "Dancer" fra le onde. Guthrie finalmente si indeboliva, aggrappandosi con la mano sana al grande gancio conficcato nel suo corpo, e al rollio seguente riuscii a passargli intorno al collo un cappio di fune e a ottenere un saldo punto d'appoggio puntando un piede contro la base del sedile da pesca. Poi tirai con tutta la forza e decisione che mi restavano. A un tratto, con un solo rantolo esplosivo, la lingua gli uscì dalla bocca, il corpo si rilassò, le gambe rimasero inerti, e la testa ciondolò avanti e indietro seguendo il rollio del "Dancer". Ormai ero esausto al punto da non curarmi più di niente. La mano mi si aprì di sua iniziativa e la fune mi sfuggì. Caddi all'indietro e chiusi gli occhi. L'oscurità calò su di me come un sudario. Quando ripresi conoscenza mi pareva di avere il viso ustionato dall'acido, avevo le labbra gonfie e la sete infuriava come un incendio in una foresta. Ero rimasto disteso supino per sei ore sotto il sole tropicale, che mi aveva scottato senza pietà. Rotolai adagio su un fianco e mi lamentai debolmente: il mio torace era tutto un dolore. Rimasi immobile un po' per lasciarlo placare, poi cominciai a esplorare la ferita. La pallottola era penetrata attraverso il bicipite del braccio sinistro, mancando l'osso, ed era fuoruscita dal tricipite, aprendo un grosso foro d'uscita. Subito dopo era affondata di lato nel torace. Ansimando per lo sforzo individuai e sondai col dito la ferita. Aveva sfiorato una costola, sentivo che l'osso esposto era incrinato e frastagliato nel punto in cui il proiettile aveva colpito ed era stato deviato, lasciando schegge di piombo e frammenti d'osso nella carne maciullata. Era penetrato nel grosso muscolo della schiena... e uscito sotto la scapola, dove adesso c'era un foro piuttosto grande. Ricaddi all'indietro sul ponte, ansimando e lottando contro ondate di nausea e di vertigine. La mia esplorazione aveva fatto scorrere di nuovo il sangue, ma almeno sapevo che la pallottola non era entrata nella cavità del torace. C'era ancora qualche possibilità. Mentre riposavo mi guardai intorno con gli occhi annebbiati. Avevo i capelli e gli abiti incrostati di sangue secco, e il ponte di poppa era coperto da uno strato di sangue, annerito e lucente o vischioso e coagulato. Guthrie era disteso sulla schiena, con il gancio della fiocina ancora conficcato nel corpo e la corda intorno al collo. I gas gli si erano già formati nel ventre, conferendogli un aspetto gonfio da donna gravida. Mi sollevai sulle ginocchia e cominciai a strisciare. Il corpo di Materson bloccava per metà l'ingresso della cabina, squarciato dalle pallottole come se fosse stato straziato da un avvoltoio. Io lo superai strisciando e mi accorsi di piagnucolare forte nel vedere la ghiacciaia dentro il bar. Bevvi tre lattine di Coca-Cola, ansimando e soffocando per l'impazienza, versandomi sul petto la bibita gelata, gemendo e tirando su col naso a ogni sorso. Poi mi distesi di nuovo a riposare, chiusi gli occhi e mi augurai solo di dormire per sempre. "Dove diavolo sono?" La domanda mi colpì come uno choc, facendomi riscuotere. Il "Dancer" era alla deriva lungo una costa insidiosa, disseminata di barriere e di secche. Mi tirai in piedi e raggiunsi il ponte di poppa incrostato di sangue. Sotto di noi scorreva il blu violaceo cupo della corrente del Mozambico e intorno si stendeva un orizzonte sgombro, sul quale le schiere massicce di nuvole s'innalzavano alte fino al cielo azzurro. La marea e il vento ci avevano spinti lontano a est, avevamo spazio in quantità. Le gambe mi cedettero e forse dormii un po'. Quando mi svegliai mi sentivo più lucido, ma la ferita si era irrigidita terribilmente. Ogni gesto era un tormento. A quattro zampe raggiunsi la doccia, dove tenevo la cassetta del pronto soccorso. Mi strappai di dosso la camicia e versai una soluzione concentrata di acriflavina nelle cavità delle ferite. Poi le tamponai alla bell'e meglio con una medicazione
chirurgica e assicurai il tutto col cerotto meglio che potevo, ma lo sforzo era stato eccessivo e mi abbattei privo di conoscenza sul pavimento di linoleum. Mi svegliai con la testa leggera, debole come un neonato. Preparare un'imbracatura per il braccio ferito fu uno sforzo immane e il percorso fino al ponte fu un interminabile susseguirsi di vertigini, dolore e nausea. I motori del "Dancer" si avviarono al primo colpo, dolci come sempre. «Portami a casa, tesoro» bisbigliai, inserendo il pilota automatico. Gli fornii una direzione approssimativa. Il "Dancer" assunse la rotta e il buio m'inghiottì nuovamente. Caddi lungo disteso sul ponte, accogliendo a braccia aperte l'oblio che mi sommergeva. Forse a riscuotermi fu il cambiamento del passo del "Dancer". Non calava né rollava più all'unisono con le grosse ondate del Canale di Mozambico, ma se ne andava tranquillamente a spasso in un mare riparato. Il crepuscolo scendeva in fretta. Rigido, mi trascinai al timone. Feci appena in tempo, perché diritto a prua, nella luce morente, s'intravedeva terra. Chiusi di scatto la manetta del "Dancer" e spensi i motori. La barca si sollevò e ondeggiò dolcemente nell'acqua bassa. Riconobbi la sagoma della terra... era Big Gull Island. Avevamo mancato il canale del porto grande, la mia rotta puntava un po' troppo a sud, ed eravamo incappati nel gruppetto più meridionale di minuscoli atolli che formavano l'arcipelago di Saint Mary. Aggrappandomi al timone per trovare sostegno sbirciai in avanti. L'involto di tela era ancora sul ponte di poppa e di colpo capii che dovevo sbarazzarmene. In quel momento le ragioni non erano chiare. Avvertii confusamente che era una carta alta nel gioco in cui ero stato coinvolto. Sapevo che non avrei osato portarlo in pieno giorno nel porto grande. Già tre uomini erano stati uccisi per questo... e io mi ero fatto spappolare mezzo torace. Racchiuso in quel telone c'era qualche incantesimo potente. Impiegai quindici minuti a raggiungere il ponte di prua e svenni due volte lungo il tragitto. Quando raggiunsi strisciando l'involto di tela singhiozzavo forte a ogni movimento. Per un'altra mezz'ora tentai debolmente di svolgere la tela rigida e sciogliere i grossi nodi di nylon. Con una sola mano e le dita così intorpidite e deboli da non riuscire a chiudersi, era un'impresa disperata e il buio era sempre in agguato nella mia testa. Avevo paura di svenire con l'involto ancora a bordo. Disteso sul fianco, sfruttai gli ultimi raggi del sole al tramonto per rilevare le coordinate dell'estremità dell'isola, prendendo come riferimento un gruppetto di palme e la cima del rilievo... facendo il punto con cura. Poi aprii la parte mobile della battagliola di prua da cui di solito tiravamo a bordo i pesci grossi e trascinai il fagotto di tela, vi misi sopra i piedi e lo spinsi oltre la murata. Cadde con un tonfo pesante e le gocce mi schizzarono in faccia. I miei sforzi avevano riaperto le ferite e il sangue fresco inzuppava la rozza fasciatura. Ripresi la traversata del ponte ma non ce la feci. Svenni per l'ultima volta appena arrivato in fondo al ponte di poppa. Mi svegliarono il sole del mattino e un gracidio roco, ma quando aprii gli occhi il sole pareva velato, oscurato come da un'eclisse. La vista mi tradiva, e quando tentai di muovermi non ne ebbi la forza. Giacevo schiacciato sotto il peso della debolezza e del dolore. Il "Dancer" era inclinato in un angolo assurdo, probabilmente arenato sulla spiaggia. Alzai gli occhi sull'alberatura sopra di me. C'erano tre gabbiani dal dorso nero, grossi come tacchini, posati in fila sulla traversa dello straglio. Torsero il capo di lato per guardarmi: avevano il becco giallo chiaro e potente. La parte superiore terminava in una punta ricurva di un rosso ciliegia vivace. Mi osservavano con gli occhi neri lucenti e si lisciavano le penne con impazienza. Tentai di gridare per scacciarli ma le mie labbra si rifiutarono di muoversi. Ero completamente indifeso e sapevo che presto mi avrebbero attaccato agli occhi. Andavano pazzi per gli occhi.
Uno dei gabbiani si fece ardito e allargando le ali planò sul ponte accanto a me. Ripiegò le ali, zampettò un po' più vicino e ci fissammo. Tentai ancora di gridare, ma dalla gola non mi uscì nessun suono e il gabbiano zampettò ancora in avanti, poi allungò il collo, aprì quel becco maligno e lanciò un roco stridio minaccioso. Io sentii tutto il mio corpo torturato ritrarsi inorridito. A un tratto il tono dei gabbiani che stridevano cambia e l'aria si riempì del frullo delle loro ali. L'uccello che tenevo d'occhio stridette ancora, ma stavolta per la delusione, e si alzò in volo. Seguì un lungo silenzio, mentre giacevo sul ponte coperto di listelli duri, lottando per respingere le ondate di oscurità che tentavano di sopraffarmi. Poi a un tratto sentii un suono indistinto lungo la murata. Girai di nuovo la testa per affrontarlo e in quel momento un viso color cioccolato comparve all'altezza del ponte e mi fissò da una distanza di mezzo metro. «Oh Signore!» disse una voce familiare. «E' lei, signor Harry?» Più tardi seppi che Henry Wallace, un cacciatore di tartarughe di Saint Mary, si era accampato sugli atolli e alzandosi dal suo pagliericcio aveva visto il "Wave Dancer" arenato sul banco di sabbia della laguna, con sopra un nugolo di gabbiani che bisticciavano. Era arrivato a guado fino al banco e si era arrampicato sulla murata per dare un'occhiata al mattatoio che era diventato il ponte di poppa del "Dancer". Avrei voluto dirgli quant'ero felice di vederlo e promettergli birra gratis per il resto della sua vita... ma invece cominciai a piangere, grossi lacrimoni che colavano lenti. Non avevo nemmeno la forza di singhiozzare. «Per un graffietto del genere» si stupì MacNab. «Perché tutte queste storie?» e affondò con decisione la sonda. Io rimasi senza fiato mentre combinava qualcos'altro alla mia schiena; se ne avessi avuto la forza sarei sceso dal lettino dell'ospedale e gli avrei ficcato quella sonda dove ritenevo che in quel momento fosse il posto più appropriato. Invece gemetti piano. «Suvvia, dottore. Non le hanno insegnato niente sulla morfina e roba del genere, al tempo in cui avrebbero dovuto negarle la laurea?» MacNab fece il giro del lettino per guardarmi in faccia. Era grassoccio e congestionato in viso, sulla cinquantina, con i capelli e i baffi brizzolati. Il suo fiato avrebbe potuto servirmi da anestetico. «Harry, ragazzo mio, quella roba costa cara... comunque, lei è un paziente della mutua o un cliente privato?» «Ho appena cambiato condizione... sono un cliente privato.» «E ha fatto benissimo» approvò MacNab. «Un uomo col suo prestigio nella comunità» e accennò col capo all'infermiera. «Benissimo allora, mia cara, somministri al signor Harry un grano di morfina prima che procediamo.» Mentre aspettava che lei preparasse l'iniezione seguitò a risollevarmi il morale. «Ieri sera le abbiamo messo in corpo tre litri di sangue, era proprio rimasto a secco. L'ha bevuto come una spugna.» Be', non si può pretendere che a Saint Mary eserciti un luminare della scienza medica. Ero tentato di prestar fede alle voci secondo cui MacNab era in società con l'agenzia di pompe funebri di Fred Coker. «Quanto tempo ha intenzione di tenermi qui, dottore?» «Non più di un mese.» «Un mese?» Lottai per tirarmi a sedere e due infermiere si lanciarono su di me per trattenermi, cosa che non richiese un grande sforzo. Riuscii a malapena a sollevare la testa. «Non posso permettermelo. Mio Dio, siamo proprio nel pieno della stagione. Ho un nuovo cliente che arriva la prossima settimana...» L'infermiera si affrettò con la siringa. «... Sta cercando di rovinarmi? Non posso permettermi di perdere un solo cliente...» L'infermiera mi colpì con l'ago. «Harry, vecchio mio, la stagione può scordarsela. Non tornerà a pescare» e riprese a estirparmi pezzetti d'osso e schegge di piombo, zufolando allegramente in sordina. La morfina attutiva il dolore, ma
non la mia disperazione. Se il "Dancer" e io perdevamo metà della stagione non avremmo proprio potuto tirare avanti. Ancora una volta mi avevano ridotto sul lastrico. Dio, come odiavo il denaro. MacNab mi avvolse in bende bianche e aggiunse l'ultimo tocco al quadro radioso del mio futuro. «Mio caro Harry, lei perderà in parte l'uso del braccio sinistro. Probabilmente sarà sempre un po' rigido e debole, e le resterà qualche bella cicatrice da mostrare alle ragazze.» Finì di sistemare la benda e si rivolse all'infermiera. «Cambi la medicazione ogni sei ore, spennelli la zona con Eusol e gli dia la solita dose di aureomicina ogni quattro ore. Stasera tre Mogadon e domani passerò a visitarlo facendo il giro delle corsie.» Si volse a sorridermi con i denti guasti sotto i baffi grigi arruffati. «Fuori della porta c'è tutto il corpo di polizia che aspetta. Ora dovrò lasciarli entrare.» Si avviò alla porta, poi si fermò per ridacchiare di nuovo. «Li ha conciati per le feste, quei due, infilzandoli con la fiocina come polli allo spiedo. Ben fatto, mio caro Harry.» L'ispettore Daly era inguainato in un'impeccabile divisa color kaki, inamidata e immacolata, e cinturone e bandoliere di cuoio parevano tirati a specchio. «Buonasera, signor Fletcher. Sono venuto a stendere la sua deposizione. Spero che si senta abbastanza in forze.» «Mi sento d'incanto, ispettore. Non c'è niente come una pallottola in corpo per rimettere uno in sesto.» Daly si rivolse all'agente che lo seguiva e gli accennò di portare la sedia accanto al letto; mentre lui si sedeva e metteva a portata di mano il blocco, l'agente mi disse piano: «Mi spiace vederla in questo stato, signor Harry.» «Grazie, Wally, ma avresti dovuto vedere gli altri.» Wally era nipote di Chubby e sua madre mi faceva il bucato. Era un bel giovanottone scuro di pelle e forte come un toro. «Li ho visti» rispose con un sorriso. «Accidenti!» «Se lei è pronto, signor Fletcher» interloquì Daly, seccato dallo scambio di battute «possiamo procedere.» «Spari pure» dissi io: avevo già la mia storia bell'e pronta. Come tutte le buone storie, era la pura e sacrosanta verità, con qualche omissione. Non accennai alla preda che James North aveva portato in superficie e che io avevo ributtato in mare al largo di Big Gull... né rivelai a Daly in quale punto avevamo condotto le ricerche. Lui voleva saperlo, naturalmente. Continuava a battere su quel tasto. «Che cosa stavano cercando?» «Non ne ho idea. Stavano bene attenti a non farmelo capire.» «Dov'è successo tutto questo?» insistette. «Nel braccio di mare oltre Herring Bone Reef, a sud di Rastafa Point.» «Saprebbe riconoscere il punto esatto in cui si sono immersi?» «Non credo, perlomeno non senza uno scarto di alcune miglia. Io non facevo che seguire le istruzioni.» Per la frustrazione, Daly si tormentò con i denti i baffi serici. «D'accordo, lei afferma che l'hanno aggredita senza preavviso» e io annuii. «Perché l'hanno fatto... E perché avrebbero dovuto tentare di ucciderla?» «Per la verità non ne abbiamo mai discusso. Non ho avuto occasione di chiederglielo.» Cominciavo a sentirmi di nuovo esausto e debole e non volevo continuare a parlare, per paura di commettere un errore. «Quando Guthrie ha cominciato a spararmi addosso con quel cannone, non mi è sembrato che avesse voglia di fare due chiacchiere.» «Questo non è uno scherzo, Fletcher» ribatté lui seccato, e io suonai il campanello accanto al letto. L'infermiera doveva essere rimasta in attesa proprio dietro la porta. «Infermiera, mi sento male.» «Ora deve andare, ispettore.» La ragazza affrontò come una chioccia i due poliziotti e li condusse via dalla corsia. Poi tornò indietro a sistemarmi i cuscini. Era un cosino molto grazioso, con enormi occhi scuri, e la sua vita sottile era circondata da una cintura stretta che sottolineava il petto florido e ben modellato, sul quale spiccavano distintivi e medaglie. Lucidi riccioli castani le sfuggivano dal berrettino
impertinente. «Posso sapere il suo nome, infermiera?» bisbigliai con voce roca. «May.» «Com'è che non l'ho mai vista in giro?» chiesi mentre si chinava sul mio letto per rimboccarmi le lenzuola. «Si vede che non aveva gli occhi aperti, signor Harry.» «Be', ora li ho aperti.» Il davanti della fresca camicetta bianca dell'uniforme era a pochi centimetri dal mio naso. Lei si raddrizzò in fretta. «Qui dicono di lei che è un vero demonio» ribatté. «Ora so che non raccontano frottole.» Ma sorrideva. «Ora dorma. Deve rimettersi in forze.» «Sì, ne riparleremo» risposi, e lei rise forte. Nei tre giorni seguenti ebbi parecchio tempo per riflettere, perché non erano ammessi visitatori finché non fosse stata conclusa l'inchiesta ufficiale. Daly teneva un agente di guardia fuori della mia camera e non c'erano dubbi sul fatto che ero stato accusato di omicidio premeditato. Avevo una stanza fresca e piena di luce, con una splendida vista sui prati e sugli alti alberi di banano dalle foglie scure, e ancora più in là sulle imponenti mura di pietra del forte, con i cannoni disposti lungo i bastioni. Il vitto era ottimo con una quantità di pesce e di frutta, e May ed io stavamo diventando buoni, se non addirittura intimi, amici. Mi procurò perfino di contrabbando una bottiglia di Chivas Regal, che tenevamo nascosta nella padella. Da lei appresi che tutta l'isola era in subbuglio per il carico che il "Wave Dancer" aveva riportato nel porto grande. Mi riferì che il giorno dopo avevano seppellito Materson e Guthrie nel vecchio cimitero. I cadaveri non si conservano a lungo, a quelle latitudini. In quei tre giorni decisi che l'involto che avevo gettato in mare al largo di Big Gull doveva restare lì. Intuivo che d'ora in poi avrei avuto addosso molti occhi ed ero in netto svantaggio. Io non sapevo chi fosse in osservazione e non sapevo perché. Mi sarei defilato finché non avessi scoperto da quale parte poteva arrivare la prossima pallottola. Il gioco non mi piaceva. Loro potevano eliminarmi facilmente, e io mi sarei dovuto attenere a una linea di condotta che rientrasse nelle mie possibilità. Pensai molto anche a Jimmy North, e ogni volta che mi sentivo addolorato senza motivo cercavo di convincermi che era un estraneo, che per me non significava niente ma non ci riuscivo. Questa è una mia debolezza da cui ho sempre dovuto difendermi. Mi lascio coinvolgere emotivamente con troppa facilità. Per evitare complicazioni, tento di andare avanti da solo, e dopo anni di pratica ho raggiunto una certa abilità. E' raro, di questi tempi, che qualcuno riesca a penetrare nella mia corazza come aveva fatto Jimmy North. Il terzo giorno mi sentii molto più forte. Potevo mettermi seduto senza assistenza e senza soffrire troppo. L'inchiesta ufficiale si tenne nella mia stanza d'ospedale. Fu una seduta a porte chiuse, cui presenziarono solo i capi dei rami legislativo, giudiziario ed esecutivo del governo di Saint Mary. Il presidente in persona, vestito come sempre in nero, con una camicia bianca e un'aureola di capelli candidi intorno alla testa pelata, presiedeva la seduta. Lo assisteva il giudice Harkness, alto, sottile e brunito dal sole fino ad assumere un color mogano, mentre l'ispettore Daly rappresentava l'esecutivo. Il primo pensiero del presidente fu per il mio benessere e il mio stato di salute. Ero uno dei suoi ragazzi. «E' sicuro di non sentirsi stanco adesso, signor Harry? Qualunque cosa lei voglia, non deve che chiederla, capito? Siamo venuti qui solo per ascoltare la sua versione, ma desidero dirle fin d'ora di non preoccuparsi. Non le succederà niente.» L'ispettore Daly assunse un'aria afflitta, vedendo dichiarare innocente il suo prigioniero prima ancora che fosse iniziato il processo. Così ripetei la mia storia, col presidente che faceva commenti incoraggianti o ammirati ogni volta che mi fermavo a riprendere fiato, e quando finii scosse la testa in segno di meraviglia.
«Tutto quel che posso dire, signor Harry, è che non sono molti gli uomini che avrebbero avuto la forza e il coraggio di fare quello che ha fatto lei contro quei delinquenti, non è vero, signori?» Il giudice Harkness ne convenne di cuore, ma l'ispettore Daly non aprì bocca. «Ed erano autentici gangster» aggiunse il presidente. «Abbiamo trasmesso a Londra le loro impronte e oggi abbiamo saputo che quegli uomini erano venuti qui sotto falso nome ed erano ben conosciuti a Scotland Yard. Gangster, tutti e due.» Il presidente guardò il giudice Harkness. «Qualche domanda, giudice?» «Non credo, signor presidente.» «Bene.» Il presidente annuì con aria giuliva. «E lei, ispettore?» Daly esibì una lista dattiloscritta. Il presidente non fece nessuno sforzo per nascondere la sua irritazione. «Il signor Fletcher è ancora convalescente. Spero che le sue domande siano davvero importanti.» L'ispettore Daly esitò e il presidente proseguì in tono brusco: «Bene, allora siamo tutti d'accordo. Il verdetto è di morte accidentale. Il signor Fletcher ha agito per legittima difesa e di conseguenza è prosciolto da ogni imputazione. Non gli verrà mossa nessuna accusa». Si rivolse al cancelliere nell'angolo. «Ha scritto tutto? La batta a macchina e ne mandi una copia al mio ufficio per la firma.» Si alzò e si avvicinò al mio capezzale. «Ora si rimetta alla svelta, signor Harry. La aspetto a cena al palazzo del Governo, appena starà abbastanza bene. La mia segretaria le manderà un invito formale. Voglio sentire di nuovo tutta la storia.» La prossima volta che comparirò davanti a una giuria, come certamente avverrà, spero di ottenere la stessa considerazione. Poiché ero stato riconosciuto ufficialmente innocente mi fu consentito di ricevere visite. Chubby e la sua signora vennero insieme, addobbati coi loro abiti migliori. Conoscendo il mio debole, la signora Chubby aveva preparato una delle sue splendide torte di banane. Chubby era diviso fra il sollievo nel rivedermi vivo e l'indignazione per i danni che avevo inflitto al "Wave Dancer". Mi fulminò col suo cipiglio feroce, cominciando a snocciolarmi le sue lamentele. «Non ci sarà mai verso di far tornare pulito quel ponte. Si è impregnato proprio, amico. E quella tua dannata carabina ha sbriciolato la paratia della cabina. Io e Angelo ci stiamo lavorando da tre giorni, ormai, e ce ne vorranno ancora parecchi.» «Mi spiace, Chubby, la prossima volta che sparo a qualcuno prima lo metterò sull'attenti vicino al parapetto.» Sapevo che quando Chubby avesse finito le riparazioni il danno non si sarebbe notato. «Quando esci, comunque? Laggiù sulla corrente c'è un gran viavai di pesci grossi, Harry.» «Sarò fuori molto presto, Chubby. Fra una settimana al massimo.» Chubby sbuffò. «Hai sentito che Fred Coker ha annullato tutti i tuoi ingaggi per il resto della stagione? Ha detto che eri gravemente ferito e ha passato le prenotazioni al signor Coleman.» Allora persi la pazienza. «Di' a Fred Coker di venire qui e al più presto!» gridai. Dick Coleman aveva un accordo con l'albergo Hilton. Loro avevano finanziato l'acquisto di due grosse imbarcazioni, che Coleman aveva affidato a un paio di capitani d'importazione. Nessuno dei suoi battelli faceva buona pesca, non ne avevano la stoffa. Coleman incontrava molte difficoltà per trovare clienti, e io indovinai che Fred Coker aveva ricevuto un lauto compenso per passargli le mie prenotazioni. Coker arrivò la mattina dopo. «Signor Harry, il dottor MacNab mi aveva detto che per questa stagione lei non avrebbe potuto pescare. Non potevo deludere i clienti, fanno ottomila chilometri di volo per trovarla in un letto d'ospedale. Non potevo farlo... ho la mia reputazione cui badare.» «Signor Coker, la sua reputazione puzza come uno di quei cadaveri che lei tiene nel retrobottega» gli dissi, e lui mi fissò con occhi miti dietro gli occhiali cerchiati d'oro; ma naturalmente aveva ragione lui, sarebbe passato parecchio tempo prima che potessi portare il "Dancer" sulla rotta dei grossi pesci.
«Ora non si scaldi, signor Harry. Appena starà meglio le procurerò qualche ingaggio redditizio.» Parlava di nuovo di contrabbando; la sua provvigione per un solo viaggio poteva arrivare a settecentocinquanta dollari. Con quel lavoro potevo cavarmela anche nelle mie attuali condizioni precarie, si trattava solo di guidare il "Dancer" avanti e indietro... finché non capitavano guai. «Se lo scordi, signor Coker. Gliel'ho già detto, d'ora in poi vado a pesca e basta» e lui annuì sorridendo e proseguì come se non avesse sentito. «Ho ricevuto richieste insistenti da parte di uno dei suoi vecchi clienti.» «Corpi? Casse?» domandai. "Corpi" indicava il trasporto illegale da o per il continente africano di esseri umani, uomini politici in fuga con lo squadrone della morte alle calcagna... o viceversa aspiranti politici che tentavano di operare cambiamenti radicali nel loro paese. Le casse di solito contenevano prodotti letali ed era un traffico unilaterale. Ai vecchi tempi lo chiamavano contrabbando di armi. Coker scosse la testa e disse: «Cinque, sei» alludendo alla vecchia filastrocca infantile: «Cinque, sei, tonti e babbei». In questo contesto "babbei" erano zanne d'avorio. Una massiccia operazione di caccia di frodo altamente organizzata stava sistematicamente cancellando l'elefante africano dalle riserve e dalle terre tribali dell'Africa orientale. L'Oriente costituiva per l'avorio un mercato insaziabile e redditizio. Erano necessari un battello veloce e un buon comandante per trasportare il prezioso carico fuori dall'estuario di un fiume, attraverso le pericolose acque interne, fino al largo nel punto in cui uno dei grossi battelli d'alto mare a vela latina era in attesa sulla corrente del Mozambico. «Signor Coker» gli dissi in tono stanco «sono certo che sua madre non ha mai saputo il nome di suo padre.» «Si chiamava Edward, signor Harry» ribatté lui con un sorriso prudente. «Ho detto al cliente che il prezzo era salito. Con l'inflazione e il costo della nafta.» «Quanto?» «Settemila dollari a viaggio.» Il che non era tanto quanto sembrava, dopo che Coker ne aveva detratto il quindici per cento e altrettanto era finito in tasca all'ispettore Daly, abbassandogli la vista e diminuendogli l'udito. Per di più Chubby e Angelo ricevevano sempre un premio straordinario di cinquecento dollari ciascuno per notte. «Se lo scordi, signor Coker» dissi in tono poco convincente. «Mi procuri solo un paio di clienti che vogliono pescare.» Ma sapevo di non potercela fare. «Appena lei sarà abbastanza in forma per pescare, ci penseremo. Nel frattempo, quando vuol fare la prima corsa notturna? Diciamo fra dieci giorni a partire da oggi? Ci sarà l'alta marea di primavera e una buona luna.» «D'accordo» accettai rassegnato. «Fra dieci giorni.» Una volta presa una decisione concreta, parve che la guarigione delle mie ferite accelerasse. Al momento della sparatoria ero stato in piena forma, il che era un vantaggio, e i fori spalancati nel braccio e nella schiena cominciarono miracolosamente a rimarginarsi. Il sesto giorno raggiunsi una pietra miliare nella mia convalescenza. L'infermiera May mi stava facendo il bagno, con un catino di acqua saponata e una salvietta, quando si verificò una monumentale dimostrazione del mio vigore fisico. Perfino io, che non ero estraneo al fenomeno, rimasi impressionato, mentre May era tanto emozionata che la sua voce si ridusse a un bisbiglio roco. «Oh Signore!» mormorò. «Certo che ha ripreso le forze.» «Infermiera, pensa che dovrebbero andare sprecate?» le chiesi, e lei scosse vigorosamente la testa. Da allora cominciai a considerare con maggiore ottimismo le mie condizioni, e com'era prevedibile il segreto avvolto nel telone al largo di Big Gull riprese a tormentarmi. Sentivo vacillare i miei buoni propositi. "Ci darò soltanto un'occhiata" mi dissi. "Quando sarò sicuro che le acque si sono calmate."
Ormai mi concedevano di restare alzato per alcune ore di seguito, e mi sentivo irrequieto e ansioso di accelerare la guarigione. Neanche gli sforzi generosi di May riuscivano a smorzare l'impeto delle mie energie che si risvegliavano. MacNab ne rimase impressionato. «Si rimarginano bene, vecchio mio. Si stanno chiudendo che è una bellezza... ancora una settimana.» «Una settimana un corno!» ribattei con decisione. Fra una settimana avrei compiuto la mia scorribanda notturna. Coker aveva sistemato tutto senza difficoltà... e io ero quasi in bolletta. Avevo un bisogno disperato di quella spedizione. La mia ciurma veniva ogni sera a trovarmi e a riferire sui progressi delle riparazioni al "Dancer". Una volta Angelo arrivò prima del solito: era vestito con la sua tenuta di gala, stivali da rodeo e tutto il resto, ma era stranamente calmo e aveva compagnia. La ragazza che lo accompagnava era la giovane maestra d'asilo della scuola statale giù al forte. La conoscevo abbastanza da scambiare con lei un sorriso per strada. Un giorno la signora Eddy mi aveva riassunto in una frase il suo carattere. «E' una brava ragazza, quella Judith. Non frivola e leggera come certe altre. Sarà una brava moglie per qualche fortunato.» Era anche attraente, con una figura alta e flessuosa, vestita con garbo in modo tradizionale, e mi salutò timidamente. «Come va, signor Harry?» «Salve, Judith. E' stata gentile a venire» e guardai Angelo, senza riuscire a reprimere un sorriso. Lui non poté sostenere il mio sguardo, e arrossì fino alla radice dei capelli, cercando le parole. «Io e Judith pensiamo di sposarci» sbottò alla fine. «Volevamo fartelo sapere, capo.» «Crede di riuscire a tenerlo sotto controllo, Judith?» esclamai con una risata deliziata. «Aspetti e vedrà» rispose lei, con un lampo negli occhi scuri che rendeva superflua la domanda. «E' magnifico... farò un discorso al vostro matrimonio» promisi loro. «Lascerà che Angelo continui a lavorare per me?» «Non mi sognerei mai di impedirglielo» mi assicurò Judith. «Con lei ha un ottimo lavoro.» Si trattennero per un'altra ora e quando uscirono provai una fitta d'invidia. Doveva essere una bella sensazione avere qualcuno... oltre a se stessi. Pensai che un giorno, se mai avessi trovato la persona giusta, avrei potuto tentare. Poi liquidai quell'idea, rialzando la guardia. C'era un'infinità di donne... e niente ti garantiva di scegliere quella giusta. MacNab mi dimise con due giorni d'anticipo. I vestiti mi pendevano dalle spalle ossute, avevo perso quasi dodici chili di peso e l'abbronzatura era impallidita in un giallo sporco; avevo delle grosse ombre scure sotto gli occhi e mi sentivo ancora debole come un neonato. Avevo il braccio al collo e le ferite erano ancora aperte, ma potevo cambiare da solo la medicazione. Angelo portò il furgoncino all'ospedale e rimase ad aspettare mentre salutavo May sugli scalini. «E' stato un piacere conoscerti, Harry.» «Vieni al bungalow, qualche volta. Arrostirò sulla griglia un'infinità di pesci e berremo un po' di vino.» «Il mio contratto scade la prossima settimana. Poi tornerò a casa, in Inghilterra.» «Sii felice, capito?» le raccomandai. Angelo mi accompagnò all'Ammiragliato e insieme a Chubby trascorremmo un'ora a esaminare le riparazioni sul "Dancer". I ponti erano bianchi come la neve, e loro avevano sostituito tutte le parti in legno della paratia del salone, un magnifico esempio di falegnameria in cui non riuscii a trovare neanche una pecca. Portammo la barca lungo il canale fino a Mutton Point, e fu un piacere sentirla navigare leggera sotto i piedi e udire il borbottio sommesso dei motori. Tornammo a casa nel crepuscolo per legarla agli ormeggi e starcene seduti al buio sul ponte, bevendo birra e chiacchierando. Annunciai loro che avevamo in programma un viaggio per la notte successiva e mi chiesero per dove e quale fosse il carico. Questo fu
tutto... era stabilito e non ci furono discussioni. «E' ora di andare» disse alla fine Angelo. «Vado a prendere Judith alla scuola serale» e tornammo a riva col canotto. C'era una Land Rover della polizia parcheggiata vicino ai mio camioncino, sul retro dei magazzini di ananas, e Wally, il giovane agente, scese appena ci avvicinammo. Salutò suo zio e poi si rivolse a me. «Mi spiace infastidirla, signor Harry, ma l'ispettore Daly vuole vederla al forte. Dice che è urgente.» «Dio» brontolai. «Potrà aspettare fino a domani.» «Dice di no, signor Harry.» Wally aveva un tono di scusa e per accontentarlo cedetti. «Okay, ti seguirò con il furgoncino... ma prima dobbiamo accompagnare Chubby e Angelo.» Pensai che probabilmente Daly voleva mercanteggiare sul suo compenso. Di solito ci pensava Fred Coker, ma mi feci l'idea che Daly volesse alzare il prezzo del suo onore. Guidando con una sola mano e reggendo il volante con un ginocchio mentre cambiavo con la mano sana, seguii i fanalini di coda rossi della Land Rover di Wally, superai sferragliando il ponte levatoio e parcheggiai nel cortile del forte. Le imponenti mura di pietra erano state costruite con il lavoro degli schiavi verso la metà del diciottesimo secolo e dagli ampi bastioni il lungo cannone da trentasei libbre era puntato verso il canale e l'ingresso al porto grande. Un'ala veniva usata come quartier generale della polizia, prigione e arsenale... il resto era occupato da uffici governativi e appartamenti presidenziali e statali. Salimmo gli scalini della facciata fino all'ufficio della polizia e Wally mi fece strada attraverso una porta secondaria e lungo un corridoio giù per gli scalini, un altro corridoio, altri scalini di pietra. Finora non ero mai stato quaggiù, ed ero incuriosito. Le pareti di pietra in questo punto dovevano avere uno spessore di almeno sei metri: probabilmente si trattava dell'antica polveriera. Mi aspettavo quasi che Frankenstein fosse in agguato dietro la massiccia porta di quercia munita di borchie di ferro e patinata dal tempo, in fondo all'ultimo corridoio. La superammo. Non era Frankenstein, ma poco ci mancava. Ci aspettava l'ispettore Daly, con un altro dei suoi agenti. Notai subito che portavano il manganello. La stanza era vuota, fatta eccezione per un tavolo di legno e quattro sedie da ufficio. Le pareti erano di pietra grezza e il pavimento era lastricato. In fondo alla stanza una porta ad arco conduceva a una fila di celle. La luce era fornita da lampadine nude da cento watt, appese a un filo elettrico nero che correva allo scoperto lungo il soffitto sostenuto da travi. Le lampadine proiettavano ombre scure negli angoli della stanza di forma irregolare. Sul tavolo era posata la mia carabina FN. La fissai senza capire. Alle mie spalle Wally chiuse la porta di quercia. «Signor Fletcher, è sua quest'arma?» «Lo sa maledettamente bene» risposi seccato. «Dove vuole arrivare Daly?» «Harold Delville Fletcher, la dichiaro in arresto per il possesso illegale di armi da fuoco di categoria A. Tanto per capirci, un fucile automatico tipo Fabrique Nationale, serie quattro uno sei tre due uno cinque privo di licenza.» «Le ha dato di volta il cervello» esclamai, scoppiando a ridere. La risata non gli piacque. Le labbra piccole e molli sotto i baffi si contrassero come quelle di un bambino imbronciato e lui fece un cenno col capo ai suoi agenti. Avevano ricevuto istruzioni e uscirono dalla porta di quercia. Sentii scattare i chiavistelli e restai solo con Daly. Stava in piedi a una buona distanza da me, all'altro capo della stanza... e la falda della sua fondina era slacciata. «Sua eccellenza lo sa, Daly?» gli chiesi, sempre sorridendo. «Sua eccellenza ha lasciato Saint Mary alle quattro di questo
pomeriggio per assistere alla conferenza dei capi del Commonwealth a Londra. Non tornerà prima di due settimane.» Smisi di sorridere. Sapevo che era vero. «Nel frattempo ho ragione di credere che la sicurezza dello Stato sia in pericolo.» Ora sorrideva lui, un sorriso sottile e circoscritto alla bocca. «Prima di procedere voglio convincerla che faccio sul serio.» «Ci credo» gli assicurai. «Ho due settimane con lei da solo, qui, Fletcher. Queste pareti sono molto spesse, può fare quanto chiasso vuole.» «Lei è un povero disgraziato.» «Le restano solo due modi per andarsene di qui. O veniamo a un accordo... oppure la farò portare via da Fred Coker in una cassa.» «Sentiamo che affare mi propone.» «Voglio sapere con precisione, e sottolineo con precisione, dov'è che i suoi clienti hanno effettuato le immersioni prima della sparatoria.» «Gliel'ho detto... in un punto al largo di Rastafa Point. Non saprei indicarle la posizione esatta.» «Fletcher, lei conosce il posto al millimetro. Sono pronto a scommetterci la "sua" pelle. Non si lascerebbe sfuggire un'occasione del genere. Lo sa. Io lo so... e loro lo sapevano, ecco perché hanno cercato di eliminarla.» «Ispettore, vada a farsi fottere» scattai. «Quel che è certo è che non era affatto vicino a Rastafa Point. Lei stava lavorando a nord di qui, verso la terraferma. La cosa m'interessava... ho ricevuto dei rapporti sui suoi movimenti.» «Era un punto al largo di Rastafa Point» ripetei ostinato. «Benissimo» annuì. «Spero che lei non sia duro come la dà a intendere, Fletcher, altrimenti sarà una faccenda lunga e penosa. Prima di cominciare, però, la avverto di non farmi perdere tempo con dati falsi. La terrò qui finché non avrò controllato... ho due settimane.» Ci fissammo, e la pelle cominciò ad accapponarsi. Capii che Peter Daly pregustava quest'occasione. Su quelle labbra sottili c'era un'espressione ghiotta e negli occhi uno sguardo torbido. «In Malesia ho acquistato una certa esperienza in fatto di interrogatori... Soggetto affascinante. Ci sono tanti aspetti. Spesso sono i tipi duri e ostinati a cedere per primi, mentre le mezze calzette resistono all'infinito...» Erano parole dettate dall'eccitazione; vedevo bene che lo solleticava l'idea di infliggere dolore. Il ritmo del suo respiro era cambiato, più rapido e profondo, sulle guance aveva un colorito acceso. «... naturalmente ora lei non è in piena forma fisica, Fletcher. Probabilmente la sua capacità di resistenza al dolore è diminuita di molto dopo le sue recenti disavventure. Non credo che ci vorrà molto...» Pareva che gli dispiacesse. Raccolsi le mie forze, irrigidendomi per balzargli addosso. «No» scattò lui. «Non lo faccia, Fletcher.» Posò la mano sul calcio della pistola. Era distante cinque metri. Io avevo un solo braccio sano, ero debole, dietro di me avevo una porta chiusa a chiave e due agenti armati... abbassai le spalle, rilassandomi. «Così va meglio.» Sorrise di nuovo. «Ora penso che la ammanetteremo alle sbarre di una cella e poi potremo metterci al lavoro. Quando ne avrà avuto abbastanza dovrà soltanto dirlo. Credo che troverà il mio piccolo impianto elettrico rudimentale ma efficace. E' una semplice batteria d'automobile da dodici volts: aggancio i morsetti alle parti sensibili del corpo...» Si allungò all'indietro e per la prima volta notai il pulsante di un campanello elettrico incassato nella parete. Lo premette e io sentii il campanello squillare fioco oltre la porta di quercia. I chiavistelli scattarono all'indietro e i due agenti rientrarono. «Portatelo fino alle celle» ordinò Daly, e gli agenti esitarono. Intuii che erano nuovi a questo genere di operazioni. «Avanti» scattò Daly, e loro mi si affiancarono. Wally posò con leggerezza la mano sul mio braccio ferito e io mi lasciai guidare in avanti verso le celle... e Daly. Volevo avere una possibilità di attaccarlo, almeno una. «Come sta la mamma, Wally?» chiesi con disinvoltura.
«Sta benissimo, signor Harry» mormorò imbarazzato. «Ha ricevuto il regalo che le ho mandato per il suo compleanno?» «Sì, l'ha ricevuto.» Era distratto proprio come speravo. Eravamo arrivati all'altezza di Daly; lui era ritto sulla soglia che dava accesso alle celle, in attesa che passassimo, battendosi il frustino contro la coscia. Gli agenti mi trattenevano con rispetto, senza stringere, incerti, e io feci un passo di lato sbilanciando leggermente Wally, poi piroettai indietro, liberandomi. Nessuno di loro se l'aspettava e prima che si accorgessero di quello che stavo facendo io avevo percorso i tre passi che mi separavano da Daly... e gli avevo piantato il ginocchio destro nel corpo con tutto il mio peso. Lo presi proprio in mezzo alle gambe, un colpo magnificamente centrato. Qualunque prezzo dovessi pagare per quel piacere, sarebbe stato sempre troppo basso. Daly fu proiettato a quaranta centimetri buoni dal terreno, e ricadde all'indietro abbattendosi contro le sbarre. Poi si piegò in due, le mani strette sulla parte inferiore del corpo con un grido fievole, un suono simile al vapore che esce da una pentola a pressione. Mentre ricadeva io presi la mira per assestargli un altro colpo in faccia, volevo fargli saltare i denti con un calcio in bocca... ma gli agenti si erano ripresi e saltarono in avanti per allontanarmi. Stavolta furono rudi e mi torsero il braccio. «Non avrebbe dovuto farlo, signor Harry» gridò Wally furioso. Le sue dita mi affondavano nel bicipite e io digrignai i denti. «Il presidente in persona mi ha prosciolto, Wally. Tu lo sai» gli gridai di rimando. E Daly si raddrizzò, il viso contorto dallo spasimo, continuando a tenersi la parte colpita. «Questa è una montatura.» Sapevo di avere solo pochi secondi per parlare, Daly barcollava verso di me, brandendo il frustino, la bocca spalancata come per trovare la voce. «Se mi ficca in quella cella mi ucciderà, Wally!» «Silenzio!» stridette Daly. «Non oserebbe farlo se il presidente...» «Silenzio! Silenzio!» Brandì il frustino, che sibilò come un cobra in un colpo trasversale. Aveva mirato deliberatamente alle mie ferite e la canna flessibile scattò intorno a me come un colpo di pistola. Il dolore fu superiore a ogni previsione e io mi contorsi, impennandomi involontariamente nella loro presa. Mi trattennero. «Silenzio!» Daly era isterico di dolore e di rabbia. Vibrò un altro colpo, e la canna penetrò a fondo nella carne ancora semicicatrizzata. Stavolta gridai. «Ti ammazzerò, bastardo.» Daly barcollò all'indietro, ancora contratto per il dolore, e cercò tastoni la pistola nella fondina. Quello che avevo sperato ora accadde. Wally mi lasciò andare e balzò in avanti. «No» gridò. «Questo no.» Con la sua mole torreggiava sulla figura snella e ingobbita di Daly e con una sola mano bruna bloccò il suo gesto. «Levati di mezzo. E' un ordine» gridò Daly, ma Wally sganciò il laccio dal calcio della pistola e lo disarmò. Indietreggiò con la pistola in mano. «Ti costerà caro» ringhiò Daly. «E' tuo dovere...» «Conosco il mio dovere, ispettore» Wally parlò con semplice dignità «e non è assassinare i prigionieri.» Poi si rivolse a me. «Signor Harry, lei farebbe meglio a uscire di qui.» «Stai liberando un prigioniero...» ansimò Daly. «Bada, ti rovinerò.» «Non ho visto nessun mandato di cattura» tagliò corto Wally. «Appena il presidente firmerà un mandato, noi riporteremo subito qui il signor Harry.» «Bastardo» ansimò Daly, e Wally si rivolse a me. «Vada!» ordinò. «Presto!» Il viaggio fino al mio bungalow mi sembrò interminabile: ogni sobbalzo sulla pista mi si ripercuoteva nel petto. Se una cosa avevo appreso dalle piacevolezze della serata, era che la mia idea iniziale si rivelava esatta: qualunque cosa contenesse quel fagotto al largo di
Big Gull, era in grado di cacciare un individuo pacifico come me in un mare di guai. Non ero tanto ingenuo da credere che l'ispettore Daly avrebbe rinunciato all'idea d'interrogarmi. Non appena si fosse ripreso dal calcio che avevo affibbiato al suo apparato riproduttivo, avrebbe fatto un altro tentativo di collegarmi all'impianto d'illuminazione. Mi chiesi se Daly agiva in proprio o aveva dei soci... e decisi che era solo e cercava di cogliere l'occasione al volo. Parcheggiai il furgoncino nel cortile del mio bungalow e uscii sulla veranda. La signora Chubby era venuta a spazzare e riordinare mentre ero via. C'erano dei fiori freschi in un vasetto di marmellata sul tavolo del soggiorno, ma, quel che più importava, nel frigorifero c'erano uova e pancetta, pane e burro. Mi tolsi di dosso la camicia insanguinata e la fasciatura. Il frustino mi aveva lasciato sul petto dei grossi cordoni in rilievo e le ferite erano un disastro. Feci la doccia e applicai una nuova fasciatura, poi, nudo in piedi accanto al fornello, mi preparai una padella piena di uova strapazzate e pancetta e mentre cuocevano mi versai un whisky molto abbondante e lo bevvi a scopo terapeutico. Ero troppo stanco per infilarmi tra le lenzuola e mentre cadevo sul letto mi chiesi se ce l'avrei fatta a compiere la corsa notturna secondo i programmi. Fu il mio ultimo pensiero prima dell'alba. Dopo aver fatto un'altra doccia e ingoiato due analgesici con un bicchiere di succo di ananas gelato e mangiato un'altra padella di uova per colazione, decisi che la risposta era sì. Ero rigido e indolenzito, ma potevo lavorare. A mezzogiorno andai in città, mi fermai all'emporio di "Ma" Eddy per le provviste e poi proseguii fino all'Ammiragliato. Chubby e Angelo erano già a bordo e il "Dancer" era accostato al molo. «Ho riempito i serbatoi ausiliari, Harry» mi informò Chubby. «Ne ha per almeno mille miglia.» «Hai tirato fuori le reti da carico?» gli chiesi, e lui annuì. «Sono nel ripostiglio principale delle vele.» Avremmo usato le reti per imbarcare il voluminoso carico d'avorio. «Non scordarti di prendere una giacca... farà freddo laggiù sulla corrente con questo vento che tira.» «Non ti preoccupare, Harry. Sei tu che dovresti riguardarti. Amico, sembri quello di dieci giorni fa. Hai l'aria di un cadavere ambulante.» «Mi sembra di essere bellissimo, Chubby.» «Sì» borbottò lui. «Come mia suocera.» Poi cambiò argomento. «Cos'è successo alla tua carabina?» «Ce l'ha la polizia.» «Vuoi dire che prendiamo il mare senza un pezzo d'artiglieria a bordo?» «Non ne abbiamo mai avuto bisogno.» «C'è sempre una prima volta» borbottò. «Così mi sentirò proprio nudo.» La mania di Chubby per le armi non mancava mai di divertirmi. A dispetto di tutte le prove che gli presentavo a discarico, lui non riusciva a liberarsi dalla convinzione che la velocità e la portata di un proiettile dipendessero dalla forza che si esercitava nel premere il grilletto... e intendeva che i suoi proiettili viaggiassero alla massima velocità e alla massima distanza. La forza selvaggia che imprimeva loro avrebbe deformato un'arma meno robusta dell'FN. Era anche afflitto da un'assoluta incapacità di tenere gli occhi aperti al momento dello sparo. L'avevo visto mancare uno squalo tigre lungo quattro metri e mezzo a distanza di tre metri con un intero caricatore da venti colpi. Chubby Andrews non avrebbe mai battuto Bisley, ma con tutto ciò aveva una passione istintiva per le armi da fuoco e gli oggetti che facevano bang. «Sarà una passeggiata, una vera gita di piacere, vedrai, Chubby» e lui incrociò le dita per allontanare la jella e ciabattò via per lucidare gli ottoni già brillanti del "Dancer", mentre io scendevo a terra. L'ufficio dell'agenzia di viaggi di Fred Coker era deserto e io suonai il campanello sulla scrivania. Lui fece capolino dal retrobottega.
«Benvenuto signor Harry.» Si era tolto giacca e cravatta e aveva le maniche arrotolate; alla cintura portava un grembiule di gomma rossa. «Chiuda la porta d'ingresso, per favore, e passi di qua.» La stanza sul retro era in netto contrasto con l'ufficio sul davanti, con la vistosa carta da parati e i vivaci poster di viaggi. Era un lungo stanzone in penombra. Lungo una parete erano ammucchiate bare di pino da poco prezzo. Il carro funebre era parcheggiato in fondo, oltre le doppie porte. Dietro una tetra tenda di tela in un angolo c'era un tavolo di marmo con delle scanalature lungo i bordi e un tubo per dirigere il fluido dalle scanalature in un secchio sul pavimento. «Entri, si sieda. Ecco una sedia. Mi scusi se continuo a lavorare mentre parlò. Devo averlo pronto per le quattro di oggi pomeriggio.» Lanciai un'occhiata al cadaverino nudo sulla lastra. Era una bambina di circa sei anni dai lunghi capelli scuri. Uno sguardo mi bastò: spostai la sedia dietro lo schermo in modo da vedere solo la testa calva di Coker, e accesi un sigaro. Nella stanza c'era un odore pesante di fluido per imbalsamare che prendeva alla gola. «Ci si abitua, signor Harry.» Fred Coker aveva notato il mio disgusto. «Ha preso gli accordi?» Non intendevo discutere il suo macabro mestiere. «E' tutto sistemato» mi assicurò. «S'è accordato con il nostro amico al forte?» «E' tutto a posto.» «Quando l'ha visto?» insistetti; volevo sapere di Daly. M'interessava molto il suo stato di salute. «L'ho visto stamane, signor Harry. «Come stava?» «Sembrava normale.» Coker interruppe il suo lugubre lavoro e mi guardò con aria interrogativa. «Era in piedi, camminava, ballava, cantava, faceva capriole?» «No. Stava seduto e non era troppo di buonumore.» «Tutto quadra.» Risi e le mie ferite mi sembrarono migliorate. «Ma ha preso la bustarella?» «Sì.» «Bene, allora l'accordo vale ancora.» «Come le ripeto, è tutto a posto.» «Lasci fare a me, signor Coker.» «Il punto di raccolta è alla foce del torrente Salsa, dove s'immette nel canale a sud dell'estuario del Duza.» Annuii, era accettabile. C'era un buon canale e il terreno sulle rive era soddisfacente. «Il segnale di riconoscimento saranno due lanterne... una sopra l'altra, piazzate sulla riva proprio alla foce. Lei risponderà con due lampi, ripetuti a intervalli di trenta secondi, e quando si spegnerà la lanterna inferiore, potrà gettare l'àncora. Capito?» «Bene.» Era tutto soddisfacente. «Dalle chiatte le forniranno la manodopera per scaricare.» Annuii, poi chiesi: «Sanno che la bassa marea è alle tre... e che devo essere fuori del canale prima di quell'ora?». «Sì, signor Harry. Ho detto che devono finire di scaricare prima delle due.» «Allora d'accordo. E il punto di scarico?» «Il punto di scarico sarà venticinque miglia a est di Rastafa Point.» «Bene.» Potevo controllare i rilevamenti col faro di Rastafa. Era comodo e semplice. «Consegnerà la merce a una goletta con la vela latina, una di quelle grosse. Il segnale di riconoscimento sarò lo stesso. Due lanterne sull'albero, lei lampeggerà due volte ogni trenta secondi, e la lampada inferiore si spegnerà. Allora potrà scaricare. Provvederanno loro alla manodopera e faciliteranno le operazioni di accostamento. Mi pare che sia tutto.» «A parte il denaro.» «A parte il denaro, naturalmente.» Dalla tasca anteriore del grembiule tirò fuori una busta. La presi schizzinosamente fra pollice e indice e guardai i calcoli scarabocchiati con la biro sulla busta. «Metà in anticipo, il resto alla consegna» specificò lui. Significava tremilacinquento, meno duemila e cento per la commissione di Coker e la bustarella a Daly. Ne restavano millequattrocento, da
cui dovevo dedurre il premio per Chubby e Angelo... un migliaio di dollari, non molto di più. Feci una smorfia. «Aspetterò fuori del suo ufficio alle nove di domani mattina, signor Coker.» «Avrò una tazza di caffè pronta per lei, signor Harry.» «Spero che non sia tutto» gli dissi. E lui rise e tornò a chinarsi sulla lastra di marmo. Ci allontanammo dal porto nel tardo pomeriggio e io lasciai una falsa pista dirigendomi lungo il canale verso Mutton Point a beneficio di un possibile osservatore appostato col binocolo sul Coolie Peak. Appena scese il buio, tornai alla mia vera direzione e attraverso il canale interno passammo fra le isole, diretti verso l'ampia foce del fiume Duza, aperta alla marea. Non c'era luna, ma le stelle erano grandi e la risacca frangendosi emanava una fosforescenza di un verde spettrale nell'ultimo bagliore del sole al tramonto. Io spinsi al massimo i motori del "Dancer", rilevando uno dopo l'altro i punti di riferimento: la sagoma di un atollo alla luce delle stelle, il solco di una barriera, lo stesso scorrere e incresparsi dell'acqua mi guidavano attraverso i canali e mi segnalavano secche e fondali bassi. Angelo e Chubby erano appoggiati al parapetto del ponte accanto a me. Ogni tanto uno di loro andava di sotto a preparare dell'altro caffè nero e forte, e bevevamo dalle tazze fumanti, lo sguardo fisso nel buio in cerca di un lampo di chiarore che non fosse l'infrangersi dell'acqua ma lo scafo di una motovedetta. Una volta sola Chubby ruppe il silenzio. «Ho saputo da Wally che ieri sera hai avuto dei guai al forte.» «Un po'» ammisi. «Dopo, Wally ha dovuto portarlo in ospedale.» «Wally ha ancora il suo posto?» chiesi. «Per un pelo. L'amico voleva metterlo in gattabuia, ma Wally era troppo grosso.» Angelo intervenne. «Judith era su all'aeroporto all'ora del pranzo. Era andata a ritirare una cassa di libri di scuola e l'ha visto salire sull'aereo per la terraferma.» «Chi?» domandai. «L'ispettore Daly. E' salito sull'aereo di mezzogiorno.» «Perché non me l'hai detto prima? «Non credevo che fosse importante, Harry.» «No» riconobbi. «Forse non lo è.» C'erano una dozzina di ragioni per cui Daly poteva andarsene sulla terraferma, nessuna delle quali aveva lontanamente a che fare con la mia attività. Eppure mi faceva sentire a disagio... non mi andava che quel tipo di bestia vagasse nel sottobosco mentre io affrontavo dei rischi. «Vorrei che avessi portato quel tuo arnese, Harry» ripeté in tono lugubre Chubby e io non dissi niente, ma ero del suo parere. Il flusso della marea aveva placato il solito tumulto all'ingresso del canale meridionale del Duza e io lo cercai alla cieca nel buio. I banchi di fango ai due lati erano costellati di trappole per i pesci piazzate dai pescatori indigeni, che servivano almeno a delimitare il canale. Quando fui certo che avevamo imboccato l'ingresso giusto, spensi i motori e andammo alla deriva sulla marea che saliva. Ascoltavamo tutti con assoluta concentrazione, spiando il pulsare dei motori di una motovedetta, ma si sentì solo il grido di un airone notturno e lo scroscio di un muggine che saltava nell'acqua bassa. Silenziosi come spettri, risalivamo il canale per forza d'inerzia; ai due lati le masse scure delle mangrovie ci assediavano e l'odore degli acquitrini fangosi era greve e fetido nell'aria satura di umidità. Il riflesso delle stelle danzava sulla superficie scura e agitata del canale e a un certo punto una canoa lunga e stretta, ricavata da un tronco d'albero, ci scivolò accanto come un coccodrillo, la fosforescenza raccolta sui remi dei due pescatori che tornavano dalla foce. Si fermarono un attimo a guardarci e poi proseguirono senza un
saluto, scomparendo rapidi nella penombra. «Brutto segno» commentò Angelo. «Saremo già tornati a bere una birra al Lord Nelson prima che possano parlare con qualcuno che conta.» Sapevo che la maggior parte dei pescatori su questa costa è gente che sa tenere la bocca chiusa, parca di parole come quasi tutti quelli della loro razza. L'incontro non mi preoccupava. Guardando avanti vidi avvicinarsi la prima ansa del fiume e la corrente cominciò a spingere il "Dancer" al largo, verso la riva opposta. Premetti i pulsanti dell'avviamento, i motori si ridestarono con un brusio sommesso e io tornai in acque più profonde. Risalimmo il canale serpeggiante, sboccando alla fine nell'ampio specchio d'acqua placido dove le mangrovie finivano e il terreno solido s'innalzava ai lati in lieve pendio. Un miglio più avanti vidi lo sbocco dell'affluente Salsa, una parentesi scura nella riva, schermata da alti ciuffi piumosi di canne. Poco più in là le due lanterne gemelle di segnalazione splendevano di una luce gialla soffusa, l'una sopra l'altra. «Cosa ti avevo detto, Chubby, una passeggiata.» «Non siamo ancora a casa.» Chubby, l'eterno ottimista. «Okay, Angelo. Va' a prua. Ti dirò io quando gettare l'ancora.» Scivolammo in avanti lungo il canale e mi tornarono alla mente le parole della filastrocca mentre bloccavo il timone e prendevo la torcia per le segnalazioni dal ripostiglio sotto il parapetto. "Tre, quattro, topo e gatto. Cinque, sei, tonti e babbei." Pensai per un attimo alle centinaia di bestioni grigi che erano morti a causa delle loro zanne... e sentii un brivido di colpa serpeggiarmi freddo lungo la schiena al pensiero della mia complicità nel massacro. Ma distolsi la mente sollevando il riflettore e dirigendo il segnale convenuto a monte, verso le lanterne accese. Feci lampeggiare tre volte il segnale di riconoscimento in codice, ma dovetti arrivare all'altezza delle lanterne di segnalazione prima che quella inferiore si spegnesse di colpo. «Va bene, Angelo. Molla» dissi piano spegnendo i motori. L'ancora affondò e la catena corse con fragore nel silenzio. Il "Dancer" abbassò il muso e girò sull'ancora, puntando a valle. Chubby andò a spiegare le reti per caricare, ma io rimasi al parapetto, a scrutare nel buio la lanterna di segnalazione. Il silenzio era assoluto, fatta eccezione per il tintinnio e il gracidio delle rane fra le canne sulle rive paludose del Salsa. In quel silenzio sentii, più che udire, un battito simile a quello del cuore di un gigante. Mi arrivava attraverso le piante dei piedi piuttosto che dalle orecchie. Non ci si poteva sbagliare, era il pulsare di un diesel marino Allison. Sapevo che i vecchi Rolls-Royce della Seconda guerra mondiale erano stati smontati dalle motovedette di Zinballa e rimpiazzati dagli Allison, e ora il suono che sentivo era il ronzio pigro di un Allison. «Angelo» tentai di tenere la voce bassa, ma nello stesso tempo di comunicare la mia urgenza. «Sgancia l'ancora. Per amor del cielo! Più presto che puoi.» Per evenienze del genere la catena era munita di una sorta di lucchetto e di questo ringraziai il Signore precipitandomi ai comandi. Mentre avviavo il motore, sentii il battito del martello mentre Angelo sganciava il gambo del lucchetto. Contai tre colpi, poi sentii l'estremità della catena piombare in acqua fuori bordo. «E' andata» esclamò Angelo, e io misi in moto il "Dancer" e spinsi i motori al massimo. Muggirono infuriati, e lo scroscio delle eliche proiettò all'indietro un fiotto di schiuma, mentre lo scafo si slanciava in avanti. Anche se puntavamo a valle, il "Dancer" aveva una corrente contraria di cinque nodi e non scattò abbastanza in fretta. Al di sopra del rombo dei nostri motori sentii gli Allison darci dentro, e dalla foce schermata di canne del Salsa sbucò una lunga sagoma minacciosa. Anche alla luce delle stelle la riconobbi subito, l'ampia prua svasata e le belle linee filanti, la parte centrale snella e la poppa squadrata... una delle motovedette della marina inglese, che aveva
trascorso i suoi giorni migliori sulla Manica e ora abbrutiva nella senilità su questa costa malarica. Il buio era pietoso con lei, nascondendo le chiazze di ruggine e la vernice screpolata, ma ormai era una vecchia signora. In una gara leale il "Dancer" ne avrebbe fatto un boccone... ma questa non era una gara leale e la motovedetta aveva tutta la velocità e la potenza necessarie per sbarrarci la strada caricando nel canale e quando accese le luci da combattimento, il loro bagliore ci colpì come qualcosa di solido. Due fasci di un bianco abbagliante, tanto che dovetti sollevare una mano per proteggermi gli occhi. Ormai stava proprio davanti a noi, bloccando il canale, e sul ponte di prua scorsi le sagome confuse dei serventi accovacciati intorno al pezzo da tre libbre sull'ampia piattaforma girevole. La bocca sembrava puntata direttamente sulla mia narice sinistra... e io sentii una disperazione selvaggia e profonda. Era un'imboscata programmata ed eseguita con cura. Pensai per un attimo di speronarla, aveva uno scafo di compensato, probabilmente marcio, e la prua di fiberglass del "Dancer" poteva reggere all'urto... ma con la corrente contraria il "Dancer" non sviluppava una velocità sufficiente. Poi di colpo un altoparlante ruggì dal buio con un suono elettronico, dietro le luci da battaglia accecanti. «Metta in panne, signor Fletcher, o sarò costretto ad aprire il fuoco.» Un proiettile esploso dal pezzo da tre libbre ci avrebbe ridotto in briciole, e per di più era a tiro rapido. A questa distanza ci avrebbe trasformato in meno di dieci secondi in un relitto in fiamme. Chiusi le manette. «Saggia decisione, signor Fletcher... ora dia l'ordine di gettare l'ancora nel punto in cui vi trovate» gridò roco l'altoparlante. «D'accordo, Angelo» gridai con voce stanca, e attesi mentre lui sistemava e calava l'ancora di riserva. A un tratto il braccio riprese a farmi molto male... nelle ultime ore me n'ero dimenticato. «L'avevo detto che dovevamo portarci un po' di artiglieria» borbottò Chubby al mio fianco. «Sì, mi piacerebbe vederti sparare a quel grosso cannone, Chubby. Sarebbe proprio divertente.» La motovedetta accostò con una manovra goffa, tenendo ancora puntati su di noi cannone e luci. Noi restammo immobili in attesa, inermi sotto quel bagliore accecante. Non volevo pensare, tentavo di non sentire niente... ma dentro di me una vocetta maligna mi scherniva. "Di' addio al "Dancer", Harry, vecchio burlone, è arrivato il momento di separarvi." C'era più di una probabilità che nel prossimo futuro avrei affrontato un plotone d'esecuzione... ma questo non m'impensieriva tanto quanto la prospettiva di perdere la barca. Con il "Dancer" ero il signor Harry, il tipo più scatenato di Saint Mary e uno dei migliori pescatori di marlin di questo pazzo mondo. Senza, ero solo uno dei tanti miserabili che tentavano di mettere insieme il pranzo con la cena. Avrei preferito morire. La motovedetta ci si affiancò a tutta velocità ammaccando il parapetto e grattando un metro di vernice prima di riuscire ad abbordarci. «Maledetti bastardi» ringhiò Chubby, mentre una mezza dozzina di figure armate, in uniforme, si riversavano sul nostro ponte, in una folla chiassosa e indisciplinata. Portavano calzoni scampanati blu marino e giacchette con il colletto bianco alla marinara, magliette a strisce bianche e blu e berretti bianchi col pompon rosso sul cocuzzolo, ma il taglio delle uniformi era cinese e brandivano lunghi fucili automatici d'assalto AK 47 con il caricatore ricurvo e il calcio di legno. Contendendosi il privilegio di affibbiarci una pedata o un colpo con il calcio del fucile, ci spinsero tutti e tre giù nel salone e ci buttarono sulla panca contro la paratia di prua. Sedemmo lì spalla a spalla, mentre due guardie ci sovrastavano, tenendo i mitra a pochi centimetri dal nostro naso e le dita piegate speranzosamente intorno al grilletto. «Ora so perché mi pagavi quei cinquecento dollari, capo.» Angelo tentò
di volgere la cosa in scherzo e una guardia lo colpì al viso col calcio del mitra. Lui si asciugò la bocca che gli sanguinava sul mento e nessuno di noi scherzò più. Gli altri marinai armati cominciarono a fare a pezzi il "Dancer". Suppongo che nelle loro intenzioni fosse una perquisizione, ma si scatenarono a casaccio nell'alloggio, fracassando cassetti aperti e frantumando pannelli. Uno di loro scoprì il mobile-bar e per quanto ci fossero solo una o due bottiglie si levò un ruggito di approvazione. Si azzuffarono clamorosamente come gabbiani per qualche avanzo, poi si diedero a saccheggiare le provviste della cambusa con ilarità e impegno adeguati. Anche quando il comandante si fece assistere da quattro uomini dell'equipaggio per compiere il rischioso tragitto attraverso i quindici centimetri di vuoto che separavano la motovedetta dal "Dancer", non si notò nessun calo nel volume di grida e di risate e nel fracasso di legname spaccato e vetri rotti. Il comandante attraversò ansimando il ponte e si chinò per entrare nella cabina principale. Là si fermò per riprendere fiato. Era uno degli uomini più imponenti che avessi mai visto, alto non meno di un metro e ottanta e incredibilmente grasso... un enorme corpo gonfio, con una pancia come un pallone di sbarramento sotto la giacca bianca dell'uniforme. I bottoni d'ottone erano tesi al massimo e il sudore gli aveva inzuppato le ascelle. Sul petto portava un assortimento luccicante di stelle e medaglie, fra cui riconobbi l'American Naval Cross e la Victory Star del 1918. La testa aveva la forma e il colore di una pentola di ferro nero lucido, del tipo tradizionalmente usato per bollire i missionari, e un berretto della marina, appesantito da galloni d'oro, vi stava appollaiato sopra con un'inclinazione disinvolta. Il viso era percorso da rivoli lucenti di sudore, mentre lui lottava rumorosamente per riprendere fiato e si asciugava, fissandomi con gli occhi sporgenti. Lentamente il suo corpo cominciò a gonfiarsi, ingigantendosi ancora di più, come un grosso rospo, finché non cominciai ad allarmarmi... mi aspettavo che scoppiasse. Le labbra violacee, grosse come ruote di trattore, si separarono e un incredibile volume di voce si levò dalla caverna rosea della sua bocca. «Silenzio!» ruggì. All'istante la sua ciurma di guastatori ammutolì, uno di loro con il calcio ancora sollevato per attaccare i pannelli dietro il bar. L'enorme ufficiale rotolò in avanti, dominando con la sua mole tutta la cabina. Sprofondò lentamente nel sedile di cuoio imbottito. Si tamponò il viso ancora una volta, poi mi guardò di nuovo e il suo viso fu rischiarato lentamente dal più cordiale dei sorrisi, come quello di un enorme neonato paffuto e amabile; aveva i denti grossi e perfettamente bianchi e gli occhi quasi scomparivano fra i rotoli di carne nera sorridente. «Signor Fletcher, non so dirle quale grande piacere sia questo per me.» La sua voce era profonda, dolce e amichevole, l'accento era quello di un inglese della classe superiore... quasi certamente acquisito in una scuola tra le più prestigiose. Il suo inglese era migliore del mio. «Sono già alcuni anni che aspetto con impazienza di conoscerla.» «E' molto cortese da parte sua dire questo, ammiraglio.» Con quella uniforme il suo grado non poteva essere inferiore. «Ammiraglio» ripeté allora estasiato. «Mi piace» e scoppiò a ridere. La risata cominciò con un tremolio del ventre enorme e si concluse con un ansimare faticoso. «Purtroppo, signor Fletcher, lei si è lasciato ingannare dalle apparenze» e si pavoneggiò un po', toccandosi le medaglie e aggiustando la visiera del berretto. «Sono un semplice capitano di vascello.» «E' un vero peccato, comandante.» «No. No, signor Fletcher, non sprechi per me la sua simpatia. Ho tutta l'autorità che potrei desiderare.» S'interruppe per fare qualche esercizio di respirazione profonda e per asciugarsi la nuova colata di sudore. «Ho potere di vita e di morte, mi creda.» «Le credo, signore» gli dissi con serietà. «E, la prego, non si senta
in dovere di provarmelo.» Lui fu scosso da un'altra risata che rischiò di soffocarlo, sputò sul pavimento e poi disse: «Lei mi piace, signor Fletcher, sul serio. Credo che il senso dell'umorismo sia molto importante. Penso che lei e io potremmo diventare ottimi amici». Ne dubitavo, ma sorrisi in modo incoraggiante. «In segno di stima le permetterò di usare l'appellativo familiare quando si rivolge a me... Suleiman Dada.» «Lo apprezzo molto... davvero, Suleiman Dada. Lei può chiamarmi Harry.» «Harry» ripeté lui. «Beviamo insieme un bicchierino di whisky.» In quel momento entrò nel salone un altro uomo. Una figura snella da ragazzo, vestita non della solita divisa della polizia coloniale, ma di un abito leggero di seta, con una camicia di seta color limone, cravatta in tinta e scarpe di coccodrillo ai piedi. I capelli biondo chiaro erano pettinati con cura in avanti a formare un ricciolo sulla fronte e i baffi erano azzimati come sempre, ma camminava con cautela, come per non riacutizzare un dolore. Gli rivolsi un largo sorriso. «Allora, come si sente adesso, Daly?» gli chiesi con gentilezza, ma lui non rispose e andò a sedersi accanto a Suleiman Dada, dall'altro lato. Dada protese un'enorme zampa nera e alleggerì uno degli uomini della bottiglia di whisky proveniente dalla mia riserva, accennando a un altro di portare i bicchieri dal mobile-bar fracassato. Quando avemmo tutti in mano mezzo bicchiere di whisky, Dada pronunciò il brindisi. «All'amicizia duratura e alla comune prosperità.» Bevemmo, Daly e io con moderazione, Dada avidamente e con evidente piacere. Mentre lui teneva la testa inclinata all'indietro e gli occhi chiusi, il marinaio tentò di recuperare la bottiglia di scotch dal tavolo davanti a lui. Senza abbassare il bicchiere, Dada gli affibbiò un poderoso ceffone sulla tempia, un colpo che gli fece scattare la testa all'indietro e lo proiettò all'altro capo della cabina, urtando contro il mobile-bar. L'uomo scivolò fino a terra con le spalle contro la paratia e finì seduto sul ponte, stordito, scuotendo la testa per snebbiarla. Mi avvidi allora che nonostante la mole Suleiman Dada era un uomo dai riflessi pronti e dalla potenza temibile. Vuotò il bicchiere, lo posò e lo riempì. Ora mi guardava e la sua espressione cambiò. Il clown era scomparso, nonostante i rotoli di grasso: avevo di fronte un avversario astuto, pericoloso e assolutamente spietato. «Harry, mi risulta che lei e l'ispettore Daly siete stati interrotti di recente nel corso di una discussione» e io mi strinsi nelle spalle. «Tutti noi qui siamo uomini ragionevoli, Harry, di questo sono certo.» Io non dissi niente, ma studiai con profondo interesse il whisky che avevo nel bicchiere. «Questo è un caso molto fortunato perché... consideriamo quello che potrebbe succedere a un uomo irragionevole nella sua posizione.» S'interruppe per fare un po' di gargarismi con un sorso di whisky. Il sudore gli aveva formato una fila di bollicine bianche sul naso e sul mento. Le asciugò prima di continuare. «Prima di tutto, un uomo irragionevole potrebbe essere costretto ad assistere mentre gli uomini del suo equipaggio vengono portati fuori uno alla volta e giustiziati. Qui usiamo il manico dei picconi. E' una faccenda raccapricciante, e l'ispettore Daly mi assicura che lei ha ottimi rapporti con questi due uomini.» Accanto a me Chubby e Angelo si agitarono sui sedili, a disagio. «Poi un uomo irragionevole si vedrebbe portare il battello nella baia di Zinballa. Una volta accaduto questo non ci sarebbe più modo di farselo restituire. Sarebbe ufficialmente confiscato dalle mie umili mani.» S'interruppe e mi mostrò le sue umili mani, protendendole verso di me. Si sarebbero intonate a un gorilla. Le fissammo tutti e due per un istante. «Poi un uomo irragionevole potrebbe ritrovarsi nel carcere di Zinballa... che, come forse saprà, è una prigione politica della massima sicurezza.» Avevo sentito parlare della prigione di Zinballa, come tutti sulla costa. Quelli che ne uscivano o erano morti o fiaccati nel corpo e nello spirito. La chiamavano "Gabbia dei leoni".
«Suleiman Dada, voglio che lei sappia che sono uno degli uomini più ragionevoli che esistano» gli assicurai, e lui rise di nuovo. «Ne ero certo» disse. «Li riconosco a un chilometro di distanza.» Poi ridiventò serio. «Se ce ne andiamo di qui subito, prima che cambi la marea, possiamo uscire dal canale interno prima di mezzanotte.» «Sì» riconobbi «si potrebbe fare.» «Quindi lei potrebbe condurci nel posto che c'interessa, aspettare finché ci saremo convinti della sua buona fede... di cui non dubito nemmeno per un istante... e poi lei e il suo equipaggio sarete liberi di prendere il mare sulla vostra splendida barca e domani potreste dormire nei vostri letti.» «Suleiman Dada, mi trovo davanti a un uomo colto e generoso. Non ho nessuna ragione di dubitare delle sue buone intenzioni» non più di quelle di Materson e Guthrie, completai dentro di me «e ho un desiderio particolarmente intenso di dormire nel mio letto, domani sera.» Daly aprì la bocca per la prima volta, parlando con voce bassa e stizzosa. «Penso che dovrebbe sapere che un pescatore di tartarughe ha visto la sua barca ancorata nella laguna al di là del canale dei Tre Vecchi e di Gunfire Reef la notte prima della sparatoria... ci aspettiamo di essere guidati in quella direzione.» «Non ho niente contro chi si lascia corrompere, Daly... Dio sa se l'ho fatto anch'io... ma allora dov'è finito l'onore dei ladri di cui parla il poeta?» Ero molto deluso da Daly, ma lui ignorò le mie recriminazioni. «Non tenti un altro dei suoi trucchi» mi ammonì. «E' davvero un fenomeno, Daly. Potrei vincere dei premi, con lei.» «Vi prego, signori.» Dada alzò le mani per interrompere la nostra discussione. «Siamo tutti amici. Un altro bicchierino di whisky... e poi Harry ci porterà tutti a fare un viaggio d'affari.» Dada riempì i nostri bicchieri, ma si fermò prima di bere di nuovo. «Penso che dovrei avvertirla, Harry... non mi piace il mare agitato. Non mi si confà. Se mi porta in mare mosso diventerò molto, molto nervoso. Ci siamo capiti?» «Solo per compiacerla ordinerò alle acque di placarsi, Suleiman Dada» gli assicurai, e lui annuì in tono solenne, come se fosse il minimo che si aspettava. L'alba somigliava a una bella donna che si leva dal giaciglio del mare, tutta morbidi toni rosati e riflessi perlacei, i refoli di nuvole simili a tracce fluenti e scomposte, di un biondo dorato dal primo sole. Eravamo diretti a nord, bordeggiando nelle acque più tranquille del canale interno. L'ordine di navigazione vedeva in testa il "Dancer", che procedeva al passo come un puledro di razza che si abitua al morso, mentre ottocento metri a poppa rollava e beccheggiava la motovedetta, che gli Allison si sforzavano di mantenere in equilibrio. Puntavamo verso i Tre Vecchi e Gunfire Reef. A bordo del "Dancer" governavo io, solo al timone sul ponte scoperto. Accanto a me c'erano Peter Daly e un marinaio armato della motovedetta. Nel salone sotto di noi Chubby e Angelo erano ancora seduti sulla panca e altri tre marinai, armati di fucili d'assalto, li sorvegliavano. Il "Dancer" era stato saccheggiato di tutte le provviste, così nessuno di noi aveva fatto colazione, nemmeno una tazza di caffè. Il primo effetto paralizzante della cattura era passato... e ora riflettevo freneticamente, tentando di escogitare un piano per uscire dal labirinto in cui ero intrappolato. Sapevo che se mostravo a Daly e a Dada il varco di Gunfire Reef, o l'avrebbero esplorato senza trovare niente... il che era la soluzione più probabile perché qualunque cosa ci fosse stata ormai era impacchettata e depositata a Big Gull... o avrebbero trovato qualche elemento nuovo. In entrambi i casi io ero destinato a esperienze sgradevoli: se non trovavano niente, Daly avrebbe reclamato il piacere sopraffino di collegarmi all'impianto elettrico nel tentativo di farmi parlare. Se trovavano qualcosa di definito la mia presenza sarebbe diventata superflua... e una dozzina di marinai zelanti si sarebbero contesi l'onore di farmi da boia. Non mi sorrideva l'idea dei manici
di piccone... prometteva di essere una faccenda sgradevole. Eppure le possibilità di fuga sembravano remote. Per quanto distante ottocento metri a poppa, il pezzo da tre libbre a prua della motovedetta di Dada ci teneva sotto tiro, e avevamo a bordo Daly e quattro membri dell'equipaggio. Accesi il primo sigaro della giornata e il suo effetto fu miracoloso; quasi subito mi sembrò d'intravvedere un puntino di luce in fondo al lungo tunnel buio. Ci pensai ancora un po' aspirando in silenzio il tabacco scuro, e mi parve che valesse la pena di tentare... ma prima dovevo parlarne con Chubby. «Daly» mi voltai a parlare di sopra la spalla. «Dovrebbe far venire qui Chubby a prendere il timone, devo scendere di sotto.» «Perché?» domandò lui insospettito. «Che cosa vuol fare?» «Diciamo che qualunque cosa sia, succede ogni mattina a quest'ora e nessun altro può farlo per me. Se mi farà dire di più, diventerò rosso.» «Avrebbe dovuto recitare, Fletcher. Mi fa morire dal ridere.» «Buffo che le sia venuto in mente. Ci avevo pensato anch'io.» Mandò la guardia in cabina a prelevare Chubby e io gli passai il timone. «Resta nei paraggi, dopo voglio parlarti» borbottai a mezza bocca, scendendo sul ponte di poppa. Angelo si rischiarò un po' quando entrai nel salone, e mi rivolse una buona imitazione del suo vecchio sorriso smagliante, ma le tre guardie, chiaramente annoiate, puntarono subito le armi su di me e io sollevai in fretta le mani. «Calma, ragazzi, calma» li blandii e passai oltre, avviandomi giù per la scaletta di boccaporto. Due di loro mi seguirono lo stesso. Quando raggiunsi la toilette avrebbero voluto entrare a tenermi compagnia. «Signori» protestai «se continuerete a puntarmi contro quegli arnesi nei prossimi minuti critici, probabilmente sperimenterete il rimedio principe contro la stitichezza.» Mi fissarono torvi e inerti e io, chiudendogli con fermezza la porta in faccia, aggiunsi: «Ma voi non ci tenete affatto al premio Nobel, vero?». Quando riaprii erano in attesa esattamente nello stesso atteggiamento, come se non si fossero mossi. Con un gesto da cospiratore accennai loro di seguirmi. Si mostrarono subito interessati e io li guidai nella cabina principale. Avevo trascorso molte ore a costruire un ripostiglio nascosto sotto la grossa cuccetta doppia. Aveva più o meno le dimensioni di una bara ed era ventilato. Poteva accogliere un uomo disteso supino. Nel periodo in cui trasportavo carichi umani era servito da nascondiglio in caso di perquisizione... ma ora lo usavo come magazzino per carichi preziosi e illeciti o pericolosi. Attualmente conteneva munizioni, cinquecento colpi, per l'FN, una cassa di bombe a mano e due cassette di Chivas Regal. Con esclamazioni di delizia le due guardie si misero in spalla i mitra e tirarono fuori le casse di whisky. Si erano dimenticati di me e io sgusciai via e tornai sul ponte. Mi piazzai accanto a Chubby, ritardando il passaggio delle consegne. «Se l'è presa comoda» ringhiò Daly. «Mai sprecare un piacere per la fretta» spiegai, e lui perse ogni interesse e si allontanò per fissare oltre la nostra scia la motovedetta che ci seguiva. «Chubby» bisbigliai. «Gunfire Break. Una volta mi hai detto che c'era un passaggio attraverso la scogliera, dal lato di terra.» «Alla marea massima di primavera, con una baleniera e un uomo in gamba con i nervi saldi» ammise. «Io l'ho fatto quand'ero un ragazzo incosciente.» «Fra tre ore la marea sarà al massimo. Potrei farci passare il "Dancer"?» gli chiesi. L'espressione di Chubby cambiò. «Cristo!» mormorò, voltandosi incredulo a guardarmi. «Potrei farcela?» insistetti piano, e lui si succhiò rumorosamente i denti, osservando l'alba e grattandosi la barba lunga sul mento. Poi a un tratto si decise e sputò fuori bordo. «Potresti, Harry... ma nessun altro di mia conoscenza ce la farebbe.» «Dammi i punti di riferimento, Chubby, svelto.» «E' stato tanto tempo fa, comunque» descrisse in modo approssimativo
l'accesso e il passaggio del varco «ci sono tre svolte nel passaggio, a sinistra, a destra, poi di nuovo a sinistra; più in là c'è una strettoia, corallo a meandri da tutt'e due le parti... il "Dancer" potrebbe passarci di misura, ma si lascerà dietro un po' di vernice. Poi ti trovi nel grosso specchio d'acqua alle spalle della barriera principale. Lì c'è spazio per girare e aspettare il mare giusto, prima di uscire dal varco in mare aperto.» «Grazie, Chubby» mormorai. «Ora va' di sotto. Ho fatto prendere alle guardie il whisky di riserva. Al momento in cui comincerò la corsa verso il passaggio saranno pieni di alcool fino agli occhi. Farò un segnale battendo tre volte il piede sul ponte, poi toccherà a te e ad Angelo togliere loro le armi e legarli ben stretti.» Il sole era alto e il profilo seghettato dei Tre Vecchi si levava davanti a noi a pochi chilometri di distanza quando sentii il primo scroscio rauco di risate e un fracasso di mobili infranti. Daly lo ignorò e continuammo a solcare le placide acque interne verso il lato opposto di Gunfire Reef. Potevo già scorgere la linea frastagliata della barriera, simile ai denti anneriti di un vecchio squalo. Più in là le alte onde dell'oceano biancheggiavano infrangendosi e ancora più in là si stendeva il mare aperto. Accostai verso la barriera e aprii le manette di un'inezia. Il pulsare del motore del "Dancer" cambiò, ma non tanto da allarmare Daly. Se ne stava pigramente appoggiato al parapetto, annoiato, con la barba lunga, e probabilmente sentiva la mancanza della colazione. Ora riuscivo nettamente a distinguere il rombo della risacca sul corallo e dal basso i suoni della baldoria si fecero continui. Alla fine Daly se ne accorse, corrugò la fronte e ordinò all'altra guardia di scendere a indagare. L'uomo sparì prontamente sottocoperta e non tornò più. Io guardai a poppa. L'aumento della velocità stava allargando lentamente il vuoto fra il "Dancer" e la motovedetta e continuavamo ad accostarci alla barriera. Guardavo avanti con ansia, tentando di individuare i segni e i punti di riferimento che Chubby mi aveva descritto. Toccai dolcemente le manette, aprendole di un'altra tacca. La motovedetta rimase ancora un po' più indietro. A un tratto vidi l'ingresso del Gunfire Break, segnalato da due pinnacoli di vecchio corallo corroso. Riuscii a distinguere il diverso colore dell'acqua di mare limpida che si riversava nella barriera corallina attraverso il varco. Sottocoperta si sentì un'altro scroscio di risa sgangherate e una delle guardie uscì barcollando, ubriaca, sul ponte di poppa. Raggiunse il parapetto appena in tempo e vomitò nella scia. Poi le gambe gli cedettero e l'uomo crollò sul ponte e restò disteso come un fagotto di stracci. Daly lanciò un'esclamazione di collera e corse giù per la scaletta. Approfittai dell'occasione per aprire le manette di altre due tacche. Fissai lo sguardo davanti a me, preparandomi alla prova. Dovevo tentare di aumentare ancora un po' lo spazio fra il "Dancer" e la sua scorta: ogni centimetro poteva contribuire a mettere in difficoltà gli artiglieri. Progettavo di arrivare all'altezza del canale e poi affrontarlo col "Dancer" a pieno regime, sfidando le zanne di corallo sommerso piuttosto che mettere alla prova la mira dei cannonieri a bordo della motovedetta. C'era un chilometro e mezzo di canale stretto e tortuoso attraverso il corallo prima di raggiungere il mare aperto. Per la maggior parte del tragitto il "Dancer" sarebbe stato schermato dalle sporgenze affioranti di corallo e la tortuosità del canale sarebbe servita a eludere il tiro del pezzo da tre libbre. Speravo anche che la risacca, agendo attraverso l'imboccatura, avrebbe impresso al "Dancer" un continuo movimento di su e giù che gli avrebbe permesso di schivare i colpi in modo imprevedibile, come uno di quegli anatroccoli nei baracconi di tiro a segno. Una cosa era certa: quell'intrepido marinaio, il capitano di vascello Suleiman Dada, non si sarebbe arrischiato a inseguirci attraverso il canale, quindi avrei potuto offrire al suo cannone un bersaglio sempre più lontano.
Ignorai il frastuono degli ubriachi di sotto e osservai l'imboccatura del canale avvicinarsi in fretta. A un tratto Peter Daly salì di corsa la scaletta per affrontarmi. Aveva il viso arrossato dalla rabbia e i baffi irti fino a sfiorare i capelli di seta. Contrasse per alcuni secondi la bocca prima di riuscire a parlare. «E' stato lei a dargli il liquore, Fletcher. Ah, astuto bastardo!» «Io?» chiesi indignato. «Non farei mai una cosa simile.» «Sono ubriachi come maiali... tutti» gridò, poi si gira a guardare a poppa. La motovedetta era lontana un miglio e la distanza aumentava. «Lei ha qualcosa in mente» mi gridò, frugando nella tasca laterale della giacca di seta. In quel momento arrivammo all'altezza dell'ingresso del canale. Io aprii di colpo entrambe le manette e il "Dancer" ruggì, scattando in avanti. Continuando a frugarsi in tasca, Daly perse l'equilibrio. Barcollò all'indietro, sempre gridando. Ruotai il timone tutto a dritta e il "Dancer" piroettò come un ballerino. Daly cambiò direzione; proiettato di peso attraverso il ponte urtò con violenza contro il parapetto laterale, mentre il "Dancer" a sua volta s'inclinava fortemente. In quell'attimo Daly estrasse di tasca una piccola automatica nichelata. Pareva una calibro 25, del tipo che le signore portano nella borsetta. Lasciai per un attimo il timone. Chinandomi, posai la mano sulle caviglie di Daly e le sollevai di scatto. «Addio, compagno» gli dissi mentre finiva all'indietro oltre il parapetto, precipitando per tre metri e mezzo, sfiorando la battagliola del ponte inferiore e poi piombando in acqua. Sfrecciai di nuovo al timone, riprendendo appena in tempo il controllo del "Dancer" e nello stesso tempo battendo tre volte il piede sul ponte. Mentre raddrizzavo il "Dancer" sentii grida di lotta nel salone inferiore e feci una smorfia quando un mitra sparò, con un suono simile a quello di una stoffa che si strappa, e le pallottole fuoriuscirono dal ponte alle mie spalle, lasciando un foro frastagliato, orlato di schegge bianche. Per lo meno avevano sparato al soffitto ed era improbabile che avessero colpito Angelo e Chubby. Un attimo prima di superare la porta di corallo, mi guardai di nuovo alle spalle. La motovedetta arrancava ancora a un miglio dietro di noi, mentre la testa di Daly galleggiava nella scia bianca di spuma. Mi chiesi se l'avrebbero raggiunto prima degli squali. Non c'era più tempo per oziose congetture. Quando il "Dancer" si lanciò a capofitto nel canale, fui atterrito dal compito che gli avevo imposto. Sporgendomi avrei potuto toccare le pareti di corallo e scorgevo le sagome sinistre degli scogli in agguato sotto le acque basse e turbolente davanti alla prua. Nella lunga corsa serpeggiante attraverso il canale le onde avevano perso gran parte del loro impeto selvaggio, ma più procedevamo più diventavano agitate, rendendo sempre più imprevedibile la risposta del "Dancer" al timone. La prima curva del canale mi si parò davanti e vi guidai il "Dancer". Obbedì prontamente, dimenando la poppa, con un accenno appena di straorzata che lo spinse in fuori verso il corallo minaccioso. Mentre lo raddrizzavo per affrontare il tratto seguente, Chubby si arrampicò su per la scaletta. Sfoderava un larghissimo sorriso. Solo due cose lo mettevano di quest'umore... e una di quelle era una buona scazzottata. Si era spellato le nocche della mano destra. «Tutto calmo di sotto, Harry. Li sorveglia Angelo.» Si guardò intorno. «Dov'è il poliziotto?» «E' andato a fare una nuotata.» Non distolsi l'attenzione dal canale. «Dov'è la motovedetta? Cosa fanno?» Chubby si voltò a guardare. «Niente di nuovo. Si direbbe che non hanno ancora capito... aspetta, però» la sua voce era cambiata. «Sì, eccoli. Stanno armando il cannone in coperta.» Ci addentrammo rapidi lungo il canale e io arrischiai una rapida occhiata indietro. In quell'istante vidi un lungo sbuffo di fumo bianco uscire dal cannoncino come un pennacchio, e un attimo dopo si sentì lo schianto
secco dello sparo che passava alto sopra di noi, seguito subito dalla detonazione. «Pronto, Harry. Ora a sinistra.» Abbordammo la curva seguente e il colpo successivo fu corto, esplose in una doccia di frammenti e fumo bluastro su una testa di corallo a cinquanta metri dalla nostra fiancata. Guidai dolcemente il "Dancer" nella curva e mentre la percorrevamo un altro proiettile cadde nella nostra scia, sollevando fin sopra il ponte una colonna alta e aggraziata di acqua spumeggiante. La ventata seguente ci inondò di spruzzi. Ormai eravamo a metà strada e le ondate che ci correvano incontro erano alte due metri e rese più violente dalle costrizioni imposte dalle pareti di corallo. I serventi della motovedetta facevano esercizio di tiro con allarmante stravaganza. Un colpo scoppiò cinquecento metri a poppa, il successivo passò fra Chubby e me, con un'esplosione assordante che mi fece barcollare nel risucchio dello spostamento d'aria. «Ora ecco la strozzatura» gridò Chubby ansioso, e mi tremò il cuore quando vidi come il canale si restringeva e com'era difeso da speroni di corallo alti fino al ponte. Pareva impossibile che il "Dancer" passasse attraverso un'apertura così stretta. «Ci siamo, incrocia le dita» e, ancora a pieno regime, guidai il "Dancer" nella strettoia. Vidi Chubby aggrapparsi al parapetto con tutt'e due le mani e mi aspettai che l'acciaio si piegasse, tanto era forte la sua presa. Eravamo a metà strada quando urtammo, con uno schianto lacerante. Il "Dancer" rollò, esitando. Nello stesso istante un altro proiettile esplose vicino. Inondò il ponte di schegge di corallo e frammenti sibilanti d'acciaio, ma io me ne accorsi appena, mentre tentavo di far superare il varco all'imbarcazione. Mi allontanai dalla parete e il suono lacerante di strofinio corse lungo la fiancata di dritta. Per un attimo restammo bloccati, poi un'altra grossa ondata verde ci spinse avanti, liberandoci dalla morsa del corallo, e fummo oltre la strettoia. Il "Dancer" guizzò in avanti. «Va' di sotto, Chubby» gridai. «Controlla che non ci siano falle nello scafo.» Il sangue gli scorreva da un taglio sul mento prodotto da una scheggia, ma si tuffò giù per la scaletta. Con un altro tratto di mare aperto davanti a noi, potei voltarmi a guardare la motovedetta. Era quasi nascosta da un blocco di corallo che si frapponeva tra noi, ma sparava in fretta e all'impazzata. Pareva che si fosse fermata all'ingresso del canale, forse per raccogliere Daly... ma sapevo che ormai non avrebbe tentato di seguirci. Avrebbe impiegato quattro ore per fare il giro fino al canale principale, sul lato opposto dei Tre Vecchi. Davanti a noi si profilò l'ultima svolta del canale e lo scafo del "Dancer" toccò nuovamente il corallo; il suono sembrò lacerarmi l'anima. Poi alla fine sbucammo nella fossa profonda dietro la barriera principale, un'arena circolare d'acqua profonda trecento metri, circondata da pareti di corallo e aperta solo attraverso il Gunfire Break ai selvaggi frangenti dell'Oceano Indiano. Chubby ricomparve alle mie spalle. «A prova di bomba, Harry. Non passa nemmeno una goccia.» Ora per la prima volta eravamo perfettamente visibili per i cannonieri, a ottocento metri dall'altro lato della barriera, e, voltando nella fossa, il "Dancer" presentò loro la murata. Come se capissero che questa era la loro ultima occasione ci bersagliarono, un colpo dopo l'altro. I proiettili ci cadevano intorno sollevando grandi spruzzi, troppo vicini per lasciarmi un margine di scelta. Virai nuovamente, puntai verso lo stretto passaggio e lanciai il "Dancer" a tutta velocità verso il varco nella barriera. Mi affidai alla barca e quando avemmo superato il punto senza ritorno mi sentii lo stomaco attanagliato dall'orrore, guardando attraverso il varco il mare aperto. Pareva che tutto l'oceano stesse indietreggiando davanti a noi, raccogliendo le forze per abbattersi come un mostro
sfrenato sul piccolo battello fragile. «Chubby» esclamai con voce sorda «guarda un po' laggiù.» «Harry» bisbigliò lui «questa è una buona occasione per pregare.» E il "Dancer" corse avanti coraggioso a sfidare questo imprevedibile Golia del mare. L'onda si gonfiava, inarcando le mostruose spalle come per caricare, si levava sempre più in alto, una parete di verde vetroso che sentivo crepitare come un incendio nell'erba secca. Un altro colpo ci sfiorò, ma me ne accorsi appena, mentre il "Dancer" sollevava la prua e cominciava a scalare quella montagna. La cresta in alto sfumava verso il verde chiaro, cominciando ad arricciarsi, e il "Dancer" vi salì come su un ascensore. Il ponte s'inclinò forte e noi ci aggrappammo impotenti al parapetto. «Si capovolgerà» gridò Chubby quando lo scafo cominciò a impennarsi. «Sta ribaltandosi!» «Avanti» gridai al "Dancer". «Taglia l'onda!» E come se mi avesse sentito lo scafo affondò la prua affusolata nella cresta dell'onda un attimo prima che ricadesse su di noi, fracassando la chiglia. Fummo travolti da un verde inferno ruggente di massicce pareti d'acqua alte quasi due metri, che spazzarono il "Dancer" da prua a poppa, e lo scafo barcollò come sotto un colpo mortale. Poi d'un tratto sbucammo fuori alle spalle dell'onda e sotto di noi si aprì una valle, un abisso spalancato in cui il "Dancer" si slanciò, ricadendo in un salto a corpo morto. Lo scafo urtò la superficie con uno schianto terrificante che parve paralizzarlo e mandò al tappeto Chubby e me. Ma mentre io mi rimettevo in piedi a fatica, il "Dancer" si scrollò di dosso le tonnellate d'acqua che aveva imbarcato e corse a incontrare l'onda seguente. Era più piccola, e il "Dancer" tagliò la cresta e la superò con un guizzo da delfino. «Sei un tesoro» gridai, e la barca prese velocità, affrontando la terza ondata come un saltatore di razza. Poco lontano un altro proiettile da tre libbre solcò il cielo, ma ormai eravamo fuori tiro, in corsa verso il vasto orizzonte dell'oceano, e non sentii più nessuno sparo. La guardia che era svenuta sul ponte di poppa per colpa dello scotch doveva essere stata spazzata via dall'onda gigante, perché non la rivedemmo più. Le altre tre le lasciammo su un'isoletta, cinquanta chilometri a nord di Saint Mary, dove sapevo che c'era dell'acqua in un pozzo salmastro e che certamente avrebbero ricevuto la visita dei pescatori di terraferma. Ormai avevano smaltito la sbornia ed erano tutti afflitti da una terribile emicrania. Restarono lì, sulla spiaggia, tre figurette smarrite, mentre noi puntavamo a sud nella penombra del crepuscolo. Quando rientrammo in porto era buio. Trovai un ormeggio senza accostarmi al molo dell'Ammiragliato. Non volevo che i danni evidenti subiti dal "Dancer" dessero la stura alle congetture degli isolani. Chubby e Angelo andarono a riva col canotto ma io ero troppo esausto per fare quello sforzo e senza neanche cenare crollai sulla cuccetta doppia nella cabina principale e dormii come un sasso finché non mi svegliò Judith, alle nove del mattino. Angelo l'aveva mandata a bordo con una casseruola di pesce e pancetta. «Chubby e Angelo sono andati da "Ma" Eddy a comprare il necessario per riparare la barca» mi spiegò. «Saranno qui a momenti.» Io divorai la colazione e andai a radermi e a fare la doccia. Quando tornai era ancora là, seduta sull'orlo della cuccetta. Evidentemente aveva qualcosa da discutere con me. Tagliò corto ai miei goffi tentativi di fasciare la ferita e mi fece sedere mentre se ne occupava lei. «Signor Harry, non avrà intenzione di far ammazzare o finire in prigione il mio Angelo, vero?» mi domandò. «Se continua di questo passo, lo farò restare a terra.» «Questa è bella, Judith.» Risi della sua ansia. «Perché non lo manda a Rawano per tre anni, mentre lei resta qui?» «Non è gentile, signor Harry.» «La vita non è molto gentile, Judith» replicai, in tono più dolce. «Angelo e io facciamo del nostro meglio. Anche solo per tenere a galla
la mia barca devo correre dei rischi. Qualche volta insieme ad Angelo. Mi ha detto che ha risparmiato abbastanza da comperarvi una bella casetta su, vicino alla chiesa. Il denaro l'ha guadagnato lavorando con me.» Finì di sistemare la fasciatura in silenzio e quando fece per andarsene l'afferrai per la mano e la trattenni. Non volle guardarmi, finché non la presi per il mento e le sollevai il viso. Era una bella bambina, con grandi occhi grigio fumo e la pelle liscia come la seta. «Non si agiti, Judith. Angelo è come un fratello per me. Lo terrò d'occhio.» Lei studiò a lungo il mio viso. «Dice sul serio, vero?» mi chiese. «Sul serio.» «Le credo» disse alla fine, e sorrise. I suoi denti erano bianchissimi contro la pelle d'ambra dorata. «Mi fido di lei.» Le donne me lo dicono sempre. "Mi fido di te." Tanto di cappello all'intuito femminile. «Date il mio nome a uno dei vostri figli, va bene?» «Al primo, signor Harry.» Fece balenare un sorriso e i suoi occhi scuri s'illuminarono. «E' una promessa.» «Dicono che quando si cade da cavallo bisognerebbe rimontare in sella subito... tanto per non perdere il controllo dei nervi, signor Harry.» Fred Coker era seduto alla sua scrivania nell'agenzia di viaggi, voltando le spalle a un manifesto che raffigurava un Beefeater e il Big Ben... "Ritmi d'Inghilterra", diceva. Avevamo appena discusso a lungo la comune preoccupazione per la condotta sleale dell'ispettore Peter Daly, per quanto sospettassi che l'ansia di Coker fosse di molto inferiore alla mia. Aveva riscosso in anticipo la sua provvigione e nessuno gli aveva messo la testa in un nodo scorsoio, né gli avevano quasi affondato la barca. Ora affrontammo l'argomento se il nostro rapporto d'affari dovesse continuare. «Dicono anche, signor Coker, che un uomo con le pezze al culo non dovrebbe fare troppo il difficile» ribattei, e gli occhi di Coker scintillarono di soddisfazione. Annuì. «E questo, signor Harry, è probabilmente il detto più saggio.» «Accetterò di tutto, signor Coker. Uomini, armi o zanne. Una cosa sola; il prezzo è salito a diecimila dollari a corsa... tutti in anticipo.» «Anche a quel prezzo, troveremo lavoro per lei» promise, e mi accorsi che fino ad allora avevo lavorato per quattro soldi. «Presto» insistetti. «Prestissimo» rispose. «Lei è fortunato. Ormai non credo che l'ispettore Daly tornerà a Saint Mary. Risparmierà la percentuale che gli pagavamo di solito.» «Mi deve almeno questo» convenni. Nelle sei settimane seguenti feci tre viaggi notturni. Due carichi umani e uno di casse... tutti a sud del fiume in acque portoghesi. Tutt'e due gli uomini erano negri taciturni, vestiti di tute militari mimetiche, e dovetti portarli all'estremo sud. Infiltrazioni in profondità. Sbarcarono su spiagge isolate e io continuai per qualche tempo a chiedermi quali terribili missioni dovessero compiere... quante sofferenze e quante vittime sarebbero scaturite da quegli sbarchi clandestini. Il carico di merci comprendeva diciotto casse lunghe di legno contrassegnate con ideogrammi cinesi. Le prendemmo in consegna da un sommergibile al largo del canale e le scaricammo alla foce di un fiume, trasbordandole su imbarcazioni formate da coppie di canoe unite fra loro per assicurarne la stabilità. Non scambiammo parola con anima viva e nessuno ci infastidì. Furono passeggiate e io riscossi al netto diciottomila dollari, sufficienti per far arrivare me e i miei uomini alla fine della bassa stagione nello stile cui eravamo abituati. Quel che più contava, gli intervalli di quiete e di riposo furono sufficienti a far rimarginare le ferite e a ridarmi le forze. All'inizio restavo disteso per ore sull'amaca sotto le palme, a leggere o a dormire. Poi man mano che mi riprendevo nuotai, pescai e mi arrostii al sole, andai in cerca di ostriche e di granchi... finché non ridiventai forte, snello e
abbronzato. La ferita si rimarginò formando una cicatrice dura e irregolare, tributo all'abilità di chirurgo di MacNab, che mi si attorcigliava intorno al torace e sulla schiena come un dragone violaceo infuriato. Su un punto non si era sbagliato: il danno imponente inferto al mio braccio sinistro l'aveva lasciato rigido e indebolito. Non potevo sollevare il gomito più su della spalla e persi il titolo di campione di braccio di ferro con Chubby al bar del Lord Nelson. Ciò nonostante speravo che il nuoto e l'esercizio regolare lo rinforzassero. Man mano che mi tornavano le forze, altrettanto avveniva per la curiosità e il senso dell'avventura. Cominciai a sognare il pacco avvolto nella tela al largo di Big Gull. In uno dei sogni nuotavo fino al fondale e aprivo il pacco: conteneva una minuscola figura femminile della misura di una statuina di Dresda, una sirena dorata con il bel viso di May e i seni superbi; la coda aveva la forma aggraziata a falce del marlin. La sirenetta sorrideva timida e mi tendeva la mano. Sul palmo teneva uno scellino d'argento lucente. "Sesso, denaro e pesca", pensai al mio risveglio. "Buon vecchio Harry senza complicazioni, un vero bocconcino per Freud." Fu allora che capii che presto sarei andato a Big Gull. Arrivammo quasi alla fine della stagione prima che riuscissi a convincere Fred Coker a organizzarmi una vera e propria partita di pesca, ma andò tutta in aceto, come il vino scadente. I clienti erano due industriali tedeschi obesi e flaccidi, accompagnati da mogli grasse e ingioiellate. Lavorai sodo per loro e riuscii a procurare dei pesci ai due uomini. Il primo era un bel marlin nero, ma il cliente bloccò la lenza, aggrappandosi al mulinello quando il pesce era ancora vivace e in vena di correre. Riuscì a sollevare dal sedile il monumentale posteriore del tedesco, e prima che potessi sbloccare per lui il mulinello, la mia canna da trecento dollari era finita giù sulla frisata. Il fiberglass della canna si era spezzato come un fiammifero. L'altro cliente, dopo essersi lasciato sfuggire due pesci decenti, penò e sudò tre ore per un neonato di marlin azzurro. Quando finalmente lo attirò a portata di fiocina, dovetti farmi forza per affondare l'acciaio, e mi vergognavo troppo per appenderlo all'Ammiragliato. Scattammo le fotografie a bordo del "Dancer" e portai il pesce a terra di contrabbando, avvolto nella tela cerata. Come Fred Coker, avevo anch'io una reputazione da difendere. L'industriale tedesco, invece, era tanto entusiasta della sua prodezza da far scivolare nelle mie grinfie avide una gratifica di cinquecento dollari. Io gli assicurai che era un pesce davvero magnifico, una bugia che valeva almeno mille dollari. Ricambio sempre con buona misura. Poi il vento girò a sud, la temperatura dell'acqua nel canale scese di quattro gradi e i pesci sparirono. Per una decina di giorni ci spingemmo a nord, ma ormai era finita, un'altra stagione era conclusa. Smontammo e ripulimmo tutta l'attrezzatura da pesca e la riponemmo, avvolta in uno spesso strato di grasso giallo. Tirai in secco il "Dancer" sullo scivolo del bacino di rifornimento e ne esaminammo lo scafo, ripulendolo e rinnovando i rattoppi provvisori che avevo applicato per rimediare ai danni subiti a Gunfire Reef. Poi verniciammo la barca fino a farla brillare, lustra e superba, prima di rimetterla in mare e portarla all'ormeggio. Qui lavorammo a tempo perso sulle sovrastrutture, scrostando la vernice, scartavetrando, riverniciando e controllando l'impianto elettrico, qua ristabilendo un contatto, là sistemando un filo. Non avevo fretta. Dovevano passare tre settimane prima che arrivassero i prossimi clienti... una spedizione di biologi marini di una università canadese. Nel frattempo le giornate rinfrescavano e sentivo rinascere in me la salute e il benessere fisico. Cenavo al palazzo del Governo, a volte perfino una sera alla settimana, e ogni volta dovevo raccontare tutta la storia della sparatoria con Guthrie e Materson. Il presidente la conosceva a memoria e mi correggeva se tralasciavo anche un solo dettaglio. La scena terminava sempre col presidente che esclamava
eccitato: «Faccia vedere la cicatrice, signor Harry» e io dovevo sbottonare la camicia da sera inamidata al tavolo della cena. Furono bei giorni pigri. La vita scorreva placida sull'isola. Peter Daly non tornò più a Saint Mary, e dopo sei settimane Wally Andrews fu promosso al ruolo di ispettore e comandante delle forze di polizia. Uno dei suoi primi gesti fu quello di restituirmi la carabina FN. Questo periodo tranquillo era venato d'impazienza dal fremito segreto di anticipazione che provavo. Sapevo che un giorno non lontano sarei tornato a Big Gull e alla questione in sospeso che giaceva laggiù nelle acque basse e limpide... e mi trastullavo con quella consapevolezza. Poi, un venerdì, stavo concludendo in bellezza la settimana col mio equipaggio, nel bar del Lord Nelson. Con noi c'era Judith, che aveva sostituito lo sciame che prima si raccoglieva intorno ad Angelo la sera del venerdì. Aveva una buona influenza su di lui, Angelo non beveva più fino a stordirsi. Chubby e io avevamo appena cominciato il primo duetto della serata e stonavamo appena di poche battute, quando Marion scivolò sul sedile accanto a me. Le passai un braccio intorno alle spalle e le accostai alle labbra il mio boccale mentre lei beveva avidamente, ma la distrazione m'indusse a precedere ancor più Chubby nella canzone. Marion lavorava al centralino dell'Hilton Hotel. Era una ragazza carina e minuta, con un viso sexy e lunghi capelli neri lisci. Era lei che Mike Guthrie aveva usato come punchingball tanto tempo prima. Appena Chubby e io arrivammo faticosamente alla fine del ritornello, Marion mi disse: «C'è una signora che chiede di lei, signor Harry». «Che genere di signora?» «In albergo, una delle ospiti, è arrivata con l'aereo di stamattina. Sapeva già il suo nome. Vuole vederla. Io le ho detto che l'avrei incontrata stasera e le avrei trasmesso il messaggio.» «Che aspetto ha?» chiesi interessato a Marion. «E' bella, signor Harry. E poi è una vera signora.» «Sembra proprio il mio tipo» riconobbi, ordinando una pinta di birra per Marion. «Non va a trovarla adesso?» «Con te vicino, Marion, tutte le belle signore del mondo possono aspettare fino a domani.» «Oh, signor Harry, lei è un vero demonio» ridacchiò lei, facendosi un po' più vicina. «Harry» disse Chubby al mio fianco «ora ti dirò una cosa che non ti ho mai detto prima.» Bevve una lunga sorsata dal boccale, poi proseguì, gli occhi inondati di lacrime sentimentali. «Harry, ti voglio bene, amico. Ti voglio bene più che a mio fratello.» Arrivai all'Hilton pochi minuti prima di mezzogiorno. Marion uscì dal suo cubicolo dietro il banco della reception. Aveva ancora la cuffia intorno al collo. «La aspetta sul terrazzo.» Indicò un punto oltre la vasta zona della reception, con il suo arredamento pseudo-hawaiano. «La bionda col bikini giallo.» Stava leggendo una rivista, distesa bocconi su uno dei lettini per il sole, e teneva la schiena rivolta verso di me, così che la prima impressione che ebbi di lei fu una massa di capelli biondi, folti e lucenti, pettinati in su come la criniera di un leone e poi lasciati ricadere in una cascata d'oro liquido. Sentì i miei passi sul pavimento. Si guardò intorno, spinse in alto sulla testa gli occhiali da sole, poi si alzò, e io mi accorsi che era minuscola, non mi arrivava più su del torace. Anche il bikini era ridottissimo e mostrava un ventre piatto e liscio dall'ombelico profondo, spalle sode leggermente abbronzate, seni piccoli e una vita perfetta. Le gambe avevano una bella linea e i piedi graziosi erano infilati in un paio di sandali aperti, le unghie smaltate di rosso chiaro per intonarsi alle unghie lunghe delle mani piccole e ben fatte. Aveva un trucco pesante ma applicato con rara abilità, così che la sua pelle aveva un soffice splendore perlato e il colorito si accendeva
con discrezione sulle guance e sulle labbra. Gli occhi erano frangiati da lunghe ciglia finte scure e le palpebre avevano un tocco di colore e di matita che conferiva loro un'esotica linea orientale. "Giù la testa, Harry!" Qualcosa dentro di me gridò un avvertimento e per poco non obbedii. Conoscevo bene questo tipo, ce n'erano state altre come lei, piccole, insinuanti e feline, e ne portavo ancora le cicatrici, nel fisico e nell'anima. Ma una cosa che nessuno può dire del vecchio Harry è che corra al riparo davanti a una donna. Coraggiosamente feci un passo avanti socchiudendo gli occhi e piegando la bocca nel largo sorriso da ragazzino cattivo che di solito le elettrizza. «Salve» dissi. «Sono Harry Fletcher.» Lei mi guardò, cominciando dai piedi e risalendo per un metro e novanta fino in cima, dove il suo sguardo indugiò pensieroso, e sporse in fuori il labbro inferiore. «Salve» rispose, la voce velata, ansimante e attentamente studiata. «Sono Sherry North, la sorella di Jimmy.» Eravamo sulla veranda del mio bungalow, di sera. L'aria era fresca e il tramonto era un'esibizione spettacolare di fuochi pirotecnici che s'infiammavano e svanivano sulle palme. Lei beveva un magnifico Pimms con frutta e ghiaccio, uno dei pilastri della mia seduzione, e portava un caffetano di stoffa leggera che lasciava trasparire le linee del suo corpo mentre si appoggiava alla ringhiera, illuminata alle spalle dal tramonto. Non potevo essere certo se sotto il caffetano portasse qualcosa o meno... questo e il tintinnio del ghiaccio nel suo bicchiere mi distraevano dalla lettera che stavo leggendo. Me l'aveva mostrata come parte delle sue credenziali. Era una lettera di Jimmy North, scritta pochi giorni prima della sua morte. Riconoscevo la calligrafia e i giri di frase erano tipici di quel ragazzo vivace e impaziente. Via via che leggevo dimenticai la presenza della sorella nel ricordo del passato. Era una lunga lettera entusiasta, scritta come a un'amica affezionata, con velate allusioni alla missione e al suo esito positivo, alla promessa di un futuro in cui ci sarebbero state ricchezza, allegria e ogni bene. Sentii una fitta di rimpianto per il ragazzo nella sua solitaria tomba marina, per i sogni perduti che vagavano alla deriva con lui, come alghe in putrefazione. Poi a un tratto il mio nome mi balzò incontro dalla pagina: "... non potrà non piacerti, Sherry. E' grosso e rude, tutto cicatrici e segni di colpi come un vecchio gattone che ogni sera se ne va a lottare nei vicoli. Ma sotto la scorza giurerei che in realtà ha un cuore tenero. Sembra che abbia un debole per me. Mi dà perfino dei consigli paterni!". C'erano altre frasi dello stesso tenore e m'imbarazzarono tanto che la gola mi si chiuse e dovetti bere un sorso di whisky. L'alcool mi fece lacrimare gli occhi e annebbiare la vista, mentre finivo di leggere e ripiegavo il foglio. Tesi la lettera a Sherry e mi diressi all'estremità della veranda. Rimasi là qualche minuto a guardare la baia. Il sole scivolò sotto l'orizzonte e l'aria si fece di colpo buia e fredda. Tornai indietro e accesi la lampada, disponendola in alto in modo che il riverbero non ci cadesse negli occhi. Lei mi osservò in silenzio finché non mi fui versato un altro scotch, sistemandomi sulla mia poltrona di giunco. «D'accordo» dissi. «Lei è la sorella di Jimmy. E' venuta a Saint. Mary per vedermi. Perché?» «Le piaceva, non è vero?» mi chiese, allontanandosi dalla ringhiera e venendo a sedersi accanto a me. «Mi piaceva un sacco di gente. E' una mia debolezza.» «E' morto... voglio dire, è andata come hanno scritto i giornali?» «Sì» confermai. «E' andata così.» «Le ha mai detto che cosa stavano facendo laggiù?» Scossi la testa. «Erano molto circospetti e io non ho fatto domande.» Allora lei rimase in silenzio, immergendo nel bicchiere le lunghe dita affusolate per pescare una fetta di ananas, mordicchiando il frutto
con i piccoli denti bianchi, leccandosi le labbra con la lingua rosea e appuntita. «Dato che Jimmy la trovava simpatico e si fidava di lei, e poiché penso che lei sappia più di quanto abbia detto... e anche perché ho bisogno del suo aiuto, le racconterò una storia, va bene?» «Ho un debole per le storie» risposi. «Ha mai sentito parlare del "pogo"?» mi chiese. «Sicuro, è un giocattolo per bambini.» «E' anche il nome in codice di un velivolo sperimentale della marina americana, a decollo verticale, con qualsiasi tempo.» «Ah, sì, ho visto un articolo sul "Time Magazine". Discussioni al senato. Ho dimenticato i particolari.» «C'era chi si opponeva allo stanziamento di cinquanta milioni per lo sviluppo del progetto.» «Sì, ora ricordo.» «Due anni fa, il sedici agosto per essere esatti, un prototipo del "pogo" decollò dalla base dell'aeronautica di Rawano, sull'Oceano Indiano. Era armato con quattro missili "orca marina" aria-acqua, tutti equipaggiati con testate tattiche nucleari...» «Doveva essere un carico "pericoloso".» Lei annuì. «L'"orca marina" è un missile progettato con una concezione totalmente nuova. E' un congegno antisommergibile che cerca e individua mezzi navali in superficie o in immersione. Può distruggere una portaerei o cambiare elemento, passando dall'aria all'acqua, e scendere in profondità per distruggere i sottomarini nemici.» «Accidenti» esclamai, prendendo un altro po' di whisky. Ora stavamo parlando di roba grossa. «Si ricorda il sedici agosto di quell'anno... lei era qui?» «Sì, ma è passato tanto tempo. Mi rinfreschi la memoria.» «Il ciclone Cynthia» disse lei. «Ma sì, certo.» Era arrivato sull'isola ruggendo, con venti da duecentoquaranta chilometri l'ora, portandosi via il tetto del bungalow e minacciando di travolgere il "Dancer", all'ormeggio nel porto grande. Questi cicloni non erano insoliti nella zona. «Il "pogo" era decollato da Rawano pochi minuti prima dell'arrivo del ciclone. Dodici minuti dopo il pilota si era lanciato e l'aereo era precipitato in mare con i quattro missili nucleari e la scatola nera ancora a bordo. Il radar di Rawano era stato neutralizzato dal tifone. Non l'avevano seguito sullo schermo.» La cosa cominciava finalmente ad avere senso. «Cosa centra Jimmy in tutto questo?» Fece un gesto impaziente. «Aspetti» disse, poi proseguì. «Ha qualche idea del valore che quel carico potrebbe avere sul mercato libero?» «Immagino che potrebbe fissarlo lei stessa... a occhio e croce un paio di milioni di dollari.» E l'anima nera del vecchio Harry si riscosse; negli ultimi tempi aveva fatto un po' di esercizio e aveva affilato gli artigli. Sherry annuì. «Il collaudatore del "pogo" era un comandante della marina statunitense, di nome William Bryce. L'aereo aveva accusato un guasto a quindicimila metri, poco prima di uscire dalla zona di turbolenza. Lui aveva lottato fino alla fine, era un ufficiale coscienzioso, ma a centocinquanta metri aveva capito che non ce l'avrebbe fatta. Si era espulso col seggiolino e aveva osservato l'aereo affondare.» Sherry parlava con proprietà e la scelta delle parole era strana, troppo tecnica per una donna. Aveva imparato tutto questo, ne ero certo. Da Jimmy? O da qualcun altro? "Ascolta e prendi nota, Harry", mi dissi. «Billy Bruce rimase tre giorni su un gommone in mezzo all'oceano, in balia del tifone, prima che l'elicottero di salvataggio partito da Rawano lo ritrovasse. Aveva avuto tempo per riflettere. Una delle cose cui aveva pensato era stato il valore del carico, paragonato al suo salario di comandante. La testimonianza che rese alla commissione d'inchiesta omise il particolare che il "pogo" era precipitato in vicinanza della terra e che Bryce era riuscito a fare il punto basandosi su elementi riconoscibili del paesaggio prima di essere sbalzato in mare dal tifone.»
Non riuscivo a trovare nessun punto debole nella storia... sembrava a posto... e molto interessante. «La commissione d'inchiesta pronunciò il verdetto "errore del pilota" e Bryce rassegnò le dimissioni. La sua carriera era stata distrutta da quel verdetto. Lui decise di guadagnarsi la pensione e anche di riabilitare la propria reputazione. Avrebbe costretto la marina americana a riscattare i suoi missili "orca marina" e ad accettare la testimonianza della scatola nera.» Volevo fare una domanda, ma Sherry me lo impedì con un gesto. Non gradiva che il suo monologo fosse interrotto. «Jimmy aveva svolto dei lavori per la marina americana, un'ispezione allo scafo di una delle loro portaerei, e in quella occasione aveva conosciuto Billy Bryce. Erano diventati amici, e così Billy Bryce naturalmente si rivolse a Jimmy. Fra loro non avevano capitali sufficienti per la spedizione che intendevano organizzare, così progettarono di trovare dei finanziatori. Non è il genere di annuncio che si può pubblicare sul "Times", e ci stavano lavorando quando Billy Bryce restò ucciso con la sua Thunderbird sulla M4, vicino allo svincolo di Heathrow.» «Pare che su quest'affare pesi una specie di maledizione» osservai. «Lei è superstizioso, Harry?» mi chiese, guardandomi con quei suoi occhi obliqui da tigre. «Non ci scherzo sopra» ammisi, e lei annuì, come se archiviasse l'informazione prima di proseguire. «Dopo la morte di Billy, Jimmy portò avanti il progetto. Trovò dei finanziatori. Non volle dirmi chi ma intuii che non erano di suo gusto. Venne qui con loro... e il resto lo sa.» «Il resto lo so» ammisi, e involontariamente massaggiai i tessuti ispessiti della cicatrice, attraverso la seta della camicia. «Eccetto il luogo dell'incidente, naturalmente.» Ci fissammo negli occhi. «Gliel'ha detto?» le chiesi, e lei scosse la testa. «Be', è stata una storia interessante.» Le sorrisi. «Peccato che non possiamo controllare se sia vera.» Lei si alzò di scatto e si diresse alla balaustra della veranda. Incrociò le braccia ed era così infuriata che se avesse avuto la coda l'avrebbe agitata come una leonessa. Attesi che si riprendesse e venne il momento in cui si strinse nelle spalle e si rivolse a me. Il suo sorriso era luminoso. «Be', questo è quanto! Pensavo di avere diritto a una parte della ricompensa, Jimmy era mio fratello... e ho fatto molta strada per venire a trovarla, perché lei gli piaceva e lui si fidava. Pensavo che potessimo lavorare insieme... ma capisco che se vuole tutto per sé, non c'è molto che io possa fare in merito.» Scosse i capelli, che s'incresparono alla luce della lampada. Io mi alzai. «Ora la porto a casa» dissi sfiorandole il braccio. Lei tese le mani e le sue dita s'intrecciarono nei folti capelli ricci sulla mia nuca. «La strada fino a casa è lunga» bisbigliò, e mi attirò giù, sollevandosi sulla punta dei piedi. Le sue labbra erano dolci e umide. Poco dopo si tirò indietro e mi sorrise, gli occhi vacui e il respiro corto e affrettato. «Forse dopo tutto non è stato un viaggio sprecato, vero?» La sollevai; era leggera come una bambina e mi strinse le braccia al collo, premendo la guancia sulla mia mentre la portavo dentro il bungalow. Parecchio tempo prima avevo imparato a mangiare a sazietà ogni volta che c'era del cibo, perché non si sa mai quando colpirà la carestia. Anche la luce soffusa dell'alba era troppo cruda per lei, mentre giaceva distesa nel sonno sotto la zanzariera sul grande letto matrimoniale. Il trucco si era sbaffato e incrostato e lei dormiva con la bocca aperta. La criniera di capelli biondi era un cespuglio aggrovigliato, che stonava col triangolo di folti ricci scuri sul pube. Quella mattina non m'ispirava altro che repulsione, perché durante la notte avevo scoperto che Miss Sherry era una sadica scatenata. Scivolai fuori del letto e rimasi in piedi a guardarla per qualche
istante, scrutando il suo viso addormentato e cercando invano una rassomiglianza con Jimmy North. La lasciai e, ancora nudo, uscii dal bungalow e scesi alla spiaggia. La marea era salita e io m'immersi nell'acqua limpida e fresca e arrivai all'ingresso della baia. Nuotavo veloce, spingendo forte in un crawl australiano, e l'acqua salata mi faceva bruciare i graffi profondi che avevo sulla schiena. Fu una delle mie mattine fortunate: oltre la barriera corallina mi aspettavano i miei vecchi amici, un branco di grosse focene dal muso a bottiglia, che mi vennero incontro rapide, la coda alta che solcava la superficie scura mentre saltavano sulle onde. Fecero circolo intorno a me, fischiando e sbuffando, gli sfiatatoi alla sommità del capo spalancati come minuscole bocche e il muso enorme fisso in un sorriso idiota di piacere. Mi stuzzicarono per dieci minuti prima che uno dei grossi maschi anziani mi concedesse di aggrapparmi alla pinna dorsale per farmi trainare. Fu una lunga, eccitante corsa in slitta, con l'acqua che mi spumeggiava intorno al torace e alle spalle. Mi portò a ottocento metri dalla riva prima che la forza dell'acqua mi disarcionasse. La nuotata di ritorno fu lunga, con i delfini che mi giravano intorno e mi davano di tanto in tanto un buffetto amichevole sulla schiena, invitandomi a bordo per un'altra corsa. Alla barriera fischiarono il loro addio e scivolarono via con grazia e quando approdai a riva ero felice. Il braccio mi faceva un po' male, ma era il dolore sano della guarigione, della forza che tornava. Il letto era vuoto e la porta del bagno era chiusa. Probabilmente si stava depilando le ascelle col mio rasoio. Provai un lampo d'irritazione, un vecchio lupo solitario come me non ama vedere disturbata la sua routine. Usai la doccia degli ospiti per sciacquarmi di dosso la salsedine e l'irritazione svanì sotto il getto d'acqua bollente. Poi, fresco, ma con la barba lunga e affamato come un pitone, mi diressi in cucina. Stavo friggendo prosciutto affumicato con ananas e imburrando grosse fette di pane tostato, quando entrò Sherry. Era di nuovo impeccabile. Nella borsa di Gucci doveva aver portato un intero arsenale di cosmetici. Il suo sorriso fu smagliante. «Buongiorno, tesoro» mi disse e venne a baciarmi, indugiando a lungo. Adesso ero ben disposto verso il mondo e tutte le sue creature. Non provavo più repulsione per questa donna brillante. Il buonumore dei delfini era ritornato e la loro gaiezza doveva essere contagiosa. A tavola ridemmo parecchio e dopo portai fuori sulla veranda la caffettiera. «Quando andiamo a cercare il "pogo"?» mi chiese all'improvviso, e io mi versai un'altra tazza di caffè nero e forte senza rispondere. Sherry North aveva evidentemente deciso che una notte in sua compagnia mi aveva reso schiavo per la vita. Ora, forse non sarò un conoscitore di donne, ma d'altra parte ho avuto qualche esperienza... e non valutavo le grazie di Sherry North al prezzo di quattro missili "orca marina" e della scatola nera di un prototipo segreto. «Appena mi mostrerai la strada» risposi con prudenza. E' un antico preconcetto femminile che quando un uomo fa godere una donna con abilità e sangue freddo, bisogna costringerlo a pagare per questo. Io ho sempre pensato che dovesse succedere il contrario. Lei si sporse in avanti e mi afferrò il polso; gli occhi da tigre erano a un tratto grandi e pieni di sentimento. «Dopo la notte scorsa» bisbigliò, con voce roca «so che ci aspetta un grande futuro, Harry. Io e te, insieme.» Quella notte ero rimasto sveglio per ore, e avevo preso una decisione. Qualunque cosa ci fosse nel pacco non era un aereo intero, ma probabilmente una piccola parte... qualcosa che permetteva di identificarlo con certezza. Quasi certamente non era né la scatola nera né uno dei missili. Jimmy North non avrebbe avuto tempo sufficiente per rimuovere la scatola dalla fusoliera, nemmeno se avesse saputo dov'era situata e avesse avuto gli arnesi adatti. Del resto il pacco aveva forma e dimensioni sbagliate per essere un missile; era un oggetto tozzo e arrotondato, dalla sagoma ben poco aerodinamica.
Era quasi certamente un pezzo abbastanza innocuo. Se portavo con me Sherry North a recuperarlo, avrei giocato solo una carta bassa... anche se poteva sembrare una briscola. Non avrei rivelato niente, nemmeno la posizione dell'incidente. Viceversa, avrei stanato le tigri dall'erba alta. Sarebbe stato molto istruttivo vedere come avrebbe reagito madamigella North, una volta convinta di conoscere il punto esatto dell'incidente. «Harry» bisbigliò lei di nuovo. «Ti prego» e si fece più vicina. «Devi credermi. Finora non ho mai provato niente di simile. Dal primo istante che ti ho visto... ho capito...» Mi riscossi dai miei calcoli e mi chinai verso di lei, assumendo un'espressione di passione cieca e desiderio sfrenato. «Tesoro» cominciai, ma la voce mi morì in gola e la strinsi in un abbraccio goffo e impetuoso, sentendola irrigidirsi seccata quando le scompigliai la complicata pettinatura. Mi accorsi dello sforzo che le costava rispondermi con altrettanto calore. «Provi anche tu la stessa sensazione?» mi chiese lei dalle profondità del mio abbraccio, schiacciata contro il mio petto, e per il solo gusto di vederla recitare il ruolo che si era assunta, la sollevai di nuovo e la portai fino al letto disfatto. «Ti dimostrerò quello che provo per te» mormorai con voce roca. «Tesoro» protestò lei disperata «non ora.» «Perché no?» «Abbiamo tanto da fare. Ci sarà tempo in seguito... tutto il tempo del mondo.» Ostentando una certa riluttanza, la rimisi in piedi, ma in realtà le ero grato, perché sapevo che dopo una colazione pantagruelica a base di prosciutto affumicato e tre tazze di caffè, mi sarebbero venuti i bruciori di stomaco. Mezzogiorno era passato da pochi minuti quando lasciai il porto e virai, diretto a sud-est. Ai miei uomini avevo detto di prendersi un giorno a terra, non avevo voglia di pescare. Chubby aveva lanciato un'occhiata a Sherry North, distesa in bikini sul ponte di poppa, e aveva corrugato la fronte senza compromettersi, ma Angelo aveva roteato gli occhi in modo espressivo, chiedendo: «Gita di piacere?» con una certa inflessione. «Sei il solito malizioso» l'avevo rimproverato, e lui era scoppiato a ridere di gusto, come se gli avessi fatto il migliore complimento, e i due si erano allontanati lungo il molo. Il "Dancer" zigzagò attraverso la collana di atolli e di isole finche, poco dopo le tre, percorsi il profondo canale fra Little Gull e Big Gull e sbucai nel tratto sgombro dal fondale basso fra la costa orientale di Big Gull e le acque azzurre del Mozambico. C'era una brezza sufficiente a rendere la giornata piacevolmente fresca e a sollevare bianchi spruzzi di spuma dalla superficie. Guidai con cura il "Dancer", sbirciando in alto verso il Big Gull, e quando mi trovai nella posizione indicata dai punti di riferimento spinsi un po' sopravvento per indietreggiare. Poi spensi i motori e mi precipitai a prua per mollare l'ancora. «E' questo il punto?» Sherry aveva osservato tutto quello che facevo con il suo sguardo sconcertante da felino. «E' questo» e recitando il ruolo dell'innamorato rincretinito mi arrischiai a strafare, indicandole i punti di riferimento. «Ho tirato una linea fra quelle due palme, quelle inclinate in avanti, e quella palma isolata proprio sulla linea dell'orizzonte, la vedi?» Lei annuì in silenzio e io sorpresi di nuovo quell'espressione, come se le informazioni fossero archiviate e mandate a memoria con cura. «Ora che cosa facciamo?» mi chiese. «E' qui che Jimmy si è immerso» le spiegai. «Quando è risalito a bordo era molto eccitato. Ha confabulato con gli altri... Materson e Guthrie... e mi è sembrato che anche loro fossero contagiati dalla sua eccitazione. Jimmy è ridisceso con una fune e un telone. E' rimasto giù a lungo... e quando è risalito e cominciata la sparatoria.» «Sì» annuì lei con impazienza: l'accenno alla morte del fratello parve lasciarla indifferente. «Ora dovremmo andare, prima che qualcuno ci veda.» «Andare?» le chiesi, guardandola. «Pensavo che dovessimo scendere a
dare un'occhiata.» Lei si accorse dell'errore. «Dovremmo organizzarci per bene, tornare quando saremo preparati, quando avremo preso accordi per recuperare e trasportare...» «Amore» le dissi sorridendo. «Non ho fatto tutta questa strada per rinunciare a dare almeno una sbirciatina.» «Non credo che dovresti, Harry» mi gridò dietro, mentre stavo già aprendo il portello della sala macchine. «Torniamo un'altra volta» insistette, ma io scesi la scaletta fino alla rastrelliera che conteneva le bombole e presi una coppia di Draeger. Inserii la valvola di respirazione e provai la guarnizione, risucchiando aria dalla maschera di gomma. Dando una rapida occhiata su al portello per assicurarmi che non mi stesse spiando, mi sporsi per far scattare l'interruttore nascosto nell'impianto elettrico. Ora nessuno poteva avviare i motori del "Dancer" mentre ero in immersione. Calai da poppa la scaletta e poi mi vestii sul ponte di poppa: muta di neoprene con le maniche corte e il cappuccio, cintura zavorrata e coltello, maschera Nemrod che copriva tutto il viso e pinne. Mi assicurai sulle spalle il respiratore, presi un rotolo di fune di nylon leggera e me l'agganciai alla cintura. «Che cosa succede se non torni?» chiese Sherry, mostrando per la prima volta apprensione. «Voglio dire, cosa ne sarà di me?» «Morirai di dolore» le dissi, e scavalcai il parapetto, non con un salto all'indietro da esibizionista, ma semplicemente usando la scaletta, molto più consona alla mia età e dignità. L'acqua era trasparente come aria di montagna e mentre scendevo a testa in giù potevo vedere ogni dettaglio del fondo, quindici metri più in basso. Era un paesaggio di corallo, rischiarato da un pulviscolo di luce e da colori fantastici. Mi lasciai trascinare verso il basso, dove le sagome scolpite del corallo erano ammorbidite e sfumate dalla vegetazione marina e animate dagli scintillii preziosi di miriadi di pesci tropicali. C'erano gole profonde e torri imponenti, e in mezzo prati di alghe e distese di sabbia di un bianco accecante. I miei rilevamenti erano stati notevolmente accurati, tenuto conto del fatto che ero semincosciente per la perdita di sangue. Avevo gettato l'ancora quasi sopra l'involto di tela. Era adagiato su uno degli spazi liberi di sabbia corallina, con l'aspetto di un orribile mostro marino verde e tozzo, con i capi delle funi che fluttuavano intorno come tentacoli. Mi accovacciai vicino e banchi di minuscoli pesciolini a strisce nere e oro mi si affollarono intorno tanto numerosi che dovetti soffiare delle bollicine per disperderli, prima di potermi mettere al lavoro. Sganciai dalla cintura la fune di nylon e ne fissai un'estremità al pacco con una serie di mezzi nodi. Poi risalii in superficie filando lentamente la fune. Emersi dieci metri a poppa del "Dancer", nuotai fino alla scaletta e mi arrampicai sul ponte di poppa. Assicurai saldamente l'estremità del cavo al bracciolo del sedile da pesca. «Che cos'hai trovato?» domandò ansiosa Sherry. «Non so ancora» le dissi. Avevo resistito alla tentazione di aprire il pacco sul fondo. Speravo che valesse la pena di osservare la sua espressione mentre svolgevo il telone. Mi tolsi l'attrezzatura e la sciacquai con acqua dolce prima di riporre il tutto con cura. Volevo che la tensione la rodesse ancora un po'. «Maledizione, Harry. Tiriamolo su» esplose lei alla fine. Ricordavo che il pacco era pesante come il piombo, ma allora ero quasi privo di forze. Ora puntai i piedi contro il capo di banda e cominciai a recuperare la fune. Era pesante, ma non impossibile da sollevare, e arrotolai il cavo bagnato man mano che arrivava, con il movimento del polso del vecchio pescatore di tonni. La tela verde sbucò in superficie accosto alla barca, zampillando acqua. Io mi sporsi in avanti e afferrai la fune annodata, issando a bordo con un solo sforzo il fagotto, che tintinnò pesantemente sulla coperta del ponte di poppa... metallo contro legno. «Aprilo» ordinò impaziente Sherry. «Subito, signora» risposi, ed estrassi il coltello delle esche dal
fodero nella cintura. Era affilato come un rasoio e recise le funi con un sol colpo. Sherry si chinò in avanti mentre io scostavo le pieghe umide e rigide del telone, osservando il suo viso. L'espressione avida di anticipazione si accese improvvisamente di trionfo quando riconobbe l'oggetto. Lo riconobbe prima di me e poi subito stese sul viso e sugli occhi un velo d'incertezza. Fu ben fatto, era un'attrice di talento. Se non l'avessi osservata con attenzione, il rapido gioco di emozioni mi sarebbe sfuggito. Abbassai gli occhi sull'umile oggetto per cui già tanti uomini erano stati uccisi o mutilati, e rimasi diviso fra sorpresa, perplessità... e delusione. Non era quello che mi aspettavo. Era corroso per metà come da una smerigliatrice, il bronzo era ruvido e lucente e solcato da profonde incisioni. La parte superiore era intatta, offuscata da uno spesso strato di verderame, mentre l'anello era integro e il gioco di ornamenti era ancora chiaro nonostante l'erosione: uno stemma araldico, o almeno una parte, e un'iscrizione in un elaborato stile antico. L'iscrizione era frammentaria, in gran parte corrosa in una linea ondulata irregolare, che lasciava il metallo ruvido e lucente. Era la campana di una nave, fusa in bronzo massiccio; doveva avere un peso vicino ai cinquanta chili, con una sommità a cupola munita di anello e un'ampia bocca svasata. La rovesciai, incuriosito. Il battaglio si era corroso del tutto e cirripedi e altri crostacei avevano incrostato l'interno. L'alternarsi di logorio e corrosione all'esterno mi lasciò perplesso, finché all'improvviso non mi balenò la soluzione. Avevo visto altri oggetti metallici ridotti così dopo una lunga immersione. La campana era sprofondata per metà nel fondale sabbioso, la parte scoperta era rimasta esposta all'impeto della marea di Gunfire Break e i fini granelli di sabbia corallina avevano eroso circa mezzo centimetro dello strato esterno di metallo. Invece la parte che era rimasta sepolta era protetta e ora esaminai con maggiore attenzione le lettere superstiti: "VVN L" C'era una V o una W spezzata, seguita subito dopo da una N perfetta... poi uno spazio vuoto e una L intera; il resto dell'iscrizione era stato cancellato. Lo stemma inciso nel metallo sul lato opposto della campana era un disegno intricato con due bestie rampanti, probabilmente leoni, che sostenevano uno scudo e una testa coperta da una cotta di maglia di ferro. Mi sembrò vagamente familiare e mi chiesi dove l'avessi già visto. Mi sedetti sui talloni e guardai Sherry North. Non riuscì a sostenere il mio sguardo. «Buffo» riflettei ad alta voce. «Un jet con una grossa campana di bronzo sospesa al muso.» «Non capisco» disse lei. «Nemmeno io.» Mi alzai e andai a prendere un sigaro nel salone. Lo accesi e tornai e sedermi sul sedile da pesca. «D'accordo, sentiamo la tua teoria.» «Non so, Harry. Davvero non so.» «Facciamo qualche tentativo» suggerii. «Comincio io.» Lei si diresse verso il parapetto. «Il jet si è trasformato in una zucca» azzardai. «Che ne dici di questa?» Sherry si girò verso di me. «Harry, non mi sento bene. Penso che mi verrà la nausea.» «E io cosa devo fare?» «Torniamo subito indietro.» «Stavo pensando a un'altra immersione... per dare un'altra occhiata in giro.» «No» rispose in fretta lei. «Per favore, non ora. Non mi sento in grado di farlo. Andiamo. Possiamo tornare, se sarà necessario.» Osservai il suo viso, cercando le tracce del malessere, ma pareva una
réclame di alimenti dietetici. «D'accordo» accettai; non aveva molto senso fare un'altra immersione, in realtà, ma solo io lo sapevo. «Andiamo a casa e cerchiamo di trovare una soluzione.» Mi alzai e cominciai a riavvolgere la campana nella tela. «Cosa vuoi farne?» mi chiese lei con ansia. «La rispedisco a fondo» le risposi. «Certo non ho intenzione di portarla a Saint Mary e metterla in mostra al mercato. Come hai detto tu, possiamo sempre tornare indietro.» «Sì» convenne subito lei. «Hai ragione, naturalmente.» Lasciai cadere ancora una volta l'involto fuori bordo e andai a salpare l'ancora. Durante il viaggio di ritorno scoprii che la presenza di Sherry North sul ponte mi irritava. C'erano molte cose su cui dovevo riflettere seriamente. La mandai sotto coperta a fare il caffè. «Forte» le ordinai «e con quattro cucchiaini di zucchero. Ti servirà per il mal di mare.» Entro due minuti lei ricomparve sul ponte. «Il fornello non si accende» protestò. «Prima devi aprire le bombole del gas.» Le spiegai dove trovare le chiavette. «E non scordarti di chiuderle quando avrai finito, o trasformerai la barca in una bomba.» Fece un caffè schifoso. Era tarda sera quando raggiunsi l'ormeggio nel porto grande e faceva buio quando deposi Sherry all'ingresso dell'albergo. Non m'invitò nemmeno a bere un drink, ma mi baciò sulla guancia e disse: «Tesoro, stasera lasciami sola. Sono esausta. Ora vado a letto. Lasciami riflettere su tutto questo e quando mi sentirò meglio potremo fare dei piani più precisi». «Passo a prenderti qui... a che ora?» «No» rispose lei. «Verrò io a raggiungerti sulla barca. Presto, alle otto. Aspettami lì, potremo parlare in privato. Solo noi due, nessun altro... va bene?» «Porterò il "Dancer" al molo alle otto» le promisi. Era stata una giornata faticosa e tornando a casa mi fermai al Lord Nelson. Angelo e Judith erano in uno dei séparé, con una compagnia rumorosa di coetanei. Mi chiamarono a gran voce e mi fecero spazio in mezzo a due ragazze. Portai loro un boccale a testa e Angelo si piegò verso di me con atteggiamento confidenziale. «Ehi, comandante, ti serve il furgone, stasera?» «Sì» risposi. «Per tornare a casa.» Sapevo quello che stava per chiedermi, naturalmente. Angelo si comportava come se possedesse delle azioni dell'automezzo. «Stasera c'è una gran festa giù a South Point, capo.» A un tratto largheggiava parecchio in "capo" e "comandante". «Pensavo che se ti portassi io a Turtle Bay, poi ci lasceresti il camioncino. Passerei a rilevarti domattina presto, lo giuro.» Presi una sorsata dal mio boccale e tutti mi osservarono, le facce ansiose, pieni di speranza. «E' una grossa festa signor Harry» insistette Judith. «Per favore.» «Passa a prendermi alle sette in punto, Angelo, capito?» e ci fu uno scoppio spontaneo di risate e di sollievo. Fecero una colletta per pagarmi un altro boccale. Trascorsi una notte agitata, con il sonno irrequieto intervallato da periodi di veglia. Sognai di nuovo di tuffarmi per recuperare l'involto di tela. Ancora una volta conteneva una minuscola sirena di Dresda, ma questa aveva il viso di Sherry North e mi offriva il modello di un caccia a reazione, che si trasformò in una zucca d'oro appena allungai la mano. Sulla zucca erano incise le lettere "VVN L" Dopo mezzanotte cominciò a piovere, massicce pareti d'acqua che si rovesciavano dalle grondaie, mentre i rami di palma si stagliavano
contro il cielo notturno alla luce dei fulmini. Pioveva ancora quando scesi sulla spiaggia, e i goccioloni esplodevano in minuscole raffiche di spruzzi sul mio corpo nudo. Il mare era nero nella luce plumbea e i rovesci di pioggia si stendevano fino all'orizzonte. Nuotai da solo fin oltre la barriera, ma quando tornai a riva mi accorsi che l'esercizio fisico non aveva prodotto il solito effetto benefico. Il mio corpo era livido e scosso da brividi di freddo, e continuava a opprimermi una sensazione vaga ma persistente di angoscia. Avevo appena finito la colazione quando lungo la pista che attraversava la piantagione di palme arrivò il camioncino sprofondando nelle pozzanghere, tutto inzaccherato di fango e con i fari ancora accesi. Nel cortile Angelo suonò il clacson e gridò: «Sei pronto Harry?» e io corsi fuori con un'impermeabile di tela cerata sulla testa. Angelo puzzava di birra e aveva la parlantina sciolta e gli occhi un po' velati. «Guido io» gli dissi, e mentre attraversavamo l'isola lui mi fornì una descrizione sommaria della grande festa... a quanto mi riferì pareva che fra nove mesi ci sarebbe stata un'epidemia di nascite a Saint Mary. Io lo ascoltavo solo a metà, perché man mano che ci avvicinavamo alla città la mia inquietudine aumentava. «Sai Harry, i ragazzi mi hanno incaricato di ringraziarti per il prestito del camioncino.» «Va bene, Angelo.» «Ho mandato Judith sulla barca... farà un po' d'ordine e metterà sul fuoco il caffè.» «Non doveva disturbarsi» dissi io. «Ci teneva a farlo... è un modo per ringraziarti, capisci.» «E' una brava ragazza.» «Sicuro, Harry. Io l'adoro» ribatté Angelo, attaccando a cantare "Devil Woman" alla maniera di Mick Jagger. Quando superammo la cresta della collina e cominciammo a scendere a valle provai un impulso improvviso. Invece di proseguire lungo Frobisher Street fino al porto, svoltai a sinistra sulla circonvallazione sopra il forte e l'ospedale e risalii il viale di banani fino all'Hilton Hotel. Parcheggiai il furgone sotto la tettoia e mi diressi verso le reception. Al banco non c'era nessuno, a quell'ora di mattina, ma io mi sporsi per sbirciare nel cubicolo di Marion. Lei era al centralino e quando mi vide si tolse la cuffia, il viso rischiarato da un largo sorriso. «Salve, signor Harry.» «Ciao, Marion, tesoro.» Le ricambiai il sorriso. «La signorina North è in camera?» La sua espressione cambiò. «Oh, no» rispose. «E' partita più di un'ora fa.» «Partita?» La fissai. «Sì. E' andata all'aeroporto col pullman dell'albergo. Doveva prendere il volo delle sette e trenta.» Marion guardò l'orologio giapponese da quattro soldi che portava al polso. «Dovrebbe essere decollato da dieci minuti.» La notizia mi prese del tutto in contropiede. Per parecchi secondi non riuscii a capire... e poi di colpo intuii la verità. «Oh, Gesù Cristo» esclamai. «Judith!» e corsi verso il furgone. Angelo vide il mio viso mentre arrivavo e si raddrizzò sul sedile, smettendo di cantare. Saltai al posto di guida e avviai il motore, spingendo a fondo l'acceleratore, e compiendo una brusca curva su due ruote «Cosa c'è, Harry?» domandò Angelo. «Judith» chiesi cupo. «Quando l'hai mandata giù alla barca?» «Quando sono uscito per venire a prenderti.» «E' andata direttamente?» «No, prima doveva fare il bagno e vestirsi.» Rispose con franchezza, senza nascondere il fatto che avevano dormito assieme. Avvertiva l'urgenza della situazione. «Poi doveva scendere per la valle fino alla fattoria.» Angelo aveva una camera in affitto presso una famiglia
di contadini, su vicino alla sorgente: era una passeggiata di cinque chilometri. «Dio, facci arrivare in tempo» mormorai. Il camion rombava giù per il viale e io cambiai marcia a velocità record mentre superavamo il cancello sbandando e pigiai di nuovo l'acceleratore a tavoletta, uscendo dalla sbandata a forza di braccia. «Che diavolo succede, Harry?» ripeté lui. «Dobbiamo impedirle di salire a bordo del "Dancer"» risposi torvo mentre scendevamo rombando sulla circonvallazione. Passato il forte si aprì davanti a noi la vista del porto. Angelo non perse tempo con domande inutili. Lavoravamo insieme da troppo tempo e si fidava della mia parola. Il "Dancer" era ancora all'ormeggio fra gli altri battelli dell'isola e Judith sul canotto era arrivata a metà strada dalla riva. Anche a quella distanza riuscii a distinguere la minuscola figura femminile sul banco del rematore e a riconoscere i colpi di remo corti e decisi. Era una vera isolana e remava come un uomo. «Non ce la faremo» disse Angelo. «Arriverà prima che noi raggiungiamo l'Ammiragliato.» In cima a Frobisher Street pigiai il palmo della mano sinistra sul clacson e suonando a tutt'andare tentai di farmi strada, ma era sabato mattina, giorno di mercato, e le vie si stavano già affollando. La gente di campagna era scesa in città, usando bestie, carri e veicoli antidiluviani. Imprecando esasperato insistetti sul clacson per farmi largo. Impiegammo tre minuti a coprire gli ottocento metri dalla sommità della strada al molo dell'Ammiragliato. «Oh, Dio» esclamai, chinandomi in avanti sul sedile mentre sfrecciavo oltre il cancello e attraversavo i binari della ferrovia. Il canotto era legato a fianco del "Wave Dancer" e Judith stava scavalcando il parapetto. Portava una camicia verde smeraldo e pantaloncini corti di tela Jeans. I capelli erano legati sulla schiena in una lunga treccia. Frenai slittando vicino ai depositi di ananas e Angelo e io ci precipitammo lungo il molo. «Judith!» gridai, ma la mia voce non arrivò attraverso il porto. Judith sparì nel salone senza guardarsi indietro. Angelo e io corremmo giù fino in fondo al pontile. Gridavamo tutti e due a perdifiato, ma avevamo il vento contrario e il "Dancer" era lontano cinquecento metri. «C'è una barca!» Angelo mi prese per il braccio. Era una vecchia barca per la pesca degli sgombri, ma era incatenata a un anello infisso nel molo di pietra. Ci saltammo dentro, superando un salto di due metri e mezzo e ricadendo uno addosso all'altro sul banco del rematore. Mi arrampicai fino alla catena di ormeggio. Era composta di maglie d'acciaio temperato di mezzo centimetro e un massiccio lucchetto di ottone l'assicurava all'anello. Mi avvolsi due tratti di catena attorno al polso, puntai un piede contro il molo e tirai. Il lucchetto saltò e io ricaddi all'indietro sul fondo della barca. Angelo aveva già i remi negli scalmi. «Rema» gli gridai. «Rema come un pazzo.» Io mi misi a prua facendo megafono con le mani mentre chiamavo Judith, tentando di sovrastare con la voce il vento. Angelo remava con foga frenetica, tenendo i remi piatti e bassi nel tratto di ritorno e poi caricandovi tutto il suo peso quando mordevano l'acqua Il suo respiro esplodeva in un grugnito aspro a ogni colpo. A metà strada dal "Dancer" un altro rovescio di pioggia ci avvolse, velando tutto il porto grande di un sudario fluttuante di veli grigi. Mi pungeva il viso, tanto che dovetti socchiudere gli occhi. Il profilo del "Dancer" era offuscato dalla pioggia grigia, ma ormai ci stavamo avvicinando. Cominciavo a sperare che Judith fosse andata a spazzare e riordinare le cabine prima di avvicinare un fiammifero al fornello a gas nella cambusa. Cominciavo perfino a sperare di sbagliarmi... a sperare che Sherry North non mi avesse lasciato un regalo di addio.
Eppure sentivo ancora la mia voce parlare il giorno precedente. "Prima devi aprire le bombole principali del gas.... e non scordarti di chiuderle quando avrai finito, o trasformerai la barca in una bomba." Ci avvicinammo ancora al "Dancer" che pareva quasi sospeso a fili di pioggia, di un bianco spettrale ed etereo nella nebbia. «Judith» gridai, ora doveva sentirmi... eravamo tanto vicini. A bordo c'erano due bombole di gas butano da venticinque chili, sufficienti a distruggere una grossa costruzione in muratura. Il gas era più pesante dell'aria, una volta fuoriuscito doveva essersi raccolto in basso, riempiendo lo scafo del "Dancer" con una miscela esplosiva di gas e aria. Bastava solo una scintilla della batteria o di un fiammifero. Pregai di essermi sbagliato e gridai ancora. Poi ad un tratto il "Dancer" saltò in aria. Fu un'esplosione improvvisa, un terribile lampo azzurro che lo percorse tutto. Divise in due lo scafo con un possente colpo di maglio e squarciò le sovrastrutture, sollevandole come un coperchio. Sotto il colpo mortale il "Dancer" s'impennò e l'onda d'urto ci colpì come un vento di tempesta. Subito avvertii il puzzo di elettricità dell'esplosione, acre come l'odore di un fulmine che si abbatte sfrigolando sul ferro. Il "Dancer" morì sotto i miei occhi, di una terribile morte violenta, poi lo scafo squarciato e senza vita ricadde all'indietro e le fredde acque grigie lo invasero. Il peso dei motori lo mandò rapidamente a fondo e sparì fra le onde sudicie del porto. Angelo e io restammo impietriti dall'orrore, rannicchiati nella barca che rollava violentemente, a fissare le acque agitate cosparse di rottami alla deriva... tutto quel che rimaneva di una splendida barca e di una bella ragazza. Sentii un'immensa desolazione scendere su di me. Volevo gridare forte la mia angoscia, ma ero come paralizzato. Angelo si mosse per primo. Balzò in piedi lanciando un verso gutturale, di bestia ferita. Tentò di gettarsi in acqua, ma io lo afferrai e lo trattenni. «Lasciami» gridò. «Devo andare da lei.» «No.» Lottai con lui nella barca che oscillava impazzita. «Non serve a niente, Angelo.» Anche se fosse potuto scendere giù a dodici metri di profondità, dove ora giaceva lo scafo squarciato del "Dancer", quello che avrebbe trovato poteva farlo uscire di senno. Judith si era trovata al centro dell'esplosione e doveva aver subito in pieno il terribile trauma di uno scoppio a distanza ravvicinata. «Lasciami, maledizione.» Angelo liberò un braccio e mi colpì al viso, ma io anticipai il colpo e girai la testa. Mi scalfì la pelle della guancia e capii che dovevo calmarlo. La barca era sul punto di rovesciarsi Anche se pesava venti chili meno di me, Angelo lottava con forza frenetica. Ora la chiamava per nome, con un'inflessione isterica sempre più alta. Mollai la presa che esercitavo sulla sua spalla con la mano e lo allontanai un po' da me, prendendo la mira con cura. Lo colpii di destro, da non più di dieci centimetri. Lo presi proprio nel punto sotto l'orecchio sinistro e crollò all'istante, svenuto. Lo adagiai sulle assi del fondo, sistemandolo in una posizione comoda. Tornai al molo senza guardarmi indietro. Mi sentivo intontito e svuotato. Scaricai Angelo sul molo, accorgendomi del suo peso. Lo portai su in ospedale, dov'era di turno MacNab. «Gli dia qualcosa per tenerlo a letto nelle prossime ventiquattr'ore» dissi a MacNab, e lui cominciò a obiettare. «Apra le orecchie, vecchia tinozza da whisky» replicai piano «mi piacerebbe trovare una scusa per spaccarle la testa.» Impallidì al punto che i capillari dilatati sul naso e sulle guance spiccarono nitidi. «Mi stia a sentire, vecchio mio» cominciò. Io feci un passo avanti e lui spedì subito l'infermiera di turno al dispensario degli stupefacenti. Trovai Chubby a colazione e ci misi solo un minuto a spiegargli cos'era successo. Salimmo in camioncino al forte e Wally Andrews reagì in fretta. Mise da parte la pila di deposizioni e altre pratiche e ci
aiutò a caricare sul furgone l'attrezzatura da immersione della polizia: quando raggiungemmo il porto metà della popolazione di Saint Mary si era raccolta in una folla silenziosa e preoccupata lungo il molo. Alcuni avevano visto la scena e tutti avevano sentito l'esplosione. Qualche voce qua e là mi fece le condoglianze mentre caricavamo l'attrezzatura da immersione sulla barca da pesca. «Qualcuno trovi Fred Coker» gridai. «Ditegli di venire quaggiù con una borsa» e ci fu un brusio di commenti. «Ehi, signor Harry, c'era qualcuno a bordo?» «Chiamate Fred Coker e basta» ripetei, e ci dirigemmo a remi verso l'ormeggio del "Dancer". Mentre Wally teneva in posizione il canotto, Chubby e io ci calammo nell'acqua torbida del porto. Il "Dancer" era disteso sul fianco a dodici metri di profondità: affondando doveva essersi rovesciato, ma penetrare all'interno non fu un problema, perché lo scafo era squarciato a metà lungo la chiglia. Non c'era nessuna speranza che tornasse a galleggiare. Chubby attese presso lo squarcio mentre io entravo. Quel che restava della cambusa ora brulicava di branchi di pesci che guizzavano eccitati. Erano intenti a divorare con frenesia e io mi sentii soffocare, imbavagliato dalla maschera del respiratore, quando vidi quello che stavano divorando. Capii che si trattava di Judith solo dai frammenti di tessuto verde che aderivano ai brandelli di carne. La portammo fuori in tre pezzi principali e la sistemammo nella borsa di tela fornita da Fred Coker. Mi rituffai subito e mi aprii la strada attraverso lo scafo fracassato fino al varco sotto la cambusa, dove le due lunghe bombole di ferro del gas erano ancora assicurate alle loro basi. Tutt'e due le chiavette erano aperte al massimo e qualcuno aveva staccato i tubi per lasciar defluire liberamente il gas. Non avevo mai provato una collera così intensa come quella che sentii allora. Era tanto violenta perché era alimentata dalla mia perdita. Il "Dancer" era finito... e il "Dancer" aveva rappresentato metà della mia vita. Chiusi le chiavette e riattaccai i tubi. Era una faccenda privata... l'avrei risolta di persona. Quando percorsi il molo fino al furgone, l'unico mio conforto era l'idea che il "Dancer" era assicurato. Ci sarebbe stata un'altra barca, non tanto bella né tanto amata come il "Dancer", ma pur sempre una barca. Nella folla notai la faccia nera e lucida di Hambone Williams, il traghettatore del porto. Da quarant'anni spingeva avanti e indietro la sua vecchia barca per tre pence a viaggio. «Hambone» lo chiamai. «Hai portato qualcuno fino al "Dancer", ieri sera?» «No, signor Harry.» «Proprio nessuno?» «Solo la sua cliente. Aveva lasciato l'orologio nella cabina. L'ho accompagnata a prenderlo.» «La signora?» «Sì, quella con i capelli gialli.» «A che ora, Hambone?» «Verso le nove... ho fatto male, signor Harry?» «No. Non pensarci più.» Seppellimmo Judith il giorno dopo a mezzogiorno. Riuscii a procurarle un posto al cimitero accanto a suo padre e sua madre. Angelo ne fu contento. Disse che non voleva si sentisse sola, lassù sulla collina; era ancora mezzo intontito dalla droga e accanto alla tomba rimase in silenzio, con gli occhi spenti. La mattina dopo noi tre cominciammo il lavoro di recupero sul "Dancer". Lavorammo sodo per dieci giorni e lo spogliammo di qualunque pezzo potesse avere un valore, dai mulinelli da pesca d'altura alla carabina FN, alle due eliche di bronzo. Lo scafo e le sovrastrutture avevano subito danni tanto gravi da non avere più nessun valore. Alla fine di quel periodo il "Wave Dancer" era diventato soltanto un ricordo. Ho avuto molte donne, che ora sono solo un pensiero piacevole quando ascolto una certa canzone o sento un profumo particolare. Come
loro, il "Dancer" cominciava già ad allontanarsi nel passato. Il decimo giorno mi recai a trovare Fred Coker... e appena misi piede nel suo ufficio capii che c'era qualcosa che non andava. Era nervoso, lucido di sudore, i suoi occhi si muovevano a scatti dietro gli occhiali scintillanti e le mani gli guizzavano qua e là come topi spaventati, passando sul tampone di carta assorbente o salendo ad aggiustare il nodo della cravatta o a lisciare le rade ciocche di capelli sul cranio lucido. Sapeva che ero venuto a parlare dell'assicurazione. «Ora non si agiti, signor Harry, per favore» mi raccomandò. Ogni volta che mi sento dire così, comincio ad agitarmi sul serio. «Cosa c'è, Coker? Avanti! Poche storie!» Battei un pugno sul piano della scrivania e lui sobbalzò sulla sedia tanto forte che gli occhiali cerchiati d'oro gli scivolarono sul naso. «Signor Harry, per favore...» «Avanti, piccolo verme miserabile!» «Signor Harry... si tratta dei premi d'assicurazione sul "Dancer".» Lo fissai. «Vede... lei non aveva mai presentato nessuna denuncia... mi sembrava un tale spreco...» Ritrovai la favella. «Ha intascato i premi» bisbigliai, tradito all'improvviso dalla voce. «Non li ha versati alla compagnia.» «Lei ha capito» ammise Fred Coker. «Lo sapevo che avrebbe capito.» Tentai di saltare sulla scrivania per risparmiare tempo, ma inciampai e caddi. Fred Coker balzò dalla sedia, sgusciandomi fra le dita protese alla cieca. Uscì di corsa dalla porta posteriore, sbattendosela alle spalle. Io sfondai la porta, schiantando la serratura e lasciandola appesa ai cardini rotti. Fred Coker correva come se avesse avuto alle calcagna tutti i diavoli dell'inferno, il che sarebbe stato meglio per lui. Lo raggiunsi al portone che dava sul vicolo e lo sollevai per la gola con una sola mano, schiacciandogli la schiena contro una pila di bare d'abete da poco prezzo. Aveva perso gli occhiali e piangeva terrorizzato, grosse lacrime che sgorgavano lente dagli occhi miopi e indifesi. «Lo sai che sto per ammazzarti» mormorai, e lui gemette, i piedi penzoloni a quindici centimetri da terra. Tirai indietro il pugno destro e mi bilanciai saldamente sulle punte dei piedi. Gli avrei staccato la testa. Non potevo farlo... ma dovevo colpire qualcosa. Piantai il pugno nella bara vicino al suo orecchio destro. Il compensato cedette, fracassato per tutta la sua lunghezza. Fred Coker strillò come una ragazza isterica, e io lo mollai. Le gambe non lo sorressero e crollò sul cemento. Lo lasciai disteso lì a gemere e a singhiozzare di terrore... e uscii in strada, più vicino alla bancarotta di quanto non fossi mai stato da dieci anni a questa parte. Il signor Harry si era trasformato d'un sol colpo in Fletcher, topo del molo e vagabondo appiedato. Era un caso classico di involuzione della specie... prima di arrivare al Lord Nelson ragionavo nello stesso modo di dieci anni prima. Calcolavo già le possibilità, cercando ancora una volta la grossa occasione. A quell'ora del pomeriggio Chubby e Angelo erano gli unici clienti del bar. Riferii la notizia e loro l'accolsero senza una parola. Non c'era niente da dire. Bevemmo in silenzio il primo bicchiere, poi chiesi a Chubby: «Che cosa farai?» e lui si strinse nelle spalle. «Ho ancora la vecchia baleniera...» Era un sei metri, di disegno tradizionale, col ponte scoperto, ma reggeva bene il mare. «Andrò di nuovo a pesca di "mozziconi", credo.» I mozziconi erano i grossi gamberi della barriera. Le code congelate rendevano bene. Era così che Chubby si era guadagnato il pane prima che il "Dancer" e io arrivassimo a Saint Mary. «Avrai bisogno di motori nuovi, quei tuoi vecchi Sea Gull sono andati.» Bevemmo un altro boccale, mentre facevo il consuntivo delle mie finanze... che diavolo, duemila dollari non avrebbero fatto gran differenza per me. «Ti comprerò due nuovi Evinrude da venti cavalli
per la barca, Chubby» mi offrii. «Non te lo permetterò, Harry.» Corrugò la fronte indignato e scosse la testa. «Ho messo da parte abbastanza, lavorando per te» e rimase inflessibile. «E tu, Angelo?» domandai. «Penso che mi venderò l'anima per un contratto a Rawano.» «No.» Chubby si accigliò alla sola idea. «Avrò bisogno di uomini per la barca.» Allora erano a posto. Ne fui sollevato perché mi sentivo responsabile per tutti e due. Ero particolarmente contento che ci fosse Chubby a tenere d'occhio Angelo. Il ragazzo aveva preso molto male la morte di Judith. Era taciturno e chiuso, l'ombra del brillante Romeo di una volta. L'avevo fatto lavorare sodo al recupero del "Dancer", e solo quello pareva potesse dargli il tempo necessario per guarire dalla ferita. Ciò nonostante ora cominciò a bere forte, ammazzando bicchierini di scadente cognac locale con interi boccali di birra amara. Questo è il modo più distruttivo di ubriacarsi che io conosca, un po' come bere alcool metilico. Chubby e io ce la prendevamo con calma, facendo durare la nostra birra; eppure sotto il tono scherzoso covava la certezza che eravamo arrivati a un bivio e da domani in poi non avremmo più viaggiato insieme. Questo dava alla serata la sottile amarezza di una perdita imminente. Quella sera c'era in porto un peschereccio sudafricano che aveva attraccato per fare rifornimento ed eseguire delle riparazioni. Quando alla fine Angelo perse conoscenza, Chubby e io cominciammo a cantare. Sei bravacci dell'equipaggio del peschereccio espressero la loro disapprovazione nei termini più offensivi. Chubby e io non potevamo lasciar correre insulti di quel genere. Uscimmo tutti a discutere nel cortile sul retro. Fu una discussione epica e quando Wally Andrews arrivò con la ronda arrestò tutti, perfino quelli che erano caduti nella mischia. «La mia carne e il mio sangue...» seguitò a ripetere Chubby mentre ci avviavamo nelle celle sottobraccio, barcollando. «Si è rivoltato contro di me. Il figlio di mia sorella.» Wally fu tanto comprensivo da mandare uno degli agenti giù al Lord Nelson a prendere qualcosa per rendere meno penosa la nostra prigionia. Chubby e io divenimmo molto amici degli uomini del peschereccio nella cella accanto, passandoci avanti e indietro la bottiglia fra le sbarre. Quando la mattina dopo fummo rilasciati, dato che Wally Andrews si rifiutava di dar seguito alle accuse, andai a Turtle Bay col camioncino per chiudere il bungalow. Controllai che i piatti fossero puliti e sparsi negli armadi qualche manciata di palline antitarme, ma non mi diedi la pena di chiudere le porte a chiave. A Saint Mary il furto è sconosciuto. Per l'ultima volta mi spinsi a nuoto oltre la barriera e aspettai una mezz'ora, sperando che arrivassero i delfini. Non si presentarono e io tornai indietro, feci la doccia e mi cambiai, presi la mia vecchia sacca di tela e cuoio posata sul letto e uscii, dirigendomi verso il camioncino parcheggiato in cortile. Nell'attraversare la piantagione di palme non mi voltai a guardare indietro, ma promisi a me stesso che sarei tornato. Parcheggiai di fronte all'albergo e accesi un sigaro. Quando Marion finì il suo turno, a mezzogiorno, uscì dall'ingresso principale e si avviò lungo il viale con il sederino ancheggiante sotto la minigonna. Io fischiai e lei mi vide. Scivolò sul sedile accanto a me. «Signor Harry, mi spiace tanto per la barca...» Chiacchierammo per qualche minuto prima che potessi farle la domanda. «La signorina North, quand'era ospite dell'albergo, ha fatto qualche telefonata o ha mandato un telegramma?» «Non ricordo, signor Harry, ma potrei controllare. «Adesso?» «Sicuro» acconsentì Marion. «Ancora una cosa, potresti controllare anche se Dicky le ha scattato una foto?» Dicky era il fotografo ambulante dell'albergo: c'erano buone probabilità che avesse nel suo archivio una foto di Sherry
North. Sparì per circa tre quarti d'ora, ma tornò con un sorriso di trionfo. «Ha spedito un telegramma la sera prima di partire.» Mi tese una velina. «La tenga pure» mi disse mentre leggevo il messaggio. Era indirizzato a: MANSON - FLAT 5 - CURZON STREET 97 - LONDON W.1. e il testo diceva: CONTRATTO FIRMATO. TORNO HEATHROW VOLO BOAC 316 SABATO. Non c'era firma. «Dicky ha dovuto spulciare tutto l'archivio... ma ne ha trovata una.» Mi porse una foto lucida formato quindici per dieci. Ritraeva Sherry North, distesa su un lettino sul terrazzo dell'albergo. Portava il bikini e gli occhiali da sole, ma la somiglianza era buona. «Grazie Marion.» Le porsi un biglietto da cinque sterline. «Accidenti, signor Harry» esclamò sorridendo mentre se l'infilava nella scollatura del reggiseno. «A questo prezzo può prendere quello che vuole.» «Ho un aereo da prendere, tesoro.» La baciai sul nasetto camuso e le affibbiai una pacca sul sedere mentre scendeva dal furgoncino. Chubby e Angelo vennero a salutarmi all'aeroporto. Chubby doveva prendere in custodia il furgone. Eravamo tutti mogi e al cancello d'imbarco ci stringemmo goffamente la mano. Non c'era molto da aggiungere, ci eravamo detti tutto le sera prima. Quando l'aereo col motore a pistoni decollò, diretto verso il continente, li scorsi per un attimo, impalati presso il recinto. Sostai più di tre ore a Nairobi prima di proseguire per Londra con un volo della BOAC. Durante il lungo viaggio notturno non dormii granché. Erano molti anni che non tornavo nella mia terra natale... e ora andavo a compiere una cupa missione di vendetta. Avevo una gran voglia di scambiare quattro chiacchiere con Sherry North. Quando sei proprio a terra, quello è il momento di comperarti un'auto nuova e un vestito da cento ghinee. Ostenta un'aria sicura e prospera e la gente ci crederà. Mi feci la barba e mi cambiai all'aeroporto, e alla Hertz di Heathrow invece di una Hillman presi a nolo una Chrysler, lanciai la valigia nel bagagliaio e mi diressi al più vicino pub. Ordinai una doppia porzione di uova e prosciutto, innaffiandola con un boccale di Courage mentre studiavo la carta stradale. Era passato tanto tempo che non mi sentivo sicuro del mio senso dell'orientamento. La campagna inglese fertile e coltivata era troppo monotona e verde dopo la Malesia e l'Africa e il sole autunnale era d'oro pallido, mentre io ero abituato a un sole più luminoso e intenso... ma fu un viaggio piacevole giù per le colline del Surrey, fino a Brighton. Parcheggiai la Chrysler sul lungomare di fronte al Grand Hotel e mi addentrai nel dedalo di viuzze. Erano affollate di turisti, anche se la stagione volgeva al termine. Pavillon Arcade era l'indirizzo che avevo letto tanto tempo prima sulla slitta sottomarina di Jimmy North, e mi ci volle quasi un'ora per trovarlo. Era rintanato in fondo a un cortile e quasi tutte le finestre e le porte erano chiuse e sbarrate. Il "North's Underwater World" aveva una facciata di tre metri che dava sul vicolo. Era chiuso anche quello e sull'unica vetrata era calata una serranda. Tentai senza successo di sbirciare oltre l'orlo della serratura, ma dentro era buio, così bussai alla porta. Dall'interno non proveniva nessun suono e stavo per allontanarmi quando notai un quadrato di cartone che un tempo doveva essere stato attaccato al fondo della vetrina ma era caduto sul pavimento all'interno. Torcendo la testa in modo acrobatico riuscii a leggere il messaggio scritto a mano che fortunatamente era caduto a faccia in su: "Rivolgersi a Seaview, Downers Lane, Falmer, Sussex". Tornai alla macchina e tirai fuori la carta dallo scomparto del cruscotto. Mentre spingevo la Chrysler lungo sentieri stretti, cominciò a piovere. Le asticciole del tergicristallo respingevano fiacche le gocce che schizzavano e io aguzzai gli occhi nel crepuscolo precoce. Due volte smarrii la strada, poi finalmente frenai davanti a un cancello che si apriva in una folta siepe. La targa inchiodata al cancello diceva: NORTH SEAVIEW.
Percorsi il vialetto fra le siepi e sbucai nel cortile lastricato di una vecchia fattoria di mattoni rossi a due piani, con le travi di quercia a vista e il muschio verde sul tetto di assicelle in legno. Al piano inferiore c'era una luce accesa. Parcheggiai la Chrysler e attraversai il cortile fino alla porta di cucina, rialzando il colletto per difendermi dal vento e dalla pioggia. Bussai alla porta e sentii qualcuno muoversi dentro. I chiavistelli scattarono e la parte superiore della porta si aprì, trattenuta da una catena. Una ragazza guardò fuori verso di me. A prima vista non fui impressionato da lei, perché portava un maglione blu da marinaio tutto sformato ed era alta, con le spalle da nuotatrice. La giudicai ordinaria... in modo sorprendente. Aveva la fronte pallida e ampia, il naso grande ma non ossuto né adunco, e la bocca larga e cordiale. Non portava un filo di trucco, così le labbra erano rosa chiaro e c'era una spruzzata di lentiggini sul naso e sulle guance. I capelli erano tirati indietro, stretti in una grossa treccia sulla nuca. Erano neri, di un nero lucido e iridescente alla luce della lampada, e anche le sopracciglia erano nere, arcuate in modo ardito su occhi che parevano anch'essi neri finché non vi batté la luce e allora mi accorsi che erano dello stesso azzurro cupo e magnetico della corrente del Mozambico quando il sole di mezzogiorno vi batte a perpendicolo. Nonostante il pallore del viso, aveva un'aria sana. La sua pelle chiara aveva una luminosità ed elasticità tali che a osservarla da vicino, come facevo ora, pareva di poter vedere giù attraverso la superficie fino al fluire del sangue pulito che saliva caldo alle guance e al collo. Si toccò il ricciolo di capelli scuri e serici che era sfuggito alla treccia e le ondeggiava leggero sulla tempia. Fu un gesto aggraziato che tradiva il suo nervosismo e smentiva l'espressione serena degli occhi azzurro cupo. A un tratto mi accorsi che era una donna straordinariamente attraente; per quanto avesse solo venticinque anni o giù di lì capii che non era più una ragazza, ma una donna vera. In lei, c'erano una forza, una maturità, un profondo senso di calma che trovai affascinante. Di solito le donne che preferisco sono più vistose, non mi va di investire troppe energie nella caccia, ma questa aveva qualcosa che trascendeva le mie esperienze e per la prima volta da anni mi sentii insicuro. Ci stavamo fissando da parecchi secondi, senza che nessuno dei due dicesse una parola o facesse un gesto. «Lei è Harry Fletcher» osservò alla fine, e la sua voce era bassa e ben modulata. Rimasi a bocca aperta. «Come diavolo ha fatto a scoprirlo?» domandai. «Venga dentro.» Fece scorrere la catenella e aprì la parte inferiore della porta, e io obbedii. La cucina era calda e accogliente e vi aleggiava un buon profumo di cibo. «Come fa a sapere il mio nome?» chiesi di nuovo. «C'era la sua foto sul giornale... insieme a quella di Jimmy» spiegò. Restammo di nuovo in silenzio, continuando a studiarci. Era ancora più alta di quanto avessi pensato all'inizio: mi arrivava alla spalla, con le lunghe gambe strette nei pantaloni blu scuro, infilati negli stivali di cuoio nero. Ora potevo vedere la vita sottile e la promessa di bei seni sotto il maglione pesante. All'inizio l'avevo trovata ordinaria, dieci secondi dopo l'avevo giudicata attraente, ora dubitavo di aver mai visto una donna più bella. Ci voleva tempo perché il suo effetto si rivelasse in pieno. «Mi ha messo in svantaggio» dissi alla fine. «Io non conosco il suo nome.» «Sono Sherry North» rispose, e io la fissai un attimo, prima di riprendermi dallo choc. Era molto diversa dall'altra Sherry North che avevo conosciuto. «Lo sa di non essere l'unica?» chiesi alla fine. «Non capisco.» Mi guardò accigliata. «E' una lunga storia.» «Scusi.» Parve accorgersi per la prima volta che eravamo in piedi l'uno di fronte all'altro al centro della cucina. «Si accomodi. Posso
offrirle una birra?» Prese un paio di lattine di Carlsberg dalla dispensa e si sedette di fronte a me dall'altra parte del tavolo di cucina. «Lei voleva raccontarmi una lunga storia?» Staccò le linguette dalle lattine e ne fece scivolare una verso di me, poi mi guardò con aria di attesa. Cominciai a raccontarle una versione riveduta e corretta delle mie esperienze da quando Jimmy North era arrivato a Saint Mary. Era molto facile parlare con lei, come con una vecchia amica. A un tratto provai il desiderio di dirle la pura e semplice verità. Era importante che fin dall'inizio tutto fosse giusto, senza ombre. Era una perfetta sconosciuta, eppure mi fidavo di lei più di chiunque altro avessi mai conosciuto. Le raccontai, per filo e per segno, tutto quello che era successo. Quando scese il buio mi servì la cena, un gustoso stufato cotto in una casseruola di coccio, che mangiammo con pane fatto in casa e burro di fattoria. Stavo ancora chiacchierando, ma non più degli avvenimenti recenti di Saint Mary, e lei mi ascoltava in silenzio. Finalmente avevo trovato un altro essere umano col quale potevo parlare senza riserve. Riandai indietro nella mia esistenza, in una confessione completa, le parlai della mia giovinezza, perfino del modo poco ortodosso in cui avevo guadagnato il denaro per acquistare il "Wave Dancer" e di come da allora i miei buoni propositi avessero tentennato. Era mezzanotte passata quando alla fine lei disse: «Mi riesce difficile credere a tutto quello che mi ha raccontato. Non ne ha l'aria... sembrava così...» parve cercare le parole «... integro». Ma si vedeva che non era quello che voleva dire. «Ce la metto tutta per esserlo. Ma qualche volta l'aureola mi scivola sugli occhi. Vede, le apparenze ingannano» spiegai, e lei annuì. «Sì, è vero» e nel modo in cui lo disse c'era un significato, forse un avvertimento. «Perché mi ha raccontato tutto questo? Non è molto saggio.» «Era tempo che qualcuno lo sapesse, suppongo. Mi spiace, è stata lei l'eletta.» Sorrise. «Per stasera dorma nella camera di Jimmy» disse. «Non posso correre il rischio che vada fuori a raccontarlo a qualcun altro.» La notte prima non avevo dormito e a un tratto mi sentii esausto. Mi parve di non avere nemmeno la forza di salire le scale fino alla camera da letto... ma avevo ancora una domanda da fare. «Perché Jimmy è venuto a Saint Mary? Che cosa cercava?» chiesi. «Sa con chi stava lavorando, chi erano gli altri?» «Non lo so.» Scosse la testa e capii che diceva la verità. «Vuole aiutarmi a scoprirlo? Mi aiuterà a trovarli?» «Sì, l'aiuterò» rispose alzandosi da tavola. «Ne riparleremo domattina.» La stanza di Jimmy era una soffitta, la falda del tetto le conferiva una forma irregolare. Le pareti erano tappezzate di fotografie e scaffali stipati di libri, trofei sportivi d'argento e la collezione di "bric-à-brac» tipica dei giovani. Il letto era alto e il materasso soffice. Scesi a prendere la valigia dalla Chrysler mentre Sherry cambiava le lenzuola. Poi mi indicò il bagno e se ne andò. Io rimasi disteso ad ascoltare la pioggia sul tetto solo per qualche minuto prima di addormentarmi. Di notte mi svegliai e sentii il sussurro sommesso della sua voce in qualche punto della casa silenziosa. A piedi nudi e in mutande aprii la porta della camera e scivolai senza far rumore lungo il corridoio fino alle scale. Guardai giù nell'atrio. C'era una luce accesa e Sherry North era in piedi al telefono a muro. Stava parlando nel ricevitore, le mani chiuse intorno alla bocca, a voce tanto bassa che non riuscivo a cogliere le parole. Aveva la luce alle spalle. Portava una camicia da notte leggera e il suo corpo traspariva attraverso la stoffa sottile come se fosse nuda. Mi ritrovai a fissarla con gli occhi sgranati come un guardone. La luce brillava sullo splendore d'avorio della sua pelle e sotto il tessuto trasparente s'intuivano pieni e vuoti allettanti.
Distolsi a fatica gli occhi per tornare a letto. Pensando alla telefonata di Sherry provai una vaga inquietudine, ma ben presto il sonno mi sopraffece di nuovo. Al mattino la pioggia era cessata ma il terreno era fangoso e l'erba pesante e umida quando uscii a respirare una boccata d'aria fresca. Mi aspettavo di trovarmi a disagio con Sherry, dopo la confessione della sera prima, ma non fu così. A colazione parlammo senza problemi e poi lei disse: «Ho promesso di aiutarla; cosa posso fare?». «Risponda a qualche domanda.» «D'accordo, faccia pure.» Jimmy North era stato molto riservato, lei non sapeva che sarebbe andato a Saint Mary. Le aveva detto di avere un contratto per installare sott'acqua delle apparecchiature elettroniche alla diga di Cabora-Bassa, nel Mozambico portoghese. Lei l'aveva accompagnato all'aeroporto con tutta la sua attrezzatura. Per quanto ne sapeva viaggiava solo. La polizia era venuta al negozio di Brighton per informarla dell'omicidio. Lei aveva letto gli articoli sui giornali e questo era tutto. «Nessuna lettera da parte di Jimmy?» «No, niente.» Io annuii, la banda doveva aver intercettato la posta. La lettera che la falsa Sherry mi avevo mostrato era certamente autentica. «Non ci capisco niente. Le sembro stupida?» «No.» Tirai fuori un sigaro e l'avevo quasi acceso prima di fermarmi. «Le spiace se fumo uno di questi?» «No, non mi dà fastidio» rispose lei, e io ne fui lieto, perché sarebbe stato un inferno rinunciarci. Lo accesi e aspirai il fumo fragrante. «Sembra che Jimmy avesse messo le mani su qualcosa di grosso. Aveva bisogno di appoggio e si era rivolto alle persone sbagliate. Appena hanno creduto di sapere dove fosse, hanno ucciso lui e ci hanno provato con me. Quando questo non ha funzionato hanno mandato laggiù una donna, nei panni di Sherry North. Appena lei ha creduto di conoscere la posizione di quest'oggetto, mi ha teso una trappola ed è tornata a casa. La loro prossima mossa sarà di tornare nella zona al largo di Big Gull, dove li attende un'altra delusione.» Lei riempì di nuovo le tazze di caffè e io notai che si era truccata, ma in modo tanto leggero che le lentiggini si vedevano ancora. Ripresi in esame il giudizio della sera prima, concludendo che era una delle donne più belle che avessi mai visto, anche di prima mattina. Lei corrugò la fronte riflettendo, fissando la tazza di caffè, e io provai il desiderio di toccare una di quelle sue mani dall'aspetto forte, posata sulla tovaglia accanto alla mia. «Che cosa cercavano, Harry? E chi erano quelli che l'hanno ucciso?» chiese alla fine. «Due domande intelligenti. Ho degli indizi per tutt'e due... ma affrontiamo le domande nell'ordine in cui me le ha poste. Primo, che cosa cercava Jimmy? Quando sapremo questo potremo dare la caccia ai suoi assassini.» «Non ho nessuna idea di quello che potrebbe essere.» Alzò lo sguardo su di me. L'azzurro dei suoi occhi era più chiaro del giorno prima, era il colore di uno zaffiro purissimo. «Che indizi ha?» «La campana della nave. Il disegno che c'era sopra.» «Che cosa significa?» «Non lo so, ma non dovrebbe essere troppo difficile scoprirlo.» Non potevo più resistere alla tentazione. Misi la mano sopra la sua. Era salda e forte come sembrava e la pelle era calda. «Ma prima dovrei controllare il negozio di Brighton e la stanza di Jimmy qui. Potrebbe esserci qualcosa di utile.» Lei non aveva ritirato la mano. «D'accordo, allora andiamo prima al negozio? La polizia l'ha già perquisito, ma forse si è lasciata sfuggire qualcosa.» «Bene. Le offrirò il pranzo.» Le strinsi la mano e lei la girò e ricambiò la stretta. «La prendo in parola» ribatté, ma io ero troppo sbalordito dalla mia stessa reazione per trovare una risposta scherzosa. Avevo la gola
secca e il polso mi batteva come se avessi corso per un chilometro. Lei ritrasse con dolcezza la mano e si alzò. «Laviamo i piatti della colazione.» Se solo le ragazze di Saint Mary mi avessero visto asciugare i piatti, la mia reputazione sarebbe crollata in mille pezzi. Lei mi fece entrare nel negozio dall'ingresso posteriore, attraverso un minuscolo cortile stipato di oggetti eterogenei, tutti legati alle immersioni e al mondo subacqueo: bombole scartate, un compressore portatile, oblò di ottone e altri relitti di navi naufragate, perfino la mascella di un'orca marina con tutti i denti intatti. «Non ci vengo da tanto tempo» si scusò Sherry aprendo la porta. «Senza Jimmy...» Si strinse nelle spalle e poi riprese: «Devo proprio decidermi a vendere tutto questo ciarpame e a chiudere baracca. Potrei rivendere il contratto d'affitto, suppongo». «Do un'occhiata in giro, d'accordo?» «Bene, io metto sul fuoco il bollitore.» Cominciai dal cortile, frugando in fretta ma con metodo fra le pile di rottami. Non c'era niente che avesse significato, per quanto potevo vedere. Entrai nel negozio e curiosai fra le conchiglie marine e i denti di squalo sugli scaffali e nella vetrina. Alla fine vidi una scrivania nell'angolo e cominciai a rovistare nei cassetti. Sherry mi portò una tazza di tè e si sistemò sull'angolo della scrivania mentre io ammucchiavo sul ripiano vecchie fatture, elastici e graffette. Lessi fino all'ultimo pezzo di carta e scorsi perfino il prontuario dei conti fatti. «Niente?» chiese Sherry. «Niente» risposi, e guardai l'orologio. «Ora di pranzo» annunciai. Lei chiuse il negozio e la fortuna ci assistette nella scelta del ristorante. Fummo destinati a un tavolo appartato nella sala interna e io ordinai una bottiglia di Pouilly Fuissé intonata all'aragosta. Una volta che mi fui ripreso dallo choc del prezzo ridemmo parecchio, e non fu solo colpa del vino. L'attrazione reciproca era forte, e cresceva sempre più. Dopo pranzo tornammo a Seaview e salimmo in camera di Jimmy. «Questa è la nostra migliore opportunità» ragionai. «Se aveva dei segreti, è qui che doveva tenerli.» Ma sapevo che mi aspettava un lungo lavoro. C'erano centinaia di libri e pile di riviste, per lo più «American Argosy», «Trident», «The Diver» e altre pubblicazioni per subacquei. Ai piedi del letto c'era anche uno scaffale intero di fascicoli a molla. «Lascio fare a te» disse Sherry uscendo. Io tirai giù il contenuto di uno scaffale, mi sedetti allo scrittoio e cominciai a sfogliare le pubblicazioni. Vidi subito che era un compito ancor più gravoso di quanto avessi pensato. Jimmy era stato uno di quei tipi che leggono con una matita in mano. C'erano note scritte nei margini, commenti, punti interrogativi ed esclamativi, e tutto quel che gli interessava era sottolineato. Verso le otto attaccai lo scaffale che conteneva i fascicoli. I primi due erano pieni di ritagli di giornale su naufragi o altri fenomeni marini. Il terzo aveva una copertina di similpelle nera senza etichetta. Conteneva un fascio sottile di carte e vidi subito che erano fuori dell'ordinario. Era una serie di lettere, archiviate con le buste e i francobolli ancora attaccati. Erano in tutto sedici, indirizzate ai signori Parker e Wilton, di Fenchurch Street. Ogni lettera era di una mano differente, ma erano scritte tutte nella calligrafia elegante del secolo scorso. Le buste provenivano da parti diverse dell'antico impero, Canada, Sud Africa, India, e i francobolli del diciannovesimo secolo dovevano valere da soli una fortuna. Dopo che ebbi letto le prime due lettere, fu chiaro che i signori Parker e Wilton erano stati agenti e commissionari e avevano agito per conto di numerosi clienti illustri al servizio della regina Vittoria. Le lettere contenevano istruzioni relative a proprietà, denaro e titoli. Tutte le lettere erano datate fra l'agosto 1857 e il luglio 1858 e dovevano essere state offerte da un antiquario o da un banditore
all'incanto in un lotto unico. Le scorsi in fretta: il contenuto era davvero molto noioso, eppure qualcosa nell'unica pagina della decima lettera attirò la mia attenzione e mi sentii tendere i nervi. Due parole erano state sottolineate a matita e in margine c'era una nota nella scrittura di Jimmy North. "B. Mus. E.6914(8)". Ma erano state le parole in sé a colpirmi. "Dawn Light", la luce dell'alba. Avevo già sentito quelle parole. Non sapevo con certezza quando, ma erano significative. Cominciai subito a leggere dall'inizio. L'indirizzo del mittente era un laconico "Bombay", ed era datata 18 settembre 1857. "Caro Wilton, vi affido con la massima premura l'incarico di sorvegliare e custodire in luogo sicuro cinque colli recapitati a mio nome presso il vostro indirizzo di Londra a mezzo della nave della Compagnia 'Dawn Light', che salperà da questo porto prima del 25 corrente, diretta al molo della Compagnia del porto di Londra. Vi prego di accusare ricevuta degli stessi con la massima sollecitudine. In fede Colonnello Sir Roger Goodchild Ufficiale comandante Centounesimo Reggimento Fucilieri della Regina. Recapito per gentile concessione del capitano comandante della fregata di Sua Maestà 'Panther'." La carta frusciò e io mi accorsi che le mani mi tremavano per l'eccitazione. Sapevo che c'eravamo. Questa era la chiave. Stesi con cura la lettera sul tavolino e ci posai sopra un tagliacarte d'argento per fermarla. Cominciai a rileggerla lentamente, ma qualcosa mi distrasse. Sentii il motore di un'automobile che scendeva il vialetto dal cancello. I fari illuminarono la finestra poi girarono l'angolo della casa. Mi raddrizzai, in ascolto. Il motore si spense e le portiere si chiusero con un colpo secco. Seguì un lungo silenzio, poi un mormorio di voci... voci maschili. Cominciai ad alzarmi dal tavolo. Poi Sherry urlò. Il grido risuonò chiaro nella vecchia casa, trafiggendomi il cervello come una lancia. Ridestò in me un istinto di protezione così forte che scesi le scale ed entrai nell'atrio prima ancora di rendermene conto. La porta della cucina era aperta e mi fermai sulla soglia. C'erano due uomini con Sherry. Il più massiccio e anziano dei due portava un soprabito di cammello beige e un berretto di tweed. Aveva un viso grigiastro, segnato da rughe profonde, e gli occhi infossati. Le labbra erano sottili ed esangui. Aveva piegato la mano sinistra di Sherry in su, fra le scapole, e la teneva schiacciata contro il muro vicino al fornello a gas. L'altro era più giovane, magro e pallido, a capo scoperto, con lunghi capelli biondo grano che ricadevano sulle spalle della giacca di cuoio. Sorrideva felice, tenendo l'altra mano di Sherry sulle fiamme azzurre del fornello e abbassandola pian piano. Lei si dibatteva disperatamente, ma la tenevano ben stretta. «Piano, ragazzo.» L'uomo col berretto parlava con una voce roca e strozzata. «Lasciale il tempo di pensarci.» Sherry gridò di nuovo mentre le sue dita venivano spinte senza pietà in basso, verso le fiamme azzurre che sibilavano. «Fa' pure, tesoro, strilla quanto ti pare» rise il biondo. «Non c'è nessuno a sentirti.» «Tranne me» dissi io, e loro si voltarono a guardarmi, con un'espressione di comico stupore. «Chi diavolo...» chiese il biondo, lasciando il braccio di Sherry e portando in fretta le mano alla tasca posteriore.
Lo colpii due volte, di sinistro al corpo e di destro alla testa e anche se nessuno dei due colpi mi soddisfece in pieno... non avevo sentito la giusta compattezza nell'impatto... l'uomo crollò, piombando di peso su una sedia e abbattendosi contro la dispensa. Non avevo altro tempo per lui e mi dedicai a quello col berretto. Si faceva ancora scudo di Sherry e mentre scattavo in avanti me la lanciò addosso. Mi colse sbilanciato e fui costretto ad afferrarla per evitare di cadere con lei. L'uomo si voltò e schizzò fuori dalla porta alle sue spalle. Mi ci volle qualche secondo per districarmi da Sherry e attraversare la cucina. Quando irruppi nel cortile lui era già a metà strada da una vecchia Triumph sportiva e si voltò a guardare indietro. Mi pareva di seguire il suo ragionamento; Non sarebbe riuscito a salire in macchina e a girarla col muso verso il sentiero prima che lo raggiungessi. Deviò a sinistra e scattò verso l'imbocco scuro del vialetto, con le falde del cappotto che gli svolazzavano dietro. Lo seguii. Il terreno di argilla era viscido e lui arrancava a fatica. Scivolò rischiando di cadere e gli fui subito addosso, tirandomi indietro in fretta appena si girò e sentii lo scatto del coltello e vidi lampeggiare la lama mentre si apriva. Si abbassò sulle ginocchia con il coltello proteso e io gli corsi incontro senza esitare. Questa non se l'aspettava, il balenio dell'acciaio paralizza la maggior parte degli uomini. Mirò al ventre, un colpo basso, insidioso, ma gli tremavano le mani ed era senza fiato: il colpo mancò di nerbo. Io gli bloccai il polso e nello stesso tempo colpii il punto nevralgico sull'avambraccio. Il coltello gli scivolò di mano e io gli fui sopra. Cadde pesantemente sulla schiena e anche se il fango aveva attutito l'impatto io gli piantai un ginocchio nella pancia. Dietro c'erano novantacinque chili di peso e l'aria gli uscì dai polmoni con un sibilo sonoro. Si rannicchiò come un feto, ansimando per riprendere fiato, e io lo girai bocconi. Il berretto gli cadde dalla testa e scoprii che aveva una folta chioma di capelli scuri striati da ciocche d'argento. Ne afferrai un bel ciuffo, mi sedetti sulle sue spalle e gli schiacciai il viso nel fango giallo. «Non mi piacciono i bulletti che maltrattano le ragazze» gli dissi senza scaldarmi, ma dietro di me ruggì il motore della Triumph. I fari lampeggiarono e poi ruotarono in un ampio arco prima di puntare direttamente su per il sentiero stretto. Sapevo di non aver tramortito a dovere il biondo, era stato un lavoro frettoloso e abborracciato. Lasciai l'uomo nel fango e tornai indietro di corsa per il vialetto. Le ruote della Triumph girarono a vuoto sul pavimento lastricato del cortile e l'auto con i fari abbaglianti puntati contro di me, balzò avanti, slittando e sbandando nel lasciare l'acciottolato per affrontare il sentiero fangoso. Il conducente assecondò la sbandata e mi venne addosso. Io mi appiattii e rotolai nella melma fredda di un canale di scarico scoperto che incanalava l'acqua di scolo attraverso la siepe. La Triumph urtò di striscio con la fiancata e l'alta siepe la fece deviare leggermente dalla sua traiettoria. Le ruote dal lato più vicino girarono con violenza sull'orlo della cimosa di pietra del canale, a pochi centimetri dal mio viso, e mi cadde addosso una pioggia di ramoscelli. Poi l'auto passò oltre. Rallentò all'altezza dell'uomo col cappotto di cammello infangato. Lui era inginocchiato sull'orlo della strada e si issò sul sedile della Triumph. Proprio mentre io strisciavo fuori dal canale per raggiungere di corsa l'auto sportiva, questa ripartì di nuovo, schizzando fango dalle ruote posteriori. La rincorsi, ma acquistò velocità e scattò su per il pendio. Rinunciai, mi girai e tornai indietro di corsa, cercando le chiavi della Chrysler nelle tasche dei pantaloni fradici, e mi accorsi di averle lasciate sul tavolo in camera di Jimmy. Sherry era appoggiata allo stipite della porta aperta della cucina. Si stringeva al petto la mano ustionata e aveva i capelli in disordine. La manica del maglione, strappata, pendeva dalla spalla. «Non sono riuscita a fermarlo, Harry» ansimò. «Ci ho provato.» «Come va?» le chiesi, rinunciando a ogni idea di inseguire l'auto
sportiva quando vidi la sua sofferenza. «Leggermente ustionata.» «Ti porto da un medico.» «No, non ce n'è bisogno» ma il suo sorriso era contratto dal dolore. Salii in camera di Jimmy e dal mio assortimento di medicinali da viaggio presi un Doloxene per il dolore e un Mogadon per farla dormire. «Non mi servono» protestò lei. «Devo tapparti il naso e costringerti a inghiottirli?» le chiesi, e lei sorrise, scosse la testa e li mandò giù. «Dovresti fare un bagno» mi disse. «Sei zuppo» e io mi accorsi a un tratto di essere fradicio e infreddolito. Quando tornai in cucina, riscaldato dal bagno, lei era già intontita dalle pillole, ma aveva preparato il caffè, correggendolo con un bicchierino di whisky. Lo bevemmo seduti uno di fronte all'altra. «Che cosa volevano?» chiesi. «Che cosa ti hanno detto?» «Credevano che sapessi perché Jimmy era andato a Saint Mary. Volevano saperlo.» Riflettei. Qualcosa non quadrava e la cosa m'impensierì. «Credo...» la voce di Sherry era incerta e lei barcollò leggermente quando tentò di alzarsi. «Ehi, che cosa mi hai dato?» La presi in braccio e lei protestò debolmente, ma la portai in camera sua. Era tutta di cinz, con la carta da parati decorata a rose. La distesi sul letto, le tolsi le scarpe e la coprii con la trapunta. Sospirò e chiuse gli occhi. «Penso che ti terrò vicino» mormorò. «Sei molto utile.» Così incoraggiato, mi sedetti sull'orlo del letto e la cullai, lisciandole i capelli sulle tempie e accarezzandole la fronte; la sua pelle sembrava velluto caldo. Si addormentò in un attimo. Spensi la luce e stavo per uscire, quando ci ripensai. Mi sfilai le scarpe e scivolai sotto la trapunta. Nel sonno lei si girò con molta naturalezza finendo fra le mie braccia e io la tenni stretta. Era una sensazione piacevole e ben presto mi addormentai anch'io. Mi svegliai all'alba. Sherry aveva il viso schiacciato contro il mio collo, una gamba e un braccio sopra di me, e i suoi capelli morbidi mi facevano il solletico alla guancia. Senza svegliarla mi liberai, la baciai sulla fronte, raccolsi le scarpe e tornai in camera mia. Era la prima volta che passavo una notte intera con una bella donna fra le braccia senza far altro che dormire. Mi sentii orgoglioso della mia virtù. La lettera era rimasta sullo scrittoio della stanza di Jimmy, dove l'avevo lasciata, e prima di andare in bagno la rilessi tutta. La nota a matita in margine, "B. Mus. E.6914(8)", mi lasciava perplesso e mi ci arrovellai mentre mi radevo. La pioggia era cessata e le nuvole si stavano diradando, quando scesi in cortile per esaminare il teatro dello scontro della notte prima. Il coltello giaceva nel fango e lo raccolsi, lanciandolo oltre la siepe. Entrai in cucina, battendo i piedi e sfregandomi le mani per il freddo. Sherry aveva cominciato a preparare la colazione. «Come va la mano?» «Fa male» ammise. «Troveremo un dottore sulla via di Londra.» «Cosa ti fa pensare che andrò a Londra?» chiese lei con prudenza, mentre imburrava il pane tostato. «Due cose. Non puoi restare qui. Il branco di lupi tornerà.» Alzò subito gli occhi ma restò in silenzio. «L'altra è che hai promesso di aiutarmi... e la pista porta a Londra.» Lei non ne era convinta, perciò mentre mangiavamo le mostrai la lettera che avevo trovato nel fascicolo di Jimmy. «Non vedo il nesso» disse lei alla fine, e io ammisi con franchezza: «Non è chiaro neanche per me». Parlando accesi il primo sigaro della giornata e l'effetto fu quasi magico. «Ma appena ho visto le parole "Dawn Light" qualcosa è scattato...» mi interruppi. «Mio Dio» ansimai. «Ci sono. La "Dawn Light"!» Ricordai i frammenti di conversazione
portati sul ponte del "Wave Dancer" dal condotto di ventilazione della cabina. "Per avere la luce dell'alba allora dovremo...", la voce di Jimmy, chiara e tesa per l'aspettativa. "Se la luce dell'alba è dove..." Allora quelle parole ripetute mi avevano lasciato perplesso. Mi erano rimaste nella memoria come una lisca di pesce in gola. Cominciai a spiegarlo a Sherry, ma ero così eccitato che mi sgorgò di bocca un fiotto confuso di parole. Lei rise, avvertendo la mia eccitazione, ma senza capire le spiegazioni. «Ehi!» protestò. «Cosa stai dicendo?» Ricominciai, ma arrivato a metà mi fermai per fissarla in silenzio. «E ora che c'è?» Era mezzo divertita, mezzo esasperata. «Questa storia sta facendo impazzire anche me.» Io presi la forchetta. «La campana. Ti ricordi la campana di cui ti ho parlato? Quella che Jimmy ha tirato su a Gunfire Reef?» «Sì, certo.» «Ti ho detto che aveva sopra delle lettere, corrose per metà dalla sabbia.» «Si, va' avanti.» Graffiai con la forchetta il burro, usandolo come lavagna. «VVN L...» Tracciai le lettere che erano state incise nel bronzo. «Era così» dissi. «Allora non significava niente, ma ora...» Completai in fretta le lettere: "DAWN LIGHT". E lei le fissò, annuendo lentamente, mentre il quadro cominciava a prendere forma. «Dobbiamo scoprire qualcosa su questa nave, la "Dawn Light".» «Come?» «Dovrebbe essere facile. Sappiamo che era della Compagnia delle Indie, devono esserci delle registrazioni, ai Lloyd's o al ministero del Commercio.» Lei mi prese di mano la lettera e la rilesse. «Probabilmente il bagaglio del prode colonnello conteneva calze sporche e vecchie camicie.» Fece una smorfia e me la restituì. «Sono a corto di calze» replicai. Sherry preparò una valigia e fui lieto di notare che aveva la rara virtù di saper viaggiare leggera. Scese a parlare con il fittavolo mentre io caricavo i bagagli sulla Chrysler. Lui avrebbe tenuto d'occhio la casa durante la sua assenza, e lei tornando indietro si limitò a chiudere a chiave la porta di cucina e salì in macchina al mio fianco. «Buffo» osservò. «Sembra l'inizio di un lungo viaggio.» «Ho i miei piani» l'avvertii, guardandola con malizia. «Una volta ho pensato che avevi un'aria sana» disse lei in tono afflitto «ma quando fai così...» «Sexy, vero?» ammisi, e guidai la Chrysler su per il vialetto. Trovai un dottore a Haywards Heath. Ormai la mano di Sherry si era coperta di brutte vesciche, grosse bolle biancastre che le pendevano dalle dita come chicchi d'uva bianca. Lui le svuotò e bendò di nuovo la mano. «Ora fa più male» mormorò lei mentre proseguivamo verso nord e rimase pallida e silenziosa per il dolore. Io rispettai il suo silenzio finché non arrivammo ai sobborghi della città. «Dovremmo trovare un posto dove stare» suggerii. «Qualcosa di comodo e di centrale.» Lei mi guardò con aria interrogativa. «Probabilmente sarebbe molto più comodo ed economico se prendessimo una camera matrimoniale da qualche parte, non è vero?» Io sentii qualcosa agitarmisi dentro, qualcosa di caldo ed eccitante. «Strano che l'abbia detto tu, stavo proprio per suggerire la stessa cosa.» «Lo so» rise, per la prima volta da due ore. «Ti ho risparmiato il disturbo.» Scosse la testa, sempre ridendo. «Io starò da mio zio. Ha una camera libera nel suo appartamento a Pimlico e dietro l'angolo c'è un piccolo pub. E' simpatico e pulito... potresti trovare di peggio.» «Il tuo senso dell'umorismo mi fa impazzire» borbottai.
Telefonò allo zio da una cabina, mentre io aspettavo in auto. «Tutto a posto» mi disse salendo in macchina. «E' in casa.» Era un appartamento al pianterreno di una strada tranquilla vicino al fiume. Portai la valigia di Sherry mentre lei mi faceva strada, e suonai il campanello. L'uomo che aprì la porta era piccolo e snello. Era sulla sessantina e indossava un cardigan grigio con le toppe ai gomiti. Ai piedi aveva delle pantofole di feltro. L'abbigliamento casalingo era piuttosto incongruo, perché i suoi capelli grigio ferro erano rigorosamente tagliati a spazzola come i baffetti rigidi. Aveva la pelle chiara e rosea, ma fu il fiero scintillio da predatore dell'occhio e il portamento militare delle spalle che mi misero in guardia. Questo era un tipo sveglio. «Mio zio, Dan Wheeler.» Sherry si fece da parte per presentarci. «Zio Dan, questo è Harry Fletcher.» «Il giovanotto di cui mi parlavi» annuì lui brusco. La sua mano era ossuta e asciutta e il suo sguardo pungeva come l'ortica. «Entra. Entrate tutti e due.» «Non voglio disturbarla, signore...» Mi riuscì del tutto naturale chiamarlo così, un'eco del mio addestramento militare di tanto tempo prima. «Devo trovarmi anch'io una camera.» Zio Dan e Sherry si scambiarono un'occhiata e mi parve che lei scuotesse la testa in modo quasi impercettibile, ma la mia attenzione era rivolta più in là, all'appartamento. Era monastico e rigorosamente mascolino, e pareva confermare il mio primo giudizio dell'uomo. Volevo avere a che fare con lui il meno possibile, ma d'altra parte continuare a vedere Sherry il più possibile. «Verrò a prenderti fra un'ora per il pranzo, Sherry» e quando lei accettò li lasciai e tornai alla Chrysler. Il pub che Sherry mi aveva raccomandato era il Windsor Arms e quando accennai al nome dello zio, come lei mi aveva suggerito, mi sistemarono in una stanza tranquilla sul retro, con una bella vista sul cielo e sulle antenne della televisione. Mi distesi vestito sul letto e mentre aspettavo che passasse l'ora riflettei sulla famiglia North e sui suoi parenti. Di una cosa sola ero certo... che Sherry North numero 2 non mi sarebbe passata accanto come una meteora nella notte. Ero intenzionato a starle incollato, eppure c'erano molti aspetti che ancora mi lasciavano confuso. Sospettai che fosse una persona più complicata di quanto suggerisse il suo bel viso sereno. Sarebbe stato interessante scoprirlo. Misi da parte l'idea, mi sedetti e allungai la mano verso il telefono. Nei venti minuti che seguirono feci tre telefonate. Una al Lloyd's Register of Shipping, in Fenchurch Street, un'altra al National Maritime Museum a Greenwich e l'ultima all'India Office Library in Blackfriars Road. Lasciai la Chrysler nel parcheggio privato dietro al pub - a Londra un'auto dà più fastidi che altro - e tornai a casa dello zio. Aprì la porta Sherry, già pronta per uscire. Mi piaceva questo in lei, era puntuale. «Zio Dan non ti è simpatico, vero?» mi sfidò a tavola, e io cambiai prudentemente discorso. «Ho fatto qualche telefonata. Il posto che stiamo cercando è in Blackfriars Road. E' a Westminster. L'India Office Library. Ci andremo dopo mangiato.» «E' davvero molto caro quando si arriva a conoscerlo.» «Senti, ragazza mia, è tuo zio. Tientelo.» «Ma perché, Harry? M'interessa.» «Che cosa fa per vivere... esercito, marina?» Mi fissò. «Come hai fatto a capirlo?» «Li riconosco al volo.» «E' dell'esercito, ma è in pensione... che importanza ha?» «Che cosa vuoi provare?» Le agitai sotto il naso il menù. «Se prendi il roast-beef, io proverò l'anitra» e lei abboccò all'esca, concentrandosi sul cibo. Gli India Office Archives erano ospitati in uno di quei moderni edifici squadrati di vetro verdastro e pannelli d'acciaio blu aviazione. Sherry e io ci armammo di lasciapassare e firmammo il registro. Prima ci dirigemmo alla sala del catalogo e di lì alla sezione marina degli
archivi. Questi erano presidiati da una signora dal viso severo, con i capelli sale e pepe e gli occhiali cerchiati d'acciaio. Le porsi un modulo di richiesta per il dossier che doveva contenere il materiale sulla nave "Dawn Light", della Compagnia delle Indie, e lei sparì tra file di scaffali d'acciaio alti fino al soffitto. Passarono venti minuti prima che tornasse, posando davanti a me, sul banco un voluminoso dossier. «Deve firmare qui» mi disse, indicando una colonna sulla cartella di cartone rigido. «Strano!» osservò. «Lei è il secondo che richiede questo fascicolo in meno di un anno.» Fissai la firma di J.A. North nell'ultima casella. Seguivamo da vicino le orme di Jimmy, pensai, firmando RICHARD SMITH sotto il suo nome. «Potete usare una delle scrivanie laggiù.» Ci indicò l'altro lato della stanza. «E cercate di tenere in ordine il fascicolo, se vi è possibile.» Sherry ed io ci sedemmo alla scrivania spalla a spalla e io sciolsi il nastro che teneva insieme il fascicolo. La "Dawn Light" era del tipo noto come fregata Blackwell, tipico prodotto dei cantieri Blackwell dell'inizio del diciannovesimo secolo. Il tipo era molto simile alle fregate della marina militare dell'epoca. Era stata costruita a Sunderland per l'onorevole Compagnia Inglese delle Indie Orientali e aveva una stazza di milletrecento tonnellate. Alla linea di galleggiamento misurava sessantotto metri, con un fianco di sette metri e novanta. Un fianco così stretto l'avrebbe resa molto veloce ma piuttosto scomoda col mare grosso. Era stata varata nel 1832, proprio un anno prima che la Compagnia perdesse il monopolio sulla Cina, e questo colpo di sfortuna pareva che avesse pesato su tutta la sua carriera. Nello stesso fascicolo era conservata un'intera serie di rapporti sui procedimenti di varie commissioni d'inchiesta. Il suo primo comandante, che si gloriava del nome di Hogge, durante il viaggio inaugurale aveva mandato la "Dawn Light" in secca nel Diamond Harbour, sul fiume Hooghly. La corte aveva accertato che era in preda agli effetti dell'alcool e l'aveva privato del comando. La sequela di disgrazie era continuata. Nel 1840, durante la traversata dell'Atlantico meridionale, il secondo l'aveva lasciata accostare mentre era di guardia, e gli alberi erano partiti. Mentre rollava alla deriva, trascinandosi dietro le sovrastrutture che erano ricadute di lato, era stata avvistata da un olandese. I rottami erano stati asportati e la nave rimorchiata nella Baia della Tavola. La commissione di recupero aveva versato una ricompensa di dodicimila sterline. Nel 1846, mezzo equipaggio, sceso a terra sulla costa selvaggia della Nuova Guinea, era stato catturato dai cannibali e massacrato. Erano morti in sessantatré. Poi, il 23 settembre del 1857, la nave era salpata da Bombay, diretta a Saint Mary, Capo di Buona Speranza, Sant'Elena e il porto di Londra. «La data.» Puntai il dito sulla riga. «Questo è il viaggio di cui parla Goodchild nella lettera.» Sherry annuì senza rispondere. Negli ultimi minuti avevo scoperto che leggeva più in fretta di me. Dovevo impedirle di voltare pagina quando io ero arrivato appena a tre quarti. Ora i suoi occhi saettavano da una riga all'altra, lei aveva il colorito acceso e si mordeva il labbro inferiore. «Avanti» mi sollecitò. «Sbrigati!» e io dovetti trattenerle il polso. La "Dawn Light" non aveva mai raggiunto Saint Mary... era scomparsa. Tre mesi dopo era stata considerata dispersa in mare con tutti i membri dell'equipaggio e i Lloyd's avevano impartito agli assicuratori l'ordine di onorare le polizze di proprietari e spedizionieri. Il manifesto di carico era imponente per una nave tanto piccola, perché trasportava dalla Cina all'India un carico che consisteva di: 364 CASSE Dl TE', 494 MEZZE CASSE DI TE'; 72 tonnellate per conto, Signori Dunbar e Green; 101 CASSE DI TE', 618 MEZZE CASSE DI TE'; 65 tonnellate per conto, Signori Simpson, Wyllie & Livingstone;
577 BALLE DI SETA; 82 tonnellate per conto, Signori Elder & C.; 5 CASSE DI MERCE; 4 tonnellate per conto, Col. Sir Roger Goodchild; 16 CASSE DI MERCE; 6 tonnellate per conto, Maggiore John Cotton; 10 CASSE DI MERCE; 2 tonnellate per conto, Lord Elton; 26 SCATOLE SPEZIE VARIE; 2 tonnellate per conto, Signori Paulson & C. Senza parole puntai l'indice sulla quarta voce della lista e Sherry annuì di nuovo, con gli occhi lucenti come zaffiri. La richiesta di risarcimento era stata accolta e la faccenda sembrava chiusa allorché, nell'aprile del 1858, quattro mesi dopo, era arrivata in Inghilterra la "Walmer Castle", della Compagnia delle Indie, portando a bordo i superstiti dalla "Dawn Light". Erano sei. L'ufficiale in seconda, Andrew Barlow, un nostromo e tre gabbieri. C'era anche una giovane donna di ventidue anni, Charlotte Cotton, una passeggera che tornava in patria con il padre, un maggiore del Quarantesimo Fanteria. Il secondo, Andrew Barlow, aveva prestato testimonianza alla commissione d'inchiesta e sotto la narrazione scarna, le domande ampollose e le risposte prudenti si celava una vicenda eccitante e romantica, un'epopea di naufragio e di sopravvivenza. Leggendo mi accorsi che i pochi elementi che avevo raccolto si adattavano perfettamente alla storia. Due settimane dopo la partenza da Bombay, la "Dawn Light" era stata investita da una furiosa tempesta proveniente da sud-est. Per sette giorni la violenza del fortunale aveva infuriato senza tregua, incalzando la nave. Potevo immaginarmelo chiaramente, uno di quei violenti cicloni che avevano divelto il tetto del mio bungalow a Turtle Bay. Ancora una volta la "Dawn Light" era stata disalberata: erano rimasti in piedi l'albero di trinchetto, l'albero di mezzana e il bompresso. Il resto era stato spazzato via dalla tempesta e data la mole delle onde non era stato possibile innalzare un albero di maestra di fortuna o issare pennoni. Così, quando si era avvistata terra sottovento, la nave non aveva avuto nessuna possibilità di sfuggire al suo destino. Una congiura di vento e di correnti l'aveva scagliata nella gola di una barriera a imbuto sulla quale l'impeto della tempesta si abbatteva come un tuono. La nave si era incagliata e Andrew Barlow, con l'aiuto di dodici membri dell'equipaggio, era riuscito a calare in mare una scialuppa. Quattro passeggeri, compresa Miss Charlotte Cotton, avevano lasciato la nave danneggiata e Barlow, con un'insolita combinazione di buona fortuna e abilità marinaresca, era riuscito a trovare un passaggio tra il mare infuriato e i coralli micidiali fino alle acque più tranquille della spiaggia. Finalmente avevano spinto la scialuppa a riva, sulla spiaggia cosparsa di detriti di un'isola. Qui i sopravvissuti si erano stretti l'uno all'altro per quattro giorni, mentre il ciclone esauriva la sua forza. Barlow era salito da solo sulla sommità del più meridionale dei tre picchi dell'isola. La descrizione era perfettamente chiara. Si trattava dei Tre Vecchi e di Gunfire Reef. Su questo non c'era dubbio. Era così, dunque, che Jimmy North aveva saputo che cosa cercare... l'isola con tre vette e una barriera di corallo. Barlow aveva rilevato le coordinate dello scafo danneggiato della "Dawn Light" mentre giaceva tra le mascelle di corallo, spazzata dalle onde incalzanti. Il secondo giorno lo scafo della nave aveva cominciato a cedere e mentre Barlow osservava dalla vetta la parte prodiera era stata trascinata oltre la barriera, scomparendo in un baratro cupo fra i coralli. La poppa era ricaduta in mare ed era stata ridotta in schegge. Quando alla fine il cielo si era schiarito e il vento era caduto, Andrew Barlow aveva scoperto che i suoi compagni erano gli unici sopravvissuti di un gruppo di centoquaranta anime. Gli altri erano periti nel mare in tempesta. A ovest, bassa sull'orizzonte, aveva avvistato una massa di terra che sperava fosse il continente africano. Aveva imbarcato di nuovo i suoi compagni sulla scialuppa e avevano attraversato il canale interno. Le sue speranze si erano avverate, era l'Africa, ma come sempre ostile e
crudele. I diciassette naufraghi avevano iniziato un lungo e pericoloso viaggio verso sud e tre mesi dopo solo Barlow, quattro marinai e Charlotte Cotton avevano raggiunto il porto di Zanzibar. La malaria, gli animali selvaggi e la sfortuna li avevano decimati... e anche i sopravvissuti erano ridotti dalla fame a scheletri viventi, gialli di febbre e tormentati dalla dissenteria per l'acqua infetta. La commissione d'inchiesta aveva lodato Andrew Barlow e la Compagnia gli aveva assegnato una ricompensa di cinquecento sterline per meriti di servizio. Quando finii di leggere alzai gli occhi su Sherry. Mi stava osservando. «Accidenti!» esclamò, e anch'io mi sentii sopraffatto dalla portata dell'antico dramma. «Tutto combacia, Sherry» le dissi. «E' tutto lì.» «Sì» riconobbe lei. «Dobbiamo vedere se qui hanno i disegni.» La Sala Stampe e Disegni era al terzo piano e una rapida ricerca condotta da un'austera assistente rivelò subito la "Dawn Light" in tutto il suo splendore. Era un tre alberi aggraziato, dalla lunga linea bassa. Non aveva né vela quadra né vela di mezzana. Inalberava invece una grossa randa e una serie completa di coltellacci. Il lungo cassero di poppa forniva lo spazio per parecchie cabine passeggeri e le scialuppe erano disposte in cima alla cabina di coperta a poppa. Era ben armata, con tredici portelli per parte verniciati di nero da cui poteva puntare il lungo cannone da diciotto libbre per difendersi, nei mari ostili a est del Capo di Buona Speranza oltre il quale faceva la spola fra Cina e India. «Ho bisogno di bere qualcosa» dissi, raccogliendo i disegni della "Dawn Light". «Ne farò fare delle copie.» «A che scopo?» volle sapere Sherry. L'assistente emerse dalla sua tana fra le pile di vecchie stampe e di fronte alla mia richiesta di fotocopie si succhiò le guance. «Le costeranno settantacinque pence» tentò di scoraggiarmi. «E' un prezzo ragionevole» ribattei. «E non saranno pronte prima della settimana prossima» aggiunse inesorabile. «Oh povero me» esclamai, dedicandole il mio sorriso speciale. «Ne avevo proprio bisogno per domani pomeriggio.» Il sorriso la smontò: perse l'aria risoluta e tentò di ficcare le ciocche di capelli in disordine sotto le stanghette degli occhiali. «Be', vedrò cosa posso fare» concesse. «E' molto gentile da parte sua, davvero gentile» e la lasciammo piuttosto perplessa, ma compiaciuta. Il senso dell'orientamento mi stava tornando e trovai senza difficoltà la strada di El Vino's. Il fiume serale di giornalisti che scorreva da Fleet Street non l'aveva ancora invaso e trovammo un tavolo in fondo. Ordinai due vermut e levammo i bicchieri in un brindisi. «Sai, Harry, Jimmy aveva centinaia di progetti. Tutta la sua vita era una gigantesca caccia al tesoro. Ogni settimana o quasi annunciava di aver scoperto la posizione di una nave, del tesoro dell'Armada o di una città azteca sprofondata o di un relitto di bucanieri...» Si strinse nelle spalle. «Ho sviluppato una profonda diffidenza nei confronti di storie simili. Ma questa...» Sorseggiò il vino. «Ricapitoliamo gli elementi in nostro possesso» suggerii. «Sappiamo che Goodchild ci teneva molto che il suo agente ricevesse cinque colli e li tenesse in custodia al sicuro. Sappiamo che doveva spedirli a bordo della "Dawn Light" e ne aveva mandato preavviso, probabilmente tramite un amico personale, il comandante della fregata Panther.» «Giusto» riconobbe lei. «Sappiamo che quelle casse erano elencate sul manifesto di carico della nave. Che la nave andò perduta, presumibilmente con le casse ancora a bordo. Conosciamo l'esatta posizione del relitto. Ne abbiamo avuto la conferma dalla campana della nave.» «Ancora giusto.» «Solo che non sappiamo cosa contenevano quelle casse.»
«Calze sporche» insistette lei. «Quattro tonnellate di calze sporche?» chiesi io, e la sua espressione cambiò. Il peso del carico non le aveva detto niente. «Ah» le dissi sorridendo «ti era sfuggito. Lo pensavo. Leggevi così in fretta che afferravi solo la metà.» Mi fece una smorfia. «Quattro tonnellate, mia cara, è un bel po' di roba, qualunque cosa sia.» «D'accordo» convenne lei. «Le cifre non significano molto per me, lo ammetto. Ma mi sembra parecchio.» «Lo stesso peso di una Rolls Royce, tanto per dirlo in termini comprensibili» e i suoi occhi si dilatarono, diventando di un azzurro più cupo. «E' molto.» «E' chiaro che Jimmy sapeva che cosa fosse e aveva prove sufficienti a convincere dei finanziatori molto coriacei. L'hanno preso sul serio.» «Tanto sul serio da...» e s'interruppe. Per un attimo vidi nei suoi occhi l'antica pena per la morte di Jimmy. Ne fui imbarazzato e distolsi lo sguardo, fingendomi impegnato a estrarre la lettera dalla tasca interna. La spiegai con cura sul tavolo fra noi. Quando guardai Sherry, lei si era ricomposta. La nota scritta a matita in margine attirò di nuovo la mia attenzione. «"B. Mus. sei nove uno quattro otto"» lessi ad alta voce. «Nessuna idea?» «"Bachelor of Music".» «Oh, questa è bella.» «Prova a far di meglio» mi sfidò, e io ripiegai dignitosamente la lettera e ordinai di nuovo da bere. «Bene, con quell'indizio siamo andati molto avanti» osservai dopo aver pagato il cameriere. «Sappiamo di che cosa si trattava. Ora possiamo seguire l'altra pista.» Lei si protese in avanti e m'incoraggiò senza parlare. «Ti ho raccontato della tua omonima, la bionda Sherry North?» Lei annuì. «La sera prima di lasciare l'isola mandò un telegramma a Londra.» Tirai fuori dal portafoglio la velina e la tesi a Sherry. Mentre la leggeva, ripresi: «Questo era chiaramente un messaggio per il suo principale, Manson. Dev'essere lui il cervello della faccenda. Ora voglio cominciare a muovermi in questa direzione». Finii il mio vermut. «Ti riporterò dal tuo marziale zio e mi farò vivo domani.» Le sue labbra si contrassero in una linea cocciuta che non avevo mai visto prima e nei suoi occhi brillò un balenio simile al blu del metallo di una pistola. «Harry Fletcher, se pensi di piantarmi in asso proprio quando le acque cominciano ad agitarsi, devi aver perso quel po' di cervello che hai.» Il taxi ci lasciò in Berkeley Square e io la guidai in Curzon Street. «Svelta, prendimi sottobraccio» le mormorai, lanciando indietro un'occhiata furtiva. Obbedì all'istante e percorremmo cinquanta metri prima che lei bisbigliasse: «Perché?». «Perché mi piace» ribattei sorridendo e tornando alla mia voce naturale. «Oh, tu!» Fece per svincolarsi, ma la trattenni e lei capitolò. Bighellonammo su per la strada verso Shepherd Market, fermandoci qua e là davanti alle vetrine come una coppia di turisti. Il numero 97 di Curzon Street era uno di quei condominii dal costo astronomico, sei piani di facciata in mattoni e un portone decorato di bronzo e vetro oltre il quale si stendeva un atrio di marmo sorvegliato da un portiere in uniforme. Passammo oltre, arrivammo fino al White Elephant Club e lì traversammo la strada e tornammo indietro sul marciapiede opposto. «Potrei andare a chiedere al portiere se il signor Manson occupava l'interno cinque» si offrì Sherry. «Magnifico» le dissi. «E se risponde di sì, che cosa fai? Gli dici che Harry Fletcher lo saluta?» «Sei un vero pagliaccio» disse, e tentò di nuovo di ritirare la mano. «C'è un ristorante quasi di fronte al caseggiato.» Le impedii di ritrarsi. «Prendiamo un tavolo vicino alla vetrata, beviamo un caffè e
stiamo un po' a guardare.» Erano appena passate le tre quando ci sistemammo vicino alla vetrata con una buona visuale sull'altro lato della strada, e l'ora seguente trascorse in modo piacevole. Scoprii che tenere allegra Sherry non era affatto un'impresa difficile: avevamo in comune un certo senso dell'umorismo e mi piaceva sentirla ridere. Ero nel mezzo di una storiella lunga e complicata quando fui interrotto dall'arrivo al numero 97 di una Rolls Royce Silver Wraith. Frenò accostando al marciapiede, e uno chauffeur con un'elegante divisa grigio tortora scese dall'auto ed entrò nell'atrio. Lui e il portiere attaccarono discorso e io ripresi la storiella. Dieci minuti dopo si scatenò di fronte un'improvvisa attività. L'ascensore cominciò una serie di rapidi andirivieni scaricando ogni volta un'ondata di bagagli assortiti in coccodrillo. Il portiere e l'autista li portavano fuori e li caricavano sulla Rolls. Non finivano mai, e Sherry osservò: «Qualcuno parte per una lunga vacanza.» Sospirò con desiderio. «Che ne diresti di un'isola tropicale con l'acqua azzurra e la sabbia bianca, un bungalow col tetto di paglia fra le palme...» «Basta così» esclama lei. «In un giorno d'autunno nella vecchia Londra non posso nemmeno sopportare l'idea.» Stavo per consolidare le mie posizioni quando il portiere e l'autista scattarono sull'attenti, le porte di vetro dell'ascensore si aprirono ancora una volta e ne uscirono un uomo e una donna. Lei indossava una pelliccia di visone color miele e i capelli biondi erano raccolti sulla testa in un'elaborata acconciatura di stile greco. La collera mi colpì come un pugno nello stomaco quando la riconobbi. Era Sherly North numero 1. La gentile signora che aveva spedito Judith e il "Wave Dancer" sul fondo del porto grande. Con lei c'era un uomo di media statura, coi capelli castano chiaro, lunghi secondo la moda e arricciati sulle orecchie. Era leggermente abbronzato, probabilmente da una lampada al quarzo, ed era vestito troppo bene. In modo molto costoso, ma sgargiante, come un personaggio dello spettacolo. Aveva la mascella pesante e un lungo naso carnoso con occhi dolci da gazzella, ma la bocca era dura. Una bocca avida che ricordavo molto bene. «Manson!» esclamai. «Cristo! Manson Resnick... Manny Resnick.» Era proprio il tipo d'uomo cui poteva rivolgersi Jimmy North con la sua proposta eccentrica. Proprio come tanto tempo prima mi ero rivolto a lui con i miei piani per la rapina dell'oro all'aeroporto di Roma. Manny era un imprenditore della malavita e chiaramente aveva salito molti gradini della scala dal nostro ultimo incontro. Ora faceva le cose in grande, pensai, mentre attraversava il marciapiede e saliva sul sedile posteriore della Rolls, accanto alla bionda in visone. «Aspetta qui» dissi in fretta a Sherry, mentre la Rolls partiva verso Park Lane. Mi precipitai fuori cercando disperatamente un taxi per seguirli. Non ce n'erano, e io rincorsi la Rolls pregando disperatamente che comparisse un grosso taxi nero con la scritta luminosa sul tetto, ma proprio davanti ai miei occhi l'auto svoltò a destra in South Audley Street e accellerò dolcemente allontanandosi. Mi fermai all'angolo ma era già lontana, e s'insinuava nel traffico diretto a Grosvenor Square. Mi voltai e tornai lentamente, deluso, dove mi aspettava Sherry. Sapevo che aveva visto giusto. Manny e la bionda erano in partenza per un lungo viaggio. Non aveva senso restare ancora nei paraggi del numero 97 di Curzon Street. Sherry mi aspettava fuori del ristorante. «Di che si trattava?» domandò, e io la presi sottobraccio. Mentre tornavamo verso Berkeley Square glielo spiegai. «Quell'uomo probabilmente è lo stesso che ha ordinato l'assassinio di Jimmy, è anche il responsabile delle mie ferite e quello che ha fatto arrostire la tua bella manina... in breve, il capo.» «Lo conosci?»
«Ho fatto degli affari con lui molto tempo fa.» «Che begli amici hai.» «Negli ultimi tempi ho cercato di migliorare» replicai, stringendole il braccio. Lei ignorò la mia galanteria. «E la donna? E' quella di Saint Mary, quella che ha fatto saltare in aria la tua barca e la ragazza?» Sperimentai un violento accesso della stessa collera che mi aveva afferrato pochi minuti prima, quando avevo visto quell'animale da preda fasciato nel visone. Al mio fianco Sherry boccheggiò: «Harry, mi fai male!». «Scusa.» Allentai la presa sul suo braccio. «Credo che questo risponda alla mia domanda» mormorò in tono triste, massaggiandosi la parte dolente. Il bar del Windsor Arms era tutto pannelli di quercia scura e specchi antichi. Era affollato quando Sherry e io entrammo. Fuori era sceso il buio, e il vento gelido faceva turbinare le foglie cadute nelle cunette. Il tepore del bar era accogliente. Trovammo dei posti in un angolo, ma la folla ci spinse l'uno contro l'altro, costringendomi a passare un braccio intorno alle spalle di Sherry, e le nostre teste erano così vicine che potemmo continuare la nostra conversazione riservata nel bel mezzo di un locale pubblico. «Credo di sapere dov'erano diretti Manny Resnick e la sua amica» dissi. «A Big Gull?» chiese Sherry, e quando annuii lei proseguì: «Gli occorreranno una barca e dei sommozzatori». «Non preoccuparti, Manny li troverà.» «E noi che cosa facciamo?» «Noi?» chiesi. «E' un modo di dire» si corresse lei con affettazione. «Che cosa farai?» «Ho una scelta. Posso scordarmi di tutto... o tornare a Gunfire Reef e cercare di scoprire che cosa diavolo c'era nelle cinque casse del colonnello Goodchild.» «Ti servirà dell'attrezzatura.» «Non sarà tanto elaborata come quella di Manny Resnick, ma potrei metterla insieme.» «Come stai a soldi, o è una domanda indiscreta?» «La risposta è la stessa. Posso metterne insieme abbastanza.» «Acqua azzurra e sabbia bianca» mormorò lei con voce sognante. «...e fronde di palma che frusciano agli alisei.» «Piantala Harry.» «Gamberi succulenti che arrostiscono sui carboni e io che ti faccio la serenata» continuai senza scrupoli. «Sei un vigliacco» esclamò. «Se resti qui, non saprai nemmeno se erano calze sporche» insistetti. «Potresti dirmelo per lettera» supplicò. «Me ne guarderò bene.» «Dovrò venire con te» decise alla fine. «Brava ragazza» le strinsi la spalla. «Ma insisto per pagare la mia parte, non voglio diventare una mantenuta.» Aveva intuito che ero in ristrettezze. «Detesto l'idea di intaccare i tuoi principi» le dissi felice e il mio portafogli sospirò di sollievo. Mi sarei dissanguato a organizzare una spedizione a Gunfire Reef con quello che mi era rimasto. C'erano molte cose da discutere ora che la decisione era stata presa. Sembrava che fossero passati solo pochi minuti quando il padrone annunciò: «E' ora, signori». «Di notte le strade sono pericolose» avvertii Sherry. «Non credo che dovremmo rischiare. Al piano di sopra ho una stanza molto comoda con una bella vista...» «Avanti, Fletcher.» Sherry si alzò. «Farai meglio a riaccompagnarmi a casa, o ti sguinzaglierò dietro mio zio.» Mentre percorrevamo il mezzo isolato fino all'appartamento dello zio, ci accordammo per vederci il giorno dopo a pranzo. Io avevo una lista di commissioni da sbrigare in mattinata, comprese le prenotazioni sull'aereo, mentre Sherry doveva far rinnovare il passaporto e
ritirare le copie fotostatiche dei disegni della "Dawn Light". Sulla porta dell'appartamento ci guardammo, a un tratto tutti e due intimiditi. Era così terribilmente scontato che mi venne quasi da ridere. Sembravamo una coppia di teen-ager all'antica, alla fine del nostro primo appuntamento... ma qualche volta un po' di sentimentalismo non guasta. «Buonanotte, Harry» disse lei, e con l'innata abilità femminile mi fece capire in modo indefinibile che era disposta a lasciarsi baciare. Le sue labbra erano morbide e calde e il bacio si protrasse a lungo. «Dio mio!» mormorò lei con voce roca, e finalmente si ritrasse. «Sei sicura di non voler cambiare idea? E una bella stanza: acqua calda e fredda, tappeti sul pavimento, T.V...» Lei si lasciò sfuggire una risatina tremula e mi respinse dolcemente. «Buonanotte, Harry caro» ripeté, e mi lasciò. Uscii in strada e m'incamminai a passo lento verso il pub. Il vento era caduto, si sentiva l'umidità salire dal fiume poco lontano. La strada era deserta ma lungo il marciapiede erano allineati veicoli in sosta, paraurti contro paraurti fino all'angolo. Passeggiavo lungo il marciapiede senza fretta di andare a letto, trastullandomi perfino con l'idea di fare prima una capatina sul lungofiume. Avevo le mani sprofondate nelle tasche della giacca, e mi sentivo rilassato e felice mentre pensavo a Sherry. C'erano molte cose su cui riflettere, in lei, molti aspetti poco chiari o non ancora spiegati, ma per lo più accarezzavo il pensiero che forse finalmente era nato qualcosa che poteva durare più di una notte, una settimana o un mese... qualcosa che era già forte e non sarebbe diminuito come sempre col passare del tempo, ma invece sarebbe divenuto più forte. A un tratto una voce accanto a me esclamò: «Harry!». Era una voce d'uomo, una voce strana, e io mi volsi istintivamente in quella direzione. Capii subito che era stato un errore. Chi parlava era seduto sul sedile posteriore di una delle auto parcheggiate. Era una Rover nera. Il finestrino era aperto e il suo viso era solo una chiazza pallida nel buio dell'interno. Feci un tentativo disperato di tirare le mani fuori dalle tasche e girarmi nella direzione da cui sapevo che sarebbe venuto l'attacco. Nel farlo abbassai la testa, mi piegai e qualcosa sibilò vicino al mio orecchio colpendomi la spalla con effetto paralizzante. Scattai all'indietro con i gomiti, incontrando qualcosa di solido e sentendo un rantolo di dolore. Poi mi trovai le mani libere e girai in fretta su me stesso, fintando, perché sapevo che avrebbero usato di nuovo il manganello. Erano solo ombre indistinte, minacciose e imponenti, vestite di scuro. Sembravano un esercito, ma erano solo in quattro, più uno nell'auto. Erano tutti grossi e uno aveva il manganello alzato per colpire ancora. Lo presi sotto il mento con il palmo della mano, facendogli scattare la testa all'indietro, e pensai che forse gli avevo rotto il collo, perché crollò di schianto sul marciapiede. Un ginocchio puntò verso il mio inguine, ma io mi voltai e lo presi alla coscia, sfruttando lo slancio per controbattere. Fu un buon colpo, che mi rintronò nella spalla; l'uomo lo ricevette al petto e fu proiettato all'indietro, ma subito uno di loro mi si attaccò al braccio trattenendolo e un pugno mi arrivò a segno sulla guancia, sotto l'occhio. Sentii la pelle lacerarsi. Un altro mi fu alle spalle, un braccio intorno alla gola per strangolarmi, ma io mi sollevai e caricai. Ci rotolammo sul marciapiede serrati in un groviglio. «Tienilo fermo» esclamò un'altra voce, bassa e ansiosa. «Lasciami assestare un altro colpo.» «Secondò te che diavolo stiamo cercando di fare?» ansimò un altro, e finimmo contro la fiancata della Rover. Restai inchiodato lì e vidi che quello col manganello era in piedi. Vibrò un altro colpo e io tentai di girare la testa, ma mi colse alla tempia. Non mi stordì completamente, ma mi tolse ogni forza di combattere. Mi sentii subito debole come un bambino, capace appena di reggermi in piedi. «Ecco, mettetelo dietro.» Mi ficcarono al centro del sedile posteriore della Rover e due di loro mi si piazzarono ai lati. Le portiere
sbatterono, il motore si avviò vibrando e partimmo veloci. La mente mi si schiarì, ma avevo la tempia insensibile e mi sentivo la testa leggera come un palloncino. Sul sedile anteriore erano in tre, di dietro uno per parte. Avevano tutti il fiatone e l'uomo accanto al guidatore si massaggiava piano il collo e la mascella. Quello alla mia destra aveva mangiato dell'aglio e mi alitava in faccia mentre mi perquisiva in cerca di armi. «Ti devo avvertire che qualcosa ti è morto in bocca parecchio tempo fa ed è ancora lì» gli dissi, con la lingua gonfia e la testa indolenzita, ma non ne valeva la pena. Non dette segno di aver sentito e continuò ostinato nel suo lavoro. Alla fine si ritenne soddisfatto e io mi rassettai i vestiti. Proseguimmo in silenzio per cinque minuti, costeggiando il fiume verso Hammersmith, prima che tutti avessero ripreso fiato e si fossero leccati le ferite, poi il conducente parlò. «Senti, Manny vuole parlarti, ma ha detto che non era una cosa importante. Una semplice curiosità. Ha detto anche di non perdere tempo, se ci davi filo da torcere, solo di farti secco e buttarti nel fiume.» «Simpatico, quel Manny» osservai. «Chiudi il becco!» ordinò il conducente. «Quindi, vedi, dipende da te. Comportati bene e vivrai un po' più a lungo. Ho sentito dire che eri un tipo sveglio, Harry. Ci aspettavamo che saltassi fuori, da quando Lorna ti ha mancato sull'isola, ma quant'è vero Iddio non pensavamo che saresti sfilato su e giù per Curzon Street come una fanfara. Manny non riusciva a crederci. Ha detto: "Non può essere Harry. Si dev'essere rammollito". L'ha rattristato. "Così cadono i potenti. Che non si sappia per le strade di Ascalona", ha detto.» «E' Shakespeare» spiegò quello col fiato che sapeva di aglio. «Chiudi il becco» esclamò il conducente, poi riprese a parlare. «Manny era triste, ma non al punto da piangere o altro, capisci.» «Capisco» borbottai. «Chiudi il becco» scattò il conducente. «Manny ha detto: "Non fatelo qui. Seguitelo fino a un bel posticino tranquillo e prelevatelo. Se viene con le buone portatelo a fare quattro chiacchiere con me... se fa i capricci buttatelo nel fiume".» «Ora sì che lo riconosco, il mio Manny. E' sempre stato un frugoletto dal cuore tenero.» «Chiudi il becco» disse il conducente. «Sono proprio impaziente di rivederlo.» «Resta buono e zitto e forse avrai questa fortuna.» Rimasi così per tutta la notte mentre imboccavamo la M4 e filavamo a ovest. Erano le due del mattino quando entrammo a Bristol, aggirando il centro della città e seguendo l'A4 giù fino ad Avonmouth. Fra gli altri panfili nel porticciolo c'era un grosso yacht a motore. Era ormeggiato al molo e aveva calato la passerella. Il nome dipinto a poppa e a prua era "Mandrake". Era una barca d'alto mare con lo scafo d'acciaio verniciato in bianco e blu, dalla linea piacevole. Mi sembrò veloce e stabile, probabilmente dotata di un'autonomia sufficiente a raggiungere qualsiasi porto del mondo. Un giocattolo per ricchi. Sul ponte c'erano delle figure, quasi tutti gli oblò avevano le luci accese e sembrava pronta a prendere il mare. Quando attraversammo lo spazio aperto fino alla passerella mi si affollarono intorno. La Rover fece marcia indietro e si allontanò mentre salivamo sul ponte del "Mandrake". Il salone era arredato con troppo gusto per lo stile di Manny Resnick, doveva essere opera dei proprietari precedenti o di un arredatore. Il pavimento era coperto da una moquette verde bosco con le tende di velluto intonate, i mobili erano di teak scuro e cuoio lucido e i quadri erano tele di ottima fattura, intonati all'arredamento. Questo battello valeva almeno mezzo milione di sterline e capii che era preso a nolo. Probabilmente Manny l'aveva affittato per sei mesi e ci aveva imbarcato i suoi uomini... perché non mi aveva mai dato l'idea di essere un lupo di mare. Mentre aspettavamo al centro della moquette, un gruppo cupo e silenzioso, sentii il suono inconfondibile della passerella che veniva ritirata e degli ormeggi mollati. Il tremito dei motori divenne una
pulsazione regolare e le luci del porto scivolarono dietro gli oblò mentre superavamo l'ingresso del porto e ci spingevamo nelle acque del fiume Severn. Quando il "Mandrake" virò di bordo per discendere il fiume verso il mare aperto, oltre Weston-super-Mare e Berry, riconobbi i fari di Portshead Point e Red Cliff Bay. Finalmente entrò Manny: indossava una vestaglia di seta azzurra e aveva il viso ancora gonfio di sonno, ma i capelli ondulati erano pettinati con cura e il sorriso era bianco e avido. «Harry» esclamò «te l'avevo detto che saresti tornato.» «Salve, Manny. Non posso dire che sia un gran piacere.» Rise in tono leggero e si rivolse alla donna che l'aveva seguito nel salone. Era truccata con cura e ogni capello dell'acconciatura elaborata era al suo posto. Portava un lungo abito guarnito di pizzo alla gola e ai polsi. «Hai già conosciuto Lorna, credo, Lorna Page.» «La prossima volta che mandi qualcuno ad accalappiarmi, Manny, cerca un tipo di classe. Con la vecchiaia sto diventando difficile.» La donna socchiuse gli occhi con uno sguardo velenoso ma sorrise. «Come va la tua barca, Harry? La tua bella barca?» «E' diventata una bara schifosa.» Mi rivolsi di nuovo a Manny. «Di che cosa si tratta, Manny, possiamo metterci d'accordo?» Lui scosse la testa con mestizia. «Non credo, Harry. Lo vorrei proprio, se non altro in nome dei vecchi tempi. Ma non ti ci vedo. Primo, non hai niente da offrire... e questo è un pessimo punto di partenza. Secondo, so che sei troppo sentimentale. Manderesti all'aria qualunque patto per ragioni puramente emotive. Non potrei fidarmi di te, Harry, non faresti che pensare a Jimmy North e alla tua barca, alla piccola ragazza isolana che ci è andata di mezzo e alla sorella di Jimmy North che abbiamo dovuto eliminare...» Trovai una magra consolazione nella scoperta che evidentemente Manny non sapeva ancora cos'era successo al plotone di esecuzione che aveva mandato a sistemare Sherry North e che lei era ancora vivissima. Tentai di far suonare sincera la mia voce e convincenti i miei modi. «Ascolta, Manny, io sono molto attaccato alla vita. Posso scordare tutto, se necessario.» Rise di nuovo. «Se non ti conoscessi troppo bene, ti crederei, Harry.» Scosse ancora la testa. «Mi spiace, niente patti.» «Allora perché ti sei preso la briga di farmi portare qui?» «Già due volte ho mandato qualcun altro a fare questo lavoro, Harry. Tutt'e due le volte ti hanno mancato. Stavolta voglio essere certo. Nel viaggio verso Città del Capo incroceremo qualche specchio d'acqua profondo e io ti appenderò al collo qualcosa di molto pesante.» «Città del Capo?» chiesi. «Così, dai la caccia di persona alla "Dawn Light". Che cos'ha di tanto affascinante quel vecchio relitto?» «Andiamo, Harry. Se non lo sapessi non mi daresti tanto filo da torcere.» Rise, e io ritenni opportuno non rivelare la mia ignoranza. «Credi di poter ritrovare la strada?» chiesi alla bionda. «Il mare è grande e le isole si assomigliano tutte. Penso che dovreste tenermi come garanzia» insistetti. «Mi spiace, Harry.» Manny si diresse verso il bar di teak e ottone. «Da bere?» chiese. «Scotch» risposi, e lui riempì un bicchiere a metà e me lo portò. «Per essere del tutto sincero con te, questo avviene in parte a beneficio di Lorna. Hai amareggiato questa ragazza, Harry, non so perché... ma ci teneva in modo particolare a essere presente per dirti addio. Questo genere di cose le piace... vero, tesoro?... la eccita.» Io vuotai il bicchiere. «Ne ha proprio bisogno... Come tu e io sappiamo bene, a letto non vale granché senza questi trucchetti» osservai, e Manny mi colpì alla bocca, spaccandomi le labbra, e il whisky mi bruciò la carne viva. «Mettetelo sotto chiave» disse piano. Mentre mi spintonavano fuori dal salone e lungo il ponte a proravia, mi consolai col pensiero che Lorna avrebbe dovuto rispondere a qualche domanda sgradevole. Ai due lati le luci sulle sponde scorrevano all'indietro nella notte a velocità costante, e il fiume era nero e largo. Sulla parte anteriore del ponte, sopra il castello di prua, sorgeva
una bassa cabina di coperta e un boccaporto dava su una scaletta che portava a un piccolo corridoio. Evidentemente questi erano gli alloggi dell'equipaggio; le porte del corridoio si aprivano sulle cabine e sulla mensa. A prua c'era una porta d'acciaio e un cartello stampato indicava: "Magazzino del castello di prua". Mi spinsero oltre la soglia e sbatterono il pesante battente. La serratura scattò e io mi ritrovai solo in un cubicolo d'acciaio, probabilmente un metro e ottanta per uno e venti. Le paratie erano rivestite da armadietti e l'aria era umida e stantia. La mia prima preoccupazione fu di trovare un'arma qualsiasi. Gli armadi erano tutti chiusi a chiave e le ante erano di quercia spessa un paio di centimetri. Ci sarebbe voluta un'ascia per sfondarle, ciò nondimeno provai. Tentai anche di sfondare la porta usando la spalla come ariete, ma lo spazio era troppo ristretto e non riuscivo ad acquistare sufficiente slancio. Comunque il rumore attirò l'attenzione. La porta si aprì di scatto e comparve un uomo dell'equipaggio, con una grossa e brutta Rueger Magnum calibro 41 in pugno, a distanza di sicurezza. «Piantala» intimò. «Li dentro non c'è niente» e indicò la pila di vecchi giubbotti salvagente contro la parete opposta. «Siediti là buono e zitto, altrimenti chiamo qualcuno dei ragazzi per farti dare una lezione.» Sbatté la porta e io mi lasciai cadere sui giubbotti. Era chiaro che c'era sempre un uomo di guardia alla porta. Gli altri dovevano essere a distanza di voce. Non mi ero aspettato che aprisse la porta ed ero stato colto di sorpresa. Dovevo indurlo a farlo di nuovo... ma stavolta avrei tentato la fuga. C'erano poche probabilità, me ne rendevo conto. Lui non doveva fare altro che puntare quel cannone nel ripostiglio e premere il grilletto. Non poteva fallire il bersaglio. Mi serviva un diversivo, una specie di copertura per potermi avvicinare. Guardai di nuovo con rimpianto gli armadietti, poi dedicai la mia attenzione alle tasche. Mi avevano ripulito per bene: l'accendino e i sigari, le chiavi della macchina, il temperino tutto sparito. Ma mi avevano lasciato il fazzoletto tre banconote da cinque sterline ripiegate nella tasca posteriore se l'erano lasciate sfuggire e avevo ancora l'orologio. Guardai la pila di giubbotti salvagente e mi alzai per scostarli. In mezzo c'era una cassetta di legno per la frutta che conteneva materiali di scarto per le pulizie. Uno spazzolone di nylon per i pavimenti, stracci, una scatola di detersivo, mezza forma di sapone giallo e una bottiglia di cognac piena a metà di un liquido chiaro. Svitai il tappo e annusai. Era benzina. Mi sedetti di nuovo per riesaminare la mia posizione, cercando senza molto successo di trovare uno spiraglio. L'interruttore della luce era fuori della porta e la luce in alto era coperta da una spessa plafoniera di vetro. Mi alzai e mi arrampicai sugli armadietti, puntellandomi mentre smontavo la plafoniera ed esaminavo la lampadina. Un filo di speranza c'era. Ridiscesi e scelsi uno dei pesanti giubbotti di tela. Il fermaglio del cinturino d'acciaio del mio orologio formava una lama spuntata: con quella lacerai e tagliuzzai la tela, aprendo un buco abbastanza grande da far passare l'indice. Strappai il tessuto e tirai fuori a manciate l'imbottitura di kapok bianco. L'ammucchiai sul pavimento, lacerando altri giubbotti fino a formare un bel mucchio. Inzuppai i cascami di cotone con la benzina della bottiglia e ne portai con me una manciata quando mi arrampicai di nuovo fino all'apparato di illuminazione. Svitai la lampadina e piombai subito nel buio. Lavorando solo col tatto premetti l'imbottitura imbevuta di benzina vicino ai morsetti della corrente. Non avevo niente da usare come isolante, perciò tenni il cinturino d'acciaio dell'orologio fra le mani nude e lo usai per provocare un cortocircuito. Ci fu un lampo azzurro sfrigolante, la benzina prese fuoco all'istante e una scarica da 180 volts mi colpì come una rosa di pallini da caccia, buttandomi giù dal mio trespolo. Caddi di schianto sul tavolato, con una palla di kapok in fiamme fra le mani. Fuori sentii deboli suoni irritati e incolleriti. Ero riuscito a
mandare in corto circuito tutto il sistema d'illuminazione del castello di prua. Lanciai in fretta il kapok ardente sul mucchio preparato e le fiamme si levarono allegre. Mi spazzolai dalle mani le scintille, avvolsi il fazzoletto intorno alla bocca e al naso, afferrai uno dei salvagenti intatti e andai ad appostarmi contro la porta d'acciaio. In pochi secondi la benzina evaporò e il cotone cominciò a fumare, sprigionando un denso fumo nero dal puzzo terribile. Lo sgabuzzino si riempì e gli occhi cominciarono a lacrimarmi. Tentai di respirare ma il fumo mi straziava i polmoni e fui assalito da una tosse violenta. Dietro la porta si sentì un altro grido. «Sta bruciando qualcosa.» E si sentì rispondere: «Cristo, accendete quelle luci.» Non aspettavo altro, cominciai a battere sulla porta di acciaio e a gridare con tutta la voce che avevo in gola. «Fuoco! La nave va a fuoco!» Non era tutta scena. Il fumo nella mia prigione era spesso e denso e dal kapok in fiamme se ne sprigionava dell'altro. Mi resi conto che se nessuno apriva la porta entro sessanta secondi sarei morto soffocato e le mie grida dovettero risultare convincenti. La guardia spalancò la porta, puntando il grosso revolver e diresse nel ripostiglio la luce di una pila. Ebbi appena il tempo di notare quei dettagli e di vedere che le luci della nave erano ancora spente e figure incerte vagavano a caso nella penombra... poi una densa nuvola di fumo fuoriuscì dal ripostiglio. Io uscii insieme al fumo come un toro dal recinto, cercando disperatamente l'aria fresca e atterrito dall'idea di essere arrivato tanto vicino all'asfissia. L'idea centuplicò le mie forze. La guardia finì lunga distesa sotto il mio impeto e mentre cadeva la Rueger sparò. La fiammata, luminosa come un flash, rischiarò tutta la zona e mi permise di orientarmi per ritrovare la scaletta di boccaporto che portava al ponte. Nello spazio ristretto il lampo dello sparo fu così assordante che sembrò paralizzare le altre figure indistinte. Arrivai a mezza strada dalla scaletta prima che uno di loro balzasse per intercettarmi. Gli assestai una spallata nel petto e il fiato gli uscì di colpo come da un pallone bucato. Ora si sentivano grida preoccupate e un'altra sagoma bloccava i piedi della scala. Attraversando il corridoio avevo acquistato velocità e concentrai tutto il mio peso in un calcio che colpì l'uomo al ventre, facendolo piegare in due e cadere in ginocchio. Mentre precipitava una torcia gli illuminò il viso e vidi che era il mio amico con il fiato all'aglio. Gli posai un piede sulla spalla e lo usai come trampolino per balzare su, a metà della scala. Delle mani mi afferrarono alla caviglia, ma le respinsi con un calcio e mi trascinai all'altezza del ponte. Avevo solo un piede sui pioli e mi aggrappavo con una mano al giubbotto salvagente e con l'altra al corrimano d'ottone. In quel momento d'impotenza la porta che dava sul ponte fu bloccata da un'ennesima sagoma scura... e le luci si accesero. Un improvviso bagliore accecante di luce. L'uomo sopra di me era il ragazzo col manganello e vidi la sua espressione di gioia selvaggia mentre lo sollevava sulla mia testa indifesa. L'unico modo di schivarlo era mollare il corrimano e ricadere sul ponte di prua, che era pieno di gorilla inferociti. Guardai indietro e stavo per lasciare la presa quando dietro di me l'uomo con la Rueger Magnum si mise a sedere intontito, sollevò l'arma, tentando di controbilanciare il movimento della nave, e mi sparò. La pesante pallottola mi fischiò dentro l'orecchio, spaccandomi quasi il timpano, e colpì in mezzo al petto l'uomo col manganello. L'impatto lo sollevò, proiettandolo all'indietro in mezzo al ponte. Rimase sospeso sul sartiame dell'albero di trinchetto, con le braccia allargate come uno spaventapasseri, e con uno scatto disperato io lo seguii sul ponte e rotolai in piedi continuando a stringere il giubbotto. Dietro a me la Rueger abbaiò di nuovo e sentii la pallottola scheggiare la cimasa del boccaporto. Con tre falcate mi portai al parapetto e mi tuffai oltre la fiancata con un salto mortale. Colpii la superficie nera dell'acqua, ma fui trascinato a fondo perché il
vortice delle eliche mi attirò, facendomi roteare. L'acqua era gelida da morire, pareva che mi penetrasse nei polmoni conficcandomi spilli di ghiaccio nel midollo delle ossa. Il giubbotto salvagente mi aiutò a tornare finalmente in superficie e mi guardai intorno stravolto. Le luci della costa sembravano chiare e luminosissime, scintillavano bianche oltre l'acqua nera. Qui al largo il mare era agitato e le onde di superficie mi sballottavano su e giù. Il "Mandrake" proseguiva a velocità costante verso il vuoto nero del mare aperto. Mentre si allontanava con tutte le luci accese pareva una nave da crociera pavesata a festa. Con movimenti impacciati mi tolsi le scarpe e la giacca, poi riuscii a infilare le braccia nelle maniche del giubbotto. Quando guardai di nuovo, il "Mandrake" era lontano un miglio, ma a un tratto cominciò a virare e dal ponte partì il lungo raggio bianco di un riflettore che prese a danzare sulla superficie buia del mare. Guardai di nuovo verso terra, individuando le luci della boa di English Ground e mettendola in relazione con il faro di Flatholm. In pochi secondi, la posizione relativa delle due luci era variata leggermente, la marea stava calando e la corrente puntava a ovest. Cominciai a nuotare assecondandola. Il Mandrake aveva rallentato e stava tornando indietro. Il riflettore girava e brillava, scrutava e frugava, continuando ad avanzare verso di me. Sfruttai la corrente, nuotando con una lunga bracciata laterale in modo da non rompere la superficie e fare schiuma, trattenendomi dal sollevare il braccio mentre la nave illuminata si avvicinava sempre più. Quando arrivò alla mia altezza, il raggio del riflettore frugava lo specchio d'acqua libera sul lato opposto del "Mandrake". La corrente mi aveva allontanato dalla sua traiettoria, e il "Mandrake" era arrivato all'estremità del suo raggio di perlustrazione... a circa centocinquanta metri di distanza... ma riuscivo a scorgere gli uomini sul ponte. La vestaglia di seta azzurra di Manny Resnick splendeva sotto le luci come l'ala di una farfalla e sentivo la sua voce levarsi piena di collera, ma non potevo distinguere le parole. Il fascio di luce del riflettore puntò verso di me come il lungo dito bianco di un accusatore. Perlustrava il mare seguendo uno schema rigoroso come la trama di una tela e al prossimo passaggio mi avrebbe individuato certamente. Raggiunse la fine del passaggio trasversale, girò e tornò indietro. Io mi trovavo sulla traiettoria di curva del raggio, ma nell'attimo in cui mi passò sopra, una spinta capricciosa del mare sollevò una massa d'acqua scura e io ricaddi nel cavo dell'onda. La luce, diffusa dalla cresta dell'onda, passò su di me senza individuarmi e proseguì nella sua ricerca sistematica e implacabile. Mi avevano mancato. Ormai proseguivano, tornando verso la foce della Severn. Io rimasi affidato all'abbraccio ruvido del giubbotto di tela e li osservai allontanarsi, assalito dalla nausea per il sollievo e la reazione nervosa. Ma ero libero. Tutto quello di cui dovevo preoccuparmi, adesso, era quanto tempo ci voleva a morire assiderati. Ripresi a nuotare, osservando le luci del "Mandrake" rimpicciolire e perdersi sullo sfondo costellato di lustrini della costa. Avevo lasciato l'orologio nel castello di prua, così non seppi quanto tempo era passato prima che perdessi ogni sensibilità nelle braccia e nelle gambe. Tentai di continuare a nuotare, ma non ero certo che i muscoli mi rispondessero. Cominciai a provare la magnifica sensazione di fluttuare libero e leggero. Le luci di terra svanirono e mi parve di essere avvolto da nuvole bianche calde e soffici. Pensai che se questa era la morte non era tanto brutta come la dipingevano e ridacchiai come un'idiota, andando alla deriva nel giubbotto fradicio. Mi chiesi con interesse perché avessi perso la vista, non era così che l'avevo sentita descrivere. Poi a un tratto m'accorsi che con l'alba si era levata la nebbia ed era stato questo ad accecarmi. Comunque, la
luce del giorno stava acquistando intensità: riuscivo a vedere fino a sei metri di distanza nei banchi di nebbia turbinante. Chiusi gli occhi e mi addormentai; il mio ultimo pensiero fu che questo probabilmente era il mio ultimo pensiero. Mi venne di nuovo da ridere, mentre il buio mi sommergeva. Mi svegliarono delle voci, molto nitide e vicine nella nebbia, con l'accento pastoso e musicale del Galles. Tentai di gridare e con la sensazione di compiere una grande impresa lanciai una specie di grido stridulo da gabbiano. Dalla nebbia emerse la sagoma scura e tozza di una vecchia barca da aragoste. Si lasciava trasportare dalla corrente, e due uomini erano protesi oltre la fiancata intenti a disporre le nasse. Emisi un altro grido stridulo e uno degli uomini alzò lo sguardo. Ebbi l'impressione di due occhi celesti in un viso rubicondo, rugoso e segnato dalle intemperie, con un berretto e una vecchia pipa di erica bianca stretta fra denti giallastri e irregolari. «Buongiorno» gracchiai. «Cristo!» esclamò il pescatore senza mollare il cannello della pipa. Trovai asilo nella minuscola timoneria, avvolto m una vecchia coperta sudicia, e bevvi del tè fumante senza zucchero da una tazza di smalto scheggiato, scosso da brividi così violenti che la tazza mi saltellava fra le mani strette. Tutto il mio corpo era di una deliziosa sfumatura di azzurro e il risveglio della circolazione fu una tortura angosciosa. I miei due salvatori erano uomini taciturni, con uno straordinario rispetto della privacy altrui, probabilmente inculcato in loro da una lunga ascendenza di bucanieri e contrabbandieri. Prima che sistemassero le nasse e cominciassero il viaggio di ritorno verso casa si era fatto mezzogiorno e io mi ero scongelato. I miei vestiti si erano asciugati sulla stufa nella minuscola cambusa e avevo la pancia piena di pane scuro e sandwich con sgombro affumicato. Entrammo a Port Talbot e quando tentai di ricompensarli del loro aiuto con i miei biglietti da cinque spiegazzati, il più anziano dei due pescatori mi puntò addosso uno sguardo azzurro e glaciale. «Ogni volta che strappo un uomo al mare mi sento totalmente ripagato, signore. Si tenga i soldi.» Il viaggio di ritorno a Londra fu un, incubo di autocorriere e treni della sera. Quando uscii con passo malfermo dalla stazione di Paddington, alle dieci della mattina dopo, capii perché un paio di poliziotti avessero rallentato la loro maestosa andatura per guardarmi bene in faccia. Dovevo avere l'aria di un galeotto evaso. Il tassista osservò con occhio disincantato la mia barba scura lunga di due giorni, il labbro gonfio e l'occhio pesto. «Il marito è rientrato troppo presto, vero, amico?» mi chiese, e io gemetti piano. Sherry North apri la porta dell'appartamento di suo zio e mi fissò con gli occhi azzurri dilatati dallo stupore. «Oh, mio Dio, Harry! Cosa diavolo ti è successo? Hai un aspetto terribile.» «Grazie» ribattei. «Questo mi risolleva davvero il morale.» Mi prese per il braccio, guidandomi in casa. «Ero fuori di me. Due giorni! Ho chiamato perfino la polizia, gli ospedali... tutto quello che mi veniva in mente.» Lo zio si aggirava sullo sfondo e la sua presenza m'innervosiva. Rifiutai l'offerta di un bagno e di abiti puliti... e invece portai Sherry con me al Windsor Arms. Lasciai la porta del bagno aperta mentre mi radevo e facevo il bagno, così potevamo parlare, e anche se lei restò fuori del mio campo visivo mentre ero nella vasca, pensai che fra noi si stava sviluppando un utile senso d'intimità. Le riferii nei dettagli il mio sequestro a opera dei gorilla ammaestrati di Manny Resnick e la mia fuga, senza fare nessun tentativo di sminuire il mio ruolo eroico, e lei ascoltò in un silenzio che potevo attribuire solo a un'ammirazione affascinata. Emersi dal bagno con un asciugamano legato intorno alla vita e mi sedetti sul letto per finire il racconto, mentre Sherry medicava tagli e abrasioni.
«Ora devi andare alla polizia, Harry» disse lei alla fine. «Hanno tentato di ucciderti.» «Sherry, tesoro mio, ti prego, non continuare a parlare di polizia. Mi rende nervoso.» «Ma, Harry...» «Scordati della polizia e ordina qualcosa da mettere sotto i denti. Non mi ricordo più da quanto tempo non mangio.» L'albergo ci mandò in camera una bella grigliata di bacon e pomodori, uova fritte, pane tostato e tè. Mentre mangiavo, tentai di ricollegare la recente svolta degli avvenimenti alle nostre precedenti informazioni e di modificare in conseguenza i nostri piani. «A proposito, tu eri sulla lista delle vittime. Non intendevano solo allestire un barbecue con le tue dita. Manny Resnick era convinto che i suoi ragazzi ti avessero ucciso» e sul suo bel viso passò una strana espressione. «A quanto pare volevano eliminare chiunque sapesse qualcosa della "Dawn Light".» Presi un altro boccone di uova e prosciutto e masticai in silenzio. «Almeno adesso abbiamo una tabella di marcia. Lo yacht di Manny, che fra parentesi si chiama "Mandrake", sembra molto veloce e potente, ma impiegherà lo stesso tre o quattro settimane per raggiungere le isole. Questo ci lascia un certo margine.» Sherry mi versò il tè, aggiungendo il latte da ultimo come piace a me. «Grazie, Sherry, sei un angelo di misericordia.» Lei tirò fuori la lingua e io proseguii: «Qualunque cosa sia quello che cerchiamo, dev'essere qualcosa di straordinario. Quello yacht che Manny ha preso in affitto sembra il panfilo reale. Deve aver sborsato poco meno di centomila sterline, per questo scherzetto. Dio, vorrei proprio sapere che cosa contengono quelle cinque casse. Ho tentato di sondare Manny, ma mi ha riso in faccia. Ha detto che dovevo saperlo, altrimenti non mi sarei dato tanta pena...». «Oh, Harry.» Il viso di Sherry s'illuminò. «Tu hai portato le cattive notizie... ora tienti pronto per quelle buone.» «Non temere, reggerò il colpo.» «Sai la nota di Jimmy sulla lettera, "B. Mus."?» Annuii. «"Bachelor of Music"?» «No, idiota... British Museum.» «Temo di non seguirti.» «Ne discutevo con lo zio Dan e lui l'ha riconosciuta subito. E' la segnatura di un'opera nella biblioteca del British Museum. Lui ha una tessera d'ingresso. Sta facendo delle ricerche per un libro e ci lavora spesso.» «Potremo entrarci?» «Tentar non nuoce.» Attesi quasi due ore sotto l'enorme cupola azzurro e oro della sala di lettura del British Museum, mentre il desiderio di fumare un sigaro mi attanagliava il petto come una morsa. Non sapevo cosa stavo aspettando... avevo solo riempito il modulo di richiesta con la segnatura di Jimmy North... così quando alla fine l'inserviente mi posò davanti un grosso volume, lo afferrai con impazienza. Era un'edizione Secker e Warburg pubblicata per la prima volta nel 1963. L'autore era un certo dottor P.A. Ready e il titolo era impresso in oro sul dorso: "Tesori leggendari del mondo". Prima di aprire il libro, mi soffermai un attimo a riflettere e mi chiesi quale catena di coincidenze avesse consentito a Jimmy North di seguire questo gioco a rimpiattino di antichi indizi. Aveva letto prima questo libro, spinto dalla divorante ossessione per i relitti e i tesori marini, per poi imbattersi nel lotto di vecchie lettere? Non l'avrei mai saputo. C'erano quarantanove capitoli, ognuno dedicato a una voce particolare. Lessi attentamente l'indice. Vi erano elencati tesori aztechi, il vasellame e le verghe d'oro di Panama, bottini di bucanieri, una miniera d'oro sperduta fra le Montagne Rocciose, una valle di diamanti nel Sud Africa, le navi del tesoro dell'Armada, il vascello "Lutine" addetto al trasporto di lingotti d'oro, da cui era stata recuperata la famosa campana "Lutine"
dei Lloyd's, il carro d'oro di Alessandro Magno, altri tesori marini, antichi e moderni, dalla Seconda guerra mondiale fino al sacco di Troia, tesori di Mussolini, Prete Gianni, Dario, generali romani, corsari e pirati di Barberia e Coromandel. Era un'immensa profusione di fatti e di fantasia, storia e congetture. Tesori di città perdute e civiltà dimenticate, da Atlantide alla favolosa città d'oro nel deserto del Kalahari... C'era tanto materiale che non sapevo dove mettere le mani. Con un sospiro mi dedicai alla prima pagina, saltando introduzione e prefazione. Cominciai a leggere. Alle cinque avevo sfogliato superficialmente sedici capitoli che non potevano avere a che fare con la "Dawn Light" e ne avevo letti a fondo cinque, e ormai avevo capito come mai Jimmy North si fosse lasciato contagiare dal romanticismo e dall'eccitazione del cacciatore di tesori. Solleticavano anche me, queste storie di grandi ricchezze abbandonate, che aspettavano solo di essere raccolte da qualcuno che avesse la fortuna e la costanza di scovarle. Guardai il nuovo orologio giapponese col quale avevo sostituito il mio Omega e mi precipitai fuori dal massiccio portale di pietra del museo per attraversare Great Russel Street, diretto al mio appuntamento con Sherry. Lei mi aspettava nel bar affollato del Running Stag. «Mi spiace» dissi. «Mi ero scordato dell'ora.» «Avanti.» Mi afferrò per il braccio. «Sto morendo di sete e di curiosità.» Le offrii una pinta di birra per la sete, ma riuscii solo a infiammare la sua curiosità con il titolo del libro. Voleva rispedirmi subito in biblioteca, prima ancora che avessi finito la cena, ma io tenni duro e riuscii a fumare mezzo sigaro prima di lasciarmi trascinare fuori al freddo. Le detti la chiave della mia stanza al Windsor Arms, la sistemai su un taxi e le dissi di aspettarmi li. Poi mi affrettai a tornare nella sala di lettura. Il capitolo seguente del libro era intitolato: "Il Gran Mogol e il Trono della Tigre". Cominciava con una breve introduzione storica che spiegava come Babur, discendente di Timur e Gengis Khan, i due famigerati flagelli del mondo antico, avesse attraversato le montagne per scendere nell'India settentrionale e fondare l'impero del Gran Mogol. Mi accorsi subito che questo rientrava nell'ambito dei miei interessi, la "Dawn Light" era salpata proprio da quell'antico continente. La storia copriva il periodo degli illustri successori di Babur, sovrani musulmani che erano assurti a grande potere e influenza, avevano costruito città imponenti e lasciato dietro di sé monumenti al senso estetico dell'umanità come il Taj Mahal. Infine descriveva il declino della dinastia e la sua distruzione nel primo anno della rivolta indiana, quando le forze inglesi alla riscossa avevano infuriato, saccheggiando l'antica cittadella e fortezza di Delhi, facendo giustizia sommaria dei principi mongoli e gettando in cattività il vecchio imperatore Bahadur Scià. Quindi l'autore distoglieva bruscamente la sua attenzione da quel vasto panorama storico. "Nel 1665 Jean-Baptiste Tavernier, un viaggiatore e gioielliere francese, visitò la corte dell'imperatore mongolo Aurangzeb. Cinque anni dopo pubblicò a Parigi il suo celebre 'Viaggi in Oriente'. Pare che egli abbia goduto di particolare favore presso l'imperatore musulmano, poiché gli fu concesso di entrare nelle leggendarie camere del tesoro della cittadella e catalogare vari pezzi di particolare interesse. Fra questi c'era un diamante che egli definì 'Gran Mogol'. Tavernier pesò la pietra e ne valutò la mole in duecentottanta carati. Descrisse questo brillante perfetto come dotato di una luce straordinaria e di un colore puro e bianco 'come la Stella Polare dei cieli'. L'ospite di Tavernier lo informò che la pietra era stata estratta dalla famosa miniera di Golconda verso il 1650 e che allo stato grezzo era un esemplare prodigioso di settecentottantasette carati. Il taglio della pietra era quello caratteristico a rosetta, ma non era
simmetrico, perché risultava più grande da una parte. Da allora la pietra non è stata più segnalata e molti ritengono che Tavernier in realtà abbia visto il Koh-i-noor o l'Orloff. Tuttavia è molto improbabile che un osservatore e orefice esperto come Tavernier possa aver sbagliato così grossolanamente nel peso e nella descrizione. Il Koh-i-noor prima di venir tagliato di nuovo a Londra era solo di centonovantun carati e certamente non era una rosetta. L'Orloff, per quanto fosse tagliato a rosetta, era ed è una gemma simmetrica, di centonovantanove carati. La descrizione non si può minimamente paragonare con quella di Tavernier e tutte le prove indicano l'esistenza di un enorme diamante bianco che è sparito dal mondo conosciuto. Nel 1739, quando lo scià di Persia Nadir penetrò in India e occupò Delhi, non tentò di conservare le proprie conquiste, ma si accontentò di un enorme bottino, che comprendeva il diamante Koh-i-noor e il trono del pavone dello scià Jehan. Sembra probabile che il diamante 'Gran Mogol' sia sfuggito al rapace persiano e che dopo la sua ritirata Mohammed Scià, l'imperatore designato, privato del suo trono tradizionale, abbia ordinato la costruzione di un sostituto. Tuttavia l'esistenza di questo nuovo tesoro rimase avvolta nel mistero e per quanto ci siano allusioni in proposito nelle cronache indigene, si può citare una sola testimonianza europea. Il diario dell'ambasciatore inglese alla corte di Delhi nell'anno 1747, Sir Thomas Jenning, descrive un'udienza concessa dall'imperatore mongolo, in cui egli era avvolto in sete preziose e ornato di fiori e gioielli, seduto su un grande trono d'oro. La forma del trono era quella di una tigre feroce, con le mascelle spalancate e un unico occhio ciclopico risplendente. Il corpo della tigre era incastonato con straordinaria abilità di ogni sorta di pietre preziose. Sua maestà è stata tanto benigna da lasciarmi accostare al trono per esaminare l'occhio della tigre, che mi assicurò essere un grosso diamante risalente al regno del suo antenato Aurangzeb. Era il 'Gran Mogol' di Tavernier, ora incorporato nel trono di tigre dell'India? Se è così, allora si deve dar credito a una strana serie di circostanze con la quale dobbiamo porre fine al nostro studio di questo tesoro perduto. Il 16 settembre 1857 furiosi combattimenti riempirono le strade di Delhi di morti e feriti e l'esito della lotta rimase in sospeso mentre le forze inglesi e le truppe indigene rimaste fedeli combattevano per liberare la città dai 'sepoy' ammutinati e impadronirsi dell'antica fortezza che dominava la città. Mentre infuriava il combattimento, un gruppo di fedeli truppe indigene del Centounesimo reggimento, al comando di due ufficiali europei, ricevette l'ordine di attraversare il fiume e aggirare le mura per controllare la strada verso il nord. Lo scopo era di impedire ai membri della famiglia reale mongola o ai capi ribelli di fuggire dalla città condannata. I due ufficiali europei erano il capitano Matthew Long e il colonnello Sir Roger Goodchild..." Il nome mi balzò incontro dalla pagina, e non solo perché qualcuno l'aveva sottolineato a matita. In margine, sempre a matita, c'era uno dei caratteristici punti esclamativi di Jimmy North. L'irriverenza del giovane James per i libri includeva quelli appartenenti a un'istituzione venerabile come il British Museum. Scoprii di avere le guance in fiamme per l'eccitazione. Questo era l'ultimo frammento che mancava al puzzle. Ormai il quadro era completo e i miei occhi corsero attraverso la pagina. "Nessuno saprà mai che cosa successe quella notte, su una strada deserta in mezzo alla giungla indiana, ma sei mesi dopo il capitano Long e il Subahdar indiano Ram Panat prestarono testimonianza davanti alla corte marziale istruita contro il colonnello Goodchild. Descrissero come avevano intercettato un gruppo di nobili indiani che fuggiva dalla città in fiamme. Il gruppo comprendeva tre sacerdoti musulmani e due principi di sangue reale. Alla presenza del capitano Long uno dei principi aveva tentato di comprare la propria libertà
offrendosi di guidare gli ufficiali inglesi a un grande tesoro, un trono d'oro a forma di tigre e con un solo occhio di diamante. Gli ufficiali avevano accettato e i principi li avevano guidati fino a una moschea nella giungla. Nel cortile della moschea c'erano sei carri tirati da buoi. I conducenti avevano disertato e quando gli ufficiali inglesi erano smontati da cavallo e avevano esaminato il contenuto di questi veicoli, era risultato che contenevano davvero un trono d'oro a forma di tigre. Il trono era stato diviso in quattro parti per facilitarne il trasporto... quarti posteriori, trono, quarti anteriori e testa. Alla luce delle lanterne queste sezioni apparvero adagiate su un letto di paglia, splendenti d'oro e incrostate di pietre preziose e semipreziose. Il colonnello Roger Goodchild aveva allora ordinato che principi e sacerdoti fossero giustiziati all'istante. Erano stati allineati contro il muro esterno della moschea e uccisi con una salva di moschetto. Il colonnello stesso si era aggirato fra i nobili caduti, somministrando il 'coup-de-grâce' con il revolver d'ordinanza In seguito i cadaveri erano stati gettati in un pozzo fuori delle mura della moschea. I due ufficiali si erano separati: il capitano Long con il grosso della truppa indigena era tornato a pattugliare le mura della città, mentre il colonnello, il Subahdar Ram Panat e quindici 'sepoy' erano ripartiti con i carri. La testimonianza del Subahdar indiano alla corte marziale aveva descritto come avessero portato a ovest il prezioso carico passando attraverso le linee inglesi grazie all'autorità del colonnello. Si erano acquartierati per tre giorni in un piccolo villaggio indigeno. Qui il carpentiere locale e i suoi due figli avevano lavorato sotto la direzione del colonnello per costruire quattro solide casse di legno che dovevano contenere le quattro parti del trono. Il colonnello nel frattempo si era dedicato a rimuovere dalla statua le pietre e i gioielli incastonati nel metallo. La posizione di ciascuna era stata annotata con cura su un diagramma preparato da Goodchild e le pietre erano state numerate e racchiuse in una cassetta di ferro del tipo usato sul campo dagli ufficiali pagatori dell'esercito per la custodia di monete e contante. Una volta che il trono e le pietre erano stati racchiusi nelle quattro casse e nella cassetta di ferro, queste erano state caricate di nuovo sui carri e il viaggio era proseguito verso la stazione ferroviaria di Allahabad. Lo sfortunato carpentiere e i suoi figli erano stati obbligati a unirsi al convoglio. Il Subahdar ricordò che quando la strada era entrata in una zona di foresta fitta il colonnello era smontato e aveva condotto i tre artigiani fra gli alberi. Erano risuonati sei colpi di pistola e il colonnello era tornato solo." Interruppi per qualche istante la lettura per riflettere sulla figura del prode colonnello. Mi sarebbe piaciuto presentarlo a Manny Resnick, dovevano avere molto in comune. Sogghignai e ripresi a leggere. "Il sesto giorno il convoglio aveva raggiunto Allahabad e il colonnello aveva invocato la priorità militare per sistemare le sue cinque casse su una tradotta che tornava a Bombay. Fatto questo, lui e il suo piccolo presidio avevano raggiunto il reggimento a Delhi. Sei mesi dopo, il capitano Long, appoggiato dal sottufficiale indiano, Ram Panat, elevò le sue accuse contro l'ufficiale. Possiamo supporre che i ladri si fossero divisi; forse il colonnello Goodchild aveva deciso che una parte era meglio di tre. Sia come sia, da allora nessun indizio è venuto alla luce sulla sorte del tesoro. Il processo celebrato a Bombay fu una 'cause célèbre' e godette di ampia pubblicità in India e in patria, ma il punto debole dell'accusa fu che non c'era nessun bottino da esibire, e i morti non parlano. Il colonnello fu riconosciuto non colpevole. Tuttavia la pressione dello scandalo non gli lasciò altra scelta che rassegnare le dimissioni e tornare a Londra. Se riuscì in qualche modo a portare con sé il diamante "Gran Mogol" e il trono d'oro della tigre, il seguito della sua esistenza non autorizza a ritenere che fosse in possesso di
grandi ricchezze. In società con una ben nota signora della città aprì in Bayswater Road una casa da gioco che ben presto si guadagnò una dubbia fama. Il colonnello Sir Roger Goodchild morì nel 1871, probabilmente di sifilide terziaria contratta durante il soggiorno in India. La sua morte diede nuovo vigore alle voci sul favoloso trono, ma queste si spensero subito per mancanza di elementi concreti e il suo segreto scese nella tomba con lui. Forse avremmo dovuto intitolare questo capitolo "Il tesoro che non è mai esistito". "Neanche per sogno, amico", pensai, al settimo cielo. "E' esistito ed esiste". E ricominciai la storia dall'inizio, ma stavolta presi degli appunti a beneficio di Sherry. Lei mi aspettava seduta sulla poltrona presso la finestra e appena entrai mi saltò addosso. «Dove sei stato?» domandò. «Sono rimasta qui tutta la sera a rodermi il fegato dalla curiosità.» «Non ci crederai mai» le dissi, e pensai che stesse per strozzarmi. «Harry Fletcher, hai dieci secondi di tempo per tagliare i preamboli... dopo di che ti cavo gli occhi.» Parlammo a lungo, fin dopo mezzanotte, e a quell'ora il pavimento era disseminato di carte che studiavamo stando a quattro zampe. C'erano le carte nautiche dell'arcipelago di Saint Mary, le copie dei disegni della "Dawn Light", le note che avevo ricavato dalla descrizione del naufragio fatta dal secondo ufficiale e gli appunti presi nella sala di lettura del British Museum. Avevo tirato fuori la mia fiasca da viaggio d'argento e bevemmo Chivas Regal dal bicchiere di plastica del bagno discutendo ipotesi e progetti, o tentando di stabilire in quale sezione dello scafo della "Dawn Light" erano state stivate le cinque casse, cercando anche di calcolare come si fosse infranta la nave, quale parte fosse stata spazzata oltre la barriera e quale fosse ricaduta in mare aperto. Avevo abbozzato una dozzina di eventualità e avevo cominciato a stendere un inventario dell'attrezzatura minima necessaria per la spedizione, alla quale facevo delle aggiunte man mano che mi venivano in mente nuove voci o Sherry dava intelligenti suggerimenti. Avevo dimenticato che era una subacquea di prim'ordine, ma me ne rammentai mentre parlavamo. Ora mi rendevo conto che in questa spedizione non sarebbe stata una semplice passeggera: i miei sentimenti per lei si stavano tingendo di rispetto professionale e lo stato d'animo di allegria mista a cameratismo stava creando in noi un crescendo di tensione fisica. Le guance lisce e pallide di Sherry erano arrossate dall'eccitazione mentre stavamo inginocchiati sul tappeto spalla a spalla. Si volse ridendo per dirmi qualcosa, e le luci azzurre nei suoi occhi, a pochi centimetri dai miei, erano provocanti e invitanti. A un tratto tutti i troni d'oro e i diamanti favolosi di questo mondo potevano aspettare il loro turno. Riconoscemmo entrambi il momento e ci volgemmo l'una all'altro con impazienza. Ci consumava una febbre divorante e facemmo l'amore sui disegni della "Dawn Light"... il che era probabilmente la cosa più bella che fosse mai capitata a quel disgraziato vascello. Quando alla fine la portai a letto e i nostri corpi si allacciarono sotto la trapunta, sapevo che tutte le brevi acrobazie amorose che avevano preceduto il mio incontro con questa donna erano prive di significato. Quello che avevo appena trovato trascendeva la carne per diventare qualcosa di spirituale... e se non era amore, era il sentimento più vicino all'amore che avessi mai provato. La mia voce era velata e incerta per la meraviglia, mentre tentavo di spiegarglielo. Lei rimase distesa contro il mio petto senza parlare, ascoltando le parole che non avevo mai detto a nessuna donna, e quando m'interruppi mi strinse... era chiaramente un invito a continuare. Credo che stessi ancora parlando quando ci addormentammo. Vista dall'alto, l'isola di Saint. Mary ha la forma di uno di quegli strani pesci abissali, dal corpo tozzo e deforme, con grosse pinne ventrali e caudali nei punti più insoliti e una bocca enorme, troppo
larga per il resto. La bocca era il porto grande e la città si annidava al punto di congiunzione delle mascelle. I tetti di lamiera splendevano come specchi di segnalazione nel mantello verde cupo della vegetazione. L'aereo descrisse dei cerchi sull'isola, offrendo ai passeggeri uno spettacolo di spiagge bianche come la neve e acqua tanto limpida che ogni dettaglio delle barriere coralline e degli abissi roteava sfumato sotto la superficie come in un enorme dipinto surrealista. Sherry teneva il viso schiacciato contro il finestrino rotondo di perspex e lanciò gridolini estasiati quando il Fokker Friendship si abbassò sui campi di ananas dove le donne interruppero il lavoro per guardare in su verso di noi. Toccammo terra e rullammo fino all'unico edificio dell'aeroporto, sul quale un pannello pubblicitario annunciava "Saint Mary. La perla dell'Oceano Indiano", e sotto il cartello scorgemmo altre due perle di grande valore. Avevo telegrafato a Chubby e lui si era portato dietro Angelo per darci il benvenuto. Angelo si precipitò alla barriera per abbracciarmi e prendermi la borsa e io lo presentai a Sherry. Tutto l'atteggiamento di Angelo subì una profonda metamorfosi. Sull'isola c'è un attributo estetico stimato più di ogni altro. Una ragazza può avere i denti sporgenti e gli occhi strabici, ma se possiede una carnagione "chiara" avrà interi plotoni di corteggiatori. Un colorito chiaro non significa essere libera dall'acne, ma è piuttosto una gradazione del colore della pelle... E Sherry doveva avere una delle carnagioni più chiare che si fossero mai viste sull'isola. Angelo la fissò, in stato di trance, mentre lei gli stringeva la mano, poi si riscosse, mi restituì la borsa e prese invece la sua. Poi la seguì a pochi passi come un cane fedele, osservandola con aria solenne e sfoggiando un sorriso smagliante ogni volta che lei guardava nella sua direzione. Fu il suo schiavo fin dal primo momento. Chubby ci venne incontro più dignitosamente, massiccio e immutabile come una scogliera di granito scuro, e il suo viso era contorto in un cipiglio ancor più feroce del solito mentre mi stritolava la mano in una stretta callosa e borbottava qualcosa riguardo al fatto che era bello rivedermi. Fissò Sherry, e lei tremò un po' sotto la ferocia del suo sguardo, ma poi accadde qualcosa che non avevo mai visto prima. Chubby sollevò il vecchio berretto malconcio, scoprendo la cupola marrone lucente e liscia della pelata in un inaudito sfoggio di galanteria ed esibì un sorriso così largo da scoprire le gengive di plastica rosa dei denti finti. Quando le valigie di Sherry furono scaricate dalla stiva dell'aereo, spinse da parte Angelo, ne prese una in ogni mano e la guidò fino al furgoncino. Angelo la seguì devotamente e io arrancai dietro di loro sotto il peso del mio bagaglio. Era abbastanza ovvio che il mio equipaggio approvava la mia scelta, una volta tanto. Ci riunimmo nella cucina della casa di Chubby e la signora Chubby ci servì torta di banane e caffè, mentre suo marito e io concludevamo un accordo d'affari. Per un compenso pattuito a fatica, lui mi avrebbe noleggiato per un periodo indefinito la sua barca da gamberi con i due nuovi motori Evinrude. Lui e Angelo avrebbero formato l'equipaggio, al vecchio salario, e ci sarebbe stato un grosso premio speciale alla fine dell'ingaggio, se avessimo avuto successo. Non entrai in dettagli sullo scopo della spedizione, ma lasciai capire solo che ci saremmo accampati sulle isole più esterne del gruppo e che Sherry e io avremmo lavorato sott'acqua. Quando ci fummo accordati, suggellando il patto con uno schiaffo sulla mano, secondo il tradizionale rito locale, era già pomeriggio inoltrato e la febbre dell'isola aveva cominciato a riaffermare i suoi diritti sulla mia costituzione. La febbre dell'isola impedisce a chi ne è affetto di fare oggi quello che si può ragionevolmente rimandare all'indomani, così lasciammo Chubby e Angelo ai loro preparativi, mentre Sherry e io ci fermammo un attimo da "Ma" Eddy per fare provviste, prima di spingere il camioncino oltre la cresta e giù fra le palme fino a Turtle Bay. «E' una favola» mormorò Sherry quando si trovò sull'ampia veranda del bungalow. «Incredibile.» Scosse la testa guardando le palme dal tronco
arcuato e più avanti la sabbia di un bianco accecante. Io andai a mettermi alle sue spalle, passandole le braccia intorno alla vita e attirandola a me. Lei si appoggiò all'indietro contro il mio corpo, incrociando le braccia sulle mie e stringendomi le mani. «Oh, Harry, non credevo che sarebbe stato così.» In lei si stava operando un cambiamento, lo sentivo chiaramente. Assomigliava a una pianta invernale alla quale sia stato negato troppo a lungo il sole, ma nel suo atteggiamento c'erano delle riserve che non riuscivo a sondare e che mi lasciavano perplesso. Non era una persona semplice, facile da capire. C'erano in lei barriere, conflitti che trasparivano solo come ombre scure negli abissi dei suoi occhi azzurro oceano, ombre come quelle degli squali assassini che nuotano in profondità. Più di una volta, quando credeva di non essere osservata, l'avevo sorpresa a lanciarmi uno sguardo che sembrava a un tempo calcolatore e ostile... come se mi odiasse. Questo era accaduto prima del nostro arrivo sull'isola, ma ora pareva che come la pianta invernale lei stesse sbocciando al sole; come se qui potesse scrollarsi di dosso un peso che prima le aveva oppresso l'animo. Si sfilò le scarpe con un calcio e a piedi nudi piroettò nel cerchio delle mie braccia, sollevandosi poi sulla punta dei piedi per baciarmi. «Grazie, Harry. Grazie di avermi portato qui.» La signora Chubby aveva spazzato i pavimenti, arieggiato la biancheria e disposto fiori nei vasi. Ispezionammo il bungalow mano nella mano e anche se Sherry espresse la sua ammirazione per l'arredamento pratico e il solido mobilio di gusto mascolino, nei suoi occhi mi parve d'intravedere quella scintilla che ogni donna tradisce prima di cominciare a spostare i mobili e a gettar via gli umili tesori amorosamente raccolti da un uomo nel corso della sua esistenza. Quando si fermò a sistemare il vaso di fiori che la signora Chubby aveva piazzato sul vasto tavolo da refettorio in legno di canfora, capii che avremmo visto dei cambiamenti a Turtle Bay... ma strano a dirsi l'idea non mi preoccupava. Di colpo mi accorsi che ero stufo di fare da cuoco e da governante a me stesso. Ci mettemmo il costume da bagno in camera da letto... già, perché nelle poche ore trascorse da quando avevamo fatto l'amore avevo scoperto che Sherry aveva un senso del pudore fin troppo sviluppato, e sapevo che ci sarebbe voluto del tempo prima che riuscissi a convertirla alla disinvolta tenuta da bagno adottata a Turtle Bay. Tuttavia un parziale compenso al temporaneo eccesso di abbigliamento fu rappresentato dalla vista di Sherry North in bikini. Era la prima volta che avevo l'opportunità di guardarla in piena luce. La sua qualità più sorprendente era la grana fine e la luminosità della pelle. Era alta, e anche se le spalle erano troppo larghe e i fianchi un tantino troppo stretti, la vita era sottile e il ventre piatto, con un piccolo ombelico delicatamente cesellato. Sono sempre stato del parere che i turchi avessero ragione a considerare l'ombelico una parte estremamente erotica del corpo femminile: quello di Sherry avrebbe fatto scendere in mare un'intera flotta. Non le piaceva che la guardassi a occhi spalancati. «Oh, nonnina, che occhioni grandi che hai» esclamò, avvolgendosi un asciugamano intorno alla vita come un sarong. Ma poi si avviò a piedi nudi sulla sabbia con un involontario ondulare delle anche e del seno che ammirai con piacere privo di inibizioni. Lasciammo gli asciugamani al limite dell'alta marea e corremmo giù sulla sabbia umida e compatta fino all'orlo del mare limpido e caldo. Lei nuotava con una bracciata sciolta e ingannevolmente lenta, che le imprimeva una tale velocità nell'acqua, che dovetti impegnarmi a fondo per raggiungerla e tenerle testa. Superata la barriera rallentammo il ritmo e lei cominciò ad avere il fiato corto. «Sono fuori esercizio» ansimò. Mentre ci riposavamo, guardai al largo e in quell'attimo un corteo di pinne nere affiorò in superficie in fila per due, puntando veloce verso di noi, e non potei nascondere la mia gioia. «Sei un'ospite di riguardo» le dissi. «Questa è un'accoglienza eccezionale.» I delfini si disposero in circolo intorno a noi come un
branco di cagnolini eccitati, facendo capriole mentre esaminavano con attenzione Sherry. Sapevo che rifuggivano quasi tutti gli estranei ed era raro che si lasciassero toccare al primo incontro, e anche allora solo dopo un assiduo corteggiamento. Invece con Sherry fu amore a prima vista, quasi dello stesso calibro che le avevano dimostrato Chubby e Angelo. Nel giro di un quarto d'ora la stavano già trascinando in una folle corsa in slitta, mentre lei strillava di gioia. Appena scivolava giù dal dorso di un delfino ce n'era un altro che le dava un buffetto col muso, lottando fieramente per ottenere la sua attenzione. Quando alla fine ebbero esaurito le energie di entrambi e tornammo esausti a nuoto verso la spiaggia, uno dei grossi maschi seguì Sherry nell'acqua bassa che le arrivava appena alla vita. Qui si rovesciò sul dorso, con il sorriso fisso da ebete dei delfini, mentre lei gli strofinava il ventre con manciate di sabbia ruvida e bianca. A sera, mentre eravamo seduti sulla veranda a bere insieme un whisky, si sentiva ancora il vecchio maschio fischiare e schiaffeggiare l'acqua con la coda, nel tentativo di attirarla di nuovo in mare. La mattina dopo lottai coraggiosamente per respingere un nuovo assalto della febbre dell'isola e la tentazione di oziare nel letto, specie quando Sherry si svegliò accanto a me con un viso fresco e roseo da bambina, gli occhi chiari, il respiro profumato e le labbra invitanti. Dovevamo controllare l'attrezzatura recuperata dal "Wave Dancer" e ci occorreva un motore per far funzionare il compressore. Chubby partì in missione con un pugno di banconote e tornò con un motore che richiedeva attente cure. Dato che questo mi tenne occupato per il resto del giorno Sherry fu spedita da "Ma" Eddy per l'attrezzatura da campeggio e le provviste. Avevamo fissato un limite massimo di tre giorni per la partenza e i tempi erano stretti. Era ancora buio quando prendemmo posto nella barca, Chubby e Angelo a poppa presso i motori, Sherry e io appollaiati come passeri in cima al carico. L'alba fu un trionfo incandescente di rosso e oro, promessa di un altro giorno torrido, mentre Chubby ci portava a nord su una rotta possibile solo a una barca piccola e a un abile marinaio, sfiorando isole e barriere, a volte con appena quaranta centimetri d'acqua fra la chiglia e le terribili zanne di corallo. Eravamo tutti in uno stato d'animo di attesa. E non credo proprio che fosse la prospettiva di un'enorme ricchezza a eccitarmi, in quel momento... tutto quello di cui avevo davvero bisogno nella vita era un'altra barca buona come il "Wave Dancer"... piuttosto era il pensiero di poter strappare al mare un tesoro raro e prezioso. Se quello che cercavamo fosse stato oro, in verghe o in monete, credo che non mi avrebbe attirato neanche la metà. Il mare era l'eterno avversario e ci trovavamo di fronte per l'ennesima volta. Quando il sole sorse dalle onde i colori smaglianti dell'alba si stemperarono nell'azzurro metallico del cielo e a prua Sherry si alzò per sfilarsi la casacca e i pantaloni di tela jeans. Sotto portava il bikini e riposti i vestiti nella borsa di tela tirò fuori un tubo di lozione solare con la quale cominciò a ungere il suo bel corpo pallido. Chubby e Angelo reagirono con manifesto orrore. Tennero una frettolosa e scandalizzata consultazione, dopo di che Angelo fu spedito a prua con un telone per innalzare un riparo. Seguì un acceso dialogo fra Angelo e Sherry. «Si rovinerà la pelle, signorina Sherry» protestò Angelo, ma lei lo rispedì sconfitto a poppa. Lì i due rimasero seduti come familiari in lutto a una veglia funebre, Chubby col viso contratto in un cipiglio cupo e terribile, Angelo torcendosi le mani per l'ansia. Alla fine non ne poterono più e dopo un'altra discussione sotto voce Angelo fu scelto ancora una volta come emissario e strisciò in avanti sul carico per assicurarsi il mio appoggio. «Non puoi lasciarglielo fare, Harry» supplicò. «Diventerà "scura".» «Credo che questa sia l'intenzione, Angelo» gli risposi. Comunque avvertii Sherry di fare attenzione al sole di mezzogiorno e lei,
obbediente, si coprì quando sbarcammo su una spiaggia per consumare il pranzo. Era metà del pomeriggio quando scorgemmo le vette dei Tre Vecchi e Sherry esclamò: «Proprio come li ha descritti il vecchio ufficiale». Accostammo dalla parte dell'oceano, attraverso lo stretto specchio d'acqua calma fra l'isola e la barriera. Quando passammo davanti all'ingresso del canale attraverso il quale avevo guidato il "Wave Dancer" per sfuggire alla motovedetta di Zinballa, Chubby e io ci scambiammo un sorriso compiaciuto poi mi rivolsi a Sherry e glielo indicai. «Penso d'installare il campo base sull'isola: ci serviremo del varco per raggiungere la zona del naufragio.» «Mi sembra un po' rischioso.» Lei osservò con diffidenza lo stretto canale. «Ci risparmierà ogni giorno un giro molto lungo... e non è brutto come sembra. Una volta ci ho fatto passare a tutta velocità il mio cruiser da quindici metri.» «Devi essere pazzo.» Spinse sulla testa gli occhiali scuri per guardarmi. «Ormai dovresti essere buon giudice in questo campo.» Le sorrisi e lei ricambiò il sorriso. «Sono già un'esperta» si vantò. Il sole le aveva scurito le lentiggini sul naso e sulle guance. Aveva una di quelle pelli tanto rare che non si arrossano né si irritano quando sono esposte al sole. Al contrario, era del tipo che assume subito una tonalità color miele scuro. La marea era alta quando doppiammo la punta settentrionale dell'isola entrando in un'insenatura riparata e Chubby fece approdare la baleniera sulla sabbia a soli venti metri dalla prima fila di palme. Sbarcammo il carico, trasportandolo a una buona distanza dal limite dell'alta marea, e lo ricoprimmo di nuovo con tela cerata per proteggerlo dalla salsedine onnipresente. Quando finimmo era tardi. Il sole aveva perso ogni calore e le ombre lunghe delle palme rigavano il terreno mentre ci avviavamo faticosamente verso l'interno, portando solo i bagagli personali e un contenitore d'acqua dolce da venti litri. Alle spalle del picco più settentrionale, generazioni di pescatori in visita avevano scavato nel pendio ripido una serie di caverne poco profonde. Scelsi una grossa caverna perché facesse da magazzino per le attrezzature e una più piccola come alloggio per Sherry e me. Chubby e Angelo ne scelsero un'altra, a circa cento metri lungo il pendio, schermata da un tratto di macchia. Lasciai Sherry intenta a spazzare il nostro nuovo appartamento con una scopa ricavata da un ramo di palma e a stendere i sacchi a pelo sul materasso gonfiabile, mentre io prendevo la rete da lancio e scendevo alla baia. Era buio quando tornai con una filza di una dozzina di grossi cefali striati. Angelo aveva acceso il fuoco e il bollitore gorgogliava. Mangiammo in un silenzio soddisfatto e poi Sherry e io restammo distesi nella nostra caverna ad ascoltare i grossi granchi violinisti frusciare fra le palme. «E' primordiale» bisbigliò Sherry «come se fossimo il primo uomo e la prima donna della terra.» «Io Tarzan, tu Jane» ribattei, e lei ridacchiò stringendosi a me. All'alba Chubby salpò da solo sulla baleniera per il lungo viaggio di ritorno fino a Saint Mary. Sarebbe tornato il giorno dopo con un carico completo di latte, di benzina e di acqua dolce, sufficienti all'incirca per un paio di settimane. Angelo e io ci sobbarcammo l'ingrato compito di trasportare fino alle caverne tutto l'equipaggiamento e le provviste. Io montai il compressore, riempii le bombole vuote e controllai l'attrezzatura da immersione e Sherry sistemò i nostri vestiti e in generale rese confortevoli i nostri alloggi. Il giorno dopo lei e io girammo per l'isola, scalando le cime ed esplorando le valli e le spiagge sottostanti. Avevo sperato di trovare acqua, una sorgente o un pozzo trascurato dagli altri visitatori, ma naturalmente non ce n'erano. Quei vecchi pescatori astuti non si
lasciavano sfuggire niente. L'estremità meridionale dell'isola, la più lontana dal nostro campo, era un'impenetrabile palude salmastra, racchiusa fra la montagna e il mare. Costeggiammo ettari di fango mefitico e folta erba palustre. Nell'aria pesante aleggiava un fetore di vegetazione putrefatta e di pesci morti. Colonie di granchi rossi e violacei avevano disseminato le distese di fango con i fori delle loro tane, da cui sbirciavano con le antenne al nostro passaggio. Fra le mangrovie gli aironi accudivano ai loro piccoli, appollaiati con una sola zampa lunga sui nidi arruffati, e a un certo punto sentii uno spruzzo e vidi guizzare in un acquitrino qualcosa che poteva essere solo un coccodrillo. Lasciammo le paludi malariche e salimmo più in alto, poi ci facemmo strada fra i boschetti di arbusti verso il picco meridionale. Sherry decise di scalare anche questo. Tentai di dissuaderla, perché era il più alto e ripido. Le mie proteste non sortirono nessun effetto e anche dopo aver raggiunto una stretta cengia sotto la parete sud della cima lei insistette per continuare. «Se il secondo ufficiale della "Dawn Light" ha trovato una via fino alla cima, ci salirò anch'io» annunciò. «Da lì avresti la stessa visuale che dalle altre vette» sottolineai. «Non è questo il punto.» «Allora qual è?» chiesi, e lei mi scoccò l'occhiata di commiserazione riservata di solito ai bambini e ai deficienti, si rifiutò di degnarmi di una risposta e continuò la prudente avanzata laterale lungo la cengia. Sotto di noi c'era un salto di almeno sessanta metri e se nel mio formidabile arsenale di talento e coraggio c'è una lacuna, è che soffro di vertigini. D'altra parte sarei rimasto in equilibrio su una gamba sola in cima alla cattedrale di San Paolo piuttosto che confessarlo alla signorina North e così la seguii con grande riluttanza. Per fortuna pochi passi più avanti lei lanciò un grido di trionfo e dalla cengia sbucò in una stretta fessura verticale che solcava la parete. La frattura della roccia aveva formato un camino facile da scalare, nel quale la seguii con sollievo. Quasi subito Sherry lanciò un altro grido. «Oh, buon Dio, Harry, guarda!» e mi indicò un punto riparato della parete, in fondo alla rientranza buia. Tanto tempo prima qualcuno aveva pazientemente inciso un'iscrizione sulla superficie piatta della pietra. A. BARLOW NAUFRAGATO IN QUESTO LUOGO 14 OTTOBRE 1858 Mentre la fissavo, sentii la mano di Sherry cercare la mia e stringerla cercando conforto. L'intrepida alpinista era sparita, e la sua espressione pareva quasi spaventata mentre osservava la scritta. «Dà i brividi» sussurrò. «E' come se fosse stata scritta ieri... non tanti anni fa.» Per la verità le lettere erano rimaste al riparo dalla corrosione, tanto che sembravano incise da poco, e io mi guardai intorno come se mi aspettassi di vedere il vecchio marinaio che ci spiava. Quando alla fine scalammo il ripido camino fino alla sommità eravamo ancora soggiogati da quel messaggio che giungeva da un passato lontano. Restammo seduti lì per quasi due ore a osservare la risacca frangersi in lunghe linee bianche sul Gunfire Reef. Il varco nella barriera e la grande fossa scura del Break apparivano nitidissime dal nostro osservatorio, mentre il percorso dello stretto canale fra i coralli si distingueva a malapena. Da qui Arthur Barlow aveva osservato l'agonia della "Dawn Light", l'aveva vista spezzarsi sotto l'impeto dell'alta marea. «Ora il tempo lavora contro di noi, Sherry» le dissi, mentre il clima di vacanza degli ultimi giorni evaporava. «Sono passate due settimane da quando Manny Resnick è salpato col "Mandrake". Ormai non sarà lontano da Città del Capo. Quando arriverà lì lo sapremo.
«Come?» «Ho un vecchio amico che vive laggiù. E' socio dello Yacht Club, sorveglierà il traffico e mi telegraferà appena il "Mandrake" attracca. Guardai giù verso il pendio posteriore del picco e per la prima volta notai la nebbiolina azzurra del fumo che si levava fra le cime delle palme, dal fuoco di Angelo. «Finora in questo viaggio sono stato un po' avventato» borbottai. «Ci siamo comportati come un gruppo di scolaretti a un picnic. D'ora in poi dovremo rinforzare i sistemi di sicurezza... proprio oltre il canale c'è il mio vecchio amico Suleiman Dada e il "Mandrake" entrerà in queste acque prima di quanto mi farebbe comodo. D'ora in poi dovremo tenerci ben defilati.» «Quanto tempo ci servirà, secondo te?» chiese Sherry. «Non so, tesoro... ma sta' sicura che sarà più di quanto sembri possibile. Siamo condizionati dalla necessità di traghettare tutta l'acqua e il carburante da Saint Mary e potremo lavorare nella fossa solo per poche ore a ogni cambio di marea, quando le condizioni e la profondità dell'acqua ce lo consentiranno. Chissà che cosa troveremo laggiù, una volta cominciato, e per finire potremmo scoprire che i pacchetti del colonnello erano conservati nella stiva di poppa della "Dawn Light", quella parte della nave che è finita in mare aperto. Se è così, allora puoi dire addio a tutto.» «Tutto questo l'abbiamo già rimuginato, vecchio pessimista» mi rimbrottò Sherry. «Pensa a qualcosa di bello.» Così facemmo, finché alla fine non scorsi il minuscolo puntino scuro, come una pulce d'acqua sulla superficie d'ottone del mare, Chubby di ritorno da Saint Mary con la baleniera. Scendemmo dalla vetta e ci affrettammo ad andargli incontro. Stava giusto doppiando la punta ed entrando nella baia quando sbucammo sulla spiaggia. La baleniera sprofondava nell'acqua sotto il pesante carico di carburante e acqua potabile. E Chubby era ritto a poppa, grosso, solido ed eterno come una roccia. Quando agitammo la mano e gridammo, piegò la testa con aria solenne, ricambiando il nostro saluto. La signora Chubby aveva mandato una torta di banane per me e un cappello di fronde di palma intrecciate per Sherry. Evidentemente Chubby le aveva riferito il comportamento di Sherry, e la sua espressione divenne ancor più lugubre del solito quando si accorse che il danno era già fatto. Sherry aveva assunto il colore di un biscotto a media cottura. Al calar della sera avevamo già trasportato fino alla caverna cinquanta latte. Poi ci riunimmo accanto al fuoco dove Angelo cuoceva una zuppa isolana di molluschi che aveva pescato quel pomeriggio nella laguna. Era tempo di raccontare al mio equipaggio il vero motivo della nostra spedizione. Di Chubby potevo fidarmi che non avrebbe rivelato nulla, anche sotto la tortura, ma avevo atteso che Angelo fosse confinato sull'isola prima di dirglielo. Era noto per aver commesso le più mostruose indiscrezioni... di solito nel tentativo di impressionare una delle sue ragazze. Ascoltarono in silenzio la mia spiegazione e quando ebbi finito restarono muti. Angelo aspettava l'imbeccata da Chubby... e lui non era tipo da scoprire le sue batterie. Sedeva fissando accigliato il fuoco e il suo viso pareva una di quelle maschere di rame provenienti da un tempio azteco. Quando ebbe creato la giusta atmosfera teatrale di suspense, frugò nella tasca posteriore e ne cavò fuori un borsellino, così vecchio e logoro che il cuoio era quasi consunto. «Quand'ero ragazzo e pescavo nella fossa a Gunfire Reef, presi una grossa cernia maschio. Quando gli aprii la pancia ci trovai dentro questo.» Estrasse dal borsellino un disco rotondo. «Da allora l'ho tenuto come portafortuna, anche quando un ufficiale di una nave mi ha offerto dieci sterline.» Mi tese il disco e io lo esaminai alla luce del fuoco. Era una moneta d'oro della misura di uno scellino. Il verso era coperto di caratteri orientali che non riuscii a decifrare ma il recto portava uno stemma, due leoni rampanti che sostenevano uno scudo e una testa con una cotta di maglia. Lo stesso disegno che avevo visto sulla campana di bronzo
della nave a Big Gull. La legenda sotto lo scudo diceva: AUS: REGIS & SENAT: ANGLIA, mentre sul bordo era inciso il titolo orgoglioso ENGLISH EAST INDIA COMPANY. «Mi ero sempre ripromesso di tornare a Gunfire Break... pare che questa sia la volta buona» riprese Chubby, mentre io esaminavo minuziosamente la moneta. Non c'era data, ma non avevo dubbi che fosse un "mohur" d'oro della Compagnia. Avevo letto della moneta, ma non l'avevo mai vista. «Secondo me, quella vecchia cernia l'ha vista luccicare e l'ha inghiottita» continuò Chubby. «Dev'essergli rimasta incastrata nello stomaco finché non l'ho pescata.» Gli restituii la moneta. «Be', Chubby, allora questo dimostra che c'è un po' di verità nella mia storia.» «Sembra di sì, Harry» ammise, e io andai nella caverna a prendere i disegni della "Dawn Light" e una lanterna a gas. Studiammo i disegni. Il nonno di Chubby aveva navigato come gabbiere su una nave della Compagnia, il che faceva di Chubby una specie di esperto. Lui era dell'opinione che tutto il bagaglio dei passeggeri e altri colli più piccoli dovevano essere stivati vicino al castello di prua, e io non mi sognai di discutere con lui. Mai gettarsi il malocchio da sé, come Chubby mi aveva ammonito tante e tante volte. Quando tirai fuori le tavole delle maree e cominciai a calcolare la differenza d'orario per la nostra latitudine, Chubby sorrise davvero. Anche se era difficile riconoscere il suo sorriso come tale. Sembrava più che altro un sogghigno di scherno, perché Chubby non aveva fiducia nelle file di cifre stampate sui libri. Preferiva giudicare le maree con l'orologio marino che aveva in testa. L'avevo sentito indicare con precisione le maree con una settimana di anticipo senza affidarsi a nessun'altra fonte. «Credo che avremo un'alta marea all'una e quaranta di domani» annunciai. «Amico, per una volta ci hai azzeccato» ammise Chubby. Senza gli enormi carichi che le erano stati imposti negli ultimi tempi, la baleniera sembrava volare. Spinta dai due Evinrude si lanciò nello stretto canale attraverso la barriera come un furetto in una tana di conigli. Angelo era ritto a prua e faceva segnalazioni con le mani per indicare gli ostacoli sott'acqua a Chubby che stava a poppa. Avevamo scelto un momento propizio e Chubby affrontava con sicurezza la debole risacca. La piccola baleniera alzava la testa e scalciava sulle onde, spruzzandoci di schiuma. Il passaggio era più stretto che pericoloso e Sherry strillava e rideva eccitata. Chubby ci portò sparati attraverso la strozzatura fra le scogliere di corallo, con qualche metro di margine ai fianchi perché la baleniera era larga la metà del "Wave Dancer", poi proseguimmo zigzagando nel budello tortuoso del canale e infine sbucammo nella fossa. «Non serve tentare di gettare l'ancora» grugnì Chubby «qui è profondo. La barriera scende a picco. Sotto la chiglia abbiamo quaranta metri e il fondo è un disastro.» «Come farai a tenerla ferma?» gli chiesi. «Qualcuno deve restare ai motori e manovrare.» «Berrà un sacco di carburante, Chubby.» «Ho detto forse il contrario?» borbottò lui. Con la marea appena a metà, di tanto in tanto un'ondata si riversava oltre la barriera. Era appena una cascatella spumeggiante che scendeva nella fossa, coprendo la superficie di bollicine come in un bicchiere di birra. Tuttavia col montare della marea anche la risacca sarebbe diventata più forte. Ben presto sarebbe stato poco sicuro restare nella fossa e avremmo dovuto filarcela. Avevamo circa due ore per lavorare, in base allo studio della marea. Era un'altalena di troppo o troppo poco. Con la bassa marea c'era acqua insufficiente per affrontare l'ingresso del canale, con l'alta marea la risacca che superava la barriera poteva travolgere la baleniera scoperta. Dovevamo valutare con cura ogni mossa. Ormai ogni minuto era prezioso. Sherry e io avevamo già indossato la muta con la maschera sulla fronte e mancava solo che Angelo ci
sollevasse sulla schiena il pesante respiratore e stringesse l'imbragatura di cinghie. «Pronta, Sherry?» le chiesi, e lei annuì, il boccaglio già stretto in bocca. «Andiamo.» Ci lasciammo cadere oltre la fiancata e sprofondammo insieme sotto lo scafo a forma di sigaro della baleniera. Sopra di noi la superficie era uno specchio d'argento vivo e l'acqua che si rovesciava oltre la barriera riempiva lo strato superiore d'acqua di un'eruzione di bollicine di champagne. Scesi, tenendomi al livello di Sherry. Era a suo agio e respirava col ritmo lento del subacqueo esperto, che economizza l'aria e ossigena a fondo il corpo. Mi sorrise, le labbra deformate dal boccaglio e gli occhi dilatati dalla maschera di vetro, e sollevando i pollici mi segnalò che andava tutto bene. Puntai a testa in giù verso il fondo e cominciai a pedalare con le pinne, scendendo in fretta, restio a sprecare aria in una discesa lenta. La fossa si apriva ai nostri piedi come un abisso tenebroso. Le pareti di corallo circostanti intercettavano gran parte della luce e le davano un aspetto spettrale. L'acqua era fredda e tetra e sentii una fitta di timore quasi superstizioso. C'era qualcosa di sinistro in quel luogo, come se una forza maligna fosse in agguato negli abissi. Incrociai le dita lungo i fianchi e procedetti, seguendo la parete verticale. Il corallo era disseminato di caverne buie e sporgenze che aggettavano dalle pareti inferiori. Corallo di centinaia di qualità diverse, che sporgeva in forme bizzarre e affascinanti, tinte di un intero spettro di colori. Alghe e piante marine ondeggiavano e fluttuavano col movimento delle acque, come le mani di mendicanti supplichevoli o le criniere di cavalli selvaggi. Guardai Sherry. Era vicina, alle mie spalle, e sorrise di nuovo. Evidentemente non condivideva affatto il mio senso di paura. Proseguimmo. Da sporgenze discrete spuntavano le lunghe antenne gialle dei gamberi giganti, protendendosi con movimenti cauti, avvertendo la nostra presenza nell'acqua agitata. Nuvole di pesci corallini multicolori fluttuavano lungo la parete, scintillando come gemme nella luce azzurra sempre più tenue che filtrava negli abissi della fossa. Sherry mi batté sulla spalla e ci fermammo a sbirciare in una caverna scura e profonda. Due grandi occhi da gufo ci scrutarono di rimando e quando i miei occhi si furono abituati alla penombra distinsi la testa gargantuesca di una cernia. Era screziata come un uovo di piviere, chiazze brune e nere su uno sfondo beige-grigio, e la bocca era un ampio squarcio fra le grosse labbra gommose. Mentre lo guardavamo, l'enorme pesce assunse un atteggiamento di difesa. Si dilatò, aumentando la sua circonferenza già impressionante, allargò le branchie, gonfiò la testa e finalmente aprì la bocca, rivelando una voragine che avrebbe potuto inghiottire un uomo intero, un gozzo cavernoso, tappezzato di denti acuminati. Sherry mi strinse forte la mano. Ci ritraemmo dalla caverna, e il pesce chiuse la bocca e si placò. In qualunque momento volessi rivendicare il record mondiale nella pesca della cernia, sapevo dove venire a cercare. Anche tenendo conto dell'effetto d'ingrandimento dell'acqua, giudicai che doveva pesare sui quattrocento chili. Proseguimmo la discesa lungo la parete di corallo e tutt'intorno a noi il meraviglioso mondo marino ribolliva di vita e di bellezza, di morte e di pericolo. Il minuscolo pesce damigella se ne stava al riparo fra i petali velenosi dell'anemone di mare gigante, immune ai suoi dardi mortali; una murena scivolò furtiva lungo la scogliera come un lungo pennone da combattimento nero, raggiunse la sua tana e si volse a minacciarci con i temibili denti frastagliati e gli occhi lucenti da serpente. Scendemmo, pedalando con le pinne, e finalmente avvistai il fondo. Era una giungla scura di vegetazione marina, densi steli di bambù di mare e alberi di corallo pietrificato sporgevano dal fogliame soffocante, mentre tumuli e collinette di corallo qua e là erano modellati in forme che stuzzicavano l'immaginazione e nascondevano chissà quali
sorprese. Restammo sospesi su questa giungla impenetrabile e controllai il passare del tempo con il cronometro e il profondimetro. Mi trovavo a trentasei metri e cinquanta e il tempo trascorso era di cinque minuti e quaranta secondi. Segnalai a Sherry di restare dov'era, scesi fino alle cime della giungla marina e con cautela scostai il fogliame freddo e viscido. Attraversandolo emersi in un'area sottostante relativamente libera. Era una zona crepuscolare, ricoperta da un tetto di bambù e popolata da strane tribù di pesci e animali marini. Capii subito che esplorare il fondo della fossa non sarebbe stato un compito semplice. La visibilità qui era ridotta a tre metri o meno e la zona che dovevamo esaminare si estendeva in totale per un ettaro all'incirca. Decisi di portare giù Sherry con me: per cominciare avremmo fatto un passaggio lungo la base della scogliera, restando appaiati e in contatto visivo. Gonfiai i polmoni e sfruttai la spinta ascensionale per sollevarmi dal fondo, uscendo dal fogliame allo scoperto. All'inizio non vidi Sherry e sentii una fuggevole fitta di apprensione. Poi scorsi la corrente d'argento delle sue bollicine innalzarsi contro la parete nera di corallo. Si era allontanata, ignorando le mie istruzioni, e ne fui seccato. Nuotai verso di lei ed ero a sei metri quando mi accorsi di cosa stava facendo. L'irritazione cedette istintivamente il passo allo choc e all'orrore. Era cominciata la lunga serie di incidenti e contrattempi che dovevano perseguitarci a Gunfire Break. Dalla scogliera di corallo sporgeva una bella struttura a forma di felce, dalle curve aggraziate, dai folti rami di un rosa pallido che sfumava nel cremisi. Sherry ne aveva staccato un grosso ramo. Lo teneva fra le mani nude e proprio mentre mi precipitavo verso di lei vidi le sue gambe sfiorare leggermente le braccia rosse del temibile corallo di fuoco. L'afferrai per i polsi e la strappai dalla pianta bellissima e crudele. Le affondai i pollici nella carne, scuotendole con violenza le mani, costringendola a mollare il terribile carico. Ero colto dalla frenesia, sapendo che dalle loro cellette nei rami di corallo decine di migliaia di minuscoli polipi le stavano iniettando nelle carni i loro acuminati dardi velenosi. Lei mi fissava coi grandi occhi sgomenti, rendendosì conto che era successo qualcosa di grave, ma senza capire ancora cosa fosse. La strinsi e cominciai subito l'ascesa. Nonostante l'ansietà stetti bene attento a rispettare le regole elementari della risalita, senza mai oltrepassare le bollicine, ma muovendomi con loro a velocità costante. Controllai l'orologio: erano passati otto minuti e trenta secondi. Questo significava tre minuti a quaranta metri. Calcolai in fretta le soste di decompressione, ma ero intrappolato fra l'incudine della minaccia di embolia e il martello dell'imminente agonia di Sherry. Il dolore la colpì prima che arrivassimo a metà strada dalla superficie; il suo viso si contorse e il respiro si tramutò nell'ansito superficiale e roco della sofferenza acuta, finché temetti che potesse compromettere l'efficienza meccanica della valvola di alimentazione, comprimendola tanto che non poteva più fornirle aria. Cominciò a contorcersi nella mia stretta e le palme delle mani le si arrossarono, mentre segni di un rosso violaceo si levarono sulle cosce come cicatrici di frustate... e io ringraziai Dio per la protezione che la muta aveva assicurato al torso. Quando la trattenni per la sosta di decompressione a quattro metri e mezzo dalla superficie, lottò selvaggiamente, scalciando e torcendosi nella mia stretta. Io interruppi la sosta prima che potei e la portai in superficie. Nell'attimo che le nostre teste sbucarono fuori sputai il boccaglio e gridai: «Chubby! Presto!». La baleniera era a cinquanta metri di distanza ma il motore pulsava con ritmo costante e Chubby virò di scatto. Quando la barca puntò verso di noi cedette il timone ad Angelo e si arrampicò a prua, sovrastandoci come un enorme colosso bruno.
«E' corallo di fuoco, Chubby» gridai. «E' stata colpita gravemente. Tirala fuori!» Chubby si sporse, l'afferrò alla nuca per l'imbragatura di cinghie e la sollevò di peso dall'acqua; lei penzolò dalle sue grosse mani brune come un cagnolino annegato. Scuotendomi dalle spalle le cinghie lasciai in acqua il respiratore perché Angelo lo recuperasse e, quando mi arrampicai oltre la fiancata, Chubby aveva disteso Sherry sulle assi del tavolato ed era chino su di lei, tenendola fra le braccia per placare i suoi spasimi e calmare i gemiti e i singhiozzi agonizzanti. Trovai la cassetta del pronto soccorso sotto una pila di attrezzature sciolte a prua, ma avevo le mani inceppate dalla fretta, nel sentire il pianto di Sherry alle mie spalle. Spezzai una fiala di morfina e riempii una siringa con il liquido chiaro. Ormai ero tanto furioso quanto preoccupato. «Maledizione» scattai «come ti è venuta in mente un'idiozia del genere?» Non riuscì a rispondermi, le sue labbra tremanti erano bluastre, spruzzate di saliva. Le pizzicai la coscia e vi conficcai l'ago iniettandole il fluido nella carne. Continuai furioso. «Corallo di fuoco... Dio mio, altro che esperta di conchiglie. Non c'è un ragazzo sull'isola che sia tanto stupido.» «Non ci ho pensato, Harry» ansimò lei. «Non ci ho pensato...» ripetei. Il suo dolore mi pungolava a nuovi eccessi di collera. «Non credevo che avessi qualcosa nella testa con cui pensare.» Ritirai l'ago e rovistai nella cassetta cercando lo spray antistaminico. «Dovrei darti un sacco di botte...» Chubby alzò gli occhi su di me. «Harry, dì solo un'altra parola del genere alla signorina Sherry e io... ti spacco la testa.» Sorpreso solo a metà, capii che diceva sul serio. L'avevo già visto in azione e sapevo che era una cosa da evitare, così gli risposi: «Invece di chiacchierare tanto, che ne diresti di filarcela da qui e tornare sull'isola?» «Tu trattala come si deve, amico, altrimenti ti arrostisco le chiappe al punto di farti rimpiangere di non esserci finito tu su un banco di corallo di fuoco al posto suo, capito?» Ignorai questa risposta da ammutinato e spruzzai quei brutti segni scarlatti, ricoprendoli con uno strato protettivo di calmante, poi la sollevai fra le braccia e la tenni così mentre la morfina leniva la terribile agonia bruciante delle punture e Chubby ci riconduceva all'isola. Quando trasportai Sherry fino alla caverna, lei era già in stato semicomatoso per la droga. Per tutta la notte la vegliai, aiutandola a superare la violenta febbre, accompagnata da brividi e sudore, prodotta dal terribile veleno. Una volta sola gemette e bisbigliò quasi in delirio: «Mi dispiace, Harry. Non lo sapevo. E' la prima volta che m'immergo in acque coralline. Non l'ho riconosciuto». Nemmeno Chubby e Angelo dormirono. Sentii il mormorio delle loro voci accanto al fuoco e ogni ora uno dei due tossicchiava fuori dell'ingresso della caverna e poi chiedeva con ansia: «Come va, Harry?». Al mattino Sherry aveva superato gli effetti peggiori dell'avvelenamento e le punture si erano trasformate in una brutta eruzione di vesciche. Ma dovettero passare oltre trentasei ore prima che uno di noi si sentisse in vena di affrontare di nuovo la fossa, e allora la marea era contraria. Fu necessario aspettare un altro giorno. Ore preziose ci sfuggivano. Mi pareva di vedere il "Mandrake" che si avvicinava; mi era sembrata una barca veloce e potente e ogni giorno sprecato assottigliava il vantaggio su cui avevo fatto conto. Il terzo giorno tornammo nella fossa. Era metà del pomeriggio e corremmo qualche rischio nel canale, passando in anticipo sul flusso della marea, con pochi centimetri di margine sugli ostacoli aguzzi di corallo. Sherry era ancora in disgrazia e con le mani fasciate di bende
all'acriflavina rimase sulla baleniera a tenere compagnia ad Angelo. Chubby e io c'immergemmo insieme, scendendo veloci e soffermandoci sul bambù ondeggiante solo il tempo necessario a fissare la prima boa di posizione. Avevo deciso che era necessario perlustrare sistematicamente il fondo della fossa. Avrei diviso l'intera zona in quadrati, ancorando delle boe gonfiabili sulla foresta marina con un sottile cavo di nylon. Lavorammo per un'ora senza trovare traccia del relitto, per quanto ci fossero masse di corallo coperte di vegetazione marina che meritavano indagini più attente. Le segnai su una lavagnetta da subacquei attaccata alla coscia. Alla fine dell'ora le riserve d'aria nelle due bombole da due metri cubi e mezzo erano sgradevolmente esigue. Chubby consumava più aria di me, perché era molto più robusto e la sua tecnica mancava di finezza, così controllavo regolarmente il suo indicatore di pressione. Lo portai su e fui particolarmente attento alle soste di decompressione, anche se Chubby mostrava la solita impazienza. A differenza di me, non aveva mai visto un subacqueo salire troppo in fretta, così che il sangue comincia a frizzargli nelle vene come champagne. L'agonia che ne risulta può rendere invalido un uomo e una bolla d'aria annidata nel cervello può provocare un danno permanente. «Niente?» gridò Sherry appena emergemmo, e feci pollice verso mentre nuotavamo verso la baleniera. Bevemmo una tazza di caffè dal thermos e io fumai un sigaro isolano mentre ci riposavamo e chiacchieravamo. Eravamo tutti un po' delusi che il successo non fosse stato immediato, ma cercai di tenere alto il morale, anticipando il primo ritrovamento. Chubby e io montammo le valvole di alimentazione sulle bombole ricaricate di fresco e scendemmo di nuovo. Stavolta mi sarei concesso solo quarantacinque minuti di lavoro a quaranta metri, perché gli effetti dell'assorbimento di gas nel sangue sono cumulativi e le immersioni ripetute a grande profondità aumentano il pericolo. Lavorammo con prudenza in mezzo alla foresta di steli di bambù e sui blocchi di corallo rovesciati, esplorando le gole e le fratture, fermandoci ogni pochi minuti per annotare la posizione di aspetti interessanti, poi proseguendo, avanti e indietro a tappe regolari, fra le boe di posizione. Il tempo trascorso era di quarantatré minuti e lanciai un'occhiata a Chubby. Nessuna delle mute gli si adattava, così s'immergeva nudo, a eccezione di un antiquato costume da bagno di lana nera. Pareva uno dei miei amici delfini, solo non altrettanto aggraziato, mentre si faceva strada nel folto della vegetazione. Sorrisi al pensiero e stavo per voltarmi quando un raggio di luce filtrò per caso dal baldacchino sopra di noi e colpì qualcosa di bianco sul fondo, ai piedi di Chubby. Mi avvicinai in fretta ed esaminai l'oggetto. All'inizio pensai che fosse un frammento di conchiglia, ma poi notai che era troppo spesso e regolare di forma. Mi avvicinai ancora e vidi che era incastonato in uno strato di corallo in disfacimento. Tastai la cintura di tela cercando la mia piccola leva, la estrassi dal fodero e staccai il blocco di corallo che conteneva l'oggetto bianco. Il blocco pesava circa due chili e mezzo e lo feci scivolare nella sacca di rete. Chubby mi osservava e io gli detti il segnale della risalita. «Niente?» esclamò Sherry appena emergemmo. L'esilio sulla baleniera cominciava evidentemente a darle sui nervi. Era irritabile e impaziente ma io non l'avrei lasciata immergere finché le lesioni suppurate sulle mani e sulle cosce non fossero guarite. Sapevo con quanta facilità le infezioni secondarie possano attecchire su quelle piaghe aperte, in condizioni simili, e la imbottivo di antibiotici tentando di tenerla tranquilla. «Non so» risposi mentre nuotavamo verso il battello e le tendevo la rete. La prese con impazienza e mentre noi salivamo a bordo e ci sfilavamo l'equipaggiamento la osservò da vicino, rigirandola fra le mani. I frangenti si abbattevano già con violenza sulla barriera, ribollendo nella fossa, e la baleniera oscillava e ballonzolava nell'acqua agitata. Angelo trovava difficile tenerla in posizione; era ora di andarsene. Avevamo trascorso sott'acqua il tempo massimo che ritenevo sicuro per un giorno, e fra poco ormai la possente marea oceanica
avrebbe cominciato a scavalcare la barriera corallina inondando la fossa. «Portaci a casa, Chubby» gridai, e lui si diresse ai motori. Tutta la nostra attenzione era concentrata sulla rischiosa traversata di ritorno fino al canale. Con la piena della marea le onde si gonfiarono sotto la nostra poppa, sollevandoci in alto, passando sotto lo scafo a velocità tale che la nostra velocità relativa si ridusse a zero e la direzione della baleniera fu invertita, tanto che rischiammo di straorzare e urtare con la murata contro le pareti di corallo del canale. Tuttavia, l'abilità marinaresca di Chubby non vacillò mai, e alla fine sbucammo nelle acque riparate dietro la barriera e puntammo verso l'isola. Ora potevo dedicarmi all'oggetto che avevo recuperato dalla fossa. Con Sherry che mi dava un sacco di consigli di cui non avevo davvero bisogno e mi raccomandava di usare prudenza, disposi il blocco di corallo sul banco dei remi e vibrai un colpo secco con la leva. Si divise in tre pezzi e rivelò un certo numero di oggetti che erano stati inglobati e protetti dai polipi del corallo vivo. C'erano tre oggetti rotondi, grigi, delle dimensioni di biglie, e io ne estrassi uno dal blocco di corallo e lo soppesai. Era pesante. Lo tesi a Sherry. «Secondo te?» le chiesi. «Palle di moschetto» rispose senza esitazione. «Certo» ammisi. Avrei dovuto riconoscerle e feci ammenda identificando l'oggetto seguente. «Una chiavetta d'ottone.» «Che genio!» esclamò lei con ironia, e io la ignorai mentre procedevo con delicatezza a liberare l'oggetto bianco che aveva colpito per primo la mia attenzione. Alla fine venne via e lo rigirai per esaminare il disegno azzurro impresso su una faccia. Era un frammento di porcellana bianca smaltata, un pezzetto del bordo di un piatto decorato con uno stemma. Metà del disegno mancava, ma riconobbi subito il leone rampante e le parole SENAT: ANGLIA. Era di nuovo lo stemma della Compagnia delle Indie, proveniente da un servizio di piatti della nave. Lo passai a Sherry e a un tratto capii come doveva essere andata. Le riferii la mia versione e lei ascoltò in silenzio, accarezzando il pezzetto di porcellana. «Quando alla fine i frangenti hanno danneggiato la poppa e il corallo l'ha squarciata a metà, dev'essere sprofondata al centro e tutto il pesante carico si dev'essere spostato, sfondando la paratia interna. Si dev'essere riversato tutto fuori, cannoni e munizioni, piatti e argenteria, fiasche e tazze, monete e pistole, sparpagliandosi sul fondo della cassa, una ricca semina di manufatti umani che i coralli hanno risucchiato e assorbito.» «E le casse del tesoro?» domandò Sherry. «Saranno cadute fuori dello scafo anche quelle?» «Non lo so» ammisi, e Chubby, che aveva ascoltato con attenzione, sputò fuori bordo e borbottò. «La stiva di prua aveva sempre una doppia paratia di tavole di quercia spesse otto centimetri, per impedire al carico di spostarsi in una tempesta. Tutto quello che c'era allora, è ancora lì dentro.» «E quell'opinione ti sarebbe costata dieci ghinee in Harley Street» dissi a Sherry strizzandole l'occhio. Lei rise e si rivolse a Chubby. «Non so che cosa faremmo senza di lei, Chubby caro» e lui assunse un cipiglio terribile e scoprì a un tratto qualcosa all'orizzonte che assorbì la sua attenzione. Fu solo più tardi, dopo che Sherry e io avemmo fatto la nostra nuotata in una delle spiagge appartate e ci fummo cambiati e mentre eravamo seduti intorno al fuoco a bere Chivas Regal e a mangiare gamberi freschi pescati nella laguna, che l'esaltazione dei primi piccoli ritrovamenti svanì... e io cominciai a considerare a mente fresca le implicazioni della mia ipotesi che la "Dawn Light" fosse ridotta in pezzi, disseminati nella serra marina della fossa. Se Chubby aveva torto e le casse del tesoro, con il loro enorme peso d'oro, avevano sfondato le pareti della stiva ed erano ricadute fuori, allora cercarle sarebbe stato un compito interminabile. Quel giorno
avevo visto duecento blocchi e collinette di corallo, ognuno dei quali avrebbe potuto nascondere una parte del trono di tigre dell'India. Se aveva ragione lui e la stiva aveva trattenuto il carico, i polipi corallini dovevano essersi estesi su tutta la sezione prodiera del vascello mentre giaceva sul fondo, coprendo il fasciame con strati su strati di pietra calcificata, finché non era diventato un deposito blindato per il tesoro, nascosto da una cortina di piante marine. Discutemmo a fondo, cominciando a valutare l'enormità del compito che ci eravamo imposti, e concludemmo che la nave era affondata in due parti distinte. Dovevamo prima ritrovare e identificare le casse del tesoro e poi strapparle all'abbraccio tenace del mare. «Sai di che cosa avremo bisogno, vero, Chubby?» chiesi, e lui annuì. «Hai ancora quelle due casse?» Mi vergognavo a nominare la parola gelignite davanti a Sherry. Mi ricordava con troppa nitidezza il progetto per cui Chubby e io avevamo ritenuto necessario mettere in serbo grosse quantità di esplosivo ad alto potenziale. Era stato tre anni prima, durante una stagione magra in cui avevo un bisogno disperato di contanti per tenere a galla me stesso e il "Dancer". Nemmeno stiracchiando al massimo l'interpretazione della legge il nostro progetto poteva essere considerato legale e avrei preferito chiudere quel capitolo e dimenticarlo... ma adesso la gelignite ci serviva. Chubby scosse la testa. «Amico, quella roba ha cominciato a sudare come uno stivatore sotto la canicola. C'era di che far saltare in aria l'isola solo ruttando a meno di quindici metri.» «Che cosa ne hai fatto?» «Angelo e io l'abbiamo portata al largo nel Canale di Mozambico e le abbiamo fatto fare un bel bagno.» «Ce ne serviranno almeno un paio di casse. Ci vorrà una bella esplosione per far saltare quei grossi blocchi che si trovano laggiù.» «Parlerò di nuovo col signor Coker... Lui dovrebbe essere capace di provvedere.» «Sì, Chubby. La prossima volta che vai a Saint Mary di' a Fred Coker di procurarcene tre casse.» «Che ne dici delle granate che abbiamo recuperato dal "Wave Dancer"?» chiese Chubby. «Non vanno» risposi. Non volevo che il mio necrologio suonasse così: "L'uomo che tentò di far saltare delle bombe a mano MK 7 a quaranta metri di profondità". La mattina dopo mi svegliarono il silenzio innaturale e il calore dell'aria satura di elettricità statica. Rimasi disteso ad ascoltare, ma perfino i granchi violinisti tacevano e il perenne fruscio delle fronde di palma si era acquietato. L'unico suono era il respiro basso e lieve della donna accanto a me. La baciai leggermente sulla guancia e riuscii a sfilarle il braccio di sotto la testa senza svegliarla. Sherry si vantava di non usare mai il cuscino, faceva male alla spina dorsale, mi aveva spiegato con aria virtuosa, ma questo non le impediva di usare come surrogato qualsiasi parte conveniente della mia anatomia. Uscii lentamente dalla caverna, massaggiandomi il braccio per tentare di riattivare la circolazione, e mentre offrivo una libagione alla mia palma preferita studiai il cielo. Era un'alba pallida, velata da una foschia cupa che copriva le stelle. L'aria surriscaldata gravava pesante sul terreno, senza un filo di vento, e la pelle mi formicolava nell'atmosfera tesa. Quando tornai, Chubby stava alimentando il fuoco con qualche ramoscello. Alzò gli occhi e confermò la mia diagnosi. «Il tempo si sta guastando.» «Che cosa succederà, Chubby?» e lui si strinse nelle spalle. «Il barometro è sceso a ventotto gradi, ma lo sapremo a mezzogiorno» e riprese a sbuffare e soffiare sul fuoco. Il tempo infastidiva anche Sherry. Aveva i capelli madidi di sudore alle tempie e scattò irritata contro di me quando le cambiai le medicazioni, ma poco dopo mi si avvicinò alle spalle mentre mi vestivo e mi posò la guancia contro la schiena nuda.
«Mi spiace, Harry, è solo che stamattina il tempo è così afoso e chiuso» e mi passò le labbra sulla schiena, sfiorando con la lingua la spessa cicatrice in rilievo. «Mi perdoni?» mormorò. Chubby e io c'immergemmo nella fossa alle undici di quella mattina. Eravamo sul fondo da trentotto minuti quando sentii un triplice tintinnio metallico propagarsi nell'acqua. M'interruppi per ascoltare, notando che anche Chubby si era fermato. Si sentì di nuovo, ripetuto tre volte. In superficie Angelo aveva immerso nell'acqua mezzo metro di sbarra di ferro e vi stava battendo sopra il segnale di richiamo con un martello preso dalla cassetta degli attrezzi. Con la mano aperta segnalai a Chubby di emergere e cominciammo subito l'ascesa. Quando salimmo in barca chiesi con impazienza: «Cosa c'è, Angelo?» e per tutta risposta lui puntò il dito al largo, oltre il dorso frastagliato e irregolare della barriera. Mi tolsi la maschera e battei le palpebre per rimettere gli occhi a fuoco dopo gli orizzonti angusti del mondo marino. Era lì, bassa e nera sullo sfondo del mare, una tenue macchia scura, come se un dio burlone avesse tracciato sull'orizzonte una linea a carboncino; ma proprio mentre guardavo parve crescere, allargarsi nell'azzurro più chiaro del cielo, sempre più scura man mano che si levava dal mare. Chubby fischiò piano e scosse la testa. «Arriva "Lady C" e ha una gran fretta, amico.» La velocità di quel basso fronte scuro era ingannevole. Si sollevò, stendendo sul cielo un drappo funereo, e mentre Chubby spingeva al massimo i motori e puntava a tutta velocità verso il canale, le prime filacce di nuvole coprirono il sole. Sherry venne a sedersi accanto a me sul banco dei remi e mi aiutò a togliermi la muta. «Che cos'è, Harry?» mi chiese. «"Lady C"» le risposi. «E' un ciclone, come quello che ha affondato la "Dawn Light". E' di nuovo a caccia» e Angelo andò a prendere i salvagente dal gavone di prua e li distribuì. Li infilammo e ci sedemmo vicini a guardarlo avanzare con terrificante grandiosità, eclissando il sole, trasformando il cielo da un'alta cupola di azzurro purissimo in un tetto grigio e basso di nuvole sudicie in fuga. Ce la mettemmo tutta per precederlo, uscendo dal canale e volando attraverso le acque interne verso il rifugio della baia. Eravamo tutti voltati per seguirlo con gli occhi e ci sentivamo tremare il cuore al pensiero della nostra fragilità di fronte a una simile potenza. Quando entrammo nella baia il fronte di nuvole ci passò sulla testa e subito piombammo in un mondo crepuscolare, carico della furia incombente. La nuvola trascinava sotto di sé una falda d'aria fredda e umida. Ci passò sopra e rabbrividimmo al repentino sbalzo di temperatura. Con un ululato lacerante il vento si scagliò contro di noi, trasformando l'aria in un vortice di sabbia e spuma. «I motori» disse Chubby quando la baleniera toccò la spiaggia. Quei due Evinrude nuovi rappresentavano metà dei risparmi di una vita e io capivo la sua ansia. «Li prenderemo con noi.» «E la barca?» insistette. «Affondala. C'è uno strato solido di sabbia su cui potrà posarsi.» Mentre Chubby e io smontavamo i motori, Angelo e Sherry stesero dei teli d'incerata sul ponte scoperto per assicurare l'attrezzatura e poi usarono i cavi di nylon da immersione per fissare i preziosissimi respiratori e le casse a tenuta stagna che contenevano il materiale di pronto soccorso e gli arnesi. Poi, mentre Chubby e io sollevammo i due pesanti Evinrude, Angelo lasciò che il vento spingesse la baleniera lontano dalla riva, dove tolse i tappi dal fondo e la barca si riempì subito d'acqua. Il mare agitato dal vento teso si riversò oltre la fiancata e la barca si adagiò ben presto a sei metri di profondità. Angelo tornò sulla spiaggia con la sua bracciata decisa, mentre le onde gli si frangevano sulla testa. Ormai Sherry e io avevamo quasi raggiunto la fila di palme.
Piegato in due sotto il mio fardello, guardai indietro. Chubby ci seguiva arrancando. Si era caricato sulle spalle il secondo motore e, piegato anche lui sotto il peso morto del metallo, avanzava a fatica nel torrente di sabbia bianca che il vento sollevava fino all'altezza della cintola. Angelo emerse dall'acqua e ci seguì. Erano alle nostre spalle quando ci addentrammo fra gli alberi. Se avevo sperato di trovarvi riparo, ero fuori di testa, perché ci trovammo sbalzati da una situazione di acuto disagio a una di reale pericolo. I venti impetuosi del ciclone sferzavano le palme con frenesia folle. Il risultato era uno strepitio assordante che stordiva per la sua intensità. I lunghi tronchi aggraziati delle palme ondeggiavano selvaggiamente e il vento artigliava le fronde strappandole e le proiettava lontano, nella nebbia di sabbia e schiuma, come enormi uccelli deformi. Correvamo in fila indiana lungo uno dei sentieri appena tracciati. Sherry avanzava in testa, coprendosi la testa con le mani, mentre io per la prima volta ringraziavo il cielo della sia pur minima protezione offerta dal grosso motore che portavo sulle spalle, perché tutti noi eravamo esposti a una duplice minaccia di morte. L'ondeggiare delle palme scagliava da un'altezza di quindici metri grappoli di noci dure come il ferro. Grossi come una palla di cannone e quasi altrettanto pericolosi, questi proiettili ci bombardavano mentre correvamo. Uno urtò il motore che trasportavo, un colpo che mi fece barcollare, un altro cadde accanto al sentiero e al secondo rimbalzo colpì Sherry a una gamba. Anche se aveva perso gran parte della sua potenza, la buttò ugualmente a terra e la fece rotolare nella sabbia come un'antilope in corsa colpita da un fucile da caccia grossa. Quando si rimise in piedi zoppicava vistosamente... ma continuò a correre sotto la micidiale grandinata di noci di cocco. Avevamo quasi raggiunto la sella formata dalle colline quando il vento intensificò la potenza del suo assalto. Lo sentii ululare su una nota più alta e collerica e arrivare fra le cime degli alberi ruggendo come una bestia selvaggia. Ci scagliò contro una nuova cortina di sabbia e quando lanciai un'occhiata avanti notai la prima palma cominciare a cedere. La vidi inclinarsi stanca, fiaccata dagli sforzi per resistere al vento, la terra intorno alla base smossa mentre il sistema di radici veniva scalzato dal terreno sabbioso. Precipitando acquistò velocità e descrivendo un arco impressionante, come l'ascia di un carnefice, piombò su di noi. Sherry mi precedeva di quindici passi, stava per attaccare la salita e aveva il viso rivolto a terra, lo sguardo fisso sui piedi, le mani ancora sulla testa. Correva proprio sulla traiettoria dell'albero sradicato e sembrava così piccola e fragile, sotto quel tronco massiccio che precipitava. L'avrebbe schiacciata con un sol colpo gigantesco. Gridai, ma per quanto mi fosse così vicina non poteva sentirmi. Il ruggito del vento sembrava sopraffare tutti i nostri sensi. Il lungo fusto flessibile della palma cominciò a cadere, e Sherry correva sulla sua traiettoria. Lasciai il motore, scrollandomelo dalle spalle, e corsi avanti. In quel preciso istante vidi che non sarei riuscito a raggiungerla in tempo e mi tuffai a pancia in giù, stendendo il braccio destro in tutta la sua lunghezza, e afferrai il piede di Sherry che stava più indietro, riunendolo all'altro mentre lei lo spostava in avanti. Era la classica presa alla caviglia del giocatore di rugby e la fece inciampare. Cadde lunga distesa col viso nella sabbia. Mentre eravamo tutti e due a terra la palma precipitò. La violenza del colpo si propagò nell'aria sovrastando perfino il suono del vento, e il fusto si abbatté con uno scroscio che si ripercosse attraverso il terreno nel mio corpo, scuotendomi i nervi e facendomi tremare. Mi alzai all'istante, tirando in piedi Sherry. La palma l'aveva mancata di una quarantina di centimetri e lei era sbigottita e terrorizzata. La strinsi per pochi istanti, tentando di darle conforto e forza. Poi l'aiutai a superare il fusto di palma che sbarrava il sentiero, le indicai la sella e le detti una spinta. «Corri!» gridai, e lei barcollò in avanti. Angelo mi aiutò a caricare
di nuovo il motore in spalla. Scavalcammo l'albero e salimmo faticosamente il pendio dietro la figura di Sherry in corsa. Tutt'intorno a noi, sentivo il tonfo e lo schianto di altri alberi che cadevano e tentai di correre col viso rivolto in su per avvistare la prossima minaccia prima che si abbattesse su di noi, ma un'altra noce di cocco volante mi colpì di striscio alla tempia, offuscandomi per un attimo la vista, e io proseguii alla cieca, rischiando la pelle fra le mostruose ghigliottine delle palme abbattute. Raggiunsi la cresta della sella senza rendermene conto, impreparato a subire in pieno la violenza del vento. Mi scagliò in avanti, il terreno mi sfuggi sotto i piedi mentre venivo proiettato oltre la sella, le ginocchia mi cedettero e il motore e io rotolammo a capofitto giù per il pendio opposto. Nella discesa raggiungemmo Sherry North, travolgendola. Lei cadde e si unì a me e al motore nella discesa rovinosa. Un momento ero sopra io, l'attimo dopo la signorina North mi stava seduta fra le scapole, poi il motore schiacciava tutti e due. Quando arrivammo in fondo alla massima pendenza e finimmo tutti insieme in un mucchio, ammaccati e sfiniti, la sella ci riparava dalla furia diretta del vento, così mi fu possibile sentire quello che diceva Sherry. Fu subito chiaro che era amaramente risentita per quella che considerava un'aggressione immeritata ed esprimeva a voce alta seri dubbi sulla mia famiglia, il mio carattere e la mia educazione. Perfino nella mia situazione disperata la sua collera mi parve a un tratto irresistibilmente comica e cominciai a ridere. Mi accorsi che stava cercando di radunare le forze per colpirmi, così decisi di distrarla. Rivolto a lei cominciai a gracchiare: «"Jack e Jill salirono la collina Avevano ciascuno un dollaro e un quarto... Jill scese con mezza corona Non andarono lassù per niente."» Sherry mi fissò per un attimo come se avessi la bava alla bocca, poi scoppiò a ridere anche lei, ma la sua risata aveva una sfrenata nota isterica. «Porco!» singhiozzava ridendo, le guance inondate di lacrime e i capelli fradici impastati di sabbia che le penzolavano lungo il viso in spessi serpentelli intrecciati. Quando ci raggiunse, Angelo pensò che stesse piangendo, la tirò in piedi con tenerezza e l'aiutò nelle ultime centinaia di metri fino alle caverne, lasciandomi solo a issarmi di nuovo il motore sulle spalle doloranti per seguirli. La nostra caverna era ben orientata per resistere ai venti del ciclone, probabilmente i vecchi pescatori l'avevano scelta con questo intento. Io recuperai il telone avvolto intorno al fusto di una palma e lo usai per schermare l'ingresso, accumulando delle pietre sull'estremità libera per tenerla ferma: ottenemmo così un rifugio in penombra in cui strisciammo come due animali feriti. Avevo lasciato il motore nella caverna di Chubby. In quel momento avevo l'impressione che se non l'avessi mai rivisto sarebbe stato sempre troppo presto, ma sapevo che Chubby l'avrebbe trattato con tutti i riguardi affettuosi che una madre riserva al suo bambino malato e che una volta passato il ciclone sarebbe stato di nuovo pronto a prendere il mare. Appena montata l'incerata per chiudere la caverna e tener fuori il vento, Sherry e io potemmo spogliarci e ripulirci del sale e della sabbia. Allo scopo usammo un catino della preziosa acqua dolce e a turno ciascuno di noi restò in piedi nel catino, facendosi sciacquare dall'altro con una spugna. La lunga battaglia col motore mi aveva ridotto a un ammasso di tagli e di lividi, e anche se la mia cassetta di pronto soccorso era rimasta sulla barca in fondo alla baia, trovai nella sacca una bottiglia di mercurocromo. Sherry cominciò una convincente imitazione di Florence Nightingale; con l'antisettico e un batuffolo di ovatta mi disinfettò le ferite, mormorando parole di compatimento e di conforto. A me piace parecchio essere coccolato e me ne rimasi lì in uno stato semi-ipnotico, sollevando un braccio o muovendo una gamba secondo le istruzioni. Il primo indizio che la signorina North non stava curando
le mie gravissime lesioni con la serietà che meritavano, mi giunse quando lei lanciò a un tratto un gridolino esultante e impiastricciò la mia estremità più delicata con una pennellata scarlatta di mercurocromo. «Rudolph, la renna col naso rosso» ridacchiò, e io mi riscossi protestando risentito. «Ehi, quella roba non viene più via.» «Bene!» esclamò lei. «Così ora riuscirò a trovarti se mai ti perdessi tra la folla.» Io rimasi senza parole di fronte a tanta imprevedibile leggerezza. Mi raccolsi nella mia dignità e andai a cercare un paio di pantaloni asciutti. Sherry si distese sul materasso e mi guardò frugare nella sacca. «Quanto tempo durerà?» chiese. «Cinque giorni» risposi, fermandomi ad ascoltare il rombo costante del vento. «Come lo sai?» «Dura sempre cinque giorni» spiegai infilandomi i pantaloni e tirandoli su. «Questo ci darà un po' di tempo per conoscerci.» Restammo intrappolati dal ciclone, segregati insieme nei pochi metri quadrati della caverna, e fu una strana esperienza. Ogni puntata all'aperto impostaci dalla natura o dal desiderio di controllare come se la passavano Chubby e Angelo, era carica di disagio e di pericolo. Anche se le palme erano state spogliate di quasi tutti i frutti nelle prime dodici ore e tutte le piante più deboli erano cadute in quel periodo, c'era pur sempre qualche albero che crollava di schianto e ramaglie e fronde strappate volavano come frecce con forza sufficiente ad accecare una persona o a infliggere ferite. Chubby e Angelo lavoravano tranquillamente ai motori, smontandoli e ripulendoli dalla salsedine. Avevano qualcosa che li teneva occupati. Nella nostra caverna, una volta superata la novità iniziale, si sviluppò una crisi che non riuscii a capire del tutto, ma che intuivo decisiva. Non avevo mai preteso di capire a fondo Sherry North, c'erano troppe domande senza risposta, troppe zone minate, barriere di privacy oltre le quali non mi era concesso di passare. Fino a quel momento lei non aveva mai espresso i suoi sentimenti, non si era mai parlato del futuro. Questo era strano, perché tutte le donne che avevo conosciuto si aspettavano, anzi pretendevano, dichiarazioni d'amore e di passione. Avvertivo anche che questa indecisione provocava grande tensione sia a lei sia a me. Si era trovata coinvolta in qualcosa cui si ribellava e le sue emozioni ne avevano risentito. Tuttavia con Sherry non se ne faceva parola, perché io avevo accettato il tacito accordo e non discutevamo mai i nostri reciproci sentimenti. Io trovavo tutto questo frustrante, perché sono un innamorato dalla parlantina sciolta. Se non sono ancora riuscito a incantare i serpenti probabilmente è perché non ci ho mai provato sul serio. Comunque potevo adattarmici senza soffrire troppo, era piuttosto l'assenza di un futuro che mi irritava. Pareva che Sherry non si aspettasse che la nostra relazione durasse oltre il tramonto, eppure sapevo che non poteva pensarla così, perché nei momenti di calore che succedevano a quelli di tetraggine non potevano esserci dubbi. Una volta, quando cominciai a esporle i miei progetti sul dopo recupero del tesoro... come mi sarei fatto costruire un'altra barca su mio progetto, una barca che racchiudesse tutti i pregi migliori del mio adorato "Wave Dancer"; come mi sarei costruito a Turtle Bay una nuova casa che non meritasse il nome di baracca; come l'avrei arredata e abitata... lei non si unì alla discussione. Quando rimasi a corto di parole, lei mi voltò le spalle sul materasso e finse di dormire, anche se potevo avvertire la tensione del suo corpo senza bisogno di toccarla. Un'altra volta la sorpresi a fissarmi di nuovo con quello sguardo ostile, di odio. Mentre un'ora dopo veniva travolta da una frenesia di passione fisica in diametrale contrasto col suo atteggiamento precedente. Si dedicò a riordinare e rammendare i miei vestiti, seduta a gambe
incrociate sul materasso, applicando punti precisi ed efficienti. Pure, quando la ringraziai, diventò caustica e sfottente e finimmo per sfogarci in un'accesa lite, finché lei non si precipitò fuori della caverna e corse fuori nel vento furioso fino alla caverna di Chubby. Tornò soltanto a sera, scortata da Chubby che teneva in mano una lanterna per illuminarle la strada. Chubby mi osservò con un'espressione che avrebbe incenerito chiunque altro e rifiutò gelidamente il mio invito a bere un whisky, il che significava che o stava molto male o era molto dispiaciuto, poi scomparve di nuovo nella tempesta borbottando parole oscure. Al quarto giorno i miei nervi erano tesi come corde di violino, ma avevo considerato da tutti i punti di vista il problema dello strano comportamento di Sherry e avevo raggiunto le mie conclusioni. Confinata con me in quella minuscola caverna, Sherry era costretta finalmente a riflettere sui suoi sentimenti nei miei confronti. Si stava innamorando, forse per la prima volta in vita sua, e il suo spirito fieramente indipendente detestava l'esperienza. Per essere sincero, neanch'io me la godevo molto... o meglio, godevo i brevi periodi di pentimento e di amore fra un accesso di collera e l'altro, ma aspettavo con fervore il momento in cui avrebbe accettato l'inevitabile e si sarebbe arresa. Aspettavo ancora quel momento felice quando mi svegliai all'alba del quinto giorno. L'isola era in preda a una calma quasi assordante dopo il tumulto del ciclone. Restai disteso ad ascoltare il silenzio, senza aprire gli occhi, ma quando sentii un movimento al mio fianco girai la testa e la guardai in viso. «La tempesta è finita» disse lei piano, e si alzò dal letto. Uscimmo fianco a fianco nella luce dell'alba, battendo le palpebre di fronte alla devastazione creata dalla tempesta. L'isola sembrava la fotografia di un campo di battaglia della Prima guerra mondiale. Le palme erano spogliate del loro fogliame, i tronchi nudi puntavano patetici verso il cielo e la terra ai loro piedi era coperta da un fitto strato di fronde di palma e noci di cocco. Su tutto regnava il silenzio, non soffiava un alito di vento e il cielo era di un celeste latteo, ancora velato da una foschia di sabbia e di mare. Chubby e Angelo sgusciarono fuori dalla loro caverna come orsi alla fine del letargo. Anche loro si alzarono in piedi e si guardarono intorno incerti. A un tratto Angelo lanciò un ululato da Comanche e spiccò un salto di un metro da terra. I suoi istinti animali non potevano più essere repressi, dopo cinque giorni di forzato isolamento. Scattò fra le palme come un levriero. «L'ultimo che si tuffa paga da bere» gridò, e Sherry fu la prima ad accettare la sfida. Era distanziata di dieci passi quando arrivarono sulla spiaggia, ma si tuffarono nello stesso istante, vestiti di tutto punto, e cominciarono subito a lanciarsi manciate di sabbia umida. Chubby e io li seguimmo, a un passo calmo più consono alla nostra età. Con indosso ancora il suo pigiama a strisce vivaci, Chubby calò in mare le cosce massicce. «Amico, devo dire che è una bella sensazione» ammise con gravità. Io aspirai a fondo una boccata dal sigaro sedendomi accanto a lui nell'acqua fino alla cintola, poi gli tesi il mozzicone che avanzava. «Abbiamo perso cinque giorni, Chubby» gli dissi, e lui si accigliò subito. «Diamoci da fare, allora» borbottò, seduto nella laguna col pigiama a strisce gialle e viola, il sigaro in bocca, come un enorme ranocchio scuro. Dalla vetta guardammo giù nelle acque basse della laguna e anche se erano un po' torbide per i detriti e la sabbia smossa, la baleniera si vedeva chiaramente. Si era adagiata di fianco nella baia e giaceva sul fondo a sei metri di profondità, con il ponte ancora coperto dall'incerata. La portammo a galla con le sacche gonfiabili e non appena emersero le frisate riuscimmo ad aggottare e a spingerla a remi fino alla spiaggia. Il resto della giornata fu impiegato a trasbordare il carico fradicio d'acqua, ripulirlo e asciugarlo, riempire le bombole, montare
i motori e prepararsi alla prossima visita a Gunfire Reef. Cominciavo a essere seriamente preoccupato dai contrattempi che giorno dopo giorno ci avevano costretto all'immobilità sull'isola, mentre Manny Resnick e la sua allegra brigata rosicchiavano il nostro vantaggio iniziale. Quella sera ne discutemmo intorno al fuoco da campo e dovemmo riconoscere che in dieci giorni non avevamo fatto nessun progresso, tranne confermare che parte del relitto della "Dawn Light" era ricaduta nella fossa. Comunque le maree erano favorevoli per iniziare presto al mattino e Chubby ci portò attraverso il canale con una luce appena sufficiente a distinguere le sporgenze di corallo: quando ci mettemmo in posizione dietro la barriera il sole stava appena spuntando all'orizzonte. Durante i cinque giorni che eravamo rimasti a terra le mani di Sherry erano guarite quasi del tutto e per quanto le avessi suggerito con tatto di lasciarmi accompagnare da Chubby ancora per qualche giorno, il tatto e la sollecitudine erano andati sprecati. Sherry North era armata di muta e pinne e Chubby era seduto a poppa accanto ai motori. Sherry e io ci calammo veloci e penetrammo nella foresta di bambù marino, regolandoci sulle boe che Chubby e io avevamo lasciato nella nostra ultima immersione. Lavorammo vicino alla base della scogliera e io disposi Sherry all'interno, dove sarebbe stato più facile mantenere la posizione nella scacchiera mentre si orientava. Avevamo appena cominciato il primo tratto e percorso quindici metri dall'ultima boa, quando Sherry batté in fretta sulle mie bombole per attirare la mia attenzione e io mi feci strada attraverso il bambù verso di lei. Era sospesa contro la parete di corallo, a testa in giù come un pipistrello, ed esaminava con attenzione una cascata di corallo e detriti che erano scivolati fino in fondo alla fossa. Era in ombra contro lo sfondo indistinto di corallo scuro, così dovetti arrivarle a fianco prima di vedere quello che l'aveva attratta. Appoggiato contro la scogliera, l'estremità inferiore posata sul mucchio di detriti e alghe, c'era un lungo oggetto cilindrico anch'esso incrostato di vegetazione, che già era stato inghiottito in parte dal corallo vivo. Eppure le sue dimensioni e la forma regolare dicevano che era opera dell'uomo, perché era lungo tre metri e aveva un diametro di cinquanta centimetri, perfettamente arrotondato e leggermente affusolato. Sherry lo studiava con interesse e quando mi avvicinai si volse per venirmi incontro e mi fece segno che non capiva. Io avevo riconosciuto subito di che si trattava e la pelle delle braccia e della nuca mi formicolava per l'eccitazione. Con il pollice e l'indice imitai una pistola e feci l'atto di sparare, ma lei scosse la testa, così scarabocchiai in fretta sulla lavagnetta e gliela mostrai. "Cannone." Lei annuì con vigore, strabuzzò gli occhi e soffiò un nugolo di bollicine in segno di trionfo prima di tornare al cannone. Era della misura giusta per essere uno dei lunghi pezzi da nove libbre che avevano fatto parte dell'armamento della "Dawn Light", ma non c'era nessuna possibilità di leggervi iscrizioni, perché le incrostazioni e l'erosione avevano trasformato la superficie in una pelle di coccodrillo. A differenza della campana di bronzo recuperata da Jimmy North, questo non era stato protetto dalla sabbia. Mi spostai in giù lungo la canna imponente esaminandola con attenzione e quasi subito trovai un altro cannone nell'ombra più fitta vicino alla scogliera. Tuttavia tre quarti dell'arma erano stati incorporati nella scogliera costruita dai polipi del corallo. Mi avvicinai a nuoto, sgusciando sotto la prima canna e mi addentrai nel guazzabuglio di detriti e blocchi di corallo caduti. Ero a sessanta centimetri da questa massa amorfa quando, con un choc che mi mozzò il fiato e mi fece ribollire il sangue nelle vene, capii che cosa stavo guardando. Subito, eccitato, sorvolai il cumulo di detriti, scoprendo dove cominciava e finiva la distesa di corallo, spingendomi in alto fra il
bambù di mare per valutarne le dimensioni e soffermandomi a esaminare ogni apertura o irregolarità. La massa complessiva di detriti aveva le dimensioni di un paio di vagoni ferroviari, ma solo quando spinsi da parte un groviglio fluttuante di alghe e sbirciai nell'apertura quadrata di un portello da cui sporgeva ancora la bocca di un cannone e che non era stato del tutto alterato dall'invasione del corallo, fui certo che quello che avevamo scoperto era l'intera sezione prodiera della fregata "Dawn Light", spaccatasi proprio dietro l'albero maestro. Mi guardai intorno freneticamente cercando Sherry e vidi le sue pinne spuntare da un'altra sezione dei relitto. La tirai fuori, togliendole il boccaglio, e la baciai con forza prima di rimetterglielo. Lei rideva eccitata e quando le feci segno che dovevamo salire scosse con violenza la testa e si allontanò di scatto per continuare le sue esplorazioni. Passarono quindici minuti buoni prima che riuscissi a trascinarla via e a riportarla sulla baleniera. Cominciammo tutti e due a parlare subito, appena ci togliemmo il boccaglio. La mia voce era più forte della sua, ma lei era più tenace. Ci vollero alcuni minuti perché potessi far valere i miei diritti di capo della spedizione e informare Chubby della nostra scoperta. «E' sicuramente la "Dawn Light". Il peso dell'armamento e del carico devono averla spinta a fondo appena si è disincagliata. E' andata giù come un sasso e giace ai piedi della scogliera. Alcuni dei cannoni sono caduti fuori dallo scafo e sono sparsi intorno alla rinfusa.» «Non l'abbiamo riconosciuta subito» intervenne di nuovo Sherry, proprio quando l'avevo appena zittita. «Sembra un mucchio di spazzatura, ma un mucchio enorme.» «Da quello che ho potuto giudicare dev'essersi spezzata a poppavia dell'albero di maestra, ma è squarciata per quasi tutta la lunghezza. I cannoni devono aver sfondato il ponte e solo i due portelli a proravia sono intatti...» «In che posizione sta?» domandò Chubby, venendo subito al sodo. «E' capovolta» ammisi. «Dev'essersi rovesciata mentre affondava.» «Questo è un vero problema, a meno che non si possa entrare da un portello o dalla parte centrale» grugnì Chubby. «L'ho guardata bene» gli dissi «ma non sono riuscito a trovare un punto da cui penetrare nello scafo. Perfino i portelli sono bloccati dalle incrostazioni.» Chubby scosse mesto la testa. «Amico, questo posto sembra stregato» e subito tutti e tre incrociammo le dita. Angelo l'ammonì con aria solenne: «Stai attirando la jella. Non dovresti dire così, capito?» ma Chubby continuò a scuotere la testa e il suo viso si raggrinzì in una smorfia. Io gli assestai una pacca sulla schiena e gli chiesi: «E' vero che fai acqua gelata... anche col solleone?» ma il mio tentativo di umorismo lo fece sembrare allegro come un impresario di pompe funebri disoccupato. «Oh, lasciate in pace Chubby» intervenne Sherry in sua difesa. «Scendiamo di nuovo e cerchiamo di trovare una breccia nello scafo.» «Ci prenderemo mezz'ora di riposo» dissi io «una fumatina e una tazza di caffè... poi daremo un'altra occhiata.» La seconda volta restammo sotto così a lungo che Chubby dovette suonare il triplo segnale di richiamo... e quando affiorammo la fossa ribolliva. Il ciclone si era lasciato dietro uno strascico di alti frangenti e questi, ingigantiti dall'avanzare della marea, si avventavano impetuosi oltre la barriera e penetravano nel varco, raggiungendo un'altezza che non avevamo mai sperimentato. Ci aggrappammo in silenzio ai banchi mentre Chubby ci riportava a casa in una corsa folle e fu solo quando entrammo nelle acque più calme della laguna che potemmo riprendere la discussione. «E' a prova di bomba, come la serratura Chatwood della riserva nazionale di valuta» spiegai. «L'unico portello è bloccato dal cannone e nell'altro sono entrato per circa un metro prima di incontrare una parte della paratia che deve aver ceduto. E' la tana di una grossa vecchia murena che sembra un pitone... ha dei denti da bulldog e io e lei non andiamo d'accordo.» «E la parte centrale?» chiese Chubby.
«No» risposi «è appoggiata sul fondo e il corallo l'ha sigillata.» Chubby assunse un'espressione che significava "Ve l'avevo detto". Gli avrei volentieri calato sulla testa una chiave inglese, tanto era presuntuoso... ma lo ignorai e mostrai loro il pezzo di fasciame che avevo staccato dallo scafo con un piede di porco. «Il corallo ha avviluppato tutto. E' come quelle antiche foreste pietrificate. La "Dawn Light" è una nave di pietra, blindata dal corallo. C'è solo un modo per entrarci, ed è farla saltare.» Chubby annuì. «E' così che si deve fare.» Sherry intervenne: «Ma se usate l'esplosivo, non ridurrete tutto a pezzetti?». «Non useremo una bomba atomica» le spiegai. «Cominceremo con mezzo candelotto nel portello di prua. Tanto per rimuovere un blocco di quel rivestimento di corallo» e mi rivolsi di nuovo a Chubby. «Quella gelignite ci serve subito... ormai, ogni ora è preziosa, Chubby. C'è una bella luna. Puoi riportarci a Saint Mary stasera?» Chubby non si degnò di rispondere a una domanda tanto superflua. Era un implicito affronto alle sue capacità marinare. C'era un quarto di luna con un alone pallido. Nell'atmosfera vagava ancora la polvere trasportata dai venti impetuosi. Anche le stelle erano velate e lontanissime, ma il ciclone aveva spinto nel canale grandi masse di plancton oceanico, tanto che il mare, dovunque fosse increspato, era una massa luminosa fosforescente. La nostra scia brillava lunga e verde, spiegata dietro di noi come la coda di un pavone, e i pesci che si muovevano sotto la superficie splendevano come meteore. Sherry immerse la mano oltre la fiancata e ritirandola ardente di una bizzarra fiammata liquida gridò di meraviglia. Più tardi, quando si senti insonnolita, si appoggiò al mio petto sotto l'incerata che avevo steso per ripararci dall'umidità, e ascoltammo il tonfo delle mante giganti che laggiù in mare aperto saltavano fuori dall'acqua e ricadevano schiaffeggiando la superficie col loro ventre piatto e le loro tonnellate di peso. Mezzanotte era passata da un pezzo quando avvistammo le luci di Saint Mary, simili a una collana di diamanti alla gola dell'isola. Le strade erano completamente deserte quando lasciammo la baleniera all'ormeggio e salimmo a casa di Chubby. La moglie ci aprì avvolta in una vestaglia che faceva sembrare sobri i pigiami di Chubby. Aveva i capelli stretti in grossi bigodini di plastica rosa. Finora non l'avevo mai vista senza cappello e fui sorpreso di notare che non era calva come il suo consorte. Si somigliavano tanto in tutti gli altri aspetti. Lei ci offrì il caffè prima che io e Sherry montassimo sul camioncino, diretti a Turtle Bay. Le lenzuola erano umide e avevano bisogno di essere arieggiate, ma nessuno dei due si lamentò. La mattina dopo mi fermai all'ufficio postale: la mia cassetta era piena per metà, per lo più di cataloghi di attrezzatura da pesca e posta senza valore, ma c'erano alcune lettere di vecchi clienti che chiedevano un noleggio... quelle mi dettero una fitta al cuore... e la busta marrone di un telegramma, che aprii per ultima. I telegrammi mi hanno sempre portato cattive notizie. Ogni volta che vedo una di quelle buste col mio nome che fa capolino dalla finestrella come un ergastolano, provo sempre una stretta allo stomaco. Il messaggio diceva: MANDRAKE SALPATO CITTA' DEL CAPO DIRETTO ZANZIBAR ORE 12.00 VENERDI' 16. STEVE. Le mie premonizioni di sciagura erano confermate. Il "Mandrake" era salpato sei giorni prima. Aveva compiuto la traversata più in fretta di quanto avessi creduto possibile. Mi venne voglia di correre sul Coolie Peak a scrutare l'orizzonte. Invece tesi il cablo a Sherry e scesi in Frobisher Street. Fred Coker stava aprendo la porta dell'agenzia di viaggi quando parcheggiai fuori dell'emporio di "Ma" Eddy e mandai dentro Sherry con una lista di acquisti, mentre io scendevo la strada fino all'agenzia. Fred Coker non mi vedeva dal giorno che l'avevo lasciato gemebondo sul pavimento del suo obitorio e adesso era seduto alla sua scrivania con un vestito color pelle di squalo e una cravatta che raffigurava una ragazza hawaiana su una spiaggia orlata di palme, con la scritta:
"Benvenuti a Saint Mary! La perla dell'Oceano Indiano". Alzò gli occhi con un sorriso intonato alla cravatta, ma appena mi riconobbe la sua espressione si tramutò in un profondo sgomento. Si lasciò sfuggire un belato da agnellino orfano e schizzò via dalla sedia, diretto verso il retrobottega. Gli bloccai la fuga e lui rinculò davanti a me, gli occhiali cerchiati d'oro lucenti come il velo di sudore che gli copriva il viso, finché urtò contro la sedia e ci crollò sopra di schianto. Solo allora gli rivolsi un bel sorriso cordiale... e credetti che sarebbe svenuto dal sollievo. «Come sta, signor Coker?» Tentò di rispondere, ma la voce lo tradì. Invece annuì tanto in fretta che capii che stava benissimo. «Voglio che mi faccia un favore.» «Tutto» farfugliò, ritrovando all'istante la favella. «Tutto, signor Harry, deve solo chiedere.» Nonostante le sue proteste gli bastò qualche minuto per riprendere coraggio e presenza di spirito. Ascoltò la mia ragionevolissima richiesta di tre casse di esplosivo ed eseguì una pantomima che doveva convincermi dell'assoluta impossibilità di accontentarmi. Roteò gli occhi, risucchiò le guance e fece schioccare la lingua. «La voglio qui per domani a mezzogiorno... al più tardi» e lui si strinse la fronte come se gli facesse un male cane. «E se non è qui alle dodici in punto, lei e io riprenderemo la discussione sui premi dell'assicurazione...» Abbassò la mano e si raddrizzò sulla sedia, l'espressione di nuovo volenterosa e sveglia. «Non è necessario, signor Harry. Posso procurarle quello che vuole... ma le costerà parecchio. Trecento dollari a cassa.» «Li segni in conto» gli dissi. «Signor Harry» esclamò «sa che non posso fare credito.» Rimasi in silenzio, ma socchiusi gli occhi, serrai le mascelle e cominciai a respirare forte. «Benissimo» si corresse in fretta. «Fino alla fine del mese, allora.» «E' molto cortese da parte sua, signor Coker.» «E' un piacere, signor Harry» mi assicurò. «Un vero piacere.» «C'è solo un'altra cosa, signor Coker» e lo vidi rabbrividire pensando alla mia richiesta, ma si fece forza da vero eroe. «Nel prossimo futuro prevedo di esportare una piccola partita di merce a Zurigo, in Svizzera.» Lui si spostò un po' in avanti sulla sedia. «Non desidero essere seccato con formalità doganali... mi capisce?» «Capisco, signor Harry.» «Riceve mai richiesta di inviare il corpo di uno dei suoi clienti ai parenti più prossimi?» «Chiedo scusa?» sembrava confuso. «Se un turista dovesse spirare sull'isola, diciamo d'infarto, lei sarebbe convocato per imbalsamarne il cadavere per la posterità e spedirlo in una cassa. Mi sbaglio?» «E' già accaduto» ammise. «In tre occasioni.» «Bene, allora lei ha familiarità con la procedura?» «Certo, signor Harry.» «Signor Coker, metta da parte una cassa e si procuri una pila dei moduli giusti. Farò presto la spedizione.» «Posso chiedere che cosa intende esportare... invece di cadaveri?» Formulò la domanda con delicatezza. «Chieda pure, signor Coker.» Scesi al forte per parlare con la segretaria del presidente. Era in riunione, ma mi avrebbe ricevuto all'una, se ero disposto a pranzare con lui nel suo ufficio. Accettai l'invito e per ingannare l'attesa percorsi la pista che conduceva al Coolie Peak fin dove poteva portarmi il furgoncino. Lì parcheggiai e proseguii fino alle rovine dell'antico posto di guardia e di segnalazione. Mi sedetti sul parapetto guardando un panorama di mare e isole verdeggianti mentre fumavo un sigaro e davo gli ultimi tocchi ai piani preparati con cura, lieto dell'opportunità di fare un ultimo controllo, prima di affidare loro la mia sorte. Pensai a quello che volevo dalla vita e decisi che erano tre cose: Turtle Bay, il "Wave Dancer Secondo" e Sherry North, non
necessariamente in quest'ordine di preferenza. Per continuare a restare a Turtle Bay, dovevo tenere le mani pulite a Saint Mary, per avere il "Wave Dancer Secondo" avevo bisogno di contanti in abbondanza e Sherry North... be', quello richiese parecchie riflessioni intense e alla fine il mio sigaro si era ridotto a un mozzicone e lo schiacciai sul parapetto di pietra. Trassi un respiro profondo e raddrizzai le spalle. «Coraggio, Harry, ragazzo mio» mi dissi, scendendo al forte. Il presidente fu lieto di vedermi, uscì nella sala di ricevimento per accogliermi e si alzò in punta di piedi per mettermi il braccio intorno alle spalle e guidarmi nel suo ufficio. Era un locale che assomigliava a un salone nobiliare, con il soffitto sostenuto da travi a vista, le pareti rivestite di pannelli di legno, paesaggi inglesi racchiusi in pesanti cornici scolpite e cupi dipinti a olio dall'aria fumosa. La finestra a riquadri romboidali di vetro andava dal pavimento al soffitto, affacciandosi sul porto, e il pavimento era coperto da tappeti orientali. Il pranzo fu servito sul tavolo da riunioni di quercia... pesce affumicato, formaggio e frutta, con una bottiglia di Chateau Lafitte '62 da cui era stato tolto il turacciolo. Il presidente versò il vino rosso cupo in due bicchieri di cristallo, me ne offrì uno e poi lasciò cadere nel suo due cubetti di ghiaccio. Sorrise con malizia nel vedere la mia espressione sbalordita. «Sacrilegio, vero?» Levò verso di me il bicchiere di vino raro e cubetti di ghiaccio. «Ma, Harry, io so quello che mi piace. Quel che è conveniente in Rue Royale non lo è necessariamente a Saint Mary.» «Giusto, signore!» Gli ricambiai il sorriso e bevemmo. «Adesso, ragazzo mio, di che cosa voleva parlarmi?» Quando tornai al bungalow trovai un messaggio. Sherry era andata a far visita alla signora Chubby, così uscii sulla veranda con una birra fredda. Ripensai al mio incontro con il presidente Biddle, riesaminando parola per parola, e mi ritenni soddisfatto. Pensai che avevo tappato tutte le falle... tranne quelle che avrebbero potuto servirmi per fuggire. Tre casse di legno con la scritta "Pesce in scatola. Prodotto in Norvegia" arrivarono dalla terraferma L'aereo delle dieci indirizzate all'agenzia di viaggi Coker. "Alla faccia tua, Alfred Nobel» pensai vedendo la scritta, mentre Fred Coker le scaricava dal carro funebre a Turtle Bay, e le piazzai nel retro del furgoncino sotto il telone impermeabile. «Allora fino alla fine del mese, signor Harry» disse Fred Coker, come il protagonista di una tragedia shakespeariana. «Ci conti, signor Coker» gli assicurai, e lui si allontanò fra le palme. Sherry aveva finito di mettere via le provviste. Sembrava così diversa dalla sirena del giorno prima, con i capelli tirati indietro, vestita con una delle mie vecchie camicie, che le stava larga come una camicia da notte, e un paio di jeans sbiaditi con le gambe tagliate in modo irregolare sotto le ginocchia. L'aiutai a caricare le casse sul camioncino e salimmo nella cabina di guida. «La prossima volta che torneremo qui saremo ricchi» le dissi, e avviai il motore, scordandomi di fare gli scongiuri. Risalimmo a fatica la pista nella piantagione di palme, sbucammo sulla strada principale sotto i campi di ananas e scalammo la cresta che domina la città e il porto. «Maledizione!» gridai infuriato e frenai di colpo, sterzando sulla banchina con tanta violenza che il camion di ananas che ci seguiva sbandò per evitare di tamponarci e il conducente si sporse dal finestrino per lanciarmi degli insulti mentre passava. «Che c'è?» Sherry si strappò dal cruscotto dove la mia manovra l'aveva proiettata. «Sei impazzito?» Era una giornata limpida e senza nuvole, l'aria era così chiara che ogni dettaglio della bella barca bianca e blu spiccava nitido come un disegno. Si dondolava all'ingresso del porto grande, all'ormeggio
riservato di solito alle motonavi da crociera o alla nave postale. Era tutta pavesata di bandierine da segnalazione e si scorgeva l'equipaggio in bianco tropicale, allineato alla battagliola, che guardava verso terra. La lancia del porto le correva incontro portando il capitano di porto, l'ispettore doganale e il dottor MacNab. «Il "Mandrake"?» chiese Sherry. «Il "Mandrake" e Manny Resnick» ammisi, invertendo la direzione di marcia del camioncino. «Che cosa vuoi fare?» domandò lei. «Certo non mi farò vedere a Saint Mary mentre a terra ci sono Manny e i suoi scagnozzi. Li ho incontrati già quasi tutti in circostanze che probabilmente avranno impresso a fuoco i miei bei connotati perfino nei loro cervelli sottosviluppati.» Sul pendio della collina, alla prima fermata d'autobus oltre la deviazione per Turtle Bay, c'era il piccolo magazzino di alimentari che mi riforniva di uova, latte, burro e altri generi deperibili. Il proprietario fu entusiasta di vedermi e sbandierò il mio conto in sospeso come il biglietto vincente di una lotteria. Lo pagai e poi chiusi la porta del suo ufficio per fare una telefonata. Chubby non aveva il telefono, ma il suo vicino di casa lo chiamò per farlo parlare con me. «Chubby» gli dissi «quel grosso bordello galleggiante bianco all'ormeggio della nave postale vuol dire guai. «Che cosa vuoi che faccia, Harry?» «Muoviti alla svelta. Copri le latte d'acqua con le reti per i gamberi e lascia credere che vai a pesca. Esci in mare e fa' il giro fino a Turtle Bay. Caricheremo dalla spiaggia e fileremo a Gunfire Reef appena fa buio.» «Sarò nella baia fra due ore» rispose lui, e riagganciò. Era lì dopo un'ora e quarantacinque minuti. Uno dei motivi per cui mi piaceva lavorare con lui era che ci si poteva giocare la camicia sulle sue promesse. Appena il sole tramontò e la visibilità fu ridotta a cento metri uscimmo da Turtle Bay e quando sorse la luna eravamo al largo dell'isola. Rannicchiati sotto l'incerata, seduti su una cassa di gelignite, Sherry e io discutemmo l'arrivo del "Mandrake" in porto. «La prima cosa che Manny farà, sarà di mandare in giro i suoi ragazzi con una manciata di grana per fare qualche domanda nei negozi e nei bar. "Qualcuno ha visto Harry Fletcher?", e quelli faranno la fila per spiegargli tutto. Come il signor Harry ha preso in affitto la barca da pesca di Chubby Andrews, e come s'immergono in cerca di conchiglie. Se poi è davvero fortunato, qualcuno lo indirizzerà verso l'egregio Frederick Coker... e Fred si farà in quattro per spifferare quello che sa, purché il prezzo sia buono.» «Poi che cosa farà?» «Gli verrà un attacco isterico quando sentirà che non sono affogato nella Severn. Quando si riprenderà, manderà una squadra a saccheggiare e perquisire il bungalow a Turtle Bay. Li farà un buco nell'acqua. Allora la deliziosa signorina Lorna Page li guiderà tutti al preteso luogo del naufragio al largo di Big Gull. Questo li terrà occupati per due o tre giorni... finché non scopriranno che c'è solo la campana della nave.» «Allora?» «Be', allora Manny diventerà furioso. Penso che Lorna si debba aspettare qualche momento sgradevole... ma dopo di questo non so cosa succederà. Tutto quello che possiamo fare è cercare di non farci vedere e lavorare come un branco di castori per strappare al relitto le chicche del colonnello.» Il giorno dopo lo stato della marea era tale che non potemmo superare il canale prima della tarda mattinata. Questo ci dette il tempo di fare dei preparativi. Aprii una delle casse di gelignite e tirai fuori dieci candelotti gialli dalla consistenza di cera. Richiusi la cassa e la seppellii con le altre due nel terreno sabbioso del boschetto di palme, ben lontano dal campo. Poi Chubby e io montammo e controllammo l'esploditore. Era un
marchingegno fatto in casa, ma avevo già provato la sua efficienza. Consisteva di due batterie a transistor da nove volts in una semplice cassetta con interruttore. Avevamo quattro rocchetti di leggero filo di rame isolato e una scatola da sigari di detonatori. Ognuno dei letali tubi argentei era avvolto con cura nell'ovatta. Nella scatola c'era anche un assortimento di detonatori a tempo, del tipo a matita. Chubby e io ci isolammo dagli altri per lavorare fissando con dei morsetti i detonatori elettrici ai terminali fatti a mano che avevo saldato allo scopo. L'uso degli esplosivi ad alto potenziale è semplice in teoria e snervante in pratica. Anche un idiota può collegare i fili e premere il pulsante, ma nella sua forma raffinata diventa un'arte. Ho visto un albero di media grandezza sopravvivere a un'esplosione di mezza cassa, perdendo soltanto le foglie e un po' di corteccia... mentre io, con mezzo candelotto, sono capace di far precipitare lo stesso albero di traverso su una strada, sbarrandola completamente, senza far cadere una sola foglia. Mi considero una specie di artista, e avevo insegnato a Chubby tutto quello che sapevo. Lui aveva un talento istintivo, anche se non si sarebbe mai potuto definirlo un artista... il suo gusto per il cerimoniale era troppo fanciullesco. Chubby amava semplicemente far saltare in aria qualcosa. Mentre lavorava con i detonatori, canticchiava felice. Prendemmo posizione nella fossa pochi minuti prima di mezzogiorno e io mi calai da solo, armato soltanto di un fucile ad aria compressa Nemrod con una fiocina a crocifisso munita di punte che avevo progettato e realizzato io stesso. La fiocina era acuminata e costellata di aculei nei primi quindici centimetri. Ventiquattro piccole punte di freccia aguzze come quelle usate dai Batonka quando arpionano i pesci gatto nel fiume Zambesi. Dietro le punte c'era il crocifisso, una traversa di dieci centimetri che avrebbe impedito alla vittima di scivolare lungo l'asta abbastanza vicino da aggredirmi mentre tenevo in mano l'estremità opposta. Il cavo di nylon blu poteva reggere a una trazione di duecentocinquanta chili e formava un cappio di sei metri sotto la canna del fucile ad aria compressa. Scesi fino alla massa enorme del relitto, mi sistemai comodamente accanto al portello del cannone e chiusi gli occhi per alcuni secondi per abituarli al buio, poi sbirciai con cautela nell'apertura scura e quadrata, spingendo davanti a me la canna del fucile. Le scure spire viscide della murena guizzarono distendendosi appena avvertì la mia presenza e indietreggiò minacciosa, scoprendo le temibili zanne regolari. Nella penombra gli occhi erano neri e brillanti, riflettevano la luce fioca come quelli di un gatto. Era un enorme bestione, grosso come il mio polpaccio e più lungo delle mie braccia tese. La criniera ondulata della pinna dorsale si drizzò per la collera mentre mi minacciava. Presi con cura la mira, aspettando che girasse la testa e mi offrisse un bersaglio migliore. Furono alcuni momenti di terrore, avevo un solo colpo e se fallivo mi si sarebbe avventata contro. Avevo visto una murena in cattività staccare a morsi il fasciame di una scialuppa. Quelle zanne potevano lacerare facilmente la muta di gomma e la carne, arrivando fino all'osso. Serpeggiava lentamente, osservandomi, come un cobra all'attacco, e la distanza era quella massima consentita per una mira accurata. Aspettai il momento adatto e alla fine entrò nel secondo stadio dell'aggressione. Gonfiò la gola e si volse leggermente per presentarmi il profilo. "Mio Dio", mi dissi, "e pensare che una volta lo facevo per divertimento" e afferrai il cappio del grilletto. Il gas sibilò con cattiveria e lo stantuffo fece un rumore sordo alla fine della corsa, lanciando la fiocina. Volò lasciando dietro di sé una lunga scia, seguita dalla cima. Avevo mirato al segno scuro a forma di orecchio dietro il cranio e il colpo arrivò tre centimetri in alto e cinque a destra. La murena esplose in un viluppo di spire che si avvolgevano e schiacciavano come fruste bloccando tutto il portello. Mollai l'arma e con una spinta delle pinne mi proiettai in avanti e afferrai l'estremità della fiocina. Vibrava e saltava fra le mie mani mentre la murena avvolgeva
il corpo scuro e massiccio intorno all'asta. La tirai fuori dalla sua tana, inchiodata alla punta irta di aculei da un voluminoso fascio di pelle e muscoli gommosi. La bocca aperta in un urlo silenzioso, allungò il corpo e lo lasciò sventolare e contorcersi come un pennone al vento. La coda mi sbatté sulla faccia, spostandomi la maschera. L'acqua mi entrò nel naso e negli occhi e dovetti liberarla prima di poter iniziare la risalita. Allora la murena torse la testa all'indietro in un'angolazione impossibile e chiuse le mascelle dall'apertura impressionante sull'asta di metallo della fiocina. Sentii i denti sfregare e stridere sull'acciaio e nei punti in cui aveva morso restarono dei graffi lucenti d'argento. Sbucai in superficie tenendo in alto la mia preda. Sentii Sherry squittire di orrore davanti al mostro, che si snodava come un serpente, mentre Chubby grugnì: «Vieni da papà, bellezza» e si sporse fuori bordo per afferrare la fiocina e issare a bordo la murena. Mostrava le gengive di plastica in un sorriso felice, perché la murena era il suo bocconcino preferito. Appoggiò il collo contro il capo di banda e con un guizzo esperto del coltello mozzò di netto la testa mostruosa, lasciandola cadere nella fossa. «Signorina Sherry» esclamò «sentirà come è gustosa.» «Mai!» rabbrividì Sherry, ritraendosi ancor più dalla carcassa sanguinante che fremeva. «Okay, ragazzi, prendiamo la gelatina.» Angelo aveva preparato la borsa di rete da subacquei per passarmela e Sherry scivolò oltre la fiancata, pronta a immergersi. Lei teneva il rocchetto di filo isolato e lo svolse senza scosse mentre scendevamo. Ancora una volta mi diressi direttamente al portello ormai disabitato e vi scivolai dentro. La culatta del cannone era saldata alla massa di detriti più in là. Scelsi due posti per sistemare le cariche. Volevo rimuovere il cannone, usandolo come una leva gigante per squarciare una fetta del fasciame pietrificato. La seconda carica esplosa simultaneamente avrebbe abbattuto la parete di detriti che sbarrava l'ingresso al ponte dei cannoni. Fissai saldamente le cariche. Sherry mi passò l'estremità del cavo e io tagliai e misi a nudo il filo di rame con le pinze prima di collegarlo ai morsetti. Controllai il lavoro appena finito e poi uscii indietreggiando dal portello. Sherry era seduta a gambe incrociate sullo scafo con il rocchetto in grembo e io le sorrisi e puntai i pollici in su prima di recuperare il fucile da subacqueo che avevo lasciato cadere. Quando risalimmo a bordo della baleniera Chubby aveva la cassetta accanto a sé sul banco da rematore e i fili erano collegati. Aveva il viso accigliato pregustando il piacere mentre covava l'esploditore con aria possessiva. Si sarebbe dovuta usare la forza per privarlo del piacere di premere il pulsante. «Pronto a sparare, comandante» grugnì. «Allora spara, Chubby.» Si gingillò ancora un po' con la scatola, prolungando il piacere, poi girò l'interruttore. La superficie della fossa si gonfiò e rabbrividì e sentimmo l'onda d'urto propagarsi attraverso il fondo della barca. Parecchi secondi dopo vedemmo un ribollire e schiumare di bollicine, come se qualcuno avesse versato nella fossa una tonnellata di Alka Seltzer. Si placò lentamente. «Voglio che tu ti metta anche i pantaloni della muta, tesoro» dissi a Sherry, e come previsto lei accolse l'ordine come un invito a discuterne la validità. «Perché, se l'acqua è calda?» «Anche guanti e stivaletti» aggiunsi, cominciando a indossare anch'io i pantaloni lunghi di gomma. «Se lo scafo è aperto potremmo penetrarci in questa immersione. Avrai bisogno di protezione contro gli spuntoni.» Finalmente convinta, fece quello che avrebbe dovuto fare subito, senza domande. Mi restava ancora parecchio da lavorare prima che fosse addestrata a dovere, riflettei mentre riunivo il resto dell'equipaggiamento che mi serviva per questa immersione.
Presi la torcia da subacqueo sigillata, il piede di porco e un rotolo di cavo leggero di nylon e attesi mentre Sherry completava il faticoso procedimento di introdursi negli attillati pantaloni di gomma, assistita fedelmente da Angelo. Una volta che li ebbe tirati su, abbottonando la pattina, fummo pronti per andare. A metà strada, c'imbattemmo nel primo pesce morto che galleggiava negli abissi. Ce n'erano centinaia che le esplosioni avevano ucciso o mutilato, di varie dimensioni. Avvertii una fitta di rimorso al pensiero del massacro che avevo perpetrato, ma mi consolai con l'idea che ne avevo uccisi meno di quanto avrebbe fatto un tonno azzurro in un solo giorno. Scendemmo attraverso questo teatro di carneficina e la luce colpì le carcasse che vagavano e galleggiavano occhieggiando e brillando come stelle morenti in un cielo azzurro fumo. Il fondo della fossa era intorbidito da particelle di sabbia e altro materiale sollevato dalla scossa dell'esplosione. Nella cortina di bambù di mare si era aperto un varco e noi vi passammo. Mi accorsi subito di aver raggiunto il mio scopo. L'esplosione aveva espulso dallo scafo il massiccio cannone, estraendolo come un dente guasto dalla mascella nera del ponte. Era caduto in fondo alla fossa, circondato dai detriti che aveva portato via con sé. L'estremità superiore del portello era stata sfondata, allargando l'apertura al punto che un uomo poteva starci quasi eretto. Quando feci balenare la torcia nell'ombra al di là, vidi che era una nebbia satura di fanghiglia e particelle in sospensione che avrebbero impiegato del tempo a depositarsi. La mia impazienza non l'avrebbe permesso, però, e quando ci posammo sullo scafo controllai il tempo trascorso e le riserve d'aria. Calcolai in fretta il tempo di lavoro, tenendo conto delle mie due discese precedenti che avrebbero richiesto un supplemento di decompressione: avevamo diciassette minuti di tempo prima di cominciare a risalire e regolai la suoneria dell'orologio prima di prepararmi all'esplorazione. Usai il cannone gettato in mare come punto d'appoggio al quale fissare il capo della fune di nylon e poi risalii fino all'apertura, mollandolo dietro di me mentre salivo. Dovetti strappare Sherry dal portello: nei pochi secondi in cui ero stato impegnato col cavo era quasi scomparsa nel buco dello scafo. Le segnalai infuriato di sgombrare e lei fece di rimando con due dita un gesto poco adatto a una signora, che io finsi di ignorare. Entrai con cautela nel portello e scoprii che la visibilità era scesa a circa un metro nella melma scura. Le esplosioni avevano smosso solo in parte il blocco oltre il punto in cui si era trovato il cannone. Più in là sembrava che ci fosse un vuoto ma occorreva allargarlo prima che potessi passarci. Usai la leva per scalzare un blocco del relitto e scoprii che il blocco era creato in gran parte dal pesante affusto del cannone. Lavorai con calma e precisione, ignorando i colpi regolari sul didietro con cui Sherry segnalava la sua bruciante impazienza. Una volta, quando emersi con una sezione di fasciame frantumato, lei mi prese la lavagnetta e ci scrisse sopra: "Io sono più piccola!!" e sottolineò due volte il "più piccola", nel caso il doppio punto esclamativo mi sfuggisse quando mi piazzò la lavagna a un palmo di naso. Le restituii il saluto nello stile di Churchill e tornai ai miei scavi. Ormai avevo sgombrato la zona a sufficienza per vedere che l'unico ostacolo che restava era la pesante mole dell'affusto, sospeso a un angolo assurdo di traverso all'ingresso del ponte dei cannoni. Il piede di porco era del tutto inefficace contro quella massa: l'alternativa era abbandonare l'impresa e tornare l'indomani con un'altra carica di gelignite o correre il rischio. Guardai il cronometro e vidi che ero stato impegnato per dodici minuti. Calcolai che probabilmente avevo sprecato più aria del solito durante i recenti sforzi. Ciò nonostante decisi di dare un'occhiata. Passai la torcia e la leva a Sherry, all'esterno, e mi feci strada con prudenza nell'apertura. Appoggiai la spalla sotto l'estremità superiore dell'affusto e mossi i piedi finché non trovai un solido punto d'appoggio. Quando fui sistemato saldamente, respirai a fondo e
cominciai a spingere. Aumentai pian piano la tensione fino a puntare in su con tutta la forza delle mie gambe e del dorso. Sentii il viso e la gola gonfiati di sangue e gli occhi sembravano sul punto di schizzarmi dalle orbite. Non si mosse niente e io inspirai un'altra boccata d'aria e ritentai, ma stavolta proiettando tutto il mio peso sulla trave in un unico sforzo esplosivo. Cedette, e io mi sentii come Sansone quando si era tirato sulla testa il tempio. Persi l'equilibrio e capitombolai all'indietro in un turbine di detriti che precipitarono facendo un suono sordo e rimbalzandomi intorno. Quando scese il silenzio, mi ritrovai nel buio più completo, una densa minestra di piselli di melma turbinante che cancellò la luce. Tentai dì muovermi e mi trovai la gamba bloccata. Il panico m'invase con un'ondata gelida e lottai freneticamente per liberarmi. Bastò una mezza dozzina di calci terrorizzati per accorgermi che me l'ero cavata davvero a buon mercato. L'affusto di cannone mi aveva mancato il piede di mezzo centimetro ed era caduto di traverso sulla pinna. Sfilai il piede, abbassandola, e mi diressi tentoni all'aperto. Sherry aspettava con impazienza le notizie e io cancellai la lavagna e scrissi "aperto!", sottolineando due volte. Lei puntò il dito verso il portello, chiedendo il permesso di entrare, e io controllai il cronometro. Avevamo due minuti, così annuii e le feci strada. Proiettando il raggio della torcia davanti a me avevo una visibilità di quasi cinquanta centimetri, sufficienti per trovare l'apertura che avevo sgombrato. C'era un margine appena sufficiente per lasciarmi passare senza impigliarmi con le bombole o il tubo del respiratore. Filai dietro di me il cavo di nylon, come Teseo nel labirinto del Minotauro, in modo da non perdere l'orientamento nell'intrico di ponti e boccaporti della "Dawn Light". Sherry mi seguì lungo il cavo. Potevo sentire la sua mano toccarmi il piede e sfiorarmi la gamba mentre procedeva dietro di me. Superato lo sbarramento, l'acqua si fece un po' più limpida, e ci ritrovammo nel locale ampio e basso del ponte dei cannoni. Era buio e misterioso, affollato di sagome strane disseminate intorno a noi a profusione. Vidi altri affusti, palle di cannone sparse qua e là o ammucchiate negli angoli e altre attrezzature tanto alterate dalla prolungata immersione da risultare irriconoscibili. Avanzammo lentamente, sollevando con le pinne nuovi vortici di terriccio e fango. Anche qui ci galleggiavano intorno pesci morti, ma notai che alcuni gamberi rossi della barriera si rintanavano nelle viscere della nave come ragni mostruosi. Almeno loro erano sopravvissuti all'esplosione, grazie alle loro corazze blindate. Puntai il raggio della torcia sul tavolato sopra le nostre teste, cercando il punto d'accesso ai ponti inferiori e alle stive. Con la nave che giaceva capovolta, dovevo cercare di rapportare la geografia attuale del relitto ai disegni che avevo studiato. A circa quattro metri e mezzo dall'ingresso trovai la scaletta del castello di prua, un'altra apertura quadrata e buia sopra la mia testa, e mi ci avventurai, le bollicine che salivano in una doccia argentea e scorrevano come argento vivo fra le paratie e il tavolato. La scala era marcita al punto che cadde in pezzi appena la toccai e i frammenti rimasero sospesi nell'acqua intorno alla mia testa mentre avanzavo verso il ponte inferiore. Questo è un corridoio stretto e affollato, che probabilmente serviva le cabine dei passeggeri e la mensa degli ufficiali. L'atmosfera da claustrofobia mi ricordò le condizioni allucinanti in cui doveva aver vissuto l'equipaggio della fregata. Mi avventurai con prudenza lungo questo passaggio, attirato dalle porte ai lati che promettevano ogni sorta di scoperte affascinanti. Resistetti alla tentazione e avanzai lungo il ponte finché questo non finì bruscamente contro una massiccia paratia di legname. Questa doveva essere la parete esterna del pozzo della stiva prodiera, nel punto in cui attraversava il ponte e scendeva nel ventre della nave. Soddisfatto dei risultati raggiunti, diressi il raggio della torcia sul polso e scoprii con un brivido di colpa che avevamo superato di
quattro minuti il tempo di lavoro. Ogni secondo ci avvicinava al temuto pericolo di vuotare le bombole e non poter completare le soste di decompressione. Afferrai il polso di Sherry e le lanciai il segnale di pericolo passandomi la mano di taglio sulla gola prima di battere sull'orologio. Lei capì subito e mi seguì docilmente nel lungo e lento viaggio di ritorno attraverso lo scafo seguendo il cavo guida. Già sentivo irrigidirsi la valvola di alimentazione, che mi forniva aria con maggiore riluttanza ora che le bombole erano quasi esaurite. Uscimmo all'aperto e controllai che Sherry fosse al mio fianco prima di guardare in su. Quello che vidi sopra di me mi strozzò il respiro in gola e l'orrore che provai si trasformò in una sensazione di olio caldo nelle viscere. La fossa di Gunfire Break si era trasformata in un'arena sanguinolenta. Attratti dalle tonnellate di pesci morti uccisi dallo scoppio, i feroci squali assassini degli abissi erano arrivati a decine. L'odore della carne e del sangue, insieme al movimento disordinato dei loro simili trasmesso fino a loro dall'acqua, li aveva eccitati. Tirai subito Sherry indietro nel portello e ci acquattammo lì, guardando in su verso le enormi sagome che scivolavano profilandosi tanto chiaramente contro la sorgente di luce della superficie. Fra i banchi di squali più piccoli c'erano almeno due dozzine delle goffe bestie che gli isolani chiamavano squalo Albacore. Avevano il corpo a botte e il ventre gonfio, grossi pesci potenti col muso rotondeggiante e ampie mascelle sorridenti. Roteavano nella fossa come in un grottesco carosello, dimenando la coda e aprendo meccanicamente la bocca per ingoiare brandelli di carne. Li conoscevo come animali avidi ma stupidi, che si lasciavano facilmente scoraggiare da un atteggiamento aggressivo, quando non erano frenetici. Ora che erano intensamente eccitati sarebbero stati pericolosi, eppure se fosse stato solo per loro avrei accettato il rischio della risalita con la relativa decompressione. Quello che mi spaventava sul serio erano le altre due lunghe sagome agili che guizzavano silenziosamente nella fossa, svoltando con un solo potente schiocco della lunga coda di rondine, tanto che il muso appuntito quasi toccava l'estremità della coda, per poi scivolar via di nuovo con tutta la potenza e la grazia di un'aquila in volo. Quando l'uno o l'altro di questi terribili pesci si fermava per nutrirsi, la bocca a falce di luna si apriva e le file multiple di denti si ergevano come gli aculei di un porcospino sporgendo in fuori. Erano una coppia affiatata, ognuno lungo tre metri e sessanta dal muso alla punta della coda, con la lama eretta della pinna dorsale lunga quanto il braccio di un uomo; erano blu ardesia sul dorso, con il ventre bianco come la neve e punte scure alla coda e alle pinne; potevano tagliare un uomo a metà e ingoiarne i pezzi interi. Uno di loro ci vide rannicchiati nella bocca del portello e si volse di scatto per scendere, librandosi a pochi metri da noi, acquattati nell'ombra, tanto che scorsi chiaramente i lunghi aculei pendenti degli organi riproduttivi maschili. Questi erano i terribili squali Morte bianca, il pesce più crudele di tutti i mari, e capii che tentare di salire allo scoperto ed effettuare un'adeguata decompressione con aria limitata e senza protezione sarebbe stata la morte sicura. Se volevo portar via Sherry viva avrei dovuto correre rischi che in altre circostanze sarebbero stati impensabili. Scribacchiai in fretta sulla lavagna: "Ferma! Salgo in apnea". Lei lesse il messaggio e subito scosse la testa in segno di rifiuto e fece gesti ansiosi per impedirmelo, ma io avevo già sganciato la fibbia della mia cinghia e inalato l'ultima boccata profonda che mi gonfiò il petto, prima di metterle fra le mani il mio respiratore. Lasciai cadere la cintura zavorrata per acquistare slancio e scivolai giù lungo il fianco dello scafo, sfruttando la chiglia per ripararmi mentre nuotavo verso il riparo della scogliera. Avevo lasciato a Sherry quel che restava delle mie riserve d'aria, forse cinque o sei minuti se le usava con parsimonia, e ora, con la sola aria che avevo nei polmoni, dovevo accettare la sfida della fossa
e tentare di tornare a galla. Raggiunsi la scogliera e cominciai a salire, tenendomi stretto al corallo, sperando che la muta scura si confondesse con le ombre. Salii con le spalle al corallo, fronteggiando la fossa aperta dove le grandi ombre sinistre ancora guizzavano e roteavano. Sei metri dal fondo, e l'aria nei miei polmoni si espandeva in fretta man mano che la pressione dell'acqua diminuiva. Non potevo trattenerla, o mi avrebbe squarciato i tessuti dei polmoni. La lasciai filtrare dalle labbra, un faro argenteo di bollicine che uno degli squali Morte bianca notò subito. Roteò e si volse, guizzando attraverso la fossa con colpi sferzanti della coda, piombando su di me. Lanciai uno sguardo disperato alla scogliera e due metri sopra di me scorsi una piccola caverna nel corallo marcio. Mi ci tuffai proprio mentre lo squalo mi passava accanto, voltava e tornava indietro per un secondo passaggio proprio nell'attimo in cui mi rannicchiavo nell'angusto rifugio. Lo squalo si disinteressò a me e guizzò via per afferrare al volo il corpo di un sarago morto, ingoiandolo voracemente. I polmoni ormai mi pulsavano, perché avevo assorbito tutto l'ossigeno dall'aria che avevo inalato e nel sangue mi si stava sviluppando diossido di carbonio. Ben presto avrei cominciato a scivolare nel buio dell'anossia. Lasciai il rifugio della caverna ma continuando a seguire la scogliera spinsi in su più che potevo con l'unica pinna, rimpiangendo amaramente l'altra ancora intrappolata sotto l'affusto. Nell'ascesa dovetti emettere di nuovo aria in espansione sapendo che nelle mie vene anche l'azoto si stava decomprimendo troppo in fretta e fra poco si sarebbe trasformato in gas, gorgogliando nel mio sangue come champagne. Sopra di me scorsi lo specchio argenteo in movimento della superficie e la sagoma nera a sigaro della baleniera sospesa sopra di essa. Salivo in fretta e guardai di nuovo giù. In lontananza scorsi il banco di squali che continuava a roteare. Pareva che fossi riuscito a passare inosservato. I polmoni mi bruciavano per la mancanza d'aria e il sangue mi pulsava alle tempie quando decisi che era ora di abbandonare il riparo della scogliera e attraversai allo scoperto la fossa fino alla baleniera. Scalciai e mi lanciai verso la barca, a trenta metri dalla barriera. A metà strada guardai giù e vidi che uno degli squali Morte bianca mi aveva avvistato e partiva all'attacco. Salì dagli abissi azzurri con incredibile velocità e il terrore m'infuse nuova forza mentre puntavo verso la superficie e la barca. Guardavo giù, osservando lo squalo arrivare. Sembrava che ingigantisse mentre mi piombava addosso. In quei frenetici secondi ogni dettaglio mi s'impresse nella mente. Vidi il muso da porco con le narici a fessura, gli occhi dorati con le pupille come punte di freccia, l'ampio dorso bluastro da cui sporgeva l'alta lama da boia della pinna dorsale. Sbucai in superficie così veloce che emersi fin quasi alla cintola e voltandomi in aria passai il braccio sano sul capo di banda della barca. Con tutte le mie forze proiettai in avanti il corpo e richiamai le gambe sotto il mento. In quell'istante lo squalo attaccò, l'acqua esplose intorno a me quando sbucò a galla e sentii la pelle ruvida e granulosa lacerare le gambe della muta mentre mi sfiorava, poi si avvertì uno schianto e un brivido quando colpì lo scafo della baleniera. Vidi le facce stravolte di Chubby e di Angelo mentre la barca ingavonava e rollava violentemente. I miei violenti contorcimenti avevano tratto in inganno lo squalo che aveva mancato le mie gambe, urtando contro lo scafo. Ora con un altro calcio disperato e una spinta capitombolai oltre il capo di banda e ricaddi in fondo alla baleniera. Lo squalo urtò ancora contro lo scafo mentre salivo, mancandomi di nuovo per pochi centimetri. Rimasi disteso inalando aria nei polmoni doloranti, a grandi sorsate inebrianti che mi fecero girare la testa come un vino forte.
Chubby mi gridava: «Dov'è la signorina Sherry? Quel grosso squalo ha preso la signorina Sherry?». Io mi rotolai di fianco, boccheggiando e inghiottendo aria preziosa. «Risparmia il fiato» ansimai. «Sherry aspetta nel relitto. Ha bisogno di aria.» Chubby saltò a prua e tolse il telone dai respiratori di riserva accatastati lì. In una crisi è il tipo di uomo che preferisco avere a coprirmi le spalle. «Angelo» ringhiò «dagli le pillole per gli squali.» Era una confezione di tavolette repellenti per gli squali a base di acetato di rame, che avevo ordinato da un catalogo di articoli sportivi americani e per le quali Chubby aveva professato un profondo e durevole disprezzo. «Vediamo se quelle diavolerie servono a qualcosa.» Avevo respirato abbastanza da tirarmi su e dire a Chubby: «Abbiamo dei problemi. La fossa è piena di grossi squali, e ce ne sono due davvero pericolosi. Quello che mi ha attaccato e un altro». Chubby si accigliò mentre adattava le valvole di alimentazione al nuovo respiratore. «Sei risalito direttamente, Harry?» Annuii. «Ho lasciato le mie bombole a Sherry. Lei aspetta laggiù.» «Ti verrà l'embolia, Harry?» Mi guardò e nei suoi occhi vidi la preoccupazione. «Sì» annuii, trascinandomi alla cassetta degli utensili e sollevando il coperchio. «Devo scendere di nuovo in fretta... devo far aumentare la pressione del sangue prima che si metta a frizzare.» Presi la bandoliera di cariche esplosive per il mio fucile subacqueo. Ce n'erano dodici, e ne avrei volute di più mentre mi assicuravo la bandoliera alla coscia. Ogni testa era filettata per avvitarsi su un'asta da tre metri. Conteneva una carica esplosiva equivalente a quella di un proiettile di carabina calibro 12 e potevo sparare la carica con un grilletto sul manico. Era un'arma efficace contro gli squali. Chubby mi issò sul dorso uno dei respiratori e agganciò la cinghia mentre Angelo s'inginocchiava davanti a me per assicurarmi alle caviglie le tavolette di repellente per gli squali, nei contenitori perforati di plastica. «Mi servirà un'altra cintura zavorrata» spiegai «e ho perso una pinna. Ce n'è un paio di riserva nel...» Non terminai la frase. Un dolore bruciante, intollerabile, mi colpì al gomito del braccio menomato. Uno spasimo così atroce che gridai forte e il braccio scattò, chiudendosi come la lama di un coltello a serramanico. Era una reazione involontaria, la giuntura si piegava per effetto della pressione delle bollicine nel sangue, che schiacciava nervi e tendini. «E' l'embolia» scattò Chubby. «Santa Vergine, è la malattia dei cassoni.» Balzò ai motori e li azionò avvicinandosi alla barriera. «Presto, Angelo» gridò «dobbiamo calarlo di nuovo giù.» Il dolore colpì ancora, una terribile morsa ardente alla gamba destra. Il ginocchio mi si piegò sotto e piagnucolai come un neonato. Angelo mi assicurò alla vita la cintura zavorrata e mi infilò la pinna alla gamba paralizzata. Chubby spense i motori e accostammo sottovento al riparo della barriera, mentre lui tornava strisciando fino al banco dov'ero accasciato. Si chinò su di me per infilarmi fra le labbra il boccaglio e aprire le valvole delle bombole. «Okay?» chiese, e io aspirai l'aria e annuii. Chubby si sporse oltre la fiancata e scrutò in fondo alla fossa. «Va bene» grugnì «lo squalo è a spasso.» Mi sollevò come un bambino, perché avevo perso l'uso del braccio e della gamba, e mi calò in acqua fra la barca e la barriera. Angelo agganciò alla mia cintura il respiratore in più per Sherry, poi mi passò il fucile e io mi augurai di non lasciarlo cadere. «Va' a portar via di lì la signorina Sherry» ordinò Chubby, e io mi lasciai andare all'indietro con un salto goffo e m'immersi. Anche fra i crampi terribili il mio primo pensiero fu di cercare le sinistre sagome lucenti degli squali Morte bianca. Ne vidi uno, ma era giù, fra il branco di Albacore che si muovevano goffi. Tenendomi al riparo della barriera, scalciai e mi contorsi per scendere, come una
pulce d'acqua mutilata. A diciotto metri dalla superficie il dolore cominciò ad attenuarsi. La rinnovata pressione dell'acqua ridusse il volume delle bollicine nel sangue, le gambe si raddrizzarono e ne recuperai l'uso. Scesi più veloce e il sollievo fu rapido e benedetto. Sentii un coraggio e una sicurezza nuovi scacciare la disperazione di poco prima. Avevo aria e un'arma. Ora avevo una possibilità di combattere. Ero a una trentina di metri, in vista del fondo. Scorsi le bollicine di Sherry levarsi dagli abissi di un blu fumoso e la vista mi confortò. Respirava ancora e io avevo un respiratore pieno per lei. Non dovevo fare altro che portarglielo. Uno dei grossi Albacore mi vide mentre scivolavo lungo la parete scura e virò verso di me. Già rimpinzato di cibo, ma insaziabilmente affamato, mi venne incontro con il suo orribile sorriso, agitando la coda larga. Io arretrai e rimasi sospeso nell'acqua, fronteggiandolo. Avevo il fucile con la testa esplosiva puntata contro di lui e mentre agitavo piano le pinne per tenermi pronto intorno a me si diffusero come una nuvola fiotti di tintura azzurra delle tavolette repellenti. Lo squalo si avvicinò e io presi la mira per colpirlo proprio sul muso, ma appena la testa e le branchie entrarono in contatto con le nuvole di tintura azzurra, si allontanò con una piroetta, agitando la coda scosso e costernato. L'acetato di rame gli aveva bruciato le branchie e gli occhi, costringendolo a battere in ritirata. "Alla faccia tua, Chubby Andrews!" pensai. "Funzionano." Ripresi la discesa, sfiorando le cime della foresta di bambù, e vidi Sherry ancora rannicchiata nel portello, a nove metri di distanza. Aveva esaurito le sue bombole e usava le mie, ma dal volume e dallo scarso flusso di bollicine potevo dedurre che le restavano solo pochi secondi d'aria. Scattai verso di lei, staccandomi dalla scogliera... e solo i suoi frenetici segnali con la mano mi avvertirono. Mi volsi e vidi lo squalo arrivare, simile a una lunga torpedine azzurra. Sfiorava le cime del bambù e da un angolo delle mascelle gli pendeva un pezzo sfilacciato di carne. Aprì quell'ampia mascella per ingoiare il boccone e le file di zanne luccicarono bianche, come i petali di un fiore osceno. Lo affrontai mentre caricava, ma nello stesso tempo mi gettai all'indietro, scalciando con le pinne nella sua direzione per stendere fra noi una spessa cortina fumogena di tintura azzurra. Spinto da violente sferzate della coda lo squalo filò come una freccia negli ultimi metri, ma poi incontrò la tintura e guizzò, deviando la direzione della carica per allontanarsi. Mi passò tanto vicino che la coda mi vibrò un pesante colpo sulla spalla, mandandomi a capitombolare all'indietro. Per qualche secondo persi l'orientamento, ma appena ripresi l'equilibrio e guardai in giro freneticamente scoprii che il grande squalo mi girava intorno. Descriveva un circolo intorno a me, a una decina di metri, e ai miei occhi eccitati sembrava lungo come una nave da guerra e azzurro e vasto come un cielo estivo. Sembrava impossibile che questi pesci potessero diventare grossi almeno il doppio. Questo era ancora un neonato... ringraziai il cielo per questo. A un tratto il fucile subacqueo in cui avevo riposto tanta fiducia mi parve futile: lo squalo mi osservava con un freddo occhio giallo sul quale la pallida membrana nictitante si abbassava ogni tanto di scatto in una strizzatina sardonica, e una volta aprì le mascelle in un singulto convulso, quasi pregustando il sapore della mia carne. Continuò a descrivere quegli ampi circoli veloci, e io sempre al centro mi voltavo con lui e agitavo freneticamente le pinne per tenere testa al suo movimento agile e senza sforzo. Girando sganciai dalla cintura il respiratore di riserva, me lo appesi a tracolla sulla spalla sinistra come lo scudo di un legionario romano e m'infilai sotto il braccio il fucile subacqueo, tenendo la punta rivolta contro il mostro. Tutto il mio corpo fremeva per effetto del fiotto caldo di adrenalina che scorreva nel mio circolo sanguigno e i miei sensi ne furono potenziati e affinati... l'acuta sensazione di paura, intensamente
piacevole, di cui un uomo può diventare schiavo. Ogni dettaglio del pesce assassino s'impresse nella mia memoria in modo indelebile, dal lieve pulsare delle branchie multiple dietro la testa al lungo strascico di pesci remora attaccati con le ventose alla liscia superficie bianca del ventre. Con un pesce di quella taglia, tentare un colpo al muso con le cariche esplosive del fucile avrebbe significato soltanto farlo inferocire di più. L'unica possibilità era mirare al cervello. Riconobbi il momento in cui il disgusto dello squalo per la nebbia azzurra di repellente fu sopraffatto dalla fame e dalla collera. La coda parve irrigidirsi e vibrò una serie di rapidi colpi aumentando di scatto la velocità. Mi feci forza, sollevando il respiratore di ricambio per proteggermi, e lo squalo si volse rigido e veloce, rompendo l'ampio circolo per attaccare direttamente. Vidi le mascelle aprirsi come un abisso, rivestite dalle zanne a cuneo, e al momento decisivo ci ficcai dentro le due bombole d'acciaio. Lo squalo chiuse le mascelle sull'esca e me la strappò di mano, mentre l'impatto dell'attacco mi scagliava di lato come una foglia morta. Quando mi ripresi guardai freneticamente intorno e scoprii che la morte bianca era a sei metri e si muoveva lentamente, azzannando le bombole d'acciaio come un cucciolo mastica una pantofola. Scuoteva la testa con il movimento istintivo che strappa brandelli di carne alla vittima, ma che ora infliggeva solo graffi profondi al metallo verniciato del respiratore. Questa era l'occasione, la mia sola e unica possibilità. Scalciando forte guizzai sopra l'ampio dorso azzurro sfiorando l'alta pinna dorsale e piombai su di lui, mirando al suo punto cieco come un pilota da caccia che attacca in picchiata. Protesi il fucile, appoggiai con fermezza la punta sul cranio azzurro ricurvo, proprio in mezzo a quegli occhi freddi e gialli, e premetti il grilletto a molla. Il colpo partì con uno schiocco che mi ferì i timpani e il fucile sobbalzò forte fra le mie mani. Lo squalo s'impennò come un cavallo imbizzarrito e ancora una volta fui sbalzato di lato, ma mi ripresi in tempo per osservarlo cadere in preda a una terribile frenesia. I muscoli sotto la pelle liscia si contraevano e guizzavano obbedendo agli impulsi disordinati emessi dal cervello danneggiato e lo squalo roteava e si tuffava, si rovesciava selvaggiamente, sfrecciava in giù per urtare con il muso contro il fondo roccioso della fossa, poi si rizzava sulla coda e si lanciava in parabole senza meta nelle acque azzurre. Continuando a osservarlo a rispettosa distanza, smontai la carica esplosa e la sostituii con una nuova. La morte bianca aveva ancora la riserva d'aria di Sherry stretta fra le mascelle. Non potevo lasciargliela. Seguii prudentemente le sue evoluzioni violente e imprevedibili e quando alla fine rimase librato per un attimo a testa in giù, sospeso alle ampie curve della coda, gli premetti di nuovo sul cranio la carica esplosiva, puntandola con forza contro la cupola cartilaginosa in modo che l'impatto dell'esplosione si ripercuotesse in pieno sul minuscolo cervello. Sparai, e lo squalo s'irrigidì. Non si mosse più, ma sempre irrigidito si rovesciò lentamente e cominciò a sprofondare verso il fondo della fossa. Io mi avvicinai con un guizzo e gli strappai dalle mascelle il respiratore danneggiato. Vidi subito che i tubi dell'aria erano stati squarciati e lacerati dai denti dello squalo, ma le bombole erano solo graffiate. Portando con me il respiratore scattai fra le cime dei bambù verso il relitto. Dal portello non si levavano più bolle d'aria e appena mi avvicinai vidi che Sherry aveva scartato l'ultima coppia di bombole. Erano vuote, e lei stava morendo lentamente. Eppure, anche negli spasimi della lenta asfissia non aveva fatto il tentativo fatale di salire in superficie. Mi aspettava, scivolando lentamente nella morte ma confidando in me. Appena scesi accanto a lei, mi sfilai il boccaglio e glielo porsi. I suoi movimenti erano lenti e privi di coordinazione. Il boccaglio le
sfuggì di mano e galleggiò in alto, sprigionando un torrente d'aria. Io lo afferrai e glielo spinsi in bocca, tenendolo fermo e nel contempo abbassandomi leggermente sotto di lei per facilitare il flusso dell'aria. Sherry cominciò a respirare. Il suo torace si sollevava e si abbassava in lunghe, profonde sorsate d'aria preziosa e quasi subito la vidi riprendere forza e lucidità. Soddisfatto, mi dedicai a smontare una valvola di alimentazione da uno dei respiratori esauriti, usandola per sostituire quella danneggiata dallo squalo. Lo usai per mezzo minuto prima di assicurare l'apparecchio alle spalle di Sherry e recuperare il mio boccaglio. Ormai avevamo aria a sufficienza per superare il lungo periodo di lenta decompressione che ci aspettava. M'inginocchiai davanti a Sherry e lei mi rivolse un sorriso forzato, sollevando il pollice verso l'alto, e io le ricambiai il gesto. "Tutto a posto", pensai smontando dal fucile la carica e sostituendola con una presa dalla bandoliera sulla coscia. Poi ancora una volta, dal riparo del portello, sbirciai in su nell'acqua libera della fossa. Dato che la riserva di pesci morti si era esaurita anche il branco di squali sembrava disperso. Vidi un paio di goffe sagome scure ancora a caccia nelle acque infette, ma la loro frenesia era scemata. Si muovevano con maggiore calma e mi sentii più tranquillo nel portare fuori Sherry adesso. Le presi la mano e fui sorpreso di sentirla così piccola e fredda, ma lei rispose al mio gesto con una stretta delle dita. Indicai la superficie e lei annuì. La guidai fuori del portello scivolando sotto lo scafo e protetti dal bambù puntammo in fretta verso il riparo della barriera. Fianco a fianco, tenendoci ancora per mano con le spalle alla parete, risalimmo lentamente dalla fossa La luce aumentava e alzando gli occhi scorsi in alto la baleniera. Il mio morale salì. A diciotto metri mi fermai un minuto per cominciare la decompressione. Un grosso vecchio Albacore ci superò, maculato e pezzato come un maiale, ma non ci prestò attenzione e io abbassai il fucile mentre svaniva in lontananza fra la nebbia. Salimmo lentamente per la sosta seguente di decompressione a dodici metri, dove restammo per due minuti, lasciando evaporare gradualmente attraverso i polmoni l'azoto accumulato nel sangue. Poi su a sei metri per la sosta successiva. Sbirciai nella maschera di Sherry e lei roteò gli occhi; evidentemente stava recuperando coraggio e faccia tosta. Ora sarebbe andato tutto bene. Eravamo quasi arrivati... solo dodici minuti. La baleniera era tanto vicina che sembrava di poterla toccare con il fucile. Riuscivo quasi a distinguere le facce brune di Chubby e Angelo sospese oltre la fiancata, mentre aspettavano ansiosi che emergessimo. Distolsi lo sguardo da loro, perlustrando attentamente l'acqua intorno a noi. All'estremità del mio campo visivo, dove la nebbiolina dell'acqua sfumava nel blu compatto, vidi muoversi qualcosa. Era solo il sospetto di un'ombra, svanita prima che potessi vederla, ma mi sentii riafferrare da un fremito di paura e di apprensione. Rimasi sospeso nell'acqua, di nuovo all'erta, in attesa, mentre gli ultimi minuti si trascinavano lentamente come insetti morenti. L'ombra passò di nuovo stavolta netta, un movimento rapido e mortale che non mi lasciò dubbi: non era uno squalo Albacore. Era la stessa differenza che corre fra l'ombra della jena in agguato nel buio intorno al fuoco da campo e quella del leone a caccia. A un tratto fra le cortine d'acqua di un blu nebbioso arrivò il secondo squalo Morte bianca. Planò rapido e silenzioso, passando a quindici metri di distanza come se ci ignorasse e proseguendo fin quasi ai limiti del nostro campo visivo per poi girare di scatto e ripassare ancora, come un animale in gabbia che fa avanti e indietro fra le sbarre. Sherry si strinse a me e io liberai la mano dalla stretta frenetica in cui l'aveva imprigionata. Ora mi servivano tutt'e due le mani. Al passaggio seguente lo squalo cambiò lo schema dei suoi movimenti e
cominciò a descrivere gli ampi circoli che precedono sempre l'attacco. Girava e girava senza posa, con quell'occhio giallo pallido fisso voracemente su di noi. A un tratto la mia attenzione fu distratta dalla lenta discesa di una dozzina di contenitori di plastica blu della sostanza repellente. Vedendoci in difficoltà, Chubby doveva aver vuotato fuori bordo l'intera cassetta. Uno mi passò abbastanza vicino da afferrarlo al volo e tenderlo a Sherry. In mano a lei sprigionò una cortina azzurra e io riportai la mia attenzione sullo squalo. Si era ritratto un po' fiutando la tintura, ma descriveva ancora dei rapidi circoli fissandoci col suo sorriso ripugnante. Guardai l'orologio: ancora tre minuti per la salvezza, ma potevo arrischiarmi a mandare su Sherry anche prima. A differenza di me lei non aveva già avuto un principio di embolia, probabilmente le bastava un minuto o due per essere al sicuro. Lo squalo restrinse il circolo serrandoci sempre più dappresso. Vicino... tanto vicino che guardai in fondo alla pupilla nera e sporgente dell'occhio e vi lessi le sue intenzioni. Guardai l'orologio. Ce l'avremmo fatta per un pelo, ma decisi di mandare su Sherry. Le battei sulla spalla e indicai con urgenza la superficie. Esitò, ma le battei di nuovo sulla spalla e ripetei l'ordine. Lei cominciò a salire, lentamente, secondo le regole, ma le sue gambe penzolavano invitanti. Lo squalo mi lasciò e salì pian piano a tempo con lei, seguendola. Sherry lo vide e cominciò a salire più in fretta, e lo squalo puntò verso di lei. Adesso ero sotto di loro e mi spostai di lato proprio nell'attimo che lo squalo assunse l'atteggiamento rigido della coda che segnala l'inizio dell'attacco. Gli ero sotto quando si volse per azzannare Sherry. Mi avvicinai, appoggiai la punta del fucile contro la gola morbida e premetti il grilletto. Vidi la scossa ripercuotersi nella carne bianca e gonfia e lo squalo rinculò con un colpo convulso di coda. Scattò in alto e sbucò in superficie, balzando su allo scoperto e ricadendo di schianto in un ribollire di schiuma. Prese subito a roteare e a librarsi in cerchi folli, come se fosse tormentato da uno sciame di api. Le mascelle si aprirono e si chiusero più volte di scatto. Divorato da una terribile ansia, osservai Sherry mantenere la disciplina mentale e salire senza fretta verso la baleniera. Un paio di enormi zampe brune erano protese attraverso la superficie per accoglierla. Mentre guardavo, giunse alla loro altezza. Le dita scure si chiusero su di lei come benne d'acciaio e la risucchiarono dall'acqua con forza prodigiosa. Ora potevo concentrare tutta la mia attenzione sul problema di restare in vita nei prossimi minuti prima di poterla seguire. Lo squalo pareva si fosse ripreso dallo choc dell'esplosione e aveva sostituito le sue folli evoluzioni sfrenate con il terribile movimento circolare. Ricominciò con una circonferenza ampia, riducendone costantemente il raggio a ogni giro. Lanciai un'occhiata all'orologio e vidi che finalmente potevo cominciare l'ultima tappa dell'ascesa. Mossi verso l'alto lentamente. La tortura dell'embolia era ancora fresca nella mia memoria... ma lo squalo si avvicinava sempre più. A tre metri dalla baleniera, mi fermai di nuovo e lo squalo s'insospettì, probabilmente ricordando la recente esplosione. Interruppe il movimento circolare e restò immobile nell'acqua chiara, sospeso sulle ampie ali appuntite delle pinne pettorali. Ci fissammo negli occhi a una distanza di quattro metri e mezzo e mi accorsi che il bestione azzurro si stava preparando all'assalto finale. Impugnai il fucile tendendo il braccio al massimo e pian piano, in modo da non farlo scattare, nuotai verso di lui finché la carica esplosiva fu a un paio di centimetri dalle fessure delle narici sotto il muso. Premetti il grilletto e lui indietreggia, scosso dall'esplosione della carica. Piroettò allontanandosi in un'ampia curva e io mollai il
fucile e mi lanciai in superficie. Era furioso come un leone ferito, aizzato dai colpi ricevuti, e mi caricò col dorso ingobbito, massiccio come una montagna azzurra e le ampie mascelle spalancate. Sapevo che stavolta non c'era modo di stornarlo, solo la morte l'avrebbe fermato. Schizzando in superficie vidi le mani di Chubby protese, le dita simili a un casco di banane scure, e in quel momento lo adorai. Sollevai sopra la testa il braccio destro tendendolo verso Chubby e mentre lo squalo superava di scatto i pochi metri che ci separavano sentii le sue dita stringersi sul mio polso. Poi l'acqua esplose intorno a me. Sentii la spinta enorme sul braccio e lo scroscio potente dell'acqua quando la massa dello squalo la fendette. Mi ritrovai supino sul ponte della baleniera, strappato dalle mascelle di quel terribile animale. «Che bei cagnolini hai, Harry» disse Chubby, con un tono disinvolto che riconobbi forzato, e mi guardai intorno cercando Sherry. «Stai bene?» le gridai, scorgendola a poppa bagnata e pallida. Lei annuì; dubitavo che potesse parlare. Sganciai la fibbia di sicurezza della cinghia, alleggerendomi del peso del respiratore. «Chubby, prepara un candelotto di gelatina» esclamai, liberandomi di maschera e pinne e sbirciando oltre la fiancata della baleniera. Lo squalo non ci mollava, girava intorno alla baleniera inferocito dalle ferite e dalla frustrazione. Affiorò mostrando la pinna dorsale in tutta la sua lunghezza. Sapevo che poteva facilmente attaccare e sfondare il fasciame della barca. «Oh, Dio, Harry, è orribile.» Sherry ritrovò finalmente la voce e capii come si sentiva. Io odiavo quel pesce disgustoso con tutta l'intensità del mio terrore recente... ma dovevo distrarlo dall'attacco diretto. «Angelo, dammi quella murena e un coltello da esche» gridai, e lui mi tese il freddo corpo viscido. Io tagliai un pezzo di carne da cinque chili e lo lanciai in acqua. Lo squalo guizzò e si lanciò sul brandello, ingoiandolo e sfiorando lo scafo della baleniera mentre passava vicino. Rollammo violentemente al suo passaggio. «Svelto, Chubby» gridai, lanciando allo squalo un altro boccone. Lo prese al volo come un cane affamato, sfrecciando sotto lo scafo e urtandolo di nuovo, tanto che la barca oscillò sgradevolmente e Sherry strillò aggrappandosi al capo di banda. «Pronto» disse Chubby, e io gli passai un trancio di sessanta centimetri della murena con la cavità vuota del ventre aperta come una borsa. «Mettici dentro il candelotto e legalo» gli ordinai, e lui comincio a sorridere. «Ehi, Harry» ridacchiò «mi piace.» Mentre nutrivo il mostro con i rimasugli della murena, Chubby legò il candelotto di gelignite in un bel pacchetto di carne di murena, con il filo isolato di rame che sporgeva. Me lo passò. «Inserisci i contatti» ordinai, avvolgendo una dozzina di volte il filo intorno alla mano sinistra. «Pronto a sparare» sogghignò Chubby, e io lanciai il fagotto di carne ed esplosivo sul percorso dello squalo. Corse ad afferrarlo e il dorso azzurro lucente sbucò in superficie mentre ingoiava l'offerta. Subito il filo cominciò a scorrere sopra la fiancata e io ne svolsi altro dal rocchetto. «Lascia che lo mandi giù» dissi io, e Chubby annuì gongolando. «Okay, Chubby, spedisci quel bastardo all'inferno» ringhiai mentre il pesce affiorava, la pinna sollevata, e ci girava intorno in circolo, con il filo di rame penzolante dall'angolo della bocca. Chubby premette il pulsante e lo squalo esplose in uno spruzzo alto di spuma rosa, come un'anguria, mentre il sangue pallido si mescolava alla carne più scura e al contenuto purpureo del ventre, sprizzando a quindici metri d'altezza e schizzando sulla fossa e sulla baleniera. La carcassa dilaniata ondeggiò in superficie come un tronco sanguinolento, poi si rovesciò e cominciò a sprofondare. «Addio, squalo» gridò Angelo, e Chubby sorrise come un cherubino.
«Andiamo a casa» dissi io, perché la risacca cominciava a scavalcare la barriera e stavo per dare di stomaco. Comunque, il mio malessere reagì miracolosamente a un trattamento di whisky Chivas Regal, sia pure bevuto da una tazza smaltata, e parecchio tempo dopo, nella caverna, Sherry mi disse: «Immagino che vorrai essere ringraziato per avermi salvato la vita, e idiozie del genere...». Io le sorrisi e le aprii le braccia. «No, tesoro, dimostrami soltanto la tua gratitudine» al che lei obbedì, e più tardi nessun incubo venne a turbare il mio sonno, perché ero esausto nel corpo e nello spirito. Penso che tutti noi cominciassimo a considerare la fossa di Gunfire Break con timore superstizioso. La serie di incidenti e disgrazie che ci aveva colpito appariva ai nostri occhi come il risultato di un deliberato piano malefico. Ogni volta che tornavamo alla fossa, pareva che il suo aspetto fosse diventato più sinistro e l'aura minacciosa che la circondava si fosse accentuata. «Lo sai che cosa penso?» disse Sherry, ridendo, ma non del tutto per scherzo. «Credo che gli spiriti dei principi mongoli assassinati abbiano seguito il tesoro per fargli da guardiani...» Anche col sole negli occhi vidi le espressioni sui volti di Angelo e Chubby. «Penso che gli spiriti fossero in quei due grossi squali che abbiamo ucciso ieri.» Chubby fece la faccia di chi ha mangiato a colazione una dozzina di ostriche guaste, sbiancò fino ad assumere un colorito bruno giallastro e lo vidi abbozzare un gesto di scongiuro con la mano destra. «Signorina Sherry» intervenne severo Angelo «non deve parlare così.» Gli vedevo la pelle d'oca sulle braccia. Lui e Chubby avevano un attacco di paura superstiziosa. «Sì, piantala» convenni. «Stavo scherzando» protestò lei. «Bello scherzo» ribattei «ci hai fatto proprio morire dal ridere.» E restammo tutti in silenzio durante il passaggio del canale finché non prendemmo posizione al riparo della barriera. Io ero seduto a prua e quando tutti e tre mi guardarono vidi dalle loro espressioni che mi ritrovavo sulle braccia una crisi di morale. «Scendo da solo» annunciai, e si sentì un piccolo respiro di sollievo. «Vengo con te» si offrì Sherry. «Più tardi» acconsentii «ma prima voglio controllare se ci sono squali e recuperare l'attrezzatura che abbiamo perso ieri.» Scesi con cautela, restando sospeso cinque minuti proprio sotto la barca, per scrutare gli abissi della fossa in cerca di quelle maligne sagome scure, e poi scendendo piano. Fra le ombre più profonde l'acqua era fredda e spettrale, ma vidi che la marea notturna aveva ripulito la fossa e risucchiato in mare tutte le carogne e il sangue che il giorno prima avevano attirato il branco di squali. Non c'era la minima traccia delle carcasse degli squali Morte bianca e gli unici pesci che vidi erano i banchi fittissimi di multicolori ospiti del corallo. Un luccichio d'argento in basso mi guidò verso il fucile che avevo abbandonato nella furia di raggiungere la barca e trovai i respiratori vuoti e la valvola di alimentazione danneggiata nel portello dove li avevamo lasciati. Emersi con il carico e per la prima volta ci furono sorrisi fra il mio equipaggio quando riferii che la fossa era pulita. «D'accordo» dissi approfittando della schiarita «Oggi apriremo la stiva.» «Vuoi entrarci attraverso lo scafo?» chiese Chubby. «Ci ho riflettuto, ma ho calcolato che ci vorrebbero un paio di cariche potenti per entrare da quella parte. Ho deciso di penetrare nel pozzo dal ponte dei passeggeri.» Feci uno schizzo sulla lavagna mentre spiegavo. «Il carico si sarà spostato, dev'essere accatastato alla rinfusa proprio oltre quella paratia e una volta aperto qui potremo tirarlo fuori pezzo per pezzo dalla scaletta del boccaporto.» «C'è un bel tratto da lì fino al portello.» Chubby sollevò il berretto e si grattò pensoso la testa calva. «Monterò un piccolo bozzello con un paranco alla scaletta del ponte
dei cannoni e un altro al portello.» «Un sacco di lavoro.» Chubby aveva l'aria triste. «E' la prima volta che sei d'accordo con me... comincio a preoccuparmi di sbagliare.» «Non ho detto che avevi torto» ribatté rigido Chubby «ho detto solo che era un sacco di lavoro. Non puoi lasciar trasportare bozzello e paranco alla signorina Sherry, dico bene?» «No» ammisi. «Ci vuole un tipo coi muscoli» e tastai il suo stomaco sporgente duro come una roccia. «E' proprio come pensavo» disse lugubre Chubby. «Vuoi che mi prepari?» «No» lo fermai. «Per ora può venire Sherry con me a piazzare le cariche.» Volevo mettere alla prova i suoi nervi dopo gli orrori del giorno prima. «Apriremo il pozzo e poi andremo a casa. Non ricominceremo a lavorare subito dopo l'esplosione. Daremo il tempo alla marea di ripulire la fossa dai pesci morti prima di scendere di nuovo. Non voglio una replica di ieri.» Scivolammo dentro dal portello e seguimmo il cavo guida di nylon che avevamo disposto nella nostra prima visita, lungo il ponte dei cannoni, su per la scaletta di boccaporto fino al ponte dei passeggeri e poi attraverso il lungo tunnel fino al vicolo cieco della paratia del pozzo di prua. Mentre Sherry mi reggeva la torcia, cominciai a scavare un foro nella parete divisoria col trapano a manubrio che avevo portato dalla superficie. Era scomodo lavorare senza un punto d'appoggio solido, ma i primi tre centimetri furono una bazzecola. Questo strato di legno era marcito fino ad assumere la consistenza morbida del sughero, ma più in là incontrai una tavola di quercia dura come il ferro e dovetti rinunciare. Ci avrei impiegato una settimana. Non potendo introdurre l'esplosivo nei fori già preparati, avrei dovuto usare una carica più potente di quanto volessi e contare sull'effetto tunnel del corridoio per produrre una scossa secondaria che proiettasse il pannello all'interno. Usai sei mezzi candelotti di gelignite, disponendoli agli angoli e al centro della paratia, e li assicurai a sbarrette inserite nel legname con un martello. Impiegai quasi mezz'ora a predisporre l'esplosione e dopo fu un sollievo lasciare i confini angusti del vecchio scafo per risalire attraverso acque limpide e pulite fino alla superficie argentea, tirandoci dietro i fili isolati. Chubby fece brillare le cariche mentre ci toglievamo il respiratore. La scossa fu attutita dallo scafo del relitto, tanto che in superficie l'avvertimmo appena. Subito dopo lasciammo la fossa e tornammo a casa, con il morale alle stelle per la prospettiva di una giornata di ozio, mentre aspettavamo che la marea ripulisse la fossa dalle carcasse dei pesci morti. Nel pomeriggio Sherry e io andammo a fare un picnic sulla punta meridionale dell'isola. Come provviste prendemmo un fiasco da due litri di "vino verde" portoghese, ma per accompagnarlo pescammo una retina di grossi molluschi, che io avvolsi nelle alghe e seppellii di nuovo nella sabbia. Sopra accesi un fuoco alimentato coi detriti di legname della riva. ~ Quando il vino fu quasi finito, il sole stava tramontando e i molluschi erano cotti a puntino. Il vino, il cibo e lo splendido tramonto ebbero l'effetto di intenerire Sherry North. Fece gli occhi dolci e languidi come quelli di una gazzella e quando alla fine il tramonto sfumò, lasciando il passo a una grossa luna gialla da innamorati, tornammo a casa camminando a piedi nudi sulla sabbia. La mattina dopo Chubby e io lavorammo per mezz'ora a portare giù dalla baleniera l'attrezzatura che ci serviva, accatastandola sul ponte del relitto prima di poter penetrare più a fondo nello scafo. Le potenti cariche che avevo sistemato contro la parete del pozzo avevano prodotto il parapiglia che temevo. Avevano squarciato le tavole e sfondato le pareti delle cabine dei passeggeri, bloccando il passaggio per un quarto della lunghezza. Trovammo un buon punto di ancoraggio per la carrucola e mentre Chubby la montava lo lasciai per spostarmi nella cabina più vicina. Puntai la pila attraverso i pannelli sfondati. L'interno, come tutto il resto, era incrostato da uno spesso strato di vegetazione marina, ma riuscii a distinguere la forma dei semplici mobili al di sotto.
M'introdussi nel varco e mi mossi lentamente attraverso il ponte ingombro, affascinato dagli oggetti che trovai sparpagliati e ammucchiati nella cabina. C'erano vasi di porcellana e ceramica; un catino in frantumi e un magnifico vaso da notte con un disegno floreale rosa che traspariva attraverso il velo di sedimenti accumulati. C'erano vasetti di cosmetici e bottiglie di profumo, oggetti metallici irriconoscibili più piccoli e cumuli di materiale amorfo e indefinibile che poteva essere stato tessuto, tende o materassi e coperte. Guardai l'orologio e vidi che era ora di salire in superficie per cambiare le bombole. Mentre mi voltavo, un piccolo oggetto quadrato attirò la mia attenzione e vi diressi il raggio della pila, strofinandolo piano per liberarlo dallo spesso strato di fanghiglia. Era una cassetta di legno delle dimensioni di una radio portatile a transistor, ma il coperchio era finemente intarsiato di madreperla e tartaruga. La presi e me la ficcai sotto il braccio. Chubby aveva finito di montare bozzello e paranco e mi aspettava accanto alla scaletta del ponte. Quando affiorammo accanto alla baleniera tesi la cassetta ad Angelo prima di arrampicarmi a bordo. Mentre Sherry ci versava il caffè e Angelo applicava le valvole alle bombole nuove, accesi un sigaro ed esaminai la scatola. Era in pessimo stato di conservazione, lo vidi subito. Il lavoro a intarsio era marcio, il legno di rosa era gonfio e distorto e la serratura e i cardini erano per metà corrosi. Sherry venne a sedersi accanto a me sul banco dei rematori ed esaminammo la mia preda. La riconobbe subito. «E' il portagioie di una signora» esclamò. «Aprilo, Harry. Vediamo che cosa c'è dentro.» Infilai sotto la serratura la punta di un cacciavite e alla prima pressione i cardini cedettero e il coperchio saltò. «Oh, Harry!» Sherry vi tuffò le mani per prima e ne estrasse una larga catena d'oro e un pesante medaglione dello stesso materiale. «Questa roba è di moda, oggi, non ci crederesti mai!» Ora tutti pescavano nella cassetta. Angelo prese al volo un paio di orecchini d'oro e zaffiri che sostituirono subito il paio d'ottone che portava abitualmente, mentre Chubby scelse un'enorme collana di granati che si avvolse intorno al collo pavoneggiandosi come un ragazzino. «Per la mia signora» spiegò. Erano i gioielli personali di una donna del ceto medio, probabilmente moglie di qualche ufficiale di grado inferiore o di un funzionario civile: nessuno aveva un gran valore, ma nel suo contesto era una collezione affascinante. Inevitabilmente la signorina North fece la parte del leone, ma io riuscii a sottrarle una semplice fede d'oro a fascia larga. «Che cosa ne vuoi fare?» mi sfidò, restia a cedere anche un solo pezzo. «Qualcosa ne farò» le risposi, scoccandole uno dei miei sguardi significativi, che andò del tutto sprecato perché lei era tornata a saccheggiare il portagioie. Senza scoraggiarmi misi al sicuro l'anello nella piccola tasca chiusa da una lampo della mia sacca di tela. A questo punto Chubby era adorno di gioielli vistosi come una sposa indù. «Dio mio, Chubby, fai concorrenza a Liz Taylor» gli dissi, e lui accolse il complimento con un vezzoso cenno del capo. Fu difficile convincerlo a ritornare al relitto, ma appena fummo di nuovo nel ponte passeggeri lavorò come un gigante nello scafo squarciato. Sgomberammo i pannelli e le masse di legname che bloccavano il passaggio usando bozzello e paranco e i nostri sforzi combinati, e trascinammo il materiale fino al ponte dei cannoni, accatastandolo in disparte in fondo a quella galleria buia. Quando raggiungemmo il pozzo della stiva prodiera le nostre riserve d'aria erano quasi esaurite. Nell'esplosione il pesante tavolato aveva ceduto e oltre l'apertura potevamo distinguere quella che sembrava una massa scura e compatta di materiale. Intuii che si trattava di un conglomerato formato dal carico per effetto del peso e della
pressione. Tuttavia fu solo nel pomeriggio del giorno seguente che scoprii di avere ragione. Eravamo finalmente nella stiva, ma non mi ero aspettato che ci attendesse un compito così immane. Il contenuto della stiva era impregnato d'acqua da oltre un secolo. Il novanta per cento degli involucri era marcito e aveva ceduto e il contenuto deperibile si era fuso in una massa scura e friabile. In questo mucchio compatto gli oggetti di metallo, i contenitori di materiale più forte e resistente e altri oggetti non troppo fragili, grandi e piccoli, erano disseminati come monete della fortuna nel pudding natalizio. Avremmo dovuto scavare per trovarli. A questo punto ci scontrammo con un nuovo problema. Al minimo spostamento di questa massa putrefatta l'acqua si riempiva subito di un mulinello di particelle scure che oscuravano i raggi delle pile e ci facevano piombare nel buio. Eravamo costretti a lavorare solo col tatto. I progressi erano penosamente lenti. Quando incontravamo qualche oggetto solido nella massa molle dovevamo isolarlo, farlo passare lungo il corridoio, calarlo fino al ponte dei cannoni e lì cercare di identificarlo. Se era di scarso valore o interesse, lo riponevamo in fondo al ponte per tenere sgombro il campo di lavoro. Alla fine del primo giorno avevamo recuperato solo un oggetto che valesse la pena di issare in superficie. Era una robusta cassa di legno resistente, coperta da qualcosa che sembrava cuoio e con gli angoli rinforzati in ottone massiccio. Aveva le dimensioni di un grosso baule da cabina. Era così pesante che Chubby e io non riuscimmo a sollevarla. Il peso stesso mi dette da sperare. Credevo che potesse contenere con molta probabilità una parte del trono d'oro. Anche se il contenitore non pareva uscito dalle mani di un carpentiere di un villaggio indiano e dei suoi figli alla metà del diciannovesimo secolo, c'era pur sempre una possibilità che il trono fosse stato imballato nuovamente prima di essere spedito da Bombay. Se conteneva davvero una parte del trono, allora il nostro compito sarebbe stato semplificato. Avremmo saputo che tipo di imballaggio cercare in futuro. Usando bozzello e paranco Chubby e io trascinammo la cassa giù per il ponte fino al portello e lì l'avvolgemmo in una rete di nylon per impedirle di aprirsi o rompersi durante la salita. Agli occhielli praticati nella circonferenza della rete assicurammo i galleggianti di tela e li gonfiammo con l'aria delle nostre bombole. Salimmo insieme con la cassa e ne regolammo l'ascesa liberando aria dai galleggianti o aggiungendola dalle bombole. Sbucammo in superficie accanto alla baleniera e Angelo ci passò mezza dozzina di cinghie di nylon con cui assicurammo la cassa prima di salire a bordo. Il peso della cassa rese vani i nostri sforzi per sollevarla oltre la fiancata, perché la baleniera s'ingavonò pericolosamente quando facemmo un tentativo in tre. Dovemmo issare l'albero e usarlo come argano, solo allora i nostri sforzi combinati ebbero successo e la cassa approdò a bordo, versando acqua dalle connessure. Appena si posò sul ponte, Chubby si precipitò ai motori. La marea ci incalzava da vicino. La cassa era troppo pesante e la nostra curiosità troppo forte per consentirci di portarla su alle caverne. L'aprimmo sulla spiaggia, forzando il coperchio con un paio di piedi di porco. La serratura elaborata era di ottone e aveva resistito ai danni dell'acqua di mare. Resistette bravamente anche ai nostri sforzi, ma alla fine il coperchio ricadde all'indietro con uno strappo e cigolò contro i cardini corrosi. La mia delusione fu immediata, perché era chiaro che questo non era il trono della tigre. Solo quando Sherry sollevò uno dei grandi dischi lucenti e lo girò con curiosità fra le mani cominciai a sospettare che ci fosse piovuta addosso una fortuna. Quello che Sherry aveva in mano era un piatto di portata, e il mio primo pensiero fu che era d'oro massiccio. Ma quando ne afferrai uno simile dalla fessura nella rastrelliera abilmente disegnata e lo voltai per esaminare i punzoni, mi accorsi che era argento placcato. La doratura l'aveva protetto dal mare in modo tale che era perfettamente conservato, un capolavoro di arte orafa con uno stemma
al centro e il bordo magnificamente sbalzato con scene di boschi e di cervi, di cacciatori e di uccelli. Il piatto che avevo in mano pesava almeno un chilo e mezzo e quando lo misi da parte ed esaminai il resto del servizio capii che il peso della cassa era più che giustificato. Il servizio era per trentasei persone e comprendeva piatti fondi, da pesce, da portata, coppe da dessert e tutta la posateria relativa. C'erano piatti di servizio, un magnifico scaldavivande, secchielli per il ghiaccio, copripiatti e un tagliere grande quasi quanto un bagnetto da neonati. Ogni pezzo era lavorato con lo stesso stemma, le scene ornamentali di animali selvaggi e cacciatori, e la cassa era stata progettata per contenere il servizio. «Signore e signori» declamai «in qualità di presidente è mio compito annunciarvi, una volta per tutte, che la nostra piccola impresa è ora in profitto.» «Ma sono solo piatti» protestò Angelo, e io feci una smorfia teatrale. «Mio caro Angelo, questo probabilmente è uno dei pochi servizi completi di argenteria da banchetto del periodo di re Giorgio che esista in tutto il mondo... è di valore inestimabile.» «Quanto?» chiese Chubby dubbioso. «Oh Dio, non lo so. Naturalmente dipende dal fabbricante e dal proprietario originario... questo stemma deve appartenere a qualche casato nobiliare; un ricco nobile che prestò servizio in India, un conte, un duca, magari un viceré.» Chubby mi guardò come se cercassi di affibbiargli un cavallo azzoppato. «Quanto?» ripeté. «Da Sotheby, in una giornata buona» esitai «non so, diciamo centomila sterline.» Chubby sputò nella sabbia e scosse la testa. Non si può far fesso il vecchio Chubby. «Questo Sotheby, dirige un manicomio?» «E' vero Chubby» intervenne Sherry. «Questa roba vale una fortuna. Potrebbe fruttare anche di più.» Ora Chubby era diviso fra il naturale scetticismo e la cavalleria. Non sarebbe stato da gentiluomo dare della bugiarda a Sherry. Raggiunse un compromesso sollevando il berretto e grattandosi la testa, sputando di nuovo senza dire niente. Comunque trattò la cassa con nuovo rispetto quando la trascinammo attraverso le palme fino alle caverne. La sistemammo dietro la pila di lattine e io andai a prendere una bottiglia nuova di whisky. «Anche se nel relitto non c'è il trono della tigre, non ce la caveremo troppo male.» Chubby sorseggiò il suo whisky e borbottò: «Centomila sterline... devono essere pazzi». «Dobbiamo esplorare con maggiore cura la stiva e le cabine, altrimenti lasceremo laggiù una fortuna.» «Anche i piccoli oggetti, meno spettacolari dell'argenteria, hanno un valore d'antiquariato enorme» confermò Sherry. «Il guaio è che appena tocchi qualcosa si solleva una nebbia tale che non ci si vede oltre la punta del naso» mugugnò Chubby, e io gli riempii il bicchiere per incoraggiarlo. «Senti, Chubby, ti ricordi la pompa ad acqua che Arnie Andrews ha installato a Monkey Bay?» gli chiesi, e Chubby annuì. «Ce la presterebbe?» Arnie era zio di Chubby. Possedeva un piccolo orto sul lato meridionale dell'isola di Saint Mary. «Forse sì» rispose prudente Chubby. «Perché?» «Voglio tentare di installare una draga» spiegai, tracciando uno schizzo nella sabbia fra i miei piedi. «Sistemiamo la pompa sulla baleniera e facciamo arrivare fino al relitto un tratto di manichetta... così.» La tratteggiai col dito. «Poi la usiamo nella stiva come un aspirapolvere, risucchiando tutta quella melma e la pompiamo in superficie.» «Ehi, è giusto» esplose entusiasta Angelo. «Quando esce dalla pompa la passiamo al setaccio e possiamo raccogliere tutta la roba piccola.» «Proprio così. Solo i rifiuti e gli oggetti piccoli e leggeri
risaliranno il tubo, tutto quello che è grande o pesante resterà giù.» Discutemmo per un'ora perfezionando i dettagli e apportando gli ultimi tocchi all'idea base. Per tutto quel tempo Chubby tentò valorosamente di non mostrare segni di entusiasmo, ma alla fine non poté più trattenersi. «Potrebbe funzionare» borbottò, il che detto da lui era una lode sperticata. «Bene, allora dovresti andare a prendere quella pompa, non ti pare?» gli chiesi. «Penso che dovrò bere ancora un goccio» temporeggiò lui, e io gli tesi la bottiglia. «Portala con te» suggerii. «Risparmieremo tempo.» Borbottò qualcosa di incomprensibile e andò a prendere il suo giaccone. Sherry e io dormimmo fino a tardi, pregustando la giornata di ozio e la sensazione di avere tutta l'isola per noi. Non ci aspettavamo che Chubby e Angelo tornassero prima di mezzogiorno. Dopo colazione attraversammo la sella fra le colline e scendemmo in spiaggia. Giocavamo nell'acqua bassa e il rombo della risacca sulla barriera esterna, i nostri spruzzi e le risate coprivano ogni altro suono. Fu per puro caso che alzai gli occhi e vidi l'aereo da turismo che planava avvicinandosi dal canale verso terra. «Corri!» gridai a Sherry, e lei pensò che scherzassi finché non le indicai l'aereo. «Corri! Non facciamoci vedere» e stavolta lei reagì in fretta. Saltammo fuori dall'acqua nudi e risalimmo la spiaggia a tutta velocità. Adesso riuscivo a distinguere il ronzio dei motori dell'aereo e guardai indietro. Stava virando a bassa quota sopra la cima meridionale dell'isola e puntava verso di noi sulla lunga spiaggia diritta. «Più veloce!» urlai a Sherry mentre correva davanti a me con le gambe lunghe e le natiche piene, le trecce umide di capelli neri ballonzolanti sulla schiena abbronzata. Guardai indietro: l'aereo puntava proprio nella nostra direzione. Era distante ancora più di un chilometro, ma potei distinguere che era un bimotore. Mentre lo osservavo, si abbassò ancor più sulla bianca distesa di sabbie coralline. Afferrammo al volo i vestiti sparsi qua e là e coprimmo a tempo di record gli ultimi metri fino al boschetto di palme. C'era un rialzo formato da un albero caduto e dalle fronde strappate agli alberi dalla tempesta. Era un nascondiglio ideale e afferrai Sherry per il braccio trascinandola giù. Rotolammo al riparo delle fronde secche e restammo distesi fianco a fianco, ansimando forte per la corsa in salita dalla spiaggia. Allora mi accorsi che l'aereo era un bimotore Chessna. Sorvolò la spiaggia e passò davanti al nostro nascondiglio a soli sei metri dal pelo dell'acqua. La fusoliera era dipinta di un caratteristico giallo margherita e si fregiava del nome "Africair". Riconobbi l'aereo. L'avevo già visto una mezza dozzina di volte all'aeroporto di Saint Mary, di solito mentre scaricava o imbarcava gruppi di turisti facoltosi. Sapevo che l'Africair era una compagnia di voli charter con base sul continente e che i suoi apparecchi venivano noleggiati con una tariffa a chilometraggio. Mi chiesi chi fosse a pagare il noleggio, questa volta. Sui sedili anteriori dell'aereo c'erano due persone, il pilota e un passeggero, e avevano il viso rivolto verso di noi mentre l'apparecchio sfrecciava rombando. Tuttavia erano troppo lontani per poterne distinguere i lineamenti. Erano entrambi bianchi, questo era l'unico dato certo. Il Chessna effettuò una brusca deviazione di rotta sulla laguna e, con un'ala puntata in basso, verso l'acqua cristallina, girò su se stesso e si abbassò per un'altra corsa sulla spiaggia. Stavolta passò così vicino che per un attimo fissai in faccia il passeggero mentre sbirciava giù fra le palme. Mi parve di
riconoscerlo, ma non potevo esserne certo. Poi il Chessna si allontanò, cabrando lentamente, e stabilì una nuova rotta verso il continente. Nella manovra ci fu qualcosa di compiaciuto, l'aria di chi ha raggiunto il suo scopo, un lavoro ben fatto. Sherry e io strisciammo fuori dal nostro nascondiglio e ci alzammo per scuoterci la sabbia dai corpi umidi. «Pensi che ci abbiano visto?» chiese lei timidamente. «Con quel tuo didietro che brillava al sole come uno specchio, non potevano mancarci.» «Potrebbero averci scambiato per una coppia di pescatori indigeni.» La guardai, ma non in faccia, e ribattei sorridendo: «Pescatori? Con le tue forme da Venere di Milo?». «Harry Fletcher, sei disgustoso» esplose lei. «Ma sul serio, Harry, che cosa succederà, adesso?» «Vorrei saperlo, tesoro, vorrei proprio saperlo» risposi, ma ero lieto che Chubby avesse portato con sé a Saint Mary la cassa di argenteria. A quest'ora probabilmente era sepolta dietro il bungalow a Turtle Bay. Eravamo ancora in profitto... anche se presto avessimo dovuto battercela. La visita dell'aereo infuse in tutti noi un nuovo senso di urgenza. Ormai sapevamo di avere il tempo contato e Chubby al ritorno portò con sé notizie altrettanto inquietanti. «Il "Mandrake" ha incrociato per cinque giorni a sud dell'arcipelago. L'hanno visto quasi tutti i giorni dal Coolie Peak che faceva avanti e indietro come se non sapesse che pesci pigliare» riferì. «Poi lunedì è attraccato di nuovo al porto grande. Wally dice che il proprietario e sua moglie sono saliti in albergo a pranzare, poi hanno preso un taxi e sono andati in Frobisher Street. Hanno passato un'ora con Fred Coker nel suo ufficio, poi lui li ha riportati al molo dell'Ammiragliato e sono tornati a bordo del "Mandrake". Hanno levato l'ancora e sono salpati quasi subito.» «E' tutto?» «Sì» annuì Chubby «a parte il fatto che dopo Fred Coker è andato difilato alla banca e ha versato millecinquecento dollari sul suo libretto di risparmio.» «Come lo sai?» «La terza figlia di mia sorella lavora in banca.» Tentai di fare una faccia allegra, anche se mi sentivo strisciare nello stomaco tanti piccoli insetti. «Be'» osservai «avvilirsi non serve a niente. Cerchiamo di montare la pompa, così potremo approfittare della marea di domani.» Più tardi, dopo che avemmo trasportato la pompa su alle grotte, Chubby scese da solo alla baleniera, e quando tornò portava un lungo fagotto di tela. «Che cos'hai lì, Chubby?» domandai, e lui apri timidamente l'involto. C'era la mia carabina FN, con una dozzina di caricatori stipati in un piccolo zaino. «Ho pensato che poteva tornare utile» borbottò. Portai l'arma giù al boschetto e la seppellii accanto alle casse di gelignite in una buca poco profonda. La sua vicinanza mi dette un po' di conforto quando tornai a dirigere il montaggio della pompa. Lavorammo fino a tardi alla luce delle lanterne a gas, ed era già mezzanotte passata quando portammo la pompa con il motore giù alla baleniera e l'assicurammo a un supporto improvvisato di legno solido che sistemammo proprio a mezza nave. Al mattino Angelo e io lavoravamo ancora sulla pompa quando puntammo verso la barriera. Dovemmo restare fermi per mezz'ora prima di averla montata e preparata per la prova. Scendemmo fino al relitto in tre, Chubby, Sherry e io, e introducemmo il rigido serpente nero della manichetta attraverso il portello del cannone fino alla breccia ricavata nel pozzo della stiva. Appena fu in posizione, battei una pacca sulla spalla di Chubby e gli indicai la superficie. Lui assenti e si allontanò, lasciando Sherry e me nel ponte passeggeri. Avevamo pianificato con cura questa parte dell'operazione e attendemmo con impazienza mentre Chubby risaliva, effettuava la decompressione e
saliva a bordo della baleniera per agganciare la pompa e avviare il motore. Capimmo che l'aveva fatto dal debole ronzio e dalle vibrazioni trasmesse fino a noi lungo la manichetta. Mi puntellai all'ingresso frastagliato della stiva e afferrai con tutt'e due le mani l'estremità del tubo di drenaggio. Sherry puntò la pila sulla massa scura del carico e io passai lentamente l'imboccatura della manichetta sul mucchio di marciume. Vidi subito che avrebbe funzionato, pezzetti di detriti svanivano come per incanto nel tubo, che provocava un piccolo vortice risucchiando acqua e particelle fluttuanti. A questa profondità e con la potenza fornita dal motore la pompa doveva aspirare centotrentaseimila litri d'acqua l'ora, il che era un volume considerevole. In pochi secondi aveva sgomberato il campo d'azione e la visibilità era ancora buona. Potevo cominciare a sondare il mucchio con una sbarra, isolando i pezzi più grossi e spingendoli indietro nel corridoio alle nostre spalle. Una volta o due dovetti ricorrere a bozzello e paranco per rimuovere una cassa o qualche oggetto voluminoso, ma per lo più riuscivo ad avanzare servendomi solo della manichetta e della leva. Avevamo spostato quasi un metro cubo e mezzo di materiale quando venne il momento di risalire per cambiare le bombole. Lasciammo l'estremità del tubo ancorata saldamente al ponte passeggeri, e risalimmo a ricevere un'accoglienza da eroi. Angelo era in estasi e perfino Chubby sorrideva. L'acqua intorno alla baleniera era intorbidita dalla densa zuppa di rifiuti che avevamo risucchiato dalla stiva e Angelo aveva recuperato quasi un secchio di piccoli oggetti che erano passati dallo scarico della pompa cadendo nel setaccio; era una collezione di bottoni, chiodi, piccoli ornamenti di abiti femminili, gradi militari, qualche monetina di rame e d'argento dell'epoca, e cianfrusaglie di metallo, vetro e osso. Perfino io ero impaziente di tornare al mio compito e Sherry insistette tanto che dovetti cedere a Chubby il sigaro fumato a metà e scendemmo di nuovo. Stavamo lavorando da quindici minuti quando m'imbattei nello spigolo di una cassa capovolta simile ad altre che avevamo già scartato. Per quanto il legno fosse tenero come sughero, le connessure erano state rinforzate con bande e chiodi di ferro, tanto che dovetti lottare per qualche tempo prima di staccarne una tavola e spingerla indietro fra noi. Quella seguente venne via più facilmente, ma il contenuto sembrava un materasso di fibre vegetali decomposte e infeltrite. Ne staccai un grosso blocco, che per poco non ostruì l'apertura della manichetta, ma alla fine scomparve diretto verso la superficie. Avevo quasi perso ogni interesse per questa cassa e stavo per cominciare a lavorare in un'altra zona, ma Sherry mostrò violenti segni di disapprovazione, scuotendo la testa, battendomi sulla spalla e rifiutandosi di dirigere la luce della pila altrove che sul groviglio poco appetibile di fibre. In seguito le chiesi perché avesse insistito e lei sbatté le ciglia e si dette un'aria d'importanza. «Intuito femminile, mio caro. Tu non capiresti.» Alle sue insistenze attaccai ancora una volta l'apertura della cassa, ma sgretolando pezzi più piccoli di fibre in modo da non intasare il tubo. Avevo rimosso circa quindici centimetri di questo materiale quando in fondo alla breccia vidi un luccichio metallico Allora sentii il primo profondo fremito di certezza e strappai un'altra tavola con furiosa impazienza. L'apertura si allargò consentendomi di lavorare con più facilità. Rimossi lentamente lo strato di fibre compatte che in origine dovevano essere paglia usata per l'imballaggio. Come un volto che si materializza in un sogno, la visione si rivelò. Il primo impercettibile luccichio si schiuse in uno splendore d'oro finemente lavorato e sentii Sherry stringermi forte la spalla mentre si abbassava accanto a me. Ci trovammo davanti un muso e sotto due labbra che si arrovesciavano
in un ringhio feroce, rivelando grandi zanne d'oro e una lingua inarcata. La fronte alta e spaziosa era larga come le mie spalle, con le orecchie appiattite strette al cranio brunito... e c'era una sola orbita vuota incassata quasi al centro dell'ampia fronte. L'assenza dell'occhio dava all'animale un'espressione cieca e tragica, simile a quella di un dio mutilato della mitologia. Sentii un timore quasi reverenziale mentre fissavo l'enorme testa di tigre splendidamente cesellata che avevamo scoperto. Qualcosa di freddo e di terrificante mi corse lungo la spina dorsale e involontariamente mi guardai intorno nei recessi cupi e minacciosi della stiva, come se mi aspettassi che gli spiriti guardiani dei principi mongoli fossero li in agguato. Sherry mi strinse di nuovo la spalla e io riportai la mia attenzione sull'idolo d'oro, ma la sensazione di timore reverenziale era così forte che dovetti fare forza a me stesso per riprendere il compito di sgomberare l'imballaggio che lo circondava. Lavorai con molta cura perché sapevo bene che il minimo graffio o danno avrebbe ridotto di molto il valore e la bellezza dell'effigie. Quando il tempo fu scaduto ci tirammo indietro per fissare la testa e le spalle scoperte e il raggio della pila fu riflesso dalla superficie brillante in frecce di luce dorata che rischiararono la stiva come un santuario. Poi ci voltammo e la lasciammo al silenzio e al buio, risalendo alla luce del sole. Chubby si accorse subito che era accaduto qualcosa di significativo, ma non disse niente finché non fummo saliti a bordo e in silenzio avemmo riposto l'attrezzatura. Mi accesi un sigaro e lo aspirai, senza curarmi di asciugare le goccioline d'acqua di mare che mi piovevano giù per le guance dai capelli zuppi. Chubby mi osservava, ma Sherry era distante da noi, avvolta nei suoi pensieri segreti, chiusa in se stessa. «L'avete trovato?» chiese finalmente Chubby e io annuii. «Sì, Chubby, è lì.» Fui sorpreso di sentire la mia voce roca e incerta. Angelo, che non aveva avvertito il nostro stato d'animo, alzò subito gli occhi dall'attrezzatura che stava riordinando. Aprì la bocca per dire qualcosa, ma poi la richiuse lentamente accorgendosi della tensione. Eravamo tutti silenziosi, ammutoliti dall'emozione. Non mi ero aspettato che fosse così e guardai Sherry. Lei finalmente incontrò il mio sguardo e i suoi occhi scuri erano come stregati. «Andiamo a casa, Harry» disse, e io annuii a Chubby. Lui fissò una boa alla manichetta e la lasciò cadere fuori bordo per recuperarla il giorno dopo. Poi avviò i motori e diresse la prua verso il canale. Sherry attraversò la baleniera e venne a sedersi accanto a me sul banco dei rematori. Le passai il braccio sulle spalle, ma nessuno dei due parlò finché la baleniera non approdò silenziosa sulla spiaggia bianca dell'isola. Al tramonto Sherry e io salimmo sul picco che sovrastava il campo e ci sedemmo vicini a guardare oltre la barriera, osservando la luce affievolirsi sul mare e tuffare la fossa di Gunfire Reef in un'ombra più fonda. «Mi sento quasi colpevole» bisbigliò Sherry «come se avessi commesso un tremendo sacrilegio.» «Sì» ammisi. «Capisco quello che vuoi dire.» «Quella cosa... sembrava che avesse una vita propria. E' strano che abbiamo scoperto la testa prima di tutto il resto. Ritrovarsi a un tratto davanti a quel muso che ti fissa minaccioso...» Rabbrividì e rimase in silenzio per qualche istante. «Eppure ho provato anche una profonda soddisfazione, una sensazione di pace interiore. Non so se riesco a spiegarmi bene... perché le due sensazioni erano così contrastanti, eppure mescolate.» «Capisco. L'ho provato anch'io.» «Che cosa ne faremo, Harry, che cosa faremo di quello splendido animale?» Non so perché, in quel momento non avevo voglia di parlare di denaro e compratori... il che di per sé dava la misura di quanto fosse profondo il mio attaccamento all'idolo d'oro.
«Scendiamo» proposi invece. «Angelo ci aspetta per la cena.» Seduto alla luce del fuoco, con una buona cena nello stomaco, un bicchiere di whisky in una mano e un sigaro nell'altra, mi sentii finalmente in grado di parlarne agli altri. Spiegai come ci eravamo imbattuti nella cassa e descrissi l'imponente testa d'oro. Mi ascoltarono assorti, in perfetto silenzio. «Abbiamo liberato la testa fino alle spalle. Penso che sia lì che finisce. Probabilmente è tagliata in modo da adattarsi alla sezione seguente. Domani dovremmo riuscire a metterla allo scoperto, ma sarà un lavoro delicato. Non possiamo tirarla su con bozzello e paranco. Dev'essere protetta dai danni prima che possiamo spostarla.» Chubby diede un suggerimento e per un po' discutemmo nei dettagli il modo migliore di maneggiare la testa per ridurre al minimo il rischio di danni. «Possiamo presumere che tutte le cinque casse contenenti il tesoro siano state caricate insieme. Spero di trovarle nella stessa parte della stiva, probabilmente imballate anche quelle in casse di legno rinforzate da bande di ferro...» «Tranne le pietre» m'interruppe Sherry. «Nella testimonianza resa alla corte marziale, il Subahdar spiegò che erano state chiuse in una cassetta da ufficiale pagatore.» «Sì, certo» riconobbi. «Che aspetto dovrebbe avere?» chiese Sherry. «All'arsenale di Copenhagen ne ho vista in mostra una che probabilmente sarà molto simile. E' come una piccola cassaforte di ferro... della misura di una grossa latta di biscotti.» Indicai le dimensioni allargando le mani, come un pescatore che si vanta della sua preda. «E' rinforzata da costoloni di ferro e ha un catenaccio e un paio di lucchetti ad ogni angolo.» «Sembra formidabile.» «Dopo cent'anni e più nella fossa, probabilmente sarà tenera come il gesso... sempre se è ancora intera.» «Domani lo scopriremo» annunciò Sherry fiduciosa. Al mattino scendemmo sulla spiaggia con la pioggia che tamburellava sulle nostre mute e gocciolava giù a ruscelletti. All'altezza delle cime si era formato un tetto di nuvole, dense formazioni scure che avanzavano compatte dal mare per sganciare sull'isola il loro carico di umidità. La violenza della pioggia sollevava dalla superficie del mare una fine nebbiolina perlacea, e le cortine grigie in movimento riducevano la visibilità a poche centinaia di metri, tanto che l'isola scomparve in una foschia grigiastra appena ci dirigemmo verso la barriera. Sulla baleniera tutto era freddo e viscido e grondava acqua. Angelo doveva aggottare regolarmente e noi ce ne stavamo rannicchiati, stretti nelle mute di gomma, mentre Chubby stava ritto a poppa e socchiudeva gli occhi per difendersi dalla pioggia battente mentre affrontava il canale. La boa fluorescente arancione galleggiava ancora a ridosso della barriera e noi la tirammo su, issammo a bordo l'estremità della manichetta e la collegammo alla testa della pompa. Serviva anche da catena dell'ancora e Chubby poté spegnere i motori. Fu un sollievo lasciare la barca, sfuggire allo stillicidio freddo della pioggia e immergersi nelle silenziose nebbie azzurre della fossa. Dopo aver resistito a considerevoli pressioni da parte mia e di Chubby, Angelo aveva finalmente ceduto a velate minacce e aperte lusinghe, rinunciando al suo materasso di traliccio imbottito di fibre di cocco. Quando fu imbevuto ben bene d'acqua di mare, il materasso affondò subito e io lo portai con me stretto in un rotolo, legato con una fune. Solo dopo averlo fatto passare attraverso il portello fino al ponte passeggeri tagliai la fune e lo spiegai. Poi Sherry e io tornammo nella stiva dove la testa di tigre accecata ringhiò ancora alla luce della torcia. Bastarono dieci minuti di lavoro per liberare la testa dal suo nido. Come sospettavo, la sezione terminava all'altezza delle spalle e la
zona di congiunzione presentava una flangia accurata; era chiaro che unendola alla sezione del tronco la flangia avrebbe combaciato con la fessura madre in un incastro solido e quasi impercettibile. Quando rotolai con precauzione la testa su un fianco feci un'altra scoperta. In un certo senso avevo dato per scontato che l'idolo fosse fatto d'oro massiccio, ma ora vedevo che in effetti era cavo. Lo spessore reale del metallo era di circa due centimetri e mezzo e l'interno era ruvido e nodoso al tatto. Mi resi subito conto che un idolo massiccio avrebbe pesato centinaia di tonnellate e il costo della sua costruzione sarebbe stato proibitivo perfino per un imperatore in grado di finanziare la costruzione di un tempio enorme come il Taj Mahal. La sottigliezza dello strato di metallo aveva naturalmente indebolito la struttura e quando la voltai vidi subito che la testa aveva già subito dei danni. L'orlo della cavità del collo era stato appiattito e deformato, probabilmente durante il viaggio clandestino in mezzo alle foreste indiane, su un carro privo di balestre, o magari durante la lotta mortale della "Dawn Light" contro il ciclone. Puntellandomi all'ingresso della stiva, mi chinai sulla testa per valutarne il peso e la cullai fra le braccia come il corpo di un bambino. Gradualmente aumentai la forza della stretta e fui compiaciuto, ma non sorpreso, quando riuscii a sollevarla fra le braccia. Naturalmente il peso era tremendo e richiedeva tutta la mia forza in una posizione di equilibrio calcolata con cura, ma potevo sollevarla. Non pesava più di centotrenta chili, pensai, mentre mi giravo goffamente sotto il pesante carico d'oro e la posavo con precauzione sul materasso di fibra di cocco che Sherry teneva pronto per accoglierla. Poi mi raddrizzai per riposarmi e massaggiare i punti dove i bordi taglienti del metallo mi avevano segato la carne. Nel frattempo tentai un piccolo calcolo aritmetico. Centotrenta chili e rotti equivalevano a circa quattromila e ottocento once: a centocinquanta dollari l'oncia facevano quasi tre quarti di milione di dollari. Quello era il valore intrinseco della sola testa. Il trono comprendeva altre tre sezioni, tutte probabilmente più grandi e pesanti, poi c'era il valore delle pietre. Era un totale astronomico, ma poteva essere raddoppiato o triplicato se si teneva conto del valore artistico e storico del tesoro. Abbandonai i miei calcoli, in questo momento privi di senso, e invece aiutai Sherry a ripiegare il materasso intorno alla testa della tigre e a legare il tutto in un solido fagotto. Allora potei usare bozzello e paranco per trasportarlo lungo la scaletta di boccaporto e calarlo sul ponte dei cannoni. Lo trascinammo laboriosamente fino al portello e lì lottammo per farlo passare attraverso l'apertura angusta, ma alla fine ci riuscimmo e potemmo disporvi intorno la rete di nylon e gonfiare i galleggianti. Fu necessario montare di nuovo l'albero per issarlo a bordo. Ma non c'era nessun motivo per cui la testa dovesse restare coperta una volta al sicuro sulla baleniera, e con tutta la solennità e la padronanza di me che riuscii a mettere insieme sotto la torrenziale pioggia tropicale, la scoprii. Chubby e Angelo fecero da spettatori entusiasti. La loro eccitazione non fu sminuita nemmeno dalle condizioni pietose di umidità e si affollarono intorno alla testa per toccarla ed esaminarla, fra grida e risate eccitate. Era questa la gaiezza festiva che era mancata alla nostra prima scoperta del tesoro. Avevo preso la precauzione di far scivolare nella mia sacca la fiasca da viaggio d'argento e ora corressi le tazze fumanti di caffè nero con dosi generose di scotch e brindammo a noi stessi e alla tigre d'oro con il liquido bollente, ridendo mentre la pioggia ci inondava e tamburellava sul favoloso tesoro ai nostri piedi. Alla fine sciacquai la mia tazza fuori bordo e controllai l'orologio. «Faremo un'altra immersione» decisi. «Puoi riavviare la pompa, Chubby.» Ora sapevamo dove continuare a cercare e dopo aver sgombrato i resti della cassa che aveva contenuto la testa scorsi, nell'apertura più in là, il fianco di una cassa simile e spinsi il tubo nella zona per
liberarla dalla fanghiglia prima di procedere. I miei scavi dovevano aver squilibrato il mucchio in putrefazione del vecchio carico e bastò lo spostamento causato dal risucchio della manichetta per farne cadere una parte. Con un rombo ci crollò addosso e in un attimo le nuvole turbinanti di melma resero vani gli sforzi della manichetta per diradarle e piombammo di nuovo nel buio. Nel buio cercai a tentoni Sherry e lei dovette cercare me, perché le nostre mani s'incontrarono e si allacciarono. Con una stretta mi rassicurò che non era stata colpita dal carico e potei cominciare a risucchiare l'acqua torbida con la pompa aspirante. Entro cinque minuti potevo distinguere nell'oscurità il bagliore giallo della pila di Sherry, poi la sua sagoma e il confuso guazzabuglio del nuovo carico venuto alla luce. Con Sherry al mio fianco, avanzai nella stiva. La frana aveva coperto la cassa di legno su cui stavo lavorando, ma in cambio aveva portato in luce qualcos'altro che riconobbi subito, nonostante le pessime condizioni, perché era quasi esattamente come l'avevo descritta a Sherry la sera prima, perfino nei dettagli del chiavistello che bloccava la serratura e dei doppi lucchetti. La cassetta dell'ufficiale pagatore, però, era quasi del tutto corrosa dalla ruggine e quando la toccai la mia mano rimase macchiata dal rosso gessoso dell'ossido di ferro. Alle estremità della cassetta c'erano pesanti anelli di ferro per il trasporto; con ogni probabilità un tempo erano mobili, ma ormai erano saldati dalla ruggine alla fiancata di metallo; tuttavia mi permisero di estrarre con precauzione la cassetta dal letto di melma appiccicosa. Si liberò, suscitando un piccolo mulinello di detriti, e riuscii a sollevarla con relativa facilità. Dubito che il peso complessivo superasse i settantacinque chili ed ero certo che la maggior parte fosse costituita dal ferro. Dopo la testa enormemente pesante avvolta nel materasso soffice e voluminoso, estrarre dal relitto la cassetta più piccola e leggera fu un compito semplice e bastò un solo galleggiante per sollevarla fuori dal portello. La marea e la risacca si stavano riversando ancora una volta nella fossa con violenza allarmante e la baleniera rollava e beccheggiava impaziente mentre issavamo a bordo la cassetta e la posavamo sul mucchio di respiratori coperti da un telone a prua. Poi finalmente Chubby poté avviare i motori e portarci attraverso il canale. Eravamo tutti eccitati e la fiasca d'argento passò di mano in mano. «Che effetto fa essere ricchi, Chubby?» esclamai e lui bevve una sorsata dalla fiasca, strizzando gli occhi e poi tossendo per il bruciore prodotto dall'alcool prima di sorridermi. «Tutto come prima, amico. Ancora nessun cambiamento.» «Chubby, lei che cosa farà con la sua parte?» insistette Sherry. «Ormai è un po' tardi, signorina Sherry... se solo mi fosse toccata vent'anni fa, allora avrei saputo cosa farne... eccome.» Prese un altro sorso. «Questo è il guaio... quando sei giovane non ti capita mai e quando sei vecchio è troppo tardi, maledizione.» «E lei, Angelo?» Sherry si rivolse a lui, appollaiato sulla cassetta arrugginita, con i riccioli da gitano appesantiti dalla pioggia che gli penzolavano sulle guance e le gocce impigliate fra le lunghe ciglia scure. «E' ancora giovane, che cosa farà?» «Signorina Sherry, me ne sto qui seduto a pensarci... e ho già una lista lunga da qui fino a Saint Mary e ritorno.» Ci vollero due viaggi dalla spiaggia al campo prima di mettere al riparo dalla pioggia la testa e la cassetta, nella caverna che ci serviva da magazzino. Chubby accese due lanterne a gas, perché il cielo basso aveva fatto calare la sera in anticipo, e ci raccogliemmo intorno alla cassa, mentre la testa d'oro ringhiava contro di noi da un posto d'onore, una mensola di terra scavata in fondo alla caverna. Con un seghetto e un piede di porco, Chubby e io cominciammo a lavorare sulla serratura e scoprimmo subito che l'aspetto decrepito del metallo era ingannevole, chiaramente era una lega ben temprata. Nella prima mezz'ora spezzammo tre lame del seghetto e Sherry asserì
di essere scandalizzata dal mio linguaggio. La mandai a prendere una bottiglia di Chivas Regal dalla nostra caverna per tenerci di buonumore e Chubby e io ci prendemmo l'equivalente scozzese dell'intervallo per il tè. Con rinnovato vigore ritornammo all'assalto della cassetta, ma passarono altri venti minuti prima che Chubby riuscisse a segare il chiavistello. A quel punto fuori della caverna era buio. La pioggia sibilava ancora senza sosta, ma il dolce fruscio delle foglie di palma annunciava il sorgere del vento dell'ovest, che prima del mattino avrebbe disperso le nuvole di tempesta. Segato il chiavistello, lo staccammo dagli anelli che lo fermavano con un martello pesante preso dalla cassetta degli attrezzi. Ogni colpo staccava dalla superficie del metallo una pioggia soffice di scaglie di ruggine e fu necessario un buon numero di colpi energici per liberare il chiavistello dalla stretta tenace della corrosione. Con tutto che era stato liberato, il coperchio si rifiutò di sollevarsi. Per quanto lo bersagliassimo di martellate da una dozzina di direzioni diverse e io lo sottoponessi a un'ulteriore serie di maltrattamenti, non voleva saperne di cedere. Decretai un'altra sosta per il whisky e per discutere il problema. «Che ne dici di un candelotto di dinamite?» suggerì Chubby con uno scintillio negli occhi, ma dovetti trattenerlo controvoglia. «Ci serve la fiamma ossidrica» annunciò Angelo. «Bravo» plaudii in tono ironico, perché stavo perdendo la pazienza. «La più vicina fiamma ossidrica è lontana ottanta chilometri e tu fai un'osservazione del genere.» Fu Sherry a scoprire la serratura secondaria, un sistema segreto di perni che attraverso il coperchio si agganciavano alle cavità nascoste nel corpo della cassetta. Evidentemente richiedeva una chiave per farlo scattare, ma in mancanza di questa scelsi un robusto punzone e lo introdussi nel buco della serratura: per fortuna incappai nel braccio di chiusura e lo spezzai. Chubby attaccò di nuovo il coperchio, che stavolta si sollevò rigido sui cardini corrosi. Una parte del contenuto marcio e puzzolente rimase attaccato all'interno, staccandosi dalla massa principale di vecchia stoffa scura. Erano tessuti di cotone, un blocco umido e compatto, e intuii che doveva trattarsi di abiti indigeni o balle di stoffa usati come imballaggio. Stavo per proseguire l'esplorazione, quando a un tratto mi ritrovai in seconda fila, a guardare sopra la spalla di Sherry North. «E' meglio che lasci fare a me» disse lei. «Potresti rompere qualcosa.» «Ma che dici?» protestai. «Perché non ti prepari un altro drink?» mi suggerì conciliante cominciando a sollevare strati di tessuto fradicio. La proposta aveva del buono, pensai, così mi riempii il bicchiere e osservai Sherry scoprire uno strato di pacchetti avvolti nella stoffa. Ciascuno era legato con uno spago che si sbriciolò al tocco e anche il primo pacchetto si disintegrò appena lei tentò di tirarlo fuori. Sherry chiuse le mani intorno alla massa in decomposizione e la raccolse su un'incerata ripiegata vicino alla cassetta. Il pacco conteneva decine di piccoli oggetti a forma di noce di misura variabile, da poco più grandi della capocchia di un fiammifero a un chicco d'uva maturo; ognuno era stato avvolto in un pezzetto di carta, che come il cotone era completamente marcito. Sherry scelse uno di questi oggetti rotondeggianti e sfregò i residui di carta fra pollice e indice rivelando una grossa pietra azzurra scintillante, dal taglio quadrato e levigata su un lato. «Zaffiro?» propose. Io gliela presi di mano e la esaminai in fretta alla luce della lanterna. Era opaca e la smentii. «No, credo che siano lapislazzuli.» Il frammento di carta che vi aderiva ancora era leggermente colorato di tintura blu. «Inchiostro, direi.» Lo appallottolai fra le dita. «Almeno il colonnello si è preso la briga di identificare le pietre. Probabilmente ha avvolto ogni pezzo in un foglietto numerato che si riferiva a un disegno generale del trono per permettere di rimontarlo.» «Ormai non c'è più speranza di riuscirci» disse Sherry.
«Non so» replicai. «Sarà un lavoro infernale, ma dovrebbe essere ancora possibile rimettere tutto insieme.» Fra le nostre provviste c'era un rotolo di sacchetti di plastica e io spedii Angelo a scovarlo. Appena aperto un involto di tessuto marcito ripulivamo superficialmente le pietre che conteneva e impacchettavamo ogni lotto in un sacchetto separato. Fu un lavoro lento, anche se collaboravamo tutti, e dopo quasi due ore avevamo riempito dozzine di pacchetti con migliaia di pietre semipreziose... lapislazzuli, berilli, occhi di tigre, granate, ametiste e un'altra mezza dozzina sulla cui identità ero incerto. Ogni pietra evidentemente era stata tagliata con amore e levigata in modo da adattarsi perfettamente alla sua nicchia nel trono d'oro. Fu solo dopo aver svuotato la cassetta fino all'ultimo strato che c'imbattemmo nelle pietre di maggior valore. Evidentemente il colonnello le aveva scelte per prime ed erano finite sul fondo. Accostai alla luce della lampada un pacchetto di plastica trasparente pieno di smeraldi, che brillarono come una stella verde. Li fissammo tutti come ipnotizzati, mentre io li giravo lentamente per coglierne gli straordinari riflessi di luce. Li misi da parte e Sherry rituffò la mano nella cassetta e dopo un attimo di esitazione tirò fuori un pacchetto più piccolo. Asportò il materiale umido e friabile avvolto in uno strato spesso intorno all'unica pietra che conteneva. Poi, nella mano stretta a coppa, sollevò in alto il diamante Gran Mogol. Aveva le dimensioni di un uovo di pollastrella, tagliato in una forma sfaccettata a cuscino, proprio come l'aveva descritto JeanBaptiste Tavernier tanti secoli fa. Lo sfolgorante assortimento di tesori che avevamo maneggiato prima non offuscò in alcun modo la gloria di questa pietra, come tutte le stelle del firmamento non possono oscurare il sorgere del sole. Impallidirono e svanirono davanti alla brillantezza e allo splendore del grande diamante. Sherry tese lentamente la mano verso Angelo, offrendoglielo perché lo tenesse e lo esaminasse, ma lui ritrasse le mani e le strinse dietro la schiena, fissando ancora la pietra con timore reverenziale. Sherry si voltò e la porse a Chubby, ma anche lui rifiutò con gravità. «Lo dia al signor Harry. Credo che lo meriti lui.» Io lo presi e fui sorpreso che un tale fuoco ultraterreno potesse essere così freddo al tocco. Mi alzai, lo portai verso la testa d'oro della tigre che ringhiava furiosa alla luce fissa delle lanterne e premetti il diamante nell'orbita vuota dell'occhio. Si adattò alla perfezione e io usai il coltello da esche per chiudere le graffette d'oro che lo fissavano al suo posto e che il vecchio colonnello probabilmente aveva aperto con una baionetta più di un secolo fa. Poi mi tirai indietro e sentii i lievi sussulti di stupore. Con il ritorno dell'occhio al suo posto la belva d'oro era tornata alla vita. Ora pareva che ci sorvegliasse con alterigia imperiale e da un momento all'altro ci aspettavamo che la caverna risuonasse del suo crudele ringhio furioso. Tornai a riprendere il mio posto nel circolo accovacciato intorno alla cassetta arrugginita e fissammo tutti la testa d'oro della tigre. Sembravamo i fedeli di un antico rito pagano, prosternati davanti al terribile idolo. «Chubby, mio vecchio caro e fedele amico, ti guadagnerai un posto in paradiso se mi passi quella bottiglia» dissi io, e questo ruppe l'incantesimo. Tutti ritrovarono la voce contendendosi il diritto di parlare e non passò molto tempo prima che dovessi mandare Sherry a prendere un'altra bottiglia per lubrificare le nostre gole secche. Eravamo tutti piuttosto ubriachi quella sera, perfino Sherry North, che si appoggiò a me per mantenere l'equilibrio quando finalmente ci dirigemmo schiamazzando fino alla nostra caverna sotto la pioggia. «Mi stai davvero corrompendo, Fletcher.» Inciampò in una pozzanghera e per poco non mi fece cadere. «Questa è la prima volta in vita mia che mi ubriaco.» «Sta' allegra, tesoro mio, che ora comincia la nuova lezione di corruzione.» Quando mi svegliai era ancora buio e mi alzai facendo attenzione a non
disturbare Sherry, che respirava con un ritmo leggero e regolare. Faceva fresco, così infilai i calzoncini e un maglione di lana. Fuori della caverna il vento dell'ovest aveva diradato i banchi di nuvole. Aveva smesso di piovere e le stelle occhieggiavano nelle brecce, irradiando abbastanza luce da permettermi di leggere il quadrante luminoso dell'orologio. Erano appena passate le tre. Mentre cercavo la mia palma preferita, vidi che avevamo lasciato accesa la lanterna nella caverna che faceva da deposito. Finii quello che dovevo fare e mi accostai all'ingresso illuminato. La cassa aperta era dove l'avevamo lasciata, e così pure la preziosa testa d'oro con il suo occhio luccicante... e a un tratto mi colpì il terrore divorante che l'avaro deve provare per il proprio tesoro. Era così vulnerabile. "... dove s'introducono i ladri..." pensai, e non si poteva dire che nei dintorni scarseggiassero. Dovevo mettere tutto al sicuro, l'indomani sarebbe stato troppo tardi. Nonostante il dolore alla testa e il rigurgito di whisky in gola, occorreva farlo subito... ma avevo bisogno di aiuto. Chubby si svegliò appena lo chiamai all'ingresso della caverna e uscì al chiarore delle stelle, splendente nel suo pigiama a strisce e sveglissimo come se prima di andare a letto non avesse bevuto niente di più forte del latte di sua madre. Spiegai i miei timori e le mie apprensioni. Chubby grugnì assentendo e si diresse con me verso il deposito. Rimettemmo alla rinfusa nella cassa di ferro i sacchetti di gemme e io fermai il coperchio con un tratto di cavo di nylon. La testa d'oro l'avvolgemmo con cura in un telo d'incerata verde e portammo il tutto giù nel boschetto di palme, prima di tornare a prendere le pale e la lanterna a gas. Al bagliore bianco e uniforme della lanterna lavorammo fianco a fianco, scavando due buche poco profonde nel terreno sabbioso, a pochi metri da quella dov'erano già sepolti la gelignite e il fucile FN con le munizioni di riserva. Seppellimmo la cassetta e la testa d'oro e le coprimmo. Poi passai sul terreno una fronda di palma per cancellare ogni traccia del nostro lavoro. «Sei contento, Harry?» chiese alla fine Chubby. «Sì, mi sento meglio. Ora va' a dormire un po', dammi retta.» Se ne andò fra le palme, portando la lanterna, senza guardarsi indietro. Io sapevo che non sarei riuscito più a dormire, perché il lavoro manuale mi aveva schiarito la testa e messo in circolazione il sangue. Sarebbe stato assurdo tornare alla grotta e cercare di restare disteso in silenzio accanto a Sherry fino all'alba. Volevo trovare un posto tranquillo e discreto dove meditare sulle mie prossime mosse nell'intricato gioco d'azzardo in cui ero coinvolto. Imboccai il sentiero che portava alla sella fra le cime minori e mentre vi salivo le ultime nuvole furono spazzate via e rivelarono una luna pallida. Mancava ancora una settimana al plenilunio, ma la luce era sufficiente a indicarmi la via verso il picco più vicino e lasciai il sentiero per salire faticosamente fino alla sommità. Trovai un posto riparato e mi sedetti. Avrei voluto avere un sigaro con me, perché fumando rifletto meglio. Anche senza emicrania penso meglio, ma nemmeno per questo c'erano rimedi. Mezz'ora dopo avevo deciso che dovevamo consolidare le posizioni raggiunte finora. Le fitte di avarizia che mi avevano assalito poco prima persistevano ancora e avevo ricevuto un chiaro avvertimento che il nemico era a caccia. Appena faceva giorno dovevamo prendere quello che avevamo recuperato finora, la testa e la cassetta, e filarcela a Saint Mary per farne quello che avevo già progettato con cura meticolosa. In seguito ci sarebbe stato tempo per tornare a Gunfire Reef a recuperare quello che era rimasto nelle profondità nebulose della fossa. Appena presa la decisione, sentii un moto di sollievo, una nuova leggerezza di spirito, e pensai con impazienza alla soluzione dell'altro grave enigma che mi assillava da tanto tempo. Fra poco sarei stato in grado di chiedere la mano di Sherry North e dare un'occhiata a quelle carte che mi teneva nascoste tanto gelosamente. Volevo sapere che cosa provocava quelle ombre scure negli
abissi azzurri dei suoi occhi e trovare risposta a tanti altri interrogativi che la circondavano. Quel momento sarebbe venuto presto. Finalmente il cielo impallidì, la prima luce perlacea dell'alba si diffuse a oriente e addolcì la superficie scura e rugosa dell'oceano. Mi alzai indolenzito dal mio sedile fra le rocce e m'incamminai intorno alla vetta, sotto le sferzate violente del vento dell'ovest. Rimasi là in piedi, sul versante esposto che sovrastava il campo, col vento che mi faceva venire la pelle d'oca sulle braccia e mi arruffava i capelli. Guardai giù nella laguna e al tenue chiarore dell'alba la nave abbuiata che era scivolata furtiva fra le braccia aperte della baia mi apparve come un pallido fantasma. Proprio mentre guardavo vidi lo scroscio dell'ancora calata a prua e la nave girò su se stessa, mostrandomi in pieno il profilo, così da non lasciarmi dubbi: era il "Mandrake". Prima che recuperassi le mie facoltà, aveva messo in mare una scialuppa che avanzava veloce verso la spiaggia. Cominciai a correre. Una volta caddi sul sentiero, ma l'impeto della discesa a precipizio mi sospinse avanti e con una sola capriola fui di nuovo in piedi, continuando a correre a perdifiato. Ansimavo forte quando piombai nella caverna di Chubby gridando: «Forza, voi, muovetevi! Sono già sulla spiaggia». I due sbucarono fuori dai sacchi a pelo. Angelo aveva i capelli arruffati e gli occhi vacui, ma Chubby era sveglio e all'erta. «Chubby» scattai. «Va' a prendere la carabina dalla buca. Corri, amico, fra pochi minuti arriveranno dal boschetto.» Mentre parlavo lui si era cambiato, indossando una camicia e allacciandosi i calzoni di tela. Assentì con un grugnito. «Ti seguo fra un attimo» gridai mentre lui correva fuori nella debole luce dell'alba. «Angelo, sveglia!» Lo afferrai per le spalle e lo scrollai. «Voglio che tu faccia la guardia a Sherry, capito?» Adesso era vestito e annuì, guardandomi con occhi opachi. «Avanti.» Per poco non lo trascinai, mentre correvamo fino alla caverna. Strappai Sherry dal letto e mentre si vestiva le spiegai: «Angelo verrà con te. Voi due dovete prendere una lattina d'acqua potabile e rifugiarvi a sud dell'isola, ma prima oltrepassate la sella senza farvi vedere. Scalate la vetta e nascondetevi nel camino dove abbiamo trovato l'iscrizione. Sai dove?» «Sì, Harry» annuì lei. «Restate lì. Non uscite e non fatevi vedere per nessuna ragione. Capito?» Lei assentì, ficcandosi nei pantaloni il lembo della camicia. «Ricordati, questi sono assassini. Il tempo dei giochi è finito, abbiamo a che fare con un branco di lupi.» «Sì, Harry, lo so.» «Allora va bene.» L'abbracciai e la baciai in fretta. «Ora filate.» E loro uscirono dalla caverna, Angelo trasportando una latta da venti litri d'acqua potabile, e corsero via fra le palme. Infilai in uno zaino leggero alcuni oggetti, una scatola di sigari, fiammiferi, un binocolo, una borraccia d'acqua e un maglione pesante, una latta di cioccolata e razioni d'emergenza, una torcia, e mi allacciai alla vita la cintura con il pesante coltello da esche nel fodero. Passandomi sulla spalla la cinghia dello zaino, uscii di corsa anch'io dalla caverna e seguii Chubby giù fra le palme verso la spiaggia. Avevo percorso appena cinquanta metri quando sentii il tonfo sordo di armi da fuoco leggere, un grido e un'altra raffica. Erano proprio davanti a me, poco lontano. Mi fermai e scivolai dietro il tronco di una palma, sbirciando fra le ombre sempre meno cupe degli alberi. Vidi del movimento, una figura che mi correva incontro, e aprendo il fodero del coltello attesi di essere sicuro prima di chiamare piano: «Chubby!». La figura in corsa deviò di scatto verso di me. Portava il fucile FN e la bandoliera di tela con i caricatori di riserva e quando mi vide aveva il respiro rapido ma leggero.
«Mi hanno individuato» grugnì. «Ce n'è a decine di quei bastardi.» In quel momento vidi altri movimenti fra gli alberi. «Eccoli che vengono» dissi. «Andiamo.» Volevo dare un buon vantaggio a Sherry, così non presi il sentiero attraverso la sella, ma svoltai direttamente a sud per distoglierli dalla sua pista. Puntammo verso le paludi all'estremità meridionale dell'isola. Ci videro mentre correvamo in direzione obliqua davanti alla loro avanguardia. Sentii un grido, cui ne risposero subito altri, poi seguirono cinque spari isolati e io scorsi le fiammate sbocciare dalle canne fra gli alberi scuri. Un proiettile colpì un tronco di palma sopra le nostre teste, con un rumore sordo, ma noi correvamo veloci e nel giro di pochi minuti le urla degli inseguitori si persero alle nostre spalle. Raggiunsi l'orlo della palude salmastra e deviai verso l'interno per evitare gli acquitrini fetidi. Sul primo lieve pendio delle colline mi fermai per ascoltare e riprendere fiato. Ormai la luce aumentava in fretta. Fra poco si sarebbe levato il sole e per allora volevo essere al coperto. A un tratto si udirono in lontananza grida spaventate, dalla direzione degli acquitrini, e capii che l'inseguimento si era arenato nel fango vischioso. Questo li avrebbe scoraggiati in modo piuttosto persuasivo, pensai con un sogghigno. «Va bene, Chubby, proseguiamo» bisbigliai, e mentre eravamo lì si sentì un altro suono, da una direzione diversa. Il rumore era attutito dalla distanza e dall'altitudine della cresta che si frapponeva, perché proveniva dal lato a mare dell'isola, ma era il suono inconfondibile, lacerante, del fuoco di un'arma automatica. Chubby e io restammo paralizzati in ascolto e il suono si ripeté, un'altra lunga raffica crepitante. Poi calò il silenzio, anche se restammo in ascolto per tre o quattro minuti. «Avanti» dissi piano, non potevamo perdere altro tempo, e corremmo su per il pendio verso la cima meridionale. Ci arrampicammo in fretta nella luce del giorno sempre più intensa e io ero troppo preoccupato per sentire qualsiasi malessere mentre percorrevamo la stretta cengia e penetravamo finalmente nella profonda fessura nella roccia in cui avevo previsto di incontrarmi con Sherry. Il nascondiglio era silenzioso e deserto, ma io gridai lo stesso, senza speranza: «Sherry? Sei qui, amore?». Nessuna risposta venne dalle ombre e io mi rivolsi di nuovo a Chubby. «Avevano un buon vantaggio su di noi. Dovrebbero essere qui» e solo allora quella raffica di mitra che avevamo sentito prima acquistò un significato. Presi il binocolo dallo zaino prima di ficcarlo in una fessura della roccia. «Si sono cacciati nei guai, Chubby» esclamai. «Vieni. Andiamo a vedere che cosa è successo.» Appena lasciata la cengia ci addentrammo nel labirinto di rocce frantumate sul lato esterno dell'isola, ma nonostante la fretta e la terribile ansia per l'incolumità di Sherry avanzai con cautela e facemmo bene attenzione a non rivelare la nostra presenza a un eventuale osservatore appostato fra le palme o sulle spiagge sottostanti. Appena superato lo spartiacque della cresta, davanti a noi si aprì un panorama nuovo, la mezzaluna della spiaggia e la curva nera e frastagliata di Gunfire Reef. Mi fermai di colpo e attirai Chubby giù vicino a me, rannicchiandomi al riparo. Ancorata in posizione tale da controllare la bocca del canale attraverso la barriera, c'era la motovedetta armata di Zinballa, nave ammiraglia del mio vecchio amico Suleiman Dada. Verso di essa tornava dalla spiaggia una piccola barca a motore, stipata di figure minuscole. «Che Dio li maledica» mormorai «avevano davvero programmato tutto. Manny Resnick si è messo d'accordo con Suleiman Dada. Ecco perché ci ha impiegato tanto ad arrivare. Mentre Manny sbarcava sulla spiaggia, Dada sorvegliava il canale in modo che non potessimo tentare la fuga
da quella parte come l'altra volta.» E aveva degli uomini sulla spiaggia... questo spiega il mitra. Manny Resnick ha portato il "Mandrake" nella baia per far alzare la selvaggina e Dada sorvegliava la porta di servizio.» «E la signorina Sherry e Angelo? Pensi che ce l'abbiano fatta? Gli uomini di Dada li avranno sorpresi quando hanno superato la sella?» «Oh Dio!» gemetti, maledicendo me stesso per non essere rimasto con lei. Mi alzai e puntai il binocolo sulla lancia mentre avanzava lenta sulle acque limpide della barriera esterna, verso la motovedetta all'ancora. «Non riesco a vederli.» Anche con l'aiuto del binocolo gli occupanti della scialuppa erano soltanto una massa scura, perché il sole stava sorgendo alle loro spalle e il riverbero sull'acqua mi abbagliava. Non riuscivo a distinguere le figure l'una dall'altra, figurarsi poi riconoscere i singoli individui. «Forse li tengono nella barca... ma non riesco a vedere.» Nella mia agitazione avevo lasciato il riparo delle rocce e stavo cercando un punto di osservazione migliore, spostandomi sulla linea dell'orizzonte allo scoperto. Gli stessi raggi di sole che mi accecavano dovettero illuminarmi in pieno. Vidi il lampo familiare e il lungo pennacchio bianco di fumo sbuffare dal cannone a tiro rapido sistemato a prua della motovedetta e sentii il proiettile arrivare quasi con un frullo d'ali. «Giù» gridai a Chubby, appiattendomi fra le rocce. Il colpo esplose molto vicino, con un lampo incandescente simile alla breve apertura dello sportello di una fornace. Schegge e frammenti di roccia sibilarono e fischiarono intorno a noi e io balzai in piedi. «Corri!» gridai a Chubby e ci ritirammo zigzagando oltre la linea dell'orizzonte proprio mentre il colpo seguente ci passava sulla testa, facendoci chinare di scatto per la potenza del fragore. Quando ci accovacciammo oltre la cresta Chubby si asciugò una macchia di sangue dall'avambraccio. «Tutto bene?» chiesi. «Un graffio, nient'altro. Una scheggia di roccia» borbottò. «Chubby, vado giù a scoprire cos'è successo agli altri. Non serve rischiare in due. Tu aspetta qui.» «Sprechi il fiato, Harry, io vengo con te. Andiamo.» Sollevò il fucile e mi precedette giù dalla vetta. Pensai di prendergli l'arma. Nelle sue mani era letale pressappoco quanto una fionda. Poi ci ripensai. Gli infondeva sicurezza. Ci spostammo lentamente, sfruttando qualunque riparo e guardando bene avanti a noi prima di proseguire. Ma l'isola era silenziosa, a parte il sussurro e il fruscio del vento dell'ovest fra le cime degli alberi, e non vedemmo nessuno mentre risalivamo il versante a mare dell'isola. M'imbattei nella pista lasciata da Sherry e Angelo nel superare la sella che sovrastava il campo. I loro passi in corsa si erano impressi a fondo nel terreno soffice, alle piccole impronte snelle di Sherry si sovrapponevano quelle larghe dei piedi nudi di Angelo. Le seguimmo giù per il pendio, ma a un tratto scartavano dalla pista. Qui avevano lasciato la lattina d'acqua e deviando bruscamente si erano separati un po', come se avessero corso fianco a fianco per una sessantina di metri. Lì trovammo Angelo. Non avrebbe mai goduto la sua parte del bottino. Era stato colpito da tre pallottole di grosso calibro che gli avevano squarciato il tessuto sottile della camicia e aperto enormi ferite scure nella schiena e nel torace. Aveva perso molto sangue, ma il terreno sabbioso l'aveva assorbito quasi tutto e quello che restava si stava già seccando in una spessa crosta scura. Le mosche erano accorse a sciami, zampettando allegramente nei fori dei proiettili e affollandosi sulle lunghe ciglia scure che circondavano gli occhi spalancati e attoniti. Seguendo le tracce vidi che Sherry aveva proseguito per una ventina di passi: poi la piccola idiota era tornata indietro per inginocchiarsi accanto ad Angelo. Imprecai. Sarebbe potuta fuggire, se non si fosse lasciata andare a quel gesto inutile e assurdo. L'avevano catturata mentre era inginocchiata accanto al corpo,
trascinandola giù fra le palme fino alla spiaggia. Scorsi i lunghi solchi nella sabbia dove aveva puntato i piedi tentando di resistere. Senza lasciare il riparo degli alberi, mi chinai a guardare la sabbia fine e bianca, seguendo le loro tracce fino al punto in cui si vedevano ancora i segni della chiglia della barca a motore sulla sabbia della battigia. L'avevano portata via sulla motovedetta e io mi accovacciai dietro una pila di detriti e foglie di palma secche per fissare la piccola nave snella al largo. Proprio mentre la guardavo, levò l'ancora, acquistò velocità e costeggiò lentamente l'isola per doppiare la punta ed entrare nella laguna interna dov'era ancorato il "Mandrake". Mi raddrizzai e tornai strisciando attraverso il boschetto, fin dove avevo lasciato Chubby. Aveva messo da parte la carabina ed era seduto col corpo di Angelo fra le braccia, cullandogli la testa contro la spalla. Stava piangendo, grosse lacrime scure gli rotolavano piano lungo le gote brune segnate da solchi e bagnavano i folti riccioli scuri del ragazzo che teneva fra le braccia. Io raccolsi il fucile e feci la guardia mentre Chubby piangeva per tutti e due. Gli invidiavo il sollievo delle lacrime, lo sfogo della sofferenza che apre la via alla rassegnazione. Il mio dolore era intenso come il suo, perché avevo voluto altrettanto bene ad Angelo, ma era chiuso giù in fondo, dove faceva più male. «Ora basta, Chubby» gli dissi alla fine. «Andiamo, amico.» Lui si alzò, con il ragazzo ancora fra le braccia, e tornammo indietro lungo la cresta. In una gola soffocata dalla vegetazione rigogliosa seppellimmo Angelo in una fossa poco profonda scavata con le nostre mani e lo coprimmo con uno strato di rami e foglie che tagliai con il coltello prima di riempire la buca. Non potei indurmi a gettargli la sabbia sul viso scoperto e le foglie formavano un sudario più gentile. Chubby si asciugò le lacrime con il palmo della mano e si alzò. «Hanno preso Sherry» gli dissi con calma. «E' a bordo della motovedetta.» «E' ferita?» domandò. «Non credo, non ancora.» «Cosa vuoi fare adesso, Harry?» chiese lui, e qualcuno rispose alla domanda per me. In lontananza, verso il campo, sentimmo un fischio stridulo e salimmo sulla cresta in un punto da cui potevamo vedere la laguna interna e il lato dell'isola che guardava il continente. Il "Mandrake" si trovava ancora là dove l'avevo visto l'ultima volta e la motovedetta di Zinballa era ancorata a un centinaio di metri, più vicino alla spiaggia. Si erano appropriati della baleniera e la stavano usando per sbarcare uomini sulla spiaggia. Erano tutti armati e in uniforme. Si dispersero subito fra le palme e la baleniera tornò verso il "Mandrake". Puntai il binocolo sullo yacht e mi accorsi che anche lì c'erano degli sviluppi. Nel campo visivo delle lenti vidi Manny Resnick, in camicia bianca e pantaloni azzurri, scendere nella baleniera. Era seguito da Lorna Page. Lei portava occhiali scuri, una sciarpa gialla sui capelli e un completo pantaloni verde smeraldo, e appena la riconobbi sentii l'odio ribollirmi nelle vene. Poi accadde qualcosa che mi lasciò perplesso. Il bagaglio che avevo visto caricare sulla Rolls a Curzon Street fu trasportato sul ponte da due scagnozzi di Manny e trasbordato anche quello sulla baleniera. Un ufficiale del "Mandrake" salutò dal ponte e Manny agitò la mano in un gesto disinvolto di congedo. La baleniera si staccò dalla murata del "Mandrake" e accostò alla motovedetta. Non appena Manny, la sua amica, le guardie del corpo e il bagaglio approdarono sul ponte della motovedetta, il "Mandrake" levò l'ancora, si diresse verso l'ingresso della baia e puntò con decisione verso le acque profonde del canale. «Se ne va» mormorò Chubby. «Perché?» «Sì, se ne va» riconobbi. «A Manny non serve più. Ora ha un nuovo alleato e non ha bisogno di una nave sua. Probabilmente quella gli costava mille sterline al giorno e Manny è sempre stato tirchio.»
Puntai di nuovo il binocolo sulla motovedetta e vidi Manny e il suo entourage entrare nella cabina. «Forse c'è anche un'altra ragione» borbottai. «Qual è, Harry?» «Manny Resnick e Suleiman Dada vogliono il minor numero possibile di testimoni per quello che intendono fare adesso.» «Sì, capisco cosa vuoi dire» grugnì Chubby. «Amico mio, penso che ci aspetti un trattamento tale che al confronto quello che hanno fatto ad Angelo sembrerà una gentilezza.» «Harry, dobbiamo portar via da quella barca la signorina Sherry.» Chubby stava emergendo dalla nebbia di dolore in cui l'aveva gettato l'uccisione di Angelo. «Dobbiamo fare qualcosa, Harry.» «E' un bel pensiero, Chubby, ne convengo. Ma non l'aiuteremo granché facendoci ammazzare. La mia idea è che lei sarà al sicuro finché non metteranno le mani sul tesoro.» Il suo enorme viso scuro s'increspò come il muso di un bulldog preoccupato. «Cosa facciamo, Harry?» «Ora come ora scappiamo di nuovo.» «Che cosa vuoi dire?» «Sta' a sentire» gli dissi, e lui piegò la testa. Il sibilo acuto del fischietto si ripeté e poi sentimmo delle voci portate fino a noi dal vento. «A quanto pare ricorreranno per prima cosa alla forza bruta. Hanno sbarcato tutti gli uomini e batteranno l'isola per farci alzare come un paio di fagiani.» «Scendiamo a dargli il benvenuto» ringhiò Chubby sollevando il fucile. «Ho un messaggio per loro da parte di Angelo.» «Non fare l'idiota, Chubby» scattai infuriato. «Ora stammi a sentire. Voglio contare quanti sono. Poi, se ci capita una buona occasione, cercherò di catturarne uno da solo per prendergli l'arma. Aspetta un'opportunità, Chubby, ma non attaccare ancora. Regolati con molta prudenza, capito?» Non volevo alludere in termini poco lusinghieri alla sua abilità di tiratore. «Okay» rispose. «Resta da questa parte della cresta. Conta quanti di loro scendono da questa parte dell'isola. Io farò lo stesso sul versante opposto.» Lui assentì. «C'incontreremo fra due ore nel punto in cui la motovedetta ci ha bombardato.» «E tu, Harry?» Fece il gesto di tendermi la carabina, ma non ebbi il coraggio di privarlo dell'arma. «Sono a posto» risposi. «Vai, amico.» Precedere la fila di battitori era un compito facile perché si chiamavano l'un l'altro ad alta voce per farsi coraggio e non tentavano nemmeno di nascondersi o di procedere furtivi, ma avanzavano con lentezza e cautela in una fila continua. Sul mio versante erano in nove, di cui sette negri in uniforme da marinaio, armati con fucili d'assalto AK 47, e due uomini di Manny. Questi indossavano abiti sportivi leggeri e portavano armi bianche. In uno di loro riconobbi il conducente della Rover di quella sera lontana e il passeggero del bimotore Chessna che aveva avvistato Sherry e me sulla spiaggia. Una volta fatto il conto dei capi, volsi loro le spalle e corsi avanti fino alla curva della palude salmastra. Sapevo che incontrando questo ostacolo la fila di battitori avrebbe perso la coesione ed era probabile che qualcuno dei suoi componenti restasse isolato. Trovai una lingua sporgente di acquitrino con alcuni gruppi di giovani mangrovie e ruvida erba palustre dalle sfumature cupe di verde malarico. Ne seguii il contorno e m'imbattei in un punto in cui una palma si era abbattuta di traverso sulla lingua come un ponte... offrendo due direzioni di fuga. Intorno si era formata una fitta copertura di fronde di palma cadute ed erba palustre, che forniva un buon nascondiglio per tendere un'imboscata. Mi stesi al riparo di questo cumulo di vegetazione secca e arruffata e impugnai nella destra il pesante coltello da esche, pronto a lanciarlo. La fila di battitori avanzava a ritmo costante, le loro voci
aumentavano di volume avvicinandosi alla palude. Ben presto potei sentire il fruscio e lo scroscio dei rami mentre uno di loro veniva direttamente verso di me. Quando fu a circa sei metri si fermò per gridare e io schiacciai il viso sulla terra umida e sbirciai sotto la pila di rami secchi. Lì c'era un'apertura e vidi i suoi piedi e le gambe fino alle ginocchia. Portava pantaloni di pesante saia blu e scarpe da ginnastica di un bianco sporco, senza calze. Ad ogni passo le sue caviglie mostravano un tratto di pelle nerissima, da africano. Era uno dei marinai della motovedetta, quindi, e ne fui soddisfatto. Doveva imbracciare un'arma automatica. Preferivo quella alla pistola che portavano gli uomini di Manny. Rotolai lentamente su un fianco e liberai il braccio col coltello. Il marinaio gridò ancora, così vicino e così forte che i nervi mi saltarono e sentii nel sangue il fiotto eccitante dell'adrenalina. Da poco lontano giunse la risposta al suo richiamo e il marinaio venne avanti. Sentivo i suoi passi leggeri sulla sabbia che avanzavano cauti verso di me. A un tratto, quando aggirò la cascata di macchia fu perfettamente visibile, a dieci passi di distanza. Era in divisa da marinaio, con in testa un berretto blu guarnito da un allegro pomponcino rosso, ma portava appoggiato sull'anca il mitra dall'aria minacciosa. Era un giovanotto alto e magro, sulla ventina, con il viso liscio e coperto di sudore per il nervosismo, tanto che aveva sulla pelle un velo lucido di un nero violaceo, sul quale gli occhi spiccavano bianchissimi. Mi vide e tentò di puntare su di me il mitra, ma lo portava sull'anca destra e nel movimento s'inceppò goffamente. Io mirai al punto di congiunzione fra le clavicole, incorniciato dallo scollo dell'uniforme alla base della gola. Lanciai dall'alto, con uno scatto del polso al momento di allentare la presa, così che il coltello partì descrivendo una traiettoria rapidissima e colpì precisamente il punto che avevo scelto. La lama affondò completamente e dalla gola del marinaio sporse solo l'impugnatura di noce scuro. Lui tentò di gridare, ma non pronunciò nessun suono perché la lama gli aveva reciso le corde vocali, proprio come volevo. Guardandomi, crollò lentamente in ginocchio, come se pregasse, le mani penzoloni ai fianchi. Ci fissammo per un attimo che parve eterno. Poi fu scosso da un brivido violento, dalla bocca e dal naso gli sgorgò un fiotto di sangue gorgogliante e cadde faccia avanti sul terreno. Accovacciato a terra, lo girai sulla schiena ed estrassi il coltello dalla morsa tenace della ferita, asciugando la lama sulla sua manica. Lavorando in fretta lo spogliai dell'arma e dei caricatori di riserva contenuti nella bandoliera della cintura di tela, poi, sempre restando accovacciato a terra, lo trascinai per i piedi nel fango vischioso e m'inginocchiai sul suo torace per spingerlo sotto la superficie. Il fango gli coprì la faccia, lento e denso come cioccolato fuso, e quando fu del tutto sommerso mi affibbiai alla vita la cintura di tela, raccolsi il mitra e tornai indietro silenziosamente attraverso la breccia che avevo aperto nella fila di battitori. Mentre correvo piegato in due, sfruttando tutti i ripari possibili, controllai che l'AK 47 fosse a posto. L'arma mi era familiare. L'avevo usata nel Biafra e mi accertai che il caricatore fosse pieno e la culatta fosse caricata prima di passarmi la cinghia sulla spalla destra, tenendolo pronto sull'anca. Percorsi circa cinquecento metri, mi fermai e mi nascosi dietro il tronco di una palma per ascoltare. Alle mie spalle i battitori dovevano essere in difficoltà nella palude e cercavano di uscirne. Ascoltai le grida e il trillo irato del fischietto. Pareva la finale del campionato di calcio, pensai, con un sogghigno amaro, perché il ricordo dell'uomo che avevo ucciso era ancora disgustosamente fresco. Ora che avevo superato le linee deviai e m'incamminai direttamente attraverso l'isola, dirigendomi all'appuntamento con Chubby sulla cima meridionale. Una volta attraversati i boschetti di palme sui pendii inferiori, la vegetazione era più folta e la migliore copertura mi
consentiva di muovermi con maggiore velocità. A metà strada della cresta fui sorpreso da una nuova raffica. Stavolta era la caratteristica sferzata schioccante della carabina FN, più secca e lenta della tempesta del mitra AK 47 che rispose subito. Dal volume e dalla durata del fuoco, dedussi che tutte le armi impegnate avevano vuotato i caricatori in una raffica continua. Scese un silenzio pesante. Così, Chubby stava attaccando, nonostante tutti i miei avvertimenti. Per quanto fossi in collera, ero anche profondamente allarmato dai guai in cui era andato a cacciarsi. Una cosa era certa... Chubby aveva mancato il bersaglio, qualunque fosse. Passai dal trotto alla corsa e tagliai in diagonale verso la sommità della cresta, mirando a raggiungere la zona da cui era partito il fuoco. Sbucai fuori da una macchia su uno stretto sentiero invaso dalla vegetazione che seguiva la direzione voluta e lo imboccai di gran carriera. Raggiunsi la cima della salita e lì per poco non finii fra le braccia di uno degli uomini in uniforme, che mi veniva incontro quasi a precipizio. Lo seguivano in fila indiana sei compagni, tutti lanciati al massimo della velocità. Trenta metri più indietro ce n'era un altro, che aveva perduto la sua arma e aveva l'uniforme inzuppata di sangue fresco. Sui volti di tutti c'erano espressioni di terrore e correvano con la cieca determinazione di uomini in seguiti da tutti i diavoli dell'inferno. Capii all'istante che erano i superstiti di uno scontro con Chubby Andrews. Era stato troppo per i loro nervi, erano terrorizzati e decisi a tornare alla base... La mira di Chubby doveva essere migliorata per incanto e gli chiesi scusa in silenzio. I marinai erano tanto preoccupati del diavolo che avevano alle calcagna che parvero non notarmi per la frazione di secondo che mi bastò a far scorrere la sicura del mitra e a piantarmi saldamente sul terreno, con le ginocchia piegate e i piedi allargati. Mossi l'arma in un corto arco trasversale, mirando basso alle ginocchia. Con un volume di fuoco come quello dell'AK 47 bisogna puntare alle gambe, contando su altri tre o quattro colpi al bersaglio grosso mentre l'uomo cade nella traiettoria di tiro. L'accorgimento serve anche a controbilanciare la tendenza della canna corta ad alzarsi, sotto l'effetto del rinculo. Caddero urlando all'indietro l'uno sull'altro come birilli, abbattuti dal violento impatto delle pallottole di grosso calibro. Tenni il grilletto abbassato contando fino a quattro, poi mi girai tuffandomi nella folta parete della macchia. Mi nascose all'istante e io mi piegai in due zigzagando sotto i rami. Alle mie spalle un mitra sparò e le pallottole lacerarono e strapparono il denso fogliame. Nessuna mi si avvicinò e io ripresi a correre. Intuii che il mio attacco improvviso e del tutto inaspettato doveva aver sistemato definitivamente due o tre marinai e forse ferito uno o due altri. Quel che più contava, l'effetto sul loro morale doveva essere stato disastroso... specie a così breve distanza dall'attacco di Chubby. Una volta in salvo sulla motovedetta, ci avrebbero pensato a lungo prima di rimettere piede sull'isola. Avevamo vinto nettamente il secondo round, ma loro avevano ancora Sherry. Quella era la carta più alta nelle loro mani. Fin tanto che l'avevano potevano dettare le regole del gioco. Chubby mi aspettava fra le rocce sulla sella del picco. Quell'uomo era indistruttibile. «Cristo, Harry, dove diavolo sei stato?» ringhiò. «E' tutta la mattina che aspetto.» Vidi che aveva recuperato il mio zaino dalla fenditura fra le rocce dove l'avevo lasciato. Era ai suoi piedi, insieme a due fucili AK 47 con le relative cartucciere. Mi tese la borraccia e solo allora mi accorsi di quanto fossi assetato. L'acqua dal forte gusto di cloro per me aveva il sapore del
Veuve Clicquot, ma mi limitai a tre sorsi. «Devo chiederti scusa, Harry. Ho attaccato. Non ho proprio potuto farne a meno. Erano tutti in gruppo, in piedi, allo scoperto come scolaretti in gita domenicale. Non ho proprio resistito, li ho annaffiati per benino. Ne ho fatti secchi due e gli altri sono scappati come conigli sparando in aria.» «Già» annuii. «Li ho incontrati mentre superavano la cresta.» «Ho sentito gli spari. Stavo proprio per venirti a cercare.» Mi sedetti sulla roccia accanto a lui e trovai i sigari nello zaino. Ne accendemmo uno per ciascuno e fumammo in grato silenzio per un attimo, che Chubby sciupò subito. «Be', gli abbiamo acceso il fuoco sotto la coda, non credo che verranno a cercarne dell'altro. Ma hanno ancora Sherry, amico. Finché hanno in mano lei, sono in vantaggio.» «Quanti erano, Chubby?» «Dieci.» Sputò un frammento di tabacco e scrutò la punta ardente del sigaro. «Ma ne ho eliminati due... e penso di averne azzoppato un altro.» «Sì» ammisi. «Sulla cresta ne ho incontrati sette e li ho attaccati anch'io. Ora non ne restano che quattro, più altri otto dalla mia parte. Diciamo una dozzina, più quelli rimasti a bordo... altri sei o sette. Circa venti armi puntate su di noi, Chubby.» «Un bello svantaggio, Harry.» «Puntiamo su questo, Chubby. «D'accordo.» Scelsi il mitra più nuovo ed efficiente, che poteva contare su cinque caricatori interi. Nascosi le armi scartate sotto una lastra piatta di pietra e poi caricai e controllai l'altro. Bevemmo ancora un sorso dalla borraccia, quindi mi avviai per primo lungo la cresta, tenendomi al largo dalla linea dell'orizzonte, tornando verso il campo abbandonato. Dal punto in cui avevo scoperto l'arrivo del "Mandrake" osservammo tutta la parte settentrionale dell'isola. Come avevamo previsto, Manny e Suleiman Dada avevano ritirato tutti i loro uomini dall'isola. Sia la baleniera sia la lancia più piccola erano ormeggiate ai fianchi della motovedetta. A bordo regnava un'attività febbrile e priva di senso e mentre osservavo le figure indaffarate immaginai le scene di terribile collera e di castigo che si stavano svolgendo nella cabina principale. Suleiman Dada e il suo nuovo "protégé" stavano certamente mettendo in atto una terribile vendetta sulle loro truppe già malamente sconfitte e demoralizzate. «Voglio scendere al campo, Chubby. Vedere cosa ci hanno lasciato» annunciai alla fine, tendendogli il binocolo. »Tieni gli occhi aperti per me. Tre spari rapidi come segnale di avvertimento.» «D'accordo, Harry» rispose lui, ma proprio mentre mi alzavo, a bordo della motovedetta si scatenò un nuovo accesso di febbrile attività. Mi feci restituire il binocolo da Chubby e osservai Suleiman Dada emergere dalla cabina e salire laboriosamente sul ponte scoperto. Nell'uniforme bianca ornata di medaglie che brillavano al sole e assistito da una folla di uomini, mi rammentava una grassa regina delle termiti bianche trasferita nella sua cella da uno sciame di formiche operaie. Finalmente l'impresa fu compiuta e guardando nel binocolo vidi tendere a Suleiman un altoparlante elettronico. Si rivolse verso la spiaggia, portò alla bocca il microfono e attraverso il potente binocolo distinsi il movimento delle labbra. Pochi secondi dopo ci giunse chiaramente il suono, ingigantito dallo strumento e trasportato dal vento. «Harry Fletcher, spero che lei possa sentirmi.» La voce profonda e ben modulata assumeva un tono più aspro nell'amplificatore. «Ho intenzione di inscenare stasera una dimostrazione che la convincerà della necessità di cooperare con me. La prego di trovarsi in una posizione tale da poter assistere. La giudicherà affascinante. Alle nove di stasera sul ponte di poppa di questa nave. E' un appuntamento, Harry. Non manchi.» Tese l'altoparlante a uno dei suoi ufficiali e scese sotto coperta.
«Faranno qualcosa a Sherry» borbottò Chubby, tormentando sconsolato il fucile che aveva in grembo. «Lo sapremo alle nove» replicai, osservando l'ufficiale con l'altoparlante che scendeva dal ponte per prendere posto sulla barca a motore. Iniziarono un lento giro dell'isola, fermandosi ogni ottocento metri per ripetere l'invito di Suleiman Dada alla spiaggia silenziosa orlata di palme. Ci teneva molto che accettassi. «Va bene, Chubby.» Controllai l'orologio. «Abbiamo ancora qualche ora. Io scendo al campo. Sta' in guardia.» Il campo era stato saccheggiato e depredato di quasi tutti gli oggetti di valore, attrezzature e provviste erano state fracassate e sparpagliate per le caverne, eppure qualcosa si era salvato. Trovai cinque latte di carburante e le nascosi, insieme a molte altre attrezzature che potevano tornare utili. Poi sgusciai cautamente nel boschetto di palme e scoprii con sollievo che il nascondiglio della cassetta, della testa di tigre d'oro e delle altre provviste non era stato toccato. Portando con me una latta da venti litri di acqua potabile e tre scatolette di manzo salato e verdure miste, risalii sulla cresta dove Chubby mi aspettava. Mangiammo e bevemmo, poi dissi a Chubby: «Cerca di dormire, se ti riesce. Sarà una nottata lunga e faticosa». Lui grugnì e si raggomitolò sull'erba come un grosso orso bruno. Poco dopo russava già, con un ritmo sommesso e regolare. Fumai lentamente tre sigari, riflettendo, ma fu solo al tramonto che ebbi il primo vero colpo di genio. Era un'idea tanto chiara e semplice e così deliziosamente opportuna, che mi parve subito sospetta e la riesaminai con attenzione. Il vento era calato ed era ormai notte quando mi sentii sicuro della mia idea e restai seduto a covarla, sorridendo soddisfatto. La motovedetta era illuminata a giorno, tutti gli oblò brillavano e un paio di riflettori risplendevano di luce bianca sul ponte di poppa, che sembrava un palcoscenico vuoto. Svegliai Chubby e mangiammo di nuovo. «Scendiamo sulla spiaggia» proposi. «Da lì vedremo meglio.» «Potrebbe essere una trappola» mi avvertì Chubby con aria tetra. «Non credo. Sono tutti a bordo e puntano sulla forza. Hanno ancora Sherry. Non hanno bisogno di giocare tiri strani.» «Amico, se fanno qualcosa a quella ragazza...» S'interruppe alzandosi. «D'accordo, andiamo.» Scendemmo in silenzio e con cautela attraverso le palme, con le armi spianate e il dito sul grilletto, ma la notte era tranquilla e il boschetto deserto. Ci fermammo fra gli alberi in cima alla spiaggia. La motovedetta era lontana solo duecento metri e io appoggiai la spalla al tronco di una palma mettendo a fuoco il binocolo. La visuale era tanto nitida che riuscii a leggere la scritta sul pacchetto da cui una delle sentinelle prese una sigaretta per accenderla. Avevamo un posto di prima fila per lo spettacolo che Suleiman voleva offrirci, qualunque fosse, e io sentii un fremito di apprensione, il presagio di orrori imminenti, corrermi come un alito gelido sulla pelle. Abbassai il binocolo e bisbigliai piano a Chubby: «Facciamo un cambio» e lui mi passò la carabina FN dalla canna lunga, prendendo l'AK 47. Volevo tenere sotto tiro il ponte della motovedetta con la precisione dell'FN. Naturalmente non potevo far niente per intervenire finché Sherry era sana e salva, ma se le facevano qualcosa... mi sarei accertato che non fosse la sola a soffrire. Il tempo passava molto lentamente e nuovi timori vennero a tormentarmi e a farmi sembrare l'attesa ancor più lunga di quanto non fosse, ma alla fine, pochi minuti prima dell'ora fissata, a bordo della motovedetta si rinnovò il trambusto e ancora una volta Suleiman Dada fu issato su per la scaletta dai suoi uomini e prese posto alla battagliola guardando in giù sul ponte di poppa. Sudava abbondantemente e la zona intorno alle ascelle e sul dorso della giacca bianca dell'uniforme era zuppa di sudore. Mi resi conto che aveva ingannato il tempo facendo spesso ricorso alla bottiglia di whisky, probabilmente attinta alla mia riserva, che era stata
asportata dalla caverna. Rideva e scherzava con gli uomini che lo circondavano, la pancia enorme scossa dall'ilarità, mentre i suoi uomini facevano servilmente eco alle risate. Il suono arrivava sulle acque fino alla spiaggia. Suleiman fu seguito da Manny Resnick e dalla sua bionda amica. Manny era azzimato e fresco nel suo costoso abbigliamento sportivo. Rimase leggermente in disparte dagli altri, l'espressione fredda e distaccata. Mi fece pensare a un adulto a una festa di bambini, che prevedeva un dovere noioso e leggermente spiacevole. Per contrasto Lorna Page era eccitata, con gli occhi lucidi come una ragazza al primo appuntamento. Rideva con Suleiman Dada e si chinava oltre il parapetto sul ponte deserto con aria di attesa. Attraverso il potente binocolo vidi sulle sue guance un rossore che non era frutto del trucco. Ero tanto concentrato su di lei che solo quando sentii Chubby muoversi a un tratto irrequieto, e udii il suo grugnito allarmato, abbassai le lenti sul ponte. Sherry era lì, in piedi fra due marinai in uniforme. La tenevano per le braccia e in mezzo a loro sembrava piccola e fragile. Portava ancora i vestiti che si era buttata addosso in fretta quella mattina e i capelli erano scarmigliati. Aveva il viso sparuto e l'espressione tesa... ma solo quando la osservai con attenzione mi accorsi che quelle che sembravano occhiaie erano in effetti lividi. Con un sussulto di collera gelida, mi accorsi che aveva le labbra gonfie e distorte come se fosse stata punta dalle api. Anche una guancia era grossolanamente deformata e contusa. L'avevano percossa e malmenata. Guardando bene scorsi macchie di sangue secco sulla camicia azzurra e quando una delle guardie la fece voltare rudemente verso la spiaggia vidi che aveva una mano fasciata alla bell'e meglio e le bende erano macchiate di sangue o disinfettante. Sembrava stanca e malata, quasi al limite delle forze. La mia collera minacciò di sopraffare la ragione. Avevo voglia di far soffrire quelli che avevano trattato così Sherry, e avevo già cominciato a sollevare il fucile con mani tremanti per la violenza del mio odio, quando riuscii a dominarmi. Serrai gli occhi e trassi un respiro profondo per calmarmi. Sarebbe venuto il momento... ma non era questo. Quando riaprii gli occhi e puntai di nuovo il binocolo, Suleiman Dada aveva l'altoparlante alla bocca. «Buonasera, Harry, mio caro amico. Sono certo che lei riconosce questa signorina.» Fece un ampio gesto verso Sherry, che lo guardò con aria stanca. «Dopo averla interrogata con scrupolo, un procedimento che le ha causato qualche disagio, sono giunto alla conclusione che non sa dove si trovi attualmente l'oggetto al quale i miei amici e io siamo interessati. Mi dice che l'ha nascosto lei, Harry.» Fece una pausa per asciugarsi il viso grondante con una salvietta tesagli da uno dei suoi uomini, prima di continuare. «Per me questa giovane signora non ha più interesse... se non eventualmente come merce di scambio.» Fece un gesto e Sherry venne spinta di sotto. Qualcosa di freddo e di viscido mi si agitò nel ventre al vederla allontanarsi. Mi chiesi se l'avrei mai più rivista... viva. Sul ponte deserto si schierarono quattro uomini di Suleiman. Erano nudi fino alla cintola e la luce dei riflettori giocava sui corpi muscolosi scuri e lisci. Ciascuno portava un manico di piccone in legno di noce e in silenzio si disposero ai vertici di un quadrato sul ponte scoperto. Subito dopo due guardie guidarono al centro un uomo. Aveva le mani legate dietro la schiena. Gli si affiancarono e lentamente lo costrinsero a girare su se stesso, mentre la voce di Suleiman Dada rimbombava dall'altoparlante. «Mi chiedo se lo riconosce.» Io fissai la larva umana curva nella tuta da carcerato di tela grigia che gli pendeva in brandelli sudici dall'ossatura scarna. Aveva la pelle chiara e cerea, con gli occhi cerchiati profondamente infossati, lunghi capelli biondi e ispidi che gli pendevano sul viso in ciocche unte e una barbetta rada e
irregolare. «Sì, Harry?» Suleiman rise di gusto nell'altoparlante. «Un soggiorno nella prigione di Zinballa fa miracoli per un uomo, vero?... Ma la tenuta regolamentare non è elegante come quella di ispettore di polizia.» Solo allora riconobbi l'ex ispettore Peter Daly... l'uomo che avevo scaraventato nelle acque della laguna esterna dal ponte del "Wave Dancer" poco prima di sfuggire a Suleiman Dada attraverso il canale di Gunfire Reef. «L'ispettore Peter Daly» confermò Suleiman con una risatina chioccia. «Un uomo che mi ha profondamente deluso. Non mi piacciono le delusioni, Harry. Me la prendo molto a male. L'ho portato con me appunto per un'eventualità del genere. E' stata una saggia precauzione, perché ritengo che una dimostrazione visiva sia molto più convincente di semplici parole.» S'interruppe di nuovo per asciugarsi il viso e bere avidamente da un bicchiere offertogli da uno dei suoi uomini. Daly cadde in ginocchio e alzò gli occhi verso l'uomo sul ponte. Aveva sul viso un'espressione di abietto terrore e la saliva gli colava dalla bocca mentre implorava pietà. «Benissimo, se lei è pronto possiamo procedere, Harry» tuonò Suleiman, e una delle guardie tirò fuori un grosso cappuccio di stoffa nera che infilò sulla testa di Daly e chiuse stringendogli un cordone intorno al collo. Lo tirarono rudemente in piedi. «E' la nostra variante del gioco della mosca cieca.» Attraverso il binocolo vidi un fiotto di liquido inzuppare i pantaloni di tela di Peter Daly, quando la vescica gli si svuotò per il terrore. Evidentemente aveva già assistito a questo gioco durante il soggiorno nelle carceri di Zinballa. «Harry, voglio da lei un po' di fantasia. Non badi a questa sudicia creatura piagnucolante... immagini al suo posto la sua bella e giovane amica.» Respirò forte, ma quando l'uomo accanto a lui gli offrì di nuovo la salvietta, Suleiman gli vibrò senza scomporsi un manrovescio, che lo mandò lungo disteso sul ponte, e proseguì con voce calma: «Immagini il suo bel corpo giovane, immagini la sua paura mentre sta in piedi nel buio senza sapere che cosa l'aspetta». Le due guardie cominciarono a far roteare Daly fra loro come nel gioco infantile; girava e girava e ora potevo sentire i suoi strilli soffocati e le grida di terrore. A un tratto le due guardie fecero un passo indietro, lasciandolo solo nel circolo di uomini seminudi. Uno di loro piantò l'impugnatura della sua arma contro le reni di Daly e con una spinta lo mandò dalla parte opposta del circolo, dove l'uomo di fronte aspettava di spingergli nel ventre la punta del manico di piccone. Barcollava avanti e indietro, spinto dai colpi di bastone. Lentamente i suoi torturatori aumentarono la violenza dell'attacco, finché uno di loro sollevò la mazza e la vibrò come un'ascia su un albero. Si abbatté sulle costole di Daly. Fu il segnale della fine e appena l'uomo cadde sul ponte gli si affollarono intorno, alzando e abbassando i bastoni a un ritmo impressionante mentre i colpi giungevano chiari attraverso la laguna fino a noi, che osservavamo disgustati e stravolti. Uno dopo l'altro si stancarono e indietreggiarono per riposare e il corpo maciullato di Peter Daly rimase disteso al centro del ponte. «Brutale, dirà lei, Harry... ma non potrà negare che sia efficace.» Ero nauseato da quella crudeltà barbarica e accanto a me Chubby mormorò: «E' un mostro... non ho mai visto niente di simile». «Ha tempo fino a domani, Harry, per venire da me disarmato e ragionevole. Parleremo, ci accorderemo su certe questioni, effettueremo uno scambio e ci separeremo da amici.» S'interruppe per guardare, mentre uno dei suoi uomini assicurava una fune alla caviglia di Daly e gli altri lo issavano in cima all'albero maestro della motovedetta, dove penzolò grottesco come un osceno pennone. Lorna Page guardava in alto, la testa riversa all'indietro così che i capelli biondi le scendevano sulla schiena, le labbra leggermente dischiuse. «Se rifiuta di essere ragionevole, Harry, allora domani a mezzogiorno
farò il giro di quest'isola con la sua amica appesa così...» Indicò il cadavere, la cui testa sfigurata oscillava lentamente avanti e indietro a pochi metri dal ponte. «... all'albero maestro. Ci pensi, Harry. Prenda tempo. Ci pensi bene.» Di colpo i riflettori si spensero e Suleiman cominciò la laboriosa discesa verso la cabina, seguito da Manny Resnick e Lorna Page. Manny era leggermente accigliato, come se stesse meditando un accordo d'affari, ma mi accorsi che Lorna se la godeva un mondo. «Mi viene voglia di vomitare» borbottò Chubby. «Allora fattela passare» ribattei «perché abbiamo parecchio da fare.» Mi alzai e mi diressi in silenzio verso il boschetto di palme. Scavammo a turno mentre uno di noi restava di guardia fra gli alberi. Non volli usare la luce per paura di attirare l'attenzione della motovedetta e stavamo tutti e due bene attenti a mantenere il silenzio e a non far risuonare rumori metallici oltre i confini del boschetto. Tirammo fuori le casse rimanenti di gelignite e di materiale per le esplosioni, poi facemmo lo stesso con la cassetta arrugginita e la trasportammo in un punto accuratamente scelto sotto il ripido pendio del picco. A cinquanta metri di altezza c'era una piega nel terreno, protetta da un fitto schermo di macchia marittima. Scavammo un'altra buca per la cassetta, affondando nel terreno soffice finché incontrammo l'acqua, poi la riempimmo e la seppellimmo di nuovo. Chubby salì fino alla piega nascosta nel terreno e lì fece i suoi preparativi. Nel frattempo io ricaricavo il mitra e lo avvolgevo in una delle mie vecchie camicie insieme con i cinque caricatori, nascondendo il tutto sotto un paio di centimetri di sabbia accanto al fusto della palma più vicina, dove le piogge recenti avevano formato nel pendio un canaletto asciutto. La trincea scavata dall'acqua e l'albero distavano quaranta passi dal punto in cui era sepolta la cassetta, e speravo che bastassero. La trincea era profonda poco più di sessanta centimetri e avrebbe offerto ben poco riparo. La luna spuntò dopo mezzanotte e ci fornì luce sufficiente per mettere a punto i nostri preparativi. Chubby controllò che fossi ben visibile dal suo nascondiglio in cima al pendio quando mi trovavo in piedi accanto al canaletto. Poi salii anch'io per ricontrollare con lui. Accendemmo un sigaro ciascuno, nascondendo il fiammifero e schermando la punta ardente nel cavo della mano, mentre ripassavamo da capo il nostro piano d'azione. Mi preoccupavo soprattutto che non ci fossero equivoci per quanto riguardava tempi e segnali, e costrinsi Chubby a ripeterli due volte. Lui eseguì con un'aria teatrale di sopportazione, ma alla fine mi ritenni soddisfatto. Schiacciammo i mozziconi dei sigari e li coprimmo di sabbia e scendendo il pendio ci trascinammo dietro delle scope di fronde di palma per cancellare ogni traccia di attività. La prima parte del mio piano era completata e tornammo al punto in cui erano nascosti la tigre d'oro e il resto della gelignite. Riseppellimmo la tigre e poi preparai una cassa piena di gelignite. Era una dose imponente di esplosivo, sufficiente per una strage dieci volte superiore... ma non sono mai stato tipo da lesinare quando ho i mezzi per mostrarmi generoso. Non avrei potuto usare l'esploditore elettrico e il filo isolato e dovevo affidarmi a uno dei detonatori a tempo. Ho una spiccata antipatia per questi piccoli aggeggi capricciosi. Funzionano in base al principio dell'acido che corrode un filo sottile che trattiene un martelletto su una capsula di polvere. Quando l'acido taglia il filo, la capsula esplode e il ritardo nella detonazione dipende dalla forza dell'acido e dallo spessore del filo. Nella regolazione del tempo si può verificare un ampio margine di errore, e questo in una occasione mi aveva creato un inconveniente quasi fatale. Tuttavia in questo caso non avevo alternative e scelsi un detonatore a matita con una durata di sei ore, preparandolo per agire sulla gelignite. Fra le attrezzature sfuggite al saccheggio degli invasori c'era il mio vecchio respiratore a ossigeno a circuito chiuso. Questo apparecchio è quasi altrettanto pericoloso da usare dei detonatori a tempo. A
differenza degli autorespiratori che utilizzano aria compressa, quello a circuito chiuso impiega ossigeno puro, che viene filtrato e purificato dal diossido di carbonio a ogni respiro e poi riciclato. L'ossigeno respirato a pressioni superiori a due atmosfere diventa pericoloso come il monossido di carbonio. In altri termini se si respira ossigeno puro a profondità superiori ai dieci metri, è la morte sicura. Bisogna avere nervi d'acciaio per giocare con quella roba... ma ha un enorme vantaggio: non forma bollicine in superficie che possono allarmare una sentinella e rivelargli la vostra posizione. Quando tornammo sulla spiaggia Chubby portò la cassa pronta di gelignite e la carabina. Si fecero le tre prima che finissi di indossare e provare il respiratore, poi portai in acqua la gelignite e ne sperimentai la galleggiabilità. Ci volle qualche chilo di zavorra per neutralizzare la spinta di galleggiamento e renderla più maneggevole nell'acqua. Eravamo scesi sulla spiaggia dalla parte opposta del promontorio che chiudeva la baia rispetto alla motovedetta all'ancora. La punta, coperta di sabbia e di palme, ci fece da schermo mentre lavoravamo e finalmente fui pronto. Fu una lunga nuotata estenuante. Dovetti doppiare la punta ed entrare nella baia... una distanza superiore a un chilometro... sempre trainandomi dietro la pesante cassa di esplosivo. In acqua esercitava una forte resistenza e mi ci volle quasi un'ora prima di avvistare le luci della motovedetta che brillavano sopra di me attraverso la superficie. Tenendomi sul fondo scivolai lentamente in avanti, terribilmente conscio che il chiaro di luna faceva spiccare la mia silhouette contro la sabbia bianca del letto della laguna, perché l'acqua era limpida come gin e profonda solo quindici metri. Fu un sollievo rifugiarmi al riparo dell'ombra scura proiettata dallo scafo e sapere che ero al sicuro dal rischio di essere scoperto. Mi riposai per qualche minuto, poi svolsi le cinghie di nylon che avevo alla cintura e le assicurai alla cassa di gelignite. A questo punto controllai l'ora sull'orologio: le lancette luminose indicavano le quattro e dieci. Spezzai l'ampolla di vetro del detonatore, permettendo all'acido di cominciare la lenta corrosione del filo, e lo rimisi nella fessura preparata nella cassa di esplosivo. Nel giro di sei ore, più o meno, il tutto sarebbe scoppiato con la forza di una bomba di cento chili piovuta dal cielo. Mi staccai dal fondo della laguna e salii lentamente fino allo scafo della motovedetta. Era coperto da una viscida barba di alghe e incrostato da uno strato irregolare di crostacei e molluschi. Mi mossi lentamente lungo la chiglia, cercando un punto di ancoraggio, ma non ce n'erano e alla fine fui costretto a usare il fusto del timone. Vi fissai la cassa, legandola con tutto il cavo di nylon che avevo... e quando ebbi finito ero certo che avrebbe resistito alla trazione dell'acqua anche quando la motovedetta navigava a tutta velocità. Finalmente soddisfatto, scesi di nuovo sul fondo della laguna e mi allontanai senza far rumore. Stavolta procedetti molto più veloce nell'acqua, senza il peso della cassa di gelignite. Chubby mi aspettava sulla spiaggia. «Tutto a posto?» chiese a bassa voce, aiutandomi a liberarmi dal respiratore a ossigeno. «Purché quella matita faccia il suo dovere.» Adesso ero così stanco che il tragitto di ritorno mi sembrò lungo un'eternità e camminai trascinando i piedi. La notte precedente avevo dormito poco e da allora per niente. Stavolta fu Chubby a restare di guardia mentre io dormivo e quando mi scosse gentilmente erano le sette del mattino e la luce aumentava rapidamente. Consumammo una colazione fredda a base di scatolette e io la conclusi con una manciata di pastiglie di glucosio altamente energetico attinte dalle razioni, innaffiandole con una tazza d'acqua. Estrassi il coltello dal fodero nella cintura e con un colpo da virtuoso lo lanciai nel tronco della palma più vicina. Rimase lì conficcato, vibrando.
«Non darti arie!» borbottò Chubby e io gli rivolsi un sorriso, tentando di apparire rilassato e fiducioso. «Guarda, proprio come ha detto lui... niente armi» e allargai le mani vuote. «Pronto?» chiese lui, e ci alzammo entrambi a disagio. Chubby non mi avrebbe mai augurato buona fortuna... quella era la forma peggiore di malocchio che si potesse gettare a qualcuno. «Ci vediamo» mi disse. «Okay, Chubby.» Gli tesi la mano. Lui la prese e la strinse forte, poi si allontanò, raccolse la carabina FN e si avviò lentamente fra le palme. Io rimasi a guardarlo finché non sparì, ma lui non si voltò mai indietro e anch'io mi incamminai e scesi sulla spiaggia disarmato. Sbucai dagli alberi e rimasi sulla battigia, fissando la motovedetta oltre la stretta striscia d'acqua. Vidi con sollievo che il cadavere appeso all'albero era stato rimosso. Per parecchi secondi nessuna delle sentinelle sul ponte mi notò, così alzai le mani sopra la testa e gridai forte: «Ohé!». Sulla motovedetta si scatenò subito un fervore di attività e si sentirono gridare degli ordini. Manny Resnick e Lorna comparvero alla battagliola e mi fissarono, mentre una mezza dozzina di marinai armati si calava nella baleniera e puntava sulla spiaggia. Appena la barca approdò saltarono fuori sulla sabbia e mi circondarono, premendomi con impazienza nella schiena e nel ventre la canna degli AK 47. Io restai con le mani a mezz'asta e cercai di mantenere un'espressione di disinteresse mentre un sottufficiale mi perquisiva con deliberata accuratezza in cerca di armi. Quando finalmente fu soddisfatto, mi appoggiò la mano fra le scapole e mi dette una spinta decisa. Uno dei suoi uomini più zelanti la interpretò come un'autorizzazione e tentò di spezzarmi le reni con il calcio del suo AK 47... ma il colpo arrivò quindici centimetri più in alto. Io mi avviai a passo svelto verso la barca, per prevenire qualunque ulteriore esibizione marziale, e loro mi si affollarono intorno premendo la canna delle loro armi cariche nelle più svariate parti della mia anatomia, con effetti piuttosto dolorosi. Manny Resnick mi guardò salire a bordo della motovedetta. «Ci si rivede, Harry» osservò con un sorriso privo di allegria. «Il piacere è tutto tuo, Manny.» Gli ricambiai il sogghigno sinistro, e un altro colpo mi arrivò fra le scapole, proiettandomi dalla parte opposta del ponte. Serrai i denti per dominare la collera e pensai a Sherry North. Questo mi fu d'aiuto. Il comandante Suleiman Dada era stravaccato su un basso divano coperto da semplici cuscini di tela. Si era tolto la giacca dell'uniforme, che era appesa a un gancio sulla paratia accanto a lui, appesantita dai galloni e dalle medaglie. Portava solo un panciotto grigiastro inzuppato di sudore e perfino in quell'ora così mattutina teneva nella destra un bicchiere di liquido bruno chiaro. «Ah, Harry Fletcher... o dovrei dire piuttosto Harry Bruce?» Mi sorrise come un enorme neonato color carbone. «Scelga lei, Suleiman» lo invitai, ma ora non mi sentivo in vena di parlare con lui del più e del meno. Non mi facevo illusioni sui rischi della posizione in cui Sherry e io ci trovavamo e i miei nervi erano tesi al limite di rottura e la paura mi brontolava nella pancia come un animale in gabbia. «Ho appreso tante cose nuove su di lei dai miei buoni amici.» Indicò Manny e la bionda Lorna che mi avevano seguito nella cabina principale. «Affascinante, Harry. Non mi sarei mai sognato che lei fosse un uomo dal talento così vasto e multiforme.» «Grazie, Suleiman, è un vero amico, ma non ci lasciamo fuorviare dai complimenti. Abbiamo affari importanti, vero?» «Vero, Harry, verissimo.» «Hai riportato a galla il trono della tigre, Harry, lo sappiamo» intervenne Manny, ma io scossi la testa. «Solo una parte. Il resto è andato... ma abbiamo recuperato quello che c'era.» «D'accordo, ti credo» convenne Manny. «Dicci quello che c'è.» «C'è la testa della tigre, circa centotrenta chili d'oro...» Suleiman
e Manny si scambiarono un'occhiata. «E' tutto?» chiese Manny, e io capii d'istinto che sotto le percosse Sherry aveva parlato. Non gliene volli per questo. Me l'ero aspettato. «C'è anche la cassetta dei gioielli. Le pietre rimosse dal trono erano conservate in una cassetta di ferro.» «E il diamante... il Gran Mogol?» domandò Manny. «L'abbiamo trovato» risposi, e loro mormorarono e sorrisero, scambiandosi cenni d'intesa. «Ma io sono il solo a sapere dov'è» aggiunsi piano, e subito ridivennero tesi e silenziosi. «Stavolta ho qualcosa da offrire, Manny. T'interessa?» «C'interessa, Harry, molto.» Suleiman Dada parlò per lui e mi accorsi della tensione crescente fra i miei due nemici, ora che il bottino era quasi a portata di mano. «Voglio Sherry North» dissi. «Sherry North?» Manny mi fissò un attimo e poi si lasciò sfuggire una tossetta divertita. «Sei ancora più idiota di quanto pensassi, Harry.» «La ragazza non c'interessa più.» Suleiman bevve un sorso dal bicchiere e io sentii il tanfo del suo sudore nel caldo intenso della cabina. «Può prendersela.» «Voglio la mia barca, carburante e acqua per allontanarmi dall'isola.» «Ragionevole, Harry, molto ragionevole.» Manny sorrise di nuovo come per uno scherzo segreto. «E voglio la testa della tigre» e tanto Manny quanto Suleiman scoppiarono a ridere forte. «Harry, Harry!» mi sgridò Suleiman, sempre ridendo. «Ingordo.» «Voi potete prendervi il diamante e circa venticinque chili di altre gemme...» Tentai di rendere appetibile l'idea con tutta la capacità di persuasione che riuscii a sfoderare. Era l'unica cosa ragionevole da fare per un uomo nella mia posizione. «... in confronto la testa è niente. Il diamante vale un milione, la testa coprirebbe appena le mie spese.» «Lei è un uomo tenace, Harry» ridacchiò Suleiman. «Troppo tenace.» «Che cosa ne ricaverò, allora?» domandai. «La vita, e ringrazia il cielo per questa» disse piano Manny, e io lo fissai. Vidi il gelo nei suoi occhi, simili a quelli di un rettile, e capii senza alcun dubbio quali erano le sue intenzioni nei miei confronti, una volta che li avessi condotti al tesoro. «Come posso fidarmi?» Dovevo recitare la mia parte fino in fondo, però, e Manny si strinse nelle spalle con indifferenza. «Harry, come può non fidarsi di noi?» intervenne Suleiman. «Che cosa potremmo guadagnarci uccidendo lei e la sua amica?» "E cosa potreste mai rimetterci?", pensai, ma annuii e risposi: «D'accordo. Non ho molta scelta». Si rilassarono di nuovo, scambiandosi un sorriso, e Suleiman levò il bicchiere in un brindisi silenzioso. «Beve, Harry?» chiese. «E' un po' presto per me, Suleiman» ribattei «ma ora vorrei avere la ragazza.» Suleiman fece segno a uno degli uomini di andarla a prendere. «Voglio la baleniera sulla spiaggia, rifornita d'acqua e di carburante» ripresi cocciuto, e Suleiman dette gli ordini. «La ragazza viene a terra con me, e quando vi avrò indicato la cassetta e la testa le prenderete e ve ne andrete.» Spostai lo sguardo dall'uno all'altro. «Ci lascerete sani e salvi sull'isola, d'accordo?» «Ma certo, Harry.» Suleiman allargò le braccia con un gesto disarmante. «Siamo tutti d'accordo.» Temevo che si accorgessero della mia espressione incredula... così mi volsi con sollievo verso Sherry mentre veniva introdotta nella cabina. Il mio sollievo svanì quando la fissai. «Harry» bisbigliò lei fra le labbra gonfie e violacee. «Sei venuto... oh, Dio, sei venuto.» Mosse un passo incerto verso di me. La sua guancia era livida e orribilmente gonfia e dall'estensione dell'edema pensai che forse l'osso era fratturato. I lividi sotto gli occhi le davano un'aria smunta da tisica e il sangue si era seccato formando una crosta nera sull'orlo delle narici. Non volevo guardare le sue ferite, così la presi fra le braccia e me la strinsi al petto. Ci stavano osservando divertiti e interessati, sentivo i loro occhi su
di noi, ma non volevo affrontarli e lasciar scorgere l'odio omicida che doveva trasparire dal mio sguardo. «D'accordo» dissi «facciamola finita.» Quando finalmente mi volsi per affrontarli, sperai che la mia espressione fosse sotto controllo. «Purtroppo io non verrò con voi.» Suleiman non fece nessuno sforzo per alzarsi dal divano. «Andar su e giù da una barchetta, e camminare sulla sabbia al sole per lunghe distanze non è uno dei miei passatempi preferiti. Le dico addio qui, Harry, e i miei amici...» indicò di nuovo Manny e Lorna «... verranno con lei in qualità di miei rappresentanti. Naturalmente sarà accompagnato anche da una dozzina dei miei uomini, tutti armati, che agiscono su mie istruzioni.» Pensai che questo avvertimento non era destinato a me solo. «Arrivederci, Suleiman. Forse ci rivedremo.» «Ne dubito, Harry» chiocciò lui. «Ma Dio la protegga e la accompagnino le mie benedizioni.» Mi congedò con una grossa zampa dal palmo roseo e con l'altra sollevò il bicchiere e bevve l'ultimo dito di liquore. Nella lancia Sherry sedette vicino a me. Mi si strinse contro e il suo corpo mi sembrò smagrito dalle sofferenze patite. Le passai il braccio sulle spalle e lei bisbigliò con voce stanca: «Ci uccideranno, Harry, questo lo sai, vero?». Ignorai la domanda e chiesi piano: «La mano» era ancora avvolta nella benda rudimentale «che cos'è successo?» Sherry guardò la ragazza bionda accanto a Manny e la sentii rabbrividire per un attimo. «E' stata lei, Harry.» Lorna Page chiacchierava animatamente con Manny Resnick. La sua pettinatura spruzzata con cura di lacca resisteva agli sforzi del vento per scompigliarla e il viso era truccato meticolosamente con costosi cosmetici. Il suo rossetto era lucido e le palpebre erano di un verde iridescente, con lunghe ciglia scurite dal mascara intorno agli occhi da gatta. «Loro mi tenevano... e lei mi strappava le unghie.» Rabbrividì ancora e Lorna Page rise in tono leggero. Manny chiuse le mani a coppa intorno a un accendino d'oro Dunhill mentre lei accendeva una sigaretta. «Continuavano a chiedermi dov'era il tesoro... e ogni volta che non sapevo rispondere lei mi strappava un'unghia con le pinze. Facevano un suono lacerante...» Sherry s'interruppe, con la mano ferita contro lo stomaco come per proteggerla. Ora capivo quanto fosse vicina al punto di rottura e la tenni stretta, tentando di infonderle forza attraverso il contatto fisico. «Piano, bambina, adesso calmati» mormorai, e lei si strinse ancor di più a me. Le accarezzai i capelli e tentai nuovamente di dominare la collera, controllandola prima che mi offuscasse l'intelletto. La lancia approdò sulla spiaggia. Noi sbarcammo e restammo fermi sulla sabbia mentre le guardie ci accerchiavano con le armi spianate. «Bene, Harry» esclamò Manny. «Ecco la barca, tutta pronta per te.» La baleniera era in secco sulla spiaggia. «I serbatoi sono pieni e quando ci avrai mostrato la merce potrai andartene.» Parlava con disinvoltura, ma la ragazza al suo fianco ci guardava con occhi ardenti da predatrice... Mi chiesi quale sorte ci avesse riservato. Intuii che Manny le aveva promesso di consegnarci a lei, una volta ottenuto quel che voleva, perché si divertisse a suo piacere. «Spero che non tenterai di fare il furbo, Harry. Spero che sarai ragionevole e non ci farai perdere tempo.» Avevo notato che Manny si era circondato dei suoi uomini. Erano quattro, tutti armati di pistola, e uno di loro era la mia vecchia conoscenza che aveva guidato la Rover la sera del nostro primo incontro. A controbilanciarli c'erano dieci marinai negri guidati da un sottufficiale e già sentivo che l'opposizione era divisa in due partiti sempre più ostili. Manny ridusse ulteriormente il numero di marinai distaccandone due di guardia alla lancia. Poi si rivolse a me: «Se sei pronto, Harry, puoi farci strada». Dovetti aiutare Sherry tenendola per il gomito e guidandola fra le palme. Era tanto debole che inciampò più volte e il suo respiro si fece affaticato e irregolare prima che arrivassimo alle caverne. Con la piccola folla di uomini armati che ci seguiva da vicino, proseguimmo costeggiando il pendio. Lanciai di soppiatto un'occhiata
all'orologio. Erano le nove. Ancora un'ora, prima che la cassa di gelignite sotto la motovedetta esplodesse. Il tempo rientrava ancora nei limiti che avevo fissato. Feci un po' di scena prima di indicare il punto preciso in cui era sepolta la cassetta e solo a stento mi trattenni dal guardare in su verso il pendio, dove la piega del terreno era schermata dalla vegetazione. «Ordina di scavare qui» dissi a Manny, facendo un passo indietro. Quattro marinai tesero le armi ai compagni e montarono le piccole pale pieghevoli di tipo militare che avevano portato con sé. Il terreno era soffice e smosso di fresco, tanto che procedevano a velocità allarmante. Fra pochi minuti avrebbero portato alla luce la cassetta. «La ragazza è ferita» dissi a Manny. «Deve sedersi.» Lui mi guardò e notai che la sua mente lavorava in fretta. Sapeva che Sherry non poteva andare lontano e credo che vedesse di buon occhio la possibilità di allontanare qualche marinaio, perché parlò brevemente con il sottufficiale e io guidai Sherry verso la palma e la feci sedere contro il fusto. Lei sospirò di sollievo e due marinai vennero a sorvegliarci con le armi spianate. Guardai il pendio, ma non si vedeva niente di sospetto, anche se sapevo che Chubby doveva osservarci con attenzione. A parte le due guardie, tutti gli altri erano riuniti in attesa intorno ai quattro che erano già immersi fino al ginocchio nella buca scavata di fresco. Anche le nostre due guardie erano divorate dalla curiosità, la loro attenzione continuava a divagare e guardavano in continuazione il gruppo distante una quarantina di metri. Sentii nitidissimo il suono metallico della vanga che colpì il coperchio della cassetta... poi si levò un grido eccitato. Tutti si affollarono intorno allo scavo in una babele di voci animate, cominciando a tirare gomitate ai vicini per avere la possibilità di dare un'occhiata. Le nostre guardie ci volsero le spalle e fecero un passo o due nella stessa direzione. Era più di quanto avessi osato sperare. Manny Resnick spinse da parte con violenza due marinai e saltò nella buca accanto agli scavatori. Lo sentii gridare: «Va bene, allora portate queste funi e tiriamola fuori. Attenti, non fate danni». Anche Lorna Page era china sulla buca. Era il momento ideale. Sollevai la mano destra e mi asciugai la fronte nel segnale concordato con Chubby e riabbassando la mano afferrai Sherry e rotolai in fretta all'indietro nel canale poco profondo scavato dalla pioggia. Sherry era stata colta alla sprovvista e nell'ansia di metterla al riparo l'avevo trattata rudemente. Quando urtai le ferite già dolenti lanciò un grido. Sentendola urlare le due guardie piroettarono sollevando i mitra e capii che stavano per sparare... e la bassa trincea non offriva nessun riparo. «Ora, Chubby, ora!» pregai, lanciandomi su Sherry per farle scudo contro il fuoco dei mitra e premendole le mani sulle orecchie per proteggerle. In quell'istante Chubby girò la manopola dell'esploditore elettrico a batteria e l'impulso corse lungo il filo isolato che la sera prima avevamo nascosto con tanta cura. C'era mezza cassa di gelignite stipata nella cassetta di ferro, il massimo che avevo potuto usare senza disintegrare Sherry e me nello scoppio. Immaginai la gioia diabolica di Chubby quando la cassa saltò. Esplose verso l'alto, deviata dalle pareti della buca, ma avevo confezionato i candelotti di gelignite con sabbia e manciate di pietre dure che dovevano funzionare come un rudimentale shrapnel, contenendo lo scoppio e rendendolo ancor più micidiale. Il gruppo di uomini intorno alla buca saltò in aria, roteando e descrivendo capriole come una troupe di acrobati folli, e una colonna di sabbia e di polvere si levò a trenta metri d'altezza. La terra tremò sotto di noi, scuotendo i nostri corpi supini, poi l'onda d'urto c'investì, abbattendo le due guardie che stavano per spararci addosso e strappando loro i vestiti dal corpo.
Pensai di avere entrambi i timpani rotti, dato che ero completamente sordo, ma sapevo di aver protetto dall'esplosione quelli di Sherry. Assordato e mezzo accecato dalla polvere, rotolai lontano da Sherry e grattai freneticamente sul fondo sabbioso della trincea. Urtai con le dita il mitra sepolto e lo tirai fuori, strappando gli stracci che lo proteggevano e alzandomi rapido in ginocchio. Le guardie vicino a me erano vive, una strisciava sulle ginocchia e l'altra stava seduta, stordita, con il sangue che scorreva sulla guancia da un timpano esploso. Le uccisi con due corte raffiche. Poi alzai gli occhi versò il mucchio di uomini mutilati intorno allo scavo. Si notavano deboli sussulti convulsi, lievi gemiti e piagnucolii. Mi alzai tremante dalla trincea e vidi Chubby in piedi sul pendio. Stava gridando, ma il frastuono ronzante che mi risuonava nelle orecchie m'impediva di sentirlo. Rimasi là, barcollando leggermente, guardandomi intorno come un idiota, e Sherry si alzò in piedi accanto a me. Mi toccò la spalla dicendo qualcosa e sentii con sollievo la sua voce, mentre il ronzio nelle orecchie si attenuava leggermente. Guardai di nuovo il teatro dell'esplosione e vidi uno spettacolo strano e raccapricciante. Una figura dalle parvenze umane, spogliata degli abiti e di gran parte della pelle, una cosa sanguinolenta, con un braccio staccato per metà dall'articolazione della spalla che penzolava lungo il fianco, sospeso a un brandello di carne viva, si alzò lentamente accanto alla buca come un fantasma dalla tomba. Rimase così per un lungo istante prima che riuscissi a riconoscere Manny Resnick. Pareva impossibile che fosse sopravvissuto a quella strage, ma più ancora che cominciasse a venirmi incontro. Avanzò barcollando, un passo dopo l'altro, sempre più vicino, e io rimasi paralizzato, incapace di muovermi. Poi vidi che era cieco, la sabbia gli aveva bruciato le pupille e scorticato la pelle del viso. «Oh Dio, Dio!» bisbigliò Sherry accanto a me, e questo ruppe l'incantesimo. Sollevai il mitra e il torrente di pallottole che squarciò il petto di Manny fu un atto di misericordia. Ero ancora intontito e fissavo la carneficina che avevamo provocato quando Chubby mi raggiunse. Mi prese per il braccio e lo sentii gridare: «Ti senti bene, Harry?». Annuii e lui riprese: «La baleniera! Dobbiamo controllare la baleniera!». Mi rivolsi a Sherry. «Va' nella grotta. Aspettami lì» e lei si allontanò docile. «Prima controlliamo questi» borbottai a Chubby, e ci avvicinammo al mucchio di corpi intorno alla cassetta di ferro in frantumi. Erano tutti morti o lo sarebbero stati fra breve. Lorna Page era distesa supina. L'esplosione le aveva strappato i vestiti e il corpo pallido e snello era coperto solo dalla biancheria di pizzo, con qualche brandello del completo pantaloni verde che le pendeva dai polsi e le aderiva alle gambe lacerate e ancora sanguinanti. Sfidando anche l'esplosione, la pettinatura aveva conservato la sua eleganza laccata, offuscata solo da un velo di fine sabbia bianca. La morte le aveva giocato un macabro scherzo... perché la forza dell'esplosione le aveva conficcato nella fronte un grumo di lapislazzuli azzurri. Si era incastonato nella sua scatola cranica come l'occhio della tigre nel trono d'oro. I suoi occhi erano chiusi, mentre il terzo prezioso occhio di pietra mi fissava con odio accusatore. «Sono tutti morti» grugnì Chubby. «Sì, sono morti» riconobbi, distogliendo lo sguardo dalla ragazza mutilata. Fui sorpreso di non sentire esultanza o soddisfazione né per la sua morte né per il modo in cui era avvenuta. La vendetta, lungi dall'essere dolce, è del tutto insipida, pensai, mentre seguivo Chubby sulla spiaggia. Ero ancora malfermo per effetto dell'esplosione e anche se avevo riacquistato quasi del tutto l'udito faticavo a tener dietro a Chubby. Era agile, per la sua mole. Ero indietro di dieci passi quando sbucammo dagli alberi e ci fermammo in cima alla spiaggia.
La baleniera era là dove l'avevamo lasciata, ma i due marinai di guardia alla lancia dovevano aver sentito l'esplosione e deciso di non correre rischi. Erano già a metà strada dalla motovedetta e quando videro Chubby e me uno di loro scaricò il mitra nella nostra direzione. La distanza superava di gran lunga le possibilità dell'arma e non ci curammo nemmeno di cercare riparo. Comunque gli spari attirarono l'attenzione degli uomini rimasti a bordo della motovedetta e vidi che tre correvano a prua ad armare il cannoncino. «Cominciano i guai» mormorai. Il primo colpo fu alto ed esplose fra le palme dietro di noi, sforacchiandone i fusti. Chubby e io indietreggiammo in fretta e ci sdraiammo dietro la cresta sabbiosa della spiaggia. «E adesso?» chiese Chubby. «E' una posizione di stallo» risposi. I due colpi seguenti del cannone a tiro rapido sfogarono senza danno la loro furia fra gli alberi, in alto e alle nostre spalle, ma poi ci fu un intervallo di qualche secondo e li vidi girare il cannone. Il colpo seguente sollevò un'alta colonna d'acqua dalle secche vicino alla baleniera. Chubby lanciò un ruggito di collera, come una leonessa che vede minacciati i suoi cuccioli. «Cercano di affondare la baleniera!» muggì, mentre il colpo successivo s'infrangeva sulla spiaggia in un corto zampillo di sabbia. «Dammi» scattai, e gli tolsi il fucile, ficcandogli in mano l'AK 47 e sfilandogli dalle spalle la cinghia dello zaino. La sua mira non era all'altezza del lavoro di fino che s'imponeva adesso. «Resta qui» gli ordinai, e saltai su piegato in due, seguendo la curva della baia. Ormai mi ero ripreso quasi del tutto dagli effetti dell'esplosione e non appena raggiunsi la punta più vicina alla motovedetta mi appiattii col ventre sulla sabbia e spinsi avanti la lunga canna dell'FN. I cannonieri si accanivano ancora contro la baleniera e colonne di sabbia e d'acqua si levavano in rapida successione intorno ad essa. La piastra anteriore blindata dell'armatura del cannone mi si presentava di tre quarti e le spalle e i fianchi della postazione erano scoperti. Spostai il selettore di fuoco della carabina sul tiro singolo e trassi qualche respiro profondo per rendere sicura la mira dopo la lunga corsa attraverso la sabbia soffice. Il puntatore stava azionando le manovelle per brandeggiare e aveva la fronte premuta contro il cuscinetto sopra l'oculare. Lo centrai nel mirino e sparai un colpo solo. Fu sbalzato dal sedile e proiettato di traverso sulla culatta del cannone. Le manovelle di puntamento, abbandonate a se stesse, girarono pigramente e la canna del pezzo si solleva verso il cielo. I due serventi si guardarono intorno stupiti e io sparai contro di loro altri due colpi senza mirare. Il loro stupore si tramutò all'istante in panico e disertarono i loro posti scattando lungo il ponte e tuffandosi in un boccaporto aperto. Spostai la mira di lato, verso l'alto, contro il ponte scoperto della motovedetta. Tre colpi piazzati fra gli ufficiali e i marinai riuniti produssero un coro gratificante di strilli e il ponte si vuotò come per incanto. La lancia proveniente dalla spiaggia accostò e io sospinsi i due marinai su per la murata e nella cabina di coperta con altri tre colpi. Trascurarono di legare la barca, che si allontanò alla deriva. Cambiai il caricatore della carabina e poi con calma deliberata piazzai una pallottola in ognuno degli oblò sul lato più vicino del battello. Sentii chiaramente lo schiocco dei vetri in frantumi a ogni sparo. Questa si rivelò una provocazione troppo sfacciata per Suleiman Dada. Sentii sferragliare l'argano e la catena dell'ancora rientrò a prua, luccicante d'acqua; appena l'ancora sbucò in superficie le eliche della motovedetta fecero ribollire a poppa un vortice di schiuma e la barca virò verso l'apertura della laguna. La tenni sotto tiro mentre superava lentamente il mio nascondiglio, nel caso cambiasse idea sulla partenza. Il ponte era protetto da una
tenda sporca di tela bianca e capii che il timoniere era rintanato là dietro a testa bassa. Sparai vari colpi attraverso la tela, tentando di indovinare la sua posizione. Non ottenni nessun risultato apparente, così riportai la mia attenzione sugli oblò, sperando in un rimbalzo fortunato all'interno dello scafo. La motovedetta acquistò rapidamente velocità, cominciando a ballonzolare come una vecchia signora che rincorre l'autobus. Doppiò la punta e io mi alzai e mi spazzolai di dosso la sabbia. Poi ricaricai il fucile e mi lanciai di corsa fra le palme. Quando raggiunsi la punta settentrionale dell'isola e arrivai abbastanza in alto sul pendio da dominare il canale, la motovedetta era a più di un chilometro, diretta risolutamente verso il lontano continente africano, una piccola sagoma bianca tra il verde sfumato del mare e l'azzurro più intenso del cielo, in alto. Mi ficcai sotto il braccio l'FN e trovai un posto dove sedermi a osservare i suoi progressi. Il mio orologio segnava le dieci e sette minuti e cominciai a chiedermi se la cassa di gelignite sotto la poppa della motovedetta non si fosse staccata per effetto della trazione dell'acqua e del getto delle eliche. Ora la motovedetta stava passando in mezzo alle barriere esterne sommerse, prima di entrare nelle acque aperte che si stendevano fino alla costa. Le barriere lanciavano spruzzi a intervalli regolari, emettendo una spuma bianca ad ogni assalto del mare, come se un mostro respirasse acquattato sotto la superficie. Il puntolino bianco dello scafo sembrava etereo e immateriale in quel deserto di mare e cielo, presto si sarebbe fuso con le acque dell'oceano corrugate dal vento e increspate dalla corrente. L'esplosione, quando si verificò, fu priva di effetto, la sua violenza fu attutita dalla distanza e il suono addolcito dal vento. All'improvviso si levò un geyser d'acqua che avviluppò il minuscolo battello bianco. Sembrava una piuma di struzzo, morbida e ondeggiante al vento, che raggiunta la massima altezza s'inarcò, poi perse ogni forma e si tramutò in una macchia sulla superficie agitata. Il suono mi arrivò parecchi secondi dopo, un solo tonfo sordo, mite con i miei timpani ancora sensibili, e mi parve di sentire come un soffio di vento sul viso. Quando la schiuma si fu placata il canale era vuoto, del minuscolo battello non restava traccia e del suo passaggio sulle acque agitate dal vento non era rimasto il minimo segno. Sapevo che con la marea i grossi squali Albacore dall'aria crudele venivano a caccia a riva, sospinti dalla corrente. Ben presto avrebbero fiutato nell'acqua la traccia di sangue e carni dilaniate e dubitavo che chiunque fosse sopravvissuto all'esplosione della motovedetta potesse sfuggire a lungo alle attenzioni di quegli assassini ottusi e voraci. Quelli che trovavano il comandante Suleiman avrebbero fatto buona caccia, pensai, a meno che non riconoscessero in lui un loro simile e gli accordassero i privilegi professionali. Era una battuta piuttosto macabra, e mi procurò solo un attimo di divertimento. Mi alzai e scesi verso le caverne. Scoprii che la mia cassetta di pronto soccorso era stata aperta e svuotata durante il saccheggio del giorno prima, ma recuperai materiale sufficiente a pulire e medicare le dita mutilate di Sherry. Erano state strappate tre unghie. Temevo che le matrici fossero state distrutte e che non sarebbero più ricresciute, ma quando Sherry espresse gli stessi timori li smentii recisamente. Una volta curate le ferite le feci ingoiare un paio di codeine per il dolore e le preparai un letto in fondo alla caverna. «Riposa» le dissi, inginocchiandomi per baciarla con tenerezza. «Cerca di dormire. Verrò a prenderti quando saremo pronti per la partenza.» Chubby era già impegnato nei preparativi necessari. Aveva controllato la baleniera e a parte alcuni fori di shrapnel l'aveva trovata in buone condizioni. Tappammo i fori con lo stucco speciale preso dalla cassetta degli attrezzi e la lasciammo sulla spiaggia. La buca in cui era stata sepolta la cassetta servì da fossa comune per
i morti che vi giacevano intorno. Li stendemmo dentro come sardine e li coprimmo con sabbia soffice. Esumammo dalla sua tomba la testa d'oro, con l'occhio che scintillava ancora sulla fronte ampia, e barcollando sotto il suo peso la portammo giù alla baleniera e la circondammo con i cuscini di politene in fondo alla barca. I pacchetti di plastica di zaffiri e smeraldi li ficcai nello zaino che posi vicino alla testa. Poi tornammo alle caverne e recuperammo tutte le provviste e il materiale che non era stato danneggiato. Era pomeriggio inoltrato quando finimmo di sistemare tutto nella baleniera, e io ero stanco. Posai il fucile FN in cima al carico e mi tirai indietro. «A posto, Chubby?» gli chiesi mentre accendevamo un sigaro e ci concedevamo, la prima pausa. «Penso che ora possiamo partire.» Chubby aspirò una boccata e soffiò un lungo sbuffo di fumo azzurro prima di sputare sulla sabbia. «Voglio solo andare a prendere Angelo» borbottò, e quando lo fissai spiegò: «Non posso lasciare il ragazzo lassù. Qui è troppo deserto, vorrà stare con i suoi in una vera tomba». Così, mentre io tornavo alle caverne a chiamare Sherry, Chubby scelse un telone e si allontanò nel buio che si addensava. Svegliai Sherry e mi assicurai che stesse al caldo con uno dei miei maglioni addosso, poi le detti altre due compresse e la portai verso la spiaggia. Ormai era buio e tenevo la torcia in una mano, mentre con l'altra aiutavo Sherry. Raggiungemmo la spiaggia e mi fermai incerto. Sentii che qualcosa non andava e puntai la pila sulla barca carica. Poi capii cos'era e provai un lieve senso di nausea allo stomaco. Il fucile non era più dove l'avevo lasciato, nella baleniera. «Sherry» bisbigliai con urgenza «sta giù e restaci finché non te lo dico io.» Lei si lasciò subito cadere sulla sabbia vicino allo scafo in secca, e io cercai freneticamente un'arma. Pensai al fucile subacqueo, ma era sotto le lattine. Il mio coltello per le esche era ancora conficcato nel tronco di una palma... me n'ero dimenticato fino a questo momento. Una chiave inglese dalla cassetta degli utensili, magari... ma riuscii soltanto a formulare il pensiero. «Buono, Harry, ho il fucile.» La profonda voce gutturale si sprigionò dal buio proprio alle mie spalle. «Non si volti e non faccia sciocchezze.» Doveva essere rimasto disteso nel boschetto dopo aver preso il fucile e ora mi era arrivato alle spalle. Rimasi impietrito. «Senza voltarsi... mi lanci quella torcia. Sopra la spalla.» Obbedii e sentii la sabbia scricchiolare sotto i suoi piedi mentre si chinava a raccoglierla. «Va bene, si giri... piano.» Quando mi voltai mi puntò negli occhi il raggio potente, abbagliandomi. Tuttavia riuscivo ancora a distinguere vagamente l'enorme sagoma sgraziata dell'uomo oltre il fascio di luce. «Ha fatto una bella nuotata, Suleiman?» gli chiesi. Mi accorsi che portava solo un paio di corte mutande bianche e il ventre enorme e le grosse gambe sformate luccicavano umide al riflesso della torcia. «Sto diventando allergico ai suoi scherzi, Harry» riprese lui, con la sua voce profonda e ben modulata, e ricordai troppo tardi quanto diventa leggero e forte un uomo obeso nell'acqua di mare. Tuttavia anche con il favore della marea Suleiman Dada aveva compiuto un'impresa formidabile, sopravvivendo all'esplosione e percorrendo a nuoto due miglia di mare agitato. Dubitavo che qualcun altro dei suoi uomini avesse fatto altrettanto. «Penso che dovrei cominciare dal ventre» riprese e vidi che teneva il calcio del fucile sul gomito sinistro. Con la stessa mano mi puntava il raggio della torcia in faccia. «Mi dicono che è la ferita più dolorosa.» Quindi restammo in silenzio per qualche istante, Suleiman Dada con il suo profondo ansito asmatico e io cercando disperatamente di escogitare un modo per distrarlo quel tanto da poter afferrare la canna del fucile. «Non sarebbe per caso disposto a gettarsi in ginocchio per supplicarmi?» domandò. «Vada a farsi fottere, Suleiman» risposi.
«No, non credevo proprio che l'avrebbe fatto. Peccato, mi sarebbe piaciuto. Ma che ne dice della ragazza, Harry, certo varrebbe la pena di sacrificare un po' del suo orgoglio...» Sentimmo entrambi Chubby. Aveva capito di non poter attraversare la spiaggia senza farsi scoprire, nemmeno al buio. Aveva tentato di indurre Suleiman Dada a spostarsi, ma sono certo che sapeva di non farcela. Il suo scopo, in realtà, era di offrirmi il diversivo di cui avevo disperatamente bisogno. Balzò fuori dal buio, correndo silenziosamente tradito solo dallo scricchiolio della sabbia sotto i piedi. Anche quando Suleiman Dada gli puntò contro il fucile, non tentennò. Ancor prima che risuonasse lo schiocco dello sparo e dalla canna si sprigionasse la lunga fiammata abbacinante, io avevo già coperto metà della distanza che mi separava dal gigante nero. Con la coda dell'occhio vidi Chubby cadere, poi Suleiman Dada cominciò a puntare il fucile verso di me. Io deviai la canna dell'arma sfiorandola e gli piantai una spalla nel torace. Avrebbe dovuto sfondargli le costole, invece sentii la potenza del mio slancio assorbita dalla spessa imbottitura di grasso. Era come lanciarsi contro un materasso di piume d'oca e anche se indietreggiò barcollando di alcuni passi e perse il fucile, Suleiman Dada rimase ritto su quei due tronchi massicci di gambe, e prima di poter recuperare l'equilibrio mi sentii avviluppare in una gigantesca stretta da orso. Mi afferrò di peso e mi attirò sul suo petto soffice, intrappolandomi con le braccia e sollevandomi da terra in modo che non potei puntare le gambe per resistere. Provai un brivido d'incredulità, quando sperimentai la forza di quell'uomo, non una pura forza bruta... ma qualcosa di tanto imponente e poderoso che sembrava non avere limiti, quasi come l'impeto inarrestabile del mare. Tentai con i gomiti e le ginocchia, scalciando e picchiando per spezzare la morsa, ma i colpi non incontravano niente di solido e non facevano nessun effetto su di lui. Invece la stretta avvolgente delle sue braccia cominciò a serrarsi con la lenta pressione delle spire di un pitone gigante. Capii subito che era capacissimo di stritolarmi letteralmente... e provai un senso di panico. Mi contorsi e lottai freneticamente fra le sue braccia, senza ottenere altro effetto che aumentare l'enorme potenza che esercitava su di me. Il suo respiro sibilante si fece più aspro e lui si chinò in avanti, curvando le grosse spalle e forzandomi la schiena all'indietro in un arco che nel giro di pochi secondi mi avrebbe spezzato la spina dorsale. Allora piegai all'indietro la testa, la rialzai con la bocca aperta e serrai i denti sul largo naso schiacciato. Addentai con la forza della disperazione, e sentii distintamente i miei denti penetrare nella carne e nella cartilagine del suo naso e subito la bocca mi si riempì di un caldo fiotto di sangue. Come un cane in un combattimento contro un toro, azzannai e tirai. L'uomo lanciò un ruggito di dolore e di collera e lasciò la presa con cui mi stava stritolando per cercare di staccare i miei denti dal suo viso. Appena mi sentii le braccia libere sgusciai con un guizzo e piantai i piedi sulla sabbia umida, in modo da colpirlo all'anca per atterrarlo. Era così intento nel tentativo di liberare il naso, che non resistette al colpo e mentre finiva riverso all'indietro i miei denti gli strapparono un pezzo di carne viva. Sputai l'orribile boccone, ma il sangue caldo mi scorse giù per il mento e dovetti resistere alla tentazione di asciugarmi. Suleiman Dada era disteso sulla schiena, arenato come un enorme ranocchio nero, ma non sarebbe rimasto impotente ancora a lungo, dovevo metterlo fuori combattimento sul serio e c'era solo un punto in cui poteva essere vulnerabile. Mi slanciai su di lui con un balzo e ricadendo gli piombai sulla gola per puntargli un ginocchio sulla laringe con tutto il peso e l'impeto del mio corpo e sfondargliela. Fu rapido come un cobra, sollevando le braccia per proteggersi la gola e afferrarmi mentre piombavo su di lui. Ancora una volta finii avviluppato da quelle grosse braccia nere e rotolammo avvinghiati giù per la spiaggia, nell'acqua calda e bassa della laguna. In un corpo a corpo come questo ero svantaggiato e lui mi fu sopra col
sangue che gli colava dal naso ferito, muggendo ancora di collera, e m'inchiodò sul fondale basso spingendomi la testa sott'acqua e premendomi sul torace e sui polmoni con tutto il suo enorme peso. Cominciai ad affogare. I polmoni mi bruciavano e il bisogno di respirare mi accendeva negli occhi scintille e spirali di fuoco. Sentivo la forza abbandonarmi e la lucidità dissolversi nel buio. Lo sparo, quando risuonò, fu sordo e attutito. Non lo riconobbi per quello che era finché non sentii Suleiman Dada guizzare e irrigidirsi, abbandonato dalle forze, e la sua mole scivolare di lato, lasciandomi libero. Mi alzai a sedere, tossendo e ansimando, con l'acqua che mi colava dai capelli e mi scorreva negli occhi. Alla luce della torcia caduta vidi Sherry inginocchiata sulla sabbia in riva al mare. Aveva il fucile ancora stretto nella mano bendata e il viso pallido e spaventato. Accanto a me Suleiman Dada galleggiava a faccia in giù nell'acqua bassa, il corpo seminudo nero e lucente come un delfino in secca. Mi alzai lentamente grondando acqua dai vestiti e lei mi fissò, inorridita da quello che aveva fatto. «Oh Dio» bisbigliò «l'ho ucciso. Oh Dio!» «Piccola» ansimai «questa è la cosa migliore che tu abbia mai fatto» e barcollando proseguii fino al punto in cui era disteso Chubby. Stava cercando di tirarsi su, lottando debolmente. «Buono, Chubby» lo rimproverai, e presi la torcia. Aveva del sangue fresco sulla camicia e io la sbottonai e l'allargai sull'ampio torace scuro. Era bassa, sulla sinistra, ma era una ferita al polmone. Vidi le bollicine gorgogliare nel foro scuro a ogni respiro. Ho visto abbastanza ferite di arma da fuoco da diventare una specie di autorità in materia e capii che questa era brutta. Mi guardò in faccia. «Come ti sembra?» grugnì. «Non fa male.» «E' una bellezza» ribattei cupo. «Ogni volta che berrai una birra ti schizzerà fuori dal buco.» Lui mi rivolse un sorriso sghembo e io lo aiutai a sedersi. Il foro di uscita era netto e pulito, dato che l'FN era stato caricato con munizioni solide, ed era solo di poco più grande del foro d'entrata. Il proiettile non si era schiacciato contro l'osso. Nella cassetta del pronto soccorso trovai un paio di bende da campo e fasciai le ferite prima di aiutar1o a salire sulla barca. Sherry aveva preparato un materasso e lo coprimmo con le coperte. «Non scordarti di Angelo» bisbigliò. Trovai il lungo involto di tela dove Chubby l'aveva lasciato cadere. Lo portai giù e lo distesi a prua. Spinsi la baleniera entrando in acqua fino alla cintola, poi mi arrampicai oltre la fiancata e avviai i motori. Ora il mio unico pensiero era di procurare a Chubby cure mediche adeguate, ma la corsa fra le isole fino a Saint Mary fu lunga. Sherry sedeva accanto a Chubby sul fondo, facendo quel poco che poteva per confortarlo, mentre io stavo ritto a poppa fra i motori, navigando nel canale profondo prima di virare a sud sotto un cielo pieno di stelle bianche e fredde, col mio carico di feriti, moribondi e morti. Stavamo navigando da quasi cinque ore quando Sherry si alzò e si diresse verso di me. «Chubby vuole parlarti» disse piano, poi d'impulso si chinò in avanti e mi toccò la guancia con le dita gelide della mano sana. «Penso che se ne stia andando, Harry.» E nella sua voce sentii la desolazione. Le passai il timone. «Vedi quelle due stelle luminose?» Le indicai la Croce del Sud. «Seguile» e mi diressi a prua da Chubby. Per un po' parve non riconoscermi, e io m'inginocchiai accanto a lui ascoltando il suono liquido del suo respiro. Poi alla fine riacquistò la lucidità. Alzò gli occhi su di me e io mi chinai più vicino, finché i nostri volti furono separati solo da pochi centimetri. «Abbiamo preso dei bei pesci insieme, Harry» bisbigliò. «Ne prenderemo tanti altri» ribattei. «Con quello che abbiamo a bordo potremo comprarci una barca veramente bella. Tu e io pescheremo ancora insieme, la prossima stagione... questo è certo.» Poi restammo in silenzio a lungo, finché alla fine sentii la sua mano cercare tentoni la mia e la presi, stringendola forte. Sentii i calli
e le lunghe scottature lasciate dalle gomene in anni di pesca. «Harry» la sua voce era così debole che riuscii appena a sentirla accostando l'orecchio alle sue labbra. «Harry, ti dirò una cosa che non ti ho mai detto prima. Ti voglio bene, amico» bisbigliò. «Ti voglio bene più che a mio fratello.» «Anch'io ti voglio bene, Chubby» replicai, e per qualche istante la stretta fu di nuovo forte, poi si allentò. Rimasi seduto accanto a lui mentre quella grossa mano si raffreddava lentamente fra le mie e l'alba cominciava a schiarire il cielo sul mare cupo e pensieroso. Nelle tre settimane seguenti Sherry e io lasciammo raramente l'eremo di Turtle Bay. Ci recammo insieme, impacciati, al cimitero per assistere alla sepoltura dei nostri amici e una volta io andai da solo al forte e passai due ore con il presidente Godfrey Biddle e l'ispettore Wally Andrews, ma per il resto del tempo restammo soli mentre le ferite si rimarginavano. I nostri corpi guarivano più in fretta delle anime. Un mattino, mentre medicavo la mano di Sherry, notai i semi di un bianco perlaceo nella carne delle dita, in via di guarigione, e mi accorsi che erano le matrici che ricrescevano. Le unghie sarebbero tornate ad abbellire quelle lunghe mani snelle, e io ringraziai il cielo per questo. Non furono giorni felici: i ricordi erano troppo recenti, le giornate rattristate dal lutto per Chubby e Angelo, e sapevamo entrambi che il momento critico della nostra relazione era alle porte. Intuivo quale travaglio doveva affrontare e le perdonavo i facili scoppi di collera, i lunghi silenzi imbronciati e le improvvise sparizioni dal bungalow, quando per ore intere camminava lungo le spiagge deserte o se ne stava seduta, figura remota e solitaria, sul promontorio della baia. Alla fine capii che era abbastanza forte da affrontare quello che ci aspettava. Una sera, per la prima volta dal nostro ritorno a Saint Mary, sollevai l'argomento del tesoro. Adesso era sepolto fra le fondamenta sopraelevate del bungalow. Sherry mi stette a sentire in silenzio mentre eravamo seduti insieme sulla veranda a bere whisky e ad ascoltare il suono della risacca notturna sulla spiaggia. «Voglio che tu mi preceda per predisporre l'arrivo della bara. A Zurigo noleggia un'auto e prosegui fino a Basilea. Lì ho prenotato una camera per te al Red Ox Hotel. Ho scelto quello perché hanno un garage sotterraneo e conosco il capo dei facchini. Si chiama Max.» Le spiegai i miei piani. «Lui farà in modo che un carro funebre attenda l'arrivo dell'aereo. Tu farai la parte della vedova afflitta e porterai la bara a Basilea. Effettueremo lo scambio nel garage e tu chiederai al mio banchiere di preparare un'auto blindata per trasportare la testa della tigre nella sede della sua banca.» «Hai previsto tutto, vero?» «Lo spero.» Mi versai un altro bicchiere. «La mia banca è Falle et Fils e l'uomo cui devi rivolgerti è il signor Challon. Quando lo incontrerai gli darai il mio nome e il numero del mio conto... millesessantasei, la data della battaglia di Hastings. Devi metterti d'accordo con Challon per ottenere una sala riservata in cui possiamo invitare gli acquirenti a vedere la testa...» Seguitai a spiegare nei dettagli gli accordi che avevo preso e lei mi ascoltò con attenzione. Ogni tanto faceva una domanda, ma per lo più taceva e alla fine tirai fuori il biglietto d'aereo e un sottile fascio di travellers' cheques. «Hai già fatto le prenotazioni?» Sembrò perplessa e quando annuii aprì il biglietto. «Quando parto?» «Domani a mezzogiorno.» «E tu quando mi seguirai?» «Sullo stesso aereo della bara, tre giorni dopo... venerdì. Arriverò con un volo BOAC all'una e mezzo del pomeriggio. Questo ti darà il tempo di predisporre tutto e di venire a prendermi.» Quella notte fu tenera e amorevole come sempre, ma nonostante questo avvertii in lei una malinconia profonda... come al momento degli addii. All'alba i delfini ci vennero incontro all'ingresso della baia e giocammo con loro per mezza mattinata, prima di tornare lentamente a riva.
L'accompagnai all'aeroporto col vecchio furgone. Per quasi tutto il tragitto lei rimase in silenzio, poi cercò di parlare, ma si impappinò e non riuscì a dire niente di comprensibile. Concluse debolmente: «... se mai ci succederà qualcosa, be', voglio dire, niente dura per sempre, no?...» «Continua» la incitai. «No, non è niente. Solo che dovremmo cercare di perdonarci l'un l'altro... se succedesse qualcosa.» Era tutto quello che era disposta a dire: alla barriera dell'aeroporto mi baciò appena e per un attimo mi serrò il collo fra le braccia, poi si diresse in fretta verso l'apparecchio in attesa. Non si voltò indietro né agitò la mano salendo la scaletta. Osservai l'aereo innalzarsi rapidamente e puntare attraverso il canale verso la terraferma; poi tornai lentamente a Turtle Bay. Senza di lei la casa era deserta e quella notte, mentre giacevo solo sul grande letto sotto la zanzariera, capii che il rischio che stavo per correre era necessario. Molto pericoloso ma necessario. Sapevo che dovevo riaverla qui. Senza di lei la vita non aveva sapore. Dovevo sperare che l'attrazione che esercitavo su di lei soverchiasse le altre forze che la dominavano. Dovevo lasciarle fare la sua scelta e nello stesso tempo tentare di influenzarla con ogni mezzo in mio potere. La mattina dopo scesi a Saint Mary e dopo che ebbi discusso e contrattato a lungo con Fred Coker e ci fummo scambiati reciprocamente denaro e promesse, lui aprì le porte del suo deposito e io parcheggiai il camioncino a fianco del carro funebre. Caricammo sul retro del furgone una delle bare migliori, in teak con le maniglie placcate d'argento e l'interno foderato di velluto rosso, e tornammo a Turtle Bay. Quando ebbi riempito la bara e chiuso il coperchio, pesava poco meno di duecentocinquanta chili. Appena fece buio tornai in città e prima che avessi preso tutti gli accordi giunse quasi l'ora di chiusura al Lord Nelson. Ebbi appena il tempo di bere in fretta un bicchierino, poi me ne ritornai a Turtle Bay per riempire la mia vecchia e malconcia sacca da viaggio dell'esercito. A mezzogiorno del giovedì, ventiquattr'ore prima di quanto avevo concordato con Sherry North, salii sull'aereo per la terraferma e quella sera presi la coincidenza della BOAC in partenza da Nairobi. All'aeroporto di Zurigo non c'era nessuno ad aspettarmi perché ero in anticipo di un giorno intero, e superai in fretta la dogana sbucando nel vasto atrio degli arrivi. Depositai il bagaglio prima di dedicarmi a sistemare gli ultimi dettagli del mio piano. Trovai un volo in partenza all'una e venti del giorno seguente che si adattava alla perfezione alla mia tabella di marcia. Prenotai un posto, poi mi diressi al banco dell'ufficio informazioni e attesi finché la graziosa biondina nell'uniforme della Swissair non fu libera da impegni, prima di lanciarmi in una lunga spiegazione. Da principio si mostrò inflessibile, ma poi le rivolsi il mio sguardo assassino e il mio irresistibile sorriso, finché alla fine si lasciò incuriosire... e ridacchiò pregustando la scena. «E' sicura di essere in servizio domani?» le chiesi con ansia. «Sì, "monsieur", non si preoccupi, sarò qui.» Ci separammo da amici e io recuperai il mio bagaglio e presi un taxi fino all'Holiday Inn di Zurigo, poco lontano. Lo stesso albergo in cui avevo fatto il tifo per la sopravvivenza del poliziotto olandese, tanto tempo prima. Ordinai da bere, feci un bagno e poi mi sedetti davanti al televisore. I ricordi si ridestarono. Il giorno dopo, prima di mezzogiorno, ero seduto al caffè dell'aeroporto, fingendo di leggere una copia del «Frankfurter Allgemeine Zeitung» e osservando sopra l'orlo della pagina il salone degli arrivi. Avevo già consegnato il bagaglio e il biglietto. Non dovevo fare altro che passare nel salone delle partenze. Indossavo un vestito nuovo acquistato quella mattina, di un taglio così bizzarro e di una sfumatura di verde tanto orribile che nessuno che mi conoscesse poteva credere che Harry Fletcher si sarebbe mostrato in pubblico conciato così. Era troppo grande di due taglie e mi ero imbottito con gli asciugamani dell'albergo per alterare del
tutto la mia fisionomia. Mi ero anche tagliato da solo i capelli in una foggia corta e irregolare e li avevo spolverati di talco per aggiungermi quindici anni di età. Quando mi ero guardato allo specchio della toilette attraverso gli occhiali cerchiati d'oro non mi ero riconosciuto. All'una e sette minuti Sherry North entrò dalla porta principale del terminal. Indossava un vestito di lana grigia a quadretti, un soprabito lungo di pelle nera e un sobrio cappellino di cuoio in tinta, con la falda stretta. Aveva gli occhi nascosti da un paio di occhiali scuri, ma la sua espressione era tesa e decisa mentre fendeva la folla dei turisti. Nel vedere confermati tutti i miei sospetti e timori, mi sentii lo stomaco in subbuglio e il giornale mi tremò fra le mani. Al suo fianco, un passo indietro, c'era la figura piccola e azzimata dell'uomo che lei mi aveva presentato come "zio Dan". Portava un berretto di tweed e teneva un soprabito ripiegato sul braccio. Mentre seguiva la ragazza col passo vigile e sicuro del cacciatore, trasudava più che mai un'aria di efficienza. Aveva con sé quattro dei suoi uomini. Si muovevano in silenzio dietro di lui, tranquilli, vestiti sobriamente, con la faccia chiusa e attenta. «Oh, piccola puttana» mormorai, ma mi chiesi perché me la prendessi tanto. Lo sapevo da parecchio tempo, ormai. Il gruppo formato dalla ragazza e dai cinque uomini si fermò al centro dell'atrio e osservai il caro zio Dan impartire ordini. Era un professionista, lo si vedeva dal modo in cui trasformava l'atrio in una trappola. Dispose gli uomini in modo da sorvegliare i cancelli d'arrivo e tutte le uscite. Sherry North stava ad ascoltare in silenzio, il viso inespressivo e gli occhi nascosti dagli occhiali. Una volta lo zio Dan le parlò e lei annuì bruscamente, poi, quando i quattro agenti furono ai loro posti, loro due rimasero in piedi insieme di fronte al cancello d'arrivo. "Dattela a gambe adesso, Harry", mi incitò la vocetta ammonitrice. "Non fare l'eroe. Qui ricomincia la solita solfa. Scappa, Harry, scappa." Proprio allora l'altoparlante annuncia il volo sul quale avevo prenotato un posto il giorno prima. Mi alzai dal tavolino col mio vestito tutto sformato e senza attirare l'attenzione mi diressi all'ufficio informazioni. La biondina della Swissair da principio non mi riconobbe, poi spalancò la bocca e sgranò gli occhi che dopo un attimo luccicarono dalla gioia della cospirazione. «La cabina in fondo» bisbigliò «quella più vicina al cancello d'imbarco.» Le strizzai l'occhio e mi allontanai. Dentro la cabina sollevai il ricevitore e finsi di parlare, tenendo interrotta la linea con un dito sulla forcella e osservando l'atrio attraverso la porta di vetro. Sentii la mia complice parlare all'altoparlante. «Miss Sherry North, Miss North per favore voglia presentarsi all'ufficio informazioni.» Attraverso il vetro vidi Sherry avvicinarsi al banco e parlare con la hostess. La bionda indicò la cabina accanto alla mia e Sherry si volse e venne diritta verso di me. La fila di cabine faceva da schermo fra lei e l'allegra brigata dello zio Dan. Il cappotto di cuoio ondeggiava con grazia intorno alle belle gambe, i capelli neri erano lucidi e le danzavano sulle spalle a ogni passo. Vidi che portava guanti di cuoio nero per nascondere la mano ferita e pensai che non era mai stata tanto bella come nel momento in cui mi tradiva. Entrò nella cabina accanto alla mia e sollevò il ricevitore. Io agganciai in fretta e uscii dalla cabina. Quando aprii la porta della sua, lei si guardò intorno seccata e impaziente. «Okay, stupida sbirra... dimmi una buona ragione per cui non dovrei romperti la testa» esclamai. «Tu?» Il suo viso si contrasse e la mano salì alla bocca. Ci fissammo negli occhi. «Che cosa è successo alla vera Sherry North?» le chiesi, e la domanda parve ridarle forza.
«E' stata uccisa. Abbiamo trovato il suo corpo, quasi irriconoscibile, in una cava fuori Ascot.» «Manny Resnick mi aveva detto di averla uccisa» osservai. «Io non gli ho creduto. Ha anche riso di me quando sono salito a bordo a trattare per la tua vita con lui e Suleiman Dada. Ti ho chiamato Sherry North e lui mi ha riso in faccia e mi ha dato dell'idiota.» Le rivolsi un sorriso tirato. «Aveva ragione, no? Sono stato un idiota.» Allora lei tacque, incapace di affrontare il mio sguardo. Io seguitai a parlare, vedendo confermate le mie intuizioni. «Così, quando Sherry North è stata uccisa, hanno deciso di non rivelare la sua identità e di preparare una trappola nel cottage dei North. Sperando che gli assassini tornassero a indagare sulla nuova arrivata o che qualche altro fesso si lasciasse abbindolare e li guidasse alla soluzione. Ti hanno scelta per la parte perché eri un'esperta sommozzatrice della polizia. E' così, vero?» Lei assentì, sempre senza guardarmi. «Avrebbero dovuto controllare che sapessi anche qualcosa di conchiglie. Almeno non avresti afferrato quel pezzo di corallo di fuoco... e mi avresti risparmiato un sacco di guai.» Aveva superato il primo choc della mia comparsa. Questo era il momento di suonare il fischietto per chiamare lo zio Dan e i suoi uomini, se ne aveva l'intenzione. Rimase in silenzio, il viso girato di tre quarti, le guance arrossate sotto l'abbronzatura dorata. «Quella prima sera hai telefonato quando credevi che stessi dormendo. Volevi riferire ai tuoi superiori che era arrivato un merlo. Loro ti hanno suggerito di darmi corda. E tu... oh, se me ne hai data!» Finalmente lei mi guardò gli occhi azzurri scintillanti di sfida; le parole sembravano ribollire dietro le sue labbra serrate, ma le trattenne e io proseguii. «Ecco perché hai usato l'ingresso posteriore del negozio di Jimmy, per evitare i vicini che conoscevano Sherry. Ecco perché quei due giannizzeri di Manny sono venuti ad arrostirti le dita sul fornello a gas. Volevano scoprire chi eri... perché sapevano bene che non eri Sherry North. L'avevano uccisa loro.» Ora volevo che parlasse. Il suo silenzio mi logorava i nervi. «Che grado ha lo zio Dan... ispettore?» «Ispettore capo» rispose. «L'ho capito dal primo momento che l'ho visto.» «Se sapevi tutto questo, perché sei andato fino in fondo?» mi domandò. «All'inizio avevo dei sospetti... ma quando l'ho capito con certezza ero innamorato pazzo di te.» Lei sussultò come se l'avessi colpita, e io continuai senza rimorsi. «Qualcuna delle cose che abbiamo fatto insieme mi ha autorizzato a credere che anche tu provassi qualcosa per me. Al mio paese quando si ama una persona non la si vende al miglior offerente.» «Sono una donna poliziotto» scattò «e tu sei un assassino.» «Non ho mai ucciso un uomo che non avesse tentato per primo di uccidermi» ribattei «proprio come tu hai colpito Suleiman Dada.» Questo la prese in contropiede. Vacillò e si guardò attorno come se fosse in trappola. «Sei un ladro» riprese. «Sì» ammisi. «Lo ero stato una volta... ma questo molto tempo fa, e da allora ho rigato diritto. Con un po' di aiuto ce l'avrei fatta.» «Il trono...» riprese lei «stai rubando il trono.» «Nossignora» le risposi sorridendo. «Cosa c'è nella bara, allora?» «Centotrenta chili di sabbia di Turtle Bay. Quando la vedrai, pensa ai momenti che abbiamo passato laggiù.» «Il trono... dov'è?» «Presso il suo legittimo proprietario, il rappresentante del popolo di Saint Mary, il presidente Godfrey Biddle.» «Ci hai rinunciato?» Lei mi fissò con un'incredulità che svanì lentamente, mentre nei suoi occhi cominciava ad albeggiare una nuova emozione. «Perché, Harry, perché?» «Come ripeto, voglio rigare diritto.» Ci fissammo di nuovo intensamente e a un tratto vidi le lacrime inondare i suoi occhi azzurro cupo.
«E sei venuto qui... sapendo quello che dovevo fare?» chiese con voce strozzata. «Volevo che scegliessi» le dissi, e le lacrime rimasero impigliate come gocce di rugiada fra le sue folte ciglia scure. Poi, proseguii deciso: «Io uscirò da questa cabina e oltrepasserò quel cancello. Se nessuno suona il fischietto, salirò sul primo volo in partenza da qui e dopodomani nuoterò oltre la barriera per giocare coi delfini». «Verranno a cercarti, Harry» disse lei, ma io scossi la testa. «Il presidente Biddle ha appena modificato le leggi sull'estradizione. Nessuno potrà toccarmi a Saint Mary. Ho la sua parola.» Mi girai e aprii la porta della cabina. «Sarò solo da morire, laggiù a Turtle Bay.» Le volsi le spalle e camminai con passo lento e deciso verso il cancello d'imbarco, proprio mentre annunciavano per la seconda volta il mio volo. Furono i metri più lunghi e terribili della mia vita e il cuore mi martellava in gola a tempo con i passi. Nessuno m'infastidì e io non osai voltarmi indietro. Mentre prendevo posto sul Caravelle della Swissair e mi allacciavo la cintura, mi chiesi quanto tempo ci sarebbe voluto perché si decidesse a raggiungermi a Saint Mary, e riflettei che avevo ancora molte notizie da darle. Dovevo annunciarle che avevo un contratto per recuperare il resto del trono d'oro da Gunfire Break a beneficio degli abitanti di Saint Mary. In cambio il presidente si era impegnato ad acquistarmi col ricavato una nuova barca d'alto mare, proprio come il "Wave Dancer"... un pegno della gratitudine del popolo. Avrei potuto garantire a mia moglie il tenore di vita cui ero abituato e poi naturalmente c'era sempre la cassa d'argenteria d'antiquariato seppellita dietro il bungalow a Turtle Bay per la stagione magra. Non mi ero emendato fino a "quel" punto. Non ci sarebbero stati più viaggi notturni, però. Mentre il Caravelle decollava e s'innalzava bruscamente sui laghi azzurri e le montagne coperte di boschi, mi accorsi che non conoscevo nemmeno il suo vero nome. Quella sarebbe stata la prima cosa che le avrei chiesto quando fossi andato a prenderla all'aeroporto dell'isola di Saint Mary, la perla dell'oceano Indiano.