KEN FOLLETT SULLE ALI DELLE AQUILE (On Wings Of Eagles, 1982) PREMESSA Questa è la storia di un gruppo di persone che, a...
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KEN FOLLETT SULLE ALI DELLE AQUILE (On Wings Of Eagles, 1982) PREMESSA Questa è la storia di un gruppo di persone che, accusate di crimini non commessi, decisero di farsi giustizia da sé. Dopo la conclusione dell'avventura vi fu un processo ed essi furono prosciolti da ogni accusa. Il processo non è narrato nel romanzo ma, poiché accertò la loro innocenza, ho incluso in un'appendice alcuni dettagli della motivazione della sentenza. Molti personaggi sono chiamati con pseudonimi o soprannomi, di solito per proteggerli dalle rappresaglie del governo iraniano. I nomi falsi sono: Mahjid, Fara, Abolhasan, il signor Fish, Gola Profonda, Rashid, il Motociclista, Mehdi, Malek, Gholam, Seyyed e Charlie Brown. Tutti gli altri nomi sono veri. Inoltre, nel ricordare conversazioni che si svolsero tre o quattro anni prima, è raro che una persona rammenti le parole esatte; e le conversazioni, nella vita reale, con i gesti e le interruzioni e le frasi incompiute, spesso non hanno molto senso quando vengono riportate per iscritto. Perciò i dialoghi del libro sono ricostruiti, riveduti e corretti. Ma ogni conversazione ricostruita è stata sottoposta ad almeno uno dei protagonisti degli avvenimenti perché l'approvasse e la correggesse. A parte questi due dettagli, ritengo che sia vera ogni parola di ciò che segue. Non è una "cronaca romanzata" o un "romanzo ispirato alla realtà". Non ho inventato nulla. Ciò che state per leggere è accaduto veramente. Ringraziamenti Molte persone mi hanno aiutato parlando per ore e ore, rispondendo alle mie lettere e leggendo e correggendo le varie stesure del libro. Per la loro pazienza, e per la loro franca e cortese collaborazione, desidero ringraziare in particolare: Paul e Ruthie Chiapparone, Bill ed Emily Gaylord; Jay e Liz Coburn, Joe Poché, Pat e Mary Sculley, Ralph e Mary Boulware, Jim Schwebach, Ron Davis, Glenn Jackson; Bill Gayden, Keane Taylor, Rich e Cathy Gallagher, Paul Bucha, Bob
Young, John Howell, "Rashid", Lloyd Briggs, Toni Dvoranchik, Kathy Marketos; T.J. Marquez, Tom Walter, Tom Luce; Merv Stauffer, l'infaticabile; Margot Perot, Bette Perot; John Carlen, Anita Melton; Henry Kissinger, Zbigniew Brzezinski, Ramsey Clark, Bob Strauss, William Sullivan, Charles Naas, Lou Goelz, Henry Precht, John Stempel; il dottor Manuchehr Razmara; Stanley Simons, Bruce Simons, Harry Simons; il tenente colonnello Charles Krohn del Pentagono; il maggiore Dick Meadows, il maggior generale Robert McKinnon; il dottor Walter Stewart, il dottor Harold Kimmerling. Come al solito, sono stato aiutato da due instancabili ricercatori, Dan Starer a New York, e Caren Meyer a Londra. Un aiuto prezioso l'ho avuto dallo straordinario personale del centralino della sede dell'EDS di Dallas. Più di cento ore di interviste registrate sono state trascritte da Sally Walther, Claire Woodward, Linda Huff, Cheryl Hibbitts e Becky DeLuna. Ringrazio infine Ross Perot: senza la sua straordinaria energia e la sua decisione non soltanto questo libro, ma anche l'avventura che ne costituisce l'argomento, sarebbe stata impossibile. I PERSONAGGI Ross Perot, presidente del consiglio d'amministrazione dell'Electronic Data Systems Corporation, Dallas, Texas. Merv Stauffer, braccio destro di Perot. T.J. Marquez, vicepresidente dell'EDS. Tom Walter, dirigente finanziario dell'EDS. Mitch Hart, ex. presidente dell'EDS in buoni rapporti con il Partito Democratico. Tom Luce, fondatore dello studio legale Hughes & Hill di Dallas. Bill Gayden, presidente dell'EDS World, sussidiaria dell'EDS. Mort Meyerson, vicepresidente dell'EDS. Teheran
Paul Chiapparone, direttore nazionale dell'EDS Corporation Iran; Ruthie Chiapparone, sua moglie. Bill Gaylord, vice di Paul; Emily Gaylord, moglie di Bill. Lloyd Briggs, il n. 3 di Paul. Rich Gallagher, assistente amministrativo di Paul; Cathy Gallagher, moglie di Rich; Buffy, il barboncino di Cathy. Paul Bucha, ex direttore nazionale dell'EDS Corporation Iran, poi trasferito a Parigi. Bob Young, direttore nazionale dell'EDS in Kuwait. John Howell, avvocato dello studio Hughes & Hill. Keane Taylor, direttore del progetto della Banca Omran. (LA SQUADRA DI SALVATAGGIO) Colonnello Arthur D. "Bull" Simons Jay Coburn Ron Davis Ralph Boulware Joe Poché Glenn Jackson Pat Sculley Jim Schwebach (GLI IRANIANI) Abolhasan, vice di Lloyd Briggs, il dipendente iraniano di grado più elevato. Majid, assistente di Jay Coburn; Fara, figlia di Majid. Rashid, Seyyed e "il Motociclista": ingegneri dei sistemi. Gholam, funzionario addetto al personale e agli acquisti. Hosain Dadgar, magistrato inquirente. (ALL'AMBASCIATA DEGLI STATI UNITI) William Sullivan, ambasciatore. Charles Naas, vice di Sullivan. Lou Goelz, console generale. Bob Sorenson, funzionario dell'ambasciata. Ali Jordan, dipendente iraniano dell'ambasciata. Barry Rosen, addetto stampa
Istanbul "Il signor Fish", agente di viaggi. Ilsman, agente del MIT, il servizio segreto turco. "Charlie Brown", interprete. Washington Zbigniew Brzezinski, Consigliere per la Sicurezza Nazionale Cyrus Vance, Segretario di Stato David Newsom, Sottosegretario al Dipartimento di Stato Henry Precht, Capo dell'ufficio Iran al Dipartimento di Stato Mark Ginsberg, collegamento Casa Bianca-Dipartimento di Stato Ammiraglio Tom Moorer, Primo presidente dei Capi di Stato Maggiore. "Io vi ho portati sulle ali delle aquile e vi ho condotti a me." Esodo, 19, 4 I Tutto incominciò il 3 dicembre 1978. Jay Coburn, direttore del personale dell'EDS Corporation, Iran, era nel suo ufficio nel centro di Teheran e pensava a molte cose. L'ufficio si trovava in una costruzione di cemento a tre piani nota come Bucarest, perché sorgeva in una strada nei pressi di via Bucarest. Era al primo piano, in una stanza piuttosto grande secondo i criteri americani. C'erano un pavimento a parquet, una bella scrivania dirigenziale e un ritratto dello scià appeso alla parete. Jay Coburn voltava le spalle alla finestra. Al di là della porta a vetri si scorgeva il grande stanzone dove i dipendenti erano seduti alle macchine da scrivere e ai telefoni. La porta a vetri aveva le tende, ma Coburn non le chiudeva mai. Faceva freddo. Faceva sempre freddo: migliaia d'iraniani erano in sciopero, l'energia elettrica andava e veniva e il riscaldamento restava spento per parecchie ore al giorno. Coburn era alto e robusto: un metro e ottanta e novanta chili. I capelli rossicci erano corti e pettinati scrupolosamente, con la scriminatura. Seb-
bene avesse soltanto trentadue anni, sembrava più vicino alla quarantina. Se lo si osservava meglio, ci si accorgeva che la sua gioventù traspariva dal viso aperto e simpatico e dal sorriso facile; ma aveva un'aria matura, l'aria dell'uomo cresciuto troppo in fretta. Si era addossato responsabilità per tutta la vita: da ragazzo, lavorando nel negozio da fiorista del padre; a vent'anni, come pilota d'elicotteri nel Vietnam; e poi come marito e padre; e adesso come direttore del personale era responsabile della sicurezza dei 131 dipendenti americani e dei loro 220 familiari in una città dove la violenza della folla imperversava nelle strade. Quel giorno, come sempre, Coburn faceva una telefonata dietro l'altra per scoprire dove erano in corso gli scontri, dove sarebbero scoppiati presto altri disordini e quali erano le prospettive più immediate. Telefonava all'ambasciata degli Stati Uniti almeno una volta al giorno. L'ambasciata aveva una sala informazioni che restava in attività ventiquattro ore su ventiquattro. Gli americani telefonavano dai vari quartieri cittadini e segnalavano le dimostrazioni e i disordini, e l'ambasciata provvedeva a diffondere la raccomandazione di evitare questa o quella zona. Ma per quanto riguardava le previsioni e i consigli, per Coburn l'ambasciata era pressoché inutile. Nel corso delle riunioni settimanali alle quali partecipava doverosamente, si sentiva dire che gli americani dovevano stare il più possibile in casa e tenersi lontani a tutti i costi dagli assembramenti, ma che lo scià controllava la situazione e che per ora non era consigliabile evacuare la città. Coburn si rendeva conto del problema - se l'ambasciata americana avesse detto che lo scià vacillava, lo scià sarebbe sicuramente caduto - ma quelli erano così prudenti che in pratica non fornivano informazioni. Delusa dalla scarsa collaborazione dell'ambasciata, la comunità americana a Teheran aveva creato una sua rete d'informazione. La più grossa azienda americana nella capitale era la Bell Helicopter; il direttore generale per l'Iran era un maggior generale in pensione, Robert N. Mackinnon. Mackinnon disponeva d'un servizio informazioni di prim'ordine e non nascondeva quel che veniva a sapere. E inoltre, Coburn conosceva un paio di ufficiali del servizio segreto militare americano e si rivolgeva anche a loro. Quel giorno la città era relativamente tranquilla: non c'erano grosse dimostrazioni. Gli ultimi disordini gravi si erano avuti tre giorni prima, il 2 dicembre, il primo giorno dello sciopero generale quando settecento persone erano morte negli scontri per le strade. Secondo le fonti di Coburn,
era prevedibile che la relativa tregua si protraesse fino al 10 dicembre, la festività musulmana dell'Ashura. L'Ashura preoccupava Coburn. Quella festa invernale musulmana non aveva nessuna rassomiglianza con il Natale cristiano. Era una giornata di digiuno e di lutto per commemorare la morte di Husayn, il nipote del Profeta, e lo spirito che l'ispirava era il rimorso. Per le strade ci sarebbero state processioni affollatissime, durante le quali i credenti più devoti si sarebbero flagellati. In quell'atmosfera, era facile che esplodessero l'isteria e la violenza. E Coburn temeva che quell'anno la violenza si sarebbe scatenata contro gli americani. Tutta una serie di incidenti preoccupanti l'aveva convinto che i sentimenti antiamericani si andassero diffondendo rapidamente. Qualcuno aveva infilato sotto la sua porta un biglietto che diceva: "Se ci tieni alla vita e a tutto quello che hai, vattene dall'Iran". Molti suoi amici avevano ricevuto biglietti minatori molto simili. Qualcuno aveva scritto con lo spray sul muro della sua casa "Qui ci stanno gli americani". L'autobus che portava i suoi figli alla scuola americana di Teheran era stato circondato, una volta, da una folla di dimostranti. Altri dipendenti dell'EDS erano stati insultati per la strada e le loro macchine erano state danneggiate. Un pomeriggio, gli iraniani avevano assalito il ministero della Sanità e della Previdenza Sociale - il più grosso cliente dell'EDS - sfasciando le finestre e bruciando i ritratti dello scià, mentre i dirìgenti dell'EDS che si trovavano nel palazzo si barricavano in un ufficio in attesa che la folla se ne andasse. Sotto un certo aspetto, lo sviluppo più sinistro era il mutato atteggiamento del padrone di casa Coburn. Come moltissimi americani a Teheran, Coburn aveva preso in affitto la metà d'una casa bifamiliare; lui, la moglie e i figli vivevano al piano di sopra, e la famiglia del proprietario al pianterreno. Quando erano arrivati i Coburn, nel marzo di quell'anno, il padrone di casa li aveva presi sotto la sua protezione. Le due famiglie avevano fatto amicizia. Coburn e il proprietario parlavano di religione; l'iraniano gli aveva dato una traduzione inglese del Corano, e la figlia del padrone di casa leggeva al padre brani della Bibbia di Coburn. Durante i weekend facevano gite in campagna, tutti insieme. Scott, il figlio di Coburn, un ragazzetto di sette anni, giocava al calcio per la strada con i figli del padrone di casa. Una volta i Coburn avevano avuto addirittura il raro privilegio di assistere a una cerimonia nuziale musulmana. Era stato molto interessante. Gli uomini e le donne erano ri-
masti separati per tutto il giorno, e Coburn e il figlio erano andati con gli uomini, sua moglie Liz e le tre figlie con le donne, e Coburn non aveva neppure visto la sposa. Durante l'estate la situazione era gradualmente cambiata. Le gite erano finite. Ai figli del padrone di casa era stato proibito di giocare con Scott per la strada. Alla fine tutti i contatti fra le due famiglie erano cessati persino all'interno della casa e del cortile, e i figli venivano rimproverati se parlavano con i Coburn Il padrone di casa non aveva incominciato a odiare di colpo gli americani. Una sera, anzi, aveva dimostrato d'essere ancora affezionato ai Coburn. C'era stata una sparatoria per la strada: uno dei figli era rimasto fuori dopo il coprifuoco, e i soldati avevano sparato contro di lui mentre correva a casa e scavalcava il muro del cortile. Coburn e Liz avevano assistito alla scena dalla veranda, e Liz si era spaventata. Il padrone di casa era salito a riferire quanto era successo e ad assicurare che era finito bene. Ma era convinto che, nell'interesse della sua famiglia, non poteva farsi vedere in rapporti amichevoli con gli americani: sapeva da che parte soffiava il vento. Per Coburn era un altro brutto segno. Adesso, aveva sentito dire Coburn, nelle moschee e nei bazar si parlava d'una guerra santa contro gli americani che sarebbe incomincia ta con l'Ashura. Mancavano cinque giorni soltanto, eppure gli americani a Teheran erano sorprendentemente calmi. Coburn ricordava quando era stato imposto il coprifuoco: non aveva neppure impedito le rituali partite a poker che all'EDS si tenevano ogni mese. Lui e gli altri si portavano dietro le mogli e i figli, dormivano sul posto e restavano fino al mattino. Si erano abituati ai rumori delle sparatorie. Quasi tutti gli scontri più accaniti avvenivano nella parte meridionale della città, dove c'era il bazar, e nella zona intorno all'Università: tutti, comunque, di tanto in tanto sentivano sparare. Dopo le prime volte avevano acquisito una specie di strana indifferenza. Chi stava parlando s'interrompeva, e poi proseguiva quando gli spari cessavano, come avrebbe fatto negli Stati Uniti quando passava un aereo a reazione. Sembrava non riuscissero a immaginare che qualcuno avrebbe potuto sparare anche a loro. Ma Coburn non era indifferente. Sebbene fosse ancora giovane, gli avevano sparato contro molte volte. Nel Vietnam aveva pilotato elicotteri armati che appoggiavano le operazioni a terra, e altri che trasportavano truppe e rifornimenti, atterrando e decollando dai campi di battaglia. Aveva ucciso, e aveva visto morire molti uomini. A quell'epoca, veniva assegnata
una decoiazione, l'Air Medal, ogni venticinque ore di volo in combattimento: Coburn era tornato a casa con trentanove di quelle medaglie. Era stato insignito anche di due croci al Merito e d'una Stella d'Argento, e si era buscato una pallottola in un polpaccio... la parte del corpo più vulnerabile per un pilota di elicotteri. Quell'anno aveva scoperto che sapeva comportarsi bene in azione, quando c'era tanto da fare e non aveva tempo di aver paura; ma ogni volta che ritornava da una missione, quando tutto era finito e ripensava a ciò che aveva fatto, si sentiva mancare le ginocchia. In un certo senso, considerava preziosa quell'esperienza. Lo aveva fatto diventare adulto in fretta e gli aveva dato un vantaggio nei confronti dei coetanei nel mondo degli affari. E gli aveva anche ispirato un salutare rispetto per il rumore degli spari. Ma quasi tutti i suoi colleghi e le loro mogli la pensavano diversamente. Ogni volta che si parlava dell'eventualità di sfollare, si opponevano. Avevano investito tempo, lavoro e orgoglio nell'EDS Corporation Iran, e non volevano saperne di andarsene. Le mogli avevano trasformato le case prese in affitto in autentici focolari domestici, e stavano facendo i progetti per Natale. I figli avevano le scuole, gli amici, le biciclette e gli animali domestici. Pensavano che, senza dubbio, se fossero stati tranquilli senza dar nell'occhio, la tempesta sarebbe passata. Coburn aveva cercato di convincere Liz a riportare i ragazzi negli Stati Uniti, non soltanto per metterli al sicuro, ma perché forse sarebbe venuto il momento in cui sarebbe stato costretto a far evacuare trecentocinquanta persone, e avrebbe dovuto dedicare a quel compito tutto il suo impegno, senza essere distratto dalle preoccupazioni per i suoi cari. Liz aveva rifiutato di partire. Sospirò, pensando a lei. Era spiritosa e simpatica e tutti apprezzavano la sua compagnia, ma non era la perfetta moglie del dirigente. Dai dirigenti, l'EDS pretendeva parecchio: se c'era bisogno di lavorare tutta la notte per sbrigare il lavoro, si lavorava tutta la notte. A Liz non andava. Negli Stati Uniti, quando lavorava come reclutatore, spesso Coburn era rimasto lontano da casa dal lunedì al venerdì, viaggiando un po' dovunque, e Liz non sapeva rassegnarsi. A Teheran era contenta perché almeno lui tornava a casa ogni sera. Se fosse rimasto, diceva, sarebbe rimasta anche lei. E anche i ragazzi si trovavano bene. Era la prima volta che si trovavano a vivere lontani dagli Stati Uniti, ed erano incuriositi e affascinati dalla lingua e dalla cultura dell'Iran. Kim, che con i suoi undici anni era la maggiore, era troppo fiduciosa per preoccuparsi. Kristi, otto anni, era un po' in ansia, ma
era la più emotiva di tutti, e tendeva a reagire in modo un po' esagerato. Scott, sette anni, e Kelly, la più piccola che ne aveva quattro, erano ancora troppo giovani per rendersi conto dei pericoli. Quindi erano rimasti, come tutti, e attendevano che la situazione migliorasse... o peggiorasse. Coburn si strappò ai suoi pensieri quando sentì bussare alla porta. Entrò Majid. Era un uomo basso e robusto, sulla cinquantina, con un paio di folti baffi. Un tempo era stato ricco; la sua tribù aveva posseduto molte terre e le aveva perdute a causa della riforma agraria degli anni Sessanta. Adesso lavorava come assistente amministrativo di Coburn, e teneva i contatti con la burocrazia iraniana. Parlava correntemente l'inglese ed era molto efficiente. A Coburn era simpatico: Majid aveva fatto il possibile per rendersi utile quando la famiglia era arrivata in Iran. «Avanti» disse Coburn. «Si sieda. Che cosa c'è?» «È per via di Fara.» Coburn annuì. Fara era la figlia di Majid, e lavorava con il padre: aveva il compito di assicurarsi che tutti i dipendenti americani avessero sempre visti e permessi di lavoro aggiornati. «È successo qualcosa?» chiese Coburn. «La polizia le ha chiesto di prelevare due passaporti americani dai nostri archivi senza dirlo a nessuno.» Coburn aggrottò la fronte. «Hanno specificato quali passaporti dovevano essere?» «Quelli di Paul Chiapparone e di Bill Gaylor.» Paul era il principale di Coburn, il capo dell'EDS Corporation Iran. Bill era il vice, e si occupava dell'attività più importante, il contratto con il ministero della Sanità. «Ma che cosa diavolo sta succedendo?» disse Coburn. «Fara è in pericolo» disse Majid. «Le hanno ordinato di non parlarne con nessuno. Mi ha chiesto consiglio. Ovviamente, dovevo riferirlo a lei, ma temo che mia figlia si metterà in un grosso guaio.» «Aspetti un momento. Vediamo di chiarirci le idee» disse Coburn. «Com'è andata?» «Questa mattina Fara ha ricevuto una telefonata dalla polizia, ufficio permessi di soggiorno, sezione americana. Le hanno detto di presentarsi, e hanno spiegato che si trattava di James Nyfeler. Lei ha pensato che fosse ordinaria amministrazione. Si è presentata alle undici e mezzo al dirigente della sezione americana. Per prima cosa le ha chiesto il passaporto e il permesso di soggiorno del signor Nyfeler. Lei ha risposto che Nyfeler non
è più in Iran. Allora le ha chiesto del signor Paul Bucha. E mia figlia gli ha spiegato che anche Bucha ha lasciato il paese.» «Gli ha detto così?» «Sì.» In realtà Bucha era in Iran, ma Fara non poteva saperlo, pensò Coburn. Bucha aveva vissuto diverso tempo nel paese, era partito e poi era ritornato per breve tempo. L'indomani avrebbe preso l'aereo per Parigi. Majid continuò: «Allora l'ufficiale ha detto: "Immagino che se ne siano andati anche gli altri due". Fara ha visto che aveva quattro fascicoli sulla scrivania, e ha chiesto chi erano gli "altri due". Quello ha risposto che si trattava del signor Chiapparone e del signor Gaylord. E quando Fara ha detto che proprio questa mattina aveva ritirato il permesso di soggiorno del signor Gaylord, l'ufficiale le ha chiesto di prelevare i permessi e i passaporti di tutti e due e di portarglieli. In segreto, per non mettere in allarme nessuno.» «E Fara cos'ha risposto?» chiese Coburn. «Che oggi non poteva portarli. Allora le ha detto di portarli domattina; le ha ricordato che l'avrebbe ritenuta personalmente responsabile, e si è assicurato che ci fossero testimoni.» «Ma non ha senso» disse Coburn. «Se scoprono che Fara ha disobbedito...» «Troveremo il modo di proteggerla» disse Coburn. Si chiese se gli americani erano obbligati a consegnare i loro passaporti su richiesta delle autorità. Lui l'aveva fatto, dopo un incidente d'auto di poco conto, ma più tardi gli avevano spiegato che non era affatto tenuto a farlo. «Non hanno detto perché vogliono quei passaporti?» «No.» Bucha e Nyfeler erano i predecessori di Chiapparone e Gaylord. Era un indizio? Coburn non lo sapeva. Si alzò. «Per prima cosa dobbiamo decidere cosa dirà Fara alla polizia, domani mattina. Ne parlerò con Paul Chiapparone, e poi ci risentiremo.» Paul Chiapparone era nel suo ufficio al pianterreno. Anche lui aveva un pavimento a parquet, una scrivania dirigenziale, un ritratto dello scià e molte cose a cui pensare. Paul aveva trentanove anni, statura media e un peso un po' eccessivo, soprattutto perché era amante della buona tavola. Aveva un'aria molto italiana, con la carnagione olivastra e i folti capelli neri. Il suo compito era
creare un completo sistema di previdenza sociale moderno in un paese primitivo. Non era facile. All'inizio degli anni Settanta l'Iran aveva avuto un sistema previdenziale molto rudimentale, inefficiente nella riscossione dei contributi e così facile da truffare che chiunque poteva beneficiare parecchie volte dell'assistenza per la stessa malattia. Quando lo scià aveva deciso di spendere una parte dei venti miliardi di dollari annui incassati grazie al petrolio per creare un'assistenza efficiente, l'EDS aveva ottenuto il contratto. L'EDS gestiva i programmi Medicare e Medicaid per conto di diversi stati degli USA, ma in Iran era stato costretto a partire da zero. Dovevano fornire una tessera della previdenza sociale a ognuno dei trentadue milioni di abitanti dell'Iran, organizzare le trattenute sulle buste paga in modo che stipendiati e salariati pagassero i contributi, e sbrigare le pratiche per le richieste di prestazioni assistenziali. L'intero sistema sarebbe stato gestito dai computer: la specialità dell'EDS. Tra l'installare un sistema di data-processing negli Stati Uniti e il farlo in Iran c'era, come aveva scoperto Paul, la stessa differenza che esisteva tra preparare una torta servendosi di ingredienti preconfezionati e farne una all'antica, con tutti gli ingredienti originali. Molto spesso era un lavoro frustrante. Gli iraniani non avevano l'attivismo dei dirigenti americani, e molte volte sembravano decisi a creare problemi anziché risolverli. Alla sede centrale dell'EDS a Dallas, nel Texas, ci si aspettava che i dipendenti facessero non soltanto l'impossibile, ma che lo facessero ieri. In Iran, invece, era impossibile tutto, e comunque lo si sarebbe fatto "fardah"... che di solito veniva tradotto "domani" ma in pratica indicava un futuro imprecisato. Paul aveva affrontato i problemi nell'unico modo che conosceva, con impegno e decisione. Intellettualmente, non era un genio. Da bambino, anzi, la scuola gli era parsa faticosa e difficile; ma suo padre, un immigrato italiano con la tipica fede nell'istruzione e nel "pezzo di carta", aveva insistito perché studiasse, e Paul aveva ottenuto buoni voti. Da allora, la perseveranza l'aveva sempre aiutato. Ricordava i primi tempi dell'EDS negli Stati Uniti, durante gli anni Sessanta, quando ogni nuovo contratto poteva portare l'affermazione o la rovina della società; e lui aveva contribuito a farne una delle aziende più dinamiche e fiorenti del mondo. L'iniziativa iraniana sarebbe andata nello stesso modo; Paul ne aveva avuto la certezza, soprattutto quando il programma di reclutamento e di addestramento organizzato da Jay Coburn aveva incominciato a produrre un maggior numero di iraniani in grado di svolgere funzioni dirigenziali.
Ma aveva sbagliato, e soltanto adesso incominciava a capire il perché. Quando era arrivato in Iran con la famiglia nel 1977, il boom dei petroldollari era già finito. Il governo era a corto di fondi. Quell'anno il programma anti-inflazione aveva aumentato il numero dei disoccupati proprio quando i raccolti scarsi spingevano verso le città una marea crescente di contadini ridotti alla fame. Il dominio tirannico dello scià era stato indebolito dalla politica del presidente americano Jimmy Carter a sostegno dei diritti umani. I tempi erano maturi perché si scatenassero le inquietudini politiche. Per un po', Paul non aveva fatto molto caso alla politica locale. Sapeva che c'erano proteste e malcontento, ma questo si poteva dire di tutti i paesi del mondo, e sembrava che lo scià tenesse le redini del potere più saldamente che mai. Come il resto del mondo, Paul non aveva saputo interpretare il significato degli avvenimenti della prima metà del 1978. Il 7 gennaio il quotidiano "Etelaat" aveva pubblicato un violento attacco contro un religioso in esilio, l'ayatollah Khomeini, accusandolo tra l'altro d'essere omosessuale. L'indomani nella città di Qom, il principale centro d'istruzione religiosa del paese situato a 130 chilometri da Teheran, gli studenti di teologia avevano inscenato una sdegnata manifestazione di protesta che era stata sanguinosamente repressa dai militari e dalla polizia. Gli scontri si erano aggravati, e nei due giorni successivi erano state uccise settanta persone. Quaranta giorni dopo, secondo la tradizione islamica, il clero aveva organizzato una processione commemorativa in onore dei morti. Durante la processione c'erano state altre violenze, e i caduti erano stati commemorati con una seconda processione quaranta giorni più tardi... Quelle processioni erano continuate, ed erano diventate sempre più imponenti e violente nei primi sei mesi dell'anno. Adesso, ripensandoci, Paul si rendeva conto che l'idea di chiamare 'processioni commemorative" quelle marce era stato un modo per aggirare gli ordini dello scià che vietavano le manifestazioni politiche. Ma a quel tempo non aveva sospettato che si andasse formando un movimento politico di massa. Nessuno l'aveva intuito. Nell'agosto di quell'anno Paul era andato in ferie negli Stati Uniti. (C'era andato anche William Sullivan, l'ambasciatore americano a Teheran.) Paul era appassionato di sport acquatici ed era andato a un torneo di pesca sportiva a Ocean City, nel New Jersey, con il cugino Joe Porreca. Sua moglie Ruthie, accompagnata dalle figlie Karen e Ann Marie, era andata a Chicago a trovare i genitori. Paul era un po' preoccupato perché il ministero del-
la Sanità non aveva ancora saldato il conto dell'EDS del mese di giugno; ma non era la prima volta che un pagamento ritardava, e Paul aveva affidato il problema al suo vice, Bill Gaylord, ed era sicuro che Bill sarebbe riuscito a incassare il dovuto. Durante la sua permanenza negli Stati Uniti, le notizie che arrivavano dall'Iran erano diventate sempre più allarmanti. Il 7 settembre era stata proclamata la legge marziale, e l'indomani più di cento persone erano state uccise dai militari durante una manifestazione in piazza Jaleh, nel centro di Teheran. Quando i Chiapparone erano rientrati in Iran persino l'aria sembrava diversa. Per la prima volta Paul e Ruthie avevano sentito sparare di notte per le strade. Erano preoccupati: adesso capivano che i guai per gli iraniani significavano guai anche per loro. Era incominciata una serie di scioperi. L'erogazione dell'energia elettrica veniva continuamente interrotta e quindi cenavano a lume di candela e Paul era costretto a tenere il cappotto in ufficio per scaldarsi. Era diventato sempre più difficile ottenere denaro dalle banche, e Paul aveva creato in sede un servizio che provvedeva a cambiare gli assegni dei dipendenti. Quando il gasolio per il riscaldamento era quasi finito, Paul era stato costretto a girare per le strade fino a che aveva trovato un'autocisterna, e con una lauta mancia aveva convinto l'autista a consegnare il gasolio a casa sua. I problemi del lavoro erano anche più gravi. Il ministro della Sanità e della Previdenza sociale, il dottor Sheikholeslamizadeh, era stato arrestato ai sensi dell'articolo 5 della legge marziale, che autorizzava la magistratura a incarcerare chiunque senza fornire spiegazioni. Era finito in carcere anche il viceministro Reza Neghabat, con il quale Paul aveva collaborato a lungo. Il ministero non aveva ancora pagato i conti di giugno, né tanto meno quelli successivi, e ormai doveva all'EDS più di quattro milioni di dollari. Per due mesi Paul s'era dato da fare per tentare di recuperare la somma dovuta. I funzionari con i quali aveva trattato in precedenza erano tutti spariti. I loro sostituti, di solito, non si degnavano di rispondere ai suoi solleciti. A volte qualcuno prometteva di interessarsi al problema e di richiamarlo; dopo aver atteso per una settimana la chiamata che non arrivava, Paul ritelefonava e si sentiva rispondere che la persona con la quale aveva parlato sette giorni prima non era più al ministero. Gli appuntamenti presi venivano disdetti. Il debito cresceva al ritmo di 1,4 milioni di dollari al mese. Il 14 novembre Paul aveva scritto al dottor Heidargholi Emrani, il vice-
ministro responsabile della Previdenza Sociale, comunicando ufficialmente che se il ministero non avesse pagato entro un mese, l'EDS avrebbe sospeso il lavoro. La minaccia era stata ripetuta il 4 dicembre dal superiore di Paul, il presidente dell'EDS World, nel corso di un colloquio con il dottor Emrani. Questo era avvenuto ieri. Se l'EDS avesse smesso di collaborare, l'intero sistema della previdenza sociale iraniana sarebbe crollato. Eppure diventava sempre più evidente che il paese era sull'orlo della bancarotta e non poteva pagare i conti. Che cosa avrebbe fatto il dottor Emrani? si chiedeva Paul. Se lo stava ancora chiedendo quando entrò Jay Coburn, portando la risposta. In un primo momento, comunque, Paul non pensò che il tentativo di sottrargli il passaporto potesse avere lo scopo di trattenerlo in Iran, e di trattenere anche l'EDS. Quando Coburn gli ebbe esposto la situazione disse: «E perché diavolo l'hanno fatto?». «Non lo so. Majid non lo sa, e non lo sa neppure Fara.» Paul lo scrutò. In quell'ultimo mese la confidenza tra loro era cresciuta. Di fronte agli altri dipendenti Paul assumeva una maschera d'ottimismo, ma con Coburn poteva chiudere la porta e domandare: «Allora, sinceramente, che cosa ne pensi?». Coburn disse: «Il nostro primo problema è: cosa facciamo con Fara? Potrebbe andare incontro a grossi guai.» «Dovrà raccontare qualcosa alla polizia.» «Mostrarsi disposta a collaborare?» «Potrebbe andare a riferire che Nyfeler e Bucha non risiedono più in Iran...» «Lo ha già detto.» «Potrebbe portare come prova i loro visti d'uscita.» «Già» disse Coburn in tono dubbioso. «Ma adesso quelli s'interessano soprattutto a te e Bill.» «Potrebbe dire che i passaporti non sono in ufficio.» «Forse sanno che non è vero... Può darsi che Fara abbia già portato loro i passaporti, in passato.» «Ma i dirigenti non sono obbligati a tenere i passaporti in ufficio.» «Ecco, questo potrebbe andare.»
«Dovrebbe dimostrare che si è trovata nell'impossibilità pratica di fare quel che le hanno chiesto.» «Bene. Ne parlerò con lei e con Majid.» Coburn rifletté per un istante. «Sai, Bucha ha una prenotazione per un volo che parte domani. Forse se ne andrà.» «Dovrebbe andarsene... loro credono che non sia più qui.» «E tu potresti fare altrettanto.» Paul rifletté. Forse avrebbe dovuto andarsene davvero. E allora, che cosa avrebbero fatto gli iraniani? Forse avrebbero cercato di trattenere qualcun altro. «No» disse. «Se ce ne andremo, dovrò essere l'ultimo a partire.» «Stiamo per andarcene?» «Non lo so.» Erano settimane, ormai, che ogni giorno si scambiavano quell'interrogativo. Coburn aveva preparato un piano d'evacuazione che poteva venire messo in pratica in ogni momento. Paul aveva esitato, riluttante a dare il via. Sapeva che il suo superiore, a Dallas, avrebbe voluto che sfollasse... ma questo avrebbe significato abbandonare un progetto al quale aveva lavorato con impegno negli ultimi sedici mesi. «Non lo so» ripeté. «Chiamerò Dallas.» Quella notte Coburn era a casa e stava dormendo accanto a Liz quando squillò il telefono. Sollevò il ricevitore s'enza accendere la luce. «Pronto?» «Sono Paul.» «Ciao.» Coburn accese la lampada e guardò l'orologio. Erano le due. «Ce ne andiamo» disse Paul. «Allora è deciso.» Coburn posò il ricevitore e sedette sull'orlo del letto. In un certo senso era un sollievo. Ci sarebbero stati due o tre giorni d'attività convulsa, ma poi avrebbe avuto la certezza che le persone per la cui sicurezza stava in pensiero da tanto tempo erano ritornate negli Stati Uniti, lontano dalle sgrinfie di quei pazzi iraniani. Riconsiderò mentalmente i piani che aveva preparato in vista di quel momento. Per prima cosa doveva informare centotrenta famiglie che avrebbero dovuto lasciare il paese éntro quarantotto ore. Aveva diviso la città in settori, e assegnato un capogruppo a ogni settore; li avrebbe chiamati, e loro avrebbero provveduto ad avvertire le famiglie. Aveva preparato già i moduli che spiegavano agli sfollati dove dovevano andare e cosa dovevano fare. Bastava che aggiungesse le date, gli orari e il numero dei
voli, e poi facesse distribuire i foglietti. Aveva scelto un giovane tecnico iraniano, energico e sveglio, e gli aveva assegnato il compito di prendersi cura delle case, delle automobili e degli animali domestici che gli americani avrebbero abbandonato; e più tardi avrebbe dovuto provvedere a spedire negli Stati Uniti la loro roba. Aveva organizzato un piccolo servizio logistico per provvedere ai biglietti e ai mezzi per raggiungere l'aeroporto. E alla fine aveva fatto una prova generale dell'evacuazione, su scala ridotta. Era andato tutto bene. Coburn si vestì e fece il caffè. Per un paio d'ore non avrebbe potuto far nulla, ma era troppo ansioso e impaziente per tornare a dormire. Alle quattro chiamò i sei del servizio logistico e disse loro di presentarsi da lui al "Bucarest" subito dopo lo scadere del coprifuoco. Il coprifuoco incominciava ogni sera alle nove e finiva alle cinque del mattino. Per un'ora, Jay Coburn attese; fumò, bevve parecchi caffè e riesaminò gli appunti. Quando l'orologio a cucù nel corridoio annunciò le cinque, era già alla porta di casa, pronto per uscire. Fuori c'era una nebbia fitta. Salì in macchina e si diresse verso il Bucarest, procedendo a non più di venticinque chilometri l'ora. A tre isolati di distanza da casa, cinque o sei soldati balzarono fuori dalla nebbia, si piazzarono in semicerchio davanti alla macchina e puntarono i fucili contro il parabrezza. «Oh, merda» disse Coburn. Uno dei soldati stava ancora caricando il fucile. Cercava di inserire il caricatore a rovescio, e naturalmente non ci riusciva. Lo lasciò cadere e s'inginocchiò per cercarlo, a tentoni. Coburn avrebbe riso, se non fosse stato così preoccupato. Un ufficiale gli gridò qualcosa. Coburn abbassò il vetro del finestrino, mostrò l'orologio e disse: «Sono le cinque passate». I militari confabularono. L'ufficiale tornò e chiese a Coburn i documenti. Coburn attese, in preda all'ansia. Sarebbe stato il momento peggiore per farsi arrestare. L'ufficiale avrebbe creduto che l'orologio di Coburn indicasse l'ora esatta e il suo no? Finalmente i soldati si scostarono e l'ufficiale fece segno di procedere. Coburn tirò un sospiro di sollievo e proseguì lentamente. L'Iran era così.
Il gruppo logistico di Coburn si mise al lavoro, prenotando i posti sugli aerei noleggiando gli autobus per portare i passeggeri all'aeroporto e fotocopiando i volantini da distribuire. Alle dieci del mattino, Coburn radunò i capigruppo al Bucarest e diede le disposizioni perché incominciassero le telefonate. Aveva ottenuto le prenotazioni quasi per tutti su un volo della Pan Am diretto a Istanbul venerdì 8 dicembre. Gli altri - inclusi Liz Coburn e i quattro figli - avrebbero preso un volo della Lufthansa per Francoforte, in partenza lo stesso giorno. Non appena le prenotazioni furono confermate, due dei massimi dirigenti della sede centrale dell'EDS, Merv Stauffer e T. J. Marquez, lasciarono Dallas diretti a Istanbul per andare a ricevere gli sfollati, sistemarli negli alberghi e organizzare la tappa successiva del viaggio di ritorno in patria. Nel corso della giornata vi fu un piccolo cambiamento di programma. Paul esitava ancora ad abbandonare il suo lavoro in Iran. Propose di far restare uno staff ridotto al massimo - una decina di dirigenti - per tenere aperta la sede nella speranza che la situazione si appianasse e che l'EDS potesse riprendere l'attività normale. Dallas acconsentì. Tra quelli che si offrirono di rimanere c'erano lo stesso Paul, il suo vice Bill Gaylord, Jay Coburn e quasi tutti quelli del gruppo logistico che stava organizzando l'evacuazione. Due rimasero, senza molto entusiasmo: Carl e Vicki Commons. Vicki era al nono mese di gravidanza e sarebbe partita dopo la nascita del bambino. Il venerdì mattina i collaboratori di Coburn, con le tasche gonfie di banconote da diecimila rial (circa 140 dollari) per "ungere le ruote", occuparono virtualmente una parte dell'aeroporto di Mehrabad, nella zona occidentale di Teheran. Alcuni preparavano i biglietti al banco della Pan Am, altri erano al controllo dei passaporti, altri ancora erano nella sala d'aspetto delle partenze, altri si occupavano dei bagagli. Le prenotazioni per l'aereo erano più numerose dei posti disponibili; dispensando le banconote qua e là fu possibile avere l'assicurazione che nessuno dell'EDS sarebbe rimasto a terra. Ci furono due momenti di tensione. La moglie d'un impiegato dell'EDS, che aveva il passaporto australiano, non aveva potuto procurarsi il visto d'uscita perché gli uffici governativi iraniani che avrebbero dovuto rilasciarlo erano in sciopero. (Il marito e i figli avevano passaporti americani, e quindi non avevano bisogno dei visti.) Quando il marito arrivò al banco del controllo passaporti, consegnò il suo e quelli dei figli insieme ad altri
sei o sette. Mentre l'agente stava cercando di dividerli, altri dipendenti dell'EDS che erano in coda incominciarono a spingere e a far chiasso. Alcuni uomini della squadra di Coburn si affollarono intorno al banco, facendo domande ad alta voce e fingendo d'essere indignati per quelle lungaggini. Nella confusione, la signora con il passaporto australiano poté attraversare l'atrio delle partenze senza che nessuno la fermasse. Un altro dipendente aell'EDS aveva, insieme alla moglie, adottato un bambino iraniano e non era ancora riuscito a fargli rilasciare il passaporto. Il piccolo, che aveva soltanto pochi mesi, si era addormentato a faccia in giù tra le braccia della madre adottiva. Un'altra signora, Kathy Marketos si diceva che fosse capace di tutto - prese in braccio il bimbo, lo nascose con l'impermeabile e lo portò sull'aereo. Trascorsero comunque molte ore prima che qualcuno potesse salire su un aereo. I due voli erano in ritardo. All'aeroporto non vendevano niente da mangiare, e gli sfollati erano affamatissimi; poco prima del coprifuoco alcuni dei collaboratori di Coburn settacciarono la città acquistando tutti i viveri che riuscirono a trovare. Comprarono in blocco tutta la merce di vari kuche - chioschetti che vendevano dolci, frutta e sigarette - e poi scovarono una rosticceria e acquistarono l'intera scorta di panini. Quando tornarono all'aeroporto e cominciarono a distribuire: viveri a quelli dell'EDS nell'atrio delle partenze, rischiarono di venire sopraffatti dagli altri passeggeri affamati che attendevano gli stessi voli. Poi, mentre ritornavano in città, due di loro furono bloccati e arrestati perché circolavano dopo il coprifuoco... ma il soldato che li aveva fermati fu distratto da un'altra macchina che cercava di allontanarsi, e i due dell'EDS se ne andarono in fretta mentre quello sparava nella direzione opposta. Il volo per Istanbul partì poco dopo mezzanotte. L'aereo per Franco forte decollò il giorno dopo, con trentun ore di ritardo. Coburn e quasi tutti i suoi collaboratori passarono la notte al Bucarest. A casa non c'era nessuno che li aspettasse. Mentre Coburn dirigeva l'evacuazione, Paul aveva cerca o di scoprire chi voleva confiscargli il passaporto... e perché. Il suo assistente amministrativo, Rich Gallagher, era un giovane americano abilissimo nel trattare con i burocrati iraniani. Era uno di quelli che si erano offerti di restare a Teheran, ed era rimasta anche sua moglie Cathy, che aveva un buon impiego presso il comando militare degli Stati Uniti a Teheran. I Gallagher non volevano andarsene. E non avevano figli... sol-
tanto un barboncino che si chiamava Buffy. Il giorno in cui Fara avrebbe dovuto consegnare i passaporti, il 5 dicembre, Gallagher andò all'ambasciata americana con uno degli uomini chiamati in causa dalla polizia iraniana in quella faccenda, Paul Bucha, che non lavorava più in Iran, ma si trovava nella capitale per una breve visita. Parlarono con il console generale Lou Goelz. Goelz era un diplomatico esperto sulla cinquantina, massiccio, quasi calvo, con una frangia di capelli bianchi, e sarebbe stato un ottimo Papà Natale. Con lui c'era anche un iraniano dipendente del consolato. Ali Jordan. Goelz consigliò a Bucha di prendere l'aereo. Fara aveva detto in buona fede alla polizia che Bucha non era in Iran, e a quanto pareva le avevano creduto. Era molto probabile che Bucha potesse filarsela alla chetichella. Inoltre, Goelz si offrì di custodire i passaporti e i permessi di soggiorno di Paul e Bill. Così, se la polizia avesse chiesto ufficialmente i documenti, l'EDS avrebbe potuto rispondere che doveva rivolgersi all'ambasciata. Nel frattempo, Ali Jordan si sarebbe messo in contatto con la polizia e avrebbe cercato di scoprire che cosa stava succedendo. Quel giorno stesso i passaporti e i permessi di soggiorno furono recapitati all'ambasciata. L'indomani mattina Bucha prese il suo aereo e partì. Gallagher telefonò all'ambasciata. Ali Jordan aveva parlato con il generale Biglari del comando della polizia di Teheran. Biglari aveva detto che Paul e Bill non potevano lasciare il paese; e se avessero tentato di farlo, sarebbero stati arrestati. Gallagher chiese il perché. Jordan riferì che venivano trattenuti come "testimoni" per una "indagine". «Quale indagine?» Jordan non lo sapeva. Paul era ansioso, ma soprattutto sconcertato. Non era stato coinvolto in incidenti stradali, non aveva assistito a nessun reato, non aveva legami con la CIA... Su chi indagavano? O su che cosa? sull'EDS? Oppure l'indagine era soltanto un pretesto per trattenere Paul e Bill in Iran perché continuassero a far funzionare i computer della previdenza sociale? La polizia aveva fatto un'unica concessione. Ali Jordan aveva ribattuto che avevano il diritto di ritirare i permessi di soggiorno, dato che erano stati rilasciati dal governo iraniano, ma non i passaporti, che erano proprietà del governo degli Stati Uniti. Il generale Biglari lo aveva riconosciuto. L'indomani Gallagher e Ali Jordan si presentarono alla polizia per con-
segnare i documenti a Biglari. Durante il tragitto, Gallagher chiese ad Ali Jordan se era probabile che Paul e Bill venissero accusati di qualcosa. «Ne dubito» rispose Jordan. Alla sede della polizia, il generale avvertì Jordan che l'ambasciata sarebbe stata ritenuta responsabile se Paul e Bill avessero lasciato il paese con qualunque mezzo... per esempio, con un aereo militare americano. Il giorno seguente - l'8 dicembre, la data dell'evacuazione - Lou Goelz chiamò l'EDS. Tramite una "fonte" al ministero della Giustizia iraniano aveva scoperto che l'indagine nella quale Paul e Bill dovevano essere testimoni riguardava certe accuse di corruzione mosse all'ex ministro della Sanità, il dottor Sheikholeslamizadeh, che era finito in carcere. Per Paul fu un sollievo sapere, finalmente, di che cosa si trattava. Avrebbe potuto dire la verità agli inquirenti: l'EDS non aveva corrotto nessuno. E dubitava che il ministro si fosse lasciato comprare. I burocrati iraniani erano corrotti, e tutti lo sapevano; ma il dottor Sheik - come lo chiamava Paul - sembrava di ben altra pasta. Era un chirurgo specializzato in ortopedia, dotato di perspicacia e di una straordinaria capacità di attenzione per i particolari. Al ministero della Sanità si era circondato di un gruppo di giovani tecnocrati progressisti che avevano trovato il modo di tagliar corto con la burocrazia e di ottenere risultati pratici. Il lavoro dell'EDS faceva parte del suo ambizioso programma per portare l'assistenza medica e sociale dell'Iran a livelli americani. Paul non credeva che il dottor Sheik pensasse contemporaneamente anche a riempirsi le tasche. Paul non aveva nulla da temere... se la "fonte" di Goelz diceva la verità. Ma era proprio così? Il dottor Sheik era stato arrestato tre mesi prima. Era una coincidenza il fatto che gli iraniani avessero scoperto all'improvviso che Paul e Bill erano testimoni importanti dopo l'avvertimento che l'EDS avrebbe chiuso i battenti in Iran se il ministero non avesse saldato i conti? Dopo l'evacuazione, quelli dell'EDS che erano rimasti si trasferirono in due case dove trascorsero, giocando a poker, il 10 e l'11 dicembre, i giorni festivi dell'Ashura. In una delle due case le puntate erano alte, nell'altra erano basse. Paul e Coburn erano entrambi nella casa dalle puntate alte. Per maggiore protezione, invitarono i "fantasmi" di Coburn - i suoi due contatti nel servizio segreto militare - che erano armati. Al tavolo da poker non erano ammesse le armi, e quindi i "fantasmi" dovettero lasciare le pistole in anticamera. Contrariamente alle aspettative, l'Ashura passò in una relativa calma: in tutto il paese milioni di iraniani parteciparono a manifestazioni contro lo
scià, ma vi furono pochi episodi di violenza. Dopo l'Ashura, Paul e Bill ripresero in considerazione l'opportunità di abbandonare il paese: ma li attendeva una brutta sorpresa. Chiesero a Lou Goelz, all'ambasciata, di restituire i loro passaporti. Goelz rispose che se l'avesse fatto sarebbe stato costretto a informarne il generale Biglari. E sarebbe stato come avvertire la polizia che Paul e Bill stavano cercando di andarsene. Goelz sostenne che, quando aveva preso in consegna i passaporti, aveva detto che quello era il suo accordo con la polizia; ma doveva averlo detto molto sottovoce perché nessuno se ne ricordava. Paul era furibondo. Perché Goelz aveva concluso quel patto con la polizia? Non era affatto obbligato a informarla di ciò che faceva di un passaporto americano. Il suo compito non era certo quello di aiutare la polizia a trattenere in Iran Paul e Bill, santo cielo! L'ambasciata esisteva per aiutare gli americani... o no? Goelz non poteva rimangiarsi quello stupido impegno e restituire i passaporti con discrezione, magari informando la polizia un paio di giorni dopo, quando Paul e Bill fossero arrivati in patria sani e salvi? No, assolutamente, rispose Goelz. Se avesse irritato la polizia, sarebbero stati guai per tutti, e Goelz doveva pensare agli altri dodicimila americani che erano ancora in Iran. E poi, i nomi di Paul e Bill figuravano ormai negli elenchi delle persone da bloccare, nelle mani della polizia dell'aeroporto: anche con tutti i documenti in regola, non sarebbero mai riusciti a superare l'ufficio controllo passaporti. Quando la notizia che Paul e Bill erano bloccati in Iran arrivò a Dallas, l'EDS e i suoi legali si misero subito in moto. I rapporti con Washington erano meno cordiali di quanto lo sarebbero stati con un'amministrazione repubblicana, ma avevano ancora qualche amico. Parlarono con Bob Strauss, un influente consigliere della Casa Bianca e per giunta texano; con l'ammiraglio Tom Moorer, già presidente dei Joint Chiefs of Staff, il consiglio dei capi di stato maggiore, che conosceva molti generali del governo militare iraniano; e con Richard Helms, che era stato direttore della CIA e ambasciatore in Iran. In seguito alle pressioni esercitate sul Dipartimento di Stato l'ambasciatore degli Stati Uniti a Teheran, William Sullivan, sollevò la questione di Paul e Bill in un incontro con il Primo ministro iraniano, il generale Azhari. Ma fu tutto inutile. I trenta giorni che Paul aveva concesso agli iraniani per saldare i conti
trascorsero, e il 16 dicembre egli scrisse una lettera ufficiale al dottor Emrani, comunicando che il contratto era scaduto. Ma non si era ancora arreso. Chiese ad alcuni dirigenti evacuati di tornare a Teheran, per dimostrare che l'EDS era disposta a cercare un accordo con il ministero. Alcuni dei dirigenti che ritornarono, incoraggiati dal fatto che l'Ashura era trascorsa in relativa tranquillità, condussero con loro i familiari. L'ambasciata e i legali dell'EDS a Teheran non erano riusciti a scoprire chi aveva dato l'ordine di trattenere Paul e Bill. Fu Majid, il padre di Fara, che alla fine riuscì a saperlo dal generale Biglari. L'indagine era affidata a un magistrato, Hosain Dadgar, il quale dirigeva una sezione della procura incaricata di occuparsi dei reati commessi dai funzionari statali nell'esercizio delle loro funzioni e dotata di vasti poteri. Dadgar stava indagando sul conto del dottor Sheik, l'ex ministro della Sanità. Poiché l'ambasciata non riusciva a indurre gli iraniani a lasciar partire Paul e Bill e rifiutava di riconsegnare di nascosto i loro passaporti, poteva almeno fare in modo che Dadgar interrogasse Paul e Bill al più presto possibile, perché potessero tornare in patria per Natale? Natale non contava molto per gli iraniani, ma il Capodanno era importante, disse Goelz: perciò avrebbe cercato di combinare un incontro prima di quella data. Nella seconda metà di dicembre i disordini ricominciarono (e la prima cosa che fecero i dirigenti rientrati a Teheran fu preparare i piani per una seconda evacuazione). Lo sciopero generale continuò, e le esportazioni di petrolio - la più importante fonte di reddito per il governo - rimasero bloccate, riducendo a zero la possibilità che l'EDS riuscisse a incassare il dovuto. Gli iraniani che si presentavano al lavoro al ministero erano così pochi che i dipendenti dell'EDS non avevano nulla da fare, e Paul ne rimandò parecchi in patria per Natale. Paul fece i bagagli, chiuse la sua casa e si trasferì all'Hilton, tenendosi pronto a partire per gli Stati Uniti alla prima occasione. Nella capitale circolavano molte voci. Jay Coburn veniva a saperle quasi tutte, grazie alla sua rete d'informatori, e riferiva a Paul le più interessanti. Una delle più inquietanti la segnalò Bunny Fleischhaker, una giovane americana che aveva amicizie al ministero della Giustizia. Bunny aveva lavorato per l'EDS negli Stati Uniti, e a Teheran aveva mantenuto i contatti. Chiamò Coburn e gli disse che al ministero della Giustizia avevano intenzione di arrestare Paul e Bill. Paul ne discusse con Coburn. La notizia era in contraddizione con quello che riferiva l'ambasciata americana. I consigli dell'ambasciata erano senza
dubbio migliori di quelli di Bunny Fleischhaker, conclusero. E decisero di non prendere iniziative. Paul trascorse il giorno di Natale tranquillamente in compagnia di alcuni colleghi, in casa di Pat Sculley, un giovane dirigente dell'EDS che si era offerto di tornare a Teheran. Era tornata anche la moglie di Sculley, Mary, e fu lei a preparare il pranzo natalizio. Paul sentiva molto la mancanza di Ruthie e delle figlie. Due giorni dopo Natale l'ambasciata telefonò. Erano riusciti a combinare un appuntamento per Paul e Bill con il magistrato inquirente Hosain Dadgar. L'incontro doveva avvenire l'indomani mattina, 28 dicembre, al ministero della Sanità, in viale Eisenhower. Bill Gaylord entrò nell'ufficio di Paul poco dopo le nove, portando una tazza di caffè. Indossava un abito scuro, camicia bianca, una cravatta sobria e scarpe nere. Come Paul, Bill aveva trentanove anni, era di statura media e piuttosto robusto. Ma le rassomiglianze finivano lì. Paul aveva il colorito scuro, le sopracciglia folte, gli occhi profondamente incassati e il naso pronunciato: spesso lo scambiavano per un iraniano fino a quando non apriva bocca e incominciava a parlare inglese con l'accento di New York. Bill aveva il viso tondo e piatto e la carnagione chiarissima: chiunque l'avrebbe riconosciuto a prima vista per un anglosassone. Avevano molte cose in comune. Erano entrambi cattolici, sebbene Bill fosse più osservante. Amavano la buona tavola. Entrambi avevano incominciato come tecnici ed erano entrati nell'EDS verso la metà degli Anni Sessanta, Bill nel 1965 e Paul nel 1966. Tutti e due avevano fatto carriera, ma sebbene Paul fosse entrato nell'EDS un anno dopo, adesso era il superiore di Bill. Bill conosceva alla perfezione i problemi previdenziali, ed era un dirigente abilissimo; ma era meno dinamico e intraprendente di Paul. Bill era un organizzatore meticoloso e un pensatore. Paul non doveva mai preoccuparsi quando Bill presentava una relazione importante: Bill avrebbe soppesato ogni parola. Collaboravano nel modo migliore. Quando Paul si mostrava precipitoso, Bill lo induceva a riflettere. Quando Bill voleva pianificare meticolosamente ogni passo, Paul gli diceva di non esagerare in prudenza e di procedere. Si conoscevano già negli Stati Uniti, ma si erano conosciuti molto meglio in quegli ultimi nove mesi. Bill era arrivato a Teheran il marzo prece-
dente, ed era stato ospitato dai Chiapparone fino a quando l'avevano raggiunto la moglie Emily e i figli. Paul aveva verso di lui un atteggiamento quasi protettivo: era un peccato che in Iran Bill non avesse altro che problemi. Bill era molto più preoccupato per i disordini e le sparatorie di quanto lo fossero gli altri... forse perché non era a Teheran da molto tempo, forse perché era più portato all'apprensione. Aveva preso più sul serio di Paul anche il problema dei passaporti. A un certo momento aveva addirittura proposto di prendere un treno per raggiungere il confine nord-orientale dell'Iran e passare in Russia, affermando che nessuno si sarebbe aspettato che due uomini d'affari americani scappassero attraverso l'Unione Sovietica. Inoltre, Bill soffriva molto per la mancanza di Emily e dei figli, e Paul si sentiva un po' responsabile, perché era stato lui a chiamarlo in Iran. Comunque, ormai era quasi finita. Quel giorno avrebbero parlato con Dadgar e avrebbero riavuto i passaporti. Bill aveva già prenotato un posto su un aereo che partiva l'indomani. Emily stava preparando una festa in suo onore per la vigilia di Capodanno. Presto quell'avventura sarebbe sembrata un brutto sogno. Paul accolse Bill con un sorriso. «Pronto?» «Quando vuoi, possiamo andare.» «Chiamiamo Abolhasan.» Paul prese il telefono. Abolhasan era il dipendente iraniano di grado più elevato, ed era il consulente di Paul per quanto riguardava le trattative d'affari con gli iraniani. Era figlio di un noto avvocato, aveva sposato un'americana e parlava perfettamente l'inglese. Uno dei suoi compiti era tradurre in Farsi i contratti dell'EDS. Quel giorno avrebbe fatto da interprete a Paul e Bill nel colloquio con Dadgar. Si presentò subito nell'ufficio di Paul, e i tre uscirono insieme. Non si fecero accompagnare da un avvocato. Secondo l'ambasciata, l'incontro sarebbe stato ordinaria amministrazione, l'interrogatorio informale. Se avessero portato con loro un avvocato, sarebbero riusciti soltanto a indisporre Dadgar e a fargli sospettare che avessero qualcosa da nascondere. Paul avrebbe voluto che andasse con loro un incaricato dell'ambasciata, ma Lou Goelz aveva respinto l'idea; non era nelle procedure abituali dell'ambasciata mandare un rappresentante a un colloquio di quel genere. Tuttavia, Goelz aveva consigliato a Paul e a Bill di portare una documentazione che comprovasse quando erano arrivati in Iran, quali erano i loro incarichi ufficiali e quali le loro responsabilità.
Mentre la macchina procedeva nel solito, demenziale traffico di Teheran, Paul si sentiva depresso. Era contento di poter tornare a casa, ma detestava l'idea di dichiararsi sconfitto. Era venuto in Iran per potenziare l'attività dell'EDS, e adesso si vedeva costretto a smantellarla. Comunque si considerasse la faccenda, la prima iniziativa oltremare dell'azienda si era risolta in un fiasco. Non era colpa di Paul se il governo iraniano era rimasto a corto di denaro. Percorsero viale Eisenhower, fiancheggiato d'alberi, ampio e rettilineo come un'autostrada americana, ed entrarono nel cortile di un tozzo palazzo a dieci piani sorvegliato da soldati armati di mitra. Era la sede della Previdenza Sociale del ministero della Sanità, e avrebbe dovuto diventare la centrale del nuovo stato assistenziale iraniano; lì l'EDS e il governo avevano collaborato per creare un nuovo sistema di sicurezza sociale. L'EDS occupava tutto il sesto piano: l'ufficio di Bill era lì. Paul, Bill e Abolhasan presentarono i lasciapassare ed entrarono. I corridoi erano sporchi e male arredati, e faceva molto freddo; il riscaldamento, tanto per cambiare, non funzionava. Si fecero indicare l'ufficio dove li attendeva Dadgar. Lo trovarono in una stanzetta dalle pareti luride, seduto a una vecchia scrivania di metallo. Aveva davanti un taccuino e una penna. Dalla finestra, Paul poteva vedere il nuovo centro dati che l'EDS stava facendo costruire lì accanto. Abolhasan fece le presentazioni. Su una sedia accanto alla scrivania di Dadgar c'era un'iraniana, la signora Nourbash, che era l'interprete del magistrato. Sedettero tutti su malconce sedie metalliche. Fu portato il tè. Dadgar incominciò a parlare in Farsi, con voce bassa ma profonda. Aveva un'espressione impenetrabile. Paul lo studiò mentre attendeva la traduzione. Dadgar era un uomo basso e tarchiato, oltre la cinquantina, scuro di carnagione e con i capelli pettinati in avanti sulla fronte come per nascondere un'incipiente calvizie. Aveva baffi e occhiali e indossava un abito di linea sobria. Dadgar finì di parlare e Abolhasan tradusse: «Vi avverte che ha il potere di farvi arrestare se non sarà soddisfatto delle vostre risposte. Nel caso che non lo sapeste già, dice che potete rinviare il colloquio per dare ai vostri avvocati il tempo di procurarsi la cauzione». Paul era molto sorpreso da quel nuovo sviluppo, ma lo valutò rapidamente, come se si trattasse di una normale decisione di affari. Sta bene, pensò: il peggio che può capitare è che non creda a quello che gli diciamo
e ci faccia arrestare... ma non siamo assassini, in ventiquattr'ore otterremo la libertà su cauzione. Poi, forse, ci confineranno in campagna e dovremo incontrarci con i nostri avvocati per cercare di sbrogliare la faccenda... la situazione non sarà molto diversa dall'attuale. Guardò Bill. «Cosa ne pensi?» Bill alzò le spalle. «Goelz dice che questo colloquio è ordinaria amministrazione. L'avvertimento a proposito della cauzione mi sembra una formalità... come quando da noi, se si arresta qualcuno, gli si leggono quelli che sono i suoi diritti.» Paul annuì. «E l'ultima cosa che vogliamo è un rinvio.» «Allora avanti, e facciamola finita.» Paul si rivolse alla signora Nourbash. «Dica per favore al signor Dadgar che noi non abbiamo commesso nessun reato, e che non ci risulta che altri l'abbiano commesso, quindi siamo sicuri che non verrà formulata nessuna accusa contro di noi, e vorremmo finire entro oggi per poter tornare in patria.» La signora Nourbash tradusse. Dadgar disse che prima voleva interrogare Paul da solo. Bill doveva tornare di lì a un'ora. Bill uscì. Bill salì al suo ufficio al sesto piano. Prese il telefono, chiamò il Bucarest e parlò con Lloyd Briggs. Briggs era il numero tre in ordine gerarchico, dopo Paul e Bill. «Dadgar dice che ha il potere di arrestarci» disse Bill. «Forse dovremo versare una cauzione. Chiama gli avvocati iraniani e scopri un po' che cosa significa.» «Va bene» disse Briggs. «Dove sei?» «Nel mio ufficio, qui al ministero.» «Ti richiamo.» Bill riappese e aspettò. L'idea di venire arrestato era piuttosto ridicola... nonostante la corruzione diffusa nell'Iran moderno, l'EDS non aveva mai pagato tangenti per ottenere i contratti. Ma anche se l'avesse fatto, non sarebbe stato Bill a pagare: il suo compito era adempiere i contratti, non assicurarseli. Briggs richiamò dopo pochi minuti. «Non avete motivo di preoccuparvi» disse. «Proprio la settimana scorsa un uomo imputato d'omicidio è stato liberato su una cauzione di un milione e mezzo di rial.»
Bill fece un rapido calcolo: erano ventimila dollari, e molto probabilmente l'EDS avrebbe potuto versarli in contanti. Da qualche settimana tenevano in cassa grosse somme liquide, un po' perché le banche erano in sciopero e un po' perché dovevano servire per l'evacuazione. «Quanto c'è nella cassaforte dell'ufficio?» «Circa sette milioni di rial, più cinquantamila dollari.» Quindi, pensò Bill, anche se ci arrestano potremo versare immediatamente la cauzione. «Grazie» disse. «Mi sento più tranquillo.» Giù al primo piano, Dadgar aveva annotato nome e cognome di Paul, luogo e data di nascita, le scuole frequentate, l'esperienza nel campo dei computer e le qualifiche; e aveva attentamente esaminato il documento ufficiale che nominava Paul direttore nazionale dell'Electronic Data Systems Corporation Iran. Poi chiese a Paul di dirgli in che modo l'EDS aveva ottenuto il contratto dal ministero della Sanità. Paul trasse un profondo respiro. «Innanzi tutto vorrei farle notare che non lavoravo in Iran nel periodo in cui l'accordo fu concluso e firmato, e quindi non ne ho una conoscenza diretta. Comunque, le riferirò quello che so della procedura.» La signora Nourbash tradusse e Dadgar annuì. Paul continuò, parlando lentamente per aiutare l'interprete. «Nel 1975 un dirigente dell'EDS, Paul Bucha, venne a sapere che il ministero cercava una società di data processing esperta nel campo della previdenza sociale e assistenza malattie. Venne a Teheran, s'incontrò con vari funzionari del ministero e accertò il carattere e la portata del lavoro in programma. Fu informato che il ministero aveva già ricevuto offerte dalla Louis Berger & Co., dalla Marsh & McClennan, dall'ISIRAN e dall'Univac, e che una quinta offerta stava arrivando dalla Cap Gemini Sogeti. Disse che l'EDS era la maggiore società di data processing negli Stati Uniti e che era appunto specializzata in quel particolare tipo di attività. Offrì al ministero uno studio preliminare gratuito. L'offerta fu accettata.» Quando s'interrompeva per lasciar parlare l'interprete, Paul notava che la signora Nourbash sembrava dire meno di quello che aveva detto lui; e gli appunti che annotava Dadgar erano ancora più concisi. Incominciò a parlare più lentamente e a fare pause più frequenti. «Il ministero evidentemente apprezzò le proposte dell'EDS perché poi ci chiese di effettuare uno studio dettagliato per duecentomila dollari. Nell'ottobre del 1975 furono presentati i risultati dello studio. Il ministero accettò la nostra proposta e incomin-
ciarono le trattative per il contratto. Nell'agosto 1976 fu concluso l'accordo.» «E fu fatto tutto alla luce del sole?» chiese Dadgar tramite la signora Nourbash. «Assolutamente» disse Paul. «Ci vollero altri tre mesi per ottenere tutte le approvazioni necessarie dei vari organi governativi, inclusa la corte dello scià. Non fu omesso nessuno di questi passi. Il contratto divenne effettivo alla fine dell'anno.» «I prezzi stabiliti dal contratto erano esorbitanti?» «Prevedeva un utile massimo del venti per cento, prima della deduzione delle tasse, e questo è normale in contratti altrettanto consistenti, sia qui sia negli altri paesi.» «E l'EDS ha mantenuto gli impegni contrattuali?» Di questo Paul aveva una conoscenza di prima mano. «Sì, li abbiamo mantenuti.» «Può dimostrarlo?» «Certamente. Il contratto specifica che dovevo incontrarmi con vari funzionari del ministero, a dati intervalli, per esaminare i progressi fatti; le riunioni ci sono state e il ministero ha in archivio i verbali relativi. Il contratto fissava una procedura per i reclami che il ministero avrebbe usato se l'EDS fosse venuta meno ai suoi obblighi; e tale procedura non è mai stata usata.» La signora Nourbash tradusse, ma Dadgar non prese appunti. Comunque, doveva sapere benissimo come stavano le cose, pensò Paul. Soggiunse: «Guardi dalla finestra. Ecco là il nostro centro dati. Vada a visitarlo. Ci sono i computer. Li tocchi. Funzionano. Producono informazioni. Legga i printouts. Vengono usati». Dadgar scarabocchiò un breve appunto. Paul si chiese a che cosa voleva arrivare. La domanda seguente fu: «Quali sono i vostri rapporti con il gruppo Mahvi?». «Appena venimmo in Iran ci fu detto che avremmo dovuto avere soci iraniani, per poter lavorare. Il gruppo Mahvi è in società con noi. Comunque, il suo compito principale è procurarci personale iraniano. Ci incontriamo periodicamente con loro, ma hanno pochissimo a che fare con la gestione della nostra attività.» Dadgar chiese perché sul libro paga dell'EDS figurava il dottor Towliati, un funzionario del ministero. Non c'era incompatibilità?
Finalmente una domanda che aveva senso. Paul si rendeva conto che il ruolo di Towliati poteva sembrava incompatibile. Ma la spiegazione era semplice. «Nel contratto ci siamo impegnati a fornire consulenti esperti che aiutino il ministero a utilizzare nel modo migliore i nostri servizi. Il dottor Towliati è un consulente. Ha esperienza in fatto di data processing e conosce i metodi di lavoro iraniani e americani. È retribuito dall'EDS anziché dal ministero, perché gli stipendi statali sono troppo bassi per attirare uno specialista del suo livello. Comunque il ministero è tenuto a rimborsarci la sua retribuzione, come è stabilito dal contratto. Quindi, in realtà non siamo noi a pagarlo.» Anche questa volta Dadgar scrisse pochissimo. Avrebbe potuto attingere tutte quelle informazioni negli archivi, pensò Paul, e forse l'aveva fatto. Dadgar chiese: «Ma perché il dottor Towliati firma le fatture?». «È semplice» rispose Paul. «Non le firma e non le ha mai firmate. Il massimo che fa è questo: comunica al ministro che è stato completato un certo lavoro, quando si tratta di questioni troppo tecniche perché un profano possa accertarlo.» Paul sorrise. «Prende molto sul serio le sue responsabilità nei confronti del ministero... è il nostro critico più intransigente e fa parecchie domande prima di dichiarare che il lavoro è stato ultimato. Qualche volta vorrei averlo in tasca.» La signora Nourbash tradusse. Paul pensava: Dove vuole arrivare Dadgar? Prima chiede delle trattative per il contratto, che si sono svolte prima che io venissi qui; poi del gruppo Mahvi e del dottor Towliati, come se fossero importantissimi. Forse non sa neppure lui cosa sta cercando... forse fa domande a caso, sperando di trovare le prove di qualche illecito. Per quanto può continuare ancora questa farsa? Bill era nel corridoio, e indossava il cappotto per difendersi dal freddo. Qualcuno gli aveva portato un bicchiere di tè, e lo sorseggiava, scaldandosi le mani. Il palazzo era al buio, oltre che al freddo. Dadgar gli era apparso subito diverso dall'iraniano tipo. Era freddo, burbero e scostante. All'ambasciata avevano detto che era "ben disposto" verso Bill e Paul, ma Bill aveva l'impressione che non lo fosse affatto. Bill si chiese a che gioco stava giocando Dadgar. Cercava solo di intimidirli, oppure pensava seriamente di arrestarli? In ogni caso, l'incontro non stava andando come avevano previsto all'ambasciata. Il consiglio di presentarsi senza essere accompagnati da avvocati o da rappresentanti dell'ambasciata stessa adesso appariva sbagliato: forse non volevano essere
coinvolti. Comunque, a questo punto Paul e Bill dovevano arrangiarsi da soli. Non sarebbe stata una giornata piacevole, ma alla fine avrebbero potuto tornare in patria. Mentre guardava dalla finestra, vide che in viale Eisenhower c'era un certo scompiglio. I dissidenti fermavano le macchine e mettevano sui parabrezza manifesti di Khomeini. I militari di guardia al ministero fermavano a loro volta le macchine e strappavano i manifesti. A poco a poco i soldati diventavano più bellicosi. Spaccarono i fari d'una macchina e poi il parabrezza di un'altra, come per dare una lezione ai guidatori. Poi trascinarono fuori di peso un automobilista e lo presero a pugni. Poi se la presero con uno dei taxi arancione di Teheran. Passò senza fermarsi; i militari si infuriarono e lo rincorsero sparando. Taxi e inseguitori sparirono alla vista di Bill. Poi i soldati ritornarono ai loro posti nel cortile cintato di fronte al ministero. L'episodio, con quel bizzarro miscuglio di puerilità e di brutalità, sembrava riassumere quello che stava succedendo in Iran. Il paese stava andando a rotoli. Lo scià aveva perso il controllo della situazione e i rivoltosi erano decisi a scacciarlo o a ucciderlo. A Bill facevano pena gli automobilisti, vittime della situazione, che non potevano far nulla. Se gli iraniani non sono più al sicuro, pensò, per gli americani il pericolo deve essere anche più grave. Dobbiamo lasciare il paese. Nel corridoio c'erano due iraniani che assistevano agli scontri di viale Eisenhower. Sembravano allibiti quanto Bill. Venne il pomeriggio. Per pranzo, Bill si vide portare altro tè e un sandwich. Si chiedeva come stava andando l'interrogatorio. Non si stupiva che lo facessero aspettare tanto. In Iran "un'ora" voleva dire semplicemente "più tardi, forse". Ma via via che passava il tempo si sentiva sempre più inquieto. Paul era nei guai? I due iraniani rimasero nel corridoio tutto il pomeriggio, senza far niente. Bill si chiese vagamente chi erano. Non parlò con loro. Avrebbe voluto che il tempo passasse più in fretta. Aveva prenotato un posto sull'aereo dell'indomani. Emily e i figli erano a Washington, dove abitavano i genitori di Emily e quelli di Bill. Avevano deciso di organizzare una grande festa in suo onore alla vigilia di Capodanno. E lui non vedeva l'ora di riabbracciarli tutti. Avrebbe dovuto lasciare l'Iran già da diverse settimane, quando avevano incominciato a lanciare bombe incendiarie. Una delle persone la cui casa era stata attaccata era una sua ex compagna di scuola, che aveva sposato
un diplomatico in servizio all'ambasciata americana. Bill aveva parlato con loro dell'incidente. Marito e moglie erano rimasti illesi, fortunatamente, ma era stato spaventoso. Avrei dovuto andarmene allora, pensò. Finalmente Abolhasan aprì la porta e chiamò: «Bill! Venga, per favore». Bill diede un'occhiata all'orologio. Erano le cinque. Entrò. «Fa freddo» disse sedendosi. «Ma questa sedia scotta» disse Paul con un sorriso forzato. Bill lo guardò: sembrava molto a disagio. Dadgar bevve un tè e mangiò un sandwich prima d'incominciare a interrogare Bill. Bill lo scrutò e si disse: Stai in guardia... questo è deciso a tenderci un trabocchetto per impedirci di lasciare il paese. Incominciò l'interrogatorio. Bill diede nome, cognome, luogo e data di nascita, scuole, qualifiche e attività precedenti. Impassibile, Dadgar faceva le domande e annotava le risposte: era come una macchina, pensò Bill. Incominciò a capire perché l'interrogatorio di Paul si era protratto così a lungo. Ogni domanda veniva tradotta dal Farsi in inglese, e ogni risposta dall'inglese in Farsi. La signora Nourbash faceva da interprete, e Abolhasan l'interrompeva per correggere e chiarire. Dadgar l'interrogò sugli adempimenti del contratto ministeriale da parte dell'EDS. Bill rispose dettagliatamente, sebbene fosse un argomento complicato e molto tecnico e lui fosse sicuro che la signora Nourbash non poteva capire molto bene quel che stava dicendo. Comunque, nessuno poteva sperare di rendersi conto di un intero programma tanto complesso facendo qualche domanda di carattere generale. Che razza di assurdità è mai questa? si chiese Bill. Perché Dadgar è deciso a starsene tutto il giorno in una stanza gelata a fare domande stupide? Pensò che fosse una specie di rituale persiano. Dadgar doveva fornire un'abbondante documentazione, dimostrare che aveva battuto tutte le strade, per proteggersi dalle eventuali critiche quando li avrebbe lasciati andare. Nel peggiore dei casi, avrebbe potuto trattenerli in Iran ancora per un po'. Era solo questione di tempo. Dadgar e la signora Nourbash sembravano ostili. Il colloquio cominciò ad assumere un andamento da interrogatorio in tribunale. Dadgar disse che i rapporti presentati dall'EDS al ministero sul progresso del lavoro erano falsi, e che l'EDS se ne era servita per costringere il ministero a pagare per cose che non erano state fatte. Bill ribatté che i vari funzionari ministeriali, i quali dovevano saperlo, non avevano mai detto che i rapporti fossero inesatti. Se l'EDS non aveva fatto il lavoro che s'era impegnata a svolgere, dove erano i reclami? Dadgar poteva controllare l'archivio del ministero.
Dadgar chiese del dottor Towliati e quando Bill spiegò, la signora Nourbash, prima ancora che Dadgar aprisse bocca, ribatté che la spiegazione era falsa. Vi furono parecchie domande senza relazione tra loro, compresa una stranissima: L'EDS aveva dipendenti greci? Bill rispose di no, e si chiese cosa diavolo c'entrava. Dadgar sembrava spazientito; forse aveva sperato che le risposte di Bill contraddicessero quelle di Paul e adesso, deluso, continuava più che altro pro forma. Le domande diventarono frettolose e superflue; quando Bill rispondeva, lui non chiedeva chiarimenti. Dopo un'ora, pose fine al colloquio. La signora Nourbash disse: «Ora, per favore, mettete la firma accanto a ognuna delle domande e delle risposte annotate dal signor Dadgar». «Ma sono in Farsi... e noi non siamo in grado di leggere neppure una parola!» protestò Bill. È un trucco, pensò: ci faranno firmare una confessione di omicidio o di sabotaggio o di qualche altro reato inventato da Dadgar. Abolhasan disse: «Leggerò io gli appunti, per controllarli». Paul e Bill attesero mentre Abolhasan leggeva. Sembrava un controllo piuttosto sbrigativo. Posò il taccuino sulla scrivania. «Vi consiglio di firmare.» Bill era sicuro che sarebbe stato meglio non farlo... ma non aveva scelta. Doveva firmare, se voleva tornare in patria. Guardò Paul, e Paul alzò le spalle. «Tanto vale.» Firmarono a turno, a fianco degli incomprensibili scarabocchi in Farsi. Quando finirono, nella stanza c'era un'atmosfera di tensione. Adesso, pensò Bill, dovrà dirci che possiamo andarcene. Dadgar riordinò meticolosamente le carte mentre parlava ad Abolhasan in Farsi per vari minuti. Poi uscì. Abolhasan si rivolse a Paul e Bill, con aria grave. «Siete in arresto» disse. Bill provò una stretta al cuore. Niente aereo, niente Washington, niente festa per la vigilia di Capodanno... «La cauzione è stata fissata in novanta milioni di toman, sessanta per Paul e trenta per Bill.» «Gesù!» disse Paul. «Novanta milioni di toman sono...» Abolhasan fece il conto su un pezzo di carta. «Un po' meno di tredici milioni di dollari.» «Starà scherzando!» esclamò Bill. «Tredici milioni? La cauzione per un omicida è ventimila.»
Abolhasan disse: «Vuol sapere se siete pronti a pagare». Paul rise. «Gli risponda che al momento sono un po' a corto, dovrò rivolgermi alla banca.» Abolhasan non disse nulla. «Ma non può fare sul serio» disse Paul «Fa sul serio» disse Abolhasan. Bill s'infuriò... con Dadgar, con Lou Goelz, con il mondo intero. Era un trabocchetto, e loro c'erano caduti. Erano venuti lì spontaneamente, a un appuntamento fissato dall'ambasciata americana. Non avevano fatto nulla di male e nessuno aveva un'ombra di prova a loro carico... ma li avrebbero messi in carcere, e quel che era peggio, in un carcere iraniano! Abolhasan disse: «Ognuno di voi è autorizzato a fare una telefonata». Come nei telefilm polizieschi... una telefonata, e poi al fresco. Paul prese il telefono e chiamò. «Llyod Briggs, per favore. Sono Paul Chiapparone... Lloyd? Non posso venire a cena, stasera. Mi sbattono dentro». Bill pensò: Paul non riesce ancora a crederlo. Paul ascoltò per un momento, poi disse: «Non sarebbe il caso di chiamare Bill Gayden, per cominciare?» Bill Gayden era il presidente dell'EDS Worlde il diretto superiore di Paul. Appena la notizia arriverà a Dallas, pensò Bill, questi buffoni d'iraniani vedranno cosa succede quando l'EDS si mette in moto sul serio Paul riattaccò e Bill prese il suo posto all'apparecchio. Chiamò l'ambasciata americana e chiese del console generale «Goelz? Sono Bill Gaylord. Ci hanno appena arrestati, e hanno fissato la cauzione in tredici milioni di dollari.» «Oh, cielo, io...» «Al diavolo!» Bill era infuriato, nel sentire la voce calma e misurata di Goelz. «È stato lei a combinare questo incontro, e ci aveva assicurato che dopo avremmo potuto partire!» «Certo, se non avete fatto niente di male...» «Come, se?» gridò Bill. «Manderò qualcuno al carcere al più presto possibile» disse Goelz. Bill riattaccò. I due iraniani che per tutto il giorno avevano oziato nel corridoio entrarono in quel momento. Bill notò che erano grandi e grossi, e capì che erano poliziotti in borghese. Abolhasan disse: «Dadgar ha deciso che non è necessario ammanet-
tarvi». «Oh, grazie!» disse Paul. Bill rammentò all'improvviso di aver sentito dire che nelle carceri dello scià torturavano i prigionieri. Cercò di non pensarci. Abolhasan disse: «Volete dare a me le borse e i portafogli?». Glieli consegnarono. Paul tenne cento dollari. «Sa dov'è il carcere?» chiese Paul ad Abolhasan. «Vi porteranno nelle celle di sicurezza del ministero della Giustizia in via Khayyam.» «Torni subito al Bucarest e riferisca tutti i particolari a Lloyd Briggs.» «Senz'altro.» Uno dei poliziotti in borghese aprì la porta. Bill guardò Paul. Paul alzò le spalle. Uscirono. I poliziotti li condussero al pianterreno e li fecero salire su un'automobile. «Credo che resteremo al fresco un paio d'ore» disse Paul. «Non ci vorrà di più perché l'ambasciata e l'EDS mandino qualcuno a pagare la cauzione.» «Forse saranno già là ad aspettarci» disse ottimisticamente Bill. Il più grosso dei due poliziotti si mise al volante, e l'altro sedette accanto a lui. Uscirono dal cortile in viale Eisenhower, a tutta velocità. All'improvviso svoltarono in una stretta via a senso unico, nella direzione vietata. Bill si aggrappò al sedile. Schivarono le macchine e gli autobus che arrivavano dalla parte opposta, mentre gli altri guidatori strombettavano e agitavano i pugni. La macchina si diresse verso sud-est. Bill cercò d'immaginare il loro arrivo. Chissà se qualcuno dell'EDS o dell'ambasciata era già là per ottenere una riduzione della cauzione, in modo che potessero tornare a casa anziché finire in cella? Senza dubbio all'ambasciata si sarebbero indignati per il modo d'agire di Dadgar. L'ambasciatore Sullivan sarebbe intervenuto per farli rilasciare immediatamente. Dopotutto, era iniquo rinchiudere in un carcere iraniano due americani che non avevano fatto niente e poi pretendere una cauzione di tredici milioni di dollari. Era una situazione addirittura ridicola. Ma intanto lui era lì, sul sedile posteriore di quella macchina, e si chiedeva che cosa sarebbe accaduto. Mentre procedevano verso sud, quello che vide dal finestrino lo spaventò ancora di più.
Nella parte settentrionale della città, dove vivevano e lavoravano gli americani, i disordini e gli scontri erano ancora fenomeni occasionali, ma lì - adesso Bill se ne rendeva conto - dovevano essere continui. Le carcasse nere degli autobus incendiati fumavano ancora per le strade. Centinaia di dimostranti correvano urlando e cantando, appiccavano incendi e innalzavano barricate. Ragazzi giovanissimi lanciavano bottiglie molotov contro le macchine. Sceglievano i bersagli a caso. Potrebbe capitare anche a noi, pensò Bill. Sentì sparare, ma era buio e non riuscì a vedere chi fosse. L'autista non riduceva mai la velocità. Quasi tutte le strade erano bloccate da un'orda o da una barricata o da un'auto in fiamme; l'autista svoltava di qua e di là, ignorando la segnaletica, e correva a rotta di collo per le vie secondarie e i vicoli per aggirare gli ostacoli. Non arriveremo vivi, pensò Bill e toccò il rosario che portava in tasca. Quella corsa sembrò durare in eterno... e poi, all'improvviso, la piccola automobile svoltò in un cortile rotondo e si fermò. Senza una parola, l'autista scese ed entrò. Il ministero della Giustizia era un palazzone enorme che occupava un intero isolato. Nell'oscurità - tutti i lampioni erano spenti - Bill riuscì a scorgere un edificio a cinque piani. L'autista uscì dopo dieci o quindici minuti. Si rimise al volante, ripartì e girò intorno all'isolato. Bill immaginò che avesse fatto registrare i suoi arrestati. Dietro il palazzo, la macchina salì sul marciapiedi e si fermò davanti a, due battenti d'acciaio con un muro di mattoni. Sulla destra, dove finiva il muro, c'era il contorno vago d'un giardino. L'autista scese. Si aprì uno spioncino e vi fu un breve dialogo in Farsi. Poi la porta si aprì. L'autista accennò a Paul e Bill di scendere. Entrarono. Bill si guardò intorno. Erano in un cortiletto. Videro dieci o quindici guardie con armi automatiche piazzate qua e là. Davanti a loro c'era una specie di parcheggio pieno di macchine e camion. A sinistra, contro il muro, c'era una costruzione a un solo piano. A destra c'era un'altra porta d'acciaio. L'autista si avvicinò a questa e bussò. Seguì un altro dialogo in Farsi attraverso lo spioncino. Poi la porta si aprì e Paul e Bill vennero fatti entrare. Erano in una piccola anticamera, con una scrivania e qualche sedia. Bill si guardò intorno. Non c'erano avvocati, né rappresentanti dell'ambasciata, né dirigenti dell'EDS accorsi per tirarli fuori. Siamo abbandonati a noi stessi, pensò, e sarà pericoloso.
Alla scrivania c'era un guardiano con una penna a sfera e un mucchio di moduli. Chiese qualcosa in Farsi. Paul, indovinando, rispose: «Paul Chiapparone» e dettò il nome lettera per lettera. Ci volle quasi un'ora per riempire i moduli. Dalla prigione venne portato un detenuto che parlava inglese perché facesse da interprete. Paul e Bill diedero gli indirizzi di Teheran, i numeri di telefono, le date di nascita, e fecero l'elenco della roba che avevano con loro. Le guardie ritirarono il denaro e consegnarono duemila rial a ognuno di loro, circa trenta dollari. Li condussero in una stanza adiacente e dissero loro di spogliarsi. Restarono tutti e due in mutande. Le guardie li perquisirono, poi dissero a Paul di rivestirsi, ma non a Bill. Faceva molto freddo: anche lì il riscaldamento non funzionava. Nudo e tremante, Bill si domandava che cosa sarebbe successo. Evidentemente erano gli unici americani in quella prigione. Che cosa avrebbero fatto le guardie a lui e a Paul? Che cosa avrebbero fatto gli altri detenuti? Senza dubbio, da un momento all'altro sarebbe arrivato qualcuno per farli rilasciare. «Posso mettere la giacca?» chiese alla guardia. La guardia non capì. «Giacca» disse Bill, spiegandosi a gesti. La guardia gli porse la giacca. Poco dopo entrò un'altra guardia e disse loro di rivestirsi. Li condussero di nuovo in anticamera. Ancora una volta Bill si guardò intorno speranzoso, cercando con gli occhi gli avvocati o qualche faccia amica; ancora una volta rimase deluso. Li condussero via. Si aprì un'altra porta. Scesero una scala che portava nel seminterrato. Era freddo, buio e sporco. C'erano parecchie celle piene di detenuti, tutti iraniani. C'era un tale fetore d'urina che Bill chiuse la bocca e respirò dal naso. La guardia aprì la porta della cella numero nove. Paul e Bill entrarono. Sedici facce ispide li guardarono con aria incuriosita. Paul e Bill le guardarono a loro volta, inorriditi. La porta si chiuse rumorosamente alle loro spalle. II Fino a quel momento, la vita era stata generosa con Ross Perot. Il mattino del 28 dicembre 1978 era seduto al tavolo della colazione nel-
la sua baita di montagna a Vail nel Colorado, e Holly, la cuoca, lo stava servendo. Appollaiata sul fianco della montagna e seminascosta dall'abetaia, la "baita" aveva sei stanze da letto, cinque bagni, un soggiorno di cento metri quadrati e una "sala doposci" con una vasca Jacuzzi davanti al camino. Era una casa per le vacanze. Ross Perot era ricco. Aveva fondato l'EDS con mille dollari e adesso le azioni della società lui ne possedeva personalmente più della metà - valevano parecchie centinaia di milioni di dollari. Era l'unico proprietario della Petrus Oil and Gas Company che aveva riserve per un valore d'altre centinaia di milioni. E aveva anche grosse proprietà terriere a Dallas. Era difficile calcolare esattamente quanto denaro possedeva - molto dipendeva dal modo di contarlo - ma era certamente più di cinquecento milioni di dollari e probabilmente meno d'un miliardo. Nei romanzi, i personaggi immensamente ricchi vengono presentati come avidi, assetati di potere, nevrotici, odiati e infelici... sempre infelici. Perot non leggeva molti romanzi. Era felice. Non credeva che fosse il denaro a renderlo felice. Credeva negli affari, nel denaro e nei profitti, perché era questo che mandava avanti l'America; e apprezzava alcuni dei giocattoli che il denaro poteva comprare... il cruiser, i motoscafi, l'elicottero. Ma non si era mai sognato di rotolarsi su un tappeto di banconote da cento dollari. Aveva sognato di creare un'azienda di successo che desse lavoro a migliaia di persone; ma il più grande dei suoi sogni realizzati stava davanti ai suoi occhi. La sua famiglia. Gli giravano intorno nei sottotuta termici e si preparavano ad andare a sciare. C'era Ross Junior, vent'anni, e se esisteva un giovane più in gamba di lui nello stato del Texas, Perot doveva ancora incontrarlo. C'erano quattro figlie - Nancy, Suzanne, Carolyn e Katherine. Erano tutte sane, sveglie e simpatiche. A volte, Perot aveva dichiarato agli intervistatori che avrebbe misurato il suo successo nella vita in base a quello che sarebbero diventati i suoi figli. Se fossero diventati buoni cittadini rispettosi degli altri, avrebbe concluso che era valsa la pena di vivere. (Gli intervistatori dicevano: «Diavolo, io le credo, ma se pubblico questa risposta nell'articolo i lettori penseranno che mi ha comprato». E Perot ribatteva: «Non m'interessa. Io le dico la verità... poi lei scriva quello che vuole».) E i figli erano diventati esattamente come voleva Perot, almeno finora. Sebbene fossero cresciuti tra le ricchezze e i privilegi, non erano viziati. Quasi un miracolo.
La responsàbile del miracolo, Margot Perot, era lì, e rincorreva i figli con i biglietti dello ski-lift, i calzettoni di lana e le lozioni solari. Era bella, affettuosa, intelligente, ricca di classe, ed era un'ottima madre. Se avesse voluto, avrebbe potuto sposare un John Kennedy, un Paul Newman, un principe Ranieri o un Rockefeller. Invece s'era innamorata di Ross Perot di Texarkana, Texas: alto un metro e settanta, con il naso rotto e niente in tasca tranne le speranze. Perot era sempre stato convinto d'essere fortunato. Adesso, a quarantotto anni, poteva ripensare al passato e rendersi conto che la sua fortuna più grande era stata sposare Margot. Era un uomo felice con una famiglia felice, ma quel natale un'ombra era scesa su di loro. La madre di Perot stava morendo di cancro alle ossa. La vigilia di Natale era caduta in casa: non era stata una caduta grave, ma dato che la malattia le aveva indebolito le ossa, si era fratturata il femore ed era stata ricoverata d'urgenza al Baylor Hospital nel centro di Dallas. La sorella di Perot, Bette, aveva trascorso la notte con la madre e poi, il giorno di Natale, Perot, Margot e i cinque figli avevano caricato i regali sulla station wagon ed erano andati all'ospedale. La nonna era d'ottimo umore, e avevano passato una giornata piacevole. Ma lei non voleva che ritornassero a trovarla il giorno dopo: sapeva che avevano deciso di andare a sciare, e aveva insistito perché partissero. Margot e i ragazzi erano andati a Vail il 26 dicembre, ma Perot era rimasto. Poi c'era stato uno scontro tra volontà, come quelli che Perot aveva sostenuto con la madre da bambino. Lulu May Perot non arrivava a un metro e sessanta ed era minuta, ma non era più fragile d'un sergente dei marines. Gli disse che aveva lavorato troppo e che aveva bisogno di quella vacanza. Lui rispose che non voleva lasciarla. Alla fine s'intromisero i medici, e spiegarono che non le avrebbe fatto un favore se fosse rimasto contro la sua volontà. Il giorno dopo Perot raggiunse la famiglia a Vail. Sua madre aveva vinto, come era sempre successo quando lui era giovanissimo. Uno dei loro scontri era stato causato da una gita dei boy-scout. A Texarkana c'era stata un'alluvione, e gli scout intendevano accamparsi per tre giorni presso la zona disastrata e collaborare ai soccorsi. Ross Perot era deciso ad andare, ma la madre sapeva che era troppo giovane, e sarebbe stato un peso per l'accompagnatore. Lui aveva continuato a insistere, ma lei si era limitata a sorridere dolcemente e a dire di no. Poi le aveva strappato una concessione, il permesso di andare ad aiutare a montare le tende il primo giorno; ma la sera doveva tornare a casa. Non era gran che, come compromesso. Ma Perot non era capace di sfidare sua
madre. Immaginava il momento in cui sarebbe tornato a casa, cercava di pensare le parole che avrebbe usato per dirle che le aveva disobbedito... e capiva che non poteva farlo. Sua madre non l'aveva mai preso a sculaccioni. Non aveva mai neppure strillato. Non lo dominava con la paura. Con i suoi capelli biondi, gli occhi azzurri e il carattere dolce, teneva Ross e la sorella, Bette, con i vincoli dell'affetto. Ti guardava negli occhi e ti diceva cosa dovevi fare, e tu non te la sentivi di darle un dispiacere. Ancora, quando Perot aveva ventitré anni e aveva già fatto il giro del mondo, lei chiedeva: «Con chi esci stasera? Dove vai? A che ora torni?». E quando lui rientrava, doveva andare a darle il bacio della buonanotte. Ma ormai le loro battaglie erano diventate rare, perché i principi materni si erano radicati così profondamente in lui da essere divenuti anche suoi. Ora la madre governava la famiglia come un monarca costituzionale, portando le insegne del potere e legittimando i vari autori delle decisioni. Perot aveva ereditato dalla madre non soltanto i principi, ma anche la volontà di ferro. Anche lui guardava la gente negli occhi. Aveva sposato una donna che somigliava a sua madre. Bionda e con gli occhi azzurri, Margot aveva anche lo stesso carattere dolce di Lulu May. Ma Margot non dominava Perot Tutte le madri muoiono, prima o poi, e ormai Lulu May viveva ottantadue anni, ma Perot non riusciva ad accettarlo con stoicismo. Lei era ancora importante nella sua vita. Non gli dava più ordini, ma gli dava incoraggiamento. L'aveva incoraggiato a fondare l'EDS, e per i primi anni aveva tenuto la contabilità dell'azienda. Con lei poteva parlare dei suoi problemi. L'aveva consultata nel dicembre 1969, al culmine della sua campagna per far conoscere la situazione dei prigionieri di guerra americani nel Vietnam del Nord. Aveva deciso di recarsi in volo aa Hanoi, e i suoi collaboratori dell'EDS gli avevano fatto notare che st avesse rischiato la vita il valore delle azioni della società avrebbe potuto precipitare. Perot si era trovato alle prese con un dilemma: aveva il diritto di mettere in difficoltà gli azionisti, anche per la migliore delle cause? Aveva parlato della cosa alla madre, e lei aveva risposto senza esitare: «Lascia che vendano le loro azioni». I prigionieri stavano morendo, e questo era più importante del valore delle azioni dell'EDS. Era la stessa conclusione alla quale Perot sarebbe pervenuto da solo. Non aveva bisogno che fosse sua madre a dirglielo. Se non ci fosse stata lei, sarebbe stato lo stesso uomo e avrebbe fatto le stesse cose. Gli sarebbe
mancata, ecco tutto. Gli sarebbe mancata tremendamente. Ma non era un tipo che amasse rimuginare. Quel giorno non poteva far nulla per lei. Due anni prima, quando sua madre aveva avuto un colpo, aveva messo sottosopra Dallas una domenica pomeriggio per stanare il miglior neurochirurgo e portarlo all'ospedale. In un momento di crisi, reagiva agendo. Ma se non c'era nulla da fare, riusciva a escludere il problema dalla sua mente, dimenticava le brutte notizie e passava oltre. Non intendeva rovinare la vacanza della sua famiglia andandosene in giro con la faccia tetra. Si sarebbe goduto la compagnia della moglie e dei figli, e avrebbe riso e scherzato con loro. Lo squillo del telefono interruppe i suoi pensieri. Andò in cucina a rispondere. «Ross Perot» disse. «Ross, sono Bill Gayden.» «Salve, Bill.» Gayden era un veterano dell'EDS. Era entrato nella società nel 1967. Sotto certi aspetti, era il tipico venditore: gioviale e amico di tutti. Apprezzava uno scherzo, una sigaretta, un liquore, una mano di poker. Ed era anche un mago della finanza, abilissimo per quanto riguardava le fusioni, le acquisizioni e gli accordi, e per questo Perot l'aveva nominato presidente dell'EDS World. Gayden aveva un forte senso dell'umorismo, e riusciva a dire qualcosa di spiritoso anche nelle situazioni più serie... ma questa volta sembrava addirittura cupo. «Ross, abbiamo un problema.» Era una tipica frase fatta dell'EDS: Abbiamo un problema. Voleva dire che c'erano brutte notizie Gayden proseguì: «Si tratta di Paul e Bill». Perot capì immediatamente a chi si riferiva. Il modo in cui si era impedito ai due massimi dirigenti in Iran di lasciare il paese era sinistro, e non l'aveva dimenticato, anche se sua madre stava morendo. «Ma oggi dovrebbero partire.» «Li hanno arrestati.» La collera gli provocò una contrazione alla bocca dello stomaco. «Bill, mi avevano assicurato che li avrebbero autorizzati a lasciare l'Iran al termine dell'incontro con il magistrato. Voglio sapere che cos'è successo.» «Li hanno sbattuti in prigione.» «Con quale accusa?» «Non hanno specificato le accuse.» «In base a quale legge li hanno arrestati?»
«Non l'hanno detto.» «Cosa stiamo facendo per tirarli fuori?» «Ross, hanno fissato la cauzione in novanta milioni di toman. Sono dodici milioni e settecentoquarantamila dollari.» «Dodici milioni?» «Proprio così.» «E come diavolo è successo?» «Ross, sono stato per mezz'ora al telefono con Lloyd Briggs, cercando di capire, e il fatto è che non ci capisce niente neppure Lloyd.» Perot tacque un istante. I dirigenti dell'EDS avevano il compito di trovargli le soluzioni, non di porgli interrogativi. Gayden sapeva che non era il caso di chiamarlo prima di essersi informato per quanto era possibile. Perot non sarebbe riuscito a saperne di più, al momento: Gayden non disponeva di altre informazioni. «Chiama Tom Luce» disse Perot. «Chiama il Dipartimento di Stato a Washington. Questa faccenda ha la precedenza su tutto. Non voglio che restino in carcere un minuto di più, maledizione!» Margot rizzò le orecchie quando lo senti dire "maledizione"; Ross non aveva l'abitudine d'imprecare, soprattutto davanti ai figli. Lui uscì dalla cucina, scuro in volto. I suoi occhi erano azzurri come l'oceano Artico, e altrettanto gelidi. Margot conosceva quell'espressione. Non era collera: Perot non era il tipo che sprecava le sue energie nel malumore. Era un'espressione decisa, inflessibile. Voleva dire che aveva stabilito di fare qualcosa ed era pronto a smuovere cielo e terra. Margot aveva visto quell'aria decisa quando l'aveva conosciuto all'accademia navale di Annapolis... possibile che fossero passati già venticinque anni? Era la qualità che lo distingueva dalla massa, che lo rendeva diverso. Oh, aveva altre qualità - era intelligente e spiritoso, e sapeva affascinare la gente - ma ciò che lo rendeva eccezionale era la forza di volontà. Quando aveva quell'espressione negli occhi, cercare di fermarlo sarebbe stato come tentare di fermare un treno in discesa. «Gli iraniani hanno arrestato Paul e Bill» disse Perot. Margot pensò subito alle loro mogli. Le conosceva da anni. Ruthie Chiapparone era piccola, placida, sorridente, con un ciuffo biondo e l'aria vulnerabile. Avrebbe sofferto molto. Emily Gaylord era più dura, almeno in apparenza. La bionda, sottile Emily era vivace ed energica: avrebbe voluto saltare sul primo aereo per andare a tirar fuori Bill dal carcere. La dif-
ferenza tra le due donne appariva evidente nel loro modo di vestire. Ruthie prediligeva le stoffe morbide e le tinte delicate, Emily il taglio deciso e i colori vivaci. Emily avrebbe sofferto senza darlo a vedere. «Torno a Dallas» disse Ross. «C'è una tempesta di neve» disse Margot, guardando dalla finestra i fiocchi che scendevano turbinando. Sapeva che era inutile parlare: la neve e il ghiaccio non l'avrebbero fermato. Pensò che Ross non sarebbe stato capace di restare a Dallas dietro una scrivania per molto tempo mentre due suoi collaboratori erano in carcere a Teheran. Non va a Dallas, pensò: andrà in Iran. «Prenderò la fuoristrada» disse Perot. «Potrò trovare un aereo a Denver.» Margot dominò i suoi timori e sorrise: «Sii prudente, ti prego» disse. Perot era al volante della GM Suburban e guidava con prudenza. La strada era ghiacciata. La neve si ammucchiava alla base del parabrezza, accorciando il percorso dei tergicristalli. Scrutava la strada. Denver era a 170 chilometri da Vail. Aveva tempo per riflettere. Era ancora furibondo. Non era soltanto perché Paul e Bill erano stati arrestati. Erano in carcere perché erano andati in Iran, ed erano andati in Iran perché li aveva mandati lui. Da mesi era preoccupato a causa dell'Iran. Un giorno, dopo una notte insonne trascorsa a riflettere, era andato in ufficio e aveva detto: «Facciamoli evacuare. Se sbagliamo, ci rimetteremo soltanto la spesa di tre o quattrocento biglietti d'aereo. Provvediamo oggi stesso». Era stata una delle rare occasioni in cui i suoi ordini non erano stati eseguiti. Tutti si erano impuntati, a Dallas e a Teheran. Non poteva dar loro torto. Non si era mostrato abbastanza deciso. Se si fosse mostrato risoluto, sarebbero sfollati quel giorno; ma non l'aveva fatto, e l'indomani i passaporti erano stati richiesti dalla polizia. Doveva molto a Paul e Bill. Si sentiva in debito con gli uomini che avevano rischiato la carriera entrando nell'EDS quando era ancora agli inizi. Molte volte aveva trovato l'uomo giusto, gli aveva parlato, l'aveva interessato alla proposta e gli aveva offerto il posto, e più tardi, dopo aver parlato con la famiglia, l'uomo aveva deciso che l'EDS era troppo piccola, troppo nuova, troppo rischiosa. Paul e Bill non si erano accontentati di accettare il rischio: avevano lavo-
rato come pazzi. Bill aveva progettato il sistema dei computer per l'amministrazione dei programmi Medicare e Medicaid che adesso erano stati adottati in parecchi stati americani e costituivano la base dell'attività dell'EDS. A quei tempi aveva lavorato fino a ore impossibili, aveva passato settimane lontano da casa e aveva trasferito di qua e di là la sua famiglia. Paul si era impegnato non meno di lui quando la società aveva pochi dipendenti e pochissimo denaro, Paul aveva svolto il lavoro di tre ingegneri dei sistemi. Perot ricordava il primo contratto della società a New York, con la Pepsico; e Paul che arrivava a piedi da Manhattan attraverso il ponte di Brooklyn sotto la neve, per superare i picchetti - la fabbrica era in sciopero - e andare a lavorare. Perot doveva tirar fuori Paul e Bill. Doveva fare in modo che il governo degli Stati Uniti facesse pressione sugli iraniani con tutto il peso della sua influenza. Una volta l'America aveva chiesto l'aiuto di Perot, e lui aveva dedicato tre anni della sua vita - e parecchio denaro - alla campagna in favore dei prigionieri di guerra. Adesso sarebbe stato lui a chiedere aiuto all'America. Ripensò al 1969, quando la guerra nel Vietnam era al culmine. Alcuni suoi compagni dell'accademia navale erano stati uccisi o catturati: Bill Leftwich, buono, forte, generoso, era stato ucciso in combattimento a trentanove anni; Bill Lawrence era prigioniero dei nordvietnamiti. Per Perot era duro vedere il suo paese, il più grande del mondo, perdere una guerra per mancanza di volontà; ed era ancora più duro vedere milioni di americani protestare, non senza qualche giustificazione, che la guerra era sbagliata e che non doveva essere vinta. Poi, un giorno del 1969, aveva incontrato il piccolo Billy Singleton, un ragazzo che non sapeva se aveva ancora un padre. Il padre di Billy era disperso in Vietnam, e non aveva mai visto suo figlio; era impossibile sapere se era morto o prigioniero. Era stato straziante. Per Ross Perot, il sentimentalismo non era un'emozione triste, ma uno squillo di tromba che chiamava all'azione. Venne a sapere che la madre di Billy non era l'unica in quella situazione. C'erano centinaia di mogli e di figli i quali non sapevano se i rispettivi mariti e padri erano stati uccisi o semplicemente catturati. I vietnamiti rifiutavano di rivelare i nomi dei prigionieri, con la scusa che non erano vincolati dalla Convenzione di Ginevra perché gli Stati Uniti non avevano dichiarato guerra ufficialmente. E c'era di peggio: molti prigionieri stavano morendo per l'abbandono e i
maltrattamenti. Il presidente Nixon intendeva "vietnamizzare" il conflitto e disimpegnare le forze americane entro tre anni; ma entro quel periodo, secondo i rapporti della CIA, metà dei prigionieri sarebbero morti. Anche se il padre di Billy Singleton era vivo, forse non sarebbe sopravvissuto abbastanza a lungo per tornare a casa. Perot voleva fare qualcosa. L'EDS aveva buoni rapporti con la Casa Bianca. Perot andò a Washington e parlò con il consigliere per la politica estera, Henry Kissinger. E Kissinger aveva un piano. I vietnamiti andavano sostenendo, almeno ai fini propagandistici, che non avevano nulla contro il popolo americano... ce l'avevano solo con il governo degli Stati Uniti. E si presentavano al mondo come Davide in lotta contro Golia. Sembrava che ci tenessero molto alla loro immagine. Forse, pensava Kissinger, sarebbe stato possibile metterli in imbarazzo al punto di obbligarli a migliorare il trattamento dei prigionieri e a rivelare i loro nomi, per mezzo di una campagna internazionale che portasse a conoscenza del pubblico le sofferenze dei prigionieri e dei loro familiari. La campagna doveva essere finanziata privatamente e non doveva figurare collegata in qualche modo al governo, anche se in realtà sarebbe stata seguita attentamente da incaricati della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato. Perot accettò la sfida. (Non sapeva resistere alle sfide. La sua insegnante delle superiori, una certa signora Duck, l'aveva capito benissimo. «È un peccato» aveva detto la signora, «che tu non sia in gamba come i tuoi amici.» Il giovane Perot aveva ribattuto che lui lo era. «E allora perché non prendi voti migliori di loro?» Perché a loro la scuola interessava e a lui no, aveva detto Perot. «È troppo facile raccontare di essere capace di fare qualcosa» aveva risposto la signora Duck. «Ma diamo un'occhiata ai risultati: i tuoi amici Ci riescono e tu no.» Perot s'era sentito punto sul vivo, e aveva dichiarato che nelle sei settimane seguenti avrebbe preso il massimo dei voti. E li aveva presi, non soltanto per sei settimane, ma per tutto il resto degli studi alle superiori. L'acuta signora Duck aveva scoperto l'unico modo di manovrare Perot: sfidarlo.) Accettando la sfida di Kissinger, Perot si rivolse alla J. Walter Thompson, la più grande agenzia pubblicitaria del mondo, e spiegò quel che intendeva fare. Loro proposero di presentargli un piano per la campagna entro trenta-sessanta giorni e di mostrare qualche risultato entro un anno. Perot rifiutò: voleva incominciare quel giorno stesso e vedere i risultati l'in-
domani. Tornò a Dallas, radunò un piccolo gruppo di dirigenti dell'EDS che incominciarono a telefonare ai direttori dei quotidiani e a far pubblicare annunci molto semplici, scritti da loro stessi. E arrivarono camionate di lettere. Per gli americani che erano favorevoli alla guerra, il trattamento inflitto ai prigionieri confermava che i vietnamiti erano veramente carogne; e per quelli che erano contrari alla guerra, la situazione dei prigionieri era una ragione di più per abbandonare il Vietnam. Solo i contestatori più intransigenti si opponevano alla campagna. Nel 1970 l'FBI avvertì Perot che i vietcong avevano dato alle Pantere Nere l'ordine di assassinarlo. (Alla fine degli anni Sessanta una cosa simile non sembrava per nulla strana.) Perot si circondò di guardie del corpo. Qualche settimana dopo, un gruppo di uomini scavalcò la recinzione della sua proprietà a Dallas. Furono messi in fuga dai cani. I familiari di Perot, inclusa l'indomabile madre, dissero che non doveva rinunciare a concludere la campagna, neppure nell'interesse della loro sicurezza. Il suo maggiore colpo pubblicitario lo fece nel dicembre 1969, quando noleggiò due aerei e cercò di raggiungere Hanoi per portare pranzi natalizi ai prigionieri di guerra. Naturalmente non gli permisero di atterrare: ma in un periodo di fiacca per le notizie la cosa fece sensazione, e destò un grande interesse internazionale per il problema. Perot spese due milioni di dollari; ma calcolava che la pubblicità ottenuta ne valeva sessanta. E un sondaggio Gallup, da lui commissionato poco dopo, dimostrò che i sentimenti degli americani nei confronti dei nordvietnamiti erano, in maggioranza schiacciante, negativi. Nel 1970 Perot usò metodi meno spettacolari. In tutti gli Stati Uniti, le piccole comunità furono incoraggiate a lanciare campagne per i prigionieri di guerra. Fecero collette per mandare rappresentanti a Parigi a insistere presso la delegazione nordvietnamita. Organizzarono trasmissioni televisive e mostrarono ricostruzioni delle gabbie in cui vivevano alcuni prigionieri. Mandarono tante lettere di protesta ad Hanoi che l'organizzazione delle poste nordvietnamite crollò sotto la pressione. Perot girava per tutto il paese e teneva discorsi dovunque l'invitassero a farlo. S'incontrò nel Laos con i diplomatici nordvietnamiti, portando gli elenchi dei prigionieri tenuti nel sud, le loro lettere e i filmati che mostravano le condizioni in cui vivevano. Condusse con sé un dirigente della Gallup, e insieme discussero con i nordvietnamiti i risultati del sondaggio. Il sistema funzionò. Il trattamento dei prigionieri di guerra americani
migliorò, la posta e i pacchi incominciarono a essere consegnati, e i nordvietnamiti iniziarono a comunicare qualche nome. E soprattutto, i prigionieri vennero a sapere della campagna - da altri americani catturati di recente - e quelle notizie innalzarono il loro morale. Ora, otto anni più tardi, mentre si dirigeva verso Denver sotto la neve, Perot ricordava un'altra conseguenza della campagna: una conseguenza che allora era apparsa fastidiosa, ma che adesso poteva essere importante e preziosa. La pubblicità per i prigionieri di guerra era stata, inevitabilmente, anche una pubblicità per Ross Perot. Aveva acquisito una notorietà nazionale. Si ricordavano di lui negli ambienti del potere... soprattutto al Pentagono. La commissione di Washington che aveva seguito la sua campagna aveva incluso l'ammiraglio Tom Moorer, allora presidente dei Capi di Stato Maggiore; Alexander Haig, allora assistente di Kissinger ed ora comandante delle forze NATO; William Sullivan, allora viceassistente del segretario di Stato e adesso ambasciatore degli Stati Uniti a Teheran; e lo stesso Kissinger. Questi personaggi avrebbero aiutato Perot nei contatti con il governo, per scoprire che cosa stava succedendo e ottenere un rapido intervento. Avrebbe chiamato Richard Helms, che in passato era stato direttore della CIA e ambasciatore in Iran. Avrebbe chiamato Kermit Roosevelt, il figlio del presidente Theodore, il quale aveva partecipato al colpo di mano con cui la CIA aveva riportato sul trono lo scià nel 1953... Ma se tutto questo non fosse servito a niente? si chiese. Ross Perot aveva l'abitudine di considerare sempre tutte le eventualità. E se l'amministrazione Carter non avesse potuto o voluto aiutarlo? Allora, pensò, li tirerò fuori da quel carcere. Ma come ci riusciremo? Non abbiamo mai fatto una cosa simile. Come incominceremmo? Chi potrebbe aiutarci? Pensò ai dirigenti dell'EDS Merv Stauffer e T. J. Marquez e alla sua segretaria Sally Walther, che erano stati la chiave di volta dell'organizzazione della campagna per i prigionieri di guerra. Per loro, sbrigare le situazioni più complicate da un capo all'altro del mondo era una cosa normale, ma... organizzare un assalto a un carcere? E chi avrebbe preso parte alla missione? Dopo il 1968 gli addetti alle assunzioni dell'EDS avevano dato la preferenza ai reduci dal Vietnam - una politica che era iniziata per motivi patriottici ed era continuata quando Perot aveva constatato che spesso quei veterani diventavano uomini d'affari di prim'ordine - ma quelli che un tempo erano stati militari snelli, efficienti e bene addestrati adesso erano
dirigenti ingrassati e fuori forma, che si trovavano a loro agio più con un telefono che con un fucile. E chi avrebbe pianificato e diretto l'incursione? Trovare l'uomo più adatto per quel compito era la specialità di Perot. Sebbene fosse uno dei self-made men più noti nella storia del capitalismo americano, non era il più grande esperto di computer del mondo, né il miglior venditore, e neppure il più grande amministratore. Sapeva però fare una cosa in modo superbo: scegliere l'uomo giusto, mettergli a disposizione le risorse necessarie, motivarlo, e poi lasciarlo fare il suo lavoro. Ora, mentre si avvicinava a Denver, si domandava: Chi è il miglior specialista del mondo in salvataggi? E pensò a Bull Simons. Il colonnello Arthur D. Simons, detto "Bull" (il Toro), era una leggenda per l'esercito americano. Aveva fatto scalpore nel novembre 1970 quando con una squadra di commandos era piombato sul campo di prigionia di Son Tay, a trentasette chilometri da Hanoi, nel tentativo di liberare i prigionieri americani. Era stata un'operazione coraggiosa e ben organizzata, ma le informazioni su cui si basavano i piani erano inesatte: i prigionieri erano stati trasferiti e non si trovavano più a Son Tay. Il tentativo era stato considerato in genere come un fiasco, ma per Ross Perot quello era un giudizio ingiusto. Era stato invitato a incontrarsi con gli uomini di Son Tay, per innalzare il loro morale dicendo che c'era almeno un cittadino americano riconoscente per il coraggio che avevano dimostrato. Aveva trascorso una giornata a Fort Bragg nella Carolina del Nofd... e aveva conosciuto il colonnello Simons. Mentre scrutava la neve attraverso il parabrezza, Perot aveva l'impressione di rivedere Simons: un uomo grande e grosso sul metro e ottantacinque, e con le spalle possenti. I capelli corti erano bianchi, ma le sopracciglia folte erano ancora nere. Due rughe profonde erano incise agli angoli della bocca e gli conferivano un'espressione perennemente aggressiva. Aveva la testa grossa, le orecchie grandi, il mento deciso e le mani più poderose che Perot avesse mai visto. Sembrava scolpito in un blocco di granito. Dopo aver trascorso una giornata con lui, Perot aveva pensato: In un mondo popolato di imitazioni, lui è autentico. Quel giorno e poi negli anni seguenti Perot aveva appreso molte cose sul conto di Simons. Quello che lo colpiva di più era l'atteggiamento dei suoi uomini. A Perot ricordava un po' Vince Lombardi, il leggendario allenatore di Green Bay Packers: ispirava ai suoi uomini sentimenti che andavano
dalla paura al rispetto, all'ammirazione e all'affetto. Era un personaggio imponente e un comandante aggressivo - imprecava parecchio ed era capace di gridare a un soldato «Fai quello che dico io o ti spacco la testa!» - ma questo non bastava a spiegare l'ascendente che aveva su quei commandos composti di individui scettici e induriti dalle battaglie. Sotto la dura scorza esteriore c'era una personalità altrettanto dura. Quelli che avevano prestato servizio ai suoi ordini erano ben felici di raccontare aneddoti sul suo conto. Sebbene avesse un fisico taurino, il soprannome non derivava da questo bensì, secondo la leggenda, da un gioco in auge presso i rangers, chiamato Bull Pen, il recinto del toro. Si scavava una fossa profonda poco meno di due metri, e un uomo vi entrava. L'obiettivo del gioco consisteva nello scoprire quanti uomini ci volevano per buttare il primo fuori dalla fossa. Simons pensava che fosse un gioco molto stupido, ma una volta l'avevano indotto a partecipare. C'erano voluti quindici uomini per tirarlo fuori, e alcuni di loro erano finiti all'ospedale con qualche dito fratturato o il naso rotto e morsicature piuttosto serie. Da quella volta Simons era stato soprannominato "The Bull", il Toro. In seguito, Perot era venuto a sapere che quell'aneddoto era esagerato. Simons aveva partecipato al gioco più di una volta; di solito ci volevano quattro uomini per tirarlo fuori; e nessuno aveva mai subito fratture. Ma Simons era quel tipo d'uomo intorno al quale fioriscono le leggende. Conquistava la devozione dei suoi uomini non con gesti temerari ma con le sue doti di comandante. Faceva i piani con meticolosità e infinita pazienza; era prudente... una delle sue frasi preferite era: «Questo è un rischio che non dobbiamo correre». E il massimo motivo d'orgoglio, per lui, era portare indietro vivi tutti i suoi uomini da una missione. Nel conflitto vietnamita Simons aveva diretto l'Operazione Stella Bianca. Era andato nel Laos con 107 uomini e aveva organizzato dodici battaglioni di uomini delle tribù dei mao per combattere i vietnamiti. Uno di questi battaglioni aveva disertato passando al nemico e portando via prigionieri alcuni Berretti Verdi di Simons. Simons era partito con un elicottero ed era atterrato nel recinto dove si trovava il battaglione dei disertori. Quando vide Simons, il colonnello laotiano si fece avanti e lo salutò sull'attenti. Simons gli disse di consegnargli immediatamente i prigionieri, altrimenti avrebbe ordinato un attacco aereo e avrebbe fatto annientare l'intero battaglione. Il colonnello consegnò i prigionieri. Simons se li portò via, poi ordinò egualmente l'attacco aereo. Tre anni dopo, ripartì dal Laos con tutti i suoi 107 uomini. Perot non aveva mai indagato per accertare se quel-
la leggenda era vera... gli piaceva così. Ross Perot aveva incontrato Simons per la seconda volta dopo la guerra. Aveva virtualmente occupato un albergo a San Francisco e aveva organizzato una festa nella quale gli ex prigionieri di guerra tornati in patria avrebbero fatto conoscenza con gli uomini dell'incursione di Son Tay. A Perot era costata duecentocinquantamila dollari, ma era stata una festa grandiosa. Vi avevano partecipato Nancy Reagan, Clint Eastwood e John Wayne. Perot non avrebbe mai dimenticato l'incontro tra John Wayne e Bull Simons. Wayne aveva stretto la mano a Simons con le lacrime agli occhi e aveva detto: «Lei è l'uomo che io interpreto nei film». Prima della sfilata, Perot invitò Simons a parlare ai suoi e a raccomandare loro di non reagire contro i dimostranti. «A San Francisco ci sono state fin troppe dimostrazioni contro la guerra» aveva detto Perot. «E lei non ha certo scelto i suoi uomini per le loro buone maniere. Se uno di quelli si arrabbia troppo, è capace di torcere il collo a qualcuno.» Simons guardò Perot. Per Ross era stata la prima esperienza dell'occhiata del Toro. Ti faceva sentire come se fossi il più grosso idiota della storia; ti faceva pentire di avere aperto bocca. Avresti voluto sprofondare sottoterra.» «Ho già parlato con loro» disse Simons. «Non creeranno problemi.» Durante quel weekend e in seguito, Perot aveva imparato a conoscere meglio Simons e a scoprire altri aspetti della sua personalità. Simons, quando voleva, sapeva essere accattivante. Margot Perot ne fu incantata, e i figli di Perot lo giudicarono meraviglioso. Con i suoi uomini parlava da soldato a soldato, e non risparmiava le imprecazioni, ma era eloquente e forbito quando parlava a un banchetto o a una conferenza stampa. All'università aveva seguito un corso di giornalismo. Alcuni dei suoi gusti erano semplici - leggeva i western a carrettate e preferiva quella che i suoi figli chiamavano "musica da supermarket" - ma leggeva anche moltissimi libri di saggistica e s'interessava un po' a tutto. Sapeva parlare di storia o di antiquariato come parlava di battaglie e di armi. Perot e Simons, che avevano due personalità volitive e dominanti, andavano d'accordo, ma a una certa distanza. Non erano diventati amici intimi. Perot non chiamava mai Simons per nome, Art, sebbene Margot lo facesse. Come la maggioranza della gente, Perot non sapeva mai che cosa pensasse Simons, a meno che glielo dicesse lui. Ricordava bene il loro primo incontro a Fort Bragg. Prima di alzarsi per tenere il discorso, aveva chiesto a Lucille, la moglie di Simons: «Com'è esattamente il colonnello Simons?».
E la signora aveva risposto: «Oh, è solo un orsacchiotto grande e grosso». Perot aveva ripetuto quella battuta nel suo discorso e i reduci dell'incursione a Son Tay avevano riso da spanciarsi. Simons non aveva neppure sorriso. Perot non sapeva se quell'uomo impenetrabile avrebbe accettato di strappare due dirigenti dell'EDS a un carcere persiano. Simons era grato per la festa di San Francisco? Forse. Dopo quell'occasione, Perot aveva finanziato un viaggio del colonnello nel Laos, dove intendeva cercare i militari americani dispersi... quelli che non erano rientrati con gli ex prigionieri. Quando era tornato dal Laos, Simons aveva confidato ad alcuni dirigenti dell'EDS: «È molto difficile dire di no a Perot.» Mentre entrava nell'aeroporto di Denver, Perot si chiese se adesso, dopo sei anni, Simons pensava ancora che fosse molto difficile dirgli di no. Ma quella era ancora un'eventualità remota. Prima, Perot avrebbe tentato ogni altro mezzo. Prenotò un posto sul primo volo per Dallas e cercò un telefono. Chiamò l'EDS e parlò con T.J. Marquez, uno dei dirigenti più anziani, che veniva chiamato T.J. anziché Tom perché all'EDS i Tom erano numerosi. «Voglio che mi trovi il mio passaporto» disse a T.J., «e mi procuri il visto per l'Iran.» «Credo che questa sia una pessima idea, Ross» obiettò T.J. A lasciarlo fare, T.J. avrebbe discusso fino a notte. «Non ho intenzione di discuterne» rispose seccamente Perot. «Sono stato io a convincere Paul e Bill ad andare là, e adesso li tirerò fuori.» Riattaccò e si avviò verso il cancello. Tutto sommato, era stato un gran brutto Natale. T.J. era un po' offeso. Era un vecchio amico di Perot, e vicepresidente dell'EDS, e non era abituato a sentirsi trattare come un fattorino. Era un difetto abituale di Perot: quando ingranava le marce alte, pestava i piedi alla gente e neppure se ne accorgeva. Era un uomo straordinario, ma non era un santo. Anche Ruthie Chiapparone aveva passato un brutto Natale. Era ospite dei genitori, in una casa quasi centenaria nella parte sud-ovest di Chicago. Nella fretta dell'evacuazione dall'Iran aveva abbandonato quasi tutti i regali natalizi che aveva comprato per le figlie, Karen di undici anni e Ann Marie di cinque; ma poco dopo l'arrivo a Chicago era andata per ne-
gozi con il fratello Bill e ne aveva acquistati altri. La sua famiglia aveva fatto tutto il possibile per darle un lieto Natale. La sorella e i tre fratelli erano venuti a trovarla, e avevano portato altri giocattoli per Karen e Ann Marie: ma tutti chiedevano di Paul. Ruthie aveva bisogno di Paul, Era una donna dolce e fragile, di cinque anni più giovane del marito, e lo amava anche perché sapeva di potersi sentire sicura appoggiandosi a lui. Era sempre stata circondata da premure. Da bambina, quando sua madre era fuori al lavoro - per integrare la paga del padre camionista - Ruthie aveva avuto due fratelli maggiori e una sorella che si prendevano cura di lei. La prima volta che aveva incontrato Paul, lui non le aveva badato. Lei era la segretaria d'un colonnello; Paul lavorava come esperto di computer per l'esercito, nello stesso palazzo. Ruthie scendeva spesso alla mensa per prendere il caffè per il colonnello; alcune sue amiche conoscevano i giovani ufficiali, e lei si era seduta con loro. Paul era lì e non le aveva badato. Perciò Ruthie non aveva badato a lui, per qualche tempo, e poi all'improvviso Paul le aveva chiesto un appuntamento. Erano usciti insieme per un anno e mezzo e poi si erano sposati. Ruthie non avrebbe voluto saperne di andare in Iran. A differenza di quasi tutte le "altre mogli dell'EDS" che avevano giudicato affascinante la prospettiva di trasferirsi in un altro paese, Ruthie si era preoccupata. Non aveva mai lasciato gli Stati Uniti - le Hawaii erano il posto più lontano che avesse visitato - e il Medio Oriente le faceva paura. Paul l'aveva portata in Iran per una settimana nel giugno 1977, sperando che le piacesse, ma lei non si era tranquillizzata. Alla fine s'era rassegnata a partire, ma solo perché quell'incarico era troppo importante per il marito. Alla fine, comunque, si era trovata bene. Gli iraniani s'erano comportati con gentilezza, la comunità americana era molto unita e socievole, e il carattere sereno di Ruthie l'aveva aiutata ad affrontare con calma gli inconvenienti quotidiani della vita in un paese primitivo, come la mancanza dei supermercati e l'impossibilità di ottenere che una lavatrice venisse riparata in meno di sei settimane. La partenza era stata stranissima. L'aeroporto era strapieno: c'era una folla incredibile. Aveva riconosciuto molti degli americani, ma la maggioranza era formata da iraniani che fuggivano dal loro paese. Aveva pensato: "Non voglio andarmene così... perché ci costringete a partire? Che cosa fate?". Aveva viaggiato con la moglie di Bill Gaylord, Emily. Erano passati da Copenhagen, e vi avevano trascorso una notte al freddo in un albergo
dove le finestre non chiudevano bene: i bambini avevano dovuto dormire vestiti. Quando era arrivata negli Stati Uniti, Ross Perot l'aveva chiamata e aveva parlato del problema del passaporto, ma Ruthie non era riuscita a rendersi conto esattamente di quello che stava succedendo. Durante quel deprimente Natale - era così assurdo passare il Natale con le figlie e senza il marito - Paul aveva telefonato da Teheran. «Ho un regalo per te» le aveva detto. «Il tuo biglietto per l'aereo?» aveva chiesto lei, piena di speranza. «No. Ti ho comprato un tappeto.» «Oh. Bello.» Paul le disse che aveva trascorso la giornata con Pat e Mary Sculley. Era stata la moglie di un altro a preparargli il pranzo natalizio, e lui aveva guardato i figli di qualcun altro aprire i pacchi dei regali. Due giorni dopo, Ruthie aveva saputo che Paul e Bill avevano un appuntamento per l'indomani con il magistrato che li costringeva a restare in Iran. Dopo quell'incontro li avrebbero lasciati partire. L'incontro era per oggi, 28 dicembre. A mezzogiorno, Ruthie cominciò a chiedersi come mai nessuno l'avesse ancora chiamata da Dallas. Teheran era otto ore e mezzo più avanti di Chicago: senza dubbio il colloquio si era concluso. Ormai Paul doveva essere occupato a fare la valigia per tornare in patria. Chiamò Dallas e parlò con Jim Nyfeler, il dirigente dell'EDS che aveva lasciato Teheran nel giugno precedente. «Com'è andato l'incontro?» gli chiese. «Non molto bene, Ruthie...» «Come sarebbe a dire, non è andato molto bene?» «Li hanno arrestati.» «Arrestati? Stai scherzando?» «Ruthie, Bill Gayden vuol parlare con te.» Ruthie rimase in linea. Paul arrestato? Perché? Per quale ragione? Da chi? Gayden, presidente dell'EDS World e superiore diretto di Paul, venne all'apparecchio. «Ciao, Ruthie.» «Bill, cos'è successo?» «Non riusciamo a capirlo» disse Gayden. «È stata la nostra ambasciata a combinare l'incontro, e doveva essere una formalità, non erano accusati di niente... Poi, verso le sei e mezzo locali, Paul ha telefonato a Lloyd Briggs e gli ha detto che stavano per portarli in carcere.»
«Paul è in carcere?» «Ruthie, cerca di non preoccuparti troppo. Abbiamo messo in moto gli avvocati, stiamo interessando il Dipartimento di Stato e Ross è già in viaggio dal Colorado. Siamo sicuri che riusciremo a sbrogliare tutto in un paio di giorni. È solo questione di giorni, davvero.» «Va bene» disse Ruthie. Era stordita. Non aveva senso. Com'era possibile che suo marito fosse in carcere. Salutò Gayden e riattaccò. Che cosa stava succedendo? L'ultima volta che Emily Gaylord aveva visto suo marito Bill, gli aveva tirato un piatto. Mentre, nella casa di sua sorella Dorothy a Washington, parlava con Dorothy e il cognato di quello che avrebbero potuto fare per contribuire a far rilasciare Bill, non riusciva a dimenticare quel piatto. Era accaduto a casa loro, a Teheran. Una sera, all'inizio di dicembre, Bill era rientrato e aveva detto che lei e i bambini dovevano partire il giorno dopo per gli Stati Uniti. Bill ed Emily avevano quattro figli: Vicki, quattordici anni; Jackie, dodici; Jenny, nove; e Chris, sei. Emily riteneva che fosse giusto rimandarli in patria, ma lei voleva restare. Forse non avrebbe potuto far nulla per aiutare Bill, ma almeno lui avrebbe avuto qualcuno con cui parlare. Niente da fare, disse Bill. Doveva partire l'indomani. Ruthie Chiapparone sarebbe stata sullo stesso aereo. Tutti gli altri, mogli e figli dei dipendenti dell'EDS, sarebbero stati evacuati entro un giorno o due. Emily non voleva sentir parlare di quello che facevano le altre mogli. Lei voleva restare con suo marito. Discussero. Emily si arrabbiò, e alla fine non trovò più le parole per esprimere la sua frustrazione, e perciò prese un piatto e lo tirò a Bill. Lui non l'avrebbe mai dimenticato, ne era sicura; era stata l'unica volta che era esplosa in quel modo, in diciotto anni di matrimonio. Era energica, nervosa, eccitabile... ma non violenta. Povero Bill, così gentile e mite: era l'ultima cosa che meritava. Si erano conosciuti quando lei aveva dodici anni e lui quattordici, e l'aveva subito odiato. Bill era innamorato della migliore amica di Emily, Cookie, una ragazzina molto graziosa, e apriva bocca solo per chiedere con chi usciva Cookie, e se Cookie avrebbe accettato di uscire con lui, e se Cookie poteva fare questo o quello. Le sorelle e il fratello di Emily, invece, avevano simpatia per Bill. Lei non riusciva a evitarlo, perché le due
famiglie frequentavano lo stesso country club, e suo fratello giocava a golf con Bill. Alla fine era stato suo fratello a convincere Bill a invitare fuori Emily, molto tempo dopo che aveva dimenticato Cookie; e dopo anni di reciproca indifferenza, si erano innamorati pazzamente. A quel tempo Bill andava all'università e studiava ingegneria aeronautica a Blacksburg, in Virginia, a 385 chilometri di distanza, e tornava a casa solo per le vacanze e a volte per il fine settimana. Non sopportavano quella lontananza e, sebbene Emily avesse soltanto vent'anni, avevano deciso di sposarsi. Era stato un matrimonio felice. Provenivano dallo stesso ambiente, da due ricche famiglie cattoliche di Washington, e la personalità calma, logica, sensibile di Bill s'integrava bene con la vivacità nervosa di Emily. Nei diciotto anni successivi avevano dovuto soffrire molto. Avevano perso un figlio per una lesione cerebrale, e per tre volte Emily aveva subito gravi interventi chirurgici. Quelle traversie li avevano avvicinati ancora di più. E adesso c'era una nuova crisi: Bill era in carcere. Emily non l'aveva ancora detto alla madre. Il fratello della madre, lo zio Gus, era morto quel giorno, e la signora era già sconvolta. Emily non poteva parlarle di Bill. Ma poteva parlarne con Dorothy e Tim. Il cognato, Tim Reardon, era procuratore al Dipartimento della Giustizia e aveva molte amicizie influenti. Il padre di Tim era stato assistente del presidente John F. Kennedy, e Tim aveva lavorato per Ted Kennedy; inoltre, conosceva personalmente il presidente della Camera dei Rappresentanti, Thomas P. "Tip" O'Neill, e il senatore del Maryland Charles Mathias. Era informato del problema del passaporto, perché Emily gliene aveva parlato non appena era arrivata a Washington da Teheran, e lui ne aveva discusso con Ross Perot. «Potrei scrivere una lettera al presidente Carter e pregare Ted Kennedy di consegnargliela personalmente» stava dicendo Tim. Emily annuì. Stentava a concentrarsi. Si domandava che cosa stava facendo Bill in quel momento. Paul e Bill erano nella cella numero 9, infreddoliti, allibiti, e ansiosi di sapere che cosa sarebbe accaduto. Paul si sentiva molto vulnerabile: un americano che conosceva poche parole di Farsi di fronte a un gruppo di detenuti che sembravano teppisti e assassini. All'improvviso ricordò di aver letto che spesso nelle prigioni gli uomini venivano violentati, e si chiese cupamente se poteva accadere an-
che a lui una cosa simile. Paul guardò Bill. Era sbiancato per la tensione. Uno dei detenuti disse qualcosa in Farsi. Paul disse: «C'è qualcuno qui che parla inglese?». Da un'altra cella, dalla parte opposta del corridoio, una voce disse: «Io parlo inglese». Ci fu una rapida conversazione urlata in Farsi, poi l'interprete gridò: «Che cosa avete fatto?». «Non abbiamo fatto niente.» «Di che cosa vi hanno accusati?» «Di niente. Siamo soltanto uomini d'affari americani, con mogli e figli, e non sappiamo neppure perché ci hanno arrestati.» La risposta venne tradotta. Ci fu un altro dialogo in Farsi, poi l'interprete disse: «Quello che ha parlato con me è il capo della vostra cella, perché è qui da più tempo». «Abbiamo capito» disse Paul. «Vi dirò dove dovrete dormire.» La tensione s'era un po' attenuata, mentre parlavano. Paul si guardò intorno. Le pareti di cemento erano state color arancio, un tempo, ma adesso erano semplicemente sporche. Una specie di stuoia copriva il pavimento. Intorno alla cella c'erano sei gruppi di brande a castello, tre una sopra l'altra; la più bassa era poco più di un sottile materasso sul pavimento. C'era un'unica lampadina molto fioca e una grata lasciava entrare l'aria gelida della notte. La cella era affollata. Dopo un po' arrivò una guardia, aprì la porta e accennò a Paul e Bill di uscire. È fatta, pensò Paul: ci rilasceranno. Grazie a Dio non dovrò passare una notte in questo posto orrendo. Seguirono la guardia al piano di sopra, in una stanzetta. La guardia indicò le loro scarpe. Dovevano toglierle. La guardia consegnò a ognuno di loro un paio di pantofole di plastica. Con profonda amarezza Paul comprese che non li avrebbero rilasciati e che avrebbe dovuto passare una notte in cella. Pensò con rabbia a quelli dell'ambasciata: loro avevano combinato l'incontro con Dadgar, loro avevano sconsigliato di portare un avvocato, loro avevano detto che Dadgar era "ben disposto". Ross Perot avreboe commentato: "Certa gente non sa neppure organizzare un funerale con due macchine." Un commento che si
attagliava al personale dell'ambasciata. Erano incompetenti. Senza dubbio, pensò Paul, dopo tutti gli errori che hanno commesso, dovrebbero precipitarsi qui stanotte e cercare di farci uscire Misero le pantofole di plastica e la guardia li ricondusse nel seminterrato. Gli altri detenuti si accingevano a dormire, sdraiandosi sulle brande e avvoltolandosi nelle leggere coperte di lana. Il capocella,? segni, mostrò a Paul e Bill dove dovevano mettersi: Bill nella branda centrale d'un castello, Paul sotto di lui, sul materasso sottile appoggiato al pavimento. Si sdraiarono. La luce restò accesa, ma era così fioca che non dava fastidio. Dopo un po', Paul non badò più all'odore; ma non riusciva ad abituarsi al freddo. Con il pavimento di cemento, la finestra aperta e senza riscaldamento, era come dormire all'aperto. Che vita terribile, quella dei delinquenti, pensò Paul, se devono sopportare condizioni simili. Per fortuna non sono un delinquente. Una notte così basta e avanza. Ross Perot prese un taxi all'aeroporto di Dallas-Fort Worth e si fece portare alla sede centrale dell'EDS, al 7171 di Forest Lane. Al cancello abbassò il vetro perché le guardie lo vedessero, poi si riassestò sul sedile mentre il taxi procedeva lungo il viale che attraversava il parco. Un tempo, quella era stata la sede di un country club, e il parco era stato il campo di golf. Davanti a lui torreggiava la sede dell'EDS, una costruzione a sette piani, e accanto sorgeva un bunker a prova di uragano che ospitava gli immensi computer con le loro migliaia di chilometri di nastri magnetici. Perot pagò il taxista, entrò nel palazzo, salì in ascensore al quarto piano ed entrò nell'ufficio d'angolo di Gayden. Gayden era alla scrivania. Gayden riusciva sempre ad avere l'aria disordinata, a dispetto dei regolamenti dell'azienda. Si era tolto la giacca, aveva allentato la cravatta e sbottonato il colletto. Era spettinato e una sigaretta gli pendeva dall'angolo della bocca. Si alzò quando vide entrare Perot. «Ross, come sta tua madre?» «È su di morale, grazie.» «Oh, bene.» Perot sedette. «Come andiamo con Paul e Bill?» Gayden prese il telefono e disse: «Aspetta, chiamo T.J.». Fece il numero di T.J. Marquez. «C'è qui Ross... Sì. Nel mio ufficio.» Riattaccò. «Viene subito. Ho chiamato il Dipartimento di Stato. Il capo dell'Ufficio Iran è un certo Henry Precht. In un primo momento non voleva neppure rispondere.
Ho detto alla segretaria: «"Se non mi richiama entro venti minuti, telefonerò alla CBS, all'ABC e all'NBS, ed entro un'ora Ross Perot terrà una conferenza stampa per annunciare che in Iran due americani sono nei guai e il nostro paese non vuole aiutarli". Mi ha richiamato dopo cinque minuti.» «Che cos'ha detto?» Gayden sospirò. «Ross, loro pensano che se Paul e Bill sono stati arrestati, devono aver combinato qualcosa.» «Ma che cosa intendono fare?» «Mettersi in contatto con l'ambasciata, vedere come stanno le cose e blabla-bla.» «Bene, dobbiamo mettere un razzo sotto la coda di Precht» disse rabbiosamente Perot. «E l'uomo adatto è Tom Luce.» Luce, un avvocato giovane e battagliero, era il fondatore dello studio legale Hughes e Hill, che si occupava di quasi tutte le pratiche dell'EDS. Perot lo aveva scelto come avvocato dell'EDS anni prima, soprattutto perché simpatizzava con un giovane che, come lui, aveva abbandonato una grande azienda per mettersi in proprio e lottava per pagare i conti. Lo studio Hughes e Hill, come l'EDS, s'era affermato rapidamente e Perot non aveva mai dovuto pentirsi di aver dato fiducia a Luce. Gayden disse: «Luce è già qui, da qualche parte». «E Tom Walter?» «È qui anche lui.» Walter, un alabamiano alto dalla voce morbida, era il dirigente finanziario dell'EDS e, da un punto di vista intellettuale, era forse l'uomo più in gamba della società. Perot disse: «Voglio che Walter esamini la questione della cauzione. Non vorrei pagarla, ma se sarà necessario lo farò. Walter dovrebbe studiare il sistema del pagamento. C'è da scommettere che quelli non accetteranno un pezzo di carta dell'American Express». «Sta bene» disse Gayden. «Salve, Ross» disse una voce. Perot si voltò e vide T.J. Marquez. «Salve, Tom.» T.J. era un uomo alto e snello, sulla quarantina, di bell'aspetto e dall'aria molto spagnola: carnagione olivastra, capelli neri e ricci e un gran sorriso che metteva in mostra i denti candidi. Era il primo dipendente che Perot aveva assunto, ed era la prova vivente che lui aveva lo strano dono di saper scegliere uomini in gamba. Adesso T.J. era uno dei vicepresidenti dell'EDS, e possedeva azioni della società per svariati milioni di dollari. «Il signore è stato buono con noi» diceva spesso. Perot sapeva che i genitori di T.J. s'erano addossati
gravi sacrifici per farlo studiare. Ma ne era valsa la pena. Una delle maggiori soddisfazioni che il successo dell'EDS dava a Perot era dividere il trionfo con uomini come T.J. T.J. sedette e cominciò a riferire in fretta. «Ho chiamato Claude.» Perot annuì. Claude Chappelear era il capo dell'ufficio legale dell'EDS. «Claude è in buoni rapporti con Matthew Nimetz, l'avvocato del segretario di Stato, Vance. Ho pensato che Claude potesse convincere Nimetz a parlare personalmente a Vance. Poco dopo Nimetz mi ha chiamato: è disposto ad aiutarci. Manderà un cablo, a nome di Vance, all'ambasciata a Teheran, per dire che si diano una mossa; e sottoporrà un appunto a Vance a proposito di Paul e Bill.» «Bene.» «Abbiamo chiamato anche l'ammiraglio Moorer. Si darà da fare perché l'avevamo già consultato per il problema dei passaporti. Moorer ne parlerà con Ardeshir Zahedi. Ora, Zahedi non è soltanto l'ambasciatore iraniano a Washington, ma è anche cognato dello scià, e adesso è tornato in Iran... a tenere in pugno il paese, dicono alcuni. Moorer chiederà a Zahedi di garantire per Paul e Bill. Stiamo preparando un cablo per Zahedi, da mandare al ministero della Giustizia.» «Chi lo sta preparando?» «Tom Luce.» «Bene.» Perot fece un riepilogo. «Abbiamo interessato alla cosa il segretario di Stato, il capo dell'ufficio Iran, l'ambasciata e l'ambasciatore dell'Iran. Molto bene. Adesso vediamo che altro possiamo fare.» T.J. disse: «Tom Luce e Tom Walter hanno preso un appuntamento con l'ammiraglio Moorer a Washington, domani. Moorer ha consigliato di chiamare anche Richard Helms - è stato ambasciatore in Iran, dopo aver lasciato la CIA». «Chiamerò Helms» disse Perot. «E chiamerò Al Haig ed Henry Kissinger. Voglio che voi due vi occupiate di portar fuori dall'Iran tutti i nostri.» Gayden disse: «Ross, non sono sicuro che sia necessario...». «Non intendo discutere, Bill» ribàtté Perot. «Diamoci da fare. Ora, Lloyd Briggs deve restare là e occuparsi del problema, il capo è lui, dato che Paul e Bill sono in prigione. Tutti gli altri devono rientrare.» «Non puoi costringerli, se non vogliono» disse Gayden. «E chi vorrà restare?» «Rich Gallagher. Sua moglie...» «Lo so. Sta bene, Briggs e Gallagher resteranno. Gli altri no.» Perot si
alzò. «Incomincerò a fare le telefonate.» Prese l'ascensore per il sesto piano e attraversò l'ufficio della segretaria. Sally Walther era alla scrivania. Era con lui da anni, e aveva partecipato attivamente alla campagna per i prigionieri di guerra e alla festa di San Francisco. (Era tornata da quel weekend con uno degli uomini di Son Tay, il capitano Udo Walther, che adesso era suo marito.) Perot le disse: «Mi chiami Henry Kissinger, Alexander Haig e Richard Helms». Andò nel suo ufficio e sedette alla scrivania. L'ufficio, con le pareti rivestite da pannelli di legno, il lussuoso tappeto e gii scaffali pieni di libri d'antiquariato, sembrava piuttosto la biblioteca d'una ricca casa di campagna inglese. Lì era circondato da souvenirs e dalle sue opere d'arte predilette. Margot acquistava quadri impressionisti, ma Perot preferiva l'arte americana: originali di Norman Rockwell e bronzi western di Frederic Remington. Dalla finestra vedeva i pendii del vecchio campo di golf. Perot non sapeva dove fosse andato Kissinger a passare le vacanze: forse Sally avrebbe impiegato un po' a rintracciarlo. Aveva tempo di pensare a quel che avrebbe dovuto dire. Kissinger non era un amico intimo. Avrebbe dovuto usare tutta la sua abilità per ottenere l'attenzione dell'ex segretario di Stato e, nel corso di una breve telefonata, conquistare la sua solidarietà. L'apparecchio sulla scrivania ronzò e Sally disse: «C'è in linea Henry Kissinger». Perot prese la chiamata. «Ross Perot.» «Le passo Henry Kissinger.» Perot attese. Una volta, Kissinger era stato definito l'uomo più potente del mondo. Conosceva personalmente lo scià. Ma era possibile che ricordasse Ross Perot? La campagna in favore dei prigionieri di guerra era stata clamorosa, ma i progetti di Kissinger erano stati ancora più grandi: la pace nel Medio Oriente, il riavvicinamento tra Stati Uniti e Cina, la fine del conflitto nel Vietnam... «Qui Kissinger.» Era la voce profonda e riconoscibile, con un accento che mescolava curiosamente le vocali americane e le consonanti tedesche. «Dottor Kissinger, sono Ross Perot. Sono un uomo d'affari di Dallas, Texas, e...» «Diamine, Ross, so benissimo chi è» disse Kissinger. Il cuore di Perot fece un balzo. La voce di Kissinger era amichevole, calda. Magnifico! Cominciò a parlargli di Paul e Bill; erano andati spontaneamente a parlare con Dadgar, e il Dipartimento di Stato li aveva abban-
donati alla loro sorte. Assicurò a Kissinger che erano innocenti, e fece notare che non erano state formulate accuse, e che gli iraniani non avevano fornito neppure una prova contro di loro. «Sono miei collaboratori, sono stato io a mandarli là, e devo trovare il modo di liberarli.» «Vedrò che cosa posso fare» disse Kissinger. Perot era esultante. «Gliene sarei molto grato.» «Mi mandi un breve promemoria con tutti i particolari.» «Glielo faremo avere oggi stesso.» «La richiamerò, Ross.» «Grazie, dottor Kissinger.» Il telefono tacque. Perot si sentiva euforico. Kissinger si ricordava di lui e s'era impegnato ad aiutarlo. Voleva un promemoria: l'EDS avrebbe potuto inviarlo quel giorno stesso... Perot fu colpito da un pensiero. Non sapeva da dove l'avesse chiamato Kissinger... poteva essere a Londra, a Montecarlo, in Messico... «Sally?» «Sì, signore?» «Ha scoperto dov'è Kissinger?» «Sì, signore.» Kissinger era a New York, nel suo appartamento del lussuoso complesso della River House, sulla 52a Strada Est. Dalla finestra vedeva l'East River. Ricordava bene Ross Perot. Perot era un diamante grezzo. Si batteva per le cause che Kissinger approvava, e che di solito riguardavano i prigionieri. Durante il conflitto nel Vietnam, la campagna di Perot era stata coraggiosa, anche se qualche volta aveva assillato Kissinger chiedendogli l'impossibile. E adesso erano prigionieri alcuni collaboratori di Perot. Kissinger non stentava a credere che fossero innocenti. L'Iran era sull'orlo della guerra civile: là, ormai, la giustizia e la regolarità dei processi non avevano più significato. Si chiese se poteva rendersi utile. Voleva farlo: era una causa giusta. Non era più il segretario di Stato, ma aveva ancora molti amici. Avrebbe chiamato Ardeshir Zahedi, decise, non appena fosse arrivato il promemoria da Dallas. Perot era soddisfatto della conversazione con Kissinger. Diamine, Ross, so benissimo chi è. Questo valeva più di tutto l'oro del mondo. L'unico
vantaggio, quando si era famosi, era che a volte questo aiutava a ottenere cose importanti. Entrò T.J. «Ho il tuo passaporto» disse. «Ha già il visto d'entrata per l'Iran ma, Ross, penso che non dovresti andare. Tutti noi, qui, possiamo darci da fare, ma l'uomo chiave sei tu. Non ci mancherebbe altro che tu fossi lontano - a Teheran o su un aereo - nel momento in cui dovessimo prendere una decisione cruciale.» Perot aveva dimenticato l'intenzione di andare a Teheran. Tutto ciò che aveva sentito durante quell'ultima ora lo induceva a pensare che non sarebbe stato necessario. «Forse hai ragione» disse a T.J. «Abbiamo tante cose in ballo... basta che ne funzioni una sola. Non andrò a Teheran. Per il momento.» Henry Precht era probabilmente l'uomo più indaffarato di Washington. Da molto tempo era funzionario del Dipartimento di Stato; amava l'arte e la filosofia e aveva un senso dell'humor un po' pazzo. Aveva fatto lui la politica americana in Iran, più o meno da solo, per gran parte del 1978 mentre i suoi superiori - incluso il presidente Carter - erano tutti presi dall'accordo di Camp David tra l'Egitto e Israele. Dall'inizio di novembre, quando in Iran la situazione aveva incominciato a diventare scottante, Precht lavorava sette giorni la settimana, dalle otto del mattino alle nove di sera. E quei maledetti texani sembravano convinti che non avesse nient'altro da fare che parlare al telefono con loro. Il guaio era che la crisi iraniana non era l'unica lotta per il potere di cui Precht doveva preoccuparsi. Ce n'era un'altra in corso a Washington, tra il segretario di Stato Cyrus Vance - il superiore di Precht - e Zbigniew Brzezinski, il consigliere presidenziale per la Sicurezza Nazionale. Vance riteneva, come il presidente Carter, che la politica estera degli Stati Uniti dovesse rispecchiare la morale americana. Il popolo americano credeva nella libertà, nella giustizia e nella democrazia, e non voleva sostenere i tiranni. Lo scià dell'Iran era un tiranno. Amnesty International aveva affermato che per quanto riguardava i diritti umani l'Iran era il disonore del mondo, e i numerosi rapporti circa l'uso sistematico della tortura da parte dello scià erano stati confermati dalla Commissione Internazionale dei Giuristi. Dato che la CIA aveva riportato al potere lo scià e gli Stati Uniti l'aiutavano a restarci, un presidente che parlava tanto dei diritti umani doveva fare qualcosa. Nel gennaio 1977 Carter aveva fatto capire che ai tiranni poteva venire
negato l'aiuto americano. Carter era indeciso - più tardi, quello stesso anno, aveva visitato l'Iran colmando di elogi lo scià - ma Vance era un convinto sostenitore dei diritti umani. Zbigniew Brzezinski non lo era. Il consigliere per la Sicurezza Nazionale credeva nella forza. Lo scià era alleato degli Stati Uniti e quindi bisognava appoggiarlo. Certo, si doveva indurlo a smettere di torturare la gente... ma non adesso. Il suo regime era attaccato: non era quello il momento di liberalizzarlo. E quando sarebbe venuto il momento? chiedeva la fazione di Vance. Lo scià era stato forte per gran parte dei suoi venticinque anni di regno, ma non aveva mai dimostrato inclinazioni verso un governo moderato. Brzezinski ribatteva: «E voi citatemi un solo governo moderato in quella parte del mondo». Nell'amministrazione Carter alcuni erano convinti che se l'America non sosteneva la libertà e la democrazia non aveva senso avere una politica estera. Ma questa era una presa di posizione piuttosto estremista, e quindi ripiegavano su un argomento più pratico: il popolo iraniano ne aveva abbastanza dello scià e si sarebbe sbarazzato di lui qualunque cosa pensasse Washington. Sciocchezze, diceva Brzezinski. Leggete la storia. Le rivoluzioni riescono quando i regimi fanno concessioni, e falliscono quando il potere schiaccia i ribelli con il pugno di ferro. L'esercito iraniano, forte di quattrocentomila uomini, poteva reprimere facilmente qualunque rivolta. La fazione di Vance - alla quale apparteneva anche Henry Precht - non era d'accordo con la Teoria delle Rivoluzioni esposta da Brzezinski: i tiranni minacciati fanno concessioni perché i ribelli sono forti, e non viceversa, dicevano. E soprattutto, non credevano che l'esercito iraniano disponesse di quattrocentomila uomini. Era difficile procurarsi dati precisi, ma i soldati disertavano con un ritmo che fluttuava intorno all'otto per cento al mese, e c'erano intere unità che sarebbero passate ai rivoluzionari in caso di una guerra civile dichiarata. Le due fazioni di Washington ricevevano informazioni da fonti diverse. Brzezinski ascoltava Ardeshir Zahedi, il cognato dello scià che era anche il più potente dei sostenitori iraniani della monarchia. Vance dava ascolto all'ambasciatore Sullivan. Non sempre i cablo di Sullivan avevano il rigore coerente che sarebbe piaciuto a Washington - forse perché la situazione iraniana riusciva spesso a confondere le idee - ma a partire dal settembre di quell'anno i suoi rapporti avevano indicato chiaramente che lo scià era
spacciato. Brzezinski affermava che Sullivan si lasciava suggestionare e che non era il caso di credergli. I sostenitori di Vance ribattevano che Brzezinski cercava di eliminare le brutte notizie sparando al messaggero. Il risultato era che gli Stati Uniti non facevano nulla di nulla. Una volta il Dipartimento di Stato aveva preparato un cablo per l'ambasciatore Sullivan, dandogli istruzioni perché facesse pressioni sullo scià e lo convincesse a formare un governo di coalizione con una vasta partecipazione dei vari schieramenti politici: e Brzezinski l'aveva bloccato. Un'altra volta Brzezinski aveva telefonato allo scià assicurandogli l'appoggio del presidente Carter; lo scià aveva chiesto un cablo di conferma, e il Dipartimento di Stato s'era ben guardato dal mandarlo. Esasperate e frustrate, le due fazioni si confidavano spesso con la stampa, e di conseguenza il mondo intero sapeva che la politica di Washington nei confronti dell'Iran era paralizzata dai dissidi interni. E mentre succedeva tutto questo, l'ultima cosa di cui Precht aveva bisogno era di essere assediato da una banda di texani convinti di essere gli unici al mondo ad avere un problema. E per giunta credeva di sapere benissimo perché l'EDS era nei guai. Quando aveva chiesto se l'EDS era rappresentata in Iran da un agente, gli avevano risposto: Sì... il signor Abolfath Mahvi. Questo spiegava tutto. Mahvi era un notissimo mediatore d'affari di Teheran, soprannominato "il re del cinque per cento" per le sue intermediazioni nelle commesse militari. Nonostante le sue amicizie ad alto livello, lo scià l'aveva messo nella lista nera delle persone cui era proibito di trattare affari in Iran. Per questo l'EDS era sospettata di corruzione. Precht avrebbe fatto quello che poteva. Avrebbe chiesto all'ambasciata a Teheran di interessarsi del caso, e forse l'ambasciatore Sullivan sarebbe riuscito a indurre gli iraniani a rilasciare Chiapparone e Gaylord. Ma il governo degli Stati Uniti non aveva nessuna intenzione di buttare sul fuoco tutti gli altri problemi iraniani. Stava cercando di sostenere il regime attuale, e quello non era il momento di sbilanciarlo ancora di più minacciando di rompere i rapporti diplomatici per l'arresto di due uomini d'affari, quando nell'Iran c'erano altri dodicimila cittadini americani che il Dipartimento di Stato aveva il dovere di proteggere. Era una sfortuna, ma Chiapparone e Gaylord avrebbero dovuto arrangiarsi. Le intenzioni di Henry Precht erano buone. Ma nella prima fase, quando
era stato chiamato in causa nella faccenda di Paul e Bill, anche lui - come Lou Goelz - aveva commesso un errore che aveva condizionato negativamente la sua presa di posizione nei confronti del problema e in seguito lo indusse a tenersi sulla difensiva in tutti i contatti con l'EDS. Precht agiva come se l'indagine in cui Paul e Bill venivano considerati testimoni fosse una normale e lecita inchiesta su un caso di sospetta corruzione, anziché uno sfacciato ricatto. In base a quella premessa, Goelz aveva deciso di collaborare con il generale Biglari. Precht commise lo stesso errore e rifiutò di considerare Paul e Bill come due americani criminosamente sequestrati con un abuso di potere. Indipendentemente dal fatto che Abolfath Mahvi fosse corrotto o no, una cosa era certa: il contratto tra l'EDS e il ministero non gli aveva reso un centesimo. Anzi, nei primi tempi della sua attività in Iran, l'EDS aveva passato i guai suoi per aver rifiutato di concedere a Mahvi una fetta della torta. La faccenda era andata così. Mahvi aveva effettivamente aiutato l'EDS a ottenere il primo, modesto contratto in Iran, la creazione di un sistema di controllo dei documenti per conto della marina militare. L'EDS era stata informata che, a norma di legge, doveva avere un socio iraniano, e quindi s'era impegnata a versare a Mahvi un terzo degli utili. Quando il contratto era stato portato a termine, due anni dopo, l'EDS aveva regolarmente pagato a Mahvi quattrocentomila dollari. Mentre erano in corso le trattative per il contratto con il ministero della Sanità, Mahvi era finito sulla lista nera. Ma più tardi, proprio quando stava per venire firmato l'accordo, Mahvi - che nel frattempo era stato di nuovo tolto dalla lista nera - pretese che il contratto venisse assegnato a una società mista, formata da lui e dall'EDS. L'EDS rifiutò. Mahvi si era guadagnato la sua parte di utili del contratto con la marina militare, ma non aveva fatto assolutamente nulla per condurre in porto l'accordo con il ministero della Sanità. Mahvi sostenne che proprio i suoi legami con l'EDS avevano spianato la strada al contratto con il ministero attraverso i ventiquattro organi governativi che dovevano approvarlo. Inoltre, dichiarò, lui aveva contribuito a ottenere per l'EDS le condizioni fiscali favorevoli che figuravano nel contratto: l'EDS le aveva spuntate solo perché Mahvi aveva trascorso una vacanza a Montecarlo con il ministro delle Finanze. L'EDS non aveva chiesto la sua collaborazione, e non credeva neppure che Mahvi l'avesse effettivamente data. E a Ross Perot non andavano affat-
to a genio le "collaborazioni" che avevano come teatro Montecarlo. Il legale iraniano dell'EDS era andato a lamentarsi con il Primo ministro e Mahvi era stato ripreso per la sua avidità. Ma era tanto influente che il ministero della Sanità non voleva saperne di firmare il contratto se l'EDS non l'avesse accontentato. I dirigenti dell'EDS intavolarono con Mahvi una serie di trattative burrascose. All'inizio rifiutarono ancora di dividere gli utili con lui; alla fine ci fu un compromesso che aveva lo scopo di salvare la faccia a tutti: una società mista avrebbe avuto un subappalto dall'EDS con il compito di assumere e impiegare tutto il personale iraniano della stessa EDS. In pratica la società mista non guadagnò mai un soldo, ma questo risultò in seguito: al momento Mahvi accettò il compromesso e il ministero firmò il contratto. Quindi l'EDS non aveva pagato bustarelle, e il governo iraniano lo sapeva. Ma non lo sapevano Henry Precht e Lou Goelz. Perciò la loro presa di posizione nei confronti di Paul e di Bill era viziata da un equivoco. Entrambi si occuparono del caso, ma non ritennero che meritasse la precedenza. Quando Tom Luce, il battagliero legale dell'EDS, parlava con loro e li trattava come se fossero pigri o stupidi, si indignavano e ribattevano che avrebbero potuto concludere qualcosa di più se avesse smesso di assillarli. Precht e Goelz erano, rispettivamente a Washington e a Teheran, i funzionari che dovevano occuparsi del caso in forma ufficiale. Non erano affatto pigri né inefficienti. Ma entrambi avevano commesso errori, entrambi finirono per diventare piuttosto ostili all'EDs: e in quei primi giorni decisivi non aiutarono Paul e Bill. III Una guardia aprì la porta della cella, puntò l'indice verso Paul e Bill e li chiamò con un cenno. Le speranze di Bill si riaccesero. Finalmente li avrebbero rilasciati. Si alzarono e seguirono la guardia al piano superiore. Era piacevole rivedere la luce del giorno che entrava dalle finestre. Uscirono, attraversarono il cortile dirigendosi verso la piccola costruzione a un piano a fianco dell'entrata. L'aria pura era paradisiaca. Era stata una notte terribile, Bill, sdraiato sul materasso sottile, aveva dormito d'un sonno agitato, svegliandosi di colpo al minimo movimento degli altri detenuti e guardandosi intorno ansiosamente nella luce fioca della lampadina. Aveva capito che era mattina quando era entrata una guardia
a portare la colazione, bicchieri di tè e pezzi di pane. Ma lui non aveva fame. Aveva recitato un rosario. E adesso sembrava che le sue preghiere venissero esaudite. Nella costruzione a un piano c'era un parlatorio con tavoli e sedie. Due uomini li stavano aspettando. Bill ne riconobbe uno: era Ali Jordan, il collaboratore iraniano di Lou Goelz. Jordan strinse loro la mano e presentò il collega Bob Sorenson. «Vi abbiamo portato un po' di roba» disse Jordan. «Un rasoio a pile dovrà servire per tutti e due - e qualche paio di calzoni di ricambio.» Bill guardò Paul. Paul fissava i due visitatori e sembrava sul punto di esplodere. «Non siete venuti per tirarci fuori?» chiese Paul. «Purtroppo non possiamo.» «Maledizione, ma siete stati voi a cacciarci in questo guaio!» Bill si lasciò cadere su una sedia. Era troppo depresso per infuriarsi. «Ci dispiace moltissimo che sia successo tutto questo» disse Jordan. «Per noi è stata una sorpresa. Ci avevano detto che Dadgar era ben disposto verso di voi... L'ambasciata presenterà una vibrata protesta.» «Ma che cosa state facendo per tirarci fuori?» «Dobbiamo agire secondo le procedure legali in vigore in Iran. I vostri avvocati...» «Gesù Cristo» disse Paul in tono disgustato. Jordan disse: «Abbiamo chiesto che vi trasferiscano in una parte migliore del carcere». «Oh, grazie mille.» Sorenson domandò: «Vi occorre qualcos'altro?». «Non ho bisogno di niente» disse Paul. «Non ho intenzione di restare qui ancora per molto.» Bill disse: «Potrei avere un flacone di collirio?». «Glielo farò avere» promise Sorenson. Jordan disse: «Mi pare che per il momento sia tutto...». Si girò verso la guardia. Bill si alzò. Jordan parlò in Farsi alla guardia, che indicò a Paul e Bill di uscire. Riattraversarono il cortile. Jordan e Sorenson non erano funzionari di rango elevato, all'ambasciata, pensò Bill. Perché non era venuto Goelz? A quanto sembrava, all'ambasciata ritenevano che toccasse all'EDS toglierli dai guai: l'invio di Jordan e Sorenson era un modo per informare gli iraniani che l'ambasciata s'interessava alla cosa, ma anche per far capire a
Paul e Bill che non potevano attendersi un grande aiuto dal governo degli Stati Uniti. L'ambasciata preferisce ignorare il nostro problema, pensò rabbiosamente Bill. Quando rientrarono nell'edificio principale, la guardia aprì un'altra porta e li condusse in un corridoio. Sulla destra c'erano tre uffici, sulla sinistra alcune finestre affacciate sul cortile. Arrivarono a una robusta porta d'acciaio. La guardia l'aprì e li fece entrare. La prima cosa che Bill vide fu un televisore. Si guardò intorno e si sentì un po' meglio. Quella parte del carcere era molto più civile del seminterrato. Era relativamente pulita e luminosa, con le pareti grige e il pavimento ricoperto di linoleum grigio. Le porte delle celle erano aperte e i detenuti circolavano liberamente. Dalle finestre filtrava la luce del giorno. Proseguirono lungo un corridoio con due celle sulla destra e, sulla sinistra, un bagno. Bill pensò che avrebbe finalmente potuto pulirsi dopo la notte trascorsa nel sotterraneo. Sbirciò attraverso l'ultima porta a destra e vide scaffali pieni di libri. Poi la guardia svoltò a sinistra e li condusse in fondo a un corridoio lungo e stretto, fino all'ultima cella. E lì trovarono qualcuno che conoscevano. Era Reza Neghabat, il viceministro responsabile della Previdenza Sociale al ministero della Sanità. Paul e Bill lo conoscevano bene: avevano lavorato con lui prima che venisse arrestato nel mese di settembre. Si scambiarono strette di mano. Per Bill era un sollievo vedere una faccia nota e trovarsi con qualcuno che parlava inglese. Neghabat era sbalordito. «Come mai siete finiti qui?» Paul alzò le spalle. «Speravo che questo fosse in grado di spiegarcelo lei.» «Ma di che cosa vi hanno accusati?» «Di niente» rispose Paul. «Ieri siamo stati interrogati da Dadgar, il magistrato che indaga sul suo ex ministro, il dottor Sheik. Ci ha arrestati. Senza formulare uno straccio d'accusa. A quanto ci è stato detto, siamo "testimoni".» Bill si guardò intorno. Su due lati della cella c'erano gruppi di brande a castello, e altri erano accanto alla finestra: diciotto posti in tutto. Come nella cella del sotterraneo, sulle brande c'erano sottili materassi di gommapiuma e coperte di lana grigia. Ma lì alcuni dei detenuti avevano anche le lenzuola. La finestra, di fronte alla porta, guardava nel cortile. Bill vide l'erba, i fiori e gli alberi e le macchine delle guardie parcheggiate. E vide
anche la piccola costruzione dove si erano incontrati con Jordan e Sorenson. Neghabat presentò Paul e Bill agli altri detenuti, che sembravano educati e molto meno temibili degli ospiti della cella nel sotterraneo. C'erano parecchie brande libere, e Paul e Bill si sistemarono ai due lati della porta. Bill prese la branda di mezzo, ma Paul ebbe di nuovo quella sul pavimento. Neghabat fece loro da guida. Accanto alla cella c'era una piccola cucina con tavoli e sedie, dove i detenuti potevano farsi il tè e il caffè e sedersi a chiacchierare. Per qualche ragione inspiegata, veniva chiamata Chatanooga. Accanto c'era uno sportello, in fondo al corridoio: era lo spaccio, spiegò Neghabat, dove si potevano acquistare ogni tanto sapone, asciugamani e sigarette. Ripercorsero il lungo corridoio, passarono davanti alla loro cella - era la numero 5 - e ad altre due, prima di entrare nel corridoio più grande che si estendeva verso destra. La stanza che Bill aveva adocchiato all'arrivo era una via di mezzo tra un ufficio delle guardie e una biblioteca, e c'erano libri in Farsi e persino in inglese. Accanto c'erano altre due celle, e di fronte a queste il bagno, con lavabi, docce e gabinetti. I gabinetti erano alla persiana, anzi alla turca, come il piano d'una doccia con un buco al centro. Bill scoprì che difficilmente avrebbe potuto lavarsi come aveva sperato: di solito l'acqua calda non c'era. Oltre la porta d'acciaio, disse Neghabat, c'era un piccolo ufficio dove riceveva il medico, che era anche dentista. La biblioteca era sempre aperta, e il televisore restava acceso tutta la sera, anche se ovviamente i programmi erano in Farsi. Due volte la settimana i detenuti di quella sezione venivano condotti in cortile a passeggiare in cerchio per mezz'ora. Era obbligatorio radersi: le guardie tolleravano i baffi ma non le barbe. Nel corso di quella visita Paul e Bill incontrarono altri due uomini che conoscevano. Uno era il dottor Towliati, il consulente ministeriale sul conto del quale Dadgar aveva fatto tante domande. L'altro era Hussein Pasha, che era stato l'esperto finanziario di Neghabat nell'organizzazione della Previdenza Sociale. Paul e Bill si fecero la barba con il rasoio elettrico portato da Sorenson e Jordan. Poi arrivò mezzogiorno, l'ora di pranzo. Nel corridoio c'era una nicchia chiusa da una tenda. Di lì, i detenuti tirarono fuori un rotolo di linoleum che stesero sul pavimento della cella, e alcune modeste stoviglie. Il pasto consisteva di riso cotto a vapore con un po' di carne d'agnello, più
pane e yogurt; da bere c'erano tè e Pepsi-Cola. Per mangiare, sedettero sul pavimento a gambe incrociate. Per Paul e Bill, entrambi buongustai, il pasto era scadente. Ma Bill scoprì di avere un discreto appetito, forse perché adesso si trovava in un ambiente più pulito. Dopo pranzo ebbero altre visite: i loro avvocati iraniani. Gli avvocati non sapevano perché li avessero arrestati, non sapevano che cosa sarebbe successo e non sapevano cosa potevano fare per aiutarli. Fu un incontro deprimente. Paul e Bill, comunque, non avevano molta fiducia in loro, perché erano stati proprio quegli avvocati ad assicurare a Llyod Briggs che la cauzione non sarebbe stata superiore ai ventimila dollari. Al termine del colloquio non ne sapevano di più e non erano affatto tranquillizzati. Trascorsero il resto del pomeriggio nella cucina chiamata Chattanooga, parlando con Neghabat, Towliati e Pasha. Paul riferì dettagliatamente il suo incontro con Dadgar. I tre iraniani mostravano un vivo interesse ogni volta che Bill riferiva che era stato fatto uno dei loro nomi nel corso dell'interrogatorio. Paul spiegò al dottor Towliati com'era saltato fuori il suo nome a proposito d'una presunta incompatibilità. Towliati raccontò che anche lui era stato interrogato da Dadgar nello stesso modo, prima di venire arrestato. Paul ricordò che Dadgar aveva chiesto precisazioni a proposito di un memorandum scritto da Pasha. Si era trattato di una normalissima richiesta di dati statistici, e nessuno riusciva a immaginare che cosa potesse avere di tanto straordinario. Neghabat credeva di sapere perché li avevano gettati tutti in carcere. «Lo scià ci sta usando come capri espiatori, per dimostrare alle masse che è deciso a colpire risolutamente la corruzione... ma ha scelto un programma nel quale non c'è stata corruzione. Non c'è proprio nulla da colpire, ma se ci rilasciasse, sembrerebbe un gesto di debolezza. Se invece avesse messo gli occhi sull'attività edilizia, allora sì che avrebbe trovato casi di corruzione, e in quantità incredibile...» Era tutto molto vago. Neghabat stava semplicemente cercando di trovare una spiegazione razionale. Paul e Bill volevano sapere qualcosa di più preciso: chi aveva ordinato di dare quel giro di vite, perché era stato scelto il ministero della Sanità, di quale corruzione si parlava, e dove erano gli informatori che avevano puntato l'indice contro le persone attualmente in carcere? Neghabat non cercava affatto di eludere le domande, ma non conosceva le risposte. Il suo fare vago era tipicamente iraniano: se si chiede a un persiano che cosa ha mangiato a colazione, dopo dieci secondi quello incomincia a spiegare la sua filosofia della vita.
Alle sei ritornarono in cella per la cena. Era tutt'altro che appetitosa... gli avanzi del pranzo ridotti a una specie di puré da spalmare sul pane, e altro tè. Dopo cena guardarono la televisione. Neghabat tradusse le notizie. Lo scià aveva dato a un leader dell'opposizione, Shahpur Bakhtiar, l'incarico di formare un governo di civili in sostituzione dei generali che avevano comandato in Iran fin dal novembre. Neghabat spiegò che Shahpur era il capo della tribù Bakhtiar, e che aveva sempre rifiutato di avere a che fare con il regime dello scià. Che poi il governo di Bakhtiar riuscisse o meno a mettere fine ai disordini... ecco, tutto dipendeva dall'ayatollah Khomeini. Lo scià, inoltre, aveva smentito le voci di una sua imminente partenza dall'Iran. Bill pensò che erano notizie incoraggianti. Ora che Bakhtiar era primo ministro, lo scià sarebbe rimasto e avrebbe assicurato la stabilità, ma finalmente i ribelli avrebbero potuto far sentire la loro voce per quanto riguardava il governo del loro paese. Alle dieci la televisione si spense e i detenuti rientrarono nelle celle. Gli altri appesero asciugamani e pezzi di tela sopra le brande per attenuare la luce; lì, come nel sotterraneo, la lampada restava accesa tutta la notte. Neghabat disse a Paul e Bill che potevano chiedere ai loro visitatori di portare lenzuola e asciugamani. Bill si avvolse nella leggera coperta grigia, si sdraiò e cercò di dormire. Dovremo restare qui per un po', pensò rassegnato. Tanto vale adattarci all'idea. La nostra sorte è in mano ad altri. La loro sorte era nelle mani di Ross Perot, e nei due giorni successivi tutte le sue grandi speranze finirono in niente. All'inizio le notizie erano state incoraggianti. Kissinger aveva richiamato venerdì 29 dicembre, per riferire che Ardeshir Zahedi avrebbe provveduto a far rilasciare Paul e Bill. Prima, però, i funzionari dell'ambasciata americana a Teheran dovevano partecipare a due riunioni, una con i rappresentanti del ministero della Giustizia, l'altra con gli incaricati della corte dello scià. A Teheran il vice dell'ambasciatore americano, il ministro-consigliere Charles Naas, stava preparando personalmente quegli incontri. A Washington, anche Henry Precht del Dipartimento di Stato aveva parlato con Ardeshir Zahedi. Il cognato di Emily Gaylord, Tim Reardon, s'era rivolto al senatore Kennedy. L'ammiraglio Moorer aveva interessato i Suoi
conoscenti del governo militare iraniano. L'unica delusione era venuta da Richard Helms, l'ex ambasciatore americano a Teheran: aveva dichiarato apertamente che i suoi vecchi amici non avevano più nessuna influenza. L'EDS consultò tre avvocati, in Iran. Uno era americano, specializzato nel rappresentare gli interessi delle società statunitensi a Teheran. Gli altri due erano iraniani: uno era in buoni rapporti con gli ambienti dei sostenitori dello scià, l'altro era vicino ai dissidenti. Tutti e tre affermavano concordemente che l'arresto di Paul e Bill era stato irregolare e che la cauzione era astronomica. L'americano, John Westberg, disse che la cauzione più alta mai fissata in Iran ammontava a centomila dollari. La deduzione evidente era che il magistrato che aveva arrestato Paul e Bill si trovava in una posizione molto debole. Lì a Dallas l'esperto finanziario dell'EDS, Tom Walter, era al lavoro per scoprire in che modo - se fosse stato indispensabile - l'azienda avrebbe potuto versare la cauzione di 12.750.000 dollari. Gli avvocati gli avevano spiegato che la cauzione poteva essere pagata in tre modi: per contanti; con una lettera di credito presso una banca iraniana; con una garanzia su proprietà in Iran. L'EDS non aveva proprietà di quel valore a Teheran - i computer appartenevano al ministero - e dato che le banche iraniane erano in sciopero e il paese in subbuglio, non era possibile inviare tredici milioni di dollari in contanti; perciò Walter si stava organizzando per preparare una lettera di credito. T. J. Marquez, che aveva il compito di rappresentare l'EDS presso gli azionisti, aveva avvertito Perot che probabilmente non sarebbe stato regolare se una società per azioni avesse pagato una somma così enorme per qualcosa che equivaleva più o meno a un riscatto. Prontissimo, Perot scavalcò il problema: avrebbe pagato di tasca sua. Perot aveva avuto la certezza che sarebbe riuscito a far rilasciare Paul e Bill in uno dei tre modi possibili: esercitando pressioni legali, usando l'influenza politica, o pagando la cauzione. Poi incominciarono ad arrivare le brutte notizie. Gli avvocati iraniani cambiarono atteggiamento. Uno dopo l'altro, riferirono che si trattava di "un caso politico", con "un forte contenuto politico", ed era "una patata bollente di carattere politico". I soci iraniani avevano invitato John Westberg, l'americano, a non occuparsene perché avrebbe messo il loro studio legale in cattiva luce agli occhi dei potenti. Evidentemente il magistrato inquirente, Dadgar, non si trovava affatto in una posizione debole. L'avvocato Tom Luce e il dirigente finanziario Tom Walter si erano re-
cati a Washington e, accompagnati dall'ammiraglio Moorer, erano andati al Dipartimento di Stato. Avevano previsto che si sarebbero seduti a un tavolo con Henry Precht e avrebbero preparato un'energica campagna per ottenere il rilascio di Paul e Bill. Ma Henry Precht era stato piuttosto freddo. Aveva stretto loro la mano - non poteva farne a meno, dato che erano accompagnati da un ex presidente dei Capi di Stato Maggiore - ma non si era seduto a discutere con loro. Li aveva passati a un subordinato. Il subordinato aveva riferito che tutti gli sforzi del Dipartimento di Stato erano stati vani: Ardeshir Zahedi e Charlie Naas non erano riusciti a ottenere la liberazione di Paul e Bill. Tom Luce, che non aveva la pazienza di Giobbe, andò su tutte le furie. Il Dipartimento di Stato, disse, aveva il preciso dovere di proteggere gli americani all'estero, e finora non aveva fatto altro che far gettare in galera quei due! Non era affatto vero, si sentì rispondere: quanto aveva fatto finora il Dipartimento di Stato era molto più del suo dovere. Se gli americani all'estero commettevano reati, erano soggetti alle leggi straniere; i doveri del Dipartimento di Stato non includevano il compito di tirarli fuori dalla prigione. Ma, ribatté Luce, Paul e Bill non avevano commesso nessun reato erano tenuti in ostaggio per tredici milioni di dollari! Era fiato sprecato. Lui e Tom Walter tornarono a Dallas a mani vuote. Più tardi, quella sera stessa, Perot aveva chiamato l'ambasciata americana a Teheran e aveva chiesto a Charles Naas perché non si era ancora incontrato con i funzionari di cui avevano parlato Kissinger e Zahedi. La risposta era molto semplice: i funzionari non si facevano trovare. Quel giorno Perot aveva telefonato di nuovo a Kissinger e gli aveva riferito la situazione. Kissinger aveva risposto che gli dispiaceva, ma pensava di non poter fare di più. Comunque, avrebbe chiamato di nuovo Zahedi e avrebbe ritentato ancora una volta. Un'ultima brutta notizia venne a completare il quadro. Tom Walter aveva cercato di accertare, tramite gli avvocati iraniani, le condizioni alle quali Paul e Bill potevano venire liberati su cauzione: per esempio, dovevano impegnarsi a ritornare in Iran per altri eventuali interrogatori, oppure sarebbe stato possibile che venissero interrogati per rogatoria? No, gli fu risposto: se fossero stati rilasciati non avrebbero potuto lasciare comunque l'Iran. Ormai era l'ultimo dell'anno. Da tre giorni Perot viveva in ufficio: dormiva sul pavimento e si nutriva di sandwich al formaggio. A casa non c'era nessuno - Margot e i ragazzi erano ancora a Vail - e data la differenza ora-
ria di nove ore e mezzo tra il Texas e l'Iran, le telefonate importanti avvenivano spesso nel cuore della notte. Perot lasciava l'ufficio solo per andare a trovare la madre, che era stata dimessa dall'ospedale e si trovava nella sua casa di Dallas. Anche con lei parlava di Paul e Bill; Lulu May Perot era molto interessata agli sviluppi della situazione. Quella sera sentì il bisogno di mangiare qualcosa di caldo e decise di sfidare il maltempo - Dallas era nella morsa del gelo - e di andare a un ristorante di specialità marinare lontano un paio di chilometri. Uscì dalla porta posteriore e si mise al volante della station wagon. Margot aveva una Jaguar, ma Perot preferiva le macchine meno vistose. Si chiese quale influenza poteva avere adesso Kissinger, in Iran o altrove. Forse Zahedi e gli altri contatti iraniani dell'ex segretario di Stato ormai erano come gli amici di Richard Helms: tagliati fuori dal potere. Lo scià sembrava arrivato agli sgoccioli. D'altra parte, era probabile che molto presto tutta quella gente avesse bisogno di amici in america, e quindi sarebbe stata ben lieta di fare un favore a Kissinger. Mentre stava mangiando, Perot sentì una mano robusta battergli sulla spalla, e una voce profonda chiese: «Ross, cosa ci fai qui tutto solo l'ultimo dell'anno?». Perot si voltò e vide Roger Staubach, quarterback della squadra dei Dallas Cowboys, ex allievo dell'accademia navale e suo vecchio amico. «Ciao, Roger! Siediti.» «Sono qui con la famiglia» disse Staubach. «A casa mia il riscaldamento non funziona a causa del gelo.» «Bene, portali tutti qui.» Staubach chiamò i suoi con un cenno, poi chiese: «Come sta Margot?». «Benone, grazie. È a sciare a Vail con i ragazzi. Io sono stato costretto a rientrare... abbiamo un grosso problema.» E Perot raccontò alla famiglia di Staubach la storia di Paul e Bill. Quando tornò in macchina all'ufficio, era un po' rincuorato. C'era ancora tanta brava gente al mondo. Ripensò al colonnello Simons. Tra tutti i progetti per la liberazione di Paul e Bill, l'evasione era quella che avrebbe richiesto più tempo: Simons avrebbe avuto bisogno d'una squadra di uomini, un periodo di addestramento, materiale... Eppure Perot non aveva ancora fatto nulla in proposito. Gli era parsa una possibilità remota, un'ultima risorsa: finché i negoziati erano parsi promettenti, l'aveva scacciata dalla mente. Non se la sentiva
ancora di chiamare Simons - avrebbe aspettato che Kissinger facesse un altro tentativo con Zahedi - ma forse poteva incominciare qualche preparativo. Alla sede dell'EDS chiamò Pat Sculley. Sculley aveva frequentato l'accademia di West Point ed era magro, irrequieto. Aveva ancora l'aria del ragazzo, nonostante i suoi trentun anni. A Teheran era stato uno dei direttori dei progetti ed era partito con l'evacuazione dell'8 dicembre. Era tornato dopo l'Ashura, ma aveva lasciato di nuovo l'Iran quando erano stati arrestati Paul e Bill. Al momento, il suo compito era assicurarsi che gli americani rimasti a Teheran - Lloyd Briggs, Rich Gallagher e sua moglie, e gli stessi Paul e Bill - avessero ogni giorno i posti prenotati su un aereo in partenza, nell'eventualità che i due arrestati venissero rilasciati. Con Sculley c'era anche Jay Coburn, che aveva organizzato l'evacuazione e che poi, il 22 dicembre, era tornato a casa per trascorrere il Natale con la famiglia. Coburn stava per ripartire per Teheran quando aveva saputo che Paul e Bill erano stati arrestati; perciò era rimasto a Dallas per organizzare la seconda evacuazione. Coburn, placido e robusto, aveva trentadue anni ma ne dimostrava quaranta; Perot pensava che fosse perché aveva vissuto otto anni in uno come pilota di elicotteri nel Vietnam. Nonostante questo, Coburn sorrideva molto... un sorriso lento che incominciava con uno scintillio negli occhi e spesso si concludeva in una risata scrosciante. Perot li apprezzava e li stimava entrambi. Appartenevano a quella che lui chiamava la categoria delle aquile: erano tipi che sapevano agire di propria iniziativa, si prodigavano e davano risultati, non giustificazioni. Il motto dell'EDS era: «le aquile non stanno in branco - bisogna trovarle una alla volta». Uno dei segreti del successo di Perot stava nel fatto che andava in cerca di uomini di quel genere, anziché attendere che fossero loro a presentare domanda di assunzione. Perot disse a Sculley: «Ritiene che stiamo facendo tutto il necessario per Paul e Bill?». Senza esitare, Sculley rispose: «No». Perot annuì. Quegli uomini non avevano mai paura di parlare francamente: era una delle qualità delle aquile. «Cosa pensa che dovremmo fare?» «Dovremmo liberarli con la forza» rispose Sculley. «Lo so che può sembrare strano, ma sono convinto che se non lo faremo è molto probabile che li ammazzino.» A Perot non sembrava affatto strano: quella paura lo assillava da tre
giorni. «Anch'io la penso così.» Notò l'espressione sorpresa di Sculley. «Voglio che voi due prepariate un elenco di uomini dell'EDS che potrebbero collaborare. Ci servono uomini che conoscano Teheran, abbiano esperienza militare, preferibilmente nelle azioni tipo Forze Speciali, e siano fidati al cento per cento.» «Incominceremo subito» rispose Sculley in tono entusiasta. Squillò il telefono, e rispose Coburn. «Ciao, Keane! Dove sei?... Aspetta un momento.» Coburn coprì il microfono con la mano e guardò Perot. «Keane Taylor è a Francoforte. Se dobbiamo tentare un colpo del genere, anche lui dovrebbe essere della partita.» Perot annuì. Taylor, ex sergente dei marines, era un'altra delle sue aquile. Alto uno e novanta e sempre vestito con eleganza, Taylor era un tipo piuttosto irritabile, e questo faceva di lui il bersaglio ideale per gli scherzi degli amici. Perot disse: «Gli dica di tornare a Teheran. Ma non gli spieghi il perché». Un sorriso illuminò il viso di Coburn. «Non gli piacerà molto.» Sculley tese la mano e fece scattare l'altoparlante perché tutti potessero sentire le risposte di Taylor. Coburn disse: «Keane, Ross vuole che tu torni in Iran». «Che diavolo devo andare a fare?» chiese Taylor. Coburn guardò Perot e Perot scrollò la testa. Coburn disse: «Oh, ci sono tante cose da sistemare, da un punto di vista amministrativo...». «Riferisci a Perot che là non ci torno, per altre fesserie amministrative!» Sculley scoppiò a ridere. Coburn disse: «Keane, qui c'è qualcun altro che vuol parlare con te». Perot disse: «Keane, sono Ross». «Oh! Salve Ross.» «La rimando a Teheran per una cosa molto importante.» «Oh.» «Capisce quello che voglio dire?» Vi fu un lungo silenzio, poi Taylor disse: «Sì, signore». «Bene.» «Parto immediatamente.» «Lì che ore sono?» chiese Perot. «Le sette del mattino.» Perot guardò l'orologio. Era mezzanotte. Il 1979 era incominciato.
Taylor era seduto sul letto nella sua stanza, in un albergo di Francoforte, e pensava a sua moglie. Mary era a Pittsburgh con i figli, Mike e Dawn, ospite del fratello di Taylor. Lui l'aveva chiamata da Teheran prima di partire e le aveva annunciato che stava per tornare. Lei ne era stata felice. Avevano fatto progetti per il futuro: sarebbero rientrati a Dallas, avrebbero iscritto i bambini a scuola... E adesso doveva richiamarla e dirle che non andava più a casa. Mary si sarebbe preoccupata. Diavolo, anche lui era preoccupato. Ripensò a Teheran. Non aveva lavorato al programma del ministero della Sanità; si era occupato di un contratto meno importante, computerizzare gli antiquati sistemi contabili della Banca Omran. Un giorno, tre settimane prima, una folla minacciosa aveva circondato la banca... l'Orman era la banca dello scià. Taylor aveva rimandato a casa i suoi collaboratori. Lui e Glenn Jackson erano stati gli ultimi a uscire; avevano chiuso tutto e si erano avviati a piedi verso nord. Mentre svoltavano l'angolo della strada principale, erano incappati nella folla. In quel momento i militari avevano aperto il fuoco e s'erano avventati dalla carica. Taylor e Jackson si erano riparati sotto l'arco di una porta. Qualcuno aveva aperto la porta e aveva gridato loro di entrare. L'avevano fatto... ma prima che il loro soccorritore potesse richiudere, quattro dimostranti erano entrati con la forza, inseguiti da cinque soldati. Taylor e Jackson si erano addossati al muro mentre i militari percuotevano con i manganelli e il calcio dei fucili i quattro dimostranti. Uno di questi aveva cercato di fuggire. Aveva due dita quasi tranciate, e il sangue era schizzato sulla porta di vetro. Ce l'aveva fatta a uscire, ma sulla strada era stramazzato. I soldati avevano trascinato fuori gli altri tre. Uno era tutto insanguinato, ma cosciente; gli altri due erano svenuti o forse morti. Taylor e Jackson erano rimasti al riparo fino a quando la strada era stata sgomberata. L'iraniano che li aveva salvati continuava a ripetere: «Andatevene dal nostro paese finché potete!». E adesso, pensò Taylor, devo dire a Mary che ho appena accettato di tornare in quella bolgia. Per fare qualcosa di molto importante. Senza dubbio si trattava di Paul e Bill; e se Perot non aveva potuto parlarne al telefono, evidentemente doveva essere qualcosa di clandestino,
forse di illegale. In un certo senso Taylor era contento, nonostante la paura che gli ispiravano le folle inferocite. Quando era ancora a Teheran aveva parlato al telefono con Emily Gaylord, e le aveva promesso che non sarebbe partito senza Bill. L'ordine di Dallas, che aveva imposto a tutti di andarsene, eccettuati Briggs e Gallagher, l'aveva costretto a venir meno alla parola data. Ora gli ordini erano cambiati, e avrebbe potuto mantenere la promessa fatta a Emily. Bene, pensò, non posso tornare certamente a piedi, quindi è meglio che trovi un aereo. Riprese il telefono. Jay Coburn ricordava la prima volta che aveva visto in azione Ross Perot. Non l'avrebbe dimenticato neppure se fosse vissuto cent'anni. Era accaduto nel 1971. Coburn era all'EDS da meno di due anni. Era reclutatore e lavorava a New York. Scott era nato quell'anno in un piccolo ospedale cattolico. Il parto era stato normale e, a prima vista, Scott sembrava un neonato perfettamente sano. Il giorno dopo, quando Coburn andò a trovarla, Liz gli disse che quella mattina non le avevano portato Scott perché l'allattasse. Sul momento, Coburn non attribuì importanza alla cosa. Pochi minuti dopo entrò una donna e disse: «Ecco le foto del vostro bambino». «Non ricordo che l'abbiano fotografato» disse Liz. La donna mostrò le foto. «No, non è mio figlio.» La donna rimase confusa per un momento, poi disse: «Oh! È vero. Il suo è quello che ha un problema.» Era la prima volta che Coburn e Liz sentivano parlare di un "problema". Coburn andò subito a vedere Scott. Fu un trauma tremendo. Il neonato era sotto una tenda a ossigeno, ansimava ed era blu come un paio di jeans. I medici erano in consulto intorno a lui. Liz era sull'orlo di una crisi isterica, e Coburn chiamò il medico di famiglia e lo pregò di venire subito all'ospedale. Poi attese. C'era qualcosa che non andava. Che razza di ospedale era, se lì non ti dicevano neppure che tuo figlio appena nato stava morendo? Coburn era fuori di sé. Chiamò Dallas e chiese del suo superiore, Gary Griggs. «Gary, non so perché l'ho chiamata, ma non ho idea di quello che posso fare.» E gli spiegò la situazione. «Resti in linea» disse Griggs.
Dopo un momento, Coburn sentì una voce sconosciuta che lo chiamava per nome. «Jay?» «Sì.» «Sono Ross Perot.» Coburn aveva incontrato Perot due o tre volte, ma non aveva mai lavorato direttamente per lui. Si chiese se Perot ricordava che faccia avesse: a quel tempo l'EDS aveva già più di mille dipendenti. «Salve, Ross.» «Jay, ho bisogno di qualche informazione.» Perot cominciò a fare domande: Qual era l'indirizzo dell'ospedale? Come si chiamavano medici? Qual era la diagnosi? E mentre rispondeva, Coburn si chiedeva, ma Perot sa almeno chi sono? «Aspetti un momento, Jay.» Vi fu un breve silenzio. «La metto in comunicazione con il dottor Urschel, un mio amico, uno dei migliori cardiochirurghi di Dallas.» Dopo un attimo Coburn si trovò a rispondere alle domande del dottore. «Lei non faccia nulla» disse alla fine Urschel. «Parlerò io con i medici. Resti accanto al telefono, ci metteremo di nuovo in contatto con lei.» «Sì, dottore» rispose Coburn, stordito. Perot riprese la linea. «Ha sentito? Come sta Liz?» Coburn pensò: Come diavolo fa a sapere il nome di mia moglie? «Non troppo bene» rispose. «C'è qui il suo medico, le ha dato un sedativo...» Mentre Perot tranquillizzava Coburn, il dottor Urschel dava la sveglia ai medici dell'ospedale. Li convinse a trasferire Scott al centro medico dell'Università di New York. Pochi minuti dopo Scott e Coburn erano a bordo di un'ambulanza. Nel Midtown Tunnel rimasero bloccati da un ingorgò del traffico. Coburn scese dall'ambulanza, fece più di un chilometro e mezzo correndo come un disperato per raggiungere il casello del pedaggio, e convinse un dirigente a bloccare tutte le corsie, tranne quella in cui si trovava l'ambulanza. Quando arrivarono al centro medico, c'erano dieci o quindici persone che li stavano aspettando, incluso il più famoso cardiochirurgo della costa orientale degli Stati Uniti: era arrivato in volo da Boston nel tempo che l'ambulanza aveva impiegato per raggiungere Manhattan. Mentre il piccolo Scott veniva ricoverato d'urgenza Coburn consegnò la busta delle radiografie che aveva portato dall'altro ospedale. Una dottoressa le esaminò. «E il resto dov'è?»
«Sono tutte qui» rispose Coburn. «Non ne hanno fatte altre?» Le nuove radiografie rivelarono che, oltre ad avere un foro nel cuore, Scott aveva la polmonite. Quando la polmonite fu debellata la malformazione cardiaca divenne controllabile E Scott sopravvisse. Diventò un bambino sano, che giocava al calcio, si arrampicava sugli alberi, sguazzava nei ruscelli. E Coburn incominciò a capire i sentimenti della gente nei confronti di Ross Perot. La dote che permetteva a Perot di concentrarsi su una cosa senza lasciarsi distrarre fino a quando aveva ottenuto ciò che voleva aveva anche un aspetto spiacevole. Era capace di ferire la gente. Un giorno o due dopo l'arresto di Paul e Bill, era entrato in un ufficio mentre Coburn parlava al telefono con Lloyd Briggs, a Teheran. Perot aveva avuto l'impressione che Coburn stesse impartendo istruzioni, e pensava che quelli della sede centrale non dovevano assolutamente dare ordini ai colleghi che si trovavano sul campo di battaglia e conoscevano meglio la situazione. Aveva fatto una sfuriata a Coburn, di fronte a tutti. Perot aveva anche altri difetti. Quando Coburn si occupava del reclutamento, la società eleggeva il "Reclutatore dell'Anno". I nomi dei vincitori venivano incisi su una targa. L'elenco era stato inaugurato anni prima, e con l'andar del tempo alcuni dei vincitori avevano lasciato la società. Quando questo accadeva, Perot voleva cancellare il loro nome dall'elenco. A Coburn sembrava molto strano. Se un tale lasciava la società, che importanza aveva? Era stato comunque Reclutatore dell'Anno, un anno o l'altro, quindi perché cercare di cambiare la storia? Si sarebbe detto che Perot prendesse come un'offesa personale il fatto che qualcuno voleva andare a lavorare altrove. I difetti di Perot corrispondevano ai suoi meriti. Lo strano atteggiamento verso quelli che abbandonavano la società era l'esatto contrario della intensa lealtà verso i suoi dipendenti. La durezza spietata che mostrava ogni tanto faceva parte dell'energia incredibile e della forza di volontà senza le quali non avrebbe potuto creare l'EDS. Per Coburn era facile perdonare i difetti di Perot. Bastava che guardasse Scott. «Signor Perot?» chiamò Sally. «È Henry Kissinger.» Perot si sentì il cuore in gola. Kissinger e Zahedi ce l'avevano fatta in quelle ultime ventiquattro ore? Oppure l'ex segretario di Stato chiamava
per dire che non c'era stato niente da fare? «Qui Ross Perot.» «Resti in linea, le passo Henry Kissinger.» Dopo un attimo, Perot sentì la ben nota voce gutturale. «Pronto, Ross?» «Sì.» Perot trattenne il respiro. «Mi è stato assicurato che i suoi collaboratori saranno rilasciati domattina alle dieci, ora di Teheran.» Perot esalò un lungo respiro di sollievo. «Dottor Kissinger, è la più bella notizia che abbia ricevuto non so da quanto tempo. Non so come ringraziarla.» «Oggi i dettagli verranno sbrigati da funzionari della nostra ambasciata e dal ministero degli Esteri iraniano, ma si tratta di una formalità: mi è stato assicurato che i suoi collaboratori verranno rilasciati.» «È magnifico. Le siamo infinitamente grati del suo aiuto.» «Prego.» A Teheran erano le nove e mezzo, e a Dallas era mezzanotte. Perot era nel suo ufficio e attendeva. Quasi tutti i suoi collaboratori erano andati a casa, per dormire finalmente nei loro letti, felici al pensiero che prima del loro risveglio Paul e Bill sarebbero stati liberati. Perot era rimasto in ufficio per seguire gli sviluppi della situazione fino alla fine. A Teheran, Lloyd Briggs era nell'ufficio di via Bucarest, e uno dei dipendenti iraniani aspettava davanti al carcere. Non appena Paul e Bill fossero usciti, l'iraniano avrebbe telefonato al Bucarest, e Briggs avrebbe chiamato Perot. Adesso che la crisi stava per risolversi, Perot aveva il tempo di domandarsi in che cosa aveva sbagliato. Un errore gli apparve subito evidente. Quando, il 4 dicembre, aveva deciso di far evacuare dall'Iran tutto il personale, non si era mostrato abbastanza risoluto, e aveva lasciato che gli altri si impuntassero e sollevassero obiezioni fino a quando era stato troppo tardi. Ma l'errore più grave era stato quello di accettare di lavorare in Iran. Ora se ne rendeva conto, con il senno del poi. A quei tempi, era stato d'accordo con i suoi specialisti del marketing - e con molti altri uomini d'affari americani - nel ritenere che l'Iran, ricco di petrolio, stabile e filooccidentale offriva eccellenti occasioni. Non aveva intuito le tensioni sotterranee, non sapeva nulla dell'ayatollah Khomeini e non aveva previsto che un giorno ci sarebbe stato un presidente tanto ingenuo da tentare di imporre principii e
criteri tipicamente americani a un paese del Medio Oriente. Diede un'occhiata all'orologio. Era mezzanotte passata. In quel momento, Paul e Bill dovevano uscire dal carcere. L'annuncio dato da Kissinger era stato confermato da una telefonata di David Newson, il vice di Gyrus Vance al Dipartimento di Stato. E Paul e Bill non sarebbero stati liberati un attimo troppo presto. Anche quel giorno, dall'Iran erano arrivate brutte notizie. Il nuovo primo ministro Bakhtiar aveva incontrato un netto rifiuto da parte del Fronte Nazionale, il partito che veniva considerato come l'opposizione moderata. Lo scià aveva annunciato che forse si sarebbe preso una vacanza. William Sullivan, l'ambasciatore degli Stati Uniti, aveva consigliato ai familiari degli americani che lavoravano in Iran di tornare in patria, e poco dopo avevano fatto altrettanto te ambasciate del Canada e della Gran Bretagna. Ma l'aeroporto era chiuso per gli scioperi, e centinaia di donne e di bambini erano impossibilitati a partire. Paul e Bill, comunque, non sarebbero rimasti bloccati. Perot contava molti buoni amici al Pentagono, dai tempi della campagna in favore dei prigionieri di guerra: Paul e Bill sarebbero saliti su un jet delle forze aeree degli Stati Uniti. Alla una Perot chiamò Teheran. Non c'era nessuna novità. Bene, pensò, tutti dicono che gli iraniani non hanno il senso del tempo. L'aspetto più assurdo dell'intera faccenda stava nel fatto che l'EDS non aveva mai pagato bustarelle, in Iran o altrove. L'idea della corruzione ispirava ripugnanza a Perot. Il codice di comportamento dell'EDS era stabilito da un opuscoletto di dodici pagine che veniva distribuito a tutti i dipendenti nuovi. Era stato lo stesso Perot a scrivere il testo. «Ricordate che le leggi federali e le leggi di quasi tutti gli stati vietano di dare qualunque cosa di valore a un dipendente del governo allo scopo di influenzare una decisione ufficiale... Poiché sarebbe difficile provare l'assenza di tale intenzione, non si deva assolutamente dare denaro o oggetti di valore a dipendenti del governo federale o statale o dei governi stranieri... La certezza che un pagamento o una consuetudine non sia vietato dalla legge non è conclusiva... È sempre necessario approfondire gli aspetti etici... Potete fare affari, in piena fiducia, con qualcuno che si comporta come voi? La risposta deve essere SÌ.» L'ultima pagina dell'opuscolo era un modulo che il dipendente doveva firmare per comprovare che aveva ricevuto il Codice e l'aveva letto. Proprio quando l'EDS stava incominciando a svolgere la sua attività in Iran, i principi puritani di Perot erano stati rafforzati dallo scandalo Lockheed. Daniel J. Haughton, presidente della Lockheed Aircraft Corpora-
tion, aveva ammesso di fronte a una commissione del Senato che la sua società pagava abitualmente bustarelle per svariati milioni di dollari per vendere i suoi aerei all'estero. Quell'imbarazzante testimonianza aveva suscitato l'indignazione di Perot: Haughton, agitandosi irrequieto sulla sedia, aveva dichiarato alla commissione che i pagamenti erano serviti per "ungere le ruote". In seguito era stata varata un'apposita legge, in forza della quale era considerato reato pagare bustarelle nei paesi stranieri. Perot aveva mandato a chiamare l'avvocato Tom Luce e gli aveva affidato la responsabilità di assicurarsi che l'EDS non "ungesse le ruote". Durante le trattative per il contratto con il ministero della Sanità iraniano, Luce aveva addirittura offeso non pochi dirigenti dell'EDS per la meticolosità e l'insistenza con cui li interrogava per accertare la correttezza del loro comportamento nei negoziati. Perot non era a caccia di nuovi affari. Guadagnava già milioni. Non aveva bisogno di espandersi all'estero. Se là è necessario corrompere qualcuno per concludere, aveva detto, allora rinunciamo in partenza. I suoi principi morali erano profondamente radicati. I suoi antenati erano francesi che si erano trasferiti a New Orleans e avevano creato centri di scambio lungo il fiume Rosso. Suo padre, Gabriel Ross Perot, era stato un grossista di cotone. Era un'attività stagionale, e gli lasciava la possibilità di trascorrere molto tempo con il figlio; e spesso gli parlava di affari. «È inutile acquistare il cotone da un coltivatore una volta sola» diceva. «Devi trattarlo onestamente, guadagnarti la sua fiducia, e stabilire un rapporto con lui: così sarà ben contento di venderti ogni anno il suo cotone. Soltanto così puoi concludere buoni affari.» Non c'era spazio per le bustarelle. Alla una e mezzo Perot chiamò di nuovo la sede dell'EDS a Teheran. Ancora niente. «Telefonate al carcere, o mandate qualcuno» disse. «Scoprite quando li faranno uscire.» Cominciava a sentirsi inquieto. Cosa farò se non li libereranno? pensò. Se pago la cauzione, avrò speso tredici milioni di dollari, ma Paul e Bill non potranno lasciare l'Iran comunque. Gli altri modi per tirarli fuori ricorrendo al sistema legale cozzano contro l'ostacolo di cui parlano gli avvocati iraniani... si tratta di un caso politico e quindi il fatto che Paul e Bill siano innocenti non fa nessuna differenza. Ma finora le pressioni politiche non sono servite a nulla; l'ambasciata a Teheran e il Dipartimento di Stato non hanno potuto darci un aiuto; e se fallisse anche Kissinger, sarebbe sicuramente la fine di ogni speranza. E allora, quale soluzione rimane?
Il ricorso alla forza. Il telefono squillò. Perot sollevò precipitosamente il ricevitore. «Qui Ross Perot.» «Sono Lloyd Briggs.» «Sono usciti?» «No.» Perot si sentì stringere il cuore. «Che cosa sta succedendo?» «Abbiamo parlato con le autorità del carcere. Non hanno ricevuto l'ordine di rilasciare Paul e Bill.» Perot chiuse gli occhi. Era accaduto il peggio. Neppure Kissinger ce l'aveva fatta. Sospirò. «Grazie, Lloyd.» «E adesso che cosa facciamo?» «Non lo so» disse Perot. Ma lo sapeva benissimo. Salutò Briggs e riattaccò. Non voleva rassegnarsi alla sconfitta. Un altro degli insegnamenti di suo padre era: abbi cura di quelli che lavorano per te. Perot ricordava che la domenica tutta la famiglia faceva una lunga corsa in macchina per andare a trovare un vecchio negro che un tempo aveva falciato il prato di casa, e assicurarsi che stesse bene e avesse abbastanza da mangiare. Il padre di Perot era capace di assumere dipendenti di cui non aveva bisogno, solo perché erano senza lavoro. Ogni anno l'auto della famiglia Perot andava alla fiera della contea stracarica di dipendenti negri, a ognuno dei quali era stato consegnato un po' di denaro da spendere e il biglietto da visita di Perot da mostrare se qualcuno cercava di piantare grane. Perot ricordava che una volta uno di loro era salito abusivamente su un treno merci per andare in California; quando era stato arrestato per vagabondaggio, aveva mostrato il biglietto da visita del padre di Ross. Lo sceriffo aveva ribattuto: «A noi non importa un accidente, ti sbattiamo al fresco lo stesso». Ma aveva telefonato al padre di Perot, che aveva inviato un vaglia telegrafico per pagare all'uomo il biglietto di ritorno. «Sono stato in California e vorrei tornare a lavorare» aveva detto il negro quando era arrivato a Texarkana; e il padre di Perot gli aveva ridato il suo posto. Il padre di Perot non pensava ai diritti civili: pensava che quello fosse il modo di trattare gli altri esseri umani. Solo quando era diventato adulto Perot si era accorto che i suoi genitori erano tipi fuori dal comune. Suo padre non avrebbe lasciato in carcere i dipendenti. E non l'avrebbe
fatto neppure lui. Riprese il telefono. «Mi chiami T. J. Marquez.» Erano le due del mattino, ma T. J. non si sarebbe stupito: non era la prima volta che Perot lo svegliava nel cuore della notte, e non sarebbe stata l'ultima. Una voce assonnata disse: «Pronto». «Tom, qui si mette male.» «Perché?» «Non li hanno rilasciati e le autorità del carcere dicono che non li rilasceranno.» «Ah, accidenti.» «E là la situazione sta peggiorando... hai visto il telegiornale?» «Sì.» «Credi che sia ora di rivolgerci a Simons?» «Sì, credo di sì.» «Hai il suo numero?» «No, ma posso procurarmelo.» «Chiamalo» disse Perot. Bull Simons stava ammattendo. Incominciava a pensare di dar fuoco alla casa. Era un vecchio bungalow di legno, e sarebbe bruciato come un mucchio di fiammiferi, e tutto sarebbe finito. Quel posto era un inferno per lui... ma era un inferno che non voleva abbandonare, perché a renderlo infernale era il ricordo dolceamaro del tempo in cui era stato un paradiso. Era stata Lucille a scegliere quella casa. Aveva visto la pubblicità in una rivista, e avevano preso l'aereo a Fort Bragg, nella Carolina del Nord, per andare a vederla. A Red Bay, in una zona povera della Florida, la casa malconcia sorgeva in mezzo a dodici ettari di bosco. Ma c'era un laghetto pieno di pesci persico. Lucille se ne era innamorata. Era il 1971, e per Simons era venuto il momento di andare in pensione. Era colonnello da dieci anni, e se l'impresa di Son Tay non era bastata per farlo diventare generale, niente al mondo avrebbe potuto assicurargli la promozione. La verità era che non si inquadrava bene nell'ambiente dei generali: era sempre stato un ufficiale di complemento, non aveva frequentato una delle famose accademie militari come West Point, i suoi metodi non erano sempre ortodossi, e non era il tipo che amava frequentare i co-
cktail di Washington e leccare le scarpe ai personaggi importanti. Sapeva d'essere un buon soldato e se questo non bastava, pazienza. Perciò s'era messo in pensione, e non se ne era pentito. Là a Red Bay aveva trascorso gli anni più felici della sua vita. Da quando si erano sposati, lui e Lucille avevano dovuto sopportare lunghi periodi di separazione e a volte erano rimasti un anno intero senza vedersi, quando lui era in Vietnam, nel Laos e in Corea. Dal momento in cui era andato in pensione erano rimasti insieme giorno e notte, da un anno all'altro. Simons allevava maiali. Non s'intendeva d'agricoltura, ma aveva trovato nei libri le informazioni che gli servivano e aveva costruito i recinti. Poi, dopo aver avviato l'allevamento, aveva scoperto che non c'era altro da fare che dar da mangiare ai maiali e stare a guardarli; perciò passava molto tempo con la sua collezione di armi da fuoco - ne aveva 150 - e aveva finito per crearsi un piccolo laboratorio d'armaiolo dove riparava le sue armi e quelle dei vicini, e si preparava le munizioni. Molto spesso passeggiava con Lucille nel bosco e scendeva al laghetto, a pescare. La sera dopo cena Lucille si ritirava in camera da letto come se si preparasse per un appuntamento, e più tardi usciva, con una vestaglia sopra la camicia da notte e un nastro rosso tra i capelli scuri, e gli si sedeva sulle ginocchia... Adesso quei ricordi gli straziavano il cuore. Anche i ragazzi erano cresciuti, finalmente, in quegli anni d'oro. Il più giovane, Harry, un giorno era tornato a casa e aveva detto: «Papà, prendo l'eroina e la cocaina e ho bisogno del tuo aiuto». Simons non sapeva molto in fatto di droga. Aveva fumato la marijuana una volta sola, nello studio di un medico a Panama, prima di tenere ai suoi uomini una conferenza sulla droga, per poter dire che sapeva per esperienza diretta come stavano le cose; ma dell'eroina sapeva soltanto che uccideva. Comunque, era riuscito ad aiutare Harry tenendolo occupato all'aperto, a costruire i recinti per i maiali. C'era voluto molto tempo. A volte Harry se ne andava in città a drogarsi, ma tornava sempre a casa: e alla fine aveva smesso di andare in città. Quell'episodio aveva riavvicinato Simons ad Harry. Simons non era mai stato molto vicino a Bruce, il primogenito; ma almeno aveva potuto smettere di preoccuparsi per quel ragazzo. Ragazzo? Ormai aveva passato i trent'anni ed era ostinato come... ecco, come suo padre. Bruce aveva scoperto Gesù e aveva deciso di condurre al Signore il mondo intero... incominciando dal colonnello Simons. Simons lo aveva praticamente buttato fuori di casa. Ma diversamente dalle altre infatuazioni giovanili di Bruce la droga, l'I Ching, le comuni agricole per il ritorno alla natura - Gesù non
era tramontato, e Bruce s'era messo tranquillo, come pastore di una minuscola chiesa nella gelida parte nord-occidentale del Canada. Comunque, Simons aveva smesso di preoccuparsi per i ragazzi. Li aveva tirati su come meglio aveva potuto, e ormai erano uomini, e dovevano badare a se stessi. Lui pensava a Lucille. Lucille era una bella donna, alta e statuaria, con la passione per i grandi cappelli, e appariva imponente al volante della loro Cadillac nera. Ma in realtà, era tutt'altro che terribile. Era tenera, tollerante e gentile. Era figlia di due insegnanti, e aveva sempre sentito il bisogno di avere accanto qualcuno che decidesse per lei, qualcuno nel quale potesse avere una cieca fiducia: e l'aveva trovato in Art Simons. E lui le era devoto. Quando era andato in pensione, erano sposati da trent'anni, e in tutto quel tempo non si era mai interessato ad altre donne.. Solo il suo lavoro, con le lunghe missioni oltremare, s'era messo tra loro due; ma adesso era finita. Aveva detto alla moglie: «I miei progetti per la mia vita di pensionato si possono riassumere in una parola: tu». Erano stati sette anni meravigliosi. Lucille era morta di cancro il 16 marzo 1978. E Bull Simons era andato a pezzi. Dicono che ogni uomo ha il suo punto di rottura. Simons aveva creduto che per lui quella regola non avesse valore. Ma adesso sapeva che non era così: la morte di Lucille l'aveva distrutto. Aveva ucciso molte volte, aveva visto morire molta gente, ma solo adesso comprendeva il significato della morte. Erano stati insieme trentasette anni e ora, all'improvviso, lei non c'era più. Senza di lei, gli sembrava che la vita non avesse più senso. Niente aveva uno scopo. Aveva sessant'anni e non sapeva trovare una sola ragione valida per vivere un altro giorno ancora. Aveva incominciato a trascurarsi. Mangiava cibo in scatola senza preoccuparsi di scaldarlo, e s'era lasciato crescere i capelli che aveva sempre portati cortissimi. Ogni giorno, puntualmente, dava da mangiare ai maiali alle 3 e 45 del pomeriggio, sebbene sapesse benissimo che l'orario del pasto non avesse importanza. Aveva incominciato a raccogliere i cani randagi, e adesso ne aveva tredici che graffiavano i mobili e sporcavano sul pavimento. Si rendeva conto di essere sul punto di perdere la ragione, e solo la disciplina ferrea che da tanto tempo faceva parte del suo carattere gli permetteva di conservarla. La prima volta che aveva pensato di dar fuoco alla casa aveva compreso che era un'idea folle, e si era ripromesso di attendere un
anno prima di decidere. Sapeva che suo fratello, Stanley, era preoccupato per lui. Stan aveva cercato di indurlo a scuotersi: gli aveva suggerito di tenere conferenze, aveva addirittura tentato di convincerlo a passare all'esercito israeliano. Simons era d'origine ebraica, ma si considerava americano e non aveva nessuna intenzione di trasferirsi in Israele. Non riusciva a scuotersi. Il massimo che poteva fare era continuare a vivere giorno per giorno. Non aveva bisogno di qualcuno che si prendesse cura di lui... non ne aveva mai avuto bisogno. Al contrario, aveva bisogno di qualcuno di cui prendersi cura. Non aveva mai fatto altro in tutta la sua vita, con Lucille, con i suoi uomini. Nessuno poteva salvarlo dalla depressione, perché il suo ruolo nella vita era salvare gli altri. Per questo si era riconciliato con Harry ma non con Bruce: Harry si era rivolto a lui chiedendogli di aiutarlo a salvarsi dalla droga, ma Bruce aveva preteso di salvare Art Simons conducendolo al Signore. Nelle operazioni militari, Simons si era sempre prefisso di riportare indietro sani e salvi tutti i suoi uomini. Il colpo di mano di Son Tay avrebbe segnato il culmine ideale della sua carriera, se nel campo ci fossero stati i prigionieri da liberare. Paradossalmente, l'unico modo per salvare Simons consisteva nel chiedergli di salvare qualcun altro. E questo accadde alle due del mattino del 2 gennaio 1979. Lo svegliò il telefono. «Bull Simons?» La voce era vagamente familiare. «Sì.» «Sono T. J. Marquez dell'EDS, Dallas.» Simons ricordava tutto: l'EDS, Ross Perot, la campagna in favore dei prigionieri di guerra, la festa di San Francisco... «Salve, Tom.» «Bull, mi scusi se l'ho svegliata.» «Non importa. Cosa posso fare per lei?» «Ci sono due dei nostri in carcere in Iran, e sembra che non sia possibile tirarli fuori con i sistemi normali. Sarebbe disposto ad aiutarci?» Se era disposto? «Sì, diavolo» rispose Simons. «Quando cominciamo?» IV Ross Perot lasciò l'EDS in macchina, svoltò a sinistra in Forest Lane e poi a destra sulla Central Expressway. Era diretto all'Hilton Inn, all'incrocio di Central e Mockingbird. Andava a chiedere a sette uomini se erano
disposti a rischiare la vita. Sculley e Coburn avevano preparato l'elenco. I loro nomi erano i primi due, e poi ne venivano altri cinque. Quanti dirigenti d'azienda americani del ventesimo secolo avevano chiesto a sette dipendenti di dare l'assalto a un carcere? Nessuno, probabilmente. Durante la notte Coburn e Sculley avevano chiamato gli altri cinque, che si trovavano in varie parti degli Stati Uniti presso amici e parenti, dopo la precipitosa partenza da Teheran. A ognuno di loro era stato detto soltanto che Perot voleva vederlo quel giorno a Dallas. Erano abituati alle telefonate nel cuore della notte e alle convocazioni improvvise - Perot lavorava sempre così - e tutti avevano accettato l'invito. All'arrivo a Dallas erano stati tenuti lontani dalla sede dell'EDS e mandati a prendere alloggio all'Hilton Inn. Ormai dovevano essere là quasi tutti, ad attendere Perot. E Perot si chiedeva come avrebbero reagito, quando avesse detto che voleva che tornassero a Teheran per tirar fuori dal carcere Paul e Bill. Erano uomini in gamba, e gli erano devoti, ma normalmente la lealtà verso il datore di lavoro non comportava l'obbligo di rischiare la vita. Alcuni di loro, probabilmente, avrebbero pensato che l'idea di un salvataggio mediante il ricorso alla forza era pazzesca. Altri avrebbero pensato alle mogli e ai figli, e avrebbero rifiutato... il che era comprensibile. Non ho il diritto di chiedere una cosa simile, si disse. Devo guardarmi dal fare pressioni. Niente discorsi convincenti oggi, Perot: parla chiaro, e basta. Devono capire che sono liberi di dire: No, grazie, capo, non conti su di me. Quanti si sarebbero offerti? Uno su cinque, pensava Perot. In questo caso ci sarebbero voluti diversi giorni per mettere insieme una squadra, e rischiava di doversi servire di uomini che non conoscevano Teheran. E se nessuno si fosse offerto volontario? Perot entrò nel parcheggio dell'Hilton Inn e spense il motore. Jay Coburn si guardò intorno. C'erano altri quattro uomini: Pat Sculley, Glenn Jackson, Ralph Boulware e Joe Poché. Altri due erano in viaggio: Jim Schwebach stava arrivando da Eau Claire nel Wisconsin e Ron Davis da Columbus, nell'Ohio.
Non erano "quella sporca dozzina". Negli abiti scuri, con le camicie bianche e le cravatte sobrie, i capelli tagliati con cura e l'aria ben nutrita, sembravano esattamente ciò che erano: normalissimi dirigenti d'azienda americani. Era difficile vederli come una squadra di mercenari. Coburn e Sculley avevano compilato due elenchi separati, ma su entrambi figuravano i nomi di quei cinque. Tutti avevano lavorato a Teheran, e quasi tutti avevano fatto parte del gruppo che aveva organizzato l'evacuazione. Tutti avevano esperienza militare o qualche specializzazione che poteva tornare utile. E tutti godevano della piena fiducia di Coburn. Mentre Sculley li chiamava al telefono, durante le prime ore del mattino, Coburn era andato all'archivio personale e aveva raccolto un fascicolo su ognuno di loro, con età, statura, peso, stato civile e conoscenza di Teheran. Quando erano arrivati a Dallas, ognuno aveva completato un questionario precisando l'esperienza militare, le scuole militari frequentate, l'addestramento con le armi e le altre specializzazioni. I fascicoli erano destinati al colonnello Simons, che era già partito da Red Bay. Ma prima dell'arrivo di Simons, Perot doveva chiedere se erano disposti a offrirsi volontari. Per la riunione con Perot, Coburn aveva preso tre stanze adiacenti. Avrebbero usato solo quella centrale: le altre due sarebbero rimaste vuote. Le aveva prese al solo scopo di evitare il rischio che qualcuno origliasse. Tutto sommato, era una situazione piuttosto melodrammatica. Coburn osservava gli altri e si domandava che cosa pensavano. Non sapevano ancora il motivo della convocazione, ma era probabile che l'avessero intuito. Non poteva dire che cosa pensasse Joe Poché: nessuno ci riusciva mai. Poché, un uomo basso di statura, taciturno, trentadue anni, teneva sempre per sé le sue emozioni. La voce era sempre tranquilla, il viso impassibile. Era stato sei anni nell'esercito e nel Vietman aveva comandato una batteria di mitraglieri. Aveva imparato a sparare con quasi tutte le armi in dotazione all'esercito, e per ammazzare il tempo, nel Vietnam, si era esercitato con una calibro quarantacinque. Era stato con l'EDS a Teheran per due anni: prima aveva progettato il programma dei computer che elencava i nomi degli aventi diritto all'assistenza medica, e più tardi era stato programmatore responsabile dell'archivio che costituiva la base dell'intero sistema assistenziale. Coburn sapeva che era un tipo logico e riflessivo, un uomo che non avrebbe mai dato il suo consenso a un'idea o a un piano se prima non ne avesse esaminato tutti gli aspetti e non ne avesse calcolato con cura tut-
te le conseguenze. I suoi punti di forza non erano il senso dell'umorismo e l'intuizione: erano l'intelligenza e la pazienza. Ralph Boulware era dodici centimetri più alto di Poché. Era uno dei due neri inclusi nell'elenco: aveva un volto grassoccio e gli occhietti vivaci, e parlava sempre in fretta. Per nove anni era stato un tecnico delle Forze Aeree e si era occupato dei complessi sistemi dei computer e dei radar dei bombardieri. Era rimasto a Teheran nove mesi soltanto; aveva cominciato come direttore della preparazione dei dati ed era stato rapidamente promosso direttore del centro dati. Coburn lo conosceva bene e lo trovava molto simpatico. A Teheran s'erano sbronzati spesso insieme; i loro figli erano compagni di giochi, e le loro mogli erano diventate amiche. Boulware era affezionato alla sua famiglia, ai suoi amici, al suo lavoro e alla vita. Amava la vita più di chiunque altro Coburn conoscesse, forse a eccezione di Ross Perot. E Boulware era anche un tipo dalla mentalità molto indipendente. Non esitava mai a dire quello che pensava. Come molti neri che avevano fatto carriera era piuttosto suscettibile, e ci teneva a far capire che non gli andava di subire imposizioni. A Teheran, durante l'Ashura, quando era andato a giocare a poker con Coburn e Paul, tutti gli altri avevano dormito in quella casa per sicurezza, secondo gli accordi presi in precedenza. Ma Boulware no. Non c'erano state discussioni né annunci sensazionali: Boulware aveva preso su ed era tornato a casa sua. Qualche giorno dopo aveva deciso che il lavoro che stava facendo a Teheran non valeva la pena di rischiare la sua sicurezza personale, e quindi era tornato negli Stati Uniti. Non era il tipo che si associava al branco solo perché era un branco: se pensava che il branco stesse andando nella direzione sbagliata, lo piantava e basta. Era il più scettico tra gli uomini riuniti all'Hilton Inn: se doveva esserci qualcuno che avrebbe trovato da ridire sull'idea dell'assalto alla prigione, sarebbe stato sicuramente Boulware. Glenn Jackson aveva anche meno degli altri l'aria del mercenario. Era un uomo mite e occhialuto, e non aveva esperienze militari, ma era un cacciatore appassionato e un ottimo tiratore. Conosceva bene Teheran: vi aveva lavorato sia per la Bell Helicopter sia per l'EDS. Era un tipo così franco e retto, pensava Coburn, che era difficile immaginarlo coinvolto negli inganni e nella violenza inevitabili in un tentativo di assalto a una prigione. Per giunta, Jackson era battista - gli altri erano cattolici, eccettuato Poché che non aveva mai confidato a nessuno la sua fede religiosa - e i battisti erano famosi perché battevano i pugni sulla Bibbia, non sulle facce altrui. Coburn si chiedeva come se la sarebbe cavata Jackson.
Si chiedeva la stessa cosa anche sul conto di Pat Sculley. Sculley aveva un ottimo stato di servizio militare - era stato cinque anni nell'esercito, ed era diventato istruttore dei Rangers con il grado di capitano - ma non aveva esperienza in fatto di combattimenti. Aggressivo ed estroverso negli affari, era uno dei migliori giovani dirigenti dell'EDS. Come Coburn, Sculley era un ottimista inguaribile; ma mentre l'ottimismo di Coburn era stato temperato dalla guerra, lui aveva conservato un'ingenuità giovanile. Se si dovesse arrivare alla violenza, si domandava Coburn, Sculley sarà abbastanza duro da sapersi destreggiare? Dei due uomini che non erano ancora arrivati, uno era il più qualificato per partecipare all'assalto a un carcere, e l'altro probabilmente era il meno adatto. Jim Schwebach s'intendeva di combattimenti più di quanto s'intendesse di computer. Era stato per undici anni nell'esercito, aveva prestato servizio con il5° gruppo delle Forze Speciali nel Vietnam, e aveva svolto quel tipo di attività di commando che era la specialità di Bull Simons, compiendo operazioni clandestine dietro le linee nemiche. Aveva addirittura più decorazioni di Coburn. Poiché aveva passato tanti anni sotto le armi era ancora un dirigente di basso livello, sebbene avesse trentacinque anni. Era andato a Teheran come apprendista ingegnere dei sistemi, ma era maturo e fidato, e Coburn gli aveva assegnato il compito di dirigere una squadra durante l'evacuazione. Era alto meno d'un metro e settanta, e aveva il portamento eretto di molti uomini di bassa statura, e l'indomabile spirito combattivo che costituiva l'unica difesa del ragazzo più piccolo della classe. Qualunque fosse il punteggio della partita, anche quando mancava un minuto allo scadere del tempo, Schwebach stringeva i denti, si rimboccava le maniche e si dava da fare. Coburn l'ammirava perché, per spirito di patriottismo, si era offerto di restare nel Vietnam anche quando sarebbe potuto tornare a casa. In combattimento, pensava Coburn, Schwebach era l'ultimo uomo al mondo che avresti voluto far prigioniero... era meglio ammazzarlo anziché catturarlo, perché avrebbe dato troppo filo da torcere. Ma quell'aspetto del carattere di Schwebach non era evidente a prima vista. Sembrava un tipo molto normale. Anzi, quasi non lo si notava. A Teheran aveva abitato più a sud di tutti gli altri, in un quartiere dove non c'erano altri americani, eppure spesso se ne era andato in giro per le strade, in blue jeans, una vecchia giacca militare e un berretto di lana, e nessuno gli aveva mai dato fastidio. Aveva il dono di non dare nell'occhio... un dono che poteva essere utile in un assalto a una prigione.
L'altro che doveva ancora arrivare era Ron Davis. Aveva trent'anni ed era il più giovane dell'elenco. Era figlio di un assicuratore, e sebbene fosse nero aveva fatto rapidamente carriera nel mondo dei bianchi. Erano pochi quelli che potevano vantare progressi così rapidi. Perot era molto fiero di lui. «La carriera di Ron è come un lancio sulla luna» diceva. Davis aveva acquisito una buona conoscenza del Farsi in un anno e mezzo di lavoro a Teheran alle dipendenze di Keane Taylor, che si occupava della computerizzazione della Banca Omran, la banca dello scià. Davis era allegro, mordace, spiritoso, una specie di versione più giovane del celebre comico negro Richard Pryor, anche se usava un linguaggio più castigato. Coburn pensava che fosse il più sincero tra gli uomini che figuravano nell'elenco. Davis non aveva difficoltà a confidarsi e a parlare dei suoi sentimenti e della sua vita privata. Per questa ragione, Coburn lo riteneva vulnerabile. D'altra parte, forse la capacità di aprirsi sinceramente con gli altri era un segno di grande forza d'animo. Comunque stessero le cose per quanto riguardava l'aspetto emotivo di Davis, fisicamente era solido e duro. Non aveva esperienza militare, ma era cintura nera di karaté. Una volta, a Teheran, tre uomini l'avevano aggredito per rapinarlo, e lui li aveva messi fuori combattimento in pochi secondi. Come la particolarità di Schwebach - non dare nell'occhio - anche l'efficienza di karateka di Davis poteva essere utile. Come Coburn, tutti e sei erano fra i trenta e i quarant'anni. Tutti erano sposati. E tutti avevano figli. La porta si aprì ed entrò Ross Perot. Strinse le mani a tutti, li salutò cordialmente, accennò alle mogli e ai figli dei quali ricordava tutti i nomi. Ci sa fare con la gente, pensò Coburn. «Schwebach e Davis non sono ancora arrivati» disse Coburn. «Non importa» rispose Perot, sedendosi. «Parlerò con loro più tardi. Li mandi nel mio ufficio appena arrivano.» S'interruppe per un attimo. «Dirò loro esattamente quello che sto per dire a voi tutti.» S'interruppe di nuovo, come se riordinasse i pensieri. Poi aggrottò la fronte e guardò gli altri con fermezza. «Cerco volontari per un'iniziativa che potrebbe costare la vita a qualcuno. A questo punto non posso ancora dirvi di cosa si tratta, anche se probabilmente l'avrete intuito. Voglio che ci pensiate sopra per cinque minuti, o dieci, o anche più, e poi torniate a parlare con me uno alla volta. Pensateci bene. Se per qualunque ragione non volete saperne, ditelo, e nessun altro lo saprà mai. Se decidete di offrirvi
volontari, vi dirò il resto. Adesso andate.» Gli altri si alzarono e uscirono, uno ad uno. Potrei rimetterci la pelle sulla Central Expressway, pensò Joe Poché. Sapeva benissimo qual era il piano pericoloso: avrebbero dovuto tirar fuori dal carcere Paul e Bill. Lo aveva sospettato fin da quando, alle due e mezzo del mattino, era stato svegliato in casa della suocera a San Antonio da una telefonata di Pat Sculley. Sculley, che era un pessimo bugiardo, aveva detto: «Ross mi ha detto di chiamarti. Vuole che tu venga a Dallas domattina per incominciare a lavorare su uno studio in Europa». Poché aveva risposto: «Pat, perché diavolo mi chiami alle due e mezzo del mattino per raccontarmi che Ross vuol farmi lavorare su uno studio in Europa?». «È piuttosto importante. Dobbiamo sapere quando potrai essere qui.» E va bene, aveva pensato Poché, non puoi parlarne per telefono. «Il primo volo parte probabilmente verso le sei o le sette del mattino.» «D'accordo.» Poché aveva fatto la prenotazione, poi era tornato a letto. Aveva messo la sveglia sulle cinque e aveva detto alla moglie: «Non so di cosa si tratta, ma vorrei tanto che qualcuno parlasse chiaro, per una volta». Per la verità immaginava di che cosa si trattasse, e i suoi sospetti avevano trovato conferma più tardi, quando Ralph Boulware era andato ad aspettarlo alla stazione di Coit Road e, anziché condurlo all'EDS, le aveva accompagnato a quell'albergo e aveva rifiutato di parlare di quello che stava succedendo. A Poché piaceva riflettere a fondo su ogni cosa, e aveva avuto tutto il tempo di considerare l'idea di tirar fuori con la forza Paul e Bill dalla prigione. La prospettiva lo entusiasmava. Gli ricordava i vecchi tempi, quando l'EDS aveva in tutto tremila dipendenti appena, e loro parlavano della Fede. Era la parola che usavano per indicare il modo in cui una società doveva trattare i dipendenti. In pratica si trattava di questo: l'EDS si prendeva cura dei suoi. Purché lavorassero con il massimo impegno, era pronta a star loro a fianco nelle difficoltà: quando si ammalavano, quando avevano problemi personali o familiari, quando si mettevano in un guaio. Era un po' come una grande famiglia. E questo a Poché faceva piacere, anche se non ne parlava... non parlava molto dei suoi sentimenti. Da quei tempi l'EDS era cambiata. I dipendenti adesso erano diventati
diecimila, e l'atmosfera di famiglia non era più tanto intensa. Nessuno parlava più della Fede. Ma c'era ancora, e quella riunione lo dimostrava. E sebbene il suo volto fosse impassibile come sempre, Joe Poché era contento. Naturalmente sarebbero andati a tirar fuori dal carcere i loro amici. Poché era felice di poter far parte della squadra. Contrariamente alle previsioni di Coburn, Ralph Boulware non trovò da ridire sull'idea d'una spedizione di salvataggio. Lo scettico, indipendente Boulware ne era entusiasta come tutti gli altri. Anche lui aveva intuito che cosa c'era in aria, aiutato - come Poché - dal fatto che Sculley non sapeva mentire in modo convincente. Boulware e la sua famiglia erano ospiti di alcuni amici di Dallas. Il giorno di Capodanno Boulware non aveva niente da fare e sua moglie gli aveva chiesto perché non andava in ufficio. Le aveva risposto che non avrebbe trovato niente da fare neppure là. Ma Mary Boulware non l'aveva bevuta. Era l'unica persona al mondo che poteva permettersi di tiranneggiare Ralph, e alla fine lui era andato in ufficio. E aveva trovato Sculley. «Che cosa succede?» aveva chiesto Boulware. «Oh, niente» aveva detto Sculley. «Cosa stai facendo?» «Prenoto posti sugli aerei.» Sculley sembrava di un umore strano. Boulware lo conosceva bene - a Teheran avevano avuto l'abitudine di andare in ufficio insieme, con la macchina, tutte le mattine - e l'istinto gli diceva che Pat Sculley nascondeva qualcosa. «Avanti, sentiamo» aveva detto. «Cosa c'è che non va?» «Niente, Ralph.» «Cosa stanno facendo per Paul e Bill?» «Stanno tentando tutti i canali per vedere di tirarli fuori. La cauzione è di tredici milioni di dollari, e dobbiamo far arrivare il denaro in Iran...» «Non dire fesserie. Laggiù il governo e l'intero sistema giudiziario si sono sfasciati. Non è rimasto nessun canale. Che cosa avete intenzione di fare?» «Senti, non devi preoccuparti...» «Non avrete intenzione di andare a tirarli fuori con la forza, per caso?» Sculley aveva taciuto. «Ehi, io ci sto» aveva detto Boulware. «Come sarebbe a dire, tu ci stai?»
«È evidente che avete intenzione di tentare qualcosa.» «E cioè?» «Basta con questi giochetti. Io ci sto.» «D'accordo.» Per lui era una decisione semplice. Paul e Bill erano suoi amici, e avrebbe potuto capitare a lui di finire in prigione, e in questo caso avrebbe voluto che i suoi amici venissero a liberarlo. C'era un altro fattore. Boulware era molto affezionato a Pat Sculley. E provava per lui un istinto protettivo. Secondo Boulware, Sculley non capiva che il mondo era pieno di corruzione, di delinquenza e di peccato: vedeva solo quello che voleva vedere: un pollo in ogni pentola, una Chevrolet davanti a ogni casa, un mondo tutto di mamme e di torte di mele. Se Sculley stava per venire coinvolto in un assalto al carcere, avrebbe avuto bisogno che Boulware gli desse una mano. Era un sentimento strano nei confronti di un altro uomo che aveva all'incirca la sua età, ma le cose stavano così. Questo Boulware l'aveva pensato il giorno di Capodanno, e lo pensava anche adesso. Perciò rientrò nella stanza dell'albergo e disse a Perot quello che aveva già detto a Sculley: «Io ci sto». Glenn Jackson non aveva paura di morire. Sapeva ciò che sarebbe venuto dopo la morte, e non aveva paura. Quando il Signore avesse voluto chiamarlo a sé, lui sarebbe stato pronto. Ma era preoccupato per la sua famiglia. Erano appena sfollati dall'Iran, e adesso erano ospiti di sua madre, nel Texas orientale. Lui non aveva ancora avuto il tempo di cominciare a cercare una casa. Se avesse partecipato alla spedizione, non avrebbe avuto la possibilità di occuparsi di quei problemi: avrebbe dovuto risolverli Carolyn. Avrebbe dovuto provvedere da sola a ricostruire la vita della famiglia, lì negli Stati Uniti. Avrebbe dovuto trovare una casa, iscrivere a scuola Cheryl, Cindy e Glenn Junior, acquistare o prendere in affitto il mobilio... Carolyn non era assolutamente un tipo indipendente. Per lei non sarebbe stato facile. E poi era già in collera con lui. Quella mattina l'aveva accompagnato a Dallas, ma Sculley gli aveva detto di rimandarla a casa. Non le aveva permesso di prendere alloggio all'Hilton Inn con suo marito. E lei si era arrabbiata. Ma anche Paul e Bill avevano moglie e figli. "Ama il prossimo tuo come
te stesso." Era scritto nella Bibbia, due volte: nel Levitico, capitolo 19, versetto 18; e nel Vangelo di Matteo, capitolo 19, versetto 19. Jackson pensò: se io fossi chiuso in carcere a Teheran sarei ben felice che qualcuno facesse qualcosa per me. Quindi si offrì volontario. Sculley aveva deciso già da diversi giorni. Aveva discusso quell'idea prima ancora che Perot incominciasse a parlare d'una spedizione di salvataggio. La prima volta era accaduto il giorno dopo l'arresto di Paul e Bill, quando Sculley aveva lasciato Teheran in aereo con Joe Poché e Jim Schwebach. Sculley era sconvolto all'idea di abbandonare Paul e Bill, tanto più che negli ultimi giorni le violenze a Teheran si erano drammaticamente intensificate. Il giorno di Natale, due afgani sorpresi a rubare nel bazar erano stati sommariamente impiccati da una folla esasperata; e un taxista che aveva cercato di passare avanti nella coda davanti a un distributore di benzina era stato ucciso da un soldato che gli aveva sparato alla testa. Che cosa avrebbero fatto agli americani, quando avessero incominciato? Era meglio non pensarci. Sull'aereo, Sculley era seduto accanto a Jim Schwebach. Si erano trovati d'accordo nel ritenere che la vita di Paul e di Bill era in pericolo Schwebach, che aveva esperienza in fatto di operazioni clandestine tipo commando, aveva ammesso che doveva essere possibile, per un piccolo gruppo di americani pronti a tutto, tirar fuori due uomini da un carcere iraniano. Quindi per Sculley era stata una lieta sorpresa quando, tre giorni dopo, Perot aveva detto: «Anch'io ho pensato la stessa cosa». Sculley aveva segnato il proprio nome nell'elenco. Non aveva bisogno di tempo per pensarci. Si offrì volontario. Sculley aveva segnato nell'elenco anche il nome di Coburn... senza dirglielo. Fino a quel momento lo spensierato Coburn, che viveva alla giornata, non aveva neppure pensato di poter far parte della squadra. Ma Sculley non si era sbagliato: Coburn ci teneva. Pensò: Liz non sarà contenta. E sospirò. C'erano molte cose che a sua moglie non andavano, da un po' di tempo. Gli stava un po' troppo attaccata, pensò. Non le era piaciuto che lui an-
dasse in Vietnam, non le piaceva che avesse hobby che lo tenevano lontano, e non le piaceva che lavorasse per un principale capace di chiamarlo a tutte le ore del giorno e della notte per affidargli qualche incarico speciale. Coburn non aveva mai vissuto come sarebbe piaciuto a Liz, e probabilmente ormai era troppo tardi per cominciare a farlo. Se fosse andato a Teheran per liberare Paul e Bill, forse l'avrebbe odiato perché l'aveva fatto. Ma se non fosse andato, probabilmente lui l'avrebbe odiata perché l'aveva indotto a restare. Scusami, Liz, pensò: ecco che si ricomincia. Jim Schwebach arrivò più tardi, nel pomeriggio, ma Perot gli fece lo stesso discorso. Schwebach aveva un fortissimo senso del dovere. (Un tempo aveva aspirato a diventare prete, ma i due anni passati in un seminario cattolico l'avevano mal disposto nei confronti della religione organizzata.) Era stato undici anni nell'esercito, e si era offerto volontario per ripetuti turni di servizio nel Vietnam, sempre per quel senso del dovere. In Asia aveva visto molti che svolgevano male i loro compiti, e sapeva di aver svolto bene il suo. Aveva pensato: Se io me ne vado, verrà qualcun altro a fare quel che faccio io, ma lo farà male, e come conseguenza ci rimetterà un braccio o una gamba o la vita. Sono addestrato per farlo, so farlo bene, e quindi devo continuare. Pensava più o meno la stessa cosa anche a proposito del salvataggio di Paul e Bill. Era l'unico della squadra che avesse già fatto qualcosa del genere. Avevano bisogno di lui. E poi, l'idea gli andava a genio. Era un combattente nato. Forse perché era alto un metro e sessantasette. Combattere era il suo mestiere, in un certo senso. Non esitò a offrirsi volontario. Non vedeva l'ora d'incominciare. Ron Davis, il secondo nero dell'elenco e il più giovane di tutti quanti, esitava. Era arrivato a Dallas quella sera ed era stato subito accompagnato alla sede centrale dell'EDS in Forest Lane. Non aveva mai conosciuto personalmente Perot, ma gli aveva parlato per telefono da Teheran durante l'evacuazione. Per qualche giorno, in quel periodo, aveva tenuto in funzione una linea telefonica tra Teheran e Dallas, ventiquattro ore su ventiquattro. Qualcuno, a Teheran, doveva dormire con il telefono all'orecchio e spesso
quel compito era spettato a Davis. Una volta era stato Perot a chiamare. «Ron, so che là la situazione è brutta, e le siamo grati perché è rimasto. Mi dica, c'è qualcosa che posso fare per lei?» Davis si era stupito. Stava facendo semplicemente ciò che facevano i suoi amici e non si aspettava un ringraziamento speciale. Ma aveva una preoccupazione. «Mia moglie è in stato interessante, e non la vedo da un po' di tempo» aveva detto a Perot. «Se potesse incaricare qualcuno di telefonarle per dire che sto bene e tornerò a casa al più presto possibile, le sarei molto grato.» Più tardi Davis aveva saputo da Marva che Perot non aveva incaricato nessuno di chiamarla... le aveva telefonato personalmente. Adesso, incontrando Perot per la prima volta, Davis era rimasto di nuovo molto impressionato. Perot gli aveva stretto calorosamente la mano e aveva detto: «Salve, Ron, come va?». Come se fossero amici da anni. Tuttavia, quando aveva sentito Perot parlare di "rischio della vita", Davis aveva avuto qualche dubbio. Voleva sapere qualcosa di più dell'operazione in programma. Sarebbe stato ben lieto di aiutare Paul e Bill, ma voleva avere la certezza che il piano fosse organizzato a dovere, a livello professionale. Perot gli parlò di Bull Simons, e bastò. Perot era fiero di loro. Tutti si erano offerti volontari. Era nel suo ufficio e fuori era buio. Stava attendendo l'arrivo di Simons. Il sorridente Jay Coburn; Pat Sculley con quella sua aria da ragazzo; Joe Poché, l'uomo di ferro; Ralph Boulware, alto, nero e scettico; il mite Glenn Jackson; Jim Schwebach, il "vecchio" soldato; Ron Davis, il pagliaccio. Tutti! Ed era profondamente grato, perché l'onere che si erano addossati era più suo che loro. Era stata una giornata straordinaria, in un modo o nell'altro. Simons aveva immediatamente accettato di venire a dare una mano. Paul Walker, un membro del servizio di sicurezza dell'EDS che tra l'altro aveva prestato servizio con Simons nel Laos, era saltato su un aereo nel cuore della notte ed era andato a Red Bay per occuparsi dei maiali e dei cani del colonnello. E sette giovani dirigenti avevano abbandonato tutto quello che stavano facendo e avevano accettato di partire per Teheran per organizzare l'assalto a una prigione.
Adesso erano in fondo al corridoio, nella sala del consiglio d'amministrazione dell'EDS, in attesa di Simons che aveva preso alloggio all'Hilton Inn ed era andato a cena con T. J. Marquez e Merv Stauffer. Perot pensò a Stauffer. Quarant'anni, piuttosto tarchiato, occhialuto, laureato in economia, Stauffer era il suo braccio destro. Ricordava chiaramente il loro primo incontro, quando aveva intervistato Stauffer prima di assumerlo. Merv, laureato in un'università del Kansas, sembrava arrivato diritto diritto da una fattoria, con quella giacca modesta e quei calzoni. E portava un paio di calzini bianchi. Durante il colloquio Perot aveva spiegato, con tutta la delicatezza possibile, che i calzini bianchi non erano adatti a un incontro d'affari. Ma quei calzini bianchi erano stati l'unico errore di Stauffer. Aveva dato a Perot l'impressione d'essere un tipo sveglio, solido, organizzato e abituato a lavorare sul serio. Con il passare degli anni Perot aveva scoperto che Stauffer aveva altre qualità, ancora più preziose. Aveva un occhio impareggiabile per i dettagli... che Perot non aveva. Era assolutamente imperturbabile. Ed era un grande diplomatico. Quando l'EDS si assicurava un contratto, spesso ciò significava trovarsi a lavorare con un servizio di data processing già esistente, con il relativo personale. A volte la situazione era difficile: il personale era per forza di cose diffidente, suscettibile, a volte risentito. Merv Stauffer - calmo, sorridente, premuroso, discreto, gentile e deciso - riusciva ad accattivarseli tutti. Fin dalla fine degli anni Sessanta lavorava direttamente con Perot. La sua specialità consisteva nel prendere un'idea nebulosa scaturita dalla fervida immaginazione di Perot, pensarci a fondo, mettere insieme i pezzi e fare funzionare il tutto. Qualche rara volta concludeva che l'idea era irrealizzabile... e quando Stauffer diceva così, Perot incominciava a pensare che forse era irrealizzabile davvero. Era appassionatissimo al suo lavoro. Stauffer era eccezionale, persino tra i "fanatici del lavoro" del sesto piano. Oltre a fare tutto ciò che il principale aveva sognato la notte prima, dirigeva la società immobiliare di Perot e la sua compagnia petrolifera, e gestiva e pianificava i suoi investimenti. Il modo migliore per aiutare Simons, aveva deciso Perot, era assegnargli Merv Stauffer. Si chiedeva se Simons era cambiato. Erano passati anni da quando si erano incontrati per l'ultima volta, in occasione di un banchetto. Simons gli aveva raccontato un episodio della sua vita.
Durante l'impresa di Son Tay, l'elicottero di Simons aveva sbagliato l'atterraggio. Era sceso in un recinto molto simile al campo di prigionia, ma distante circa quattrocento metri; e c'erano capannoni pieni di soldati nemici che dormivano. Svegliati dal chiasso e dai bengala, i soldati avevano incominciato a uscire dai capannoni, seminudi e insonnoliti ma armati. Simons stava fuori, davanti alla porta, con un sigaro acceso in bocca. Al suo fianco c'era un sergente grande e grosso. Quando un soldato usciva, vedeva il punto luminoso del sigaro di Simons ed esitava. Simons gli sparava. Il sergente buttava da parte il corpo, e restavano ad attendere un altro nemico. Perot non aveva saputo trattenersi dal fare una domanda: «Quanti uomini ha uccìso, quella volta?». «Dovevano essere settanta o ottanta» aveva risposto Simons senza scomporsi. Simons era stato un soldato straordinario, ma adesso faceva l'allevatore di maiali. Era ancora in forma? Aveva sessant'anni e già prima di Son Tay aveva avuto un colpo. Aveva ancora la mente lucida? Era ancora un vero capo? Avrebbe voluto il comando assoluto della spedizione, Perot ne era sicuro. Il colonnello avrebbe condotto l'operazione a modo suo, o non avrebbe voluto saperne. A Perot andava bene: lui aveva l'abitudine di assumere l'uomo più adatto per un lavoro, e poi gli lasciava mano libera. Ma Simons era ancora il massimo specialista in operazioni di salvataggio che esistesse al mondo? Sentì un suono di voci nell'anticamera. Erano arrivati. Si alzò, e Simons entrò accompagnato da T. J. Marquez e Merv Stauffer. «Colonnello Simons, come sta?» disse Perot. Non l'aveva mai chiamato "Bull" perché non gli piaceva. «Salve, Ross» disse Simons, stringendogli la mano. La stretta di mano era energica. Simons era vestito senza pretese, con i calzoni kaki, e il colletto della camicia sbottonato rivelava i muscoli del collo taurino. Era invecchiato: altre rughe sul viso aggressivo, altro grigio nei capelli che adesso erano più lunghi. Ma sembrava in ottima forma. Aveva la stessa voce profonda e rauca da fumatore, con un leggero accento newyorkese. Aveva portato le cartelle dei volontari che gli aveva consegnato Coburn. «Si accomodi» disse Perot. «Avete già cenato tutti?» «Siamo andati da Dusty's» disse Stauffer.
«Quand'è stata l'ultima volta che questo ufficio è stato spazzato per eliminare le "cimici"?» Perot sorrise. Simons era ancora lucido e sveglio: per prima cosa si era preoccupato che non ci fossero microspie. Bene. «Non è mai stato spazzato, colonnello.» «D'ora in poi voglio che tutte le stanze che useremo vengano controllate ogni giorno.» «Provvederò io» disse Stauffer. Perot disse: «Di qualunque cosa abbia bisogno, colonnello, basterà che ne parli a Merv. E adesso veniamo all'aspetto pratico. Le siamo molto grati d'essere venuto qui ad aiutarci, e vorremmo offrirle un compenso...» «Non ci pensi nemmeno» disse Simons in tono burbero. «Ma...» «Non voglio essere pagato per salvare due americani nei guai» disse il colonnello. «Non ho mai avuto premi speciali per farlo, e non intendo incominciare adesso.» Simons si era offeso. La stanza sembrava vibrare della sua irritazione. Perot si affrettò a fare marcia indietro: Simons era una delle pochissime persone che gli incutevano soggezione. Il vecchio guerriero non era cambiato, pensò. Benissimo. «La squadra la sta aspettando nella sala del consiglio d'amministrazione. Vedo che ha le cartelle personali, ma so che vorrà valutare direttamente gli uomini. Tutti conoscono Teheran, e tutti hanno esperienze militari o qualche specializzazione che può essere utile... ma spetta a lei decidere. Se per qualche ragione questi non le andassero, ne troveremo altri. È lei che comanda.» Perot si augurava che Simons non scartasse nessuno, ma doveva lasciargli la possibilità di scegliere. Simons si alzò. «Mettiamoci al lavoro.» Uscì con Stauffer. T. J. rimase. Disse a bassa voce: «Sua moglie è morta». «Lucille?» Perot non l'aveva ancora saputo. «Mi dispiace.» «Cancro.» «Hai un'idea di come lui l'abbia presa?» T. J. annuì. «Molto male.» Mentre anche T. J. usciva, entrò il figlio ventenne di Perot, Ross Junior. I figli di Perot capitavano spesso in ufficio, ma questa volta, con una riunione segreta in corso nella sala del consiglio d'amministrazione, Perot a-
vrebbe preferito che suo figlio avesse scelto un altro momento. Il ragazzo aveva già incontrato il colonnello e sapeva benissimo chi era. Ormai, pensò Perot, ha capito che Simons può essere aui con un unico scopo: organizzare una spedizione di salvataggio. Ross sedette. «Ciao, papà. Sono stato a trovare la nonna.» «Bene» disse Perot, guardando affettuosamente l'unico figlio maschio. Ross Junior era alto e snello, con le spalle larghe, e molto più bello di suo padre. Le ragazze gli ronzavano intorno come mosche: e il fatto che fosse l'erede di un patrimonio colossale era solo uno dei motivi del suo fascino. Lui si destreggiava come faceva con tutto: con modi irreprensibili e una maturità superiore ai suoi anni. Perot disse: «Dobbiamo chiarire una cosa, io e te. Conto di campare fino a cent'anni, ma se dovesse capitarmi qualcosa, voglio che abbandoni l'università e torni a casa a prenderti cura di tua madre e delle tue sorelle». «Certo che lo farei» disse Ross. «Non preoccuparti.» «E se dovesse capitare qualcosa a tua madre, voglio che tu viva in casa e ti occupi delle tue sorelle. So che sarebbe un peso, ma non voglio che affidi questo compito a gente stipendiata. Avrebbero bisogno di te, che sei della famiglia. Ti chiedo di vivere in casa con loro e di provvedere a tutto...» «Papà, lo farei anche se non ne avessi parlato.» «Bene.» Il ragazzo si alzò per andarsene. Perot l'accompagnò alla porta. Ross passò il braccio intorno alle spalle del padre e disse: «Ti voglio bene, papà». Perot ricambiò l'abbraccio. E si stupì nel vedere le lacrime negli occhi del figlio. Ross uscì. Perot tornò a sedersi. Quelle lacrime non avrebbero dovuto sorprenderlo. La loro era una famiglia unita, e Ross era molto affettuoso. Perot non aveva fatto piani precisi per andare a Teheran, ma sapeva che se i suoi uomini ci fossero andati a rischiare la vita, lui non poteva restare indietro. Anche Ross Junior l'aveva capito. Tutta la sua famiglia l'avrebbe appoggiato, e Perot lo sapeva. Margot avrebbe avuto il diritto di chiedergli: «Sta bene che rischi la vita per i tuoi dipendenti, ma noi?». Però non l'avrebbe mai detto. Durante la campagna in favore dei prigionieri di guerra, quando lui era andato nel Vietnam e nel Laos, quando aveva cercato di recarsi ad Hanoi, e la sua famiglia era stata costretta a circondarsi di guardie del corpo, nessuno si era lamentato, nes-
suno aveva detto: "E noi?" Anzi, l'avevano incoraggiato a fare ciò che considerava il suo dovere. Mentre stava riflettendo, entrò Nancy, la figlia maggiore. «Papi!» disse. Era il nomignolo affettuoso con cui chiamava il padre. «Nan, piccola mia! Vieni!» Lei girò intorno alla scrivania e gli sedette sulle ginocchia. Perot adorava Nancy. Diciotto anni, bionda, minuta ma energica, gli ricordava sua madre, Lulu May. Era decisa e ostinata come lui, e probabilmente aveva la stoffa del dirigente d'azienda non meno del fratello. «Sono venuta a salutarti... torno al Vanderbilt.» «Sei stata a trovare la nonna?» «Sì.» «Brava.» Nancy era d'ottimo umore, contenta di tornare a scuola, ignara della tensione e dei discorsi di morte, lì al sesto piano. «Posso avere un po' di fondi?» chiese. Perot sorrise con indulgenza e tirò fuori il portafogli. Come al solito, non sapeva rifiutarle nulla. Lei intascò il denaro, l'abbracciò, gli diede un bacio sulla guancia e corse fuori senza un pensiero al mondo. Questa volta c'erano due lacrime negli occhi di Perot. Sembrava una rimpatriata, pensò Jay Coburn: i veterani di Teheran riuniti nella sala del consiglio d'amministrazione ad attendere Simons. Parlavano dell'Iran e dell'evacuazione. Ralph Boulware chiacchierava a tutto spiano; Joe Poché rifletteva, e sembrava animato come un robot con il broncio; Glenn Jackson stava dicendo qualcosa a proposito dei fucili; Jim Schwebach sorrideva con quel suo sorriso sghembo, che ti faceva pensare che sapesse qualcosa che tu non sapevi; e Pat Sculley ricordava particolari dell'impresa di Son Tay. Sapevano tutti che stavano per incontrarsi con il leggendario Bull Simons. Sculley, quando era istruttore dei Rangers, aveva insegnato la famosa azione a sorpresa di Simons, e conosceva alla perfezione la pianificazione meticolosa, le esercitazioni interminabili; e soprattutto sapeva che Simons aveva riportato indietro vivi tutti i suoi cinquantanove uomini. La porta si aprì e una voce disse: «Attenti». Tutti scostarono le sedie e si alzarono. Coburn si voltò verso l'entrata.
Entrò Ron Davis, con un sorriso da un orecchio all'altro. «Accidenti a te, Davis!» esclamò Coburn, e tutti scoppiarono a ridere. Davis fece il giro della sala, salutando allegramente tutti quanti. Davis il pagliaccio, come sempre. Coburn li scrutò e si chiese come sarebbero cambiati di fronte al pericolo. I combattimenti erano una cosa strana, non si poteva mai prevedere come avrebbe reagito una persona. L'uomo che credevi più coraggioso crollava, e quello che ti aspettavi di veder scappare restava incrollabile come una roccia. Coburn non avrebbe mai dimenticato quello che era accaduto a lui. La crisi era venuta un paio di mesi dopo il suo arrivo nel Vietnam. Pilotava mezzi aerei da rifornimento, chiamati "lisci" perché non erano armati. Per sei volte, quel giorno, era tornato dalla zona dei combattimenti portando carichi di truppe. Era andata bene: neppure un colpo era stato sparato contro l'elicottero. La settima volta era andata in modo diverso. Una raffica di 12,75 aveva colpito l'apparecchio e aveva tranciato l'albero del rotore di coda. Quando gira il rotore principale di un elicottero, l'apparecchio tende naturalmente a girare nella stessa direzione. La funzione del rotore di coda è controbilanciare questa tendenza. Se si ferma, l'elicottero incomincia a roteare su se stesso. Subito dopo il decollo, quando l'apparecchio è a poca distanza dal suolo, in casi del genere il pilota può atterrare prima che la rotazione diventi troppo rapida. Più tardi, quando l'elicottero è in quota di crociera e a normale velocità di volo, il flusso dell'aria sulla fusoliera è abbastanza forte per impedire la rotazione. Ma Coburn era a una quota di 50 metri, la posizione peggiore, troppo in alto per atterrare, ma a una velocità ancora troppo bassa perché il flusso del vento stabilizzasse la fusoliera. La procedura consueta, in questi casi, era il blocco simulato del motore. Coburn l'aveva imparato al corso, e l'aveva provato e riprovato. Eseguì istintivamente la manovra, ma fu inutile: l'apparecchio stava già ruotando troppo in fretta. In pochi secondi fu assalito da una vertigine così forte che non sapeva più dov'era. Non poté far nulla per attutire l'atterraggio violento. L'elicottero scese, toccò con il pattino di destra (questo Coburn lo seppe più tardi) e una delle pale del rotore si fletté per l'urto, sfondò la fusoliera e si piantò nella testa del secondo pilota che morì sul colpo.
Coburn sentì l'odore del carburante e si affrettò a slacciarsi la cintura di sicurezza. Solo allora si accorse di essere capovolto, perché cadde battendo la testa. Ma riuscì a trascinarsi fuori dall'apparecchio: aveva riportato soltanto la compressione di un paio di vertebre del collo. Anche il suo capo equipaggio se la cavò. Gli uomini dell'equipaggio erano legati con le cinture di sicurezza, ma i sette militari che avevano a bordo no. L'elicottero non aveva portelli, e la forza centrifuga della rotazione li aveva scagliati fuori a una quota superiore ai trenta metri. Erano morti tutti. A quel tempo Coburn aveva vent'anni. Qualche settimana dopo s'era buscato un proiettile nel polpaccio, la parte più vulnerabile d'un pilota d'elicottero, che sta su un sedile blindato ma ha le gambe esposte. Se prima era incollerito, adesso era addirittura furibondo. Ne aveva abbastanza di fare da bersaglio. Andò dal comandante e chiese di essere assegnato ai mezzi armati, per poter uccidere qualcuno di quei bastardi laggiù che stavano cercando di uccidere lui. La domanda fu accolta. Da quel momento il sorridente Jay Coburn era diventato un militare professionista, lucido e freddo. Non fece amicizie profonde nell'esercito. Se qualcuno della sua unità veniva ferito, Coburn alzava le spalle e diceva: «È per questo che lo pagano». Sospettava che i suoi compagni lo giudicassero un po' maniaco. Ma non se ne curava. Era felice di pilotare mezzi armati. Ogni volta che si allacciava la cintura di sicurezza sapeva che stava partendo per uccidere o per essere ucciso. Quando spazzava una zona per spianare la strada alla fanteria sapendo che ci sarebbero andati di mezzo civili innocenti, donne e bambini, Coburn chiudeva la mente e apriva il fuoco. Adesso, ripensandoci dopo undici anni, diceva a se stesso: Ero un animale. Schwebach e Poché, i due uomini più taciturni tra i presenti, avrebbero compreso: anche loro c'erano stati, anche loro sapevano come erano andate le cose. Gli altri no: Sculley, Boulware, Jackson e Davis. Se la spedizione di salvataggio si mettesse male, si chiese per l'ennesima volta, come se la caveranno? La porta si aprì ed entrò Simons. Tutti tacquero mentre Simons si avvicinava al tavolo delle riunioni. È un gran figlio di puttana, pensò Coburn.
T. J. Marquez e Merv Stauffer seguirono Simons e sedettero accanto alla porta. Simons buttò in un angolo una valigia di plastica nera, si lasciò cadere su una sedia e accese un sigaro. Era vestito molto sportivamente, camicia e calzoni, senza cravatta, e aveva i capelli un po' troppo lunghi per un colonnello. Sembrava più un agricoltore che un militare, pensò Coburn. «Sono il colonnello Simons.» Coburn si aspettava che aggiungesse: Gli ordini li dò io, ascoltatemi e fate quello che dico, il mio piano è questo. Invece cominciò a fare domande. Voleva sapere tutto di Teheran: il clima, il traffico, di che cos'erano fatti gli edifici, quanta gente c'era per le strade, quanti erano i poliziotti e come erano armati. S'interessava a tutti i dettagli. Gli dissero che i poliziotti erano armati, tranne quelli che dirigevano il traffico. Come si distinguevano? Avevano i berretti bianchi. Gli dissero che c'erano taxi blu e taxi color arancio. Che differenza c'era? I taxi blu avevano tariffe e percorsi fissi. Quelli arancio potevano andare dovunque, in teoria, ma di solito, quando si fermavano, a bordo c'era già un passeggero e il taxista ti chiedeva da che parte volevi andare. Se andavi nella sua direzione potevi salire e annotavi la cifra indicata dal tassametro; quando scendevi pagavi la differenza, e quel sistema era motivo di innumerevoli discussioni con i taxisti. Simons chiese dove sì trovava esattamente il carcere. Merv Stauffer andò a prendere le carte topografiche di Teheran. Com'era l'edificio? Joe Poché e Ron Davis ricordavano d'essere passati in macchina lì davanti. Poché ne fece uno schizzo. Coburn stava seduto in silenzio e guardava Simons che lavorava. La richiesta d'informazioni era soltanto una metà di quello che stava facendo, e Coburn lo capiva benissimo: per anni era stato reclutatore dell'EDS, e sapeva riconoscere un'abile tecnica d'interviste. Simons valutava ognuno di loro, studiava le reazioni, le doti di buon senso. Come un reclutatore, faceva molte domande che lasciava in sospeso, e subito dopo chiedeva «Perché?» per dare agli interrogati la possibilità di rivelarsi, di vantarsi o di dar segni d'ansia. Coburn si chiedeva se Simons avrebbe bocciato qualcuno. A un certo punto, il colonnello disse: «Chi è disposto a morire per riuscirci?».
Nessuno fiatò. «Bene» commentò Simons. «Non accetterei uno che ha intenzione di morire.» La discussione si protrasse per ore. Simons l'interruppe poco dopo mezzanotte. Ormai era evidente che non conoscevano abbastanza il carcere per incominciare a preparare i piani. Coburn fu incaricato di scoprire qualcosa di più durante la notte: avrebbe fatto qualche telefonata a Teheran. Il colonnello disse: «Può chiedere informazioni sul carcere senza far capire perché le interessano?». «Cercherò d'essere discreto» disse Coburn. Simons si rivolse a Merv Stauffer. «Abbiamo bisogno d'un posto sicuro per riunirci. Un posto che non sia collegabile all'EDS.» «E l'albergo?» «Le pareti sono sottili.» Stauffer rifletté un momento. «Ross ha una casetta sul lago di Grapevine, dalle parti dell'aeroporto Dallas-Fort Worth. Con questo tempo, non ci sarà nessuno a pescare o a fare il bagno.» Simons non sembrava molto convinto. Stauffer disse: «Vuole che l'accompagni là in macchina domattina a dare un'occhiata?». «Sta bene.» Simons si alzò. «Abbiamo fatto tutto quello che potevamo, a questo punto.» Cominciarono a uscire. Mentre se ne andavano, Simons trattenne Davis per parlargli a quattr'occhi. «Lei non è un tipo tanto duro, Davis.» Ron Davis fissò sorpreso il colonnello. «Cosa le fa credere d'essere un duro?» Per Davis fu come una mazzata. Per tutta la sera, Simons si era mostrato cortese, ragionevole, tranquillo. Adesso sembrava avesse voglia di litigare. Che cosa stava succedendo? Davis pensò alla sua conoscenza delle arti marziali e ai tre rapinatori che aveva sistemato a Teheran, ma disse: «Non mi ritengo affatto un duro». Simons si comportò come se non l'avesse sentito. «Contro una pistola il karaté non serve a niente.» «Credo proprio di no.» «La mia squadra non ha bisogno di bastardi neri con la voglia di menar
le mani.» Davis incominciò a capire. Stai calmo, si disse. «Non mi sono offerto perché ho voglia di menar le mani, colonnello...» «Allora perché si è offerto?» «Perché conosco bene Paul e Bill e le loro mogli e i loro figli e voglio rendermi utile.» Simons gli rivolse un cenno di saluto. «Ci vediamo domani.» Davis si chiese se questo significava che aveva superato la prova. Il pomeriggio dell'indomani, 3 gennaio 1979, s'incontrarono nella casa di campagna di Perot sulle rive del lago di Grapevine. Le altre due o tre case vicine erano deserte, come aveva previsto Merv Stauffer. Quella di Perot era circondata da vari ettari di fitti boschi, e i prati scendevano fino all'acqua. Era una costruzione di tronchi, piccola e compatta: la rimessa per i motoscafi era più grande dell'abitazione. La porta era chiusa e nessuno di loro aveva pensato di chiedere le chiavi. Schwebach scassinò la serratura d'una finestra e fece entrare gli altri. C'erano un soggiorno, un paio di stanze da letto, la cucina e un bagno. Le tinte predominanti erano allegre, bianco e azzurro, e i mobili non erano lussuosi. Sedettero in soggiorno con le carte topografiche e i blocchi da disegno, i pennarelli fluorescenti e le sigarette. Coburn fece il suo rapporto. Durante la notte aveva parlato con Majid e altri due o tre, a Teheran. Era stato difficile cercare di ottenere informazioni dettagliate sul carcere fingendo una semplice curiosità, ma pensava d'esserci riuscito. Il carcere faceva parte del complesso del ministero della Giustizia che occupava un isolato intero. L'ingresso della prigione era dalla parte posteriore. Accanto all'entrata c'era un cortile che soltanto una cancellata di ferro alta tre metri e mezzo divideva dalla strada. In quel cortile prendevano l'aria i detenuti. Evidentemente era anche il punto debole del carcere. Su questo Simons era d'accordo. Tutto ciò che dovevano fare, quindi, era attendere che i detenuti venissero portati all'aria, scavalcare la recinzione, prendere Paul e Bill, riscavalcare la cancellata e abbandonare l'Iran. Incominciarono a discutere i dettagli. Come avrebbero scavalcato la cancellata? Dovevano usare scale a pioli o salire l'uno sulle spalle dell'altro? Sarebbero arrivati con un furgone, decisero, e sarebbero saliti sul tetto.
Usare un furgone anziché una macchina aveva un altro vantaggio: nessuno avrebbe potuto vedere all'interno mentre andavano alla prigione, e soprattutto mentre tornavano indietro. Avrebbe guidato Joe Poché, perché era quello che conosceva meglio le vie di Teheran. Come si sarebbero comportati con le guardie? Non volevano uccidere nessuno. Non ce l'avevano con la popolazione iraniana e neppure con le guardie. Non era colpa loro se Paul e Bill erano stati arrestati ingiustamente. Inoltre, se ci fosse scappato il morto, lo scandalo sarebbe stato più grave, e la fuga dall'Iran sarebbe diventata più rischiosa. Ma le guardie del carcere non avrebbero certamente esitato a sparare a loro. La protezione migliore, disse Simons, era una combinazione di sorpresa, shock e rapidità. Avrebbero avuto il vantaggio della sorpresa. Per qualche secondo le guardie della prigione non avrebbero capito che cosa stava succedendo. Poi i soccorritori avrebbero dovuto fare qualcosa per costringere le guardie a mettersi al riparo. L'ideale era sparare con i fucili da caccia. Un fucile da caccia produceva un gran bagliore e parecchio chiasso, soprattutto in una via cittadina; e questo avrebbe indotto le guardie a reagire per mettersi al sicuro, anziché attaccare gli assalitori. Questo avrebbe permesso di guadagnare qualche altro secondo. E se avessero agito rapidamente, quei secondi potevano essere sufficienti. Ma potevano non esserlo. Il soggiorno si riempì di fumo di tabacco, via via che il piano prendeva forma. Simons fumava un sigaro dopo l'altro, ascoltava, faceva domande, pilotava la discussione. È un esercito molto democratico, pensò Coburn. Assorbiti dal piano, i suoi amici stavano dimenticando le mogli e i figli, i mutui, le tosaerba e le station wagon; e dimenticavano anche quanto fosse strana l'idea di far evadere con la forza due detenuti. Davis aveva smesso di fare il pagliaccio, Sculley non aveva più l'aria scanzonata, era diventato freddo e calcolatore. Poché voleva discutere tutto fin nei minimi particolari, come al solito; e come al solito Boulware era scettico. Il pomeriggio passò e venne sera. Decisero che il furgone sarebbe salito sul marciapiedi accanto alla cancellata. In Iran, quel modo di parcheggiare non avrebbe dato nell'occhio, dissero a Simons. Il colonnello avrebbe preso posto sul sedile anteriore, a fianco di Poché, con un fucile da caccia na-
scosto sotto la giacca. Sarebbe balzato fuori e si sarebbe messo davanti al furgone. Lo sportello posteriore si sarebbe aperto e sarebbe sceso Ralph Boulware, anche lui con un fucile da caccia sotto la giacca. Fino a quel momento, nessuno avrebbe notato qualcosa di fuori dell'ordinario. Quando Simons e Boulware fossero stati pronti a sparare per coprire gli altri, Ron Davis sarebbe smontato, si sarebbe arrampicato sul tetto del furgone, sarebbe passato alla sommità della cancellata e poi sarebbe saltato nel cortile. Quel compito venne assegnato a Davis perché era il più giovane e il più in forma e il salto era di tre metri e mezzo. Coburn l'avrebbe seguito oltre la recinzione. Lui non era in forma, ma la sua faccia era familiare a Paul e Bill, e appena l'avessero visto i due avrebbero capito che erano venuti a liberarli. Poi Boulware avrebbe calato nel cortile una scala a pioli. Fin qui potevano agire di sorpresa, se fossero stati abbastanza svelti: ma a questo punto le guardie avrebbero sicuramente reagito. Simons e Boulware avrebbero sparato in aria con i fucili da caccia. Le guardie si sarebbero buttate a terra, i detenuti iraniani sarebbero corsi di qua e di là, confusi e spaventati, e i salvatori avrebbero guadagnato qualche altro secondo. E se qualcuno fosse intervenuto dall'estero del carcere? chiese Simons. Poliziotti o militari per la strada, o dimostranti rivoluzionari o semplicemente passanti animati da spirito civico? Dovevano esserci due sentinelle, decisero, una a ogni estremità della via. Sarebbero arrivati con una macchina pochi secondi prima del furgone, armati di pistole. Il loro compito era semplicemente fermare chiunque tentasse di intervenire. Furono scelti Jim Schwebach e Pat Sculley. Coburn era sicuro che Schwebach non avrebbe esitato a far fuoco, se fosse stato necessario; e Sculley, sebbene non avesse mai sparato a nessuno in vita sua, era diventato così sorprendentemente freddo e lucido durante la discussione che Coburn non stentava a immaginare che si sarebbe mostrato altrettanto implacabile. Glenn Jackson avrebbe guidato la macchina: non si sarebbe posto il problema di costringere il battista a sparare a qualcuno. Intanto, nella confusione scatenata nel cortile, Ron Davis avrebbe sistemato le guardie più vicine, mentre Coburn tirava fuori Paul e Bill dal branco e li portava alla scala. Dall'alto della cancellata sarebbero saltati sul tetto del furgone e da lì a terra, e sarebbero saliti a bordo. Quindi Coburn e
Davis li avrebbero seguiti. «Ehi, ma io sono quello che rischia di più» disse Davis. «Diavolo, sarò il primo a entrare e l'ultimo a uscire!» «Non dire fesserie» borbottò Boulware. «Andiamo avanti.» Simons sarebbe salito nella cabina del furgone, Boulware sarebbe saltato dietro e avrebbe chiuso lo sportello, e Poché li avrebbe portati via a tutta velocità. Jackson, con la macchina, avrebbe ripreso a bordo i due "pali" Schwebach e Sculley, e avrebbe seguito il furgone. Durante la fuga, Boulware avrebbe potuto sparare dal finestrino posteriore, e Simons avrebbe eventualmente sgombrato la strada davanti. Sculley e Schwebach, sulla macchina, avrebbero potuto tenere a bada gli inseguitori, se ce ne fossero stati. Arrivati a un punto prestabilito avrebbero abbandonato il furgone salendo su varie macchine, e si sarebbero diretti verso la base aerea di Doshen Toppeh, alla periferia della città. Un jet dell'aeronautica militare li avrebbe portati fuori dall'Iran: a prendere gli accordi necessari avrebbe provveduto Perot. Alla fine della serata avevano abbozzato un piano. Prima che se ne andassero, Simons raccomandò di non parlare di quel piano né con le loro mogli, né tra di loro. Ognuno doveva inventare un pretesto per spiegare perché avrebbe lasciato gli Stati Uniti tra una settimana circa. Inoltre, soggiunse guardando i portacenere pieni e le pance prominenti dei suoi uomini, ognuno doveva darsi da fare per tornare in forma. L'operazione di salvataggio non era più un'idea pazzesca di Ross Perot: stava diventando una realtà. Jay Coburn fu l'unico a fare un serio tentativo d'ingannare la moglie. Tornò all'Hilton Inn e chiamò Liz. «Ciao, tesoro.» «Ciao, Jay! Dove sei?» «Sono a Parigi...» Anche Joe Poché chiamò la moglie dall'Hilton. «Dove sei?» «A Dallas.» «E cosa stai facendo?» «Lavoro all'EDS, naturalmente.» «Joe, l'EDS di Dallas ha chiamato me per chiedere dove sei!» Poché si rese conto che qualcuno, all'oscuro della spedizione, aveva cer-
cato di rintracciarlo. «Non sono in ufficio, sto lavorando direttamente con Ross. Si sono dimenticati di avvertirli, ecco tutto.» «E che lavoro stai facendo?» «Riguarda certe cose che bisogna fare per Paul e Bill.» «Oh...» Quando Boulware tornò dagli amici che l'ospitavano con la famiglia, le due figlie, Stacey Elaine e Kecia Nicole, dormivano. Sua moglie chiese: «Cos'hai fatto di bello oggi?». I piani per assaltare un carcere, pensò Boulware. E rispose: «Oh, ordinaria amministrazione». Lei lo guardò in modo strano. «Allora, che cos'hai fatto?» «Niente di speciale.» «Per uno che non ha fatto niente di speciale, eri molto occupato. Ti ho telefonato due o tre volte... mi hanno risposto che non riuscivano a trovarti.» «Ero in giro. Ehi, posso avere una birra?» Mary Boulware era una donna franca e aperta e non era abituata agli inganni. Era intelligente. Ma sapeva che Ralph aveva idee precise sui ruoli del marito e della moglie. Forse erano idee antiquate, ma nel loro matrimonio funzionavano. Se lui non voleva parlarle di certi aspetti del suo lavoro, pazienza, non avrebbe insistito. «Arriva la birra...» Jim Schwebach non tentò neppure d'ingannare sua moglie Rachel. Lei aveva già capito. Quando Schwebach aveva ricevuto la prima telefonata da Pat Sculley, gli aveva chiesto: «Chi era?». «Pat Sculley. Chiamava da Dallas. Vogliono che vada là a lavorare su uno studio in Europa.» Rachel conosceva Jim da vent'anni - avevano incominciato a frequentarsi quando lui aveva sedici anni e lei diciotto - e sapeva leggergli nella mente. Aveva ribattuto: «Hanno intenzione di tornare laggiù per tirar fuori dal carcere quei due». Schwebach aveva replicato fiaccamente: «Rachel, non capisci ormai sono fuori da quel genere di attività». «Ma è quello che farai...» Pat Sculley non riusciva a mentire neppure con i colleghi e con la moglie non ci si provò. Raccontò tutto a Mary. Ross Perot disse tutto a Margot. E persino Simons, che non aveva una moglie pronta ad assediarlo, venne
meno alle regole di sicurezza stabilite da lui stesso dicendolo a suo fratello Stanley, nel New Jersev... Fu altrettanto impossibile nascondere il piano della spedizione agli altri dirigenti dell'EDs. Il primo a capire tutto fu Keane Taylor, l'alto, elegante e suscettibile ex marine che Perot aveva bloccato a Francoforte per rispedirlo a Teheran. Fino dal giorno di Capodanno, quando Perot aveva detto: «La rimando a Teheran per una cosa molto importante» Taylor aveva avuto la certezza che si stesse nreparando un'operazione segreta; e non ci aveva messo molto a capire chi la stava pianificando. Un giorno, chiamando Dallas da Teheran, chiese di Ralph Boulware. «Boulware non c'è» gli risposero. «Quando tornerà?» «Non sappiamo.» Taylor, che non aveva mai sopportato gli stupidi, alzò la voce. «E allora, dove è andato?» «Non siamo sicuri.» «Come, non siete sicuri?» «È in vacanza.» Taylor conosceva Boulware da anni. Era stato Taylor a dare a Boulware i primi incarichi importanti. Erano compagni di bevute. Molte volte Taylor, mentre beveva con Ralph nelle ore piccole, si era guardato intorno e si era accorto d'essere l'unico bianco in un bar pieno di negri. Quelle notti si avviavano barcollando verso la casa di quello di loro che abitava più vicino, e la moglie sfortunata che li accoglieva telefonava all'altra e diceva: «Tutto bene. Sono qui». Sì, Taylor conosceva Boulware, e non riusciva a credere che fosse andato in vacanza mentre Paul e Bill erano ancora in carcere. L'indomani chiese di Pat Sculley e ottenne le stesse risposte. Boulware e Sculley in vacanza mentre Paul e Bill erano in galera? Fesserie. Il giorno dopo chiese di Coburn. Stessa storia. La faccenda cominciava ad avere un senso. Coburn era in ufficio con Perot quando Perot aveva rispedito Taylor a Teheran. Coburn, il direttore del personale, l'organizzatore dell'evacuazione, era la persona più qualificata per organizzare anche un'operazione segreta. Taylor e Rich Gallagher, l'altro funzionario dell'EDS rimasto a Teheran,
cominciarono a compilare un elenco. Boulware, Sculley, Coburn Ron Davis, Jim Schwebach e Joe Poché erano tutti "in vacanza". Quegli uomini avevano varie cose in comune. Quando Paul Chiapparone era arrivato a Teheran si era accorto che l'attività dell'EDS non era organizzata come piaceva a lui: era troppo disinvolta e spensierata, troppo persiana. I tempi del contratto con il ministero non venivano rispettati. Paul aveva fatto intervenire alcuni funzionari pratici e duri, e tutti insieme avevano rimesso il lavoro sui binari giusti. Uno degli uomini cui era ricorso Paul era stato lo stesso Taylor. E Bill Gaylord. E Coburn, e Sculley, e Boulware, e tutti quelli che adesso erano "in vacanza" Avevano un'altra cosa in comune: erano tutti soci della cosiddetta Scuola Domenicale di Poker Cattolico-Romana di Teheran. Come Paul e Bill, come lo stesso Taylor, erano tutti cattolici, a eccezione di Joe Poché (e di Glenn Jackson, l'unico componente della spedizione che Taylor non aveva individuato). Ogni domenica si radunavano nella missione cattolica di Teheran. Dopo la messa andavano tutti a pranzo a casa dell'uno o dell'altro. E mentre le mogli cucinavano e i figli giocavano, gli uomini facevano qualche partita a poker. Non c'era niente di meglio del poker per rivelare il vero carattere di un uomo. Se, come ormai sospettavano Taylor e Gallagher, Perot aveva chiesto a Coburn di mettere insieme una squadra di uomini completamente fidati, era inevitabile che Coburn avesse scelto quelli della "scuola di poker". «Vacanze un accidenti» disse Taylor a Gallagher. «Questa è una spedizione di salvataggio.» La squadra ritornò nella casa sul lago il mattino del 4 gennaio e riprese la discussione del piano. Simons aveva una pazienza infinita per quanto riguardava i dettagli, ed era deciso a prepararsi per ogni possibile evenienza. In questo era aiutato da Joe Poché, le cui domande instancabili - per quanto a Coburn sembrassero noiose - erano sempre costruttive, e portavano a numerosi miglioramenti del programma. Innanzi tutto, Simons non era soddisfatto del sistema ideato per proteggere i fianchi della squadra di salvataggio. L'idea che Schwebach e Sculley sparassero a chiunque cercasse d'intromettersi era inaccettabile. Sarebbe stato meglio creare una diversione per distrarre i poliziotti e i militari che
si trovassero nei pressi. Schwebach propose di incendiare una macchina in fondo alla strada del carcere. Il colonnello non era sicuro che sarebbe bastato... lui voleva far saltare in aria un edificio intero. Comunque, a Schwebach fu assegnato il compito di preparare una bomba a tempo. Idearono una piccola precauzione che avrebbe potuto far loro acquistare un paio di secondi. Simons sarebbe sceso dal furgone a una certa distanza dal carcere e si sarebbe avvicinato alla cancellata. Se c'era via libera, avrebbe fatto cenno al furgone di avvicinarsi. Un altro punto debole del piano era il problema di scendere dal mezzo e salire sul tetto. Tutti quei movimenti avrebbero richiesto secondi preziosi. E chissà se Paul e Bill, dopo le settimane trascorse in prigione, sarebbero stati in grado di arrampicarsi su una scala a pioli e di saltare sul tetto di un camioncino. Furono prese in esame tutte le soluzioni possibili - un'altra scala a pioli, un materasso per terra, maniglie fissate al tetto - ma alla fine optarono per quella più semplice: avrebbero praticato un'apertura nel tetto del furgone e sarebbero usciti ed entrati di lì. Un'altra piccola miglioria, per quelli che avrebbero dovuto lanciarsi giù attraverso l'apertura, era un materasso sul pavimento del furgone per attutire la caduta. Durante la fuga avrebbero avuto tempo di cambiare aspetto. A Teheran avevano deciso di portare jeans e giubbotti, e stavano incominciando a farsi crescere barba e baffi per dare meno nell'occhio; ma sul furgone avrebbero caricato abiti a doppio petto e rasoi a batteria, e prima di lasciarlo per passare sulle macchine si sarebbero rasati e avrebbero cambiato vestiti. Ralph Boulware, indipendente come sempre, non voleva saperne dei jeans e del giubbotto. In doppiopetto, con camicia bianca e cravatta, si sentiva a suo agio e capace di farsi valere, soprattutto a Teheran, dove l'abbigliamento occidentale elegante indicava che un uomo apparteneva alle classi dominanti. Simons acconsentì: l'importante, disse, era che ciascuno si sentisse a suo agio e sicuro di sé nel corso dell'operazione. Alla base aerea di Doshen Toppeh, dove intendevano partire con un jet dell'aeronautica militare, c'erano aerei e personale sia americani sia iraniani. Gli americani, naturalmente, sarebbero stati lì ad aspettarli: ma cosa sarebbe successo se le sentinelle iraniane, ai cancelli, avessero fatto storie? Decisero che si sarebbero tutti muniti di carte d'identità militari false. Alcune mogli dei dirigenti dell'EDS avevano lavorato presso il comando militare di Teheran e avevano ancora i documenti relativi: Merv Stauffer se ne sarebbe fatto consegnare uno da usare come modello per i falsi.
Durante queste discussioni, notò Coburn, Simons non aveva ancora innestato le marce alte. Fumava un sigaro dopo l'altro - Boulware gli diceva «Non si preoccupi di morire ammazzato, morirà di cancro» - e si limitava quasi esclusivamente a fare domande. I piani venivano decisi da tutti, tutti dicevano la loro, e le decisioni venivano prese di comune accordo. Eppure il rispetto di Coburn per Simons cresceva. Quell'uomo era capace, intelligente, meticoloso e ricco d'immaginazione. Ed era anche spiritoso. Coburn si accorgeva che anche gli altri cominciavano a farsi un'idea precisa del colonnello. Se qualcuno faceva una domanda sciocca, Simons rispondeva bruscamente. Perciò esitavano prima di chiedere qualcosa, e si domandavano come avrebbe reagito. In questo modo li stava abituando a pensare come lui. Il secondo giorno, nella casa del lago, videro Simons indignato. Com'era prevedibile, il colpevole fu il giovane Ron Davis. Erano tutti allegri, e Davis era il più allegro di tutti. Coburn l'approvava: l'ilarità contribuiva ad allentare la tensione, in un'operazione simile. Sospettava che anche Simons la pensasse così. Ma quella volta Davis esagerò. Simons teneva un pacchetto di sigari sul pavimento accanto alla sedia, e altri cinque in cucina. Davis, che lo trovava simpatico e non ne faceva mistero, disse con sincera preoccupazione: «Colonnello, lei fuma troppo, le fa male». Per tutta risposta Simons gli lanciò l'Occhiata del Toro, ma Davis non vi fece caso. Pochi minuti dopo andò in cucina e nascose i cinque pacchetti di sigari nella lavastoviglie. Quando Simons finì il primo pacchetto andò a cercare gli altri e non li trovò. Senza tabacco non funzionava. Stava per salire in macchina per andare a comprare altri sigari quando Davis aprì la lavastoviglie e disse: «Li ho messi qui». «Se li tenga, maledizione» borbottò Simons, e uscì. Quando tornò con altri cinque pacchetti disse a Davis: «Questi sono miei. Non si azzardi a toccarli». Davis si sentì come un bambino messo in castigo. Quello fu il primo e l'ultimo scherzo che fece al colonnello Simons. Mentre la discussione continuava, Jim Schwebach, seduto sul pavimento, stava cercando di fabbricare una bomba. Sarebbe stato troppo pericoloso cercare di far passare una bomba, o an-
che i pezzi per costruirla, dalla dogana iraniana. «È un rischio che non dobbiamo correre» disse Simons; quindi Schwebach doveva ideare un ordigno che si potesse preparare con ingredienti facilmente reperibili in Iran. L'idea di far saltare in aria un edificio fu scartata: era troppo ambiziosa e soprattutto c'era il pericolo di uccidere qualche innocente. Per creare una diversione avrebbero incendiato una macchina. Schwebach sapeva preparare il "napalm istantaneo" con benzina, sapone in scaglie e un po' di nafta. I due problemi erano il timer e la miccia. Negli Stati Uniti avrebbero usato un timer elettrico collegato a un motorino; ma a Teheran avrebbe dovuto accontentarsi di mezzi più primitivi. Schwebach accettò allegramente la sfida. Era appassionato di meccanica: il suo orgoglio era una bruttissima Oldsmobile Cutlass del '73, ridotta al minimo indispensabile, che filava come una palla da cannone. Incominciò a fare esperimenti con un antiquato contaminuti da cucina a orologeria, che batteva un martelletto su un campanello. Fissò un fiammifero al fosforo al martelletto e mise un pezzo di carta vetrata al posto del campanello, per accendere il fiammifero che, a sua volta, avrebbe acceso una miccia meccanica. Era un sistema che non dava affidamento, e destava grande ilarità tra gli altri, che ridevano e fischiavano ogni volta che il fiammifero non si accendeva. Alla fine, Schwebach optò per il congegno a tempo più antico: una candela. Provò a far bruciare una candela per controllare quanto impiegava a consumarsi di due centimetri e mezzo, e quindi ne tagliò un'altra in modo che durasse quindici minuti. Poi sbriciolò le capocchie di parecchi fiammiferi al fosforo, ridusse in polvere il materiale infiammabile, e lo avvolse in un pezzetto di foglio d'alluminio per cucina. Infilò il cartoccio nella base della candela: quando questa bruciò completamente, riscaldò l'alluminio e le capocchie esplosero. Il foglio d'alluminio era più sottile nella parte inferiore, in modo che l'esplosione si sfogasse verso il basso. La candela, con questa miccia primitiva ma sicura, fu infilata nel collo di un recipiente di plastica grande quanto una borraccia e pieno di benzina gelificata. «Basta accendere la candela e poi andarsene» spiegò Schwebach. «E dopo un quarto d'ora scoppia un bell'incendio.» E poliziotti, soldati, rivoluzionari e passanti - più probabilmente alcune
guardie del carcere - avrebbero dedicato la loro attenzione a un'automobile che bruciava a trecento metri di distanza mentre Ron Davis e Jay Coburn scavalcavano la cancellata e si lanciavano nel cortile. Quel giorno lasciarono l'Hilton Inn. Coburn dormì nella casa sul lago, gli altri presero alloggio all'Airport Marina - che era più vicino al lago di Grapevine - eccettuato Ralph Boulware, che insistette per tornare a casa dalla sua famiglia. Durante i quattro giorni successivi fecero ginnastica, acquistarono il materiale necessario, si allenarono al tiro a segno, studiarono ripetutamente il piano d'attacco e lo perfezionarono ancora. I fucili da caccia si potevano acquistare a Teheran, ma l'unico tipo di munizioni autorizzato dallo scià era rappresentato dai pallini per sparare alla selvaggina da penna. Ma Simons era un esperto in materia, e quindi decisero di portare le cartucce in Iran di contrabbando. Il guaio, quando si mettevano i pallettoni nelle cartucce per i pallini, era che in proporzione ce ne stavano molto meno: il colpo avrebbe avuto grande forza di penetrazione, ma la rosa sarebbe stata ridotta. Decisero di usare il tipo n. 2, che avrebbe dato una rosa abbastanza ampia per mettere fuori uso più di un uomo alla volta, ma aveva una penetrazione sufficiente per fracassare il parabrezza d'una macchina inseguitrice. Nell'eventualità che le cose si mettessero veramente male, ogni componente della squadra avrebbe portato anche una fondina con una Walther PPK. Merv Stauffer incaricò Bob Snyder, capo del servizio di sicurezza dell'EDS, un uomo che capiva quando era il caso di far domande, di acquistare le PPK al Ray's Sporting Goods di Dallas. Stauffer s'informò per scoprire quali aeroporti degli Stati Uniti non effettuavano il controllo fluoroscopico dei bagagli in partenza. Uno era il Kennedy. Schwebach comprò due valigie di Vuitton, più profonde delle valigie normali, rigide e con gli angoli rinforzati. Accompagnato da Coburn, Davis e Jackson, andò nel laboratorio di falegnameria nella casa di Perot a Dallas: e incominciarono a fare le prove per dotare le valigie di un doppio fondo. Schwebach era felice all'idea di far passare delle pistole nascoste nel doppio fondo d'una valigia sotto il naso di doganieri iraniani. «Basta sapere come lavorano quelli, per non correre il rischio di farsi fermare» disse. Il suo ottimismo non era condiviso dagli altri. Se l'avessero fermato e avesse-
ro scoperto le pistole, c'era un piano di riserva. Avrebbe dichiarato che la valigia non era la sua. Sarebbe ritornato al servizio consegna bagagli e là, naturalmente, avrebbe trovato un'altra valigia di Vuitton identica alla prima, ma piena di effetti personali e senza pistole. Quando fossero arrivati a Teheran avrebbero dovuto tenersi in contatto con Dallas per telefono. Coburn era sicurissimo che gli iraniani intercettassero le comunicazioni, e quindi la squadra ideò un codice molto semplice. GR significava A, GS B, GT C, e così via fino a GZ che significava I; poi HA significava J, HB K, fino ad HR che stava per 2. I numeri dall'uno al nove erano IA-II, lo zero era IJ. Avrebbero usato l'alfabeto militare, nel quale A è Alpha, B è Bravo, C è Charlie e così via. Per brevità, avrebbero usato il codice solo per le parole chiave. La frase: "Lui è con l'EDS" sarebbe diventata "E con Golf Victor Golf Uniform Hotel Kilo". Facero tre sole copie della chiave del codice. Simons ne consegnò una a Merv Stauffer, che sarebbe stato il contatto della squadra a Dallas. Le altre due le diede a Jay Coburn e Pat Sculley che, anche senza nomine ufficiali, in pratica erano diventati i suoi luogotenenti. Il codice avrebbe evitato una scoperta accidentale tramite un controllo casuale delle telefonate ma - e gli esperti dei computer lo sapevano meglio di chiunque - un sistema tanto semplice poteva venire decifrato in pochi minuti da un esperto. Per maggiore precauzione, quindi, certe parole comuni erano indicate da speciali gruppi di lettere in codice: Paul era AG, Bill era AH, l'ambasciata americana era GC e Teheran era AU. Perot veniva sempre indicato come il presidente, le pistole erano nastri, il carcere era il centro dati, Kuwait era Oil Town, Istanbul era Resort, e l'attacco al carcere era il Piano A. Tutti dovevano imparare a memoria questi codici speciali. Se qualcuno di loro fosse stato interrogato a proposito del codice, avrebbe dovuto rispondere che era usato per abbreviare le comunicazioni per telescrivente. Il nome in codice del piano di salvataggio era "Operazione Hotfoot". Era un acronimo inventato da Ron Davis: Help Our Two Friends Out Of Teheran - Aiutiamo i nostri amici a lasciare Teheran. A Simons piacque. «Hotfoot è stato usato molte volte per altre operazioni» disse. «Ma per la prima volta è veramente appropriato.» Provarono e riprovarono almeno cento volte l'attacco al carcere.
Nel parco della casa sul lago, Schwebach e Davis inchiodarono un'asse fra due alberi all'altezza di tre metri e mezzo, per rappresentare la cancellata. Merv Stauffer portò un furgone preso in prestito dal servizio sicurezza dell'EDS. Ogni volta, Simons si avvicinava a piedi alla "recinzione" e faceva un segnale con la mano; Poché accostava il furgone e lo fermava; Boulware saltava giù dallo sportello posteriore; Davis montava sul tetto e scavalcava la cancellata; Coburn lo seguiva; poi anche Boulware saliva sul tetto e calava la scala a pioli nel "cortile"; "Paul" e "Bill", interpretati da Schwebach e Sculley, che non avevano bisogno di provare la parte dei pali, salivano la scala e scavalcavano la recinzione seguiti da Coburn e Davis; tutti saltavano precipitosamente a bordo del furgone e Poché partiva a tutta velocità. A volte si scambiavano i ruoli, in modo che ognuno imparasse a svolgere il lavoro di tutti gli altri. Stabilirono un ordine di priorità: così, se uno di loro fosse stato messo fuori causa perché era ferito o per qualche altra ragione, si sarebbe saputo automaticamente chi avrebbe preso il suo posto. Schwebach e Sculley, nei ruoli di "Paul" e "Bill", a volte simulavano di star male e dovevano venire portati di peso su per la scala e al di là della recinzione. Il vantaggio della buona forma fisica risultò evidente durante le prove. Davis riusciva a scavalcare la cancellata in un secondo e mezzo, toccando appena due volte la scala; nessuno degli altri si avvicinava a quel primato. Una volta Davis passò troppo svelto e cadde malamente sul terreno gelato, slogandosi una spalla. Non era una lesione grave, ma diede un'idea a Simons. Decise che Davis sarebbe andato a Teheran con il braccio al collo, portando un sacchetto di bilie per esercitare i muscoli. Il sacchetto sarebbe stato riempito di pallettoni del n. 2. Simons cronometrava i tempi dell'operazione di salvataggio, dall'istante in cui il furgone si fermava accanto alla cancellata a quello in cui ripartiva con tutti a bordo. Alla fine, secondo il cronometro, riuscirono a farcela in meno di trenta secondi. Si esercitavano a sparare con le Walther PPK al tiro a segno di Garland. Raccontarono al direttore che erano uomini del servizio di sicurezza provenienti da tutto il paese per seguire un corso a Dallas, e dovevano esercitarsi. Il direttore non credette a una parola, soprattutto dopo che T. J. Marquez comparve, come un capo mafioso d'un film, con la giacca nera e il cappello nero, e tirò fuori dieci Walther PPK e cinquemila colpi dal portabagagli della sua Lincoln nera.
Dopo quelle esercitazioni, tutti riuscirono a sparare decentemente, tranne Davis. Simons gli consigliò di provare a sparare ventre a terra, perché quella era la posizione in cui si sarebbe trovato nel cortile; e Davis migliorò sensibilmente la mira. All'aperto c'era un freddo tremendo, e si radunavano tutti in una baracca per cercare di scaldarsi, quando non sparavano... tutti, cioè, eccettuato Simons, che restava fuori tutto il giorno come se fosse di granito. Ma non era di granito: quando salì sulla macchina di Merv Stauffer, al termine della giornata, disse: «Cristo, che freddo». Il colonnello aveva incominciato a punzecchiarli perché erano troppo molli. Parlavano sempre del ristorante dove sarebbero andati a mangiare e di quello che avrebbero ordinato, diceva. Quando lui aveva fame, apriva una scatoletta. Rideva quando vedeva qualcuno centellinare un drink: quando lui aveva sete, riempiva d'acqua un bicchiere e la beveva tutta d'un fiato, poi diceva: «Non l'ho versata per contemplarla». Una volta mostrò agli altri come sapeva sparare: tutti i proiettili finirono al centro del bersaglio. Una volta Coburn lo vide a torso nudo: il suo fisico sarebbe stato eccezionale anche in un uomo più giovane di vent'anni. Interpretava la parte del duro, insomma. Ma la cosa più strana era che nessuno ne rideva. Con Simons non era una parte recitata: era la realtà. Una sera, nella casa sul lago, mostrò il modo migliore per uccidere un uomo rapidamente e senza far rumore. Aveva ordinato a Merv Stauffer di acquistare coltelli Gerber per tutti, corti e con le sottili lame a doppio taglio. «È piuttosto piccolo» commentò Davis, guardando il suo. «È lungo abbastanza?» «Lo è, a meno che voglia affilarlo quando spunta dall'altra parte.» Chiamò Glenn Jackson e indicò sulla sua schiena il punto esatto dove si trovava il rene. «Basta un colpo solo, qui. È letale» disse. «E non urlerebbe?» chiese Davis. «Il dolore è così forte che non riesce a gridare.» Mentre Simons stava dando quella dimostrazione entrò Merv Stauffer, che si fermò a bocca aperta sulla soglia, reggendo tra le braccia due grossi sacchetti di carta. Simons lo notò e disse: «Guardate lui... non riesce a dire una parola, eppure nessuno lo ha ancora accoltellato». Merv rise e incominciò a distribuire i viveri che aveva portato. «Sapete che cosa mi ha detto la ragazza del McDonald, nel ristorante completa-
mente deserto, quando le ho chiesto trenta hamburger e trenta porzioni di patatine?» «Che cosa?» «Quello che dicono sempre: "Li mangia qui o li porta via?"» Simons si trovava benissimo a lavorare per un'azienda privata. Uno dei suoi peggiori problemi nell'esercito era stato costituito dai rifornimenti. Persino quando aveva pianificato l'incursione di Son Tay, un'operazione alla quale s'interessava di persona il presidente degli Stati Uniti, aveva dovuto compilare moduli in sei copie e ottenere l'approvazione di dodici generali ogni volta che aveva bisogno di una matita. E poi, quando tutte le pratiche burocratiche erano state sbrigate, scopriva che il materiale richiesto era esaurito, o bisognava aspettare quattro mesi la consegna, oppure - peggio ancora - quando il materiale arrivava non andava bene. Il ventidue per cento delle capsule detonanti che aveva ordinato non scoppiava. Aveva cercato di ottenere mirini a infrarossi per i suoi uomini. Aveva saputo che l'esercito aveva impiegato diciassette anni cercando di realizzarli, ma nel 1970 esistevano soltanto sei prototipi fatti a mano. Poi aveva scoperto che l'Armalite Corporation vendeva mirini a infrarossi efficientissimi di fabbricazione britannica a meno di cinquanta dollari l'uno; e li aveva portati in Vietnam. All'EDS non c'erano moduli da riempire né permessi da chiedere, almeno per quanto riguardava Simons: diceva a Merv Stauffer che cosa gli occorreva e Stauffer glielo procurava, di solito in giornata. Chiese e ottenne dieci Walther PPK e diecimila munizioni; una serie di fondine di tipi diversi, da portarsi a sinistra o a destra, in modo che gli uomini potessero scegliere quello che andava meglio; munizioni per i fucili da caccia, del 12, del 16 e del 20; indumenti pesanti per la squadra, inclusi giacche, muffole, camicie, calzettoni e berretti di lana. Un giorno chiese centomila dollari in contanti: due ore dopo T. J. Marquez arrivò alla casa sul lago portando una busta con il denaro. Era molto diverso dall'esercito anche sotto molti altri aspetti. I suoi uomini non erano soldati che poteva intimidire a urlacci: erano tra i più brillanti giovani dirigenti d'azienda degli Stati Uniti. Fin dal primo momento il colonnello aveva capito che non poteva assumere il comando. Doveva guadagnarsi la loro devozione. Quegli uomini avrebbero obbedito a un ordine, se lo ritenevano giusto. In caso contrario, avrebbero discusso. E questo andava benissimo nella sa-
la d'un consiglio d'amministrazione, ma molto meno sul campo di battaglia. Erano anche pieni di scupoli. La prima volta che si era parlato d'incendiare una macchina per creare una diversione, qualcuno aveva obiettato che poteva andarci di mezzo qualche passante innocente. Simons ribatté che avevano una mentalità da boy-scout e avevano paura di rimetterci le medaglie al merito, e disse che erano tanti "Jack Armstrong", come il personaggio della radio che andava in giro a risolvere i delitti misteriosi e ad aiutare le vecchiette ad attraversare la strada. Inoltre, tendevano a dimenticare che quello che stavano facendo era una cosa seria. Scherzavano parecchio, soprattutto il giovane Ron Davis. Un po' di buonumore andava benissimo in una squadra impegnata in una missione pericolosa, ma qualche volta Simons era costretto a farli smettere e a ricondurli alla realtà con un brusco commento. Lasciò a tutti la possibilità di uscirne quando volevano. Prese di nuovo in disparte Ron Davis e gli disse: «Lei sarà il primo a superare quella cancellata... non ha qualche riserva?». «Sicuro.» «Bene, altrimenti non la porterei con me. Supponiamo che Paul e Bill non la seguano immediatamente. Supponiamo che si convincano che se si dirigono verso la cancellata gli spareranno. Lei resterà lì bloccato e le guardie la vedranno. Si troverà in un brutto guaio.» «Sicuro.» «Io ho sessant'anni e la mia vita l'ho vissuta. Diavolo, non ho niente da perdere. Ma lei è giovane... e Marva è in stato interessante, no?» «Sicuro.» «È certo di voler venire?» «Sicuro.» Lavorava su tutti. Era inutile che dicesse di saperne più di loro; dovevano arrivare da soli a quella conclusione. E il suo atteggiamento da duro aveva lo scopo di far capire che d'ora innanzi le cose come star caldi, mangiare, bere e preoccuparsi per i passanti innocenti non avrebbero dovuto occupare in prevalenza il loro tempo e la loro attenzione. Anche le esercitazioni di tiro e la lezione con il coltello avevano uno scopo recondito: l'ultima cosa che Simons voleva, in quell'operazione, era che ci scappasse qualche morto, ma imparare a uccidere avrebbe ricordato agli uomini che la missione poteva essere questione di vita o di morte. Il fattore fondamentale della sua campagna psicologica era rappresentato
dalle interminabili prove dell'attacco al carcere. Simons era sicurissimo che il carcere non era esattamente come l'aveva descritto Coburn, e che sarebbe stato necessario modificare il piano. Un'incursione non andava mai esattamente secondo il programma... e lui lo sapeva forse meglio di chiunque altro. Le prove per l'incursione di Son Tay erano durate settimane. Era stata costruita una copia del campo di prigionia, in legno e teloni, alla base aerea di Eglin in Florida. Era necessario smontarla tutte le mattine prima dell'alba e rimontarla a notte, perché un satellite da ricognizione russo, il Cosmos 355, passava sopra la Florida due volte ogni ventiquattro ore. Ma era un lavoro perfetto: ogni albero e ogni fosso del campo di Son Tay erano stati riprodotti nella simulazione. E poi, dopo tutte quelle prove, quando erano piombati su quello vero, uno degli elicotteri - l'elicottero che portava Simons - era atterrato nel posto sbagliato. Simons non avrebbe mai dimenticato il momento in cui si era accorto dell'errore. Il suo elicottero stava già ripartendo, dopo aver scaricato gli uomini. Una guardia vietnamita, stupitissima, era uscita da una buca, e Simons aveva sparato, centrandola al petto. Era incominciata una sparatoria, poi era stato lanciato un bengala, e Simons aveva visto che gli edifici intorno a lui non erano quelli del campo di Son Tay. «Di' a quel fottuto elicottero di tornare qui!» aveva urlato al suo operatore radio. E aveva ordinato al sergente di accendere un faretto per indicare il punto dell'atterraggio. Sapeva dov'erano: a quattrocento metri da Son Tay, in un posto che sulle carte topografiche dei servizi segreti figurava come una scuola. Non era affatto una scuola. C'erano soldati nemici dappertutto. Era una caserma, e Simons si rese conto che l'errore del suo pilota era stato un colpo di fortuna, perché adesso poteva lanciare un attacco preliminare e spazzar via un contingente di militari nemici che altrimenti avrebbe messo in pericolo l'intera operazione. Era stata la notte che lui s'era piazzato davanti a una baracca e aveva sparato a ottanta uomini in mutande. No, nessuna operazione andava mai esattamente secondo i piani. Ma imparare a eseguire alla perfezione il programma, del resto, rappresentava solo uno degli scopi di quelle prove. L'altro - e nel caso degli uomini dell'EDS era lo scopo più importante - consisteva nell'imparare a lavorare in gruppo. Oh, erano già straordinari da un punto di vista intellettuale - bastava dare a ognuno di loro un ufficio, una segretaria e un telefono, e tra tutti
avrebbero computerizzato il mondo - ma lavorare fisicamente insieme era tutta un'altra faccenda. Quando avevano incominciato il 3 gennaio avrebbero faticato a spingere in acqua una barca a remi, tutti insieme. Cinque giorni dopo funzionavano come una macchina. E questo era tutto ciò che si poteva fare lì nel Texas. Adesso dovevano andare a dare un'occhiata al carcere vero. Era venuto il momento di partire per Teheran. Simons disse a Stauffer che voleva incontrarsi di nuovo con Perot. Mentre la squadra si stava allenando per la missione, il presidente Carter ebbe l'ultima occasione per impedire che in Iran scoppiasse una rivoluzione sanguinosa. E se la lasciò sfuggire. Ecco come andarono le cose. L'ambasciatore William Sullivan andò a dormire soddisfatto la sera del 4 gennaio, nel suo appartamento situato nella grande, fresca residenza dell'ambasciata, all'angolo tra viale Roosevelt e viale Takht-e-Jamshid, a Teheran. Il superiore di Sullivan, il segretario di Stato Cyrus Vance, per tutto novembre e dicembre era stato impegnato con i negoziati di Camp David, ma finalmente era tornato a Washington e si occupava dell'Iran... e diavolo, si vedeva. I tentennamenti e le indecisioni erano finiti. I cablo con le istruzioni per Sullivan erano diventati energici e decisi. E soprattutto, gli Stati Uniti avevano scelto finalmente una strategia per affrontare la crisi: avrebbero parlato con l'ayatollah Khomeini. L'idea era partita da Sullivan. Ormai era sicuro che lo scià avrebbe abbandonato l'Iran e che Khomeini avrebbe fatto un ritorno trionfale. Il suo compito, pensava, era mantenere buone relazioni tra l'America e l'Iran anche dopo il cambiamento di governo in modo che, quando tutto fosse finito, l'Iran continuasse a essere un baluardo dell'influenza americana nel Medio Oriente. Per far questo, era necessario aiutare le forze armate iraniane a mantenersi intatte e continuare a fornire aiuti militari al nuovo regime. Sullivan aveva chiamato Vance al telefono e glielo aveva detto. Gli Stati Uniti dovevano inviare a Parigi un emissario per incontrarsi con Khomeini, aveva insistito l'ambasciatore. Bisognava dire a Khomeini che agli Stati Uniti stava a cuore soprattutto mantenere l'integrità territoriale dell'Iran e scongiurare l'influenza sovietica; che gli americani non volevano uno
scontro tra l'esercito iraniano e i rivoluzionari islamici; e che, quando l'ayatollah avesse preso il potere, gli Stati Uniti gli avrebbero assicurato la stessa assistenza militare e le stesse forniture d'armi che avevano dato allo scià. Era un piano audace. Molti avrebbero accusato gli Stati Uniti di abbandonare un amico. Ma Sullivan era sicuro che per gli americani fosse venuto il momento di sganciarsi dallo scià e di pensare all'avvenire. Con sua grande soddisfazione, Vance s'era dichiarato d'accordo. Si era detto d'accordo persino lo scià. Stanco, apatico, non più disposto a restare al potere a prezzo di spargimenti di sangue, lo scià non si era neppure mostrato riluttante. Come emissario per i contatti con l'ayatollah, Vance aveva scelto Theodore H. Eliot, un diplomatico che era stato consigliere economico a Teheran e parlava correntemente il Farsi. Sullivan era stato lietissimo di quella scelta. Ted Eliot doveva arrivare a Parigi di lì a due giorni, il 6 gennaio. In una delle stanze degli ospiti, nella residenza dell'ambasciata, anche il generale dell'aeronautica militare Robert "Dutch" Huyser stava andando a dormire. Sullivan non era entusiasta della Missione Huyser quanto lo era della Missione Eliot. Dutch Huyser, vicecomandante (agli ordini di Haig) delle forze statunitensi in Europa, era arrivato il giorno prima per convincere i generali iraniani ad appoggiare il nuovo governo di Bakhtiar. Sullivan conosceva Huyser. Era un magnifico soldato, ma non un diplomatico. Non parlava il Farsi e non conosceva l'Iran. Ma anche se avesse avuto tutte le qualifiche ideali, il suo sarebbe stato un compito disperato. Il governo Bakhtiar non era riuscito neppure a ottenere l'appoggio dei moderati, e Shahpur Bakhtiar era stato addirittura espulso dal Fronte Nazionale centrista perché aveva accettato l'incarico dallo scià. Intanto l'esercito che Huyser stava cercando invano di indurre a schierarsi con Bakhtiar continuava a indebolirsi, via via che migliaia di soldati disertavano e si univano alle orde rivoluzionarie che imperversavano per le strade. Il massimo che Huyser poteva sperare di ottenere era tenere insieme l'esercito ancora per un po', mentre a Parigi Eliot organizzava il ritorno pacifico dell'ayatollah. Se fosse andato tutto bene, per Sullivan sarebbe stato un enorme successo, qualcosa di cui qualunque diplomatico avrebbe avuto motivo di andar fiero per il resto della sua esistenza: il piano avrebbe rafforzato il suo paese e avrebbe salvato innumerevoli vite. Mentre stava per addormentarsi, c'era solo una preoccupazione che lo
assillava. La Missione Eliot, nella quale riponeva tante speranze, era un piano del Dipartimento di Stato, e a Washington veniva identificata con il segretario di Stato Vance. La Missione Huyser era un'idea di Zbigniew Brzezinski, il consigliere per la Sicurezza Nazionale. L'inimicizia tra Vance e Brzezinski era nota a tutti. E in quel momento Brzezinski, dopo il vertice di Guadalupa, era a pesca nei Caraibi con il presidente Carter. E mentre navigavano sul limpido mare azzurro, che cosa bisbigliava Brzezinski all'orecchio del presidente? Il telefono svegliò Sullivan nelle prime ore del mattino. Era il funzionario di turno che chiamava dalla sala sotterranea delle comunicazioni, nell'ambasciata, a pochi metri da lui. Da Washington era arrivato un cablo urgente. Forse l'ambasciatore voleva vederlo subito. Sullivan si alzò, attraversò il prato ed entrò nell'ambasciata, assillato da spiacevoli presentimenti. Il cablo annunciava che la Missione Eliot era stata annullata. La decisione era stata presa dal presidente. Non venivano chiesti i commenti di Sullivan sul cambiamento. Aveva l'ordine di riferire allo scià che il governo degli Stati Uniti non intendeva più mettersi in contatto con l'ayatollah Khomeini. Sullivan era disperato. Era la fine per l'influenza americana in Iran. E significava anche che Sullivan, personalmente, aveva perso l'occasione di distinguersi scongiurando una sanguinosa guerra civile. Inviò a Vance un messaggio sdegnato, affermando che il presidente aveva commesso un grave errore e avrebbe fatto bene a ripensarci. Ritornò a letto ma non riuscì a riaddormentarsi. La mattina dopo un altro cablo lo informò che la decisione del presidente restava immutata. Stanco e sfiduciato, Sullivan si recò alla reggia per riferire allo scià. Quella mattina lo scià appariva teso. Invitò Sullivan a sedersi e gli offrì l'inevitabile tazza di tè. Poi Sullivan gli disse che il presidente Carter aveva annullato la Missione Eliot. Lo scià ne fu stupito. «Ma perché l'hanno annullata?» chiese, in tono agitato. «Non so» rispose Sullivan. «Ma come sperano di influenzarli se non vogliono neppure parlare con loro?»
«Non so.» «Allora che intende fare Washington?» chiese lo scià, allargando le mani in un gesto di disperazione. «Non so» disse Sullivan. «Ross, è una pazzia» dichiarò a gran voce Tom Luce. «Rovinerai la società e rovinerai te stesso.» Perot guardò l'avvocato. Erano nel suo ufficio, e la porta era chiusa. Luce non era il primo che lo diceva. Durante la settimana, via via che al sesto piano si spargeva la notizia, molti dirigenti dell'EDS erano venuti a dirgli che la missione di salvataggio era un'idea pazzesca e pericolosa, e che avrebbe fatto meglio a rinunciare. «Non preoccupatevi» aveva risposto Perot. «Pensate a quello che dovete fare voi.» Tom Luce era loquace come al solito. Con una smorfia severa e un'aria tribunalizia, arringava come se ad ascoltarlo ci fosse una giuria. «Io posso soltanto darti consigli da un punto di vista legale, ma sono venuto a dirti che questa operazione di salvataggio può causare problemi più grossi e più gravi di quelli che hai adesso. Diavolo, Ross, non saprei neppure incominciare a fare un elenco di tutte le leggi che hai intenzione di violare!» «Prova» disse Perot. «Avrai un esercito mercenario... che è vietato qui, in Iran e in tutti i paesi che la squadra dovrebbe attraversare. Dovunque vadano, potrebbero venire incriminati, e in questo caso avresti dieci uomini in carcere anziché due. «Ma c'è di peggio. I tuoi uomini si troverebbero in una situazione molto peggiore dei soldati in combattimento... il diritto internazionale e la Convenzione di Ginevra, che proteggono i militari in uniforme, non proteggerebbero la squadra di salvataggio. «Se li catturano in Iran... Ross, li fucilano. Se li prendono in un paese che ha un trattato d'estradizione con l'Iran, li rispediscono là e li fucilano. Anziché avere due collaboratori innocenti in prigione, potresti ritrovarti con otto collaboratori colpevoli morti. «E se questo avvenisse i parenti dei morti potrebbero prendersela con te... comprensibilmente, perché questa faccenda sembrerà stupida. Le vedove pretenderanno dall'EDS risarcimenti enormi. Faranno fallire la società. Pensa ai diecimila dipendenti che si troverebbero senza lavoro, se andasse così. Pensa a te... Ross, potrebbero venire formulate imputazioni che
farebbero finire te in galera.» Calmissimo, Perot disse: «Ti ringrazio del consiglio, Tom». Luce lo fissò. «Non riesco a fartela capire, eh?» Perot sorrise. «Ho capito benissimo, invece. Ma se vivi preoccupandoti di tutte le cose spiacevoli che possono accadere, finisci per convincerti che è meglio non far niente.» La verità era che Perot sapeva qualcosa che Luce non sapeva. Ross Perot era fortunato. Era sempre stato fortunato. A dodici anni consegnava i giornali nel povero quartiere negro di Texarkana. A quel tempo la "Texarkana Gazette" costava venticinque cent la settimana, e la domenica, quando incassava il denaro, Ross si ritrovava con quaranta-cinquanta dollari in spiccioli nella borsa. E ogni domenica, lungo il percorso, qualche poveraccio che la sera prima aveva speso al bar la paga della settimana cercava di sottrarre il denaro al piccolo Ross. Era per questo che gli altri ragazzi non volevano vendere i giornali nel quartiere. Ma Ross non aveva paura. Andava a cavallo; i tentativi non erano mai veramente decisi; e lui era fortunato. Non ci aveva mai rimesso il suo denaro. Aveva avuto fortuna anche quando aveva ottenuto l'ammissione all'accademia navale di Annapolis. Gli aspiranti all'iscrizione dovevano essere presentati da un senatore o da un deputato al Congresso, e naturalmente la famiglia Perot non aveva amicizie di quel genere. Comunque, il giovane Ross non aveva mai neppure visto il mare... il viaggio più lungo che aveva fatto era stato a Dallas, a 290 chilometri di distanza. Ma a Texarkana c'era un giovane, Josh Morriss Junior, che era stato ad Annapolis e ne aveva parlato a Ross, e Ross s'era innamorato della marina senza aver mai visto una nave. Perciò continuava a scrivere ai senatori per chiedere una presentazione. Ci riuscì - come sarebbe riuscito tante altre volte nella vita - perché era troppo ostinato per rendersi conto che era impossibile. Soltanto molti anni dopo venne a sapere com'era andata, Un giorno, nel 1949, il senatore W. Lee O'Daniel stava sgombrando la sua scrivania; era al termine del suo mandato e non aveva intenzione di ripresentarsi candidato. Un collaboratore gli disse: «Senatore, abbiamo un posto all'accademia navale che non è stato assegnato». «C'è qualcuno che lo vuole?» aveva detto il senatore. «Ecco, ci sarebbe quel ragazzo di Texarkana che da anni sta cercando di...»
«Lo assegni a lui.» A quanto venne a sapere Perot, durante la conversazione non era stato neppure pronunciato il suo nome. Era stato fortunato quando aveva creato l'EDS. Quando era venditore di computer per conto dell'IBM, s'era accorto che non sempre i suoi clienti sfruttavano nel modo migliore le macchine che vendeva. Il data processing era una specializzazione nuova. Le banche conoscevano bene la tecnica bancaria, le compagnie d'assicurazione conoscevano bene le tecniche assicurative, i fabbricanti sapevano produrre... e gli specialisti dei computer s'intendevano di data processing. Il cliente non voleva la macchina: voleva le informazioni rapide e a buon prezzo che la macchina poteva fornire. Eppure, troppo spesso il cliente impiegava tanto tempo a creare il suo servizio di data processing e a imparare a usare la macchina che il suo computer gli causava nuove difficoltà e spese anziché ridurle. L'idea di Perot era vendere un servizio data processing completo, con macchinario, software e personale. Il cliente doveva soltanto dire, in termini molto semplici, quali informazioni voleva, e l'EDS gliele dava. E allora poteva continuare a fare quello che sapeva fare bene... come banca, come assicurazione o come fabbricante. L'IBM respinse l'idea di Perot. La concezione era buona, ma avrebbe reso troppo poco. Su ogni dollaro speso per il data processing, l'ottanta per cento andava all'hardware, il macchinario, e solo il venti per cento al software... che era ciò che Perot voleva vendere. L'IBM non voleva perdere tempo a correr dietro agli spiccioli. Perciò Perot prelevò mille dollari dai suoi risparmi e si mise in proprio. Nel decennio seguente le percentuali cambiarono, fino a quando il software arrivò ad assorbire il settanta per cento delle spese per il data processing e Perot divenne uno degli uomini più ricchi del mondo. Un giorno il presidente dell'IBM, Tom Watson, incontrò Perot in un ristorante e gli chiese: «Vorrei sapere una cosa, Ross. Aveva previsto che le percentuali sarebbero cambiate?». «No» rispose Perot. «A me andava bene il venti per cento.» Sì, era fortunato: ma doveva lasciare alla fortuna lo spazio per operare. Era inutile starsene seduto in un angolo e essere prudente. Non c'era la possibilità di avere fortuna, se non si rischiava. Perot aveva rischiato per tutta la vita. Quel rischio era semplicemente il più grosso di tutti. Merv Stauffer entrò nell'ufficio. «Pronto?» chiese.
«Sì.» Perot si alzò e uscirono. Scesero con l'ascensore e presero la macchina di Stauffer, una Lincoln Versailles quattro porte, nuova di zecca. Perot lesse la targhetta sul cruscotto: «Merv e Helen Stauffer». L'interno della macchina era saturo dell'odore dei sigari di Merv. «Lui ti sta aspettando» disse Stauffer. «Bene.» La società petrolifera di Perot, la Petrus, aveva gli uffici nel palazzo accanto, in Forest Lane. Stauffer vi aveva già accompagnato Simons, poi era venuto a prendere Perot. Al termine dell'incontro avrebbe riportato Perot all'EDS e quindi sarebbe tornato a recuperare Simons. Lo scopo di quella manovra era mantenere il segreto: Perot e Simons dovevano farsi vedere insieme il meno possibile. Negli ultimi sei giorni, mentre Simons e i suoi uomini erano al lavoro sul lago di Grapevine, le prospettive di una soluzione legale del problema di Paul e Bill erano svanite. Kissinger, dopo il fallimento del tentativo con Ardeshir Zahedi, non poteva fare altro. L'avvocato Tom Luce aveva telefonato a tutti i ventiquattro deputati texani, ai due senatori e a chiunque altro, a Washington, fosse disposto ad ascoltarlo; ma quelli si limitavano a chiamare il Dipartimento di Stato per scoprire come stavano le cose, e le chiamate finivano tutte nell'ufficio di Henry Precht. Il dirigente finanziario dell'EDS, Tom Walter, non aveva ancora trovato una banca disposta a fare una lettera di credito per 12.750.000 dollari. La difficoltà, come aveva spiegato a Perot, era questa: secondo le leggi americane una persona o una società poteva annullare una lettera di credito se c'era la prova che era stata firmata in seguito a pressioni illegali, per esempio un ricatto o un sequestro di persona. Le banche interpretavano l'arresto di Paul e Bill come un caso di estorsione puro e semplice, e sapevano che l'EDS avrebbe potuto sostenere, in un tribunale americano, che la lettera non era valida e che il denaro non doveva venire versato. In teoria, la cosa non aveva importanza, perché nel frattempo Paul e Bill sarebbero rientrati in patria, e la banca americana avrebbe semplicemente - e in perfetta legalità - rifiutato di onorare la lettera di credito quando il governo iraniano l'avesse presentata per la riscossione. Tuttavia, quasi tutte le banche americane erano esposte con l'Iran per somme enormi date in prestito, e temevano che gli iraniani per rappresaglia deducessero i 12.750.000 dollari dai loro debiti. Walter stava ancora cercando una grande banca che non avesse prestato denaro all'Iran.
Quindi, purtroppo, l'Operazione Hotfoot era ancora la miglior speranza di Perot. Perot lasciò Stauffer al parcheggio ed entrò nella sede della compagnia petrolifera. Andò nel suo uffico e trovò Simons. Il colonnello mangiava noccioline e ascoltava una radio portatile. Perot intuì che le noccioline erano il suo pranzo e che la radio doveva servire a rintronare i congegni d'ascolto che potevano essere nascosti nella stanza. Si strinsero la mano. Perot notò che Simons si stava facendo crescere la barba. «Come vanno le cose?» domandò. «Bene» rispose Simons. «La squadra comincia a prendere forma.» «Lei si rende conto» disse Perot, «che può rifiutare gli uomini di cui non è soddisfatto.» Un paio di giorni prima Perot aveva proposto di aggregare alla squadra un uomo che conosceva Teheran e aveva un ragguardevole passato militare, ma Simons l'aveva rifiutato dopo un breve colloquio dicendo: «Quello crede alle sue fesserie». Ora Perot si chiedeva se, durante l'addestramento, il colonnello aveva trovato qualcosa che non andava in qualcuno degli altri. Proseguì: «Lei è il responsabile della missione e...». «Non è necessario» disse Simons. «Non intendo rifiutare nessuno.» Rise sottovoce. «Sono gli uomini più intelligenti con i quali abbia mai lavorato e questo crea un problema, perché pensano che gli ordini devono essere discussi, non obbediti. Ma stanno imparando a smettere di pensare con la loro testa, quando è necessario. Ho detto chiaro che a un certo momento del gioco le discussioni finiscono e occorre un'obbedienza assoluta.» Perot sorrise. «Allora ha ottenuto più lei in sei giorni di quanto abbia ottenuto io in sedici anni.» «Qui a Dallas non possiamo fare di più» disse Simons. «Ora dobbiamo raggiungere Teheran.» Perot annuì. Quella poteva essere l'ultima occasione per annullare l'Operazione Hotfoot. Quando la squadra avesse lasciato Dallas, sarebbe stata lontana dai contatti e soprattutto dal suo controllo. Il dado era tratto. Ross, è pazzesco. Rovinerai la società e rovinerai te stesso. Diavolo, Ross, non saprei neppure incominciare a fare un elenco di tutte le leggi che hai intenzione di violare! Anziché avere due collaboratori innocenti in prigione, potresti ritrovarti con otto collaboratori colpevoli morti. Ecco, ci sarebbe quel ragazzo di Texarkana che da anni sta cercando di...
«Quando intende partire?» chiese Perot a Simons. «Domani.» «Buona fortuna» disse Perot. V Mentre Simons parlava con Perot a Dallas, Pat Sculley - il bugiardo meno convincente del mondo - era a Istanbul e stava cercando invano di buttare fumo negli occhi di un turco astutissimo. Il signor Fish era un agente di viaggi che era stato "scoperto" durante l'evacuazione di dicembre da Merv Stauffer e T.J. Marquez. Si erano rivolti a lui perché organizzasse la sosta degli evacuati a Istanbul, e aveva fatto miracoli. Li aveva sistemati tutti allo Sheraton e aveva trovato gli autobus per portarli dall'aeroporto all'albergo. Quando erano arrivati a destinazione, avevano trovato un pasto che li aspettava. Avevano lasciato a lui l'incarico di ritirare i bagagli e di farli passare dalla dogana, e i bagagli erano apparsi come per magia davanti alle rispettive stanze. Il giorno dopo c'erano stati telefilm per i bambini e gite turistiche per gli adulti, perché nessuno si annoiasse in attesa dei voli per New York. Il signor Fish era riuscito a realizzare tutto questo mentre gran parte del personale dell'albergo era in sciopero... più tardi T.J. aveva scoperto che era stata la signora Fish a rifare i letti. Dopo la prenotazione dei voli per il proseguimento del viaggio, Merv Stauffer aveva deciso di riprodurre un volantino con le istruzioni per tutti, ma la fotocopiatrice dell'albergo era rotta: il signor Fish aveva trovato un elettricista che l'aveva riparata alle cinque del mattino di domenica. Il signor Fish ci sapeva fare. Simons era ancora preoccupato per il problema di far entrare clandestinamente a Teheran le Walther PPK, e quando aveva saputo che il signor Fish aveva prodigiosamente fatto passare attraverso la dogana turca i bagagli degli sfollati, aveva proposto di affidare a lui la soluzione del problema delle pistole. Sculley era partito per Istanbul l'8 gennaio. Il giorno dopo s'incontrò con il signor Fish nel caffè dello Sheraton. Il signor Fish era un uomo grasso sulla cinquantina, vestito modestamente. Ma era furbo: Sculley non era in grado di tenergli testa. Sculley gli disse che l'EDS aveva bisogno di aiuto per sbrogliare due problemi. «Innanzi tutto, ci serve un aereo che possa arrivare a Teheran e ripartire. In secondo luogo, vogliamo far passare certi bagagli dalla dogana senza che vengano ispezionati. Naturalmente, pagheremo qualunque som-
ma ragionevole in cambio di un aiuto.» Il signor Fish sembrava dubbioso. «Perché volete fare tutto questo?» «Ecco, abbiamo certi nastri magnetici per i sistemi dei computer di Teheran» disse Sculley. «Dobbiamo farli arrivare a destinazione e non possiamo correre rischi. Non vogliamo che qualcuno li passi ai raggi X o faccia altre cose che possano danneggiarli, e non possiamo permettere che qualche doganiere li confischi.» «E per questo avete bisogno di noleggiare un aereo e di far passare i bagagli attraverso la dogana senza che vengano aperti?» «Sì, infatti.» Sculley capiva benissimo che il signor Fish non credeva neppure una parola. Il signor Fish scrollò la testa. «No, signor Sculley. È stato un piacere aiutare i suoi amici, l'altra volta, ma sono un agente di viaggi, non un contrabbandiere. Questo non posso farlo.» «E l'aereo... può procurarci un aereo?» Anche questa volta il signor Fish scosse il capo. «Dovrete andare ad Amman, in Giordania. Le Arab Wings hanno voli charter per Teheran. È il consiglio migliore che posso darle.» Sculley alzò le spalle. «Sta bene.» Qualche minuto dopo lasciò il signor Fish, salì in camera sua e chiamò Dallas. Il suo primo incarico come componente della squadra di salvataggio non era andato bene. Quando Simons ne fu informato decise di lasciare a Dallas le Walther PPK. Lo spiegò a Coburn: «Non possiamo mettere in pericolo l'intera missione proprio all'inizio, quando non siamo neppure certi che avremo bisogno delle pistole. È un rischio che non dobbiamo correre, almeno per ora. Entriamo in Iran e vediamo con che cosa abbiamo a che fare. Se e quando avremo bisogno delle pistole, Schwebach tornerà a Dallas a prenderle». Le pistole vennero messe nel sotterraneo blindato dell'EDS, insieme a un utensile che Simons aveva ordinato per limare i numeri di serie. (Poiché era vietato, questo sarebbe stato fatto solo all'ultimo momento.) Tuttavia, avrebbero preso la valigia a doppio fondo, tanto per fare una prova. Avrebbero portato anche i pallettoni n. 2 - li avrebbe portati Davis nel sacchetto - e l'equipaggiamento che occorreva a Simons per sistemarli nelle cartucce... questo l'avrebbe portato il colonnello. Era inutile passare da Istanbul, perciò Simons mandò Sculley a Parigi a
prenotare l'albergo e cercare di procurarsi i posti per la squadra su un volo per Teheran. Il resto della squadra partì dall'aeroporto regionale di Dallas-Fort Worth alle 11 e 05 del mattino del 10 gennaio con il volo 341 della Braniff per Miami; lì cambiò aereo e prese il National 4 per Parigi. La mattina dopo, Sculley li attendeva all'aeroporto di Orly, nella galleria tra il ristorante e il caffè. Coburn notò che Sculley era nervoso. A quanto pareva, erano tutti contagiati dalla preoccupazione per la sicurezza che assillava Simons. Sebbene avessero viaggiato tutti sullo stesso aereo in arrivo dagli Stati Uniti, si erano seduti in posti separati e avevano fatto finta di non conoscersi. A Parigi, Sculley era preoccupato per il personale dell'Hilton di Orly e sospettava che qualcuno ascoltasse le sue telefonate; quindi Simons - che del resto si sentiva sempre a disagio negli alberghi - aveva deciso di discutere nella galleria. Sculley aveva fallito il secondo incarico: assicurare le prenotazioni per la squadra da Parigi a Teheran. «Moltissime linee aeree non vanno più in Iran per la situazione politica e lo sciopero all'aeroporto» disse. «I pochi voli rimasti sono tutti prenotati da iraniani che cercano di tornare in patria. L'unica cosa che ho saputo è che forse un aereo della Swissair partirà per Teheran da Zurigo.» Si divisero in due gruppi. Simons, Coburn, Poché e Boulware sarebbero andati a Zurigo e avrebbero cercato di prendere il volo della Swissair. Sculley, Schwebach, Davis e Jackson sarebbero rimasti a Parigi. Il gruppo di Simons raggiunse Zurigo con un aereo della Swissair. Coburn sedeva a fianco del colonnello. Trascorsero tutto il tempo del volo consumando un delizioso pranzo a base di gamberetti e bistecche. Simons non finiva più di elogiarlo. Coburn rideva tra sé, ricordando che proprio lui aveva detto: «Quando avete fame potete aprire una scatoletta». All'aeroporto di Zurigo il banco delle prenotazioni per il volo per Teheran era assediato dagli iraniani. Era disponibile un solo posto. Chi sarebbe andato? Decisero per Coburn. Lui aveva i compiti logistici: come direttore del personale e organizzatore dell'evacuazione conosceva meglio di chiunque altro le risorse dell'EDS a Teheran: 150 case e appartamenti vuoti, 60 macchine e jeep abbandonate, 200 dipendenti iraniani (fidati e no), e i viveri, le bevande e il materiale lasciati dagli sfollati. Arrivando sul posto per primo, Coburn poteva organizzare i trasporti, i rifornimenti e un nascondiglio adatto a ospitare il resto della squadra.
Perciò Coburn si congedò dagli amici e salì su un aereo diretto verso il caos, la violenza e la rivoluzione. Quello stesso giorno, all'insaputa di Simons e dell'intera squadra, Ross Perot prese il volo 172 della British Airways da New York per Londra. Anche lui era diretto a Teheran. Il volo da Zurigo a Teheran fu anche troppo breve. Coburn trascorse il tempo ansiosamente, riesaminando tra sé le cose che doveva fare. Non poteva preparare un elenco: Simons non voleva che si mettesse nulla per iscritto. Il suo primo compito era passare dalla dogana con la valigia a doppio fondo. Non c'erano le pistole: se qualcuno l'avesse esaminata e avesse scoperto lo scomparto segreto, Coburn avrebbe dovuto dire che serviva per il trasporto di delicati apparecchi fotografici. Poi doveva scegliere alcuni appartamenti e case abbandonati da proporre a Simons come nascondigli. Quindi doveva trovare le macchine e assicurarsi che ci fosse la benzina per farle marciare. A Keane Taylor, Rich Gallagher e ai dipendenti iraniani dell'EDS doveva raccontare che era venuto per organizzare la spedizione degli effetti personali degli sfollati. Coburn aveva detto a Simons che sarebbe stato meglio mettere Taylor a parte del segreto, dato che sarebbe stato prezioso per la missione. Simons aveva replicato che avrebbe preso una decisione dopo aver incontrato Taylor. Coburn si chiedeva come sarebbe riuscito a darla a bere all'ex sergente dei marines. Se lo stava ancora chiedendo quando l'aereo atterrò. Nel terminal, tutto il personale indossava uniformi dell'esercito. Era così che l'aeroporto veniva tenuto aperto nonostante lo sciopero, pensò Coburn: erano i militari a farlo funzionare. Prese la valigia con il doppio fondo e passò dalla dogana. Nessuno lo fermò. La sala degli arrivi era uno zoo. La folla in attesa era più indisciplinata che mai. L'esercito non faceva affatto funzionare l'aeroporto con criteri militareschi. Si fece largo tra la ressa e raggiunse il posteggio dei taxi. Girò intorno a due uomini che se ne stavano disputando uno e prese quello successivo. Entrando in città, Coburn notò una grande quantità di mezzi militari sulla strada, soprattutto nei pressi dell'aeroporto. I carri armati erano molto più numerosi di quando era partito. Era segno che lo scià aveva ancora in
pugno la situazione? A sentire la stampa, lo scià parlava come se l'avesse; ma altrettanto faceva Bakhtiar. E anche l'ayatollah, il quale aveva appena annunciato la formazione del Consiglio della rivoluzione islamica con il compito di governare, come se fosse già al potere a Teheran anziché in una villa nei pressi di Parigi. Per la verità non comandava nessuno; e questo, sebbene intralciasse le trattative per il rilascio di Paul e Bill, probabilmente sarebbe stato utile alla squadra dei liberatori. Il taxi lo portò all'ufficio che chiamavano Bucarest; e lì trovò Keane Taylor. Adesso era Taylor che dirigeva la sede, perché Lloyd Briggs era andato a New York per spiegare personalmente ai legali dell'EDS come stavano le cose. Taylor era seduto alla scrivania di Chiapparone e portava un immacolato abito con gilè, come se fosse a un milione di miglia dalla rivoluzione anziché proprio nel mezzo. Rimase di stucco quando vide Coburn. «Jay! Quando diavolo sei arrivato?» «Adesso» rispose Coburn. «E quella barba? Stai cercando di farti licenziare?» «Pensavo che qui servisse a farmi sembrare meno americano.» «Hai mai visto un iraniano con la barba rossiccia?» «No.» Coburn rise. «Cosa sei venuto a fare?» «Ecco, è evidente che non torneremo qui molto presto, quindi sono venuto per far spedire negli Stati Uniti la roba di tutti i nostri.» Taylor gli lanciò un'occhiata strana ma non fece commenti. «E dove alloggerai? Noi ci siamo trasferiti tutti all'Hyatt Crown Regency. È più sicuro.» «Ti dispiacerebbe se prendessi la tua vecchia casa?» «Come vuoi.» «Ora vediamo un po'. Tu hai le buste che ti hanno lasciato tutti, con le chiavi delle case e delle macchine e le istruzioni che riguardano i mobili e il resto?» «Certo che le ho io... mi servono come guida. Sto vendendo tutto quello che i nostri non vogliono farsi spedire a casa... lavatrici e frigoriferi e così via. Ho in corso una specie di liquidazione di casalinghi.» «Posso avere le buste?» «Sicuro.» «Come stiamo a macchine?» «Le abbiamo rastrellate quasi tutte. Le ho fatte mettere in una scuola, e ci sono alcuni iraniani che le custodiscono... se non le stanno vendendo.»
«E la benzina?» «Rich si è fatto dare quattro bidoni da cinquantacinque galloni dall'aeronautica e li abbiamo sistemati in cantina.» «M'era parso di sentire odore di benzina, infatti, quando sono arrivato.» «Non accendere un fiammifero là sotto, o salteremo in aria tutti quanti.» «Come fate per i rifornimenti?» «Usiamo come navi cisterna due macchine... una Buick e una Chevrolet, che hanno i serbatoi molto grandi. Due dei nostri autisti passano le giornate a fare la coda ai distributori. Quando hanno fatto il pieno tornano qui e noi travasiamo la benzina nei bidoni, e poi rimandiamo le macchine a fare la coda. Qualche volta si riesce a saltarla: ti rivolgi a qualcuno che ha appena fatto il pieno e gli offri di pagargli la benzina dieci volte di più di quel che l'ha pagata lui. Intorno ai distributori è nato un intero sistema di economia.» «E il Combustibile per le case? Per il riscaldamento?» «Abbiamo uno che ce lo procura, ma mi fa pagare dieci volte il vecchio prezzo. Sto spendendo come un marinaio ubriaco.» «Avrò bisogno di dodici macchine.» «Dodici macchine, Jay?» «Esattamente.» «A casa mia avrai lo spazio per metterle... c'è un grande cortile cintato. Senti... per caso... non vorresti poter fare il pieno senza che i dipendenti iraniani ti vedano?» «Certo.» «Allora porta una macchina a secco all'Hyatt e te ne darò in cambio una con il serbatoio pieno.» «Quanti iraniani abbiamo ancora?» «Dieci dei migliori e quattro autisti.» «Vorrei un elenco dei loro nomi.» «Sapevi che sta per arrivare Ross?» «No, merda!» Coburn era sbalordito. «L'ho appena saputo. Sta portando qui Bob Young dal Kuwait, che mi toglierà dalle spalle queste beghe amministrative, e John Howell perché si occupi delle questioni legali. Vogliono che io collabori con John nelle trattative per la cauzione e il resto.» «Davvero?» Coburn si chiese che cosa aveva in mente Perot. «Bene, allora vado a casa tua.» «Jay, perché non mi dici cosa bolle in pentola?»
«Non c'è niente che possa dirti.» «Vai al diavolo, Coburn. Voglio sapere cosa sta succedendo.» «Ti ho già detto tutto.» «Allora vai al diavolo di nuovo. Aspetta di vedere le macchine che ti darò... sarai fortunato se avranno il volante.» «Scusami.» «Jay...» «Sì.» «La tua è la valigia più strana che abbia mai visto.» «Sì, è vero.» «Io so che cosa sei venuto a fare, Coburn.» Coburn sospirò. «Andiamo a fare due passi.» Uscirono e Coburn parlò a Taylor della squadra di salvataggio. L'indomani Coburn e Taylor incominciarono a scegliere i nascondigli. La casa di Taylor, al numero 2 di via Aftab, era l'ideale. Era vicina all'Hyatt e quindi comoda per lo scambio delle macchine, e si trovava nel quartiere armeno della città, dove gli americani avrebbero probabilmente trovato meno ostilità se i disordini si fossero aggravati. Il telefono funzionava e c'era una scorta di gasolio per il riscaldamento. Il cortile cintato era abbastanza grande per parcheggiare sei macchine, e c'era un ingresso posteriore che avrebbe permesso di squagliarsela se la polizia si fosse presentata alla porta principale. E il padrone di casa non abitava lì. Consultando la pianta topografica di Teheran appesa nell'ufficio di Coburn che, dal tempo dell'evacuazione, indicava la posizione di tutte le case dei dipendenti dell'EDS, scelsero altre tre abitazioni vuote come nascondigli alternativi. Durante il giorno, mentre Taylor provvedeva a fare il pieno alle macchine, Coburn le portò una ad una dal Bucarest alle case, parcheggiandone tre davanti a ognuna delle quattro abitazioni. Consultò di nuovo la carta stradale e cercò di ricordare quali tra le mogli dei dipendenti avevano lavorato per il comando americano, perché le famiglie che facevano acquisti allo spaccio militare avevano sempre i viveri migliori. Fece un elenco di otto nomi. L'indomani sarebbe andato a far visita a tutti e avrebbe chiesto viveri in scatola e bottiglie di bevande per i nascondigli. Scelse un quinto appartamento ma non andò a vederlo. Doveva essere una "casa sicura", come si dice nel gergo dello spionaggio, un nascondiglio
in caso di emergenza: nessuno vi sarebbe andato fino al momento in cui si fosse reso necessario usarlo. Quella sera, mentre era solo nell'appartamento di Taylor, chiamò Dallas e chiese di Merv Stauffer. Stauffer era gioviale come sempre. «Salve, Jay! Come va?» «Benone.» «Sono contento che mi abbia chiamato, perché ho un messaggio per lei. Ha una matita?» «Sì.» «Bene. Onky Keith Goofball Zero Honky Dummy...» «Merv» l'interruppe Coburn. «Sì?» «Cosa diavolo sta dicendo, Merv?» «È il codice, Jay.» «Che cos'è Honky Keith Goofball?» «H è Honky, K è Keith...» «Merv, H è Hotel, K è Kilo...» «Oh» disse Stauffer, «non sapevo che fosse necessario usare certe parole precise...» Coburn rise. «Senta» disse, «si faccia spiegare da qualcuno l'alfabeto militare, la prossima volta.» Anche Stauffer rideva. «Sicuro» disse. «Ma credo che per questa volta dovremo arrangiarci con la mia versione.» «D'accordo. Proceda pure.» Coburn trascrisse il messaggio in codice e poi, sempre in codice, diede a Stauffer l'indirizzo e il numero di telefono. Quando ebbe riattaccato, decifrò il messaggio ricevuto. Era una bella notizia. Simons e Joe Poché sarebbero arrivati a Teheran il giorno dopo. L'11 gennaio - il giorno in cui Coburn arrivò a Teheran e Perot partì per Londra - Paul e Bill erano in carcere esattamente da due settimane. Avevano fatto la doccia una volta sola. Quando le guardie vennero a sapere che c'era l'acqua calda, assegnarono ai detenuti di ogni cella cinque minuti nelle docce. Dimenticando il pudore, gli uomini si affollarono per potersi pulire e scaldare almeno per un po'. E lavarono anche tutti i loro indumenti. Dopo una settimana il carcere aveva esaurito le bombole del gas, e quin-
di il vitto, oltre a essere colloso e molto scarso di verdure, adesso era anche freddo. Fortunatamente, erano autorizzati a integrarlo con le arance, le mele e le noci portate dai visitatori. Molte sere l'elettricità veniva a mancare per un'ora o due, e allora i detenuti accendevano candele o lampade tascabili. Il carcere era pieno di viceministri, appaltatori del governo e uomini d'affari di Teheran. Con Paul e Bill, nella cella numero 5, c'erano due funzionari della corte dell'imperatrice. L'ultimo arrivato era il dottor Siazi, che aveva lavorato al ministero della Sanità agli ordini del dottor Sheik come direttore del servizio Riabilitazione. Siazi era psichiatra, e si serviva della sua conoscenza della mente umana per tenere alto il morale dei compagni di prigionia. Inventava di continuo giochi e svaghi per ravvivare la tetra routine; istituì una specie di rito serale che imponeva a tutti di raccontare una storiella divertente prima di mangiare. Quando seppe l'ammontare della cauzione chiesta per Paul e Bill disse loro che avrebbero ricevuto sicuramente la visita di Farrah Fawcett Majors, il cui marito, Lee Majors, dopotutto, era soltanto l'Uomo da Sei Milioni di Dollari nella famosa serie di telefilm. Paul fece amicizia con il "padre" della cella, l'uomo che era lì da più tempo e, secondo la tradizione, era il capo. Era un ometto anziano, e faceva quel che poteva per aiutare gli americani: li incoraggiava a mangiare e pagava le guardie perché portassero loro qualcosa di più. Conosceva soltanto una dozzina di parole d'inglese, e Paul parlava pochissimo il Farsi, ma riuscivano a capirsi. Paul scoprì che l'uomo era stato un importante uomo d'affari: era proprietario d'una società edilizia e di un albergo a Londra. Paul gli mostrò le foto di Karen e di Ann Marie che gli aveva portato Taylor, e il vecchio imparò i loro nomi. Per quanto ne sapeva Paul, poteva essere colpevole di tutti i reati che gli avevano attribuito: ma la premura e il calore umano che dimostrava agli stranieri erano rincuoranti. Paul era commosso anche dal coraggio dei suoi colleghi dell'EDS rimasti a Teheran: Lloyd Briggs, che adesso era andato a New York; Rich Gallagher, che non era mai partito; e Keane Taylor, che era tornato: tutti rischiavano la vita ogni volta che attraversavano la città per venirli a trovare, sfidando i disordini. E per ognuno di loro c'era anche il rischio che Dadgar si mettesse in testa di prenderlo come nuovo ostaggio. Paul provò uno speciale senso di gratitudine per Bob Young, quando seppe che stava arrivando; la moglie di Bob aveva appena avuto un bambino, e quello era il momento meno adatto perché lui si esponesse a pericoli. All'inizio, Paul aveva creduto che lo avrebbero rilasciato da un momento
all'altro. Adesso si diceva che sarebbe uscito da un giorno all'altro. Uno dei loro compagni di cella era stato rilasciato; Lucio Randone, un italiano che lavorava per le Condotte d'Acqua. Randone era tornato a trovarli, aveva portato due enormi tavolette di cioccolato italiano, e aveva detto a Paul e Bill che aveva parlato di loro al suo ambasciatore a Teheran. L'ambasciatore italiano aveva promesso di incontrarsi con il collega americano e di rivelargli il sistema segreto con il quale riusciva a tirar fuori la gente dal carcere. Ma la fonte più importante dell'ottimismo di Paul era il dottor Ahmad Houman, l'avvocato al quale Briggs s'era rivolto dopo che gli altri avevano sbagliato tutto a proposito della cauzione. Houman era venuto a trovarli la prima settimana. Si erano incontrati nell'ufficio matricola del carcere - non nel parlatorio dall'altra parte del cortile - e Paul aveva temuto che questo impedisse una franca discussione; ma Houman non si era lasciato intimidire dalla presenza delle guardie. «Dadgar sta cercando di farsi un nome» aveva detto. Era possibile che fosse così? Un magistrato troppo zelante che voleva far colpo sui superiori - o forse sui rivoluzionari - prendendosela con gli americani? «Dadgar è potente» continuò Houman. «Ma in questo caso non ha niente in mano. Non aveva nessun motivo per arrestarvi, e la cauzione è esorbitante.» Paul incominciò a sentirsi rassicurato. Houman aveva tutta l'aria di sapere il fatto suo. «Quindi che cosa farà?» «Intendo ottenere una riduzione della cauzione.» «Come?» «Prima parlerò con Dadgar. Spero di riuscire a fargli capire che la cauzione è pazzesca. Ma se resterà sulle sue posizioni d'intransigenza, mi rivolgerò ai suoi superiori al ministero della Giustizia e li persuaderò a ordinargli di ridurre la somma.» «E quanto tempo pensa che ci vorrà?» «Forse una settimana.» Era trascorsa più d'una settimana, ma Houman aveva fatto progressi. Era tornato al carcere per riferire che i superiori di Dadgar al ministero della Giustizia si erano impegnati a ridurlo a più miti consigli e a fargli portare la cauzione a una somma che l'EDS poteva pagare facilmente e prontamente con i fondi di cui disponeva in Iran. Irradiando disprezzo per Dadgar e fiducia in se stesso, Houman annunciò trionfalmente che tutto si sa-
rebbe risolto l'11 gennaio, in un secondo incontro fra Paul, Bill e Dadgar. Infatti, il pomeriggio di quel giorno Dadgar venne al carcere. Volle vedere prima Paul da solo, come l'altra volta. Paul era di ottimo umore quando la guardia l'accompagnò attraverso il cortile. Dadgar era solo un magistrato troppo zelante, pensò, e adesso i suoi superiori l'avevano rimesso in riga e ridotto all'umiltà. Dadgar l'aspettava con la stessa interprete dell'altra volta. Salutò seccamente con un cenno e Paul sedette pensando: Non mi sembra molto umile. Dadgar parlò in Farsi e la signora Nourbash tradusse: «Siamo qui per parlare dell'ammontare della cauzione». «Bene» disse Paul. «Il signor Dadgar ha ricevuto in proposito una lettera del ministero della Sanità e della Previdenza Sociale.» La signora Nourbash incominciò a tradurre la lettera. Il ministero chiedeva che la cauzione per i due americani venisse aumentata a ventitré milioni di dollari - poco meno del doppio - per risarcire le perdite che il ministero aveva subito da quando l'EDS aveva disattivato i computer. Paul si rese conto che non sarebbe stato rilasciato quel giorno. La lettera era stata fatta apposta. Dadgar aveva manovrato con abilità per evitare che il dottor Houman la spuntasse. Quell'incontro era una buffonata. Paul andò su tutte le furie. È inutile essere educato con questo bastardo, pensò. Quando la signora Nourbash ebbe finito di leggere la lettera, le disse: «Adesso ho qualcosa da dire, e voglio che traduca ogni parola. Chiaro?». «Certo» disse la signora Nourbash. Paul parlò lentamente, chiaramente: «Lei mi tiene in carcere ormai da quattordici giorni. Non sono stato portato davanti a un tribunale. Non è stata formulata nessuna accusa a mio carico. Deve ancora produrre una sola prova che mi coinvolga in un qualunque reato. Non ha neppure specificato quale reato potrei aver commesso. Si sente molto fiero della giustizia iraniana?» Con una certa sorpresa di Paul, quella tirata ebbe il potere di addolcire leggermente lo sguardo gelido di Dadgar. «Mi dispiace» disse il magistrato, «che debba andarci di mezzo lei per i torti della sua società.» «No, no, no» ribatté Paul. «Io sono la società. Io sono il responsabile. Se la società ha fatto qualcosa di male, è giusto che ci vada di mezzo io. Ma
non abbiamo fatto niente. Anzi, abbiamo fatto molto di più di quanto eravamo tenuti a fare. L'EDS ha ottenuto questo contratto perché è l'unica società al mondo in grado di fare questo lavoro... creare un sistema previdenziale completamente automatizzato in un paese sottosviluppato di trenta milioni di contadini al limite della sussistenza. E ci siamo riusciti. Il nostro sistema di data processing distribuisce le tessere assicurative. Tiene la registrazione dei depositi in banca sul conto del ministero. Ogni mattina presenta un riepilogo delle richieste di prestazioni presentate il giorno prima. Prepara le paghe dell'intero ministero della Sanità e della Previdenza Sociale. Fornisce relazioni finanziarie settimanali e mensili per il ministero. Perché non va al ministero a vedere il materiale? No, aspetti un momento» disse quando Dadgar fece per parlare. «Non ho ancora finito.» Dadgar alzò le spalle. Paul continuò: «Ci sono le prove che l'EDS ha ottemperato alle condizioni del contratto. È altrettanto facile accertare che il ministero non lo ha fatto: vale a dire, non ci ha pagato per sei mesi e attualmente ci deve più di dieci milioni di dollari. Ora pensi per un momento al ministero. Perché non ha pagato l'EDS? Perché non ha i fondi. Perché non li ha? Io e lei sappiamo che li ha spesi tutti durante i primi sette mesi di quest'anno e il governo non è in grado di fornirgliene altri. Questa è una prova evidente d'incompetenza. E i funzionari che hanno speso più del previsto? Forse stanno cercando una scusa, qualcuno da incolpare per i loro errori... un capro espiatorio. E non è un'ottima occasione il fatto che c'è l'EDS, una società americana, una società capitalista, che lavora con loro? Nel clima politico attuale, la gente vuol sentirsi dire che gli americani sono malvagi ed è pronta a credere che stiamo truffando l'Iran. Ma lei, signor Dadgar, è un magistrato. Lei non può credere che la colpa sia degli americani, se non ci sono le prove. Lei è tenuto a scoprire la verità, se capisco esattamente il ruolo di un magistrato inquirente. Non sarebbe ora che si chiedesse perché qualcuno formula false accuse contro di me e la mia società? Non sarebbe ora che incominciasse a indagare su quel maledetto ministero?» L'interprete tradusse l'ultima frase. Paul fissò Dadgar: aveva ripreso l'espressione gelida. Disse qualcosa in Farsi. La signora Nourbash tradusse: «Ora parlerà con l'altro». Paul la fissò. Era stato fiato sprecato, e se ne rendeva conto. Era come se avesse recitato una filastrocca. Dadgar era incrollabile.
Paul era profondamente depresso. Era sdraiato sul materasso e guardava le foto di Karen e di Ann Marie che aveva fissato alla parte inferiore della branda di sopra. Le bambine gli mancavano terribilmente. Ora che non poteva vederle si rendeva conto che in passato aveva dato per scontato il fatto di averle accanto. E anche Ruthie. Guardò l'orologio. In quel momento negli Stati Uniti era notte alta. Ruthie dormiva, sola nel grande letto. Come sarebbe stato bello esserle vicino e tenerla tra le braccia. Scacciò quel pensiero: l'autocommiserazione non serviva a nulla. Non aveva motivo di preoccuparsi per loro. Erano lontane dall'Iran, lontane dal pericolo, e sapeva che qualunque cosa accadesse Perot avrebbe provveduto a loro. Perot aveva questo di bello. Ti chiedeva parecchio - diamine, era il datore di lavoro più esigente che si potesse avere - ma quando era necessario potevi contare ciecamente su di lui. Paul accese una sigaretta. Aveva il raffreddore. In carcere era impossibile scaldarsi. Era troppo depresso per fare qualcosa. Non voleva andare nella cucina chiamata Chattanooga a bere il tè; non voleva guardare il telegiornale; non voleva giocare a scacchi con Bill. Non voleva andare in biblioteca a prendere un altro libro. Aveva letto Uccelli di rovo di Collen McCullough e gli era sembrato un libro molto emozionante. Parlava di sette generazioni e lo induceva a pensare alla sua famiglia. Il personaggio principale era un prete e Paul, che era cattolico, aveva sentito una particolare affinità per lui. Aveva riletto il libro tre volte. Aveva letto anche Hawaii di James Mitchener, Airport di Arthur Hailey, e il Guinness dei Primati. Gli era passata la voglia di leggere. A volte pensava a ciò che avrebbe fatto quando fosse uscito, e ricordava i suoi passatempi preferiti, andare in barca e pescare. Ma era deprimente. Non ricordava un momento, in tutta la sua vita di adulto, in cui non avesse saputo che cosa fare. Era sempre indaffarato. In ufficio aveva quasi regolarmente tre giorni di lavoro arretrato da sbrigare. Mai, mai si era sdraiato a fumare e a chiedersi cosa poteva fare per passare il tempo. Ma il peggio era quel senso di impotenza. Sebbene avesse sempre lavorato alle dipendenze di un altro e fosse andato dove lo mandava il principale e avesse fatto quello che gli veniva ordinato, aveva sempre saputo che in qualunque momento avrebbe potuto saltare su un aereo e tornare a casa, o abbandonare il lavoro, o dire "no" al principale. In ultima analisi, le decisioni erano sempre spettate a lui. Adesso non poteva più decidere della propria vita. Non poteva neppure far nulla per togliersi da quella situazione. Con tutti gli altri problemi, aveva sempre potuto fare qualcosa, tentare
soluzioni, affrontare la situazione, attaccare. Adesso non poteva far altro che starsene lì a soffrire. Si rendeva conto che non aveva mai conosciuto il significato della libertà fino a quando l'aveva perduta. La manifestazione era relativamente pacifica. C'erano parecchie macchine incendiate, ma erano gli unici segni di violenza. I dimostranti marciavano avanti e indietro con i ritratti di Khomeini e mettevano fiori nelle torrette dei carri armati. I soldati stavano a guardare, passivamente. Il traffico era bloccato. Era il 14 gennaio, e il giorno prima erano arrivati Simons e Poché. Boulware era tornato a Parigi, e adesso lui e gli altri quattro stavano aspettando un volo per Teheran. Simons, Coburn e Poché erano diretti in centro per effettuare una ricognizione del carcere. Dopo qualche minuto Joe Poché spense il motore e rimase in silenzio, impassibile come sempre. Ma Simons, che gli sedeva accanto, era animatissimo. «È la storia che si sta compiendo sotto i nostri occhi!» diceva. «Pochissime persone al mondo hanno modo di vedere una rivoluzione in atto.» Coburn sapeva che il colonnello era appassionato di storia, e le rivoluzioni erano la sua specialità. All'aeroporto, quando gli avevano chiesto professione e scopo della visita, aveva risposto che era un agricoltore in pensione e che quella era probabilmente l'unica possibilità, per lui, di vedere una rivoluzione. E aveva detto la verità. Coburn non era entusiasta di trovarsi lì. Non era piacevole essere a bordo d'una piccola Renault 4, circondati da fanatici musulmani. Nonostante la barba non sembrava affatto un iraniano. E neppure Poché. Ma Simons sì: aveva i capelli più lunghi, la carnagione olivastra e il naso imponente, e s'era lasciato crescere la barba bianca. Nessuno avrebbe sospettato che era americano. Ma la folla si disinteressava degli americani, e alla fine Coburn si sentì abbastanza sicuro per scendere dalla macchina ed entrare in una panetteria. Comprò lunghe pagnotte piatte dalla crosta delicata che venivano sfornate ogni giorno e costavano sette rial... dieci cent. Come il pane francese, era delizioso ma induriva molto in fretta. Di solito lo si mangiava con burro o formaggio. L'Iran andava avanti a pane e tè. Seduti in macchina, guardarono la dimostrazione masticando il pane fino a quando il traffico si rimise in moto. Poché seguì il percorso che aveva
studiato la sera prima sulla carta topografica. Coburn si chiedeva che cosa avrebbero trovato quando fossero arrivati al carcere. Per ordine di Simons, fino a quel momento s'era tenuto lontano dal centro. Era troppo sperare che il carcere fosse esattamente come l'aveva descritto undici giorni prima sul lago di Grapevine: la squadra aveva pianificato un piano d'attacco molto preciso basandosi su informazioni molto imprecise. Presto avrebbero scoperto fino a che punto arrivava l'imprecisione. Raggiunsero il ministero della Giustizia e svoltarono in via Khayyam, raggiungendo il fianco dell'isolato in cui si trovava l'ingresso della prigione. Poché passò davanti al carcere, lentamente ma non troppo. «Oh, merda» disse Simons. Coburn si sentì stringere il cuore. Il carcere era completamente diverso dall'immagine che se ne era fatta. La porta aveva due battenti d'acciaio alti quattro metri. Da una parte c'era una costruzione a un piano, con il filo spinato lungo il tetto; dall'altra un edificio più alto, cinque piani, di pietra grigia. La cancellata di ferro non c'era. Non c'era il cortile. Simons disse: «Dove cavolo è il cortile?». Poché proseguì, svoltò e svoltò di nuovo, e tornò in via Khayyam nella direzione opposta. Questa volta Coburn vide un cortiletto con erba e alberi, che una cancellata di ferro alta tre metri e mezzo divideva dalla strada: ma evidentemente non aveva niente a che fare con il carcere, che si trovava più avanti. Chissà come, in quella conversazione telefonica con Majid, il cortile della prigione era stato confuso con quel piccolo giardino. Poché fece un altro giro dell'isolato. Simons stava già pensando alle modifiche del piano. «Possiamo entrare» disse. «Ma dobbiamo sapere che cosa ci troveremo di fronte quando avremo superato il muro. Qualcuno dovrà andare a fare una ricognizione.» «Chi?» chiese Coburn. «Lei» rispose Simons. Coburn si presentò all'ingresso del carcere con Rich Gallagher e Majid. Majid suonò il campanello. Attesero. Coburn era diventato "l'agente esterno" della spedizione. Gli impiegati iraniani l'avevano già rivisto al Bucarest, quindi non era possibile tenere segreta la sua presenza a Teheran. Simons e Poché giravano il meno possi-
bile e si tenevano lontani dall'EDS: nessuno doveva sapere che erano lì. Sarebbe stato Coburn ad andare all'Hyatt per vedere Taylor e scambiare le macchine. E fu Coburn che entrò nel carcere. Mentre attendeva, ripassava mentalmente tutte le cose che Simons gli aveva raccomandato di notare: la sorveglianza, il numero delle guardie, le armi, le posizioni, gli eventuali ripari, i posti elevati... era un lungo elenco, e Simons riusciva a fare in modo che nessuno dimenticasse alcun dettaglio delle istruzioni. Si aprì uno spioncino. Majid disse qualcosa in Farsi. I tre furono fatti entrare. Coburn vide un cortile con un'aiuola rotonda e varie macchine parcheggiate in fondo. Dietro le macchine c'era un edificio a cinque piani. A sinistra c'era la costruzione a un piano che aveva visto dalla strada, con il filo spinato sul tetto. A destra c'era un'altra porta d'acciaio. Coburn portava un lungo giaccone imbottito - Taylor diceva che lo faceva sembrare il pupazzo della pubblicità Michelin - sotto il quale avrebbe potuto facilmente nascondere un fucile da caccia; ma la guardia all'ingresso non lo perquisì. Avrei potuto avere addosso sette o otto armi, pensò. Era incoraggiante: la vigilanza lasciava a desiderare. Notò che la guardia alla porta aveva una piccola pistola. I tre visitatori furono condotti nella costruzione bassa sulla sinistra. Il colonnello che dirigeva la prigione era in parlatorio con un altro iraniano. Quest'ultimo, aveva detto Gallagher a Coburn, assisteva sempre ai colloqui e parlava perfettamente l'inglese: con ogni probabilità era lì per ascoltare. Coburn aveva detto a Majid che non voleva che nessuno lo sentisse mentre parlava con Paul, e Majid si era impegnato ad attaccar discorso con l'intruso. Coburn fu presentato al colonnello. In un inglese stentato, quello disse che gli dispiaceva per Paul e Bill e sperava che li rilasciassero presto. Sembrava sincero. Coburn notò che il colonnello e l'altro non erano armati. La porta si aprì ed entrarono Paul e Bill. Entrambi fissarono stupiti Coburn... non erano stati avvertiti del suo ritorno, e la barba era una sorpresa in più. «Cosa diavolo ci fai qui?» chiese Bill sorridendo. Coburn strinse calorosamente le mani a entrambi. Paul disse: «Non riesco a credere ai miei occhi». «Come sta mia moglie?» chiese Bill. «Emily sta bene, e anche Ruthie» disse Coburn.
Majid incominciò a parlare a voce alta in Farsi al colonnello e all'altro. Sembrava che raccontasse una storia molto complicata, gesticolando. Rich Gallagher attaccò a parlare con Bill, e Coburn accennò a Paul di sedersi. Simons aveva deciso che Coburn doveva chiedere a Paul notizie della routine del carcere, e parlargli apertamente del piano di salvataggio. Era stato scelto Paul anziché Bill perché, secondo Coburn, era il più deciso dei due. «Se non l'avessi già indovinato» cominciò Coburn, «siamo venuti per tirarvi fuori di qui con la forza, se sarà necessario.» «L'avevo già intuito» disse Paul. «Non sono sicuro che sia una buona idea.» «Come?» «Potrebbe andarci di mezzo qualcuno.» «Senti, Ross si è rivolto al miglior specialista del mondo per questo genere di operazioni, e abbiamo carta bianca...» «Non sono sicuro d'essere d'accordo.» «Non sto chiedendo il tuo permesso, Paul.» Paul sorrise. «Sta bene.» «Ora ho bisogno di informazioni. Dove andate a prendere un po' d'aria?» «Qui in cortile.» «Quando?» «Il giovedì.» Era lunedì. La prossima ora d'aria sarebbe stata il 18 gennaio. «Quanto tempo state fuori?» «Circa un'ora.» «In che momento della giornata?» «Dipende.» «Merda.» Coburn si sforzava di apparire tranquillo, di non abbassare troppo la voce e di non voltarsi indietro per scoprire se qualcuno stava ascoltando: doveva sembrare una visita normalissima. «Quante guardie ci sono nel carcere?» «Una ventina.» «Tutte in uniforme e tutte armate?» «Tutte in uniforme. Qualcuna ha la pistola.» «Niente fucili?» «Ecco... nessuna delle guardie regolari ha il fucile, ma... Vedi, la nostra cella è dall'altra parte del cortile e ha una finestra. La mattina c'è un gruppo d'una ventina di guardie diverse, si potrebbe dire che sono un corpo scelto.
Hanno i fucili ed elmetti lucidi. Sono qui alla sveglia e poi non le vedo più per il resto della giornata... non so dove vadano.» «Cerca di scoprirlo.» «Cercherò.» «Qual è la tua cella?» «Quando esci di qui, la finestra è più o meno di fronte. Contando dall'angolo destro del cortile verso sinistra è la terza. Ma chiudono le imposte quando vengono i visitatori... perché non vediamo le donne che entrano, dicono.» Coburn annuì, sforzandosi di imprimersi tutto nella mente. «Dovrete fare due cose» disse. «Uno: una descrizione dell'interno della prigione, con le misure esatte il più possibile. Tornerò a farmi dare i dettagli, così prepareremo un piano. Due: rimettetevi in forma. Fate ginnastica tutti i giorni.» «D'accordo.» «Adesso parlami della routine quotidiana» «Ci svegliamo alle sei» cominciò Paul. Coburn si concentrò, sapendo che avrebbe dovuto riferire tutto a Simons. Ma un pensiero lo assillava: Se non sappiamo a che ora li portano all'aria, come diavolo potremo sapere quando è il momento di scavalcare il muro? «Bisogna agire durante una visita» disse Simons. «Come?» chiese Coburn. «È l'unica situazione in cui possiamo sapere che usciranno dal carcere vero e proprio e saremo in grado di portarli via in un momento preciso.» Coburn annuì. Erano nel soggiorno della casa di Keane Taylor, una grande stanza con un tappeto persiano. Avevano accostato tre poltrone a un tavolino. Accanto alla poltrona di Simons si andava accumulando sul tappeto una montagnola di cenere. Taylor si sarebbe infuriato. Coburn era esausto. Essere interrogato da Simons era ancora più sfibrante di quanto avesse previsto. Quando era convinto di aver detto tutto, il colonnello tirava fuori altre domande. Quando non riusciva a ricordare esattamente qualcosa, gli diceva di riflettere fino a che lo rammentava. Simons riusciva a ottenere da lui informazioni che non aveva neppure registrato consciamente, con le domande più adatte. «Il furgone e la scala a pioli... non se ne fa niente» disse Simons. «I loro punto debole, adesso, è la scarsa vigilanza. Possiamo far entrare due uomini come visitatori, con i fucili o le Walther sotto i cappotti. Pau e Bill ver-
ranno portati in parlatorio. I nostri due uomini dovrebbero sopraffare il colonnello e l'altro senza difficoltà... e senza allarmare nessun altro. Poi...» «Poi che cosa?» «Ecco il problema. I quattro dovrebbero uscire dal parlatorio, attraversare il cortile, raggiungere il portone, aprirlo o scavalcarlo, uscire in strada e saltare in macchina...» «Mi sembra possibile» disse Coburn. «Alla porta c'è una guardia sola...» «Ci sono parecchie cose che mi preoccupano» disse Simons. «Una: le finestre dell'edificio più alto che si affaccia sul cortile. Mentre i nostri attraversano, chiunque guardi da una di quelle finestre li vedrà. Due: le cosiddette "guardie scelte" con gli elmetti lucidi e i fucili. Qualunque cosa accada, i nostri dovranno rallentare alla porta. Se una di quelle guardie armate di fucile sta guardando da una delle finestre in alto, può farli fuori tutti e quattro senza la minima difficoltà.» «Ma non sappiamo se le guardie sono in quell'edificio.» «Non sappiamo che non ci sono.» «Mi sembra un rischio modesto...» «Non dobbiamo correre nessun rischio, se possiamo evitarlo. Tre: il traffico di questa maledetta città è uno schifo. Inutile pensare di saltare in macchina e filarsela. Dopo cinquanta metri si potrebbe incappare in una dimostrazione. No. Bisogna fare le cose con calma. Abbiamo bisogno di tempo. Che tipo è il comandante del carcere?» «È stato molto gentile» disse Coburn. «Sembrava sinceramente dispiaciuto per Paul e Bill.» «Chissà se si può parlare con lui. Sappiamo qualcosa sul suo conto?» «No.» «Informiamoci.» «Darò l'incarico a Majid.» «Il colonnello potrebbe fare in modo che non ci fossero guardie in giro al momento della visita. E noi potremmo farlo apparire come una vittima, legandolo o magari dandogli una botta in testa... Se è possibile corromperlo, ce la faremo.» «Mi metto subito al lavoro» disse Coburn. Il 13 gennaio Ross Perot partì da Amman in Giordania a bordo di un reattore Lear delle Arab Wings, il servizio charter delle linee aeree giordane. L'apparecchio era diretto a Teheran. Nel vano bagagli c'era una borsa di rete che conteneva mezza dozzina di videotapes professionali, del tipo usato
dalle troupes televisive: quella era la "copertura" di Perot. A un certo momento, il pilota britannico indicò il punto dove si congiungevano il Tigri e l'Eufrate. Pochi minuti dopo l'aereo incominciò ad avere delle noie ai circuiti idraulici e fu costretto a tornare indietro. Era stato così per tutto il viaggio. A Londra Perot si era incontrato con l'avvocato John Howell e il dirigente dell'EDS Bob Young, che da diversi giorni stavano cercando invano di trovar posto su un volo diretto a Teheran. Alla fine Young aveva scoperto che le Arab Wings ci andavano, e tutti e tre avevano raggiunto Amman. Arrivarci nel cuore della notte era stata un'esperienza abbastanza unica nel suo genere; Perot aveva avuto l'impressione che tutti i tipi meno raccomandabili della Giordania dormissero in quell'aeroporto. Avevano trovato un taxi per andare in un albergo. La stanza di John Howell non aveva il bagno: c'era un vaso da notte accanto al letto. Il gabinetto del bagno di Perot era sistemato in modo che lui era costretto a mettere i piedi dentro la vasca quando si sedeva. E via di seguito... Bob Young aveva avuto l'idea di usare i videotapes come "copertura". Le Arab Wings portavano regolarmente avanti e indietro da Teheran le registrazioni per i notiziari dell'NBC. A volte l'NBC mandava uno dei suoi a portarle; altre volte le prendeva in carico il pilota. Quel giorno, nonostante la NBC non lo sapesse Perot sarebbe stato il suo corriere. Indossava una giacca sportiva, un cappello scozzese e non aveva cravatta. Se qualcuno stava cercando Ross Perot, non avrebbe guardato due volte il corriere dell'NBC con la solita borsa di rete. Le Arab Wings avevano accettato la richiesta, e avevano confermato che avrebbero potuto far uscire di nuovo Perot dall'Iran con lo stesso sistema. Ritornati ad Amman, Perot, Howell, Young e il pilota salirono su un altro aereo e ripartirono. Mentre sorvolavano il deserto, Perot si chiese se era l'uomo più pazzo del mondo o il più razionale. C'erano molte ottime ragioni che gli avrebbero sconsigliato di andare a Teheran. Tanto per cominciare, le orde dei dimostranti avrebbero potuto vedere in lui il simbolo vivente del capitalismo americano sfruttatore, e linciarlo. Molto più probabilmente, Dadgar poteva venire a sapere che lui era in città, e in questo caso avrebbe cercato di farlo arrestare. Perot non sapeva che cosa avesse indotto Dadgar a gettare in carcere Paul e Bill, ma per i suoi scopi misteriosi sarebbe stato ancora più utile spedire dietro le sbarre Ross Perot. Avrebbe potuto chiedere una cauzione di cento milioni di dollari e sentirsi sicuro di ottenerli, se era al denaro che mirava.
Ma le trattative per il rilascio di Paul e Bill erano a un punto morto, e Perot voleva andare a Teheran per un ultimo tentativo di trovare una soluzione ragionevole prima che Simons e gli altri rischiassero la vita assaltando il carcere. C'erano stati momenti, negli affari, in cui l'EDS stava per darsi vinta, e invece aveva tirato avanti e l'aveva spuntata perché Perot aveva insistito per continuare: e quello era il vero significato della leadership. Perot si stava dicendo tutto questo, ed era vero: ma il viaggio aveva anche un'altra spiegazione. Non era capace di starsene al sicuro a Dallas, mentre altri rischiavano la vita dietro suo ordine. Sapeva anche troppo bene che se l'avessero arrestato in Iran lui, i suoi collaboratori e la sua società si sarebbero trovati in un guaio ancora più grosso dell'attuale. Doveva dare ascolto alla prudenza e restare, si domandava... o doveva seguire l'istinto di andare? Era un dilemma morale. Ne aveva discusso con sua madre. Lei sapeva che stava per morire. E sapeva che, anche se Perot fosse tornato sano e salvo dopo pochi giorni, forse non l'avrebbe più trovata. Il cancro stava distruggendo rapidamente il suo corpo, ma la sua mente era intatta, e il suo senso morale era cristallino come sempre. «Non hai scelta, Ross» aveva detto. «Sono tuoi collaboratori. Sei stato tu a mandarli là. Non hanno fatto niente di male. Il nostro governo non vuole aiutarli. Tu sei responsabile per loro. Tocca a te tirarli fuori. Devi andare.» E adesso lui era lì, convinto che quella fosse la cosa più giusta, anche se era una grossa imprudenza. Il Lear superò il deserto e sorvolò le montagne dell'Iran occidentale. Diversamente da Simons, Coburn e Poché, Perot non aveva esperienza del pericolo. Era stato troppo giovane per la Seconda guerra mondiale e troppo vecchio per il Vietnam, e la guerra era finita in Corea proprio mentre il guardiamarina Perot stava arrivando a bordo del caccia Sigourney. Una sola volta s'era trovato in mezzo a una sparatòria, durante la campagna per i prigionieri di guerra, mentre atterrava in una giungla del Laos con un vecchio DC3: aveva sentito i sibili ma non si era accorto che l'aereo era stato colpito fino a quando era atterrato. La sua esperienza più spaventosa - dopo i tempi dei rapinatori di Texarkana che cercavano di rubare ai ragazzi il denaro dei giornali - l'aveva vissuta a bordo di un altro aereo sul Laos, quando si era staccato all'improvviso un portello accanto al suo sedile. Perot stava dormendo. Quando si era svegliato aveva cercato per qualche istante una luce, prima di accorgersi che stava spenzolando nel vuoto. Per
fortuna era legato con la cintura di sicurezza. Quel giorno non era seduto accanto a un portello. Guardò dal finestrino e, in una conca tra le montagne, vide Teheran, una distesa color fango punteggiata da grattacieli bianchi. L'aereo incominciò a scendere. Bene, pensò, stiamo per atterrare. È ora che incominci a riflettere e a usare il cervello, Perot. Mentre l'aereo atterrava, si sentiva teso, caricato, sotto l'effetto dell'adrenalina. Il Lear si fermò. Alcuni soldati con il mitra in spalla si aggiravano distrattamente sulla pista. Perot scese. Il pilota aprì il vano bagagli e gli porse la borsa di rete con i videotapes. Perot e il pilota si avviarono. Howell e Young li seguirono, portando le valigie. Perot era contento che il suo aspetto passasse inosservato. Ricordava un amico norvegese, un bellissimo uomo alto e biondo che si lamentava di dare troppo nell'occhio. «Sei fortunato, Ross» gli diceva. «Quando entri in un posto nessuno ti nota. Quando la gente vede me si aspetta sempre troppo... e io non sono all'altezza.» Nessuno avrebbe mai scambiato il norvegese per un corriere. Ma Perot, piccolo di statura, con la faccia comune e gli abiti dozzinali, in quella parte poteva essere convincente. Entrarono nel terminal. Perot si disse che i militari che occupavano l'aeroporto e il ministero della Giustizia per il quale lavorava Dadgar erano due diverse burocrazie governative; e se una sapeva quello che stava facendo l'altra, o che cosa stava cercando, quella sarebbe stata l'operazione più efficiente nella storia del governo. Si accostò al banco e presentò il passaporto. Il passaporto venne timbrato e restituito. Perot passò oltre. Alla dogana non lo fermarono. Il pilota gli mostrò dove doveva lasciare la borsa dei videotapes. Perot la posò e si congedò da lui. Si voltò e vide un amico: Keane Taylor. Perot era affezionato a Taylor. «Salve, Ross, com'è andata?» chiese Taylor. «Benone» disse Perot con un sorriso. «Non stavano cercando il "brutto americano".» Uscirono dall'aeroporto. Perot disse: «È contento che non l'abbia riman-
dato qui per occuparsi di fesserie burocratiche?». «Sicuro» disse Taylor. Salirono sulla macchina di Taylor. Howel e Young presero posto sul sedile posteriore. Mentre si allontanavano, Taylor disse: «Dovrò fare un lungo giro per evitare i disordini». Perot pensò che non era molto rassicurante. La strada era fiancheggiata da alti palazzoni di cemento incompiuti e da gru. I lavori sembravano essere stati interrotti. Perot guardò più attentamente e vide che c'era gente che viveva in quei gusci vuoti. Sembrava un simbolo del modo in cui lo scià aveva tentato di modernizzare l'Iran troppo in fretta. Taylor stava parlando delle macchine. Aveva parcheggiato tutte le auto dell'EDS nel campo giochi d'una scuola e aveva assunto alcuni iraniani per custodirle, ma aveva scoperto che gli iraniani s'erano dati da fare per venderle. C'erano lunghe code davanti a tutti i distributori, notò Perot. Era un'ironia, in un paese ricco di petrolio. In coda non c'erano soltanto automobili, ma anche gente con le taniche. «Cosa fanno?» chiese Perot. «Se non hanno ja macchina, perché hanno bisogno di benzina?» «La vendono al miglior offerente» spiegò Taylor. «Oppure fanno la coda a pagamento per conto terzi.» Vennero fermati, per qualche istante, a un blocco stradale. Quando proseguirono videro parecchie macchine incendiate. Intorno c'erano uomini in borghese armati di mitra. Poi fu tutto tranquillo per due o tre chilometri; quindi Perot vide altre auto che bruciavano, altri mitra, un altro blocco stradale. Erano spettacoli che avrebbero dovuto incutere paura, ma non era così. Perot aveva la sensazione che la gente si divertisse a scatenarsi, adesso che finalmente il pugno ferreo dello scià si stava allentando. Senza dubbio i militari non facevano nulla per mantenere l'ordine, a quanto poteva vedere. È sempre una sensazione strana, vedere la violenza da turista. Ricordava quando aveva sorvolato il Laos e aveva visto la gente che combatteva a terra: s'era sentito tranquillo, distaccato. Pensava che anche le battaglie fossero così: potevano essere tremende se ti ci trovavi in mezzo, ma a cinque minuti di distanza non succedeva nulla. Entrarono in un enorme spiazzo; al centro sorgeva un monumento che sembrava un'astronave del futuro e torreggiava al di sopra del traffico su
quattro supporti giganteschi. «Che cos'è quello?» chiese Perot. «Un monumento, lo Shahyad» disse Taylor. «In alto c'è un museo.» Qualche minuto dopo si fermarono nel cortile dell'Hyatt Crown Regency. «È un albergo nuovo» disse Taylor. «L'hanno appena inaugurato, poveracci. Comunque, per noi è una fortuna... si mangia benissimo e si beve meglio, la sera c'è musica al ristorante... Viviamo come re in una città in sfacelo.» Nell'atrio presero l'ascensore. «Non è necessario che si faccia registrare» disse Taylor a Perot. «Il suo appartamento è a nome mio. Non è opportuno mettere il suo nome per iscritto.» «Giusto.» Uscirono al decimo piano. «Le nostre stanze sono tutte lungo questo corridoio» disse Taylor. Aprì una porta in fondo. Perot entrò, si guardò intorno e sorrise. «Vuol dare un'occhiata?» Il salotto era immenso. Accanto c'era una grande stanza da letto; e il bagno era abbastanza vasto per organizzarci una festa da ballo. «Va tutto bene?» chiese Taylor. «Se avesse visto la stanza dove ho dormito stanotte ad Amman non si prenderebbe il disturbo di chiedermelo.» Taylor lo lasciò solo. Perot andò alla finestra e guardò fuori. L'appartamento era nella parte anteriore dell'albergo, affacciata sul cortile d'ingresso. Forse potrei accorgermene in tempo, pensò, se un drappello di soldati o un'orda di rivoluzionari venissero a cercarmi. Ma che cosa farei? Decise di studiare un percorso di fuga per i casi d'emergenza. Lasciò l'appartamento e si avviò lungo il corridoio. C'erano diverse stanze vuote e le porte non erano chiuse a chiave. Alle due estremità c'erano le scale. Scese una delle scale, fino al piano di sotto. Trovò altre stanze vuote: alcune non erano neppure arredate e rifinite. L'albergo era incompiuto, come tanti altri edifici della città. Potrei scendere da qui, pensò; e se li sentissi salire potrei infilarmi in uno dei corridoi e nascondermi in una stanza vuota. Così ce la farei ad arrivare al pianterreno. Continuò a scendere ed esplorò il pianterreno. C'erano alcune sale per banchetti che dovevano essere quasi sempre deserte. C'era il labirinto delle cucine, con mille nascondigli possibili: notò in particolare alcuni recipienti per i viveri, vuoti e abbastanza grandi perché un uomo non molto alto po-
tesse rifugiarvisi. Dal settore dei banchetti si arrivava all'health club sul retro dell'albergo. Era piuttosto lussuoso, con la sauna e la piscina. Perot aprì una porta e si trovò all'aperto, nel parcheggio. Lì avrebbe potuto prendere una macchina dell'EDS e sparire, oppure raggiungere a piedi l'albergo più vicino, l'Evin, o correre a nascondersi nella foresta dei grattacieli incompiuti che incominciava in fondo al parcheggio. Rientrò e prese l'ascensore. Mentre saliva, decise che a Teheran avrebbe fatto meglio a vestire sempre molto sportivo. Aveva portato calzoni kaki e camicie di flanella scozzese, e una tuta da jogging. Non poteva nascondere il fatto che era americano, con la carnagione chiara, il viso rasato, gli occhi azzurri e i capelli cortissimi; ma se fosse stato costretto a fuggire, almeno poteva non avere l'aria di un americano importante, il multimilionario padrone dell'EDS. Andò nella stanza di Taylor per farsi mettere al corrente della situazione. Voleva andare all'ambasciata americana per parlare con l'ambasciatore Sullivan; voleva andare al comando del MAAG, il Military Assistance and Advisory Group, e incontrarsi con il generale Huyser e il generale Ghast; voleva che Taylor e John Howell si dessero da fare per mettere una bomba sotto la coda di Dadgar; voleva muoversi, andare, risolvere il problema, liberare Paul e Bill, in fretta. Bussò alla porta di Taylor ed entrò. «Bene, Keane» disse. «Mi ragguagli in due minuti.» VI John Howell era nato al nono minuto della nona ora del nono giorno del nono mese del 1946, come diceva spesso sua madre. Era piccolo di statura, minuto, e camminava con passo elastico. I capelli castani si andavano stempiando prematuramente; era leggermente strabico e aveva la voce un po' rauca, come se fosse sempre raffreddato. Parlava molto lentamente e batteva di continuo le palpebre. A trentadue anni era socio dello studio legale di Tom Luce, a Dallas: come tanti altri che circondavano Ross Perot, aveva raggiunto ancora giovane un posto di responsabilità. Come avvocato, la sua dote più notevole era l'energia... «John vince perché sfinisce gli avversari» diceva Luce. Molte volte Howell passava il sabato o la domenica in ufficio per sistemare le pratiche, concludere cose che erano state interrotte da una telefonata, preparare il lavoro per la settimana successiva. Si sentiva frustrato quando
gli impegni familiari lo privavano di quella sesta giornata lavorativa. Spesso sgobbava la sera fino a tardi e non tornava a casa per cena, e sua moglie Angela se ne rattristava. Come Perot, Howell era nato a Texarkana. Come Perot, era basso di statura ma pieno di audacia. Però a mezzogiorno del 14 gennaio aveva paura. Stava per incontrarsi con Dadgar. Il pomeriggio precedente, subito dopo l'arrivo a Teheran, Howell aveva parlato con Ahmad Houman, il nuovo avvocato locale dell'EDS. Il dottor Houman gli aveva consigliato di non incontrarsi con Dadgar, almeno per il momento: era possibile che Dadgar intendesse arrestare tutti gli americani dell'EDS che riusciva a scovare, inclusi i legali. A Howell, Houman era apparso imponente. Era un uomo oltre la sessantina, alto e corpulento, ben vestito secondo i criteri iraniani: era stato presidente dell'Ordine degli avvocati dell'Iran. Sebbene non parlasse perfettamente l'inglese - la sua seconda lingua era il francese - sembrava un tipo capace e competente. Il consiglio di Houman era in armonia con l'istinto di Howell. Lui preferiva sempre prepararsi con estrema meticolosità prima di ogni confronto. Credeva nella vecchia massima degli avvocati: Non fare mai una domanda se non conosci già la risposta. Il consiglio di Houman era confermato da Bunny Fleischhaker. La giovane americana, che aveva amici iraniani al ministero della Giustizia, nel dicembre precedente aveva avvertito Jay Coburn che Paul e Bill sarebbero stati arrestati; ma allora nessuno le aveva creduto. I fatti le avevano dato ragione, e quando aveva telefonato a casa di Rich Gallagher una sera alle undici, all'inizio di gennaio, le sue parole erano state prese sul serio. La conversazione aveva ricordato a Gallagher le telefonate del film Tutti gli uomini del presidente, le scene in cui gli informatori nervosissimi parlavano ai giornalisti in un codice improvvisato. Bunny aveva esordito: «Sa chi sono?». «Credo di sì» aveva risposto Gallagher. «Le hanno parlato di me?» «Sì.» I telefoni dell'EDS erano sotto controllo e le conversazioni venivano registrate, spiegò Bunny. Lo aveva chiamato per avvertirlo che molto probabilmente Dadgar avrebbe fatto arrestare altri dirigenti dell'EDS. Consigliava loro di lasciare il paese, o almeno di trasferirsi in un albergo dove ci fossero parecchi giornalisti. Lloyd Briggs, che era il vice di Paul e quindi
sembrava essere il bersaglio più probabile di Dadgar, aveva lasciato l'Iran... comunque, avrebbe dovuto ritornare negli Stati Uniti per riferire la situazione ai legali dell'EDS. Gli altri, Gallagher e Keane Taylor, avevano preso alloggio all'Hyatt. Dadgar non aveva fatto arrestare altri dirigenti dell'EDS... per ora. Howell non aveva bisogno di altra opera di convinzione. Intendeva stare alla larga da Dadgar fino a quando non fosse stato ben sicuro delle regole del gioco. Ma quella mattina alle otto e mezzo Dadgar era piombato al Bucarest. Si era presentato con una mezza dozzina di collaboratori e aveva preteso di vedere la documentazione dell'EDS. Howell, rintanato in un ufficio a un altro piano, aveva telefonato a Houman. Dopo una rapida discussione aveva consigliato al personale dell'EDS di collaborare con Dadgar. Dadgar aveva voluto vedere la documentazione di Paul Chiapparone. Lo schedario nell'ufficio della segretaria di Paul era chiuso, e nessuno sapeva dove fosse la chiave. Naturalmente, questo aveva stimolato ancora di più la curiosità di Dadgar. Keane Taylor aveva risolto il problema in modo tipico: aveva preso un piede di porco e aveva scassinato lo schedario. Howell, nel frattempo, usciva dal Bucarest. Dopo essersi incontrato con il dottor Houman, era andato al ministero della Giustizia. Anche quella era stata un'avventura preoccupante, perché era stato costretto ad aprirsi un varco in mezzo a una folla scatenata che aveva organizzato una dimostrazione davanti al ministero per chiedere la liberazione dei detenuti politici. Howell e Houman avevano un appuntamento con il dottor Kian, il superiore di Dadgar. Howell spiegò a Kian che l'EDS era una società seria e rispettabile, che non aveva fatto niente di male ed era disposta a collaborare alle indagini, ma voleva che i suoi dipendenti venissero rilasciati. Kian disse che aveva chiesto a uno dei suoi collaboratori di invitare Dadgar a riesaminare il caso. Howell ebbe la netta impressione che non sarebbe servito a niente. Disse a Kian che voleva discutere una riduzione della cauzione. Il colloquio si svolgeva in Farsi, e Houman fungeva da interprete. Houman disse che Kian non era assolutamente contrario a una riduzione; secondo lui, si poteva sperare che venisse dimezzata. Kian consegnò a Howell una lettera che l'autorizzava a far visita a Paul e Bill in carcere.
L'incontro era stato più o meno inutile, pensò più tardi Howell; ma almeno Kian non l'aveva fatto arrestare. Quando era rientrato al Bucarest aveva scoperto che anche Dadgar non aveva arrestato nessuno. L'istinto gli suggeriva di non incontrarsi con Dadgar; ma adesso l'istinto era in lotta con un altro aspetto della sua personalità, l'impazienza. Certe volte Howell ne aveva abbastanza delle ricerche, della preparazione, della lungimiranza e della pianificazione... e allora voleva affrontare un problema anziché studiarlo. Gli piaceva prendere l'iniziativa, vedere come reagiva l'avversario. Quell'inclinazione era rafforzata dalla presenza di Ross Perot, che era sempre il primo ad alzarsi alla mattina e chieaeva a tutti che cosa avevano realizzato il giorno prima e che cosa intendevano fare quel giorno. Perciò l'impazienza ebbe la meglio sulla cautela, e Howell decise di affrontare Dadgar. Per questo aveva paura. Se Howell era preoccupato, sua moglie lo era ancora di più. Angela Howell aveva visto pochissimo il marito, in quegli ultimi due mesi. Lui aveva trascorso gran parte del novembre e del dicembre a Teheran, per cercare di convincere il ministero a pagare le fatture dell'EDS. Da quando era tornato negli Stati Uniti era rimasto alla sede centrale dell'EDS fino alle ore più impossibili per occuparsi del problema di Paul e Bill, quando non correva a New York per incontrarsi con gli avvocati iraniani. Il 31 dicembre Howell era tornato a casa all'ora di colazione dopo aver lavorato all'EDS tutta la notte, e aveva trovato Angela e il piccolo Michael, nove mesi, raggomitolati davanti al fuoco nella casa fredda e buia; la tremenda gelata aveva causato l'interruzione della corrente. Li aveva portati nell'appartamento della sorella ed era ripartito per New York. Angela non sopportava più quella situazione e quando Howell aveva annunciato che stava per tornare a Teheran era rimasta sconvolta. «Tu sai cosa sta succedendo laggiù» aveva detto. «Perché devi tornarci?» Il guaio era che lui non sapeva cosa rispondere. Non sapeva esattamente che cosa avrebbe fatto a Teheran. Doveva occuparsi del problema, ma non sapeva come. Se avesse potuto dire: «Senti, c'è da fare questo e questo ed è compito mio, e sono l'unico che può farlo» lei avrebbe capito. «John, noi siamo una famiglia e io ho bisogno del tuo aiuto per tutto questo!» aveva ribattuto Angela, alludendo alle gelate, all'energia elettrica che veniva meno e al bambino. «Mi dispiace. Fai quello che puoi; io cercherò di rimanere in contatto»
aveva detto Howell. Loro due non appartenevano alla categoria dei coniugi che esprimono i loro stati d'animo strillando. Quando Howell lavorava fino a tardi e lasciava la moglie a mangiare tutta sola la cena che aveva preparato per lui, tra loro si stabiliva al massimo una certa freddezza. Ma questo era ben peggio che non tornare a casa per cena: significava abbandonare Angela e il bambino proprio quando avevano bisogno di lui. Quella sera avevano parlato a lungo. Alla fine Angela non era molto più soddisfatta, ma almeno era rassegnata. Howell le aveva telefonato parecchie volte, da Londra e da Teheran. Lei aveva visto le scene dei disordini alla televisione, ed era in pensiero. Si sarebbe preoccupata ancora di più se avesse saputo cosa stava per fare adesso. Howell accantonò quei pensieri in fondo alla mente e andò a cercare Abolhasan. Abolhasan era il dipendente iraniano dell'EDS con il grado più alto. Quando Lloyd Briggs era partito per New York, Abolhasan aveva assunto la responsabilità. (Rich Gallagher, l'unico americano rimasto, non era un direttore.) Poi era tornato Keane Taylor, che aveva preso a dirigere la sede, e Abolhasan si era offeso. Taylor non era un diplomatico. (Bill Gayden, il gioviale presidente dell'EDS World, aveva coniato per lui un'espressione sarcastica: «Keane ha tutta la delicatezza di un vero marine».) C'era stato un certo attrito. Ma Howell andava d'accordo con Abolhasan, il quale era capace di tradurre non soltanto il Farsi ma anche i metodi e gli usi e costumi persiani a beneficio della sua azienda americana. Dadgar conosceva il padre di Abolhasan, un noto avvocato, e aveva incontrato lo stesso Abolhasan nel corso dell'interrogatorio di Paul e Bill; perciò quella mattina Abolhasan aveva ricevuto l'incarico di fungere da collegamento con gli investigatori di Dadgar, con il compito di assicurarsi che venisse dato loro tutto ciò che chiedevano. Howell disse ad Abolhasan: «Ho deciso che dovrei incontrarmi con Dadgar. Cosa ne pensa?». «Sicuro» rispose Abolhasan. Aveva sposato un'americana e parlava inglese con accento americano. «Non credo che ci saranno problemi.» «Sta bene. Andiamo.» Abolhasan condusse Howell nella sala riunioni di Paul Chiapparone. Dadgar e i suoi collaboratori erano seduti intorno al grande tavolo ed esaminavano la documentazione finanziaria dell'EDS. Abolhasan pregò Da-
dgar di passare nella stanza accanto, l'ufficio di Paul, e gli presentò Howell. Dadgar gli strinse la mano. Sedettero intorno al tavolo nell'angolo dell'ufficio. A Howell, Dadgar non dava l'impressione di essere un mostro: era solo un uomo di mezza età, dall'aria stanca e dai capelli radi. Howell incominciò a ripetergli ciò che aveva detto al dottor Kian: «L'EDS è una società rispettabile, che non ha fatto niente di illecito, e siamo disposti a collaborare alle indagini. Ma non possiamo tollerare che due nostri dirigenti restino in carcere.» La risposta di Dadgar - tradotta da Abolhasan - lo sorprese: «Se non avete fatto niente di illecito, perché non avete pagato la cauzione?». «Non esiste un nesso» ribatté Howell. «La cauzione serve a garantire che qualcuno si presenterà al processo, non è una somma che viene incamerata se quel qualcuno è colpevole. La cauzione viene restituita non appena l'imputato compare in tribunale, indipendentemente dalla sentenza.» Mentre Abolhasan traduceva, Howell si chiese se "cauzione" era un modo esatto per rendere il termine usato da Dadgar per riferirsi ai 12.750.000 dollari da lui pretesi. Poi ricordò qualcosa d'altro che poteva essere significativo. Il giorno in cui erano stati arrestati Paul e Bill, lui aveva parlato al telefono con Abolhasan, il quale aveva accennato che i 12.750.000 dollari erano, secondo Dadgar, la somma pagata fino a quella data all'EDs dal ministero della Sanità; e Dadgar aveva sostenuto che se il contratto era stato ottenuto mediante la corruzione l'EDS non aveva diritto a quel denaro. (Nel corso dell'interrogatorio, Abolhasan non aveva tradotto a Paul e Bill questa frase.) Per la precisione, l'EDS aveva ricevuto pagamenti ben superiori a tredici milioni di dollari, quindi l'affermazione non aveva molto senso, e Howell non vi aveva fatto gran caso. Forse era stato un errore; forse Dadgar aveva semplicemente sbagliato i conti. Abolhasan stava traducendo la risposta di Dadgar. «Se quei due sono innocenti non avranno motivo di non presentarsi al processo, e voi non rischierete nulla pagando la cauzione.» «Una società americana non può farlo» disse Howell. Non mentiva, ma cercava volutamente di mettere fuori strada Dadgar. «L'EDS è una società per azioni e secondo le disposizioni di legge americane può usare il proprio denaro solo nell'interesse degli azionisti. Paul e Bill sono liberi cittadini; la società non può garantire che si presenteranno al processo. Quindi
non possiamo spendere in questo modo il denaro dell'EDS.» Quella era la posizione iniziale per la quale Howell aveva optato fin dal primo momento; ma quando Abolhasan tradusse si rese conto che a Dadgar non faceva nessuna impressione. «Dovranno essere le famiglie a versare la cauzione» continuò. «In questo momento stanno raccogliendo denaro negli Stati Uniti, ma tredici milioni di dollari sono troppi. Se la cauzione venisse ridotta a una cifra più ragionevole, forse potrebbero pagarla.» Erano tutte menzogne, naturalmente; la cauzione l'avrebbe pagata Ross Perot, se fosse stato necessario e se Tom Walter fosse riuscito a trovare il modo di far pervenire il denaro in Iran. Questa volta toccò a Dadgar restare sorpreso. «È vero che non potete obbligare i vostri dipendenti a presentarsi al processo?» «È verissimo» rispose Howell. «Cosa dovremmo fare, incatenarli? Non siamo la polizia. E voi tenete in carcere due individui per i presunti reati di una società.» La risposta di Dadgar fu: «No, sono in carcere per ciò che hanno fatto personalmente». «E cioè?» «Si sono fatti pagare dal ministero della Sanità mediante falsi rapporti sull'andamento del lavoro.» «Evidentemente questo non può riguardare Bill Gaylord, dato che il ministero non ha pagato una sola delle fatture presentate dopo il suo arrivo a Teheran... quindi, di che cosa è accusato?» «Ha falsificato i rapporti, e non le permetto di interrogarmi, signor Howell.» Di colpo, Howell ricordò che Dadgar poteva sbattere in prigione anche lui. Dadgar continuò: «Sto svolgendo un'indagine. Quando sarà conclusa, rilascerò i suoi clienti o li incriminerò». Howell disse: «Siamo disposti a collaborare con le sue indagini. Nel frattempo, cosa possiamo fare per far rilasciare Paul e Bill?». «Pagate la cauzione.» «E se verranno rilasciati su cauzione, potranno ripartire dall'Iran?» «No.» Jay Coburn varcò la porta di vetro scorrevole ed entrò nell'atrio dello Sheraton. Sulla destra c'era il lungo banco, sulla sinistra i negozi dell'al-
bergo. Al centro stava un divano. Secondo le istruzioni ricevute, andò all'edicola e acquistò la rivista "Newsweek". Sedette sul divano, rivolto verso la porta per poter tener d'occhio chi entrava e finse di leggere. Gli sembrava di essere il protagonista d'un film di spionaggio. Per il momento il piano di salvataggio era stato sospeso, mentre Majid si informava sul conto del colonnello che comandava il carcere. Nel frattempo" Coburn compiva una missione per Perot. Doveva incontrarsi con un uomo soprannominato Gola Profonda (come il personaggio misterioso che forniva informazioni al giornalista Bob Woodward in Tutti gli uomini del presidente). Era un consulente americano che teneva seminari per i dirigenti delle società straniere, per insegnare come bisognava trattare gli affari con gli iraniani. Prima dell'arresto di Paul e Bill, Lloyd Briggs si era rivolto a Gola Profonda perché aiutasse l'EDS a indurre il ministero a pagare i conti. Gola Profonda aveva detto a Briggs che l'EDS era nei guai, ma che pagando due milioni e mezzo di dollari avrebbe potuto tirarsene fuori. A quel tempo l'EDS non aveva preso sul serio il consiglio: era il governo che doveva denaro alla società e non viceversa; erano gli iraniani che dovevano mettersi in regola. L'arresto di Paul e Bill aveva confermato la credibilità di Gola Profonda (come era avvenuto anche nel caso di Bunny Fleischhaker) e Briggs l'aveva contattato di nuovo. «Ecco, adesso sono infuriati con voi» aveva detto quello. «Sarà ancora più difficile, ma vedrò che cosa posso fare.» Il giorno prima aveva telefonato. Poteva risolvere il problema, aveva detto. Voleva incontrarsi personalmente con Ross Perot. Taylor, Howell, Young e Gallagher erano stati concordi nel concludere che in nessun caso Perot doveva accettare... erano inorriditi già al pensiero che Gola Profonda sapesse che Perot era nella capitale. Quindi Perot aveva chiesto a Simons se poteva mandare Coburn al suo posto, e Simons aveva acconsentito. Coburn aveva telefonato a Gola Profonda e aveva detto che lui avrebbe rappresentato Perot. «No, no» aveva ribattuto l'altro. «Deve venire Ross Perot in persona.» «Allora niente da fare» era stata la risposta di Coburn. «D'accordo, d'accordo.» Gola Profonda aveva fatto marcia indietro e aveva dato le istruzioni a Coburn. Coburn doveva andare a una certa cabina telefonica nella zona di Vanak, non lontano dalla casa di Keane Taylor, alle otto di sera.
Alle otto precise il telefono era squillato. Gola Profonda aveva detto a Coburn di andare allo Sheraton, che era lì vicino, e di sedersi nell'atrio leggendo "Newsweek". Si sarebbero incontrati lì e si sarebbero riconosciuti grazie a uno scambio di frasi convenzionali. Gola Profonda avrebbe detto: «Sa dov'è viale Pahlavi?». Era a un isolato di distanza, ma Coburn doveva rispondere: «No, non lo so, sono appena arrivato in città». E adesso gli sembrava di interpretare un film di spionaggio. Su consiglio di Simons aveva indossato il lungo, voluminoso giaccone imbottito, quello che secondo Taylor lo faceva somigliare alla pubblicità della Michelin. Lo scopo era scoprire se Gola Profonda avrebbe preteso di perquisirlo. Se non l'avesse fatto, Coburn avrebbe potuto, negli eventuali incontri successivi, portare un magnetofono sotto il giaccone e registrare il colloquio. Coburn sfogliò "Newsweek". «Sa dov'è viale Pahlavi?» Coburn alzò gli occhi e vide un uomo più o meno della sua corporatura, sulla quarantina, con i capelli scuri e lisci e gli occhiali. «No, non lo so, sono appena arrivato in città.» Gola Profonda si guardò nervosamente intorno. «Andiamo» disse. «Là.» Coburn si alzò e lo seguì nella parte posteriore dell'albergo. Si fermarono in un corridoio buio. «Devo perquisirla» disse Gola Profonda. Coburn alzò le braccia. «Di cos'ha paura?» Gola Profonda rise, sprezzante. «Non ci si può fidare di nessuno. Non c'è più legge in questa città.» Completò la perquisizione. «Adesso torniamo nell'atrio?» «No. Può darsi che mi sorveglino... non posso correre il rischio di farmi vedere con lei.» «Sta bene. Che cosa propone?» Gola Profonda rise di nuovo. «Siete nei guai» disse. «Avete già combinato un pasticcio una volta, rifiutando di dare ascolto a chi conosce questo paese.» «Che pasticcio abbiamo combinato?» «Voi credete che questo sia il Texas. Ma non lo è.» «Ma che cosa abbiamo fatto?» «Avreste potuto venirne fuori con due milioni e mezzo di dollari. Ora ve ne costerà sei.» «Sentiamo.» «Un momento. L'ultima volta mi avete lasciato a terra. Questa è la vostra
ultima occasione. Stavolta non potrete tirarvi indietro all'ultimo momento.» Coburn incominciava a detestare Gola Profonda. Era un tipo che si credeva molto furbo. Sembrava dire: Siete tutti così stupidi e io ne so tanto più di voi, per me è difficile abbassarmi al vostro livello. «A chi dobbiamo pagare?» chiese Coburn. «Un conto numerato in Svizzera.» «E come facciamo a sapere che otterremo ciò per cui paghiamo?» Gola Profonda rise. «Stia a sentire, considerando come vanno le cose in questo paese, non si molla il denaro prima della consegna della merce. È l'unico modo per ottenere qualcosa.» «Sta bene. Quali sono le condizioni?» «Lloyd Briggs s'incontrerà con me in Svizzera; apriremo un conto e firmeremo una lettera d'accordo che verrà depositata presso la banca. Il denaro verrà sbloccato quando Chiapparone e Gaylord usciranno... cioè immediatamente, se lasciate che me ne occupi io.» «Chi incasserà il denaro?» Gola Profonda si limitò a scrollare la testa con un gesto sprezzante. «Bene, come possiamo sapere che è in grado di fare ciò che dice?» «Senta, le sto passando informazioni avute da persone molto vicine a chi vi sta causando il problema.» «Vuol dire Dadgar?» «Non imparerà mai, vero?» Oltre a scoprire qual era la proposta di Gola Profonda, Coburn aveva il compito di valutare quell'uomo. Bene, adesso l'aveva valutato: Gola Profonda era uno stronzo. «Sta bene» disse. «Ci terremo in contatto.» Keane Taylor versò un po' di rum, aggiunse il ghiaccio e finì di riempire il grosso bicchiere con la Coca-Cola. Era la sua bevanda preferita. Taylor era un pezzo d'uomo alto uno e novanta che pesava novantacinque chili, con un torace enorme. Nei marines aveva giocato a footbal americano. Curava molto l'abbigliamento e preferiva gli abiti con il gilé e le camicie con i colletti fissati da bottoncini. Portava grossi occhiali dalla montatura d'oro. Aveva trentanove anni e stava incominciando a perdere i capelli. Da giovane Taylor era stato un tipo scatenato: non aveva finito gli studi, nei marines aveva perso i gradi di sergente per mancanza di disciplina... e
ancora adesso detestava le supervisioni rigorose. Preferiva lavorare alle dipendenze della sftssidiaria mondiale dell'EDS perché la sede centrale era tanto lontana. Ma adesso era sottoposto a una supervisione rigorosa. Dopo quattro giorni passati a Teheran, Ross Perot era esasperato. A Taylor facevano un po' paura le riunioni con il principale. Dopo che lui e Howell avevano passato la giornata correndo come pazzi per la città, lottando con il traffico, le dimostrazioni e l'intransigenza dei burocrati iraniani, dovevano spiegare a Perot perché non avevano ottenuto niente. Per peggiorare le cose, Perot stava quasi sempre chiuso in albergo. Era uscito due sole volte: prima per andare all'ambasciata e poi al quartier generale delle forze armate degli Stati Uniti. Taylor aveva fatto in modo che nessuno gli offrisse le chiavi d'una macchina o denaro locale, per evitare che a Perot saltasse in testa di andarsene in giro. Ma il risultato era che Perot sembrava un orso in gabbia, e partecipare a una riunione con lui era come entrare nella gabbia dell'orso. Ma almeno Taylor non era più costretto a fingere di non saper nulla della squadra di salvataggio. Coburn l'aveva condotto a conoscere Simons, e avevano parlato per tre ore... o meglio, Taylor aveva parlato: Simons s'era limitato a fare domande. Si erano sistemati nel soggiorno della casa di Taylor, e Simons lasciava cadere la cenere dei sigari sul tappeto; e Taylor gli aveva detto che l'Iran era come un animale con la testa mozza. La testa - i ministri e gli alti funzionari - stavano ancora cercando di dare ordini, ma il corpo - il popolo - faceva i suoi comodi. Di conseguenza le pressioni politiche non sarebbero servite a far rilasciare Paul e Bill: sarebbe stato necessario pagare la cauzione o liberarli con la forza. Per tre ore Simons non aveva mai cambiato tono di voce, non aveva mai espresso un'opinione, non si era neppure mosso dalla poltrona. Ma era più facile affrontare il ghiaccio di Simons che il fuoco di Perot. Ogni mattina Perot bussava alla porta mentre Taylor si faceva la barba. Ogni giorno Taylor si alzava un po' prima per farsi trovare pronto, ma ogni giorno anche Perot arrivava prima; e alla fine Taylor cominciò a immaginare che Perot stesse a origliare tutta la notte davanti alla porta per sorprenderlo mentre si radeva. Perot era pieno di idee che gli erano venute durante la notte: nuovi argomenti a sostegno dell'innocenza di Paul e Bill, nuovi progetti per convincere gli iraniani a rilasciarli. Taylor e John Howell - il lungo e il corto, come Batman e Robin - dovevano prendere la Batmobile e andare al ministero della Giustizia o al ministero della Sanità,
dove i funzionari demolivano in pochi secondi le idee di Perot. Perot aveva ancora una mentalità legalitaria e razionale tipicamente americana, e secondo Taylor non si rendeva conto che gli iraniani non giocavano secondo quelle regole. Taylor non aveva soltanto questo cui pensare. Sua moglie Mary e i figli, Mike e Dawn, erano ospiti dei suoi genitori a Pittsburgh. La madre e il padre di Taylor erano ultraottantenni e malaticci. La madre era malata di cuore. Mary doveva arrangiarsi da sola. Non si era lamentata, ma quando le parlava al telefono, Taylor capiva che non era molto soddisfatta. Taylor sospirò, non poteva affrontare tutti i problemi del mondo contemporaneamente. Finì di riempire il bicchiere, lasciò la sua stanza e andò nell'appartamento di Perot per il consueto massacro serale. Perot camminava avanti e indietro nel salotto dell'appartamento, in attesa che si riunisse il gruppo dei negoziati. A Teheran le cose non gli andavano molto bene e lo sapeva. All'ambasciata americana aveva ricevuto un'accoglienza gelida. Era stato accompagnato nell'ufficio di Charles Naas, il vice dell'ambasciatore. Naas era stato compito, ma anche lui aveva ripetuto che l'EDS doveva agire tramite il sistema legale per ottenere che Paul e Bill venissero rilasciati. Perot aveva insistito per vedere l'ambasciatore. Aveva fatto il giro di mezzo mondo per vedere Sullivan e non intendeva ripartire prima di avergli parlato. Finalmente Sullivan era entrato, gli aveva stretto la mano e gli aveva detto che era stata una grossa imprudenza venire in Iran. Era chiaro che Perot costituiva un problema e Sullivan non voleva altri problemi. Parlò per un po', ma non sedette neppure e se ne andò al più presto possibile. Perot non era abituato a un simile trattamento. Dopotutto era un americano importante e in circostanze normali un diplomatico come Sullivan sarebbe stato almeno cerimonioso, se non deferente. Perot si era incontrato anche con Lou Goelz: sembrava sinceramente interessato a Paul e Bill, ma non aveva offerto nessun aiuto concreto. Quando era uscito dall'ufficio di Naas aveva incontrato alcuni addetti militari che l'avevano subito riconosciuto. Dopo la campagna per i prigionieri di guerra, Perot aveva sempre potuto contare su un'accoglienza calorosa negli ambienti militari americani. Aveva spiegato il suo problema agli addetti, ma quelli gli avevano dichiarato apertamente che non potevano far nulla. «Senta, dimentichi quello che legge sui giornali, dimentichi quello che sostiene pubblicamente il Dipartimento di Stato» gli aveva detto uno
di loro. «Qui non abbiamo nessun potere... All'ambasciata sta perdendo tempo.» Perot aveva perso tempo anche al quartier generale americano. Il superiore di Cathy Gallagher, il colonnello Keith Barlow, capo del Comando delle Attività di Sostegno in Iran, aveva mandato all'Hyatt una macchina blindata. Perot c'era salito con Rich Gallagher. L'autista era iraniano, e Perot si era chiesto da che parte stava. Si erano incontrati con il generale dell'aeronautica Phillip Gast, capo del MAAG (Military Assistance Advisory Group) in Iran, e con il generale "Dutch" Huyser. Perot conosceva già Huyser, e lo ricordava come un uomo forte e dinamico; ma adesso sembrava svuotato. Perot sapeva dai giornali che Huyser era l'emissario del presidente Carter, e che era lì per indurre i militari iraniani ad appoggiare il vacillante governo di Bakhtiar; e Perot aveva la sensazione che Huyser non fosse entusiasta di quel compito. Huyser aveva detto sinceramente che sarebbe stato lieto di poter aiutare Paul e Bill, ma che al momento non aveva nessun ascendente sugli iraniani: non aveva nulla da offrire in cambio. Anche se fossero usciti dal carcere, aveva soggiunto, sarebbero stati in pericolo. Perot aveva ribattuto che aveva già pensato anche a quello: Bull Simons era lì per occuparsi di Paul e Bill non appena fossero stati rilasciati. Huyser era scoppiato a ridere, e dopo un attimo anche Gast aveva capito: sapevano chi era Simons, e sapevano che progettava ben di più che un incarico di babysitter. Gast si era offerto di fornire carburante a Simons, ma tutto finiva lì. Parole calorose da parte dei militari, parole fredde da parte dell'ambasciata: ma nessun aiuto da nessuna parte. E da Howell e Taylor non otteneva altro che scuse. Chiuso tutto il giorno in una stanza d'albergo, Perot si sentiva ammattire. Quel giorno Cathy Gallagher l'aveva pregato di badare al suo barboncino, Buffy. L'aveva detto come se fosse un grande onore, un segno della stima che aveva per lui... e Perot era rimasto tanto sorpreso che aveva accettato. Mentre guardava la bestiola si era reso conto che era un'occupazione strana per il capo di una grande azienda internazionale, e si domandava come diavolo s'era lasciato convincere. Non aveva ricevuto molta comprensione da Keane Taylor, che giudicava la cosa piuttosto divertente. Dopo qualche ora Cathy era tornata dal parrucchiere, o dovunque fosse stata, e s'era riportata via il cagnolino: ma Perot era rimasto di umore nero. Bussarono alla porta ed entrò Taylor, con il solito bicchiere in mano. Era seguito da John Howell, Rich Gallagher e Bob Young. Tutti sedettero.
«Dunque» chiese Perot, «gli avete detto che garantiamo che Paul e Bill si presenteranno per gli interrogatori in qualunque località degli Stati Uniti o dell'Europa, con un preavviso di trenta giorni, in qualunque momento entro i prossimi due anni?» «La cosa non gli interessa» disse Howell. «Come sarebbe a dire, la cosa non gli interessa?» «Le sto semplicemente ripetendo quello che hanno detto loro...» «Ma se questa è un'inchiesta, e non un tentativo di ricatto, a loro basta essere sicuri che Paul e Bill siano a disposizione per essere interrogati.» «Sono sicuri già adesso. Credo che non ritengano di dover cambiare.» Perot sedette. Era esasperante. Sembrava che non esistesse la possibilità di ragionare con gli iraniani. «Ha proposto di far rilasciare Paul e Bill affidandoli in custodia alla nostra ambasciata?» «Hanno rifiutato.» «Perché?» «Non l'hanno detto.» «Ma gliel'ha chiesto?» «Ross, non sono obbligati a dare spiegazioni. Sono loro che comandano e lo sanno benissimo.» «Ma sono responsabili della sicurezza dei loro detenuti.» «A quanto pare è una responsabilità che non sentono molto.» Taylor disse: «Ross, quelli non giocano secondo le nostre regole. Per loro, sbattere in galera due uomini è una cosa da niente. La sicurezza di Paul e Bill non conta molto...». «E allora, secondo quali regole stanno giocando? Siete in grado di dirmelo?» Bussarono alla porta. Entrò Coburn, con il giaccone e il berretto di lana nera. Perot si scosse: forse avrebbe avuto finalmente una buona notizia. «Ha incontrato Gola Profonda?» «Sì» disse Coburn, togliendosi il giaccone. «Avanti, sentiamo.» «Dice che può far liberare Paul e Bill per sei milioni di dollari. Il denaro dovrebbe essere versato su un conto corrente bloccato in Svizzera, e sbloccato quando Paul e Bill lasceranno l'Iran.» «Diavolo, non è poi tanto male» commentò Perot. «Ce la caviamo con uno sconto del cinquanta per cento. Secondo le leggi del nostro paese sarebbe addirittura lecito... è un riscatto. Che tipo è Gola Profonda?» «Non mi fido di quel bastardo» disse Coburn.
«Perché?» Coburn alzò le spalle. «Non lo so, Ross. È viscido, sfuggente... Presuntuoso... Non gli affiderei neppure sessanta cent per andare a prendermi un pacchetto di sigarette al negozio all'angolo. Me lo sento nelle ossa.» «Ma d'altra parte, che cosa si aspettava?» disse Perot. «Questa è corruzione bella e buona... i pilastri della comunità non s'immischiano in storie del genere.» Howell intervenne. «L'ha detto. Questa è corruzione.» La sua voce lenta e gutturale aveva un insolito tono concitato. «È una faccenda che non mi piace per niente.» «Non piace neppure a me» disse Perot. «Ma tutti voi continuate a ripetermi che gli iraniani non giocano secondo le nostre regole.» «Sì, ma ascolti» continuò Howell infervorandosi. «In tutta questa storia mi sono aggrappato a una speranza... al fatto che noi non abbiamo fatto niente di illecito e che un giorno, in un modo o nell'altro, qualcuno lo capirà, e allora tutto si concluderà per il meglio... Non vorrei abbandonare questa speranza.» «Finora non ci è servita a molto.» «Ross, sono convinto che con il tempo e la pazienza la spunteremo. Ma se ci facciamo coinvolgere in un caso di corruzione non abbiamo più speranze.» Perot si rivolse a Coburn. «Come fa a sapere che Gola Profonda è d'accordo con Dadgar?» «Non lo sappiamo affatto» rispose Coburn. «Il suo argomento decisivo è questo: non dobbiamo pagare prima di aver ottenuto il risultato, quindi cos'abbiamo da perdere?» «Tutto» disse Howell. «Non ha nessuna importanza il fatto che negli Stati Uniti sarebbe lecito: in Iran potrebbe esserci fatale.» Taylor disse: «Per me, puzza. Tutta questa storia puzza». Perot era sorpreso dalle loro reazioni. Anche lui odiava l'idea di ricorrere alla corruzione, ma era disposto a scendere a un compromesso con i suoi principi pur di tirar fuori dal carcere Paul e Bill. Il buon nome dell'EDS gli stava a cuore, e non gli sorrideva la prospettiva di macchiarlo, come non andava a John Howell; ma Perot sapeva qualcosa che Howell non sapeva: che il colonnello Simons e la sua squadra avrebbero dovuto affrontare rischi ben più gravi. Perot disse: «Finora il nostro buon nome non è stato molto utile a Paul e Bill».
«Qui non si tratta soltanto del nostro buon nome» insistette Howell. «A quest'ora Dadgar deve essere ormai sicuro che non abbiamo corrotto nessuno... ma se ci cogliesse in flagrante atto di corruzione salverebbe la faccia.» Era verissimo, pensò Perot. «Potrebbe essere una trappola?» «Sì.» Certo, era logico. Dadgar, non riuscendo a trovare prove a carico di Paul e Bill, fa capire a Gola Profonda che è disposto a lasciarsi corrompere e poi, quando Perot abbocca all'amo, annuncia al mondo intero che l'EDS ricorre alla corruzione... Allora li avrebbe sbattuti in carcere tutti quanti con Paul e Bill. E dato che erano colpevoli, ci sarebbero rimasti. «D'accordo» disse Perot, riluttante. «Chiami Gola Profonda e gli dica che non se ne fa niente.» Coburn si alzò. «Bene.» Era stata un'altra giornata infruttuosa, pensò Perot. Gli iraniani l'avevano in pugno. Ignoravano le pressioni politiche. La corruzione poteva peggiorare le cose. Se l'EDS avesse pagato la cauzione, Paul e Bill non avrebbero potuto lasciare comunque l'Iran. La soluzione migliore sembrava ancora quella di dare il via a Simons. Ma non aveva intenzione di dirlo al suo gruppo di negoziatori. «Sta bene» disse. «Domani ritenteremo.» Keane Taylor, il lungo, e John Howell, il corto, come Batman e Robin, ritentarono il 17 gennaio. Andarono al ministero della Sanità in viale Einsenhower, portarono con loro Abolhasan perché facesse da interprete e s'incontrarono con Dadgar alle dieci del mattino. Con Dadgar c'erano alcuni funzionari della Previdenza Sociale, il servizio del ministero che funzionava grazie ai computer dell'EDS. Howell aveva deciso di abbandonare la posizione che aveva assunto all'inizio delle trattative, e secondo la quale l'EDS non avrebbe pagato la cauzione, in ossequio alle leggi americane sulle società per azioni. Era egualmente inutile chiedere quali fossero le accuse e le prove a carico di Paul e Bill: Dadgar poteva opporre un rifiuto con la scusa che stava ancora indagando. Ma Howell non aveva una strategia nuova da sostituire alla vecchia. Giocava a poker senza avere carte in mano. Forse quel giorno Dadgar gliene avrebbe data qualcuna. Dadgar incominciò a spiegare che il personale della Previdenza Sociale chiedeva che l'EDS passasse le consegne di quello che veniva chiamato
Centro Dati 125. Il piccolo computer, Howell lo ricordava, gestiva le paghe e le pensioni del personale della Previdenza. Quelli, in realtà, volevano i loro stipendi, proprio quando gli altri iraniani non ricevevano le prestazioni previdenziali alle quali avrebbero avuto diritto. Keane Taylor obiettò: «Non è tanto semplice. La consegna sarebbe un'operazione complessa, e richiederebbe l'intervento di personale specializzato. Naturalmente, sono rientrati tutti negli Stati Uniti». Dadgar replicò: «Allora fateli tornare qui». «Non sono tanto stupido» disse Taylor. La solita delicatezza dei marines, pensò Howell. Dadgar disse: «Se quello parla così, lo mando in galera». «Come ci manderebbe il personale se lo richiamassi in Iran» commentò Taylor. Howell s'intromise. «Potrebbe garantirci che se il personale tornasse non subirebbe arresti o fastidi?» «Non posso dare garanzie ufficiali» disse Dadgar. «Tuttavia, le darei la mia parola d'onore.» Howell lanciò a Taylor un'occhiata ansiosa. Taylor non aprì bocca, ma la sua espressione diceva chiaramente che non avrebbe dato un soldo per la parola d'onore di Dadgar. «Potremmo esaminare i modi per effettuare il passaggio» disse Howell. Finalmente Dadgar gli aveva dato un appiglio per negoziare, anche se non.era molto. «Naturalmente, avremmo bisogno di assicurazioni. Per esempio, dovreste dichiarare che il macchinario vi è stato consegnato in buone condizioni... ma forse per questo potremmo servirci di esperti indipendenti...» Howell stava sondando il terreno. Se dovevano consegnare il centro dati, l'avrebbero fatto a un prezzo: la liberazione di Paul e Bill. Dadgar demolì immediatamente quella speranza. «Ogni giorno vengono presentati ai miei inquirenti nuovi reclami contro la vostra società, reclami che giustificherebbero un aumento della cauzione. Tuttavia, se collaborerete alla consegna del Centro Dati 125, in cambio potrei ignorare i reclami e evitare di aumentare la cauzione.» Taylor disse: «Maledizione, non è altro che un ricatto!». Howell si rese conto che il Centro Dati 125 rappresentava una questione secondaria. Dadgar aveva sollevato il problema, senza dubbio perché quegli alti funzionari gliel'avevano chiesto, ma non gli stava abbastanza a cuore per indurlo a fare vere concessioni. Quindi, che cosa gli stava veramente
a cuore? Howell pensò a Lucio Randone, l'ex compagno di cella di Paul e Bill. La sua offerta di collaborazione era stata accettata dal direttore dell'EDS Paul Bucha, che era andato in Italia a parlare con la società per la quale lavorava Randone, la Condotte d'Acqua. Bucha aveva riferito che la società stava costruendo complessi abitativi a Teheran quando i finanziatori iraniani erano rimasti a corto di fondi. Naturalmente la società aveva interrotto i lavori, ma molti iraniani avevano già pagato gli appartamenti in costruzione. Data l'atmosfera attuale, non era sorprendente che la colpa venisse attribuita agli stranieri, e Randone era stato arrestato come capro espiatorio. La società aveva trovato una nuova fonte di finanziamenti e aveva ripreso i lavori; e contemporaneamente Randone era stato rilasciato, secondo un accordo negoziato da un avvocato iraniano, Ali Azmayesh. Bucha aveva riferito ciò che gli avevano ripetuto gli italiani: «Non lo dimentichi, l'Iran sarà sempre l'Iran. Non cambierà mai». Secondo la sua interpretazione, era un'allusione al fatto che l'accordo aveva incluso il pagamento d'una somma per "ungere le ruote". Inoltre, Howell sapeva che uno dei canali tradizionali per versare una bustarella era l'onorario di un avvocato. L'avvocato, per esempio, faceva un lavoro che avrebbe richiesto mille dollari di parcella, pagava una bustarella di diecimila dollari, e metteva in conto undicimila dollari al cliente. Quel genere di cose innervosiva Howell, ma nonostante tutto era andato a parlare con Azmayesh, il quale aveva detto: «L'EDS non ha un problema legale, ha un problema d'affari». Se l'EDS fosse pervenuta a un accordo con il ministero della Sanità, Dadgar avrebbe ripiegato in buon ordine. E Azmayesh non aveva affatto parlato di bustarelle. Era incominciato come un problema d'affari, pensò Howell: il cliente non aveva pagato, l'azienda aveva rifiutato di continuare il lavoro. Era possibile arrivare a un compromesso grazie al quale l'EDS avrebbe consegnato i computer e il ministero avrebbe pagato almeno una parte della somma dovuta? Decise di chiederlo apertamente a Dadgar. «Potrebbe essere utile se l'EDS ridiscutesse il suo contratto con il ministero della Sanità?» «Potrebbe essere utilissimo» rispose Dadgar. «Non sarebbe una soluzione legale del nostro problema, ma potrebbe essere una soluzione pratica. Sarebbe un peccato sprecare tutto il lavoro che è stato fatto per computerizzare il ministero.» Interessante, pensò Howell. Vogliono un sistema previdenziale moderno. .. o la restituzione del denaro pagato. Mettere in galera Paul e Bill e
chiedere una cauzione di tredici milioni di dollari è il loro modo di dare all'EDS la scelta tra quelle due alternative... quelle e nessun'altra. Finalmente si comincia a parlar chiaro. Decise di essere franco. «Naturalmente, le trattative non potrebbero incominciare finché Chiapparone e Gaylord non venissero rilasciati.» Dadgar rispose: «Ma se vi impegnate a trattare in buona fede, il ministero mi avvertirà; e le accuse potrebbero venire cambiate, la cauzione potrebbe venire ridotta e Chiapparone e Gaylord potrebbero addirittura essere rilasciati sulla parola.» Chiarissimo, pensò Howell. L'EDS avrebbe fatto bene a rivolgersi al ministro della Sanità. Da quando il ministero aveva smesso di pagare le fatture c'erano stati due cambiamenti di governo. Il dottor Sheikholeslamizadeh, che adesso era in carcere, era stato sostituito da un generale; e poi, quando Bakhtiar era stato nominato primo ministro, il generale era stato rimpiazzato a sua volta da un nuovo ministro della Sanità. Chi era? si chiese Howell. E che tipo era? «C'è al telefono il signor Young dell'EDS che vuol parlarle, signor ministro» disse il segretario. Il dottor Razmara trasse un profondo respiro. «Gli dica che gli uomini d'affari americani non possono più prendere il telefono e chiamare i ministri del governo iraniano e pretendere di parlarci come se fossimo alle loro dipendenze» disse. E alzò la voce. «Quei tempi sono finiti.» Poi chiese l'incartamento dell'EDS. Manuchehr Razmara era stato a Parigi per Natale. Era cardiologo, aveva studiato in Francia e aveva sposato una francese. Considerava la Francia come la sua seconda patria, e parlava il francese correntemente. Faceva parte del Consiglio nazionale dei medici iraniani ed era amico di Shahpour Bakhtiar, e quando Bakhtiar era stato nominato Primo ministro gli aveva telefonato a Parigi e l'aveva invitato a tornare in patria per assumere il dicastero della Sanità. L'incartamento dell'EDS gli fu portato dal dottor Emrani, il viceministro responsabile della Previdenza Sociale. Emrani era sopravvissuto a due crisi di governo: era già lì quando erano incominciate le grane. Razmara lesse la documentazione con sdegno crescente. Il progetto dell'EDS era pazzesco. Il prezzo stabilito dal contratto era quarantotto milioni di dollari, con vari aumenti che potevano arrivare fino ai novanta milioni.
Razmara ricordava che l'Iran aveva in tutto dodicimila medici per una popolazione di trentadue milioni, e che c'erano sessantaquattromila villaggi senza acqua corrente; e concluse che chi aveva firmato quel contratto con l'EDS era un pazzo o un traditore, o l'uno e l'altro. Come potevano giustificare il fatto di spendere milioni per i computer quando alla gente mancavano le condizioni igieniche più elementari, come l'acqua? Poteva esserci un'unica spiegazione: si erano lasciati corrompere. Bene, l'avrebbero pagata. Emrani aveva preparato quella documentazione per il tribunale speciale che si occupava dei casi di corruzione dei pubblici dipendenti. Tre persone erano in carcere: l'ex ministro, il dottor Sheikholeslamizadeh, e due dei suoi vecchi viceministri, Reza Neghabat e Nili Arame. Era giusto. La responsabilità del guaio in cui si trovavano doveva ricadere principalmente sugli iraniani. Ma anche gli americani erano colpevoli. Gli uomini d'affari americani e il loro governo avevano incoraggiato i piani pazzeschi dello scià e ne avevano ricavato lauti profitti: adesso dovevano pagarla. Inoltre, secondo la documentazione, l'EDS si era dimostrata d'una incompetenza spettacolare: i computer, dopo due anni e mezzo, non erano ancora in funzione, tuttavia il piano d'automazione aveva sovvertito a tal punto il servizio della Previdenza Sociale che non funzionavano neppure i vecchi sistemi, e di conseguenza Emrani non poteva controllare le spese del suo dipartimento. Era una delle cause principali delle spese eccessive del ministero, affermava l'incartamento. Razmara notò che l'ambasciata americana protestava per l'arresto di Chiapparone e Gaylord perché non c'erano prove contro di loro. Era tipico degli americani. Naturalmente le prove non c'erano: le bustarelle non venivano pagate in assegni. E l'ambasciata era preoccupata per la sicurezza dei due detenuti. Per Razmara, quella era un'ironia. Lui era preoccupato per la propria sicurezza. Ogni giorno, quando andava in ufficio, si domandava se sarebbe tornato a casa vivo. Chiuse l'incartamento. L'EDS e i suoi dirigenti incarcerati non lo commuovevano affatto. Anche se avesse voluto farli rilasciare, non ne avrebbe avuto la possibilità, pensò. L'umore antiamericano della popolazione era giunto al culmine. Il governo di cui faceva parte Razmara, il governo Bakhtiar, era stato insediato dallo scià e quindi veniva sospettato di filoamericanismo. Con il paese in subbuglio, un ministro che si fosse preso a cuore la sorte di un paio di avidi lacché del capitalismo americano sarebbe stato silurato se non addirittura linciato... giustamente. Razmara passò a occuparsi di cose più importanti.
Il giorno dopo, il segretario gli disse: «Signor ministro, c'è qui il signor Young dell'EDs che vuole vederla». L'arroganza degli americani era esasperante. Razmara disse: «Gli ripeta quello che le ho detto ieri... e poi gli dia cinque minuti di tempo per sparire». Per Bill, il problema più grosso era il tempo. Era diverso da Paul. Per Paul - irrequieto, aggressivo, tenace e ambizioso - l'aspetto peggiore, nel fatto di essere in carcere, era l'inattività. Bill aveva un'indole più tranquilla: era rassegnato al fatto che non poteva far altro che pregare, e perciò pregava. (Non ostentava la sua religiosità: pregava a notte alta, prima di addormentarsi, o al mattino presto prima che si svegliassero gli altri.) Ciò che lo assillava era la lentezza tormentosa con cui passava il tempo. Un giorno nel mondo reale - un giorno passato a risolvere problemi, prendere decisioni, ricevere telefonate e partecipare alle riunioni - volava via in un attimo; un giorno in carcere era eterno. Bill inventò una formula per tradurre il tempo reale nel tempo carcerario. Tempo reale 1 secondo 1 minuto 1 ora 1 giorno 1 settimana 1 mese
= = = = = =
Tempo carcerario 1 minuto 1 ora 1 giorno 1 settimana 1 mese 1 anno
Il tempo assunse per Bill questa dimensione nuova dopo due o tre settimane di reclusione, quando si rese conto che il problema non sarebbe stato risolto con molta rapidità. Diversamente dà un detenuto normale, non era stato condannato a novanta giorni o a cinque anni, e quindi non poteva cercare di consolarsi incidendo un calendario sul muro e contando i giorni che lo separavano dalla libertà. I giorni che passavano non avevano importanza: il tempo che gli restava da trascorrere in carcere era indeterminato e quindi infinito. I suoi compagni di cella persiani non sembravano pensarla così. Era un contrasto culturale rivelatore: gli americani, abituati a ottenere risultati rapidi, erano tormentati dalla suspense; gli iraniani si accontentavano di attendere farda, domani, la settimana prossima, un futuro imprecisato... esattamente come avevano fatto nel campo degli affari.
Tuttavia, mentre il potere dello scià si affievoliva, Bill aveva l'impressione di scorgere in alcuni di loro i segni della disperazione, e perciò diffidava. Si guardava bene dal dire loro chi era arrivato a Teheran da Dallas e quali erano i progressi nelle trattative per il suo rilascio; temeva che, attaccandosi a ogni speranza, quelli cercassero di riferirlo alle guardie per ingraziarsele. Si stava abituando alla prigionia. Aveva imparato a non badare alla sporcizia e agli insetti, si era adattato al vitto freddo, colloso e sgradevole. Aveva imparato a vivere entro un confine personale, limitato e nettamente definito. E restava attivo. Trovava il modo di riempire giornate interminabili. Leggeva i libri, insegnava a Paul a giocare a scacchi, faceva ginnastica nel corridoio, parlava con gli iraniani per sapere esattamente quali notizie erano state trasmesse dalla radio e dalla televisione, e pregava. Aveva effettuato una meticolosa ricognizione del carcere, misurando le celle e i corridoi e disegnando schizzi e planimetrie. Teneva un diario, registrando tutti gli avvenimenti della vita in carcere, tutto ciò che gli riferivano i visitatori e tutte le notizie. Usava le iniziali in sostituzione dei nomi e a volte inseriva episodi inventati o versioni modificate di episodi veri, in modo che se il diario gli fosse stato confiscato dalle autorità sarebbe servito a confonderle. Come tutti i prigionieri di questo mondo, attendeva le visite come un bambino attende Papà Natale. I colleghi dell'EDS gli portavano generi alimentari decenti, indumenti pesanti, libri nuovi e lettere da casa. Un giorno Keane Taylor portò una foto del figlioletto di Bill, Christopher, sei anni, davanti all'albero di Natale. Rivedere il figlio, anche in fotografia, gli diede forza: gli ricordava la ragione per cui doveva continuare a sperare, e rafforzava la sua decisione di non lasciarsi andare. Bill scriveva a Emily e consegnava le lettere a Keane, che gliele avrebbe lette al telefono. Bill conosceva Keane da dieci anni, ed erano molto amici... dopo l'evacuazione avevano vissuto nella stessa casa. Bill sapeva che Keane non era affatto insensibile come si diceva - era soprattutto una maschera esteriore - ma gli sembrava imbarazzante scrivere "Ti amo" sapendo che Keane l'avrebbe letto. Bill superò l'imbarazzo, perché desiderava dire a Emily e ai figli quanto li amava, nell'eventualità che non avesse più potuto dirglielo personalmente. Le lettere erano simili a quelle scritte dai piloti alla vigilia di una missione pericolosa. I doni più importanti recati dai visitatori erano le notizie. Quegli incontri sempre troppo brevi che avvenivano nel parlatorio dall'altra parte del corti-
le erano dedicati alla discussione dei vari tentativi in atto per ottenere il rilascio di Paul e Bill. Bill aveva l'impressione che il fattore chiave fosse il tempo. Prima o poi, un sistema o l'altro doveva funzionare. Purtroppo, mentre il tempo passava l'Iran andava a rotoli. Le forze rivoluzionarie prendevano sempre più slancio. L'EDS sarebbe riuscita a tirarli fuori prima che l'intero paese esplodesse? Per quelli dell'EDS diventava sempre più pericoloso venire nella zona meridionale della città dove si trovava il carcere. Paul e Bill non sapevano mai quando ci sarebbe stata la prossima visita, e neppure se ci sarebbe stata. Quando passavano quattro o cinque giorni, Bill si chiedeva se tutti gli altri erano ritornati negli Stati Uniti abbandonando lui e Paul. Considerando che la cauzione era troppo alta e le strade di Teheran troppo pericolose, avrebbero concluso che Paul e Bill rappresentavano una causa persa? Forse sarebbero stati costretti ad andarsene per salvarsi. Bill ricordava la ritirata americana in Vietnam, quando gli ultimi funzionari dell'ambasciata erano stati caricati sui tetti degli elicotteri: poteva immaginare che la stessa scena si ripetesse nell'ambasciata a Teheran. Ogni tanto si sentiva tranquillizzato dalla visita di un funzionario dell'ambasciata. Anche loro correvano rischi venendo lì, ma non portavano mai notizie precise circa gli sforzi del governo per aiutarli, e perciò Bill era pervenuto alla conclusione che il Dipartimento di Stato non stava facendo nulla di utile. Le visite del dottor Houman, l'avvocato iraniano, all'inizio erano state incoraggianti: ma poi Bill aveva capito che Houman, secondo le abitudini della sua gente, prometteva molto e realizzava poco. Il fallimento dell'incontro con Dadgar lo aveva depresso. Era stato agghiacciante vedere con quanta facilità Dadgar aveva raggirato il tentativo di Houman, e con quanta decisione si ostinava a tenerli in carcere. Quella notte Bill non aveva dormito. Quando pensava alla cauzione, gli sembrava pazzesca. Nessuno al mondo aveva mai pagato un simile riscatto. Ricordava le notizie di certi uomini d'affari americani sequestrati in Sudamerica per i quali erano stati chiesti riscatti di uno o due milioni di dollari. (E di solito venivano uccisi.) Altri sequestri di milionari, uomini politici e personaggi celebri avevano comportato riscatti di tre o quattro milioni... mai tredici. Nessuno avrebbe pagato una simile somma per Paul e Bill. E inoltre, neppure quel denaro avrebbe assicurato loro il diritto di lasciare l'Iran. Probabilmente li avrebbero tenuti agli arresti domiciliari a Tehe-
ran... mentre le orde dei rivoluzionari prendevano il potere. Qualche volta la cauzione gli sembrava più una trappola che un modo di uscire da quella situazione. Era una specie di "comma 22". Quell'esperienza gli aveva insegnato una lezione in termine di valori. Bill aveva scoperto che poteva fare a meno della sua bella casa, delle sue macchine, dei cibi raffinati e degli abiti puliti. Non era tragico vivere in una stanza sporca con gli insetti che passeggiavano sulle pareti. Tutto ciò che aveva avuto dalla vita gli era stato tolto, e aveva scoperto che l'unica cosa che gli stava a cuore era la sua famiglia. A pensarci bene, era la sola cosa che contava: Emily, Vicki, Jackie, Jenny e Chris. La visita di Coburn l'aveva un po' rincuorato. Quando aveva visto Jay con il giaccone imbottito e il berretto di lana e la barba rossa, Bill aveva intuito che non era tornato a Teheran per agire per vie legali. Durante quella visita, Coburn aveva parlato quasi esclusivamente con Paul; e se Paul era venuto a conoscenza di qualcosa, a Bill non l'aveva detto. A Bill stava bene così: l'avrebbe saputo quando fosse venuto il momento. Ma il giorno dopo la visita di Coburn arrivò una brutta notizia. Il 16 gennaio lo scià abbandonò l'Iran. Il televisore nel corridoio del carcere era acceso, eccezionalmente, sebbene fosse pomeriggio; e Paul e Bill, con gli altri detenuti, videro la piccola cerimonia nel padiglione imperiale all'aeroporto di Mehrabad. C'erano lo scià con la moglie, tre dei quattro figli, la suocera e una folla di cortigiani. Il primo ministro Shahpour Bakhtiar e parecchi generali erano venuti a salutarli. Bakhtiar baciò la mano allo scià, e la comitiva imperiale salì sull'aereo. I detenuti che avevano avuto incarichi nei ministeri erano depressi; quasi tutti erano stati in rapporti d'amicizia con la famiglia reale o con i fidi dello scià. Adesso i loro protettori se ne erano andati: come minimo, questo significava che dovevano rassegnarsi a una lunga detenzione. Bill pensò che lo scià aveva portato con sé l'ultima possibilità di una svolta favorevole agli americani. Adesso ci sarebbero stati caos e confusione ancora più gravi, maggiori pericoli per gli americani a Teheran... e minori probabilità di una rapida liberazione per Paul e Bill. Poco dopo che la televisione ebbe mostrato l'aereo dello scià che si allontanava nel cielo, Bill incominciò a sentire un rumore sordo, come d'una folla lontana all'esterno del carcere. Il rumore divenne un pandemonio di grida, di applausi, di colpi di claxon. La televisione mostrò la causa di quel chiasso: centinaia di migliaia di iraniani si riversavano per la strade urlan-
do: «Shah raft!». Lo scià se n'è andato! Paul disse che gli ricordava la sfilata di Capodanno a Philadelphia. Tutte le macchine giravano con i fari accesi, strombazzando all'impazzata. Molti automobilisti avevano spinto in avanti i tergicristalli, vi avevano fissato qualche straccetto e li tenevano in moto, agitando quelle bandierine improvvisate. Camion carichi di giovani trionfanti correvano per le strade, e in tutta la città gruppi di persone abbattevano e fracassavano le statue dello scià. Bill si chiese che cosa avrebbero fatto, adesso, quelle orde. E questo lo indusse a domandarsi che cosa avrebbero fatto le guardie e gli altri prigionieri. Nell'esplosione isterica delle emozioni represse tanto a lungo, avrebbero scelto come bersagli gli americani? Per il resto della giornata Bill e Paul rimasero nella loro cella, cercando di non farsi notare. Erano sdraiati sulle brande, e parlavano del più e del meno. Paul fumava. Bill si sforzava di non pensare alle scene terrificanti che aveva visto alla televisione, ma il ruggito di quella moltitudine scatenata, il grido collettivo del trionfo rivoluzionario, penetrava attraverso i muri del carcere frastornava gli orecchi, come il rombo assordante di un tuono vicino un attimo prima che cada il fulmine. Due giorni dopo, la mattina del 18 gennaio, una guardia entrò nella cella numero 5 e disse qualcosa in Farsi a Reza Neghabat, l'ex viceministro. Neghabat tradusse per Paul e Bill: «Dovete prendere la vostra roba. Vi trasferiscono». «Dove?» «In un altro carcere.» Nella mente di Bill squillò un campanello d'allarme. In quale specie di carcere li avrebbero portati? In uno di quelli dove torturavano e uccidevano i detenuti? Avrebbero avvertito l'EDS del trasferimento, o loro due sarebbero semplicemente spariti? Quella prigione non era meravigliosa, ma almeno sapevano com'era. La guardia parlò di nuovo e Neghabat riferì: «Ha detto di non preoccuparvi. È per il vostro bene». In pochi minuti raccolsero gli spazzolini da denti, il rasoio elettrico e i pochi indumenti di ricambio. Poi sedettero e attesero... per tre ore. Era snervante. Bill si era abituato a quel carcere e - nonostante i rari sospetti paranoici - in sostanza si fidava dei suoi compagni di sventura. Temeva che il cambiamento sarebbe stato in peggio. Paul chiese a Neghabat di cercare di far avere notizie del trasferimento
all'EDS, magari corrompendo il colonnello che comandava la prigione. Il "padre" della cella, il vecchio che si era dato tanto da fare per loro, era sconvolto. Restò a guardare tristemente mentre Paul staccava le foto di Karen e di Ann Marie. Con un gesto impulsivo, Paul diede le fotografie al vecchio che lo ringraziò, visibilmente commosso. Finalmente li condussero nel cortile e li caricarono su un pulmino in compagnia di un'altra mezza dozzina di detenuti provenienti da altre parti del carcere. Bill li guardò, cercando di scoprire che cosa avevano in comune. C'era un francese. Forse tutti gli stranieri venivano portati in un carcere speciale per proteggerli? Ma un altro era l'iraniano grande e grosso, il capo della cella nel sotterraneo dove avevano trascorso la prima notte... un delinquente comune, probabilmente. Mentre il pulmino usciva dal cortile, Bill si rivolse al francese. «Sa dove ci portano?» «Io verrò rilasciato» rispose il francese. Il cuore di Bill diede un balzo. Era una buona notizia: forse li avrebbero rilasciati tutti. Incominciò a osservare le strade. Era la prima volta, dopo tre settimane, che vedeva il mondo esterno. I palazzi governativi intorno al ministero della Giustizia erano tutti danneggiati: le orde si erano veramente scatenate. Dovunque si vedevano macchine bruciate e finestre sfondate. Le vie erano piene di soldati e di carri armati, ma non facevano nulla, non mantenevano l'ordine e non regolavano neppure il traffico. Bill pensò che sarebbe stata solo questione di tempo prima che il debole governo di Bakhtiar veniste rovesciato. Dov'erano finiti quelli dell'EDS... Taylor, Howell, Young, Gallagher e Coburn? Non erano venuti a trovarli dopo la partenza dello scià. Erano stati costretti a fuggire per salvarsi? Bill era certo che fossero ancora nella capitale, che stessero ancora adoperandosi per far liberare lui e Paul. Incominciò a sperare che fossero stati loro a ottenere quel trasferimento. Forse, anziché portare i detenuti a un altro carcere, il minibus avrebbe fatto una deviazione e li avrebbe condotti alla base aerea degli Stati Uniti. Più ci pensava, e più si convinceva che era stato tutto organizzato per rilasciarli. Senza dubbio l'ambasciata americana, dopo la partenza dello scià, aveva capito che Paul e Bill correvano gravi pericoli, e aveva finalmente affrontato il caso con energia. Il trasferimento in pulmino era un'astuzia, una copertura per portarli fuori dal carcere del ministero della Giustizia senza destare i sospetti dei funzionari iraniani ostili come Dadgar.
Il minibus correva verso nord. Attraversava quartieri che Bill conosceva; e lui incominciava a sentirsi più sicuro, via via che si allontanava dalla turbolenta parte meridionale della città. E anche la base aerea era a nord. Il pulmino entrò in una vasta piazza, dominata da un edificio enorme che sembrava una fortezza. Bill lo guardò, incuriosito. I muri erano alti otto metri e costellati di torrette di guardia e di postazioni di mitragliatrici. La piazza era piena di donne iraniane avvolte nei chador, le tradizionali vesti nere; facevano un chiasso tremendo. Era un palazzo, una moschea? O forse una base militare? Il pulmino si avvicinò alla fortezza e rallentò. Oh, no. Al centro della facciata c'era un'enorme porta d'acciaio a due battenti. Con orrore di Bill, il pulmino si avvicinò e si fermò, con il muso verso la porta. Quel luogo terribile era il nuovo carcere, il nuovo incubo. La porta si aprì e il minibus entrò. Non stavano andando alla base aerea, l'EDS non aveva ottenuto nulla, l'ambasciata non si era mossa, e loro non sarebbero stati rilasciati. Il pulmino si fermò di nuovo. I battenti d'acciaio si richiusero, e altri due si aprirono davanti a loro. Il veicolo passò e si fermò in un complesso enorme, pieno di costruzioni. Una guardia disse qualcosa in Farsi e tutti i prigionieri si alzarono per scendere. Bill si sentiva come un bambino deluso. La vita è uno schifo, pensò. Che cos'ho fatto per meritarmi questo? Che cos'ho fatto? «Non corra» disse Simons. Joe Poché chiese: «Guido in modo imprudente?». «No. Non voglio che violi le leggi.» «Quali leggi?» «Sia molto cauto.» Coburn l'interruppe. «Siamo arrivati.» Poché fermò la macchina. Tutti guardarono al di sopra delle teste delle strane donne nerovestite e videro l'immensa fortezza del carcere di Gasr. «Gesù Cristo» disse Simons. La voce rude e profonda era sfumata di sgomento. «Guardatelo.»
Tutti fissarono i muri altissimi, la porta enorme, le torri di guardia e le postazioni delle mitragliatrici. Simons disse: «È peggio di Alamo». Coburn pensò che la loro squadra non avrebbe potuto attaccare quella fortezza senza l'aiuto dell'intero esercito degli Stati Uniti. L'operazione di salvataggio che avevano pianificato meticolosamente e provato e riprovato tante volte non serviva più a nulla. Non ci sarebbero state modifiche e migliorie, niente di niente. Il piano era saltato. Restarono in macchina per un po', immersi nei loro pensieri. «Chi sono quelle donne?» chiese Coburn. «Parenti dei detenuti» spiegò Poché. Coburn sentiva un suono strano. «Ascoltate» disse. «Che cos'è?» «Le donne» disse Poché. «I lamenti delle donne.» Già una volta il colonnello Simons si era trovato di fronte a una fortezza inespugnabile. A quel tempo era capitano, e i suoi amici lo chiamavano Art, non Bull. Era il mese d'ottobre del 1944. Art Simons, a ventisei anni, comandava la Compagnia B del 6° Battaglione Fanteria dei Rangers. Gli americani stavano vincendo la guerra nel Pacifico e si accingevano ad attaccare le Filippine. Il 6° Ranger era già sul posto, precedendo le forze d'invasione, e compiva operazioni di sabotaggio e causava il caos dietro le linee nemiche. La Compagnia B era sbarcata su Homonhon nel golfo di Leyte e aveva scoperto che sull'isola non c'erano giapponesi. Simons aveva innalzato la bandiera americana su una palma da cocco davanti a duecento indigeni che ovviamente non avevano fatto la minima resistenza. Quel giorno arrivò la notizia che la guarnigione giapponese, sulla vicina isola di Suluan, stava massacrando gli abitanti. Simons chiese l'autorizzazione di prendere Suluan. L'autorizzazione venne negata. Qualche giorno dopo la chiese di nuovo. Gli fu risposto che non c'erano navi per trasportare la Compagnia B. Simons chiese il permesso di usare imbarcazioni indigene. Questa volta ebbe una risposta affermativa. Simons requisì tre barche a vela e undici canoe e si autonominò ammiraglio della flotta. Partì alle due del mattino con ottanta uomini. Scoppiò una tempesta, sette canoe si capovolsero e la flotta di Simons tornò a riva... in gran parte a nuoto. Il giorno dopo ripartirono. Questa volta salparono di giorno e - dato che gli aerei giapponesi avevano ancora la supremazia - gli uomini si spoglia-
rono e nascosero le uniformi e l'equipaggiamento sul fondo delle imbarcazioni, per sembrare pescatori locali. Il sistema funzionò, e la compagnia B sbarcò sull'isola di Suluan. Simons fece una ricognizione immediata per scoprire dov'era la guarnigione giapponese. E fu allora che vide una fortezza inespugnabile. I giapponesi si erano piazzati all'estremità meridionale dell'isola, in un faro alla sommità d'una scogliera corallina alta cento metri. Sul lato ovest c'era un sentiero che conduceva fino a metà altezza della scogliera, dove incominciava una ripida scalinata intagliata nel corallo. Tutta la scala e gran parte del sentiero erano ben visibili dalla torre del faro, alta unaventina di metri, e dalle tre costruzioni che l'attorniavano, rivolte verso ovest. Era una posizione difensiva ideale: su quella scalinata sarebbero bastati due uomini per tenerne a bada cinquecento. Ma c'era sempre un sistema per riuscire. Simons decise di attaccare da est, scalando la scogliera. L'assalto incominciò alla una del mattino del 2 novembre. Simons e quattordici uomini si acquattarono ai piedi della scogliera, sotto la guarnigione. Si erano anneriti i visi e le mani; c'era la luna e il terreno offriva meno ripari d'una prateria dell'Iowa. Per non far rumore, comunicavano a segni e avevano infilato le calze sopra gli stivali. Simons diede il segnale, e incominciarono la scalata. Il corallo era tagliente e lacerava le dita e le palme delle mani. In certi punti non c'erano appigli dove puntellarsi con i piedi ed erano costretti a inerpicarsi sui rampicanti. Erano completamente vulnerabili: se una sentinella curiosa si fosse affacciata dalla parte est della scogliera li avrebbe visti immediatamente e avrebbe potuto ucciderli uno dopo l'altro: erano bersagli troppo facili. Avevano compiuto metà della scalata quando il silenzio fu spezzato da un rumore assordante. Qualcuno aveva urtato con il calcio del fucile contro il corallo. Si fermarono tutti e restarono immobili, aggrappati alla scogliera. Simons trattenne il fiato e attese il primo colpo di fucile che avrebbe dato inizio al massacro. Ma nessuno sparò. Dopo dieci minuti ripresero a salire. La scalata richiese un'ora. Simons fu il primo a raggiungere la cima. Si acquattò. Si sentiva nudo, nel chiaro di luna. I giapponesi non si vedevano, ma udiva le voci che provenivano da una delle costruzioni basse. Puntò il fucile verso il faro. Gli uomini incominciarono a raggiungerlo. L'attacco sarebbe inco-
minciato non appena avessero piazzato la mitragliatrice. Proprio nel momento in cui stavano portando le mitragliatrici oltre il ciglio dello strapiombo comparve un soldato giapponese insonnolito, diretto verso la latrina. Simons diede il segnale a uno dei suoi uomini, che sparò al giapponese. E il combattimento incominciò. Simons si buttò subito sulla mitragliatrice. Sostenne uno dei supporti e la cassetta delle munizioni mentre il.mitragliere teneva l'altro supporto e sparava. I giapponesi, frastornati, uscivano correndo dagli edifici e piombavano in quella gragnola mortale di proiettili. Venti minuti più tardi era tutto finito. Avevano ucciso quindici nemici. Due degli uomini di Simons erano stati feriti, ma non gravemente. E la fortezza "inespugnabile" era stata conquistata. C'era sempre un modo per riuscirci. VII Il minibus Volkswagen dell'ambasciata procedeva per le vie cittadine, diretto al carcere di Gasr. A bordo c'era Ross Perot. Era il 19 gennaio, il giorno dopo che Paul e Bill erano stati trasferiti, e Perot andava a visitarli nella nuova prigione. Era una pazzia. Tutti avevano fatto il possibile per tenere nascosto Perot, nel timore che Dadgar - vedendo in lui un ostaggio molto più prezioso di Paul e Bill - lo arrestasse e lo gettasse in carcere. Eppure adesso era lì, e stava andando al carcere di sua volontà, con il passaporto in tasca per farsi riconoscere. Le sue speranze erano legate alla classica incapacità, tipica di tutti i governi, di far sapere alla mano destra quello che stava facendo la sinistra. Poteva darsi benissimo che il ministero della Giustizia volesse arrestarlo, ma erano i militari che dirigevano le carceri, e i militari non s'interessavano a lui. Comunque intendeva prendere qualche precauzione. Sarebbe entrato in compagnia di varie persone: con lui, sul minibus, c'erano Rich Gallagher e Jay Coburn, e alcuni funzionari dell'ambasciata che andavano a parlare con un'americana arrestata in quei giorni. Indossava abiti sportivi e portava uno scatolone pieno di viveri, libri e abiti pesanti per Paul e Bill. Nel carcere nessuno conosceva la sua faccia. Avrebbe dovuto dare il suo nome, per entrare: ma perché mai un impiegato o una guardia avrebbe dovuto riconoscerlo? Probabilmente il suo nome era su un elenco all'aeropor-
to, nelle stazioni di polizia e negli alberghi: però la prigione era l'ultimo posto dove Dadgar poteva prevedere che andasse. Ma era deciso a correre quel rischio. Voleva tirare su di morale Paul e Bill, e dimostrare che era pronto a esporsi per loro. Sarebbe stato l'unico risultato del suo viaggio: gli sforzi per mandare avanti le trattative erano stati inutili. Il minibus entrò in piazza Gasr e Perot vide per la prima volta il nuovo carcere. Era spaventoso. Non riusciva a immaginare come Simons e la sua piccola squadra di salvataggio avrebbero potuto farvi irruzione. Nella piazza c'erano decine e decine di persone, quasi tutte donne in chador, che facevano un gran chiasso. Il pulmino si fermò davanti all'enorme porta d'acciaio. Perot pensò all'autista: era iraniano, e sapeva chi era lui... Scesero tutti. Perot vide una telecamera accanto all'entrata del carcere. Il cuore gli si fermò per un attimo. Era una troupe americana. Cosa diavolo erano venuti a fare? Abbassò la testa mentre passava tra la folla reggendo la scatola di cartone. Una guardia sbirciò da una finestrella accanto all'ingresso. La troupe televisiva non lo notò. Dopo qualche istante si aprì una porticina in uno dei grandi battenti d'acciaio e i visitatori entrarono. La porta si chiuse rumorosamente dietro di loro. Ormai Perot non poteva tornare indietro. Proseguì, varcò una seconda porta d'acciaio e si trovò nell'interno del carcere. Era enorme, e tra un edificio e l'altro c'erano strade dove razzolavano liberamente polli e tacchini. Seguì gli altri ed entrò in un atrio. Presentò il passaporto. L'impiegato indicò un registro. Perot tirò fuori la penna e firmò "H. R. Perot" in modo più o meno leggibile. L'impiegato gli restituì il passaporto e gli fece cenno di proseguire. Aveva avuto ragione. Lì nessuno aveva mai sentito parlare di Ross Perot. Entrò in un'anticamera... e si fermò di colpo. C'era qualcuno che stava parlando con un iraniano in divisa da generale... qualcuno che conosceva benissimo Ross Perot. Era Ramsey Clark, l'avvocato di Dallas che era stato segretario della Giustizia durante la presidenza di Lyndon B. Johnson. Perot l'aveva incontrato parecchie volte e conosceva bene anche sua sorella Mimi. Per un momento Perot rimase agghiacciato. Questo spiega la presenza
della troupe televisiva, pensò. Si chiese se sarebbe riuscito a non farsi vedere da Clark. Da un momento all'altro, pensò, Ramsey mi vedrà e dirà al generale: «Signore Iddio, ma quello è Ross Perot dell'EDS». E se io avrò l'aria di volermi nascondere sarà anche peggio. Prese una decisione fulminea. Si avvicinò a Clark, gli tese la mano e disse: «Salve, Ramsey, che cosa ci fa in prigione?». Clark abbassò lo sguardo - era alto più di un metro e novanta - e rise. Si strinsero la mano. «Come sta Mimi?» chiese Perot prima che Clark avesse il tempo di presentarlo. Il generale stava parlando in Farsi a un subordinato. «Mimi sta magnificamente» disse Clark. «Bene, è stato un piacere vederla» disse Perot, e passò oltre. Aveva la bocca inaridita quando uscì dall'anticamera in compagnia di Gallagher, Coburn e i funzionari dell'ambasciata. C'era mancato poco. Un iraniano in divisa da colonnello li raggiunse: Gallagher disse che era incaricato di accompagnarli. Perot si chiese che cosa stava dicendo Clark al generale in quel momento... Paul stava male. Il raffreddore che aveva preso nel primo carcere s'era aggravato. Tossiva continuamente e aveva dolori al petto. Non riusciva a scaldarsi, neppure in quella prigione: soffriva il freddo da tre settimane. Aveva chiesto agli amici dell'EDS di procurargli un po' di biancheria pesante, ma non gliel'avevano portata. Era molto depresso. Aveva sperato che Coburn e la squadra di salvataggio tendessero un'imboscata al pulmino che aveva portato lì lui e Bill dal ministero della Giustizia, e quando erano entrati nell'inespugnabile carcere di Gasr era rimasto amaramente deluso. Il generale Mohari, che comandava la prigione, aveva spiegato a Paul e Bill che era responsabile di tutte le carceri di Teheran, e che li aveva fatti trasferire lì per sicurezza. Non era una grande consolazione: quel luogo era meno vulnerabile dalle folle, ma per la squadra di salvataggio sarebbe stato difficile attaccarlo, se non impossibile. Il carcere di Gasr faceva parte di un grande complesso militare. Nella parte ovest c'era il vecchio palazzo di Gasr Ghazar, che era stato trasformato in un'accademia della polizia dal padre dello scià. La prigione si trovava in quello che era stato un tempo il giardino del palazzo. A nord c'era
un ospedale militare; a est un accampamento dell'esercito, dove gli elicotteri decollavano e atterravano tutto il giorno. Il carcere vero e proprio era circondato da un muro interno alto otto o dieci metri, e da un altro esterno alto tre metri e mezzo. C'erano quindici o venti costruzioni separate, inclusi un forno, una moschea e sei blocchi di celle, uno dei quali era riservato alle donne. Paul e Bill erano nel blocco numero 8. Era una costruzione a due piani, in un cortile circondato da una cancellata di ferro rivestita di rete metallica. Per essere un carcere, l'ambiente non era tremendo. C'era una fontana al centro del cortile, rosai tutto intorno e una dozzina di pini. Durante il giorno i detenuti potevano uscire a giocare a pallavolo o a ping-pong nel cortile. Ma non potevano varcare il cancello, che era sorvegliato da una guardia. Il piano terreno dell'edificio era un'infermeria dove erano ricoverati circa venti detenuti, quasi tutti malati di mente che non facevano altro che urlare. Paul e Bill e altri erano al primo piano. Avevano una cella molto grande, sei metri per nove, e la dividevano con un altro detenuto, un avvocato iraniano oltre la cinquantina che parlava inglese e francese. Aveva mostrato loro le fotografie della sua villa in Francia. In cella c'era un televisore. I pasti venivano preparati da alcuni prigionieri - che venivano pagati dagli altri - e consumati in una specie di refettorio. Lì il vitto era migliore che nel primo carcere. Pagando, si poteva ottenere qualche altro privilegio; e uno dei detenuti, che a quanto pareva doveva essere ricchissimo, aveva una stanza tutta per sé e si faceva portare i pasti da fuori. La routine era tutt'altro che severa: non c'erano orari per alzarsi e per andare a letto. Nonostante tutto questo Paul era profondamente depresso. Qualche piccola comodità in più non significava nulla. Lui voleva la libertà. Non si sentì molto rincuorato quando la mattina del 19 gennaio furono informati che avevano visite. Al piano terreno del blocco numero 8 c'era un parlatorio; ma quel giorno, senza spiegazioni, furono condotti fuori, lungo la strada. Paul si accorse che erano diretti verso un edificio chiamato Circolo Ufficiali, situato in un giardinetto tropicale con anitre e pavoni. Mentre si avvicinavano, si guardò intorno e vide i visitatori che stavano arrivando dalla direzione opposta. Non riusciva a credere ai suoi occhi. «Mio Dio!» mormorò, felice. «È Ross!» Dimenticò tutto e si voltò per correre incontro a Perot; la guardia lo trat-
tenne. «Riesci a crederlo?» disse Paul a Bill. «Perot è qui!» La guardia lo spinse attraverso il giardino. Paul continuava a voltarsi per guardare Perot e si chiedeva se era uno scherzo della sua immaginazione. Li condussero in una grande stanza rotonda, con tavoli disposti tutto intorno e le pareti rivestite da specchi triangolari; sembrava una piccola sala da ballo. Dopo pochi istanti entrò Perot, con Gallagher, Coburn e altre persone. Perot sorrideva. Paul gli strinse la mano, poi l'abbracciò. Fu un momento di commozione. Paul provava la stessa sensazione di quando ascoltava l'inno nazionale: si sentiva scorrere un brivido lungo la schiena. Aveva amici che gli volevano bene, che pensavano a lui e che non l'abbandonavano. Perot era arrivato dall'altro capo del mondo ed era piombato in mezzo a una rivoluzione per venire a trovarlo. Perot e Bill si abbracciarono e si strinsero la mano. Bill chiese: «Ross, cosa ci fa lei qui? È venuto per portarci a casa?». «Non proprio» rispose Perot. «Non ancora.» Le guardie si piazzarono dall'altra parte della sala per bere in tè. I funzionari dell'ambasciata che erano arrivati con Perot sedettero a un altro tavolo per parlare con la donna arrestata. Perot mise sul tavolo lo scatolone. «Qui c'è un po' di biancheria pesante» disse a Paul. «Non abbiamo potuto comprarla, e questa è la mia, quindi la rivoglio indietro, chiaro?» «Sicuro» rispose sorridendo Paul. «Vi abbiamo portato anche qualche libro, e viveri... burro d'arachidi, tonno, succhi di frutta e non so che altro.» Perot estrasse dalla tasca un mucchietto di buste. «E la vostra posta.» Paul guardò la sua. C'era una lettera di Ruthie. Un'altra busta era indirizzata a "Chapanoodle". Paul sorrise: doveva essere il suo amico David Behne, il cui figlio Tommy, incapace di pronunciare "Chiapparone", aveva soprannominato Paul "Chapanoodle". Mise in tasca le lettere per leggerle più tardi e chiese: «Come sta Ruthie?». «Sta bene, le ho parlato al telefono» disse Perot. «Abbiamo incaricato due dei nostri di tenersi a disposizione delle vostre mogli, per assicurarsi che non manchi loro nulla. Ruthie è a Dallas, ospite di Jim e Cathy Nyfeler. Sta acquistando una casa, e Tom Walter provvede a sbrigare le pratiche.» Poi si rivolse a Bill. «Emily è andata da sua sorella Vickie nella Carolina
del Nord. Aveva bisogno di un po' di riposo. Si è data molto da fare, ha lavorato con Tim Reardon a Washington per far pressione sul Dipartimento di Stato. Ha scritto a Rosalynn Carter, da donna a donna... ha tentato di tutto. Per la verità, tutti noi stiamo tentando di tutto...» Mentre Perot elencava tutte le personalità alle quali avevano chiesto aiuto - dai deputati texani su su fino a Henry Kissinger - Bill comprese che lo scopo principale della sua visita era tirarli su di morale. In un certo senso era deludente. Per un attimo, quando aveva visto Perot nel giardino con gli altri, tutto sorridente, Bill aveva pensato: Ecco la squadra di salvataggio... finalmente hanno risolto questa maledetta faccenda e Perot viene ad annunciarlo di persona. Era deluso. Ma si rincuorò mentre ascoltava Perot. Con le lettere da casa e lo scatolone pieno di roba, Perot era come Babbo Natale; e la sua presenza e il suo sorriso rappresentavano una sfida per Dadgar, le folle di fanatici e tutto ciò che li minacciava. Adesso Bill era preoccupato per il morale di Emily. Sapeva istintivamente cosa pensava sua moglie. Il fatto che fosse andata nella Carolina del Nord indicava che aveva rinunciato a sperare. Non se la sentiva più di mantenere una facciata di normalità di fronte ai figli, in casa dei genitori. Sapeva che aveva ripreso a fumare. Il piccolo Chris sarebbe rimasto perplesso. Emily aveva smesso di fumare quando era andata in ospedale per farsi asportare la cistifellea, e aveva detto a Chris che s'era fatta togliere il vizio del fumo. Adesso Chris si sarebbe domandato come l'aveva ripreso. «Se tutto questo non servirà a niente» stava dicendo Perot, «abbiamo in città un'altra squadra che vi tirerà fuori con altri sistemi. Riconoscerete tutti i componenti tranne uno, il capo, un uomo più anziano.» Paul disse: «Vorrei sapere una cosa, Ross. Perché sono disposti a rischiare tanto per noi due?». Bill si chiedeva che cosa si stava preparando. Sarebbe arrivato un elicottero e li avrebbe presi a bordo? Oppure l'esercito americano avrebbe assaltato il carcere? Era difficile immaginarlo... ma con Perot ci si poteva aspettare di tutto. Coburn disse a Paul: «Voglio che osservi e impari a memoria tutti i possibili dettagli per quanto riguarda il complesso del carcere e la routine, come prima». Bill provava un po' d'imbarazzo per via dei baffi. Se li era fatti crescere per assomigliare di più a un iraniano. I dirigenti dell'EDS non potevano portare baffi e barba, ma lui non aveva previsto d'incontrarsi con Perot. Era
ridicolo, lo sapeva, ma si sentiva a disagio. «Chiedo scusa per questi» disse, toccandosi il labbro superiore. «Cerco di non dare nell'occhio. Me li taglierà appena uscirò di qui.» «Li tenga» disse Perot con un sorriso. «Deve farli vedere a Emily e ai bambini. Comunque, cambieremo i regolamenti per quanto riguarda l'abbigliamento. Abbiamo fatto un sondaggio tra i dipendenti, e probabilmente autorizzeremo i baffi e le camicie colorate.» Bill guardò Coburn. «E le barbe?» «Niente barbe. Coburn ha una giustificazione speciale.» Due guardie vennero a interrompere la conversazione; la visita era terminata. Perot disse: «Non sappiamo se vi tireremo fuori in fretta o no. Convincetevi che lo faremo lentamente. Se ogni mattina vi svegliate dicendovi "Oggi può essere il giorno buono", resterete delusi e vi demoralizzerete. Preparatevi a un soggiorno prolungato, e forse avrete una piacevole sorpresa. Ma ricordate sempre una cosa: vi tireremo fuori». Si strinsero la mano. Paul disse: «Non so come ringraziarla per essere venuto, Ross». Perot sorrise: «Non se ne vada senza la mia biancheria». Uscirono. I visitatori dell'EDS si avviarono verso l'ingresso del carcere, lasciando Paul, Bill e le guardie. Mentre i suoi amici si allontanavano, Bill fu assalito dal rammarico di non poter andare con loro. Oggi no, si disse. Oggi no. Perot si chiedeva se l'avrebbero lasciato uscire. Ramsey Clark aveva avuto a disposizione un'ora intera per spifferare tutto. Che cosa aveva detto al generale? Ci sarebbe stato un plotone di guardie armate ad attenderlo nell'ufficio all'ingresso del carcere? Il cuore gli batté più forte quando entrò nella sala d'aspetto. Non c'era traccia del generale o di Clark. Passò nell'atrio. Nessuno lo degnò di un'occhiata. Seguito da Coburn e Gallagher, varcò la prima porta. Nessuno lo fermò. Ce l'avrebbe fatta. Attraversò il cortiletto e attese accanto al portone. La porticina venne aperta. Perot uscì dalla prigione. La troupe televisiva era ancora lì.
Ci mancherebbe altro, pensò, che dopo avercela fatta finora, le reti televisive americane trasmettessero la mia immagine... Passò tra la folla, raggiunse il pulmino e salì. Coburn e Gallagher salirono con lui, ma i funzionari dell'ambasciata non si vedevano ancora. Perot sedette e guardò dal finestrino. La folla assiepata sulla piazza sembrava mal disposta e urlava. Perot non capiva una parola. Si augurò che quelli dell'ambasciata si sbrigassero. «Ma dove sono?» chiese, irritato. «Stanno arrivando» rispose Coburn. «Credevo che saremmo usciti tutti insieme e ce ne saremmo andati.» Dopo un minuto la porta del carcere si aprì di nuovo e uscirono i funzionari dell'ambasciata. Salirono sul pulmino. L'autista accese il motore e si avviò attraverso piazza Gasr. Perot si rilassò. Ma non aveva motivo di preoccuparsi. Ramsey Clark, che era venuto lì su invito di alcune associazioni iraniane per i diritti civili, non aveva un'ottima memoria. La faccia di Ross Perot gli era vagamente familiare: ma l'aveva scambiato per il colonnello Frank Borman, presidente delle Eastern Airlines. Emily incominciò a ricamare. Stava preparando un nudo per Bill. Era tornata nella casa dei genitori a Washington, e viveva un altro giorno normale di silenziosa disperazione. Aveva accompagnato Vicki alle superiori, poi era tornata a prendere Jackie, Jenny e Chris per condurli alle elementari. Si era fermata a casa della sorella, Dorothy, e aveva parlato un po' con lei e con il marito Tim Reardon. Tim si stava ancora dando da fare tramite il senatore Kennedy e il deputato Tip O'Reill per fare pressioni sul Dipartimento di Stato. Emily era ossessionata dal pensiero di Dadgar, l'uomo misterioso che aveva il potere di tenere in carcere suo marito. Avrebbe voluto affrontarlo personalmente e chiedergli perché le faceva una cosa simile. Aveva addirittura chiesto a Tim di cercare di farle rilasciare un passaporto diplomatico per poter andare in Iran a bussare alla porta di Dadgar. Tim aveva risposto che era un'idea pazzesca, ed Emily capiva che aveva ragione: ma voleva fare qualcosa, qualunque cosa, pur di riavere Bill. Ora stava attendendo la telefonata quotidiana da Dallas. Di solito erano Ross, T. J. Marquez o Jim Nyfeler a chiamare. Poi andava a prendere i fi-
gli e li aiutava a fare i compiti. E poi non restava altro che una notte di solitudine. Solo da poco tempo aveva detto ai genitori di Bill che lui era stato arrestato. Bill, in una lettera che Keane Taylor le aveva letto al telefono, l'aveva pregata di non dirlo fino a quando non fosse stato assolutamente necessario, perché il padre soffriva di cuore e lo shock poteva essere pericoloso. Ma dopo tre settimane era diventato impossibile continuare a fingere, e quindi aveva rivelato la verità. Il padre di Bill si era indignato perché era stato lasciato all'oscuro così a lungo. Qualche volta era difficile capire che cosa si doveva fare. Il telefono squillò ed Emily si affrettò a rispondere. «Pronto?» «Emily? Sono Jim Nyfeler.» «Salve, Jim, che novità ci sono?» «Li hanno trasferiti in un altro carcere.» Non sarebbe mai arrivata una buona notizia? «Non c'è da preoccuparsi» disse Jim. «Anzi, è meglio così. Il vecchio carcere è nella parte meridionale della città, dove si svolgono gli scontri. Questo è più a nord, e più sicuro... Là saranno più protetti.» Emily perse la calma. «Ma, Jim» gridò, «mi ha ripetuto per tre settimane che in carcere erano al sicuro, e adesso mi dice che li hanno trasferiti in un altro perché lì saranno protetti!» «Emily...» «Per favore, non mi racconti frottole.» «Emily...» «Avanti, mi dica come stanno le cose, e sia chiaro.» «Emily, non credo che finora abbiano corso pericoli, ma gli iraniani hanno preso una precauzione ragionevole, mi creda.» Emily si vergognò della sfuriata. «Mi scusi, Jim.» «Di niente.» Parlarono ancora un po'; poi Emily riattaccò a riprese a ricamare. Sto perdendo la testa, pensò. Vivo come in trance, porto i ragazzi a scuola, parlo con Dallas, vado a letto la sera e mi alzo la mattina... Andare a trovare sua sorella Dorothy per qualche giorno era stata una buona idea, ma lei non aveva bisogno di cambiare ambiente... aveva bisogno di Bill. Era difficile non perdere la speranza. Incominciava a pensare come sarebbe stata la vita senza Bill. Aveva una zia che lavorava nei grandi magazzini Woody's a Washington: forse avrebbe potuto trovarle un posto.
Oppure avrebbe potuto parlare con suo padre, per cercare lavoro come segretaria. Si chiedeva persino se sarebbe mai riuscita a innamorarsi di un altro, se Bill fosse morto a Teheran. Ma pensava che sarebbe stato impossibile. Ricordava i primi tempi del loro matrimonio. Bill studiava ancora, e avevano poco denaro. Ma avevano egualmente deciso di sposarsi perché non sopportavano le lunghe separazioni. Più tardi, quando Bill aveva fatto carriera, le cose erano andate meglio, e poco a poco avevano comprato macchine più belle, case più grandi, abiti più eleganti... più cose. Ma quelle cose non valevano nulla, pensava adesso: non contava niente essere ricca o povera. Voleva Bill, e non aveva bisogno d'altro. Bill sarebbe sempre stato abbastanza, per lei, per renderla felice. Se fosse ritornato. Karen Chiapparone disse: «Mamma, perché papà non telefona? Telefona sempre, quando è via». «Ha telefonato oggi» mentì Ruthie. «Sta bene.» «Perché ha chiamato quando ero a scuola? Vorrei tanto parlare con lui.» «Tesoro, è così difficile avere la comunicazione da Teheran, le linee sono sovraccariche. Deve chiamare quando può.» «Oh.» Karen andò a guardare la televisione e Ruthie sedette. Fuori si stava facendo buio. Per lei diventava sempre più difficile mentire a tutti sul conto di Paul. Era per questo che aveva lasciato Chicago per venire a Dallas. Era divenuto impossibile vivere con i genitori e nascondere la verità. Sua madre chiedeva: «Perché Ross e gli altri dell'EDS continuano a telefonarti?». «Vogliono solo assicurarsi che stiamo tutti bene» rispondeva Ruthie con un sorriso forzato. «Ross è molto gentile a telefonare.» Lì a Dallas, almeno, poteva parlare apertamente con gli altri dell'EDS. E adesso che l'attività in Iran sarebbe sicuramente cessata, Paul avrebbe lavorato alla sede centrale dell'EDS, almeno per qualche tempo, e quindi avrebbero abitato a Dallas: e Karen e Ann Marie dovevano andare a scuola. Erano ospiti di Jim e Cathy Nyfeler. Cathy capiva meglio di chiunque altro, perché suo marito era uno dei quattro uomini dei quali Dadgar, all'inizio, aveva chiesto i passaporti: se Jim si fosse trovato in Iran a quel tempo, adesso sarebbe stato in carcere con Paul e Bill. Resta con noi, aveva
detto Cathy: sarà soltanto per una settimana, poi Paul tornerà. Questo era avvenuto all'inizio di gennaio. In seguito Ruthie aveva proposto di cercarsi un appartamento, ma Cathy non aveva voluto sentirne parlare. Adesso Cathy era dal parrucchiere, le bambine guardavano la televisione in un'altra stanza, e Jim non era ancora tornato dal lavoro. Rùthie era sola con i suoi pensieri. Con l'aiuto di Cathy si dava da fare e cercava di farsi coraggio. Aveva iscritto Karen a scuola e aveva trovato un asilo per Ann Marie. Usciva a pranzo con Cathy e alcune delle altre mogli dei dirigenti dell'EDS: Mary Boulware, Liz Coburn, Mary Sculley, Marva Davis e Toni Dvoranchik. Scriveva a Paul lettere vivaci e ottimiste, e ascoltava le sue risposte ottimiste e vivaci che le venivano lette al telefono da Teheran. Usciva a far spese e accettava qualche invito a pranzo da parte di famiglie d'amici. Aveva dedicato parecchio tempo alla ricerca d'una casa. Non conosceva bene Dallas, ma ricordava che Paul aveva detto che la Central Expressway era un incubo, e perciò cercava casa molto lontano. Ne aveva vista una che le piaceva e aveva deciso di acquistarla, in modo che quando Paul fosse tornato avrebbe trovato una casa vera: ma c'erano problemi di carattere legale perché lui non era lì per firmare i documenti. Tom Walter stava cercando di sistemare tutto. Ruthie si sforzava di mostrarsi coraggiosa, ma si sentiva morire. Raramente riusciva a dormire più di un'ora per notte. Si svegliava di continuo e si chiedeva se avrebbe rivisto Paul. Cercava di pensare che cosa avrebbe fatto se non fosse tornato. Immaginava che sarebbe andata a Chicago dai suoi genitori, per un po'; ma non intendeva vivere con loro per sempre. Senza dubbio avrebbe potuto trovare un lavoro... Ma a turbarla non era la prospettiva di vivere senza un uomo e di provvedere a se stessa: era l'idea di stare senza Paul, per sempre. Non riusciva a immaginare cosa sarebbe stata la vita senza di lui. Che cosa avrebbe fatto, che cosa avrebbe voluto fare, che cosa avrebbe potuto renderla felice? Si rendeva conto di dipendere completamente da lui. Senza di lui non avrebbe potuto vivere. Sentì una macchina che si fermava. Doveva essere Jim che tornava dal lavoro. Forse avrebbe portato qualche notizia. Jim entrò dopo qualche istante. «Ciao, Ruthie. Cathy non c'è?» «È dal parrucchiere. Com'è andata oggi?» «Ecco...» Ruthie comprese che non aveva nulla di buono da dirle, e stava cercando un modo incoraggiante per spiegarlo.
«Ecco, avevano un appuntamento per discutere la cauzione, ma gli iraniani non si sono presentati. Domani...» «Ma perché?» Ruthie si sforzò di non perdere la calma. «Perché non si presentano dopo aver fissato un incontro?» «Sai, a volte ci sono gli scioperi, e a volte è impossibile muoversi, in città, a causa delle... a causa delle dimostrazioni e così via...» Ruthie aveva la sensazione di aver ascoltato per settimane frasi come quelle. C'erano sempre ritardi, rinvii, frustrazioni. «Ma, Jim» disse. Poi incominciò a piangere e non riuscì a trattenersi. «Jim...» Le si strinse la gola e non poté più parlare. Pensò: Io voglio soltanto mio marito! Jim la guardava, imbarazzato. Tutta l'infelicità che aveva dominato tanto a lungo dilagò all'improvviso, e Ruthie non riuscì più a trattenersi. Scoppiò in lacrime e fuggì via. Corse in camera sua e si buttò sul letto, singhiozzando. Liz Coburn sorseggiava il suo drink. Di fronte a lei erano sedute Mary, la moglie di Pat Sculley, e la moglie di un altro dirigente dell'EDS che era stato evacuato da Teheran, Toni Dvoranchik. Le tre donne erano al Recipes, un ristorante di Greenville Avenue a Dallas. Bevevano daiquiri alla fragola. Il marito di Toni Dvoranchik era lì a Dallas. Liz Coburn sapeva che Pat Sculley era scomparso, come Jay, diretto in Europa. Adesso Mary Sculley stava parlando di Pat come se fosse andato non in Europa, ma in Iran. Liz disse: «Pat è a Teheran?». «Sono tutti a Teheran, credo» disse Mary. Liz Coburn era inorridita. «Jay a Teheran...» Avrebbe voluto piangere. Jay le aveva detto che era a Parigi. Perché non poteva dire la verità? Pat Sculley l'aveva detta a Mary. Ma Jay era diverso. Certi uomini giocavano a poker per qualche ora, ma Jay doveva giocare tutta la notte e tutto il giorno dopo. Certi uomini facevano nove o diciotto buche al golf; Jay ne faceva trentasei. Molti uomini avevano lavori impegnativi, ma Jay doveva lavorare per l'EDS. Persino nell'esercito, quando erano tutti e due giovanissimi, Jay aveva sentito il dovere di offrirsi volontario per uno dei ruoli più pericolosi, come pilota d'elicotteri. Adesso era andato a Teheran nel bel mezzo d'una rivoluzione. È la solita storia, pensò: Se ne è andato, mi ha mentito ed è in pericolo. All'improvviso si sentì agghiacciare. Non tornerà, pensò stordita. Non ne uscirà vivo. Il buonumore di Perot scomparve presto. Era entrato nel carcere sfidan-
do Dadgar, e aveva rincuorato Paul e Bill; ma Dadgar aveva in mano tutte le carte. Dopo sei giorni a Teheran capiva perché le pressioni politiche che aveva esercitato su Washington non erano servite a nulla: il vecchio regime iraniano lottava per sopravvivere e non aveva potere. Anche se avesse pagato la cauzione - e prima di poterlo fare c'erano parecchi problemi da risolvere - Paul e Bill sarebbero stati comunque trattenuti in Iran. E il piano di salvataggio di Simons era inutile, rovinato dal trasferimento al nuovo carcere. Sembrava che non vi fossero più speranze. Quella sera Perot andò a parlare con Simons. Per prudenza attese fino a quando fu buio. Indossava la tuta da jogging, un paio di scarpe da tennis e un cappotto scuro. Keane Taylor lo accompagnò con la macchina. La squadra di salvataggio aveva abbandonato la casa di Taylor. Taylor si era incontrato con Dadgar, e il magistrato aveva incominciato a esaminare la documentazione dell'EDS: era possibile, aveva pensato Simons, che Dadgar piombasse a casa di Taylor in cerca di materiale incriminante. Perciò Simons, Coburn e Poché si erano trasferiti nella casa di Bill e Toni Dvoranchik, che erano ritornati a Dallas. Altri due membri della squadra erano riusciti ad arrivare a Teheran da Parigi, Pat Sculley e Jim Schwebach, i due piccoletti pronti a tutto che avevano avuto il ruolo di pali nel piano iniziale ormai inutile. Come avveniva spesso a Teheran, l'abitazione di Dvoranchik era al piano terreno d'una casa a due piani, e il padrone viveva al piano di sopra. Taylor e gli altri della squadra lasciarono soli Perot e Simons. Perot si guardò intorno, infastidito. Forse la casa era stata in ordine quando ci abitava Toni Dvoranchik, ma adesso che era diventata la base di cinque uomini per nulla interessati ai lavori domestici, era sporca e malconcia, e puzzava dei sigari di Simons. Simons era stravaccato su una poltrona. Aveva i baffi ispidi e i capelli lunghi. Fumava un sigaro dietro l'altro, come al solito, aspirando con voluttà. «Ha visto il nuovo carcere» disse Perot. «Sì» borbottò Simons. «Cosa ne pensa?» «Non è neppure il caso di sperare di compiere un attacco frontale come quello che avevamo in programma.» «L'immaginavo.» «Resta un certo numero di possibilità.»
Davvero? si chiese Perot. Simons continuò: «Uno. So che ci sono molte macchine parcheggiate nel complesso del carcere. Possiamo trovare un modo di far uscire Paul e Bill nel portabagagli di un'auto. Nel quadro di questo piano, o come alternativa, dovremmo corrompere o ricattare il generale che comanda la prigione». «Il generale Mohari.» «Appunto. Uno dei vostri dipendenti iraniani si sta informando sul suo conto.» «Bene.» «Due. La squadra dei negoziatori. Se ottengono che Paul e Bill vengano rilasciati e messi agli arresti domiciliari o qualcosa del genere, possiamo portarli via tutti e due. Dica a Taylor e agli altri di insistere su questa possibilità. Accetti tutte le condizioni che porranno gli iraniani, ma li tiri fuori da quel carcere. Lavorando in base all'ipotesi che vengano messi agli arresti domiciliari e tenuti sotto sorveglianza, stiamo preparando un nuovo piano di salvataggio.» Perot cominciò a sentirsi un po' meglio. Simons irradiava sicurezza. Pochi minuti prima Perot era quasi disperato: adesso il colonnello stava elencando con calma nuove possibilità di risolvere il problema, come se il trasferimento a un altro carcere, la questione della cauzione e lo sfacelo del governo fossero soltanto piccoli intoppi anziché una catastrofe totale. «Tre» continuò Simons. «Qui c'è in corso una rivoluzione. Le rivoluzioni sono prevedibili. Ogni volta succedono le stesse cose. Non si può sapere quando accadranno, ma accadranno sicuramente, prima o poi. E una delle cose che succedono invariabilmente è che la folla assale le prigioni e fa uscire tutti quanti.» Perot era sconcertato. «Davvero?» Simons annuì. «Ecco le tre possibilità. Naturalmente, a questo punto non possiamo scegliere: dobbiamo prepararci a per ogni evenienza. Qualunque delle tre si realizzi per prima, avremo bisogno di un piano per fare uscire tutti da questo stramaledetto paese non appena Paul e Bill saranno nelle nostre mani.» «Sì.» Perot era preoccupato per la sua partenza: quella di Paul e di Bill sarebbe stata ancora più rischiosa. «Le autorità militari americane hanno promesso di aiutarci...» «Sicuro» disse Simons. «Non voglio insinuare che non siano sinceri, ma le ricordo che hanno cose più importanti cui pensare, e non me la sento di
fare molto conto sulle loro promesse.» «Sta bene.» Questo spettava a Simons giudicarlo, e Perot era disposto a lasciarlo fare. Anzi, era disposto a lasciare tutto nelle mani di Simons. Probabilmente il vecchio Toro era l'uomo più qualificato del mondo per quell'operazione, e Perot aveva piena fiducia in lui. «Che cosa posso fare?» «Torni negli Stati Uniti. Innanzi tutto, qui è in pericolo. In secondo luogo, ho bisogno che lei sia là. È molto probabile che, quando partiremo, non saremo su un volo regolare. Forse non partiremo neppure in aereo. Lei dovrà venire a prenderci da qualche parte... forse in Iraq, nel Kuwait, in Turchia o in Afghanistan... e questo richiederà una certa organizzazione. Quindi torni a casa e si tenga pronto.» «D'accordo.» Perot si alzò. Simons si era comportato con lui come lui faceva qualche volta con i suoi dipendenti: gli aveva trasmesso l'energia necessaria per tirare ancora avanti quando tutto sembrava perduto. «Partirò domani.» Perot prenotò un posto sul volo 200 della British Airways da Teheran a Londra via Kuwait, che partiva alle 10 e 20 del mattino del 20 gennaio, l'indomani. Chiamò Margot e la pregò di andargli incontro a Londra. Voleva passare qualche giorno solo con lei: forse non ne avrebbero avuto più l'occasione, quando il piano di salvataggio avesse incominciato a realizzarsi. A Londra si erano trovati bene, in passato. Avrebbero preso alloggio al Savoy Hotel. (A Margot piaceva il Claridge's, ma a Perot no... il riscaldamento era troppo forte, e se apriva le finestre non riusciva a dormire per il chiasso del traffico che continuava tutta la notte lungo Brook Street.) Sarebbero andati a teatro e ai concerti, e al nightclub londinese preferito da Margot, Annabel's. Per qualche giorno si sarebbero goduti la vita. Se lui fosse uscito dall'Iran. Per ridurre al minimo il tempo che avrebbe dovuto passare all'aeroporto, restò in albergo fino all'ultimo minuto. Chiamò per accertarsi se il volo sarebbe partito in orario, e ne ebbe la conferma. Si presentò pochi minuti prima delle dieci. Rich Gallagher, che l'aveva accompagnato, andò a informarsi se le autorità avevano intenzione di piantare grane. Gallagher l'aveva già fatto altre volte. Con un amico iraniano che lavorava per la Pan Am, passò dal controllo portando il passaporto di Perot. L'iraniano spiegò che doveva partire
un VIP, e chiese che provvedessero a sbrigare subito le formalità. Il funzionario consultò un fascicolo con l'elenco delle persone da fermare e disse che non ci sarebbero stati problemi per il signor Perot. Gallagher tornò a portare la buona notizia. Perot continuò a stare in pensiero. Se volevano bloccarlo, probabilmente sarebbero stati abbastanza furbi da mentire a Gallagher. L'affabile Bill Gayden, il presidente dell'EDS World, stava arrivando per assumere la direzione della squadra dei negoziatori. Gayden aveva lasciato Dallas per Teheran già una volta, ma a Parigi era tornato indietro quando Bunny Fleischhacker aveva avvertito che Dadgar intendeva ordinare altri arresti. Adesso, come Perot, aveva deciso di rischiare. Per caso, il suo volo arrivò mentre Perot attendeva di partire, ed ebbero la possibilità di parlare. Gayden aveva nella valigia otto passaporti americani appartenenti ad altrettanti dirigenti dell'EDS che somigliavano vagamente a Paul o a Bill. Perot disse: «Credevo che ci saremmo procurati passaporti falsi, per i nostri due amici. Non potevate trovare un sistema?». «Sì, l'abbiamo trovato» disse Gayden. «Sei hai bisogno d'un passaporto d'urgenza, puoi portare la documentazione necessaria al tribunale di Dallas. Loro mettono tutto in una busta e tu la porti a New Orleans, dove ti rilasciano il passaporto. È una normalissima busta intestata del governo e chiusa con il nastro adesivo, quindi puoi aprirla mentre vai a New Orleans, togli le foto, le sostituisci con quelle dj Paul e di Bill - e le abbiamo - richiudi le buste e tac!, hai i passaporti sotto falsi nomi. Ma è illegale.» «E allora che cosa hai fatto?» «Ho detto a tutti gli evacuati che avevo bisogno dei passaporti per far spedire da Teheran la loro roba. Mi hanno consegnato centodue passaporti e ho scelto gli otto più adatti. Ho fabbricato una lettera in cui qualcuno, dagli Stati Uniti, diceva a qualcuno qui a Teheran: "Ecco i passaporti che hai chiesto di inviarti per le pratiche presso le autorità dell'immigrazione". Tanto per avere un pezzo di carta da mostrare se mi domandassero perché diavolo ho otto passaporti nella valigia.» «Se Paul e Bill useranno quei passaporti per varcare una frontiera, violeremo comunque la legge.» «Se arriveremo a tanto, la violeremo.» Perot annuì. «È giusto.» Chiamarono il suo volo. Salutò Gayden e Taylor, che l'avevano accompagnato con la macchina all'aeroporto e adesso avrebbe portato Gayden all'Hyatt. Poi andò a scoprire come stavano le cose con l'elenco dai passeg-
geri da bloccare. Prima superò un cancelletto dove controllarono la carta d'imbarco. Percorse un corridoio e arrivò a uno sportello dove pagò una piccola tassa. Quindi, sulla destra, vide una serie di banchi per il controllo dei passaporti. Era lì che tenevano l'elenco dei passeggeri da bloccare. A uno dei banchi c'era una ragazza assorta nella lettura di un tascabile. Perot si avvicinò. Consegnò il passaporto e un modulo di uscita giallo sul quale c'era il suo nome. La ragazza prese il foglio giallo, aprì il passaporto, lo timbrò, Io restituì senza guardare Perot, e s'immerse di nuovo nella lettura. Perot entrò nella sala d'aspetto delle partenze. Il volo era in ritardo. Sedette. Era sulle spine. Da un momento all'altro poteva darsi che la ragazza finisse il libro o si stancasse di leggerlo e incominciasse a controllare i nomi sui moduli gialli. E allora, pensava, sarebbero venuti a cercarlo, i poliziotti o i militari o gli investigatori di Dadgar, e lui sarebbe finito in carcere e Margot si sarebbe trovata nella stessa situazione di Ruthie e di Emily, senza sapere se avrebbe più rivisto il marito. Adocchiava continuamente il tabellone delle partenze: annunciava soltanto In ritardo. Per la prima ora restò seduto sull'orlo della poltroncina. Poi incominciò a rassegnarsi. Se dovevano prenderlo l'avrebbero preso, e non poteva farci niente. Incominciò a leggere una rivista. Poi, per un'altra ora, lesse tutto quello che aveva nella borsa. Quindi attaccò discorso con un uomo seduto accanto a lui. Venne a sapere che era un ingegnere inglese e aveva lavorato in Iran per conto di una grande società britannica. Chiacchierarono per un po', poi si scambiarono le riviste. Tra poche ore, pensò Perot, sarò in un appartamento d'albergo con Margot... o in un carcere iraniano. Scacciò quel pensiero. Passò l'ora di pranzo e incominciò il pomeriggio. Perot si convinse che non sarebbero venuti ad arrestarlo. Il volo venne finalmente chiamato alle sei di sera. Perot si alzò. Se vengono adesso... Si accodò alla folla e si avvicinò al cancello. C'era un controllo di sicurezza. Lo perquisirono sommariamente e gli accennarono di passare. Ce l'ho quasi fatta, pensò mentre saliva sull'aereo. Sedette tra due passeggeri grassi in classe economica... era tutto classe economica. Credo di avercela fatta.
I portelli si chiusero e l'aereo incominciò a muoversi. Rullò sulla pista e accelerò. E si staccò dal suolo. Ce l'aveva fatta. Era sempre stato fortunato. Pensò a Margot. Affrontava quella crisi come aveva affrontato le avventure del marito durante la campagna per i prigionieri di guerra: capiva il suo senso del dovere e non si lamentava mai. Per questo lui poteva concentrarsi su ciò che doveva fare, e scacciare i pensieri negativi che avrebbero giustificato l'inazione. Era fortunato ad avere una moglie come lei. Pensò a tutte le fortune che aveva avuto: i genitori, l'ammissione all'accademia navale, l'incontro con Margot, i suoi figli, la creazione dell'EDS, la possibilità di trovare collaboratori efficienti, coraggiosi come i volontari che aveva lasciato in Iran... Si chiese, con una punta di superstizione, se nella vita un individuo aveva a disposizione una certa quantità di fortuna, e soltanto quella. Immaginava la sua fortuna come la sabbia d'una clessidra, che scorreva lentamente ma irreparabilmente. Cosa accadrà, si chiese, quando si sarà esaurita? L'aereo scese verso il Kuwait. Era lontano dallo spazio aereo dell'Iran... ce l'aveva fatta. Mentre l'aereo faceva rifornimento andò al portello aperto e restò lì a respirare l'aria pura, senza prestare attenzione alla hostess che lo invitava a tornare al suo posto. C'era una brezza piacevole che spirava sulla pista, ed era un sollievo abbandonare per qualche istante i due grassoni seduti accanto a lui. Alla fine l'hostess desistette e se ne andò. Perot guardò il sole che tramontava. La mia fortuna, pensò: chissà quanta me ne è rimasta? VIII La squadra di salvataggio a Teheran, adesso, consisteva di Simons, Coburn, Poché, Sculley e Schwebach. Simons decise che Boulware, Davis e Jackson non dovevano venire in Iran. L'idea di liberare Paul e Bill con un attacco frontale era ormai sepolta, quindi non avevano bisogno d'un gruppo numeroso. Mandò Jackson nel Kuwait, a studiare quel capolinea del percorso sud per l'uscita dall'Iran. Boulware e Davis tornarono negli Stati Uniti, ad attendere nuove disposizioni. Majid riferì a Coburn che il generale Mohari, il comandante del carcere di Gasr, non era un tipo corruttibile; ma aveva due figlie che studiavano
negli Stati Uniti. Il gruppo discusse l'eventualità di sequestrare le ragazze per costringere Mohari a collaborare all'evasione di Paul e Bill; ma accantonarono l'idea. (E Perot andò su tutte le furie quando seppe che l'avevano discussa.) Simons disse che erano tipi dal cuore tenero, ma si dichiarò d'accordo con la decisione. La proposta di portar fuori clandestinamente Paul e Bill nel portabagagli di una macchina venne accantonata per un po'. Per due o tre giorni studiarono ciò che avrebbero fatto se Paul e Bill fossero stati rilasciati e messi agli arresti domiciliari. Andarono a ispezionare le case dove i due erano vissuti prima dell'arresto. Sarebbe stato facile portarli via, a meno che Dadgar li avesse fatti sorvegliare. La squadra avrebbe usato due macchine, decisero. La prima avrebbe preso a bordo Paul e Bill. La seconda l'avrebbe seguita a distanza, e avrebbe portato Sculley e Schwebach, con il compito di eliminare chiunque avesse tentato di accodarsi alla prima. Ancora una volta il compito di sparare veniva affidato a quei due. Le macchine si sarebbero tenute in contatto per mezzo di radio a onde corte. Coburn chiamò Merv Stauffer a Dallas e ordinò il materiale. Boulware portò le radio a Londra: Schwebach e Sculley andarono a ritirarle. Mentre erano a Londra, i due dovevano cercare di procurarsi qualche carta topografica dell'Iran, da usare durante la fuga se fossero stati costretti a lasciare il paese via terra. (A Teheran non si trovavano carte decenti dell'Iran, come aveva scoperto a suo tempo il Jeep Club: Gayden diceva che le carte topografiche persiane erano al livello di "Svoltate a sinistra quando incontrate un cavallo morto".) Simons intendeva prepararsi anche per la terza eventualità... che Paul è Bill venissero liberati da una folla che assalisse il carcere. Cosa avrebbe dovuto fare la squadra, in quel caso? Coburn seguiva attentamente la situazione in città, telefonava ai suoi amici del servizio segreto militare americano e a vari dipendenti iraniani fidati: se la prigione fosse stata assalita l'avrebbe saputo molto in fretta. E poi? Qualcuno avrebbe dovuto cercare Paul e Bill e condurli al sicuro. Ma un gruppo di americani che si avventurasse in macchina nel mezzo dei disordini avrebbe cercato guai: per Paul e Bill sarebbe stato meglio mimetizzarsi tra la folla dei detenuti in fuga. Simons disse a Coburn di parlare a Paul di quella possibilità, la prima volta che fosse andato a trovarlo in carcere, e di raccomandargli di dirigersi verso l'Hyatt Hotel. Tuttavia, nulla vietava che un iraniano andasse a cercare Paul e Bill anche in mezzo ai disordini. Simons chiese a Coburn di fargli il nome di un
dipendente iraniano dell'EDS che conoscesse molto bene la topografia della città. Coburn pensò subito a Rashid. Rashid aveva ventitré anni, la carnagione molto scura e un bell'aspetto, e apparteneva a una famiglia benestante di Teheran. Aveva seguito il corso di addestramento dell'EDS per gli ingegneri dei sistemi. Era intelligente ed efficiente e aveva un modo di fare accattivante. Coburn ricordava l'ultima volta che Rashid aveva dato prova delle sue doti di improvvisazione. I dipendenti del ministero della Sanità, che erano in sciopero parziale, avevano rifiutato di battere i dati per preparare le paghe, ma Rashid aveva preso tutto il materiale, l'aveva portato alla Banca Omran, aveva convinto qualcuno a battere i dati, e quindi aveva inserito il programma nel computer del ministero. Il guaio, con Rashid, era che bisognava tenerlo d'occhio, perché non si consultava mai con nessuno prima di mettere in atto le sue idee più insolite. Il modo in cui aveva fatto battere i dati era una violazione del diritto di sciopero e avrebbe potuto far passare grossi guai all'EDS... anzi, quando Bill l'aveva saputo non era stato molto soddisfatto. Rashid era emotivo e impulsivo, e non parlava molto bene l'inglese, quindi aveva la tendenza a fare quello che gli veniva in mente senza dirlo a nessuno... una tendenza che innervosiva i suoi superiori. Ma riusciva sempre a cavarsela. Aveva sempre la risposta pronta per trarsi d'impaccio. All'aeroporto, quando andava a prendere o ad accompagnare qualcuno, riusciva invariabilmente a superare le barriere degli ingressi riservati ai passeggeri, anche se non aveva mai un biglietto o un passaporto da mostrare. Coburn lo conosceva bene, e lo trovava simpatico: lo aveva invitato a casa sua a cena parecchie volte. E si fidava completamente di lui, soprattutto dopo lo sciopero, quando Rashid era stato uno dei suoi informatori tra i dipendenti iraniani ostili. Ma Simons non era disposto a fidarsi di Rashid sulla parola di Coburn. Come aveva insistito per incontrarsi con Keane Taylor prima di metterlo a parte del segreto, adesso voleva parlare con Rashid. Coburn combinò l'appuntamento. Quando Rashid aveva otto anni, sognava di diventare presidente degli Stati Uniti. A ventitré anni sapeva che non lo sarebbe diventato, ma voleva ancora andare in America, e l'EDS sarebbe stata il suo biglietto d'ingresso. Sapeva di avere la stoffa dell'uomo d'affari. Era uno studioso della psicologia u-
mana, e non aveva impiegato molto tempo per capire la mentalità di quelli dell'EDS. Volevano risultati, non giustificazioni. Se ti assegnavano un compito, era meglio fare sempre un po' più di ciò che si aspettavano da te. Se per qualche ragione era un compito difficile o addirittura impossibile, era opportuno non dirlo: a loro non piaceva sentire la gente che piagnucolava sui problemi. Non dovevi mai dire: «Questo non posso farlo perché...». Dicevi: «Questo è ciò che ho fatto finora, e questo è il problema al quale sto lavorando adesso...». Era una mentalità che a Rashid andava bene. Si era reso utile all'EDS, e sapeva che la società l'apprezzava. Il suo grande successo era stata l'installazione dei terminal dei computer negli uffici dove il personale iraniano era sospettoso e ostile. La resistenza era così forte che Pat Sculley non era riuscito a installarne più di due al mese: Rashid aveva installato in due mesi gli altri diciotto. E aveva tutte le intenzioni di sfruttare quel risultato. Aveva preparato una lettera per Ross Perot, il capo supremo dell'EDS, chiedendo il permesso di completare l'addestramento a Dallas. Aveva pensato di chiedere a tutti i dirigenti dell'EDS a Teheran di firmare la lettera; ma poi gli avvenimenti l'avevano travolto, quasi tutti i dirigenti erano sfollati e la società, lì in Iran, stava andando a pezzi. Rashid non aveva mai spedito la lettera. Quindi avrebbe escogitato qualcos'altro. Riusciva sempre a trovare il sistema. Per Rashid niente era impossibile. Era capace di tutto. Era persino riuscito a farsi congedare dall'esercito. Mentre migliaia di giovani iraniani del ceto medio pagavano somme ingenti per ungere le ruote e ottenere l'esenzione dal servizio militare, Rashid, dopo qualche settimana in uniforme, aveva convinto i medici che lui era affetto da tic incurabili. I camerati e gli ufficiali che lo conoscevano sapevano che godeva d'una salute di ferro, ma ogni volta che vedeva il medico era assalito da tic e fremiti irrefrenabili. Si era presentato alle commissioni mediche e aveva fatto la scena per ore... una faticaccia tremenda, aveva scoperto. Alla fine, i medici avevano confermato che era malato, e lui aveva ottenuto il congedo. Era pazzesco, ridicolo, impossibile... ma a fare l'impossibile Rashid c'era abituato. Perciò sapeva che sarebbe andato in America. Non sapeva come, ma i piani meticolosi e dettagliati non rientravano nel suo stile. Era un improvvisatore, un opportunista. L'occasione sarebbe venuta e l'avrebbe afferrata al volo. Il signor Simons gli sembrava un tipo interessante. Era diverso dagli altri dirigenti dell'EDS. Quelli erano tutti fra i trenta e i cinquant'anni, ma Si-
mon era più vicino alla sessantina. Con quei capelli lunghi, i baffi bianchi e il grosso naso sembrava più iraniano che americano. E infine, non diceva chiaro quello che aveva in mente. I tipi come Sculley e Coburn dicevano: «La situazione è questa, e questo è ciò che lei deve fare, e dovrà farlo entro domattina...». Simons disse soltanto: «Andiamo a fare due passi». Si aggirarono per le vie di Teheran. Rashid si ritrovò a parlare della famiglia, del suo lavoro all'EDS e delle sue idee sulla psicologia umana. Sentivano sparare di continuo, e le strade brulicavano di gente che marciava e cantava. Dovunque si vedevano i relitti delle battaglie passate, macchine rovesciate ed edifici bruciati. «I marxisti distruggono le automobili di lusso e i musulmani sfasciano i negozi di liquori» spiegò Rashid a Simons. «E perché?» chiese Simons. «Per gli iraniani è venuto il momento di affermarsi, di realizzare le loro idee e conquistare la libertà.» Arrivarono in piazza Gasr, davanti al carcere. Rashid disse: «In quelle prigioni ci sono molti iraniani che chiedevano solo la libertà». Simons indicò la folla delle donne in chador. «Che cosa stanno facendo?» «I mariti e i figli sono stati imprigionati ingiustamente, e perciò loro si radunano qui e piangono e gemono per chiedere alle guardie di lasciarli andare.» Simons disse: «Ecco, anch'io provo per Paul e Bill, più o meno, ciò che quelle donne provano per i loro uomini». «Sì. Anch'io sono molto preoccupato per Paul e Bill.» «Ma cosa sta facendo per loro?» chiese Simons. Rashid era sorpreso. «Faccio tutto il possibile per aiutare i miei amici americani» disse. Pensò ai cani e ai gatti. Al momento, uno dei suoi compiti era prendersi cura degli animali domestici abbandonati da quelli dell'EDS... inclusi quattro cani è dodici gatti. Rashid non aveva mai avuto animali e non sapeva come comportarsi con i cani più grossi e aggressivi. Ogni volta che entrava nell'appartamento dov'erano radunati i cani per dar loro da mangiare, doveva ingaggiare per strada due o tre uomini perché lo aiutassero a tenerli a bada. Per due volte li aveva portati nelle gabbie fino all'aeroporto, quando aveva sentito dire che c'era in partenza un aereo che li avrebbe accettati; ma entrambe le volte il volo era stato annullato. Pensò di raccontarlo a Simons, ma capiva che Simons non ne sarebbe rimasto molto impressionato.
Simons aveva in mente qualcosa, si disse Rashid, e non si trattava d'una questione di lavoro. Gli sembrava un uomo esperto... bastava guardarlo in faccia per capirlo. Rashid non credeva nell'esperienza. Credeva nell'istruzione rapida; nella rivoluzione, non nell'evoluzione. Preferiva le scorciatoie, gli sviluppi accelerati, le soluzioni estemporanee. Simons era diverso. Era un uomo paziente e Rashid - analizzando la sua psicologia - intuiva che quella pazienza nasceva da una volontà molto forte. Quando sarà pronto, pensò Rashid, mi farà sapere che cosa vuole da me. «Conosce la rivoluzione francese?» chiese Simons. «Un po'.» «Questa fortezza mi ricorda la Bastiglia... un simbolo dell'oppressione.» Era un paragone calzante, pensò Rashid. Simons continuò: «I rivoluzionari francesi assalirono la Bastiglia e liberarono tutti i prigionieri». «Immagino che anche qui accadrà lo stesso. O almeno è possibile.» Simons annuì. «Se dovesse accadere, dovrebbe esserci qualcuno per occuparsi di Paul e Bill.» «Sì.» Quel qualcuno sarò io, pensò Rashid. Si fermarono in piazza Gasr, guardando i muri altissimi e le porte enormi e le donne gementi avvolte nelle vesti nere. Rashid rammentò il suo principio: Fai sempre qualcosa di più di quello che ti chiede l'EDS. E se le folle dei dimostranti avessero ignorato il carcere di Gasr? Forse doveva fare in modo che non l'ignorassero. Le folle erano formate da gente come lui... giovani iraniani scontenti che volevano cambiare la propria vita. Lui avrebbe potuto non soltanto unirsi alla folla, ma guidarla. Avrebbe potuto guidare un assalto alla prigione. Lui, Rashid, avrebbe potuto liberare Paul e Bill. Non c'era nulla d'impossibile. A questo punto, Coburn non sapeva tutto ciò che passava per la mente di Simons. Non aveva assistito agli incontri che Simons aveva avuto con Perot e Rashid, e il colonnello non gli aveva detto molto in proposito. A quanto ne sapeva lui, le tre possibilità - l'evasione nel portabagagli d'una macchina, la fuga nel caso degli arresti domiciliari e la presa della Bastiglia - gli sembravano piuttosto vaghe. Inoltre, Simons non faceva nulla per realizzarle; sembrava che si accontentasse di starsene tranquillo in casa Dvoranchik a discutere piani sempre più particolareggiati. Ma tutto ciò non preoccupava affatto Coburn. Era ottimista per natura; e anche lui, co-
me Ross Perot, si rendeva conto che era inutile cercare di leggere nel pensiero del maggior esperto del mondo in operazioni di salvataggio. Mentre le tre possibilità bollivano a fuoco lento, Simons si concentrava sui percorsi per uscire dall'Iran, il problema che Coburn, tra sé, chiamava semplicemente "squagliarsela". Coburn cercò i possibili modi per far uscire Paul e Bill dall'Iran in aereo. Curiosò nei magazzini merci all'aeroporto, divertendosi con l'idea di spedire Paul e Bill come merce. Parlò con gente di tutte le linee aeree, cercando di stabilire contatti utili. Ebbe diversi incontri con il capo del servizio di sicurezza della Pan Am, e gli disse tutto tranne i nomi di Paul e di Bill. Discussero la possibilità di far partire i due evasi con un volo regolare, facendo indossare loro uniformi della Pan Am. Il capo del servizio di sicurezza era disposto ad aiutare, ma alla fine la situazione delicata della linea aerea si rivelò come un problema insuperabile. Poi Coburn prese in considerazione il furto di un elicottero. Fece una ricognizione in una base a sud della capitale, e concluse che il furto era possibile. Ma dato il caos che regnava nelle forze armate iraniane, sospettava che gli apparecchi non venissero sottoposti regolarmente a revisione e manutenzione, e sapeva che scarseggiavano i pezzi di ricambio. E poteva darsi che qualcuno avesse nel serbatoio carburante adulterato. Riferì tutto a Simons. Simons era già prevenuto nei confronti degli aeroporti, e gli inconvenienti scoperti da Coburn rafforzarono i suoi pregiudizi. Intorno agli aeroporti c'erano sempre poliziotti e militari; se qualcosa fosse andato storto sarebbe stato impossibile fuggire... gli aeroporti erano studiati apposta per impedire che la gente andasse dove non doveva; in un aeroporto dovevi sempre metterti nelle mani di altri. Inoltre, in quella situazione, il peggior nemico poteva essere la persona che doveva fuggire: era necessario che fosse molto lucido e freddo. Coburn pensava che Paul e Bill fossero all'altezza; ma era inutile dirlo a Simons. Il colonnello voleva sempre valutare personalmente il carattere di un uomo e non aveva mai incontrato Paul e Bill. E così, alla fine, la squadra considerò la possibilità di una fuga via terra. C'erano sei percorsi possibili. A nord c'era l'Unione Sovietica, e non era un paese ospitale. A est c'erano l'Afghanistan, altrettanto inospitale, e il Pakistan, il cui confine era troppo lontano... quasi milleseicento chilometri di deserto. A sud c'era il golfo Persico, con un paese amico, il Kuwait, a duecentoquaranta chilometri di distanza, al di là del mare. Questo sembrava promettente. A ovest c'e-
ra l'Iraq, ma era ostile; a nord-ovest un altro paese amico, la Turchia. Il Kuwait e la Turchia erano le destinazioni preferibili. Simons chiese a Coburn di incaricare un dipendente iraniano fidato di andare in macchina a sud fino al Golfo Persico, per accertare se le strade erano transitabili e il territorio tranquillo. Coburn si rivolse al Motociclista, così chiamato perché sfrecciava come un fulmine per Teheran in sella a una moto. Il Motociclista, che aveva seguito il corso di specializzazione come Rashid, aveva venticinque anni, era basso e sapeva destreggiarsi alla perfezione nel traffico. Aveva imparato l'inglese a scuola in California, e sapeva parlarlo con qualunque accento regionale americano... meridionale, portoricano e così via. L'EDS l'aveva assunto sebbene non avesse una laurea perché aveva ottenuto un punteggio straordinariamente alto nei test attitudinali. Quando i dipendenti iraniani si erano associati allo sciopero generale e Paul e Coburn avevano indetto una riunione per discuterne con loro, il Motociclista aveva sbalordito tutti scagliandosi con veemenza contro i colleghi e schierandosi in favore della direzione. Non faceva mistero dei suoi sentimenti filoamericani, tuttavia Coburn era certo che avesse rapporti con i rivoluzionari. Un giorno, il Motociclista aveva chiesto una macchina a Keane Taylor. Taylor gliel'aveva data. Il giorno dopo ne aveva chiesta un'altra. Taylor l'aveva accontentato. Il Motociclista, comunque, usava sempre la sua moto; Taylor e Coburn erano sicuri che quelle macchine fossero per i rivoluzionari. A loro non interessava: era più importante che il Motociclista si sentisse debitore nei loro confronti. Quindi, in cambio dei favori ricevuti, il Motociclista raggiunse in macchina il Golfo Persico. Ritornò qualche giorno dopo e riferì che tutto era possibile, se si aveva abbastanza denaro. Si poteva arrivare al Golfo e si poteva acquistare o noleggiare un'imbarcazione. Però non sapeva che cosa poteva accadere quando si sbarcava nel Kuwait. La risposta a questo interrogativo la diede Glenn Jackson. Oltre a essere battista e cacciatore, Glenn Jackson era anche un Uomo dei Razzi. La sua ottima conoscenza della matematica e la capacità di conservare la calma in situazioni di grande tensione avevano contribuito a farlo diventare controllore di volo al Centro Spaziale della NASA a Houston. Jackson aveva avuto il compito di progettare e seguire i programmi dei computer che calcolavano le traiettorie per le manovre nei voli di ritorno
alla Terra. L'imperturbabilità di Jackson era stata messa a dura prova il giorno di Natale del 1968, durante l'ultima missione per la quale aveva lavorato, la circumnavigazione della Luna. Quando la navicella spaziale era rispuntata dietro la Luna, l'astronauta Jim Lovell aveva letto l'elenco dei numeri chiamati residui - che indicavano a Jackson il divario tra la rotta prestabilita e quella effettiva. Jackson s'era preso uno spavento atroce: i numeri erano molto al di fuori dei margini d'errore ammissibili. Jackson aveva detto al CAPCOM di chiedere all'astronauta di rileggerli ancora, per poter controllare. Poi aveva detto al direttore del volo che se quei numeri erano esatti i tre astronauti erano spacciati, perché non avevano carburante sufficiente per correggere un divario così considerevole. Jackson aveva fatto chiedere a Lovell di rileggere i numeri per la terza volta, con attenzione estrema. Erano sempre gli stessi. Poi Lovell aveva detto: «Oh, un momento, ho sbagliato a leggerli...». Quando erano arrivati i numeri esatti; era risultato che la manovra era stata pressoché perfetta. Questo genere di attività era ben diverso dalla prospettiva di assaltare un carcere. Comunque, a quanto sembrava, Jackson non avrebbe mai avuto l'occasione di farlo veramente. Era a Parigi a non far nulla per una settimana quando ricevette da Simons, via Dallas, l'ordine di andare nel Kuwait. Raggiunse il Kuwait in aereo e si stabilì in casa di Bob Young. Young era andato a Teheran per collaborare con la squadra dei negoziatori, e la moglie Kris e il bimbo nato da poco erano in vacanza negli Stati Uniti. Jackson raccontò a Malloy Jones, che fungeva da direttore nazionale durante l'assenza di Young, d'essere venuto per collaborare a uno studio preliminare affidato all'EDS dalla banca centrale del Kuwait. Lavorò un poco per dare credibilità a quel pretesto e poi incominciò a guardarsi intorno. Trascorse diverso tempo all'aeroporto a osservare il comportamento dei funzionari dell'immigrazione. Ben presto scoprì che erano inflessibili. Arrivavano nel Kuwait centinaia di iraniani senza passaporto, e venivano ammanettati e rimandati indietro con il primo volo. Jackson concluse Che Paul e Bill non potevano arrivare nel Kuwait in aereo. E se fossero arrivati per mare, più tardi sarebbero stati autorizzati a lasciare il paese senza passaporto? Jackson andò a trovare il console americano, disse che forse uno dei suoi figli aveva perso il passaporto, e chiese qual era la procedura per sostituirlo. Durante una lunga discussione ricca
di divagazioni il console rivelò che prima di concedere il visto d'uscita i funzionari del Kuwait si assicuravano che l'interessato fosse entrato nel paese in modo regolare. Era un problema, ma forse non insolubile: arrivati nel Kuwait, Paul e Bill sarebbero stati al sicuro da Dadgar, e senza dubbio l'ambasciata americana avrebbe restituito i loro passaporti. L'interrogativo più importante era un altro: ammettendo che gli evasi riuscissero a raggiungere la costa meridionale dell'Iran e a salire su un'imbarcazione, avrebbero potuto sbarcare inosservati nel Kuwait? Jackson batté scrupolosamente i cento chilometri della costa, dal confine iracheno al nord fino a quello con l'Arabia Saudita al sud. Trascorse ore ed ore sulla spiaggia, raccogliendo conchiglie. Normalmente, gli avevano detto, il servizio dei guardacoste non era molto zelante. Ma l'esodo dall'Iran aveva cambiato tutto. C'erano migliaia e migliaia d'iraniani che volevano lasciare il paese non meno di quanto lo desiderassero Paul e Bill; e come aveva fatto Simons, quegli iraniani guardavano le carte geografiche e vedevano che a sud c'erano il Golfo Persico e il Kuwait. La guardia costiera del Kuwait lo sapeva benissimo. Dovunque Jackson guardasse, scòrgeva al largo almeno una motovedetta di ronda: e a quanto pareva fermavano tutte le piccole imbarcazioni. La prognosi era infausta. Jackson chiamò Merv Stauffer a Dallas e riferì che non c'era neppure da pensare di passare per il Kuwait, Restava la Turchia. Simons aveva sempre dato la preferenza alla Turchia. Oltre a tutto era più vicina del Kuwait. Inoltre, lui conosceva la Turchia. Negli anni Cinquanta vi aveva prestato servizio nel quadro del programma degli aiuti militari americani, addestrando l'esercito turco. E parlava discretamente la lingua. Mandò Ralph Boulware a Istanbul. Ralph Boulware era cresciuto nei bar. Suo padre, Benjamin Russel Boulware, era un negro duro e indipendente, che aveva una serie di piccoli commerci: una drogheria, alcune case, contrabbando e soprattutto bar. In fatto di pedagogia, la teoria di Ben Boulware era che se lui sapeva dov'erano i figli sapeva anche quel che facevano, e perciò li teneva quasi sempre sott'occhio, nel bar. Non era un'infanzia ideale, e Ralph aveva la sensazione di non essere mai stato bambino. S'era accorto d'essere diverso dagli altri ragazzi della sua età quando era
andato all'università e aveva visto i suoi coetanei eccitatissimi al pensiero di giocare d'azzardo, bere e andare a donne. Lui sapeva già tutto sui giocatori d'azzardo, sugli ubriachi e sulle prostitute. Ralph aveva abbandonato gli studi ed era entrato nell'aeronautica militare. Nei nove anni trascorsi nell'aeronautica militare non era mai stato in azione e, sebbene nel complesso la cosa non lo addolorasse affatto, si chiedeva se aveva il fegato necessario per combattere. Aveva pensato che il salvataggio di Paul e Bill poteva dargli il modo di scoprirlo, invece Simons l'aveva rispedito da Parigi a Dallas. A quanto sembrava, era destinato a restare a terra ancora una volta. Poi arrivarono i nuovi ordini. Arrivarono tramite Merv Stauffer, il braccio destro di Perot, che adesso fungeva da ufficiale di collegamento tra Simons e i membri della squadra di salvataggio sparsi qua e là per il mondo. Stauffer andò al Radio Shack e acquistò sei ricetrasmittenti a cinque canali, una scorta di batterie e un trasformatore per far funzionare le radio per mezzo degli accendini delle macchine. Consegnò l'equipaggiamento a Boulware e gli disse di portarlo a Sculley e Schwebach a Londra, prima di proseguire per Istanbul. Stauffer gli affidò anche quarantamila dollari in contanti per le spese e per ungere le ruote. La sera prima della partenza di Boulware, sua moglie incominciò a protestare per questioni di denaro. Ralph aveva prelevato mille dollari dalla banca senza dirle nulla, per andare a Parigi, e lei aveva scoperto che sul conto restava ben poco. Boulware non voleva spiegarle perché aveva prelevato quella somma e come l'aveva spesa; e Mary insisteva che aveva bisogno di denaro. Boulware non era molto preoccupato: lei era ospite di una famiglia di vecchi amici e non le sarebbe mancato nulla. Ma Mary non si rassegnò e - come succedeva spesso quando si ostinava davvero - lui decise di accontentarla. Andò in camera da letto dove aveva lasciato la scatola con le sei radio e i quarantamila dollari e ne prese cinquecento. Mary entrò mentre li stava contando e vide il contenuto della scatola. Boulware le diede i cinquecento dollari e chiese: «Ti bastano?». «Sì.» disse lei. Guardò la scatola e poi guardò il marito. «Non faccio domande» disse, e uscì. L'indomani Boulware partì. A Londra s'incontrò con Schwebach e Sculley, consegnò loro cinque ricetrasmittenti, ne tenne una e proseguì in volo per Istanbul. Dall'aeroporto andò direttamente all'ufficio del signor Fish, l'agente di
viaggi. Il signor Fish lo ricevette in un grande ufficio dove c'erano altre tre o quattro persone. «Sono Ralph Boulware e lavoro per l'EDS» esordì Boulware. «Credo che lei conosca le mie figlie, Stacey Elaine e Kecia Nicole.» Le bambine avevano giocato con le figlie del signor Fish durante il breve soggiorno degli sfollati a Istanbul. Il signor Fish rimase piuttosto freddo. «Devo parlarle» continuò Boulware. «Benissimo, parli pure.» Boulware si guardò intorno. «Voglio parlarle a quattr'occhi.» «Perché?» «Lo capirà quando le parlerò.» «Questi sono i miei soci. Noi non abbiamo segreti.» Il signor Fish faceva il duro. Boulware credeva di sapere il perché. Le ragioni erano due. Innanzi tutto, dopo che il signor Fish si era tanto prodigato durante l'evacuazione, Don Norsworthy gli aveva dato una mancia di 150 dollari, una somma irrisoria, secondo Boulware. («Non sapevo cosa fare» aveva detto Norsworthy. «Quello aveva presentato un conto di ventiseimila dollari. Che cosa dovevo dargli... il dieci per cento?») In secondo luogo, Pat Sculley si era rivolto al signor Fish raccontandogli una frottola incredibile sulla necessità di far entrare di nascosto in Iran certi nastri per i computer. Il signor Fish non era né uno stupido né un delinquente, e ovviamente aveva rifiutato di occuparsi del piano di Sculley. E adesso il signor Fish pensava che quelli dell'EDS fossero: a) tirchi e b) trasgressori delle leggi a un livello pericolosamente dilettantesco. Ma il signor Fish era un piccolo uomo d'affari. Boulware capiva molto bene la mentalità dei piccoli uomini d'affari... lo era stato anche suo padre. C'erano due lingue che capivano alla perfezione: i discorsi chiari e il denaro contante. Il denaro contante avrebbe risolto il problema a), e i discorsi chiari il problema b). «Bene, allora ricominciamo daccapo» disse Boulware. «Quando sono stati qui quelli dell'EDS lei li ha aiutati, ha trattato bene i bambini e ha fatto tanto per noi. Alla partenza c'è stata un po' di confusione per quanto riguardava il modo di dimostrarle la nostra gratitudine. Ci dispiace moltissimo, e sono venuto anche per regolare questa faccenda.» «Non ha importanza...» «Voglia scusarci» disse Boulware, e porse al signor Fish mille dollari in
biglietti da cento. Nell'ufficio scese un gran silenzio. «Bene, prenderò alloggio allo Sheraton» disse Boulware. «Forse più tardi potremo parlare.» «L'accompagno» disse il signor Fish. Accompagnò Boulware allo Sheraton, si assicurò che avesse un'ottima stanza e poi promise di cenare con lui in albergo quella sera. Il signor Fish era un trafficone d'alta classe, pensò Boulware mentre apriva le valigie. Doveva essere abile, se aveva un'azienda molto prospera in un paese poverissimo. L'esperienza degli sfollati dimostrava che era capace di fare ben altro che procurare biglietti d'aereo e prenotare stanze d'albergo. Era ben ammanigliato con la burocrazia, come dimostrava il modo in cui aveva fatto passare i bagagli di tutti quanti attraverso la dogana. E aveva aiutato a risolvere il problema del piccolo iraniano adottato e privo di passaporto. L'EDS aveva commesso l'errore di capire che era un trafficone e di trascurare il fatto che era d'alta classe... probabilmente era un abbaglio dovuto al suo aspetto: era piuttosto grasso e vestiva in modo modesto. Boulware, facendo tesoro degli errori passati, credeva di potersi destreggiare con il signor Fish. Quella sera a cena gli disse che voleva recarsi al confine turco-iraniano ad attendere certe persone. Il signor Fish inorridì. «Ma non capisce?» disse. «È una zona terribile. Là sono tutti curdi e azerbagiani... montanari selvaggi. Se ne infischiano del governo. Sa di cosa vivono lassù? Di contrabbando, rapine e omicidi. Personalmente, io non avrei il coraggio di andarci. Se ci va lei che è americano, non tornerà vivo.» Boulware pensò che probabilmente esagerava. «Devo andarci, anche se è pericoloso» rispose. «Senta, posso acquistare un piccolo aereo?» Il signor Fish scosse il capo. «In Turchia i privati non possono avere aerei. È vietato.» «Un elicottero?» «È vietato.» «Posso almeno noleggiare un aereo?» «È possibile. Quando non ci sono voli regolari, può noleggiarlo.» «Ci sono voli regolari per la zona del confine?» «No.» «Benissimo.» «Ma noleggiare un aereo è un fatto tanto insolito che sicuramente attire-
rà l'attenzione delle autorità...» «Non intendiamo fare niente di illecito. Comunque preferiremmo non avere fastidi. Quindi, prendiamo in considerazione l'eventualità del noleggio. Si informi sui prezzi e sulle disponibilità, ma non faccia prenotazioni. Nel frattempo, voglio saperne di più sulla possibilità di arrivare da quelle parti per via terra. Se non se la sente di accompagnarmi, sta bene; ma forse potrebbe trovare qualcuno disposto a farlo.» «Vedrò che cosa posso fare.» Nei giorni seguenti s'incontrarono molte altre volte. La freddezza iniziale del signor Fish s'era dileguata, e Boulware sentiva che stavano diventando amici. Il signor Fish era sveglio ed efficiente. Sebbene non fosse un criminale, sarebbe stato disposto a trasgredire la legge se i rischi e le ricompense erano proporzionati, pensava Boulware. E Boulware lo capiva bene: anche lui avrebbe trasgredito la legge, se le circostanze l'avessero richiesto. Inoltre il signor Fish era molto abile nel far parlare la gente, e a poco a poco Boulware gli raccontò tutta la storia. Ammise che Paul e Bill, probabilmente, non avrebbero avuto i passaporti; ma quando fossero arrivati in Turchia se ne sarebbero fatti rilasciare altri nuovi dal consolato americano più vicino. Avrebbero potuto incontrare difficoltà nell'uscire dall'Iran, disse, e voleva tenersi pronto ad attraversare il confine, magari con un piccolo aereo, per portarli via. Tutto questo sgomentava il signor Fish assai meno dell'idea di viaggiare in un territorio infestato dai banditi. Ma qualche giorno dopo presentò Boulware a un uomo imparentato con alcuni banditi delle montagne. Il signor Fish bisbigliò che era un delinquente, e senza dubbio ne aveva tutta l'aria: aveva la faccia sfregiata da una cicatrice e un paio d'occhietti porcini. Disse che poteva garantire a Boulware di portarlo sano e salvo fino al confine e ritorno; e i suoi parenti avrebbero potuto addirittura condurlo oltre la frontiera iraniana, se fosse stato necessario. Boulware chiamò Dallas e riferì il piano a Merv Stauffer. Stauffer girò la notizia a Coburn in codice; e Coburn lo disse a Simons. Simons mise il veto. Se quell'uomo era un delinquente, osservò, non potevano fidarsi. Boulware era irritato. S'era dato da fare per combinare tutto... Simons credeva che fosse facile pescare tipi simili? E se si vuole viaggiare in un territorio infestato dai banditi, da chi ci si può far scortare, se non da un bandito? Ma il capo era Simons, e Boulware non poté far altro che dire al signor Fish di ricominciare dal principio. Nel frattempo, Sculley e Schwebach arrivarono a Istanbul.
I due erano a bordo di un aereo che andava da Londra a Teheran via Copenhagen quando gli iraniani avevano chiuso di nuovo il loro aeroporto, e perciò raggiunsero Boulware sul Bosforo. Chiusi in albergo in attesa che succedesse qualcosa di nuovo, tutti e tre smaniavano. Schwebach recuperò i suoi atteggiamenti da Berretto Verde e cercò di costringerli a tenersi in forma salendo e scendendo di corsa le scale dell'albergo. Boulware lo fece una volta sola, poi rinunciò. Incominciarono a spazientirsi con Simons, Coburn e Poché, che sembrava stessero a Teheran a rigirarsi i pollici: perché non facevano qualcosa? Poi Simons rispedì Sculley e Schwebach negli Stati Uniti. Lasciarono a Boulware le radio. Al signor Fish venne un accidenti quando vide le ricetrasmittenti. Disse a Boulware che in Turchia erano vietatissime. Persino le comuni radioline a transistor dovevano venire registrate ufficialmente, per paura che i pezzi potessero essere utilizzati per fabbricare ricetrasmittenti per i terroristi. «Ma non capisce che dà nell'occhio?» disse a Boulware. «Fa telefonate per un paio di migliaia di dollari la settimana, e paga in contanti. Non tratta affari. Sicuramente le cameriere avranno visto le radio e ne avranno parlato. A quest'ora, sono certo, è sotto sorveglianza. Non pensi ai suoi amici in Iran... sarà lei che finirà in galera.» Boulware accettò di sbarazzarsi delle radio. La pazienza apparentemente inesauribile di Simons era un disastro: ogni ritardo causava nuovi problemi. Sculley e Schwebach non potevano tornare in Iran, e nessuno aveva le ricetrasmittenti. E Simons continuava a dire di no a tutto. Il signor Fish aveva detto che c'erano due posti di frontiera, tra l'Iran e la Turchia, uno a Sero e l'altro a Barzagan. Simons aveva scelto Sero. Barzagan era una cittadina più grande e più civile, aveva fatto notare il signor Fish: lì tutti sarebbero stati più al sicuro. Simons disse di no. Fu scovata una nuova guida per accompagnare Boulware al confine. Il signor Fish aveva un collega il cui cognato faceva parte del Milli Istihbarat Teskilati, o MIT, l'equivalente turco della CIA. L'agente si chiamava Ilsman. Le sue credenziali avrebbero assicurato a Boulware la protezione dell'esercito nel territorio infestato dai banditi. Senza quelle credenziali, disse il signor Fish, il comune cittadino correva pericoli non solo da parte dei banditi, ma anche dell'esercito turco. Il signor Fish era agitatissimo. Quando condusse Boulware all'appuntamento con Ilsman prese tutte le precauzioni di rito tipiche del romanzo di spionaggio - cambiando macchina e usando un autobus per una parte del tragitto, come se dovessero liberarsi d'un pedinamento. Boulware non ne
capiva il motivo, se andavano veramente a trovare un onesto cittadino che lavorava nei servizi segreti. Ma Boulware era straniero in terra straniera, e non poteva far altro che affidarsi al signor Fish. Arrivarono a un grande caseggiato malconcio in un quartiere della città che Boulware non conosceva. Mancava l'energia elettrica - come a Teheran! - e quindi il signor Fish impiegò un po' di tempo per trovare al buio l'appartamento giusto. All'inizio nessuno rispose. A questo punto tutte le precauzioni di segretezza andarono a rotoli, perché fu costretto a bussare furiosamente alla porta molto a lungo, e gli altri inquilini del caseggiato ebbero tutto il tempo di venire a vedere i visitatori. Boulware stava lì e si sentiva come un bianco in piena Harlem. Finalmente una donna aprì la porta ed entrarono. Era un appartamentino modesto, stipato di vecchi mobili e illuminato fiocamente da un paio di candele. Ilsman era un uomo basso, della stessa età di Boulware, trentacinque anni, e così grasso che probabilmente non riusciva a vedersi i piedi ormai da parecchio tempo. A Boulware ricordava il classico sergente della polizia dei film, grasso, con l'abito troppo stretto, la camicia macchiata di sudore e la cravatta gualcita avvolta intorno a quello che avrebbe dovuto essere il collo... se il collo ci fosse stato. Sedettero. La donna, che doveva essere la signora Ilsman, portò il tè... proprio come a Teheran! Boulware spiegò il suo problema, e il signor Fish tradusse. Usman era sospettoso. Fece molte domande a Boulware sul conto dei due americani fuggiaschi. Come poteva essere certo che fossero innocenti? Perché non avevano il passaporto? Con che mezzo sarebbero entrati in Turchia? Alla fine parve convincersi che Boulware era sincero, e si offrì di far arrivare Paul e Bill dal confine a Istanbul per ottomila dollari tutto compreso. Boulware si chiese se Ilsman era veramente ciò che sembrava. Far entrare clandestinamente due americani in Turchia sembrava un passatempo piuttosto strano per un agente dei servizi segreti. E se Ilsman era davvero del MIT, chi era mai la persona che, secondo il signor Fish, poteva aver seguito lui e Boulware attraverso la città? Forse Ilsman era il tipo che ogni tanto faceva qualche lavoretto in proprio. Ottomila dollari erano una grossa somma, in Turchia. Era addirittura possibile che Ilsman raccontasse ai suoi superiori quello che aveva intenzione di fare. Dopotutto poteva pensare che, se quanto gli aveva raccontato Boulware era vero, non ci sarebbe stato nulla di male a dare una mano; e se Boulware mentiva, il sistema migliore per scoprire le sue vere intenzio-
ni era quello di accompagnarlo al confine. Comunque, a questo punto Ilsman sembrava quanto di meglio poteva trovare Boulware. Boulware accettò il prezzo e Ilsman stappò una bottiglia di scotch. Mentre gli altri componenti della squadra di salvataggio si davano da fare in varie parti del mondo, Simons e Coburn stavano andando in macchina da Teheran al confine con la Turchia. Per Simons una ricognizione era indispensabile, e voleva conoscere centimetro per centimetro la via di fuga prima di percorrerla con Paul e Bill. C'erano scontri in quella parte dell'Iran? La presenza della polizia era notevole? Le strade erano transitabili durante l'inverno? I distributori di benzina erano aperti? Per la precisione c'erano due percorsi per raggiungere Sero, il posto di frontiera che aveva scelto. (Preferiva Sero perché era poco usato, in un minuscolo villaggio; quindi non c'era molta gente e il confine doveva essere poco sorvegliato, mentre Barzagan - l'alternativa consigliata dal signor Fish - sarebbe stata più affollata.) La città più vicina a Sero era Rezaiyeh. Sul percorso da Teheran a Rezaiyeh si estendeva il lago di Rezaiyeh, lungo centossessanta chilometri: era necessario costeggiarlo, a nord o a sud. Il percorso a nord attraversava centri più grandi e doveva avere strade migliori. Perciò Simons avrebbe dato la preferenza al percorso a sud, purché le strade fossero transitabili. Durante il viaggio di ricognizione, decise, avrebbero esplorato entrambe le strade, quella a nord all'andata e quella a sud al ritorno. Poi stabilì che la macchina ideale per quel viaggio sarebbe stata una Range Rover, una via di mezzo tra una jeep e una familiare. A Teheran non erano rimaste aperte né concessionarie né rivendite di macchine usate, quindi Coburn diede al Motociclista l'incarico di procurare due Range Rover. La soluzione trovata dal Motociclista fu tipicamente ingegnosa. Fece stampare un volantino con il suo numero di telefono e questo messaggio: "Se volete vendere la vostra Range Rover, chiamatemi". Poi se ne andò in giro con la sua moto, infilando un volantino sotto il tergicristallo di tutte le Range Rover che vedeva parcheggiate per la strada. Trovò due Range Rover per 20.000 dollari l'una, e provvide anche ad acquistare i ferri e i pezzi di ricambio per quasi tutte le eventuali riparazioni. Simons e Coburn condussero con loro due iraniani: Majid e un suo cugi-
no, professore alla facoltà di agraria dell'università di Rezaiyeh. Il professore era venuto a Teheran per imbarcare la moglie americana e i figli su un aereo in partenza per gli Stati Uniti: riaccompagnarlo a Rezaiyeh era la scusa ufficiale del viaggio. Partirono da Teheran la mattina presto, portando a bordo uno dei bidoni di benzina da duecento litri forniti da Keane Taylor. Per i primi centosessanta chilometri, fino a Qazvin, c'era un'autostrada moderna. Dopo Qazvin diventava una comune strada asfaltata a due corsie. Le colline intorno erano ammantate di neve, ma la strada era sgombra. Se è tutta così fino al confine, pensò Coburn, lo raggiungeremo in un giorno. Si fermarono a Zanjan, a trecentoventi chilometri da Teheran e alla stessa distanza da Rezaiyeh, e parlarono con il capo della polizia che era parente del professore. (Coburn non riusciva a capire le complicate parentele degli iraniani: sembrava che usassero il termine "cugino" con una certa larghezza.) Quella zona era tranquilla, disse il capo della polizia: gli eventuali problemi avrebbero potuto trovarli dalle parti di Tabriz. Proseguirono nel pomeriggio, percorrendo strade di campagna strette ma piuttosto buone. Dopo altri centossessanta chilometri entrarono in Tabriz. C'era una dimostrazione, ma era ben diversa dagli scontri che erano abituati a vedere a Teheran, e si sentirono abbastanza sicuri per fare due passi nel bazar. Lungo il tragitto Simons aveva parlato con Majid e il professore. Sembrava una conversazione casuale, ma ormai Coburn conosceva bene la tecnica del colonnello, e sapeva che stava sondando quei due per decidere se poteva fidarsi di loro. Fino a quel momento la prognosi sembrava favorevole, perché Simons incominciò a lasciar cadere qualche accenno circa il vero scopo del viaggio. Il professore disse che nelle campagne intorno a Tabriz gli abitanti erano fedeli allo scià; e prima di proseguire Simons piazzò una foto dello scià sul parabrezza. Il primo preannuncio di guai lo ebbero pochi chilometri a nord di Tabriz, dove furono fermati da un posto di blocco. Era una faccenda molto dilettantesca, due tronchi d'albero sistemati attraverso la strada in modo che le macchine potessero passare ma fossero costrette a rallentare. Era sorvegliato da contadini armati di scuri e di bastoni. Majid e il professore parlarono con loro. Il professore mostrò la tessera dell'università e disse che gli americani erano scienziati venuti per aiutarlo in una ricerca. Era evidente, pensò Coburn, che la squadra di salvataggio
avrebbe dovuto portarsi dietro qualche iraniano quando avrebbe rifatto lo stesso percorso con Paul e Bill, per risolvere eventuali situazioni del genere. I contadini li lasciarono passare. Un po' più avanti, Majid si fermò e fermò una macchina che stava arrivando dalla direzione opposta. Il professore parlò per qualche minuto con il guidatore, poi riferì che la prossima cittadina, Khoy, era ostile allo scià. Simons tolse la foto dello scià dal parabrezza e la sostituì con quella dell'ayatollah Khomeini. Da quel momento, fermarono regolarmente le macchine che venivano loro incontro e cambiarono le fotografie secondo gli umori politici locali. Alla periferia di Khoy c'era un altro posto di blocco. Era improvvisato come il primo, e sorvegliato da civili; ma questa volta gli uomini e i ragazzi cenciosi che stavano dietro i tronchi impugnavano armi da fuoco. Majid fermò la Range Rover e tutti scesero. Con immenso orrore di Coburn, un ragazzo gli puntò contro una pistola. Coburn si sentì agghiacciare. Era una pistola Llama da 9 mm. Il ragazzo doveva avere sedici anni. Probabilmente non aveva mai mangeggiato un'arma da fuoco prima di quel giorno, pensò Coburn. E i dilettanti armati di pistola erano pericolosi. Il ragazzo stringeva l'arma tanto convulsamente che aveva le nocche sbiancate. Coburn ebbe paura. Nel Vietnam gli avevano sparato contro parecchie volte, ma adesso lo spaventava la possibilità di venire ucciso accidentalmente. «Ruski» disse il ragazzo. «Ruski.» Crede che sia un russo, pensò Coburn. Forse a causa dell'ispida barba rossa e bel berretto di lana nera. «No, americano» disse. Il ragazzo continuò a tenerlo sotto tiro. Coburn fissò quelle nocche sbiancate e pensò: Spero solo che quel piccolo teppista non sternutisca. I contadini perquisirono Simons, Majid e il professore. Coburn, che non riusciva a distogliere gli occhi dal ragazzo, sentì Majid dire: «Cercano le armi». L'unica arma che avevano era un coltello che Coburn portava in un fodero dietro la schiena, sotto la camicia. Un contadino incominciò a perquisire anche lui, e finalmente il ragazzo
abbassò la pistola. Coburn riprese a respirare. Poi si chiese cosa sarebbe successo quando avessero trovato il coltello. La perquisizione non fu meticolosa, e il coltello non venne scoperto. Alla fine credettero alla storia della ricerca scientifica. «Si scusano per aver perquisito un vecchio» disse Majid. Il "vecchio" era Simons, che sembrava davvero un anziano contadino iraniano. «Possiamo proseguire» soggiunse Majid. Risalirono in macchina. Nelle immediate vicinanze di Khoy svoltarono verso sud, aggirando l'estremità del lago, e proseguirono lungo la riva ovest fino a raggiungere la periferia di Rezaiyeh. Il professore li fece entrare in città per strade secondarie, e non incontrarono posti di blocco. Il viaggio da Teheran era durato dodici ore, e adesso si trovavano a un'ora di distanza dal posto di frontiera di Sero. Quella sera cenarono - chella kebab, il tradizionale piatto iraniano di riso e agnello - con il padrone di casa del professore, che era un funzionario della dogana. Majid lo sondò abilmente, e venne a sapere che a Sero c'era sempre poco traffico. Passarono la notte in casa del professore, una villa a due piani alla periferia della città. La mattina dopo, Majid e il professore andarono in macchina fino alla frontiera e ritornarono. Riferirono che non c'erano posti di blocco e che la strada era sicura. Poi Majid andò in città a cercare qualcuno che poteva vendergli armi da fuoco, e Simons e Coburn andarono al confine. Trovarono un piccolo posto di frontiera con due sole guardie. C'era un magazzino della dogana, una pesa per i camion e una guardiola. La strada era sbarrata da una catena tesa tra un palo e il muro della guardiola; oltre la catena si estendeva un tratto di terra di nessuno, per circa duecento metri, e poi c'era un altro posto di frontiera ancora più piccolo dalla parte turca. Scesero dalla macchina per guardarsi intorno. L'aria era pura e fredda. Simons indicò il fianco della collina. «Vede quelle tracce?» Coburn guardò. Sulla neve, dietro il posto di confine, c'erano tracce lasciate da una piccola carovana che era passata sfacciatamente in Turchia sotto il naso delle guardie. Simons indicò in alto. «È facile isolarli.» Coburn alzò gli occhi e vide un unico cavo del telefono che scendeva dalla guardiola verso valle. Un colpo di tronchesine e le guardie sarebbero rimaste isolate.
Scesero a piedi la collina e si avviarono lungo una strada secondaria, una specie di sentiero che si addentrava tra i monti. Dopo un chilometro e mezzo o poco più arrivarono a un piccolissimo villaggio, una dozzina di case di legno o d'argilla. In turco stentato, Simons chiese del capo. Comparve un uomo di mezza età, con i calzoni ampi, il panciotto e una specie di turbante. Coburn ascoltò il dialogo senza capire una parola. Finalmente Simons strinse la mano al capo e se ne andarono. «Cosa gli ha detto?» chiese Coburn mentre si allontanavano. «Che volevo attraversare il confine a cavallo, di notte, con alcuni amici.» «E lui cos'ha risposto?» «Che può pensarci lui.» «Ma come sapeva che gli abitanti di quel villaggio sono contrabbandieri?» «Si guardi intorno» disse Simons. Coburn girò gli occhi sui pendii nudi e ammantati di neve. «Cosa vede?» chiese Simons. «Niente.» «Appunto. Qui non c'è né agricoltura né industria. Come crede che faccia a vivere questa gente? Sono tutti contrabbandieri.» Ritornarono alla Range Rover e rientrarono a Rezaiyeh. Quella sera Simons spiegò a Coburn il suo piano. Simons, Coburn, Poché, Paul e Bill sarebbero andati da Teheran a Rezaiyeh con le due Range Rover. Avrebbero condotto con loro Majid e il professore perché facessero da interpreti. A Rezaiyeh si sarebbero fermati nella villa del professore. Era il posto ideale; non ci abitava nessun altro, era lontana dalle altre case, e di lì passavano strade deserte che portavano lontano dalla città. Da Teheran a Rezaiyeh avrebbero viaggiato disarmati; a giudicare da quello che era accaduto al posto di blocco, così avrebbero evitato guai. Ma a Rezaiyeh avrebbero acquistato armi da fuoco. Majid conosceva qualcuno, in città, che avrebbe venduto loro fucili da caccia Browning calibro 12 per seimila dollari l'uno. E lo stesso individuo poteva fornire anche pistole Llama. Coburn avrebbe varcato il confine apertamente e regolarmente con una delle Range Rover e dalla parte turca si sarebbe incontrato con Boulware, il quale avrebbe portato un'altra macchina. Simons, Poché, Paul e Bill sarebbero passati a cavallo con i contrabbandieri. (Era per questo che avevano bisogno delle armi: per non correre il rischio che i contrabbandieri de-
cidessero di "perderli" tra le montagne.) Oltre la frontiera avrebbero trovato Coburn e Boulware. Tutti insieme avrebbero raggiunto il consolato americano più vicino e si sarebbero procurati passaporti nuovi per Paul e Bill. E poi avrebbero preso il volo per Dallas. Era un ottimo piano, pensò Coburn; ora capiva che Simons aveva ragione di preferire Sero a Barzagan, perché sarebbe stato difficile passare clandestinamente il confine in una zona più popolata e più civile. L'indomani ritornarono a Teheran. Partirono tardi e fecero gran parte del viaggio di notte, per arrivare alla mattina dopo la fine del coprifuoco. Seguirono il percorso a sud, e attraversarono la cittadina di Mahabad. Ma strada era una pista sterrata tra le montagne, e le condizioni meteorologiche erano terribili: neve, ghiaccio, vento. Ma la strada era transitabile, e Simons decise di scegliere quella, anziché quella a nord, per la fuga vera e propria. Se mai fosse venuto quel momento. Una sera Coburn andò all'Hyatt e disse a Keane Taylor che aveva bisogno di venticinquemila dollari in rial iraniani per la mattina seguente. Non spiegò il perché. Taylor si fece dare da Gayden venticinquemila dollari in biglietti da cento poi telefonò a un commerciante di tappeti che conosceva e si accordò per il cambio. L'autista di Taylor, Ali, non era entusiasta dell'idea di portarlo nella parte sud della città, soprattutto di sera, ma finì per rassegnarsi. Andarono al negozio. Taylor sedette e prese il tè con il mercante. Entrarono altri due iraniani: uno fu presentato come l'uomo che avrebbe cambiato i dollari di Taylor; l'altro era la sua guardia del corpo, e aveva l'aria del delinquente. Dopo la telefonata di Taylor, spiegò il mercante di tappeti, il tasso di scambio era mutato parecchio... a tutto favore del mercante. «È un insulto!» ribatté rabbiosamente Taylor. «Non voglio saperne!» «È il miglior cambio che riuscirà a ottenere» disse il mercante di tappeti. «Al diavolo!» «È molto pericoloso venire in questa zona della città con tanto denaro addosso.» «Non sono solo» disse Taylor. «Fuori ci sono sei uomini che mi aspettano.» Finì il tè e si alzò. Uscì a passo lento dal negozio e saltò in macchina.
«Ali, andiamocene in fretta.» Puntarono verso la parte nord della città. Taylor si fece portare da un altro mercante di tappeti, un ebreo iraniano che aveva il negozio nei pressi del palazzo imperiale. Il mercante stava per chiudere quando Taylor entrò. «Ho bisogno di cambiare in rial una certa quantità di dollari» disse Taylor. «Torni domani.» «No. Ne ho bisogno questa notte.» «Quanto?» «Venticinquemila dollari.» «Ma io non ho una somma simile!» «Mi serve assolutamente questa notte.» «Perché?» «Per via di Paul e Bill.» Il mercante annuì. Aveva fatto parecchi affari con quelli dell'EDS e sapeva che Paul e Bill erano in carcere. «Vedrò che cosa posso fare.» Chiamò il fratello che era nel retrobottega e lo mandò via. Poi aprì la cassaforte e tirò fuori tutti i rial che aveva. Incominciarono a contare: il mercante contava i dollari e Taylor i rial. Pochi minuti dopo arrivò un ragazzo con le mani piene di rial e li rovesciò sul banco, quindi uscì senza dire una parola. Taylor comprese che il mercante di tappeti aveva mandato il fratello a procurare tutto il contante che poteva trovare. Arrivò un giovane in motoscooter, ed entrò con una borsa piena di rial. Mentre era nel negozio, qualcuno rubò lo scooter parcheggiato davanti alla porta. Il giovane mollò la borsa e rincorse il ladro urlando come un pazzo. Taylor continuò a contare. Era un'altra giornata normale nella Teheran rivoluzionaria. John Howell stava cambiando. Ogni giorno che passava era sempre meno un onesto avvocato americano e sempre più un insinuante negoziatore persiano. In particolare, incominciava a vedere le bustarelle sotto una luce diversa. Mehdi, un ragioniere iraniano che aveva lavorato varie volte per l'EDS, gli aveva spiegato: «In Iran molte cose si ottengono per amicizia. Ci sono molti modi per diventare amici di Dadgar. Io mi metterei seduto tutti i giorni davanti a casa sua fino a quando si decidesse a rivolgermi la parola. Un altro sistema per diventare suo amico sarebbe offrirgli duecentomila dollari. Se vuole, posso provvedere io».
Howell discusse la proposta con gli altri della squadra dei negoziatori. Era evidente che Mehdi si offriva come intermediario, come aveva fatto Gola Profonda. Ma questa volta Howell era meno deciso a rifiutare l'idea di ricorrere alla corruzione per liberare Paul e Bill. Si accordarono per dare corda a Mehdi. Avrebbero potuto scoprire il gioco e screditare Dadgar. Oppure avrebbero potuto concludere che l'accordo era valido e pagare. In ogni caso, volevano che Dadgar si sbilanciasse e lasciasse capire che era corruttibile. Howell e Keane Taylor ebbero diversi incontri con Mehdi. Il ragioniere era nervoso quanto lo era stato Gola Profonda, e non voleva che quelli dell'EDS andassero nel suo ufficio durante il normale orario di lavoro. Li incontrava sempre al mattino presto o alla sera tardi, in casa sua o in qualche vicoletto. Howell cominciò a insistere per avere un segnale inequivocabile: Dadgar doveva presentarsi a un incontro con i calzini spaiati o con la cravatta a rovescio. Mehdi proponeva segnali più ambigui: per esempio, Dadgar si sarebbe comportato più duramente del solito con gli americani. Una volta Dadgar lo fece, come aveva predetto Mehdi; ma forse sarebbe andata così in ogni caso. Dadgar non era il solo che dava filo da torcere a Howell. Howell telefonava ad Angela ogni quattro o cinque giorni, e lei voleva sapere quando sarebbe tornato a casa. Lui non era in grado di dirlo. Paul e Bill, logicamente, insistevano per avere notizie precise, ma i suoi progressi erano così lenti e indefinibili che non poteva dir loro nulla di sicuro. Era frustrante; e quando Angela cominciava a fargli domande, stentava a dominare l'irritazione. L'iniziativa di Mehdi andò a finire in niente. Mehdi presentò Howell a un avvocato che affermava d'essere amico intimo di Dadgar. L'avvocato non voleva bustarelle, ma solo il normale onorario. L'EDS gli affidò l'incarico; ma durante l'incontro successivo Dadgar dichiarò: «Non c'è nessuno che abbia rapporti speciali con me. Se qualcuno cerca di convincerla che le cose stanno diversamente, non gli creda». Howell non sapeva cosa pensare. Non c'era mai stato niente da fare fin dall'inizio? Oppure la prudenza dell'EDS aveva spaventato Dadgar, inducendolo a rinunciare all'idea di chiedere una bustarella? Non sarebbe mai riuscito a scoprirlo. Il 30 gennaio Dadgar disse a Howell che voleva saperne di più sul conto di Abolfath Mahvi, il socio iraniano dell'EDS. Howell incominciò a preparare un dossier sui rapporti tra l'EDS e Mahvi.
Howell non credeva che Paul e Bill fossero semplicemente ostaggi commerciali. Era possibile che le indagini di Dadgar sulla corruzione fossero autentiche e fondate; ma ormai sapeva che Paul e Bill erano innocenti, e quindi se li teneva in carcere lo faceva per ordini dall'alto. All'inizio, gli iraniani avevano mirato a ottenere il promesso sistema assistenziale computerizzato o la restituzione del denaro. Dare loro il sistema significava rinegoziare il contratto... ma al nuovo governo non interessava affatto rinegoziarlo, e comunque era improbabile che restasse al potere abbastanza a lungo per tradurre in atto un eventuale accordo. Se non era possibile corrompere Dadgar, convincerlo dell'innocenza di Paul e Bill, né fargli dare dai superiori l'ordine di rilasciarli in base a un nuovo contratto tra l'EDS e il ministero, a Howell restava un'unica possibilità: pagare la cauzione. Gli sforzi del dottor Houman per ottenere una riduzione non erano serviti a nulla. Adesso Howell stava cercando il modo di trasferire tredici milioni di dollari da Dallas a Teheran. Era venuto a sapere, a poco a poco, che a Teheran c'era una squadra di salvataggio dell'EDS. Lo stupiva molto l'idea che il massimo dirigente di una grande società americana avesse messo in moto un meccanismo di quel genere. Ma si sentiva anche rassicurato perché, se lui fosse riuscito a tirar fuori dal carcere Paul e Bill, ci sarebbe stato qualcuno pronto a portarli fuori dall'Iran. Liz Coburn era fuori di sé per la preoccupazione. Era in macchina con Toni Dvoranchik e il marito di Toni, Bill, e stavano andando al ristorante Royal Tokyo. Si trovava in Greenville Avenue non lontano dal Recipes, il locale dove Liz e Toni avevano bevuto un daiquiri in compagnia di Mary Sculley e Mary aveva distrutto il mondo di Liz con poche parole: «Credo che siano tutti a Teheran». Da quel momento Liz viveva nel terrore. Jay era tutto, per lei. Era Capitan America, era Superman, era tutta la sua vita. Non sapeva come avrebbe fatto a vivere senza di lui. Il pensiero di perderlo la spaventava a morte. Chiamava di continuo Teheran ma non riusciva mai a parlare con lui. Ogni giorno telefonava a Merv Stauffer e chiedeva: «Quando tornerà Jay? Sta bene? Ne uscirà vivo?». Merv cercava di tranquillizzarla, ma non voleva darle informazioni, e lei chiedeva di parlare con Ross Perot, e Merv rispondeva che non era possibile. Allora Liz telefonava alla madre, scoppiava in lacrime e sfogava tutte le sue ansie e le paure e le frustrazioni.
I Dvoranchik erano gentili e premurosi. Cercavano di distrarla dalle preoccupazioni. «Cos'hai fatto di bello oggi?» chiese Toni. «Sono stata a fare acquisti» rispose Liz. «Che cos'hai comprato?» «Oh.» Liz scoppiò in pianto. «Ho comprato un abito nero. Perché Jay non tornerà più.» Durante quei giorni d'attesa, Jay Coburn imparò parecchie cose sul conto di Simons. Un giorno Merv Stauffer telefonò da Dallas e riferì che il figlio del colonnello, Harry, aveva chiamato allarmatissimo. Harry aveva telefonato a casa del padre, e aveva parlato con Paul Walker che mandava avanti l'allevamento. Walker aveva risposto che non sapeva dove fosse Simons, e aveva consigliato Harry di rivolgersi a Merv Stauffer all'EDS. Harry era logicamente preoccupato, disse Stauffer. Simons telefonò da Teheran al figlio e lo tranquillizzò. Simons disse a Coburn che Harry aveva avuto qualche problema, ma che in fondo era un buon ragazzo. Parlava del figlio in toni di affetto rassegnato. (Non nominava mai Bruce, e solo molto più tardi Coburn venne a sapere che il colonnello aveva due figli.) Simons parlava spesso della moglie morta, Lucille, e diceva che erano stati felici dopo che lui s'era messo in pensione. Erano stati molto vicini in quegli ultimi anni, e Simons sembrava rammaricarsi di aver lasciato trascorrere tanto tempo prima di capire quanto l'amava. «Si tenga ben stretta sua moglie» consigliava a Coburn. «È la persona più importante della sua vita.» Paradossalmente, il consiglio di Simons aveva su Coburn l'effetto contrario. Invidiava il legame che era esistito tra Simons e Lucille, ma era così sicuro che non sarebbe mai riuscito ad averlo con Liz che si domandava se per caso la sua vera anima gemella non era un'altra. Una sera Simons scoppiò a ridere e disse: «Sa, questo non lo farei per nessun altro». Era uno dei tipici commenti enigmatici di Simons. Qualche volta, come Coburn aveva scoperto, arrivava una spiegazione, e qualche volta no. In quell'occasione Coburn l'ebbe: Simons gli disse perché si sentiva in debito verso Ross Perot. Dopo l'incursione di Son Tay, Simons aveva vissuto un'esperienza ama-
ra. Sebbene la spedizione non fosse riuscita a liberare i prigionieri americani, era stata un tentativo coraggioso e Simons si aspettava che l'opinione pubblica americana lo capisse. In un incontro con il segretario alla Difesa, Melvin Laird, aveva anzi sostenuto che era opportuno darne notizia alla stampa. «È una operazione assolutamente lecita» aveva detto a Laird. «Sono prigionieri americani. E questo è quanto, per tradizione, gli americani fanno per gli americani. Cristo, ma di che cosa abbiamo paura?» Ben presto l'aveva scoperto. La stampa e l'opinione pubblica consideravano l'incursione come un fiasco, un altro pasticcio causato dai servizi segreti. Il giorno dopo la "Washington Post" sbandierava in prima pagina questo titolo: "Fallito un tentativo di liberare un gruppo di prigionieri". Quando il senatore Robert Dole aveva presentato una risoluzione che elogiava l'impresa e affermava «Alcuni di quegli uomini languono in un campo di prigionia da cinque anni» il senatore Kennedy aveva ribattuto: «E ci restano ancora». Simons si era recato alla Casa Bianca per ricevere un'alta decorazione, la Distinguished Service Cross, dalle mani del presidente Nixon. Gli altri partecipanti all'incursione dovevano essere decorati dal segretario alla Difesa, Laird. Simons si irritò quando seppe che più della metà dei suoi uomini non avrebbe ricevuto altro che l'Army Commendation Ribbon, un nastrino di scarso prestigio. Indignatissimo, prese il telefono e chiese del capo di Stato Maggiore dell'Esercito, il generale Westmoreland. Gli passarono il vice, il generale Palmer. Simons raccontò la faccenda e disse: «Generale, non voglio causare seccature all'esercito, ma è molto probabile che uno dei miei uomini cacci quella decorazione nel culo del signor Laird». La spuntò: Laird distribuì quattro DSC, cinquanta Stelle d'Argento e nessun nastrino. I prigionieri americani nel Vietnam si sentirono rincuorati dall'incursione di Son Tay, della quale ebbero notizia da altri compagni catturati di recente. Una conseguenza importante del tentativo fu che i campi di prigionia - dove molti militari americani erano stati tenuti in isolamento permanente - vennero chiusi, e tutti furono trasferiti in due grandi prigioni dove non c'era abbastanza spazio per tenerli separati. Tuttavia agli occhi del mondo l'impresa era stata un fallimento, e Simons pensava che quel giudizio fosse una grave ingiustizia nei confronti dei suoi uomini. Quell'ingiustizia lo aveva assillato per anni... fino a quando Ross Perot non aveva organizzato una colossale festa a San Francisco, convincendo l'esercito a stanare gli uomini di Son Tay che erano sparsi per tutto il mon-
do, e li aveva presentati agli ex prigionieri che loro avevano cercato di liberare. In quell'occasione, pensava Simons, i suoi uomini avevano finalmente ricevuto il ringraziamento meritato. E lo doveva a Ross Perot. «È per questo che sono qui» disse a Coburn. «Sicuro come l'inferno, non lo farei per nessun altro.» Coburn pensò a suo figlio Scott: capiva benissimo ciò che intendeva dire Simons. Il 22 gennaio centinaia di homafar - giovani ufficiali dell'aeronautica - si ammutinarono nelle basi di Dezful, Hamadan, Isfahan e Mashad, e giurarono fedeltà all'ayatollah Khomeini. Il significato di quell'avvenimento sfuggì al consigliere per la Sicurezza Nazionale Zbigniew Brzezinski, il quale credeva ancora che i militari iraniani avrebbero schiacciato la rivoluzione islamica; sfuggì al primo ministro Shahpour Bakhtiar, che parlava di reprimere la sfida dei rivoluzionari con un minimo ricorso alla forza; e sfuggì anche allo scià, che anziché recarsi negli Stati Uniti indugiava in Egitto, in attesa di essere richiamato per salvare il suo paese nell'ora del bisogno. Tra coloro che invece ne capirono il significato c'erano l'ambasciatore americano William Sullivan e il generale Abbas Gharabaghi, il capo di Stato Maggiore iraniano. Sullivan disse a Washington che l'idea di un contro-colpo di stato a favore dello scià era un'illusione, che la rivoluzione avrebbe trionfato e che gli Stati Uniti avrebbero fatto meglio a pensare a come sarebbero riusciti ad accordarsi con il nuovo regime. Ricevette dalla Casa Bianca una brusca risposta, nella quale gli si faceva capire tra le righe che il suo comportamento era sleale nei confronti del presidente. Decise di dare le dimissioni, ma la moglie Io dissuase, facendogli notare che aveva una responsabilità nei confronti delle migliaia di americani ancora in Iran, e che non poteva abbandolarli in un momento simile. Anche il generale Gharabaghi stava pensando di dimettersi. Si trovava in una situazione impossibile. Aveva giurato fedeltà non al parlamento o al governo dell'Iran, bensì allo scià personalmente; e lo scià se ne era andato. Per il momento Gharabaghi si aggrappava alla convinzione che i militari dovevano fedeltà alla Costituzione del 1906; ma in pratica questo voleva dire ben poco. In teoria i militari avrebbero dovuto sostenere il governo Bakhtiar. Da qualche settimana Gharabaghi si chiedeva se poteva sperare che i suoi soldati obbedissero agli ordini e si battessero per Bakhtiar contro
le forze rivoluzionarie. La rivolta degli homafar dimostrava che c'era poco da sperare. Diversamente da Brzezinski, si rendeva conto che un esercito non era una macchina da accendere e spegnere a volontà, ma una collettività di esseri umani che condividevano le aspirazioni, la rabbia e la religiosità fanatica del resto del paese. I soldati volevano la rivoluzione come la volevano i civili. Gharabaghi concluse che non poteva più controllare le sue truppe e si dimise. Il giorno in cui Gharabaghi annunciò la sua intenzione agli altri generali, l'ambasciatore Alexander Sullivan fu convocato nell'ufficio del primo ministro Bakhtiar, alle sei di sera. Sullivan aveva saputo, dal generale "Dutch" Huyser, che Gharabaghi aveva deciso di dimettersi, e pensava che Bakhtiar volesse parlargli di questo. Bakhtiar gli indicò di accomodarsi e disse con un sorriso enigmatico: "Nous serons trois". Saremo in tre. Bakhtiar parlava sempre in francese con Sullivan. Qualche minuto dopo entrò il generale Gharabaghi. Bakhtiar espose le difficoltà che sarebbero insorte se il generale si fosse dimesso. Gharabaghi incominciò a rispodere in Farsi, ma Bakhtiar l'invitò a parlare in francese. Mentre il generale parlava, giocherellava con qualcosa che sembrava una busta e che teneva in tasca; Sullivan immaginò che fosse la lettera di dimissioni. Mentre i due iraniani discutevano in francese, Bakhtiar si rivolgeva di continuo all'ambasciatore americano per chiedere il suo appoggio. Sullivan pensava che Gharabaghi avesse tutte le ragioni di dimettersi, ma la Casa Bianca gli aveva ordinato di adoperarsi per convincere i militari a sostenere' Bakhtiar; quindi dichiarò energicamente, contro le proprie convinzioni, che Gharabaghi non doveva dare le dimissioni. Dopo mezz'ora di discussioni, il generale se ne andò senza consegnare la lettera. Bakhtiar si profuse a ringraziare Sullivan per l'aiuto, ma l'ambasciatore sapeva che non sarebbe servito a nulla. Il 24 gennaio Bakhtiar chiuse l'aeroporto di Teheran per impedire a Khomeini di entrare in Iran. Era come aprire un ombrello per arrestare una mareggiata. Il 26 gennaio i soldati uccisero quindici dimostranti khomeinisti nel corso degli scontri per le vie di Teheran. Due giorni dopo Bakhtiar si offrì di andare a Parigi per parlare con l'ayatollah. Da parte d'un primo ministro in carica, offrirsi di andare a far visita a un ribelle in esilio era un'incredibile ammissione di debolezza; e come tale l'interpretò Khomeini, che rifiutò di incontrarlo se prima Bakhtiar non si fosse dimesso. Il 29
gennaio trentacinque persone morirono negli scontri a Teheran, e altre cinquanta nel resto del paese. Gharabaghi, scavalcando il primo ministro, incominciò a trattare con i ribelli a Teheran, e diede il suo assenso al ritorno dell'ayatollah. Il 30 gennaio Sullivan ordinò l'evacuazione di tutto il personale dell'ambasciata non assolutamente indispensabile e di tutti i familiari. Il 1° febbraio Khomeini rientrò in patria. Il jumbo dell'Air France atterrò alle 9 e 15 del mattino. Ad accoglierlo erano accorsi due milioni di iraniani. All'aeroporto l'ayatollah fece la prima dichiarazione pubblica: «Prego Dio di tagliare le mani a tutti gli stranieri malvagi e a tutti i loro collaborazionisti». Simons assistette alla scena trasmessa dalla televisione e disse a Coburn: «È fatta. Adesso ci penserà il popolo. I dimostranti espugneranno il carcere». IX A mezzogiorno del 5 febbraio John Howell era sul punto di ottenere la liberazione di Paul e Bill. Dadgar aveva detto che avrebbe accettato la cauzione in una di queste tre forme: contanti, la garanzia di una banca o un'ipoteca su qualche proprietà. Dei contanti non era neppure il caso di parlare. Innanzi tutto, se qualcuno fosse atterrato in quei giorni a Teheran con 12.750.000 dollari in una valigia non sarebbe arrivato vivo all'ufficio di Dadgar. (Tom Walter aveva proposto di usare banconote false, ma nessuno sapeva dove trovarle.) In secondo luogo, Dadgar era capacissimo di incassare il denaro senza mollare Paul e Bill, aumentando la cauzione o arrestandoli una seconda volta con un nuovo pretesto. Doveva esserci un documento che trasferisse il denaro a Dadgar e contemporaneamente desse la libertà a Paul e Bill. A Dallas, Tom Walter aveva finalmente scovato una banca disposta a emettere una lettera di credito per la cauzione, ma Howeil e Taylor stentavano a trovare una banca iraniana disposta ad accettarla e a fornire la garanzia richiesta da Dadgar. Nel contempo il principale di Howeil, Tom Luce, aveva pensato alla terza possibilità, una ipoteca, e se ne era venuto fuori con un'idea pazzesca che forse poteva funzionare: dare in pegno l'ambasciata americana a Teheran come garanzia della cauzione per Paul e Bill. Il Dipartimento di Stato stava allentando le redini, ma non era disposto a impegnare l'ambasciata a Teheran. Tuttavia, era pronto a dare la garanzia del governo degli Stati Uniti. E questo era un fatto senza precedenti: gli
Stati Uniti che garantivano la cauzione per due arrestati! A Dallas, Tom Walter incaricò una banca di emettere una lettera di credito per 12.750.000 dollari in favore del Dipartimento di Stato. Dato che la transazione aveva luogo interamente entro il territorio nazionale, fu risolta in poche ore. Quando il Dipartimento di Stato a Washington avesse ricevuto la lettera, il consigliere ministeriale Charles Naas - il vice di William Sullivan - avrebbe consegnato una nota diplomatica per affermare che Paul e Bill, una volta rilasciati, sarebbero rimasti a disposizione di Dadgar per gli interrogatori, altrimenti la cauzione sarebbe stata pagata dall'ambasciata stessa. E adesso Dadgar era in riunione con Lou Goelz, console generale all'ambasciata. Howell non era stato invitato ad assistere, ma per conto dell'EDS era presente Abolhasan. Howell aveva avuto un incontro preliminare con Goelz il giorno prima. Avevano esaminato insieme le clausole della garanzia, che Goelz aveva letto con quella sua voce tranquilla e meticolosa. Goelz era cambiato. Due mesi prima Howell l'aveva giudicato un burocrate meticoloso, era stato Goelz a rifiutare di rendere i passaporti a Paul e Bill senza informarne gli iraniani. Adesso sembrava disposto a tentare metodi meno convenzionali. Forse, vivendo in mezzo alla rivoluzione, era diventato un po' meno rigoroso. Goelz disse a Howell che la decisione di rilasciare Paul e Bill sarebbe stata presa dal primo ministro Bakhtiar, ma che prima era necessario chiarire le cose con Dadgar. Howell si augurava che Dadgar non sollevasse altre difficoltà, perché Goelz non era il tipo capace di battere i pugni sul tavolo e di costringere il magistrato a far marcia indietro. Bussarono alla porta. Entrò Abolhasan. A Howell bastò guardarlo in faccia per capire che portava brutte notizie. «Cos'è successo?» «Ha rifiutato» disse Abolhasan. «Ma perché?» «Non accetta la garanzia del governo degli Stati Uniti.» «Ha spiegato la ragione?» «La legge non stabilisce che può accettarla come cauzione. Vuole contanti, la garanzia d'una banca...» «O un'ipoteca su una proprietà, lo so.» Howell era stordito. C'erano state tante delusioni, tanti vicoli ciechi, che non aveva più l'energia di risentirsi o infuriarsi. «Gli ha detto del Primo ministro?»
«Sì. Goelz gli ha detto che avremmo sottoposto la proposta a Bakhtiar.» «E Dadgar cos'ha risposto?» «Che è tipico degli americani. Cercano di risolvere i problemi facendo pressioni ad alto livello, senza curarsi di quello che succede ai livelli più bassi. Ha aggiunto che se i suoi superiori non approvano il modo in cui si occupa del caso, possono sollevarlo dall'incarico e che questo lo renderebbe felice perché ne ha ormai abbastanza.» Howell aggrottò la fronte. Che cosa significava tutto questo? Aveva finito per concludere che in realtà gli iraniani volevano il denaro. Adesso il denaro veniva rifiutato seccamente. Questo avveniva perché la legge non includeva la garanzia di un governo tra le forme accettabili di cauzione... oppure era un pretesto? Forse era la verità. Il caso dell'EDS èra sempre stato politicamente delicato, e adesso che era rientrato l'ayatollah forse Dadgar aveva il terrore di compiere un passo che poteva essere interpretato come un favore agli americani. Accettando una forma di cauzione fuori dall'ordinario poteva mettersi nei guai. Cosa sarebbe accaduto se Howell fosse riuscito a versare la cauzione in modo regolamentare? Dadgar avrebbe pensato d'essersi coperto le spalle e si sarebbe deciso a rilasciare Paul e Bill? O avrebbe inventato un altro pretesto? C'era un unico sistema per scoprirlo. La settimana in cui l'ayatollah ritornò in Iran, Paul e Bill chiesero un prete. Il raffreddore di Paul si era trasformato in bronchite. Aveva chiesto di vedere il medico del carcere. Il dottore non parlava inglese, ma Paul non faticò a spiegare che cosa aveva: tossì, e il dottore annuì. Paul ricevette alcune compresse cne dovevano essere penicillina, e una bottiglia di sciroppo contro la tosse. Il sapore della medicina era familiare, e Paul rivide chiaramente se stesso bambino, mentre sua madre versava da una bottiglia lo sciroppo denso in un cucchiaio e glielo faceva inghiottire. Era esattamente la stessa roba. Servì ad alleviare la tosse, ma ormai questa aveva causato qualche lesione ai muscoli del torace, e Paul accusava un dolore acuto ogni volta che respirava profondamente. Aveva ricevuto da Ruthie una lettera che non si stancava mai di rileggere. Era una lettera normalissima. Karen andava in una scuola nuova e stentava un po' ad abituarsi. Questo era normale; ogni volta che cambiava scuola, Karen aveva mal di stomaco per i primi due o tre giorni. Ann Marie, la figlia minore, se la prendeva assai meno. Ruthie continuava ancora a
ripetere a sua madre che Paul sarebbe tornato a casa entro un paio di settimane, ma ormai erano due mesi che lo sosteneva, e non era più molto credibile. Stava acquistando una casa, e Tom Walter l'aiutava a sbrigare le pratiche legali. Ruthie non parlava della propria angoscia. Keane Taylor era quello che veniva più spesso a trovarli in carcere. Ogni volta consegnava a Paul un pacchetto di sigarette nel quale aveva nascosto un biglietto da cinquanta o da cento dollari. Paul e Bill si servivano del denaro per pagarsi privilegi speciali, ad esempio fare il bagno. Durante una di quelle visite la guardia aveva lasciato per un momento il parlatorio, e Taylor ne aveva approfittato per consegnare quattromila dollari. Durante un'altra visita, Taylor portò con sé padre Williams. Williams era un religioso della Missione cattolica dove, in tempi più felici, Paul e Bill si erano incontrati con i loro amici della Scuola Cattolica Domenicale di Poker dell'EDS. Williams aveva ottant'anni, e i suoi superiori l'avevano autorizzato a lasciare Teheran in considerazione dei pericoli; ma aveva preferito restare al suo posto. Disse a Paul e Bill che per lui quel genere di situazione non era una novità; era stato missionario in Cina durante la Seconda guerra mondiale, quando i giapponesi avevano invaso il paese, e più tardi anche durante la rivoluzione che aveva portato al potere Mao Tse-tung. Lui stesso era stato imprigionato, e capiva benissimo ciò che passavano Paul e Bill. Padre Williams li tirò su di morale quasi quanto aveva fatto Ross Perot. Bill, che era più devoto di Paul, si sentì profondamente fortificato. Quella visita gli diede il coraggio di affrontare il futuro ignoto. Prima di andarsene, padre Williams li assolse dai loro peccati. Bill non sapeva se sarebbe uscito vivo dal carcere, ma adesso era pronto ad affrontare la morte. La rivoluzione scoppiò in Iran venerdì 9 febbraio 1979. In poco più di una settimana Khomeini aveva distrutto quel po' che restava del governo legittimo. Aveva ordinato ai militari di ammutinarsi e ai membri del parlamento di dimettersi. Aveva nominato un "governo provvisorio", nonostante ufficialmente Bakhtiar fosse ancora Primo ministro. I suoi seguaci, organizzati in comitati rivoluzionari, si erano assunti la responsabilità di far rispettare la legge e l'ordine e di raccogliere l'immondizia, e avevano aperto a Teheran più di cento cooperative islamiche. L'8 febbraio un milione di persone o forse più marciò attraverso la città per dare il suo appoggio all'ayatollah. Per le strade continuavano gli scontri tra unità sbandate di militari e gruppi di fedeli di Khomeini.
Il 9 febbraio, in due basi aeree di Teheran - Doshen Toppeh e Farahabad - formazioni di homafar e di cadetti resero omaggio a Khomeini. L'episodio provocò l'indignazione della Brigata Javadan, che era stata la guardia personale dello scià e che attaccò entrambe le basi. Gli homafar si barricarono e respinsero le truppe legittimiste con l'aiuto delle orde dei rivoluzionari armati che brulicavano dentro e fuori le basi stesse. Unità di fedayin marxisti e di mujahedin musulmani si precipitarono a Doshen Toppeh: s'impadronirono dell'armeria e distribuirono indiscriminatamente le armi un po' a tutti, - soldati, guerriglieri, rivoluzionari, dimostranti e passanti. Quella sera alle undici la Brigata Javadan ritornò in forze. I militari che simpatizzavano per Khomeini avvertirono i ribelli di Doshen Toppeh che la Brigata stava arrivando, e i ribelli contrattaccarono. Parecchi ufficiali superiori legittimisti furono uccisi nella fase iniziale dello scontro. Il combattimento continuò per tutta la notte, e dilagò in una vasta zona intorno alla base. Prima del mezzogiorno successivo, quasi tutta Teheran era un campo di battaglia. Quel giorno John Howell e Keane Taylor si recarono a una riunione. Howell era convinto che sarebbero riusciti a far rilasciare Paul e Bill entro poche ore. Erano pronti a pagare la cauzione. Tom Walter aveva trovato una banca texana disposta a emettere una lettera di credito per 12.750.000 dollari in favore della filiale newyorkese della banca Melli. Secondo gli accordi presi, la sede della stessa banca Melli a Teheran avrebbe fornito una garanzia al ministero della Giustizia, e Paul e Bill sarebbero stati rilasciati. Ma le cose non erano andate esattamente così. Il vicedirettore della Melli, Sadr-Hashemi, aveva capito che Paul e Bill erano tenuti in ostaggio e che, non appena fossero usciti dal carcere, l'EDS avrebbe potuto sostenere davanti a qualunque tribunale americano che quella somma era stata estorta e che quindi non doveva essere pagata. Se questo fosse avvenuto, a New York la banca Melli non avrebbe potuto incassare il denaro avvalendosi della lettera di credito, ma a Teheran sarebbe stata costretta a effettuare il versamento al ministero della Giustizia iraniano. Sadr-Hashemi aveva dichiarato che avrebbe cambiato idea solo se i suoi legali di New York gli avessero assicurato che l'ED non avrebbe potuto assolutamente bloccare il pagamento in base alla lettera di credito. E Howell sapeva che nessun avvocato americano onesto avrebbe fornito u-
n'assicurazione del genere. Poi Keane Taylor pensò alla banca Omran. L'EDS aveva un contratto per installare un sistema di contabilità computerizzato per quella banca, e il compito di Taylor a Teheran era stato appunto seguire gli adempimenti dell'accordo; quindi conosceva bene i dirigenti dell'Omran. S'incontrò con Farhad Bakthiar, uno dei personaggi di maggior rilievo, che oltre a tutto era anche parente del primo ministro Shahpour Bakhtiar. Ormai era evidente che il Primo ministro sarebbe caduto da un giorno all'altro, e Farhad si preparava a lasciare il paese. Forse era per questo che si preoccupava assai meno di Sadr-Hashemi dell'eventualità che i 12.750.000 dollari non venissero mai pagati. Comunque, quale che fosse la vera ragione, aveva accettato di collaborare. La banca Omran non aveva una filiale negli Stati Uniti. E allora come avrebbe fatto l'EDS a versare la somma? Venne deciso che la banca di Dallas avrebbe trasmesso la lettera alla filiale dell'Orman a Dubai mediante un sistema chiamato Tested Telex. Dubai avrebbe chiamato telefonicamente Teheran per confermare che la lettera di credito era arrivata; e la sede dell'Orman nella capitale iraniana avrebbe dato la garanzia al ministero della Giustizia. Vi furono vari ritardi. Era necessaria l'approvazione del consiglio d'amministrazione della banca Omran, e dei suoi legali. Ognuno dei personaggi che esaminava il documento suggeriva qualche piccola modifica nella formulazione. I cambiamenti, in inglese e in Farsi, dovevano venire comunicati a Dubai e a Dallas; poi un nuovo telex veniva inviato da Dallas a Dubai, e doveva essere confermato e approvato telefonicamente da Teheran. Dato che in Iran il weekend includeva il giovedì e il venerdì, c'erano tre soli giorni della settimana in cui erano aperte entrambe le banche; e dato che tra Teheran e Dallas c'era uno scarto di nove ore e mezzo, non c'era un solo momento della giornata in cui gli orari di lavoro coincidessero. Per giunta, le banche iraniane erano quasi sempre in sciopero. Quindi per poter modificare due parole ci voleva addirittura una settimana. L'approvazione finale doveva essere concessa dalla banca centrale iraniana. Ottenere quell'approvazione era il compito che Howell e Taylor si erano prefissi per sabato 10 febbraio. La capitale era relativamente tranquilla, alle 8 e 30, quando presero la macchina per andare alla banca Omran. S'incontrarono con Farhad Bakhtiar; e questi, con loro grande sorpresa, riferì che la richiesta d'approvazione era già arrivata alla banca centrale. Howell ne fu soddisfatto: una
volta tanto, in Iran qualcosa succedeva in anticipo sul previsto! Lasciò a Farhad alcuni documenti, inclusa una lettera d'intesa firmata; poi, sempre accompagnato da Taylor, si recò alla banca centrale. La città si stava svegliando, il traffico era ancora più caotico del solito, ma guidare pericolosamente era la specialità di Taylor, che sfrecciò per le vie facendo sorpassi irregolari, invertendo il senso di marcia nel bel mezzo delle superstrade e battendo i guidatori iraniani al loro stesso gioco d'indisciplina. Alla banca centrale attesero a lungo d'essere ricevuti dal signor Farhang, che doveva concedere l'approvazione. Finalmente questo personaggio si affacciò dalla porta del suo ufficio e comunicò che l'accordo era già stato approvato e l'approvazione era stata notificata alla banca Omran. Finalmente una buona notizia! Risalirono in macchina e tornarono alla banca Omran. Ma adesso c'erano gravi scontri in varie parti della città. Il crepitio delle sparatorie era incessante, e pennacchi di fumo s'innalzavano dagli edifici incendiati. La banca Omran era di fronte a un ospedale, e morti e feriti venivano portati dalle zone degli scontri a bordo di macchine, camioncini e autobus, che avevano uno straccio bianco legato all'antenna della radio per indicare l'emergenza e strombazzavano senza smettere un minuto. La strada era piena di gente: chi era venuto per donare il sangue, chi per visitare i malati, chi per identificare i morti... Avevano risolto appena in tempo il problema della cauzione. Non soltanto Paul e Bill, ma anche Howell, Taylor e tutti gli altri adesso erano in grave pericolo. Dovevano lasciare l'Iran al più presto. Howell e Taylor entrarono nella banca e cercarono Farhad. «La banca centrale ha approvato l'accordo» gli disse Howell. «Lo so.» «La lettera d'impegno va bene?» «Benissimo.» «Allora, se vuole consegnarci la garanzia, possiamo portarla immediatamente al ministero.» «Oggi no.» «Perché no?» «Il nostro legale, il dottor Emami, ha riesaminato il documento di credito e desidera apportare qualche piccolo ritocco.» Taylor borbottò: «Gesù Cristo». Farhad disse: «Io devo andare a Ginevra per cinque giorni».
Molto probabilmente ci sarebbe rimasto. «I miei colleghi si occuperanno del caso, e se avrete qualche problema, telefonatemi in Svizzera.» Howell stentò a dominare la collera. Farhad sapeva benissimo che le cose non erano tanto semplici; dopo la sua partenza tutto si sarebbe complicato. Ma era inutile fare una scenata, quindi Howell si limitò a chiedere: «Quali sarebbero i ritocchi?». Farhad chiamò il dottor Emami. «Inoltre, ho bisogno delle firme di altri due membri del consiglio d'amministrazione della banca» disse Farhad. «Potrò ottenerle alla riunione di domani. E devo controllare le referenze della National Bank of Commerce di Dallas.» «Quanto ci vorrà?» «Non molto. I miei collaboratori provvederanno durante la mia assenza.» Il dottor Emami mostrò a Howell i cambiamenti che intendeva apportare nella formulazione della lettera di credito. Howell li giudicò ragionevoli; ma la lettera modificata, adesso, doveva venire trasmessa da Dallas a Dubai per Tested Telex, e da Dubai a Teheran per telefono. «Senta» disse Howell, «cerchiamo di sbrigare tutto oggi stesso. Può controllare subito le referenze della banca di Dallas. Potremmo scovare gli altri due membri del consiglio d'amministrazione, dovunque siano, e ottenere le loro firme questo pomeriggio. Potremmo chiamare Dallas, comunicare le modifiche, e chiedere che mandino il telex immediatamente. Questo pomeriggio Dubai può dare la conferma. Voi potrete emettere la garanzia...» «Oggi a Dubai è festa» disse Farhad. «Sta bene, Dubai potrà confermare domattina...» «Domani c'è sciopero. Non verrà a lavorare nessuno.» «Allora lunedì...» Il dialogo fu interrotto dall'ululato d'una sirena. Una segretaria si affacciò nell'ufficio e disse qualcosa in Farsi. «È il coprifuoco anticipato» tradusse Farhad. «Dobbiamo andarcene tutti.» Howell e Taylor si guardarono in faccia. Dopo due minuti erano rimasti soli. Avevano fatto fiasco ancora una volta. Quella sera Simons disse a Coburn. «È per domani.» Coburn pensò che desse i numeri.
La mattina di domenica 11 febbraio la squadra dei negoziatori si recò come al solito nella sede dell'EDS, chiamata Bucarest. John Howell se ne andò in compagnia di Abolhasan, per incontrarsi alle undici con Dadgar al ministero della Sanità. Gli altri - Keane Taylor, Bill Gayden, Bob Young e Rich Gallagher - salirono sul tetto a guardare la città che bruciava. Il Bucarest non era una costruzione molto alta, ma era situato sul pendio di una delle colline nella parte settentrionale di Teheran, e dal tetto la città si vedeva benissimo. A sud e a est, dove i grattacieli moderni svettavano sopra le ville e le catapecchie, grandi nubi di fumo s'innalzavano nell'aria, mentre gli elicotteri armati ronzavano intorno agli incendi come vespe a un barbecue. Uno degli autisti iraniani dell'EDS portò sul tetto una radiolina a transistor e la sintonizzò su una stazione che era stata occupata dai rivoluzionari. Con l'aiuto della trasmissione e delle traduzioni dell'autista cercarono di identificare i palazzi che bruciavano. Keane Taylor, che aveva abbandonato gli eleganti abiti con gilè per i jeans e gli stivali da cowboy, scese per rispondere a una telefonata. Era il Motociclista. «Dovete andarvene» disse il Motociclista. «Lasciate il paese al più presto possibile.» «Sa bene che non possiamo» ribatté Taylor. «Non possiamo andarcene senza Paul e Bill.» «Per voi sarà molto pericoloso.» Taylor sentiva, attraverso il telefono, il chiasso di una tremenda battaglia. «Ma lei dove diavolo è?» «Vicino al bazar» rispose il Motociclista. «Sto preparando le bottiglie molotov. Questa mattina hanno fatto intervenire gli elicotteri e abbiamo appena trovato il modo di abbatterli. Abbiamo incendiato quattro carri armati...» La comunicazione s'interruppe. Incredibile, pensò Taylor mentre posava il ricevitore. In mezzo a una battaglia, ha pensato ai suoi amici americani e ha telefonato per avvertirmi. Gli iraniani non finiranno mai di stupirmi. Risalì sul tetto. «Guardi là» gli disse Bill Gayden. Anche il gioviale presidente dell'EDS World era passato all'abbigliamento più sportivo: nessuno, ormai, fingeva di occuparsi di affari. Indicò una colonna di fumo verso est. «Se quello non è il carcere di Gasr che sta bruciando, è meledettamente vicino.»
Taylor scrutò attentamente. A quella distanza era difficile capirlo. «Chiami l'ufficio di Dadgar al ministero della Sanità» disse Gayden a Taylor. «Howell dovrebbe essere arrivato. Gli dica di chiedere a Dadgar di affidare Paul e Bill alla custodia dell'ambasciata, per maggior sicurezza. Se non li tiriamo fuori in fretta moriranno carbonizzati.» John Howell non si aspettava che Dadgar si facesse vedere. La capitale era un campo di battaglia e un'indagine su un caso di corruzione avvenuto ai tempi dello scià sembrava ormai un esercizio accademico. Ma Dadgar era in ufficio e lo stava aspettando. Howell si chiese cosa diavolo motivasse quell'uomo. Il senso del dovere? L'odio per gli americani? La paura del governo rivoluzionario che avrebbe preso inevitabilmente il potere? Con ogni probabilità non l'avrebbe mai scoperto. Dadgar aveva chiesto a Howell quali erano stati i rapporti tra l'EDS e Abolfath Mahvi, e Howell aveva promesso un dossier completo. Sembrava che fossero informazioni importanti per i fini misteriosi del magistrato, perché qualche giorno dopo aveva insistito per avere il dossier dicendo: «Posso interrogare gli interessati qui e ottenere tutti i dettagli che mi servono». Howell l'aveva interpretata come una minaccia di fare arrestare altri dirigenti dell'EDS. Howell aveva preparato un dossier di dodici cartelle in inglese, con una lettera d'accompagnamento in Farsi. Dadgar lesse la lettera, poi parlò. Abolhasan tradusse: «La collaborazione della vostra società getta le basi per un cambiamento nella mia posizione nei confronti di Chiapparone e Gaylord. Il nostro codice prevede una particolare clemenza verso chi fornisce informazioni». Era una buffonata. Poteva darsi che entro poche ore venissero uccisi tutti, e Dadgar stava lì a parlare delle possibili applicazioni delle disposizioni del codice. Abolhasan incominciò a tradurre in Farsi il dossier, a voce alta. Howell sapeva che scegliere Mahvi come socio iraniano non era stata la cosa più intelligente che avesse fatto l'EDS: Mahvi aveva procurato alla società il primo, modesto contratto in Iran, ma in seguito era stato messo sulla lista nera per ordine dello scià e aveva causato grane per il contratto con il ministero della Sanità. L'EDS, comunque, non aveva nulla da nascondere. Anzi il principale di Howell, Tom Luce, ansioso di porre l'EDS al di sopra di ogni sospetto, aveva documentato i dettagli dei rapporti tra la società e Mahvi presso la Commissione di Scambio americana, e quasi tutto ciò che
figurava nel dossier era quindi di dominio pubblico. Lo squillo del telefono interruppe la traduzione. Dadgar prese il ricevitore e lo passò ad Abolhasan, che ascoltò per un momento e poi disse: «È Keane Taylor». Dopo un minuto riattaccò e disse a Howell: «Keane è salito sul tetto del Bucarest. Dice che ci sono incendi vicino al carcere di Gasr. Se la folla assalta la prigione, Paul e Bill potrebbero andarci di mezzo. Ci consiglia di chiedere a Dadgar di affidarli all'ambasciata americana». «Sta bene» disse Howell. «Glielo chieda.» Attese mentre Abolhasan e Dadgar parlavano in Farsi. Finalmente Abolhasan riferì: «Secondo le nostre leggi, devono essere detenuti in un carcere iraniano. Non può considerare come carcere iraniano l'ambasciata americana». Sempre più pazzesco. Il paese stava andando a pezzi, e Dadgar si ostinava ad attenersi ai regolamenti. Howell disse: «Gli chieda come intende garantire la sicurezza di due cittadini americani che non sono stati accusati di nessun reato». La risposta di Dadgar fu: «Non si preoccupi. Il peggio che possa capitare è che la prigione venga occupata dagli insorti». «E se la folla decidesse di attaccare gli americani?» «Probabilmente Chiapparone non correrà pericoli... può passare per un iraniano.» «Magnifico» disse Howell. «E Gaylord?» Dadgar alzò le spalle. Quella mattina Rashid uscì di casa presto. I suoi genitori, il fratello e la sorella avevano deciso di non muoversi per tutto il giorno e gli avevano consigliato di fare altrettanto, ma Rashid non li aveva ascoltati. Sapeva che uscire era pericoloso, ma non poteva nascondersi in casa mentre i suoi compatrioti cambiavano la storia. E non aveva dimenticato il suo colloquio con Simons. Si lasciava guidare dall'impulso. Venerdì si era trovato alla base aerea di Farahabad durante lo scontro tra gli homafar e la brigata Javadan. Senza una ragione speciale, era entrato nell'armeria e aveva incominciato a distribuire i fucili. Dopo mezz'ora si era stancato e se ne era andato. Quello stesso giorno aveva visto per la prima volta un morto. Era alla moschea quando avevano portato un autista d'autobus ucciso dai soldati. D'impulso, Rashid aveva scoperto il viso del morto. Una parte della testa
era sfracellata, un miscuglio di sangue e di materia cerebrale; era stata un'esperienza nauseante. Quell'episodio sembrava un monito, ma Rashid non era dell'umore più adatto per badare ai moniti. Per le strade stava succedendo di tutto, e lui doveva essere là. Quella mattina l'atmosfera era elettrica. C'era folla dovunque. Centinaia di uomini e di ragazzi imbracciavano i fucili automatici. Rashid, che portava un berretto all'inglese e una camicia dal collo aperto, si unì a loro, contagiato dall'esaltazione generale. Quel giorno poteva accadere qualunque cosa. Si stava dirigendo verso il Bucarest, più o meno. Aveva ancora un lavoro da fare: stava trattando con due spedizionieri per far trasportare negli Stati Uniti le suppellettili degli sfollati dell'EDs; e doveva dar da mangiare ai cani e ai gatti abbandonati. Le scene che vide per la strada gli fecero cambiare idea. Si diceva che quella notte fosse stato assaltato il carcere di Evin; quel giorno poteva toccare al carcere di Gasr, dove si trovavano Paul e Bill. Rashid si rammaricava di non avere un fucile automatico come gli altri. Passò davanti a un palazzo dell'esercito che, a quanto sembrava, era stato invaso dalla folla. Era un isolato a sei piani, che comprendeva un'armeria e l'ufficio leva. Rashid aveva un amico che lavorava lì, Malek. Pensò che Malek poteva essere nei guai. Se quella mattina era andato in ufficio, avrebbe indossato l'uniforme... e questo sarebbe bastato per farsi ammazzare. Potrei prestargli la mia camicia, pensò Rashid. Ed entrò impulsivamente nel palazzo. Si fece largo tra la folla al pianterreno e raggiunse la scala. Il resto dell'edificio sembrava vuoto. Mentre saliva, si chiese se c'erano militari nascosti ai piani superiori; se c'erano, probabilmente avrebbero sparato a chiunque tentasse di salire. Ma proseguì. Arrivò all'ultimo piano. Malek non c'era; non c'era nessuno. L'esercito aveva abbandonato il palazzo ai dimostranti. Rashid ridiscese al pianterreno. La folla s'era ammassata davanti all'entrata dell'armeria che si trovava nel seminterrato, ma nessuno si decideva a entrare. Rashid si fece largo e chiese: «La porta è chiusa?». «Potrebbe essere minata» disse qualcuno. Rashid guardò la porta. Ormai non pensava più ad andare al Bucarest. Voleva andare al carcere di Gasr, e voleva un fucile. «Non credo che l'armeria sia minata» disse, e aprì la porta. Scese la scala.
Nel seminterrato c'erano due stanzoni divisi da un'arcata, fiocamente rischiarati dalle strette finestre in alto, appena al di sopra del piano stradale. Il pavimento era piastrellato di nero. Nella prima stanza c'erano cassette aperte piene di caricatori. Nella seconda c'erano mitra G3. Dopo un minuto, la folla incominciò a seguirlo. Rashid arraffò tre mitra, un sacco di caricatori e se ne andò. Appena uscì dal palazzo, la gente lo circondò chiedendo armi: cedette due mitra e un po' di munizioni. Poi si avviò verso piazza Gasr. Una parte della folla lo seguì. Lungo il percorso dovevano passare davanti a una guarnigione militare. Era in corso una scaramuccia. Una porta d'acciaio nel muro della guarnigione era sfondata, come se ci fosse passato un carro armato, e i mattoni ai due lati dell'entrata erano divelti. Attraverso il varco c'era una macchina che bruciava. Rashid girò intorno alla macchina ed entrò. Si trovò in un vasto complesso. Dal punto dove era Rashid, un gruppo numeroso sparava a casaccio contro un edificio lontano circa duecento metri. Rashid si riparò dietro un muro. Quelli che l'avevano seguito parteciparono alla sparatoria, ma lui non li imitò. Nessuno si preoccupava di prendere la mira: stavano semplicemente cercando di spaventare i soldati che si trovavano nell'edificio. Era una battaglia stranissima. Rashid non aveva mai immaginato che la rivoluzione fosse così: una folla disorganizzata, armata di fucili che sapeva a malapena usare, e che si aggirava a caso una domenica mattina sparando ai muri e incontrando una fiacca resistenza da parte delle truppe invisibili. All'improvviso un uomo accanto a lui stramazzò, morto. Accadde così in fretta che Rashid non lo vide neppure cadere. Un attimo prima era a poco più d'un metro da lui e sparava; adesso era a terra con la testa sfracellata. Portarono fuori il cadavere. Qualcuno trovò una jeep. Caricarono il corpo e se ne andarono. Rashid ritornò sul luogo della scaramuccia. Dieci minuti più tardi, senza una ragione evidente, un pezzo di legno al quale era legata una canottiera bianca sventolò da una delle finestre dell'edificio contro il quale avevano sparato. I soldati si erano arresi. Così, semplicemente. Era una scena tutt'altro che sensazionale. Ecco la mia occasione, pensò Rashid.
Era facile manovrare la gente, quando si comprendeva la psicologia degli esseri umani. Bastava studiare gli altri, capire la loro situazione e intuire le loro aspirazioni. Costoro, pensò Rashid, vogliono emozioni, vogliono l'avventura. Per la prima volta in vita loro si ritrovano con le armi in pugno: hanno bisogno di un bersaglio, e qualunque cosa che simboleggi il regime dello scià gli andrà bene. Adesso se ne stavano tutti lì, domandandosi dove andare. «Ascoltate!» gridò Rashid. Lo ascoltarono... non avevano niente di meglio da fare. «Io vado al carcere di Gasr!» Qualcuno applaudì. «Là dentro ci sono i prigionieri del regime... se siamo contro il regime, dobbiamo liberarli!» Molti lanciarono grida di approvazione. Rashid si avviò. La folla lo seguì. Nello stato d'animo in cui si trovano, pensò, seguirebbero chiunque avesse l'aria di sapere dove andare. All'inizio aveva intorno un gruppetto di dodici o quindici uomini e ragazzi; ma lungo la strada le file si ingrossarono. Tutti quelli che non sapevano dove andare si accodavano automaticamente. Rashid era diventato un capo rivoluzionario. Non c'era niente d'impossibile. Si fermò poco prima di piazza Gasr e arringò il suo esercito. «Il popolo deve impadronirsi delle carceri, come delle stazioni di polizia e delle guarnigioni: questo è il nostro compito. Nel carcere di Gasr sono detenuti molti innocenti. Sono come noi... i nostri fratelli! Come noi, vogliono soltanto la libertà. Ma sono stati più coraggiosi di noi, perché loro hanno chiesto la libertà quando c'era ancora lo scià, e per questo sono stati imprigionati. Ora li faremo uscire!» Tutti applaudirono. Rashid ricordò una frase che aveva detto Simons. «Il carcere di Gasr è la nostra bastiglia!» Le acclamazioni crebbero d'intensità. Rashid si voltò e corse nella piazza. Si mise al riparo all'angolo della via di fronte all'enorme porta d'acciaio del carcere. Sulla piazza c'era già una folla piuttosto numerosa, e probabilmente la prigione sarebbe stata assaltata comunque, quel giorno, con o
senza il suo intervento. Ma l'importante era aiutare Paul e Bill. Alzò il fucile e sparò in aria. La folla sulla piazza si disperse, e incominciò la sparatoria. Anche in questo caso la resistenza fu fiacca. Alcune guàrdie spararono dalle torrette sull'alto del muro e dalle finestre accanto al portone. A quanto poté vedere Rashid, nessuno venne colpito. E ancora una volta la battaglia terminò in modo tutt'altro che clamoroso: le guardie scomparvero dalle mura e gli spari cessarono. Rashid attese un paio di minuti per assicurarsi che i militari se ne fossero andati veramente, poi attraversò correndo la piazza. La porta era chiusa. La folla si assiepò attorno a lui. Qualcuno sparò una raffica contro i battenti, sperando di far saltare le serrature. Rashid pensò: Quello ha visto troppi film western. Un altro portò un piede di porco, ma era impossibile scassinare la porta. Bisognerebbe trovare un po' di dinamite, pensò Rashid. Nel muro accanto all'ingresso c'era una finestrella sbarrata che permetteva alle guardie di vedere chi stava fuori. Rashid fracassò il vetro con il mitra e incominciò ad attaccare i mattoni nei quali erano inserite le sbarre. L'uomo con il piede di porco l'aiutò, poi altri tre o quattro si affollarono, tentando di smuovere le sbarre con le mani, le canne dei fucili e tutto quello che trovavano. Finalmente le sbarre cedettero e caddero a terra. Rashid si insinuò nella finestra. Era entrato! Tutto era possibile. Si trovò in un piccolo corpo di guardia, ma le guardie non c'erano. Si affacciò dalla porta. Nessuno. Si chiese dove tenevano le chiavi dei blocchi delle celle. Uscì dall'ufficio e raggiunse un altro corpo di guardia, dalla parte opposta dell'entrata. E trovò un grosso mazzo di chiavi. Tornò al portone. In uno dei battenti c'era una porticina bloccata da un catenaccio. Rashid rimosse il catenaccio e spalancò la porticina. La folla entrò. Rashid si scostò. Distribuì le chiavi a tutti, gridando: «Aprite tutte le celle!... Fate uscire i prigionieri!». La folla gli passò davanti. La sua carriera di capo rivoluzionario era finita. Aveva raggiunto il suo obiettivo. Aveva guidato l'assalto al carcere di Gasr!
Ancora una volta, Rashid aveva realizzato l'impossibile. Ora doveva soltanto trovare Paul e Bill tra gli undicimila e ottocento detenuti. Bill si svegliò alle sei. Era tutto tranquillo. Aveva dormito bene, notò con un certo stupore. Aveva previsto di non dormire affatto. L'ultima cosa che ricordava era d'essersi sdraiato sulla branda, ascoltando gli echi di una battaglia che si svolgeva all'esterno. Quando si è molto stanchi, pensò, si riesce a dormire in qualunque situazione. I soldati dormono nelle buche scavate in terra. Ci si abitua. Per quanto si abbia paura, alla fine l'organismo ha la meglio e ci si addormenta. Recitò il rosario. Si lavò, si pulì i denti, si fece la barba e si vestì, poi sedette a guardare dalla finestra in attesa della colazione, chiedendosi che cosa avevano in programma per oggi quelli dell'EDS. Paul si svegliò verso le sette. Guardò Bill e chiese: «Non sei riuscito a dormire?». «Ho dormito» rispose Bill. «Sono sveglio da circa un'ora.» «Io non ho dormito bene. Hanno sparato quasi tutta la notte.» Paul si alzò e andò in bagno. Dopo qualche minuto arrivò la colazione: tè e pane. Bill aprì una lattina di succo d'arancia che aveva portato Keane Taylor. La sparatoria ricominciò verso le otto. I detenuti si chiedevano cosa stava succedendo là fuori, ma nessuno sapeva nulla di preciso. Si vedevano solo gli elicotteri che sfrecciavano nel cielo e che, evidentemente, sparavano contro gli insorti a terra. Ogni volta che un elicottero sorvolava il carcere Bill si aspettava che una scaletta calasse dal cielo nel cortile del blocco n. 8. Era la sua fantasticheria abituale. Spesso immaginava un gruppetto di uomini dell'EDS, guidati da Coburn e da un altro più anziano, che scavalcavano il muro della prigione servendosi di scale di corda; oppure un contingente cospicuo di militari americani che arrivavano all'ultimo momento, come la cavalleria nei film western, e aprivano una grande breccia nel muro con la dinamite. Ma non si era accontentato di fantasticare. Con quel suo fare tranquillo e quasi distratto, aveva ispezionato spanna a spanna il blocco e il cortile per studiare la via d'uscita più rapida nelle varie circostanze possibili. Sapeva quante guardie c'erano e quanti fucili avevano. Qualunque cosa accadesse,
era pronto. Incominciava a sembrare che quello dovesse essere il giorno buono. Le guardie non seguivano la routine abituale. In carcere si faceva tutto secondo la routine: un detenuto, che non aveva altro da fare, osservava l'andamento delle cose e si abituava in poco tempo. Quel giorno era tutto diverso. Le guardie erano nervose, parlottavano negli angoli, si muovevano in fretta. Il chiasso della battaglia esterna divenne più forte. Se stava succedendo tutto questo, era possibile che oggi finisse come tutti gli altri giorni? Potremmo evadere, pensò Bill, o potremmo venire uccisi: ma di certo questa sera non spegneremo il televisore per sdraiarci sulle brande come al solito. Verso le dieci e mezzo vide quasi tutti gli ufficiali che attraversavano il complesso della prigione dirigendosi a nord, come se andassero a una riunione. Mezz'ora dopo ritornarono, a passo svelto. Il maggiore che comandava il blocco numero 8 tornò nel suo ufficio. Ne uscì dopo pochi minuti... in borghese! Portò fuori un pacco... l'uniforme? Bill guardò dalla finestra: lo vide mettere il pacco nel portabagagli della BMW parcheggiata oltre la recinzione del cortile, salire in macchina e partire. Cosa significava? Tutti gli ufficiali stavano per andarsene? Sarebbe finita così... Paul e Bill avrebbero potuto uscire tranquillamente? Il pranzo arrivò un po' prima di mezzogiorno. Paul mangiò, ma Bill non aveva fame. Le sparatorie sembravano vicinissime, e dalle strade giungevano grida e canti. Tre guardie del blocco numero 8 comparvero all'improvviso in abiti borghesi. Doveva essere la fine. Paul e Bill scesero in cortile. I malati di mente ricoverati al pianterreno urlavano. Adesso le guardie piazzate nelle torrette delle mitragliatrici stavano sparando verso l'esterno: senza dubbio il carcere era assediato. Era un bene o un male? si chiese Bill. L'EDS sapeva che cosa stava succedendo? Poteva far parte dell'operazione di salvataggio organizzata da Coburn? Da due giorni non ricevevano visite. Erano tutti tornati in patria? Erano ancora vivi? La sentinella che di solito sorvegliava il cancello del cortile era sparita e il cancello era aperto. Il cancello era aperto! Le guardie volevano che i detenuti se ne andassero? Anche gli altri blocchi dovevano essere aperti, perché adesso c'erano
prigionieri e guardie che correvano di qua e di là. I proiettili fischiavano tra gli alberi e rimbalzavano contro i muri. Una pallottola si piantò in terra ai piedi di Paul. Entrambi la fissarono. Le guardie nelle torrette, adesso, sparavano all'interno. Paul e Bill rientrarono precipitosamente nel blocco numero 8. Si misero a una finestra, a osservare il caos crescente. Era un'ironia: per settimane non avevano sognato altro che la libertà, e adesso che avrebbero potuto uscire esitavano. «Cosa credi che dovremmo fare?» chiese Paul. «Non lo so. C'è più pericolo qui o là fuori?» Paul alzò le spalle. «Ehi, ecco il miliardario.» Videro il detenuto ricco del numero 8 - quello che aveva una stanza tutta per sé e si faceva portare i pasti da fuori - attraversare il cortile accompagnato da due dei suoi fidi. Si era tagliato i folti baffoni a manubrio. Anziché il cappotto di cammello foderato di visone, indossava soltanto camicia e calzoni: s'era vestito in modo da potersi muovere in fretta. Si dirigeva verso nord, lontano dalla porta del carcere: forse c'era un'uscita secondaria? Le guardie del blocco numero 8, tutte in borghese, attraversarono il cortiletto e varcarono il cancello. Se ne andavano tutti, ma Paul e Bill esitavano ancora. «Vedi quella moto?» chiese Paul. «La vedo.» «Potremmo prenderla. Io so andare in motocicletta.» «E come facciamo a portarla oltre il muro?» «Oh, già.» Paul rise della propria imprevidenza. Il loro compagno di cella aveva trovato due grosse borse e vi stava riponendo la sua roba. Bill sentiva la smania di muoversi, di andarsene, fosse o non fosse quello il piano dell'EDS. La libertà era tanto vicina. Ma là fuori fischiavano le pallòttole, e la folla che assediava il carcere poteva essere ostile agli americani. D'altra parte, se le autorità avessero ripreso in pugno la situazione, Paul e Bill avrebbero perduto l'ultima probabilità di evadere... «Chissà dov'è adesso Gayden, quel figlio d'un cane» disse Paul. «Sono finito qui solo perché lui mi ha mandato in Iran.» Bill lanciò un'occhiata a Paul e si accorse che stava scherzando. I ricoverati dell'infermeria al pianterreno sciamarono nel cortile: qualcu-
no doveva aver aperto le porte. Bill sentì un chiasso tremendo che proveniva dal blocco delle detenute, dall'altra parte della stradetta. Nel complesso c'era sempre più gente, e tutti affluivano verso l'entrata del carcere. Bill guardò in quella direzione, vide il fumo, e nello stesso istante lo vide anche Paul. Bill disse: «Se danno fuoco alla prigione...». «Meglio filarcela.» L'incendio aveva fatto inclinare il piatto della bilancia: ormai avevano deciso. Bill si guardò intorno. Non avevano molte cose da portar via. Bill pensò al diario che aveva tenuto scrupolosamente negli ultimi quarantatre giorni. Paul aveva preparato gli elenchi di ciò che avrebbe fatto al ritorno negli Stati Uniti e aveva calcolato, su un foglio, quanto sarebbe costata la nuova casa che Ruthie stava acquistando. E tutti e due avevano le preziose lettere da casa che avevano letto e riletto tante volte. Paul disse: «Forse è meglio non portar niente che indichi che siamo americani». Bill aveva preso il diario. Lo lasciò cadere. «Hai ragione» ammise con riluttanza. Paul indossò l'impermeabile blu e Bill un cappotto con il collo di pelliccia. Avevano circa duemila dollari ciascuno, il denaro che aveva portato Keane Taylor. Paul aveva le sigarette. Non presero nient'altro. Uscirono, attraversarono il cortiletto; al cancello esitarono. La strada era una marea di gente, tanta gente che sembrava stesse uscendo da uno stadio e si dirigeva verso la porta del carcere. Paul tese la mano. «Ehi, buona fortuna, Bill.» Bill gliela strinse. «Buona fortuna anche a te.» Probabilmente sarebbero morti tutti e due entro pochi minuti, pensò Bill, colpiti da qualche pallottola vagante. Non vedrò crescere le mie creature, si disse tristemente. Il pensiero che Emily dovesse arrangiarsi da sola lo esasperava. Ma, stranamente, non aveva paura. Varcarono il cancello, e non ebbero più tempo per riflettere. Furono trascinati dalla folla come fuscelli caduti in un torrente tumultuoso. Bill si preoccupava soprattutto di star vicino a Paul e di rimanere in piedi per non farsi calpestare. Si continuava a sparare. Una guardia era rimasta al suo posto e mitragliava la folla dalla torretta. Due o tre caddero -
e una era l'americana che conoscevano di vista - ma non si capiva se erano stati colpiti e erano inciampati. Non voglio morire proprio ora, pensò Bill. Ho tante cose che voglio fare con la mia famiglia e nella mia carriera; non è il momento né il luogo per morire... che carte schifose mi sono capitate... Passarono davanti al circolo ufficiali dove si erano incontrati con Perot tre settimane prima... sembrava che fosse passata un'eternità. Parecchi detenuti stavano sfasciando il circolo e le macchine degli ufficiali, per vendetta. Che senso aveva? Per un momento quella scena gli sembrò irreale come un sogno o un incubo. Il caos era ancora peggiore intorno all'ingresso principale del carcere. Paul e Bill si fermarono, si staccarono dalla calca per non finire schiacciati. Bill ricordava che alcuni detenuti erano lì da venticinque anni: e dopo tanto tempo non era sorprendente che impazzissero nel sentire l'odore della libertà. I battenti dell'entrata dovevano essere ancora chiusi, perché decine di persone cercavano di scalare l'immenso muro. Alcuni erano saliti su macchine e camion che erano stati spinti vicino. Altri si arrampicavano sugli alberi e si aggrappavano pericolosamente ai rami sporgenti. Altri ancora avevano appoggiato lunghe assi sul muro e tentavano di salire. Qualcuno riuscì a raggiungere la sommità e calò lenzuoli e funi a quelli che stavano sotto, ma le corde non erano abbastanza lunghe. Paul e Bill osservavano e si chiedevano cosa fare. Furono raggiunti da altri stranieri detenuti nel blocco numero 8. Un neozelandese, accusato di contrabbando di stupefacenti, sorrideva come se si divertisse un mondo. C'era un'atmosfera d'euforia isterica, e anche Bill cominciò a sentirsene contagiato. In un modo o nell'altro, pensò, ce la faremo a uscirne vivi. Si guardò intorno. A destra dell'ingresso, gli edifici bruciavano. Sulla sinistra, a una certa distanza, scorse un detenuto iraniano che agitava le braccia come per indicare: Di qua! Qualche tempo prima erano incominciati i lavori di costruzione in quel tratto di muro, all'esterno, e c'era una porta d'acciaio che vi dava accesso. Bill guardò meglio e vide che l'iraniano aveva aperto la porta. «Ehi, guarda!» disse. «Andiamo» disse Paul. Corsero, e molti altri prigionieri li seguirono. Varcarono la porta... e si trovarono bloccati in una specie di cella senza porte né finestre. C'era odore di cemento fresco, e a terra erano abbandonati gli arnesi da muratore. Qualcuno afferrò un piccone e colpì il muro. Il cemento fresco si sgretolò
rapidamente. Altri due o tre vennero a dare una mano. La breccia si allargò: tutti gettarono via gli attrezzi e passarono nel varco, strisciando. Adesso si trovavano tra i due muri del carcere. Quello intorno, dietro di loro, era il più alto... otto o dieci metri. L'esterno, che stava tra loro e la libertà, non superava i tre metri e mezzo. Un detenuto più atletico degli altri riuscì a salire sulla sommità. Un altro si fermò ai piedi del muro e fece un cenno. Un terzo prigioniero si fece avanti: il secondo lo sollevò, il primo che stava in cima lo tirò su, e lo aiutò a calarsi all'esterno. Poi tutto avvenne in fretta. Paul corse verso il muro. Bill lo seguì. Bill aveva la mente svuotata. Corse. Sentì una spinta che l'aiutava a salire; poi le mani che l'afferravano; e poi fu sulla sommità del muro e saltò giù. Atterrò sul marciapiedi. Si rialzò. Paul era accanto a lui. Siamo liberi! pensò Bill. Siamo liberi! Aveva voglia di ballare. Coburn posò il ricevitore e disse: «Era Majid. La folla ha espugnato il carcere». «Bene» disse Simons. Quella mattina presto aveva chiesto a Coburn di mandare Majid al carcere di Gasr. Simons era calmissimo, pensò Coburn. Ecco... era il gran giorno! Ora potevano uscire dall'appartamento, darsi da fare, mettere in atto i piani per "squagliarsela". Eppure Simons non sembrava affatto eccitato. «E adesso cosa facciamo?» chiese Coburn. «Niente. Là ci sono Majid e Rashid. Se loro due non possono badare a Paul e Bill, sicuro come l'inferno che non potremo farlo noi. Se Paul e Bill non compariranno prima di notte, faremo come abbiamo detto: lei uscirà in moto con Majid a cercarli.» «E nel frattempo?» «Ci atteniamo al piano. Stiamo qui. Aspettiamo.» L'ambasciata degli Stati Uniti era alle prese con una crisi. L'ambasciatore William Sullivan aveva ricevuto un'urgente richiesta
d'aiuto dal generale Gast, capo del Military Assistance Advisory Group. Il quartier generale del MAAG era circondato dalla folla. C'erano carri armati fermi davanti all'edificio e si sparava. Gast, i suoi ufficiali e quasi tutti i membri dello Stato maggiore iraniano, erano in un bunker sotterraneo. Sullivan aveva dato ordine a tutti i suoi collaboratori di mettersi al telefono, cercando di trovare i capi rivoluzionari che potevano avere l'autorità di richiamare la folla. L'apparecchio sulla scrivania dell'ambasciatore squillava incessantemente. In mezzo a quella crisi ricevette una telefonata del sottosegretario Newsom, da Washington. Newsom chiamava dalla Situation Room della Casa Bianca, dove Zbigniew Brzezinski presiedeva una riunione sull'Iran. Chiese a Sullivan un giudizio sull'attuale situazione a Teheran. Sullivan glielo espose in poche parole, e soggiunse che in quel momento stava cercando di salvare la vita dell'ufficiale americano di grado più elevato che si trovasse in Iran. Qualche minuto dopo, Sullivan ricevette la chiamata di un funzionario dell'ambasciata che era riuscito a mettersi in contatto con Ibrahim Yazdi, un fedelissimo di Khomeini. Stava spiegando a Sullivan che forse Yazdi sarebbe stato disposto ad aiutare quando la comunicazione fu interrotta e si fece udire di nuovo la voce di Newsom. Il sottosegretario disse: «Il consigliere per la Sicurezza Nazionale chiede la sua opinione sulla possibilità che i militari iraniani compiano un colpo di stato per estromettere il governo Bakhtiar, che ormai sta vacillando.» Era una domanda tanto ridicola che Sullivan perse la calma. «Dica a Brzezinski di andare a farsi fottere» rispose. «Non è un commento molto utile» osservò Newsom. «Vuole che lo traduca in polacco?» disse Sullivan, e riattaccò. Sul tetto del Bucarest, la squadra dei negoziatori guardava gli incendi che dilagavano. Anche il frastuono delle sparatorie si andava avvicinando. John Howell e Abolhasan tornarono dall'incontro con Dadgar. «Allora?» chiese Gayden a Howell. «Che cos'ha detto?» «Non vuole mollarli.» «Che carogna.» Dopo qualche minuto sentirono un suono inequivocabile, il sibilo di un proiettile. Ancora pochi istanti e il suono si ripeté. Decisero di lasciare il tetto. Scesero negli uffici e guardarono dalle finestre. Incominciarono a scorgere per la strada uomini e ragazzi armati di fucile. A quanto pareva, la
folla aveva saccheggiato un'armeria. Ormai erano troppo vicini; era venuto il momento di abbandonare il Bucarest e di andare all'Hyatt, che si trovava nella parte più alta della città. Uscirono, salirono su due macchine e si lanciarono a tutta velocità sulla superstrada Shahanshahi. Le strade brulicavano di gente e c'era un'atmosfera carnevalesca. Molti si affacciavano dalle finestre gridando «Allahar Akbar!» Dio è grande! Quasi tutto il traffico era diretto verso la parte bassa della città, dove si combatteva. Taylor tirò diritto a tre posti di blocco, ma nessuno se la prese: stavano tutti danzando di gioia. Raggiunsero l'Hyatt e si riunirono nel salotto dell'appartamento d'angolo al decimo piano, dove aveva alloggiato Perot e dove adesso stava Gayden. Poco dopo furono raggiunti dalla moglie di Rich Gallagher, Cathy, e dal suo barboncino bianco, Buffy. Gayden aveva rifornito l'appartamento con i liquori prelevati dalle case abbandonate dai dipendenti, e ora aveva il miglior bar di Teheran; ma nessuno aveva voglia di bere. «E adesso cosa facciamo?» chiese Gayden. Nessuno lo sapeva. Gayden chiamò Dallas, dove erano le sei del mattino. Si mise in contatto con Tom Walter e gli parlò degli incendi, degli scontri, dei ragazzetti che circolavano per le strade armati di mitra. «Non ho altro da riferire» concluse. «A parte questo è una giornata tranquilla, eh?» disse Walter. Discussero ciò che avrebbero fatto se i telefoni avessero smesso di funzionare. Gayden disse che avrebbe cercato di far pervenire i messaggi tramite i militari americani; Cathy Gallagher lavorava per l'esercito e pensava di poter ottenere quel favore. Keane Taylor andò a buttarsi sul letto. Pensò a sua moglie Mary. Era a Pittsburgh, presso i genitori di Taylor, entrambi ultraottantenni e in condizioni di salute precarie. Mary aveva telefonato per dirgli che la madre era stata ricoverata d'urgenza all'ospedale: un attacco di cuore. Aveva pregato il marito di tornare; e Taylor aveva telefonato a suo padre, il quale aveva risposto ambiguamente: «Tu sai quel che devi fare». Era vero: Taylor sapeva che doveva restare lì. Ma non era facile, né per lui né per Mary. Si era assopito sul letto di Gayden quando squillò il telefono. Rispose. «Pronto?» Una voce iraniana chiese ansimando: «Paul e Bill sono lì?». «Cosa?» disse Taylor. «Rashid... è lei?»
«Paul e Bill sono lì?» ripeté Rashid. «No. Cosa vorrebbe dire?» «Va bene. Vengo subito.» Rashid riattaccò. Taylor si alzò e andò in salotto. «Ha chiamato Rashid» disse agli altri. «Mi ha chiesto se Paul e Bill sono qui.» «Che cosa intendeva dire?» ribatté Gayden. «Da dove chiamava?» «Non sono riuscito a farlo parlare. Era molto eccitato, e sa che in questi casi il suo inglese peggiora.» «Non ha detto altro?» «Ha detto "Vengo subito" e ha riattaccato.» «Merda.» Gayden si rivolse a Howell. «Mi passi il telefono.» Howell stava seduto con il ricevitore all'orecchio, senza dir nulla: teneva la comunicazione con Dallas. All'altro capo della linea un centralinista dell'EDS era in ascolto, in attesa che qualcuno parlasse. Gayden disse: «Mi passi di nuovo Tom Walter, per favore». Mentre Gayden riferiva a Walter la telefonata di Rashid, Taylor si chiedeva che cosa significava. Perché Rashid pensava che Paul e Bill potessero essere all'Hyatt? Erano in carcere... o no? Dopo pochi minuti Rashid si precipitò nella stanza, sporco, puzzolente di fumo, con i caricatori che gli traboccavano dalle tasche, e cominciò a parlare così in fretta che nessuno riuscì a capire una parola. Taylor riuscì a calmarlo. Alla fine Rashid disse: «Abbiamo assaltato il carcere. Paul e Bill se ne erano già andati». Paul e Bill erano ai piedi del muro del carcere e si guardavano intorno. La scena sulla strada ricordava a Paul una sfilata a New York. Nei caseggiati di fronte alla prigione tutti erano affacciati alle finestre e gridavano e applaudivano la fuga dei detenuti. All'angolo della via c'era un chioschetto che vendeva frutta. Si sentiva sparare poco lontano, ma nelle immediate vicinanze c'era una calma relativa. Poi, quasi per rammentare a Paul e Bill che non erano ancora fuori pericolo, passò a tutta velocità una macchina stracarica di rivoluzionari, con le canne dei mitra che spuntavano dai finestrini. «Andiamocene» disse Paul. «Dove? Alla nostra ambasciata? A quella francese?» «All'Hyatt.» Paul s'incamminò verso nord. Bill lo seguì a qualche passo di distanza,
con il bavero del cappotto alzato e la testa china per nascondere il viso. Arrivarono a un incrocio. Era deserto: non c'erano macchine né persone. Si accinsero ad attraversare. Echeggiò uno sparo. Tornarono indietro correndo. Non sarebbe stato molto facile. «Come va?» chiese Paul. «Sono ancora vivo.» Passarono davanti al carcere. La scena non era cambiata: le autorità non si erano riorganizzate e non avevano incominciato a rastrellare gli evasi. Paul si diresse verso sud e poi verso est, per compiere una deviazione e poter ritornare verso nord più tardi. Dovunque c'erano ragazzi armati di mitra... alcuni non avevano più di tredici o quattordici anni. A ogni angolo c'erano mucchi di sacchetti di sabbia. Più avanti dovettero farsi largo in mezzo a una folla che gridava e cantilenava istericamente; Paul evitava di guardare negli occhi la gente, perché non voleva che qualcuno lo notasse e gli rivolgesse la parola... se quelli avessero scoperto che tra loro c'erano due americani, probabilmente si sarebbero inferociti. I disordini erano sparsi. Era come a New York, quando bastava svoltare a un angolo per scoprire che l'atmosfera della zona cambia completamente. Paul e Bill attraversarono poco meno di un chilometro tranquillo, e poi incapparono in una battaglia. Attraverso la strada c'era una barricata di automobili rovesciate, dalla quale un branco di giovani sparava verso un'installazione militare. Paul si affrettò a tornare indietro per timore di venir colpito per sbaglio. Ogni volta che tentava di dirigersi verso nord si imbatteva in un nuovo ostacolo. Ormai erano lontani dall'Hyatt più di quando erano usciti dal carcere. Si stavano portando verso sud, e al sud gli scontri erano sempre più rabbiosi. Si fermarono davanti a una costruzione incompiuta. «Potremmo nasconderci qui fino a che sarà buio» disse Paul. «Allora nessuno si accorgerà che sei americano.» «Potrebbero spararci se ci trovano in giro dopo il coprifuoco.» «Credi che il coprifuoco sia ancora in vigore?» Bill alzò le spalle. «Finora ci è andata bene» disse Paul. «Proseguiamo ancora un po'.» Proseguirono. Passarono due ore - due ore di folle e di battaglie per le vie e di fucilate dei cecchini - prima che potessero dirigersi finalmente verso nord. Poi la
scena cambiò. Le sparatorie si smorzarono in lontananza, e si trovarono in un quartiere relativamente ricco, pieno di belle ville. Videro un bambino in bicicletta, con una maglietta che diceva qualcosa a proposito della California. Paul era stanco. Era rimasto in carcere per quarantacinque giorni, ed era stato malato; non aveva più l'energia per camminare ore ed ore. «Che ne diresti di chiedere un passaggio?» disse a Bill. «Tentiamo.» Paul sostò sul bordo della strada e agitò la mano per fermare la prima macchina che passava. (Ricordò di non alzare il pollice all'americana... in Iran era un gesto osceno.) La macchina si fermò. A bordo c'erano due iraniani. Paul e Bill presero posto sul sedile posteriore. Paul decise di non fare il nome dell'albergo. «Andiamo a Tajrish» disse. Era la zona del bazar, nella parte settentrionale della città. «Possiamo portarvi per un tratto» disse il guidatore. «Grazie.» Paul offrì sigarette ai due, poi si mise comodo e ne accese una per sé. Gli iraniani li lasciarono a Kurosh-e-Kabir, diversi chilometri a sud di Tajrish, non lontano dalla casa dove aveva abitato Paul. Erano in una grande via, con molte macchine e moltissima gente. Decise che era meglio non dare nell'occhio chiedendo un passaggio. «Potremmo rifugiarci nella Missione cattolica» propose Bill. Paul rifletté. Presumibilmente le autorità sapevano che padre Williams li aveva visitati nel carcere di Gasr due giorni prima. «La Missione sarebbe il primo posto dove ci cercherebbero.» «Può darsi.» «Dobbiamo raggiungere l'Hyatt.» «Forse gli altri non ci sono più.» «Ma ci sono i telefoni, e la possibilità di procurarci biglietti d'aereo...» «E docce calde.» «Giusto.» Proseguirono. All'improvviso una voce gridò: «Signor Paul! Signor Bill!». Paul si sentì arrestare il cuore. Si voltò. Vide una macchina stracarica che gli passava accanto lentamente. Riconobbe uno dei passeggeri: era una guardia del carcere di Gasr. La guardia era in borghese e a quanto pareva aveva aderito alla rivoluzione. Il suo sorriso sembrava chiedere: Non dite chi sono e io non dirò chi
siete. La guardia salutò con la mano, poi la macchina accelerò e passò oltre. Paul e Bill risero, divertiti e tranquillizzati. Svoltarono in una via tranquilla, e Paul ricominciò a chiedere un passaggio. Si piazzò sulla strada agitando le braccia, mentre Bill restava sul marciapiedi, perché gli automobilisti credessero che si trattava di uno solo, un iraniano. Si fermò una giovane coppia. Paul salì e Bill si affrettò a seguirlo. «Andiamo verso nord» disse Paul La donna guardò il compagno. L'uomo disse: «Possiamo portarvi a Palazzo Niavron». «Grazie.» La macchina ripartì. La scena per le vie cambiò ancora una volta. Si sentiva sparare più spesso, e il traffico era diventato più intenso e convulso; le macchine strombazzavano incessantemente. Videro fotografi della stampa e squadre della televisione che, dai tetti, riprendevano lo spettacolo. La folla stava appiccando fuoco alle stazioni di polizia nella zona dove aveva vissuto Bill. I due iraniani sembravano innervositi, mentre la macchina procedeva lentamente tra la calca: in quel clima, avere a bordo due americani poteva causare guai. Incominciò a farsi buio. Bill si sporse verso il sedile anteriore. «Com'è tardi» disse. «Sarebbe una gran bella cosa se poteste portarci all'Hotel Hyatt. Vorremmo ringraziarvi e darvi qualcosa per il disturbo.» «D'accordo» disse l'automobilista. Non chiese quanto gli offrivano. Passarono davanti a Palazzo Niavron, la residenza invernale dello scià. Davanti c'erano carri armati, come sempre, ma adesso c'erano bandiere bianche fissate alle antenne; si erano arresi alla rivoluzione. L'auto proseguì, tra edifici sventrati e incendiati; ogni tanto qualche barricata imponeva una deviazione. Finalmente scorsero l'Hyatt. «Oh, cielo» disse Paul, di slancio. «Un albergo americano.» Entrarono nel cortile. Paul era così contento che diede duecento dollari agli iraniani. La macchina ripartì. Paul e Bill salutarono con la mano ed entrarono. All'improvviso Paul si rammaricò di non avere il rituale doppio petto e
la camicia bianca, anziché un paio di vecchi calzoni e un impermeabile sporco. Il magnifico atrio era deserto. Si avvicinarono al banco. Dopo un momento qualcuno uscì da un ufficio accanto. Paul chiese il numero della stanza di Bill Gayden. L'impiegato controllò e rispose che lì non c'era nessun Bill Gayden. «Allora Bob Young.» «No.» «Rich Gallagher.» «No.» «Jay Coburn.» «No.» Ho capito male il nome dell'albergo, pensò Paul. Come ho potuto commettere un simile errore? «E John Howell?» chiese, ricordando l'avvocato. «Sì» rispose finalmente l'impiegato, e diede il numero d'una stanza al decimo piano. Salirono in ascensore. Trovarono la stanza di Howell e bussarono. Nessuno rispose. «Cosa pensi che dovremmo fare?» disse Bill. «Io mi fermo qui» disse Paul. «Sono stanco. Prendiamo una stanza. Mangiamo qualcosa. Chiameremo gli Stati Uniti, diremo che siamo usciti, e tutto si risolverà.» «D'accordo.» Tornarono all'ascensore. A poco a poco, Keane Taylor riuscì a farsi raccontare da Rashid com'erano andate le cose. Era rimasto per circa un'ora appena all'interno della porta del carcere. Era un caos; undicimila persone cercavano di passare da una porticina, e nel panico generale molte donne e molti vecchi venivano travolti e calpestati. Rashid aveva aspettato, pensando a ciò che avrebbe detto a Paul e Bill quando li avesse visti. Dopo un'ora la marea di gente si diradò, e Rashid concluse che ormai erano usciti quasi tutti. Incominciò a chiedere: «Avete visto qualche americano?». Qualcuno gli rispose che tutti gli stranieri erano stati assegnati al blocco numero 8. Ci andò e lo trovò deserto. Esplorò tutte le costruzioni del complesso. Poi tornò all'Hyatt seguendo il
percorso che avrebbero probabilmente scelto Paul e Bill. Un po' a piedi e un po' chiedendo passaggi, li cercò lungo tutta la strada. All'Hyatt non volevano farlo entrare perché aveva ancora il mitra. Regalò l'arma al primo ragazzo che trovò per la via ed entrò. Mentre stava raccontando l'accaduto sopraggiunse Coburn, che si accingeva ad andare in cerca di Paul e Bill con la moto di Majid. Portava un casco con la visiera, per nascondere la faccia. Rashid si offrì di prendere una macchina dell'EDS e di fare una corsa fino al carcere prima che Coburn rischiasse la pelle in mezzo alle folle dei rivoluzionari. Taylor gli diede le chiavi di un'auto. Gayden prese il telefono per riferire a Dallas le ultime notizie. Rashid e Taylor uscirono nel corridoio. All'improvviso Rashid gridò: «Credevo che foste morti!» e si mise a correre. E Taylor vide Paul e Bill. Rashid li stava abbracciando entrambi e urlava: «Non ero riuscito a trovarvi! Non ero riuscito a trovarvi!». Anche Taylor corse ad abbracciare i due amici. «Dio sia lodato!» esclamò. Rashid rientrò precipitosamente nell'appartamento di Gayden. «Paul e Bill sono qui! Sono qui!» Un attimo dopo Paul e Bill entrarono, e fu il finimondo. X Fu un momento indimenticabile. Tutti gridavano, nessuno ascoltava, e tutti volevano abbracciare Paul e Bill. Gayden stava sbraitando al telefono: «Sono qui! Sono qui! Fantastico! Sono appena arrivati! Fantastico!». Qualcuno gridò: «Li abbiamo fregati! Abbiamo fregato quei figli di puttana!». «Ce l'abbiamo fatta!» «Alla faccia tua, Dadgar!» Buffy abbaiava come un matto. Paul girò lo sguardo sui suoi amici, pensò che erano rimasti a Teheran in mezzo a una rivoluzione per aiutarlo, e non riuscì a parlare. Gayden abbandonò il telefono e venne a stringergli la mano. Paul, con le
lacrime agli occhi, disse: «Gayden, le ho appena fatto risparmiare dodici milioni e mezzo di dollari... credo che dovrebbe offrirmi da bere». Gayden gli versò uno scotch abbondante. Per la prima volta dopo sei settimane Paul assaggiò una bevanda alcolica. Gayden riprese il telefono: «C'è qui qualcuno che vuol parlare con te» disse, e passò il ricevitore a Paul. «Pronto» disse Paul. Sentì la voce di Tom Walter. «Ehilà, vecchio mio!» «Dio onnipotente» mormorò Paul, sopraffatto dal sollievo e dallo sfinimento. «Ci stavamo chiedendo dov'eravate finiti voi due.» «Anch'io, in queste ultime tre ore.» «Come siete arrivati all'albergo, Paul?» Paul non aveva l'energia per raccontare tutto a Walter. «Per fortuna, un giorno Taylor mi ha lasciato parecchio denaro.» «Fantastico. Bene, Paul! Come sta Bill?» «È un po' scosso, ma sta benone.» «Siamo tutti un po' scossi. Oh, cielo. Cielo, che gioia sentirla.» Poi si sentì un'altra voce. «Paul? Sono Mitch.» Mitch Hart era un ex presidente dell'EDS. «Prevedevo che il teppista italiano ce l'avrebbe fatta a uscire.» «Come sta Ruthie?» chiese Paul. Fu Tom Walter a rispondere. Dovevano usare il circuito telefonico delle conferenze, pensò Paul. «Paul, sta benissimo. Le ho parlato poco fa. Jean la sta chiamando in questo momento, all'altro apparecchio.» «E le bambine?» «Stanno benissimo anche loro. Dio, come sarà contenta!» «Bene, le passo il mio compagno di sventura.» Paul porse il ricevitore a Bill. Mentre stava parlando era entrato un dipendente iraniano, Gholam. Aveva saputo dell'assalto al carcere ed era andato a cercare Paul e Bill nelle strade intorno a piazza Gasr. L'arrivo di Gholam aveva preoccupato Jay Coburn. Per qualche minuto s'era lasciato sopraffare dalla gioia e non aveva pensato ad altro; ma adesso ricordò il suo ruolo di luogotenente di Simons. Lasciò l'appartamento, trovò una porta aperta, entrò e chiamò casa Dvoranchik. Rispose Simons.
«Qui Jay. Sono arrivati.» «Bene.» «Tutte le precauzioni sono saltate. Usano i nomi veri al telefono, tutti vanno e vengono, sono arrivati alcuni dipendenti iraniani...» «Si procuri due stanze lontano dagli altri. Veniamo subito.» «D'accordo.» Coburn riattaccò. Scese nell'atrio e chiese un appartamento con due camere da letto all'undicesimo piano. Non ci furono problemi; l'albergo aveva centinaia di stanze vuote. Diede un nome falso e nessuno gli chiese il passaporto. Tornò nell'appartamento di Gayden. Dopo pochi minuti Simons entrò e disse: «Riattaccate quel maledetto telefono». Bob Young, che teneva aperta la linea con Dallas, posò il ricevitore. Joe Poché entrò a sua volta e incominciò a chiudere le tende. Era incredibile. Di colpo, Simons aveva preso il comando. Gayden, presidente dell'EDS World, era tra i presenti quello che aveva la carica più alta; e un'ora prima aveva detto a Tom Walter che "i Ragazzi Raggio di Sole" - Simons, Coburn e Poché - avevano l'aria di non combinare nulla; ma adesso lasciò fare a Simons, senza esitare. «Dia un'occhiata in giro, Joe» disse Simons a Poché. Coburn sapeva che cosa intendeva. La squadra aveva esplorato l'albergo e i dintorni durante le settimane d'attesa, e adesso Poché doveva accertare se c'erano stati cambiamenti. Squillò il telefono. Rispose John Howell. «È Abolhasan» spiegò agli altri. Ascoltò per un paio di minuti, poi disse: «Aspetti». Coprì con la mano il microfono e si rivolse a Simons. «È un funzionario iraniano che mi fa da interprete nei colloqui con Dadgar. Suo padre è amico del magistrato. Adesso è a casa di suo padre e ha appena ricevuto una chiamata di Dadgar.» Nella stanza scese un gran silenzio. «Dadgar gli ha detto: "Sapeva che gli americani sono usciti dal carcere?". Abolhasan ha risposto che per lui era una novità. Dadgar ha aggiunto: "Si metta in contatto con l'EDS e dica che se trovano Chiapparone e Gaylord devono consegnarli, che adesso sono disposto a ridiscutere la cauzione, a ridurla a una somma molto più ragionevole".» Gayden disse: «Che vada a farsi fottere». «Sta bene» intervenne Simons. «Dica ad Abolhasan di riferire a Dadgar che stiamo cercando Paul e Bill, ma che nel frattempo lo consideriamo personalmente responsabile della loro sicurezza.»
Howell sorrise, annuì, e cominciò a parlare ad Abolhasan. Simons si rivolse a Gayden. «Chiami l'ambasciata americana. Si faccia sentire. Sono stati loro a far finire in galera Paul e Bill, adesso il carcere è stato assaltato e noi non sappiamo dove sono quei due, ma riteniamo l'ambasciata responsabile per la loro sicurezza. Cerchi d'essere convincente. Devono esserci spie iraniane all'ambasciata... può scommeterci il collo che entro pochi minuti Dadgar riceverà il testo del suo messaggio.» Gayden andò in cerca d'un telefono. Simons, Coburn e Poché si trasferirono con Paul e Bill nell'appartamento che Coburn aveva appena preso al piano di sopra. Coburn ordinò la cena per Paul e Bill, e disse di mandarla nell'appartamento di Gayden; non dovevano esserci andirivieni sospetti nelle nuove stanze. Paul fece un bagno caldo. Lo sognava da un pezzo. Non faceva il bagno da sei settimane. Si godette la stanza pulita, l'acqua caldissima, la saponetta nuova... Non avrebbe più dato per scontate tutte quelle cose. Si tolse di dosso il ricordo del carcere di Gasr. C'erano gli abiti puliti che l'aspettavano: qualcuno aveva recuperato la sua valigia all'Hilton dove aveva alloggiato prima dell'arresto. Bill fece la doccia. L'euforia era svanita. Aveva immaginato che l'incubo sarebbe finito quando fosse entrato nell'appartamento di Gayden, ma adesso si rendeva conto d'essere ancora in pericolo. Non c'era un jet dell'aeronautica militare degli Stati Uniti pronto a riportarlo a casa a una velocità due volte superiore a quella del suono. Il messaggio di Dadgar trasmesso da Abolhasan, l'apparizione di Simons e le nuove precauzioni - quell'appartamento, Poché che chiudeva le tende, il trasferimento della cena - gli ricordavano che la fuga era appena incominciata. Comunque, apprezzò molto la bistecca. Simons era ancora irrequieto. L'Hyatt era vicino all'Evin Hotel dove alloggiavano i militari americani, al carcere di Evin e a un'armeria, tre obiettivi per i rivoluzionari. Anche la telefonata di Dadgar era preoccupante. Moltissimi iraniani sapevano che quelli dell'EDS erano all'Hyatt; Dadgar avrebbe potuto scoprirlo facilmente e mandare i suoi uomini a cercare Paul e Bill. Mentre Simons, Coburn e Bill discutevano il problema nel salotto dell'appartamento, squillò il telefono. Simons lo fissò. Il telefono squillò di nuovo.
«Chi diavolo sa che siamo qui?» chiese Simons. Coburn alzò le spalle. Simons sollevò il ricevitore e disse: «Pronto?». Silenzio. «Pronto?» Simons riattaccò. «Non c'era nessuno.» In quel momento entrò Paul, in pigiama. Simons disse: «Si cambi. Ce ne andiamo». «Perché?» protestò Paul. Simons ripeté: «Si cambi. Ce ne andiamo». Paul scrollò le spalle e tornò in camera da letto. Bill non riusciva a crederlo. Di nuovo in fuga! Chissà come, Dadgar aveva conservato la sua autorità nonostante le violenze e il caos della rivoluzione. Ma chi lavorava per lui? Le guardie avevano abbandonato le carceri, le stazioni di polizia erano state incendiate, l'esercito si era arreso... chi restava per obbedire agli ordini di Dadgar? Il diavolo e tutte le sue orde, pensò Bill. Mentre Paul si vestiva, Simons scese nell'appartamento di Gayden. Chiamò in un angolo Gayden e Taylor. «Mandate via tutti gli altri» disse sottovoce. «Raccontate che Paul e Bill sono a letto. Verrete tutti da noi domattina. Uscite alle sette, come se andaste in ufficio. Non prendete i bagagli, non lasciate libere le stanze, non pagate il conto. Joe Poché vi aspetterà fuori, e avrà trovato un percorso sicuro per arrivare alla casa. Io porto là Paul e Bill subito... ma non ditelo agli altri fino a domattina.» «D'accordo» disse Gayden. Simons risalì. Paul e Bill erano pronti. Coburn e Poché attendevano. Si avviarono verso l'ascensore. Mentre scendevano, Simons disse: «Ora usciamo tranquillamente, come se fosse la cosa più naturale del mondo». Arrivarono al pianterreno, attraversarono l'immenso atrio e uscirono nel cortile dov'erano parcheggiate le due Range Rover. Mentre attraversavano il cortile arrivò una grossa macchina nera, e ne scesero cinque uomini stracciati armati di mitra. «Oh, merda» mormorò Coburn. I cinque americani non si fermarono. I rivoluzionari corsero verso il portiere. Poché spalancò gli sportelli della prima Range Rover. Paul e Bill balzarono a bordo. Poché accese il motore e partì in fretta. Simons e Coburn sa-
lirono sulla seconda Range Rover e li seguirono. I rivoluzionari entrarono nell'albergo. Poché si avviò lungo via Vanak, che passava davanti all'Hyatt e all'Hilton. In distanza si sentiva sparare incessantemente. Dopo un chilometro e mezzo, all'incrocio con viale Pahlavi, presso l'Hilton, incapparono in un posto di blocco. Poché si fermò. Bill si guardò intorno. Lui e Paul erano passati da quell'incrocio poche ore prima, con la coppia iraniana che li aveva portati all'Hyatt, e allora non aveva visto posti di blocchi, solo la carcassa d'una macchina incendiata. Adesso c'erano parecchie auto che bruciavano, una barricata, e una folla di rivoluzionari con un assortimento di armi da fuoco sottratte ai militari. Uno si avvicinò alla Range Rover, e Joe Poché abbassò il vetro del finestrino. «Dove va?» chiese il rivoluzionario in ottimo inglese. «A casa di mia suocera in Abbas Abad» disse Poché. Bill pensò: Dio, che risposta idiota. Paul teneva la testa girata dall'altra parte e nascondeva il viso. Un altro rivoluzionario si avvicinò e parlò in Farsi. Il primo chiese: «Ha sigarette?». «No, non fumo» disse Poché. «Bene, vada.» Poché proseguì sulla superstrada Shahanshahi. Coburn fermò la seconda Range Rover davanti ai rivoluzionari. «Siete con loro?» gli chiesero. «Sì.» «Ha qualche sigaretta?» «Sì.» Coburn tirò fuori un pacchetto dalla tasca e cercò di farne uscire una sigaretta. Ma gli tremavano troppo le mani. Simons disse: «Jay». «Sì?» «Gli dia il pacchetto intero.» Coburn diede il pacchetto al rivoluzionario, che fece loro segno di proseguire. Ruthie Chiapparone era a letto, sveglia, in casa dei Nyfeler a Dallas, quando squillò il telefono. Sentì un passo nel corridoio. I trilli cessarono, e la voce di Jim Nyfeler
disse: «Pronto... ecco, sta dormendo». «Sono sveglia» gridò Ruthie. Scese dal letto, infilò una vestaglia e uscì nel corridoio. «È la moglie di Tom Walter, Jean» disse Jim, porgendole il ricevitore. Ruthie disse: «Pronto, Jean». «Ruth, ho una bellissima notizia. Sono liberi. Sono usciti dal carcere.» «Oh, Dio sia ringraziato» disse Ruthie. Non aveva ancora incominciato a chiedersi come avrebbe fatto Paul a lasciare l'Iran. Quando Emily Gaylord tornò dalla chiesa, sua madre le disse: «Ha telefonato Tom Walter da Dallas. Gli ho detto che l'avresti chiamato». Emily corse all'apparecchio, fece il numero dell'EDS e chiese di Walter. «Salve, Emily» disse Walter con quel suo accento strascicato. «Paul e Bill sono fuori.» «Tom, è meraviglioso!» «Hanno assalito il carcere. Sono sani e salvi e in buone mani.» «Quando torneranno a casa?» «Non lo sappiamo ancora con certezza, ma la terremo informata.» «Grazie, Tom» disse Emily. «Grazie!» Ross Perot era a letto con Margot. Il telefono li svegliò entrambi. Perot prese il ricevitore. «Sì.» «Ross, sono Tom Walter. Paul e Bill sono usciti dal carcere.» Perot si svegliò completamente e si mise a sedere sul letto. «È magnifico!» Insonnolita, Margot chiese: «Sono usciti?». «Sì.» Lei sorrise. «Oh, bene.» Tom Walter stava dicendo: «Il carcere è stato assalito dai rivoluzionari, e Paul e Bill sono usciti con gli altri». La mente di Perot si mise immediatamente all'opera. «Adesso dove sono?» «In albergo.» «È pericoloso, Tom. Simons è con loro?» «Quando ho parlato con loro due non c'era.» «Gli dica che lo chiamino. Taylor sa il numero. E che lascino subito l'albergo!»
«Sì, signore.» «Chiami tutti in ufficio, immediatamente. Sarò lì tra pochi minuti.» «Sì, signore.» Perot riattaccò. Si alzò, si vestì alla meglio, baciò Margot e scese correndo le scale. Attraversò la cucina e uscì dalla porta posteriore. Un uomo del servizio di sicurezza, stupito di vederlo così presto, disse: «Buongiorno, signor Perot». «'giorno.» Perot decise di prendere la Jaguar di Margot. Salì in fretta e la lanciò lungo il viale, verso il cancello. Da sei settimane aveva la sensazione di vivere dentro una macchina del popcorn. Aveva tentato di tutto, ed era stato inutile; le brutte notizie erano fioccate da ogni parte, e non aveva fatto progressi. Ora, finalmente, stava succedendo qualcosa. Si lanciò lungo Forest Lane, infischiandosene dei semafori rossi e dei limiti di velocità. Tirarli fuori dal carcere era stata la parte più facile, pensò: adesso dobbiamo portarli fuori dall'Iran. Il peggio non era ancora incominciato. In pochi minuti si radunarono tutti alla sede centrale dell'EDS in Forest Lane: Tom Walter, T. J. Marquez, Merv Stauffer, la segretaria di Perot, Sally Walther, l'avvocato Tom Luce e Mitch Hart che - sebbene non lavorasse più all'EDS - aveva cercato di sfruttare le sue amicizie nel Partito democratico per aiutare Paul e Bill. Fino a quel momento le comunicazioni con la squadra del negoziatori erano state organizzate dall'ufficio di Bill Gayden al quarto piano, mentre al sesto Merv Stauffer provvedeva ad appoggiare con discrezione la squadra di salvataggio e manteneva i contatti telefonici usando il codice. Ora tutti si rendevano conto che a Teheran il personaggio chiave era Simons, e che ciò che sarebbe accaduto ora sarebbe stato probabilmente illegale; perciò si trasferirono nell'ufficio di Merv, che era anche più isolato e tranquillo. «Io parto subito per Washington» annunciò Perot. «La nostra migliore speranza è ancora un jet dell'aeronautica che li porti via da Teheran.» Stauffer disse: «Non credo che ci siano voli per Washington in partenza dal Dallas-Forth Worth la domenica...». «Noleggiami un jet» disse Perot. Stauffer prese il telefono. «Per i prossimi giorni, avremo bisogno che qui ci siano segretarie in servizio ventiquattro ore su ventiquattro» continuò Perot.
«Provvederò io» disse T. J. «Dunque, i militari hanno promesso di aiutarci, ma non possiamo far conto di su di loro... hanno gatte più grosse da pelare, immagino. L'alternativa più logica è che la squadra esca dall'Iran in macchina passando per la Turchia. In tal caso, il nostro piano prevede che li attendiamo al confine, o se è necessario andiamo in volo nella parte nord-occidentale dell'Iran per tirarli fuori. Dobbiamo far radunare la squadra di salvataggio turca. Boulware è già a Istanbul. Schwebach, Sculley e Davis sono negli Stati Uniti... qualcuno provveda a chiamarli e dica che mi raggiungano a Washington. Forse avremo bisogno anche di un pilota d'elicotteri e di un altro per un piccolo aereo, nel caso che vogliamo entrare clandestinamente in Iran. Sally, chiami Margot e le dica di prepararmi una valigia... mi servono abiti sportivi, una torcia elettrica, stivali, biancheria pesante, un sacco a pelo e una tenda.» «Subito, signor Perot.» Sally uscì. «Ross, non credo che sia una buona idea» disse T. J. «Margot potrebbe spaventarsi.» Perot represse un sospiro: avrebbe dovuto prevedere che T. J. ci trovasse da ridire. Ma aveva ragione. «D'accordo, andrò a casa e provvederò io stesso. Vieni con me, così potremo parlare mentre faccio la valigia.» «Sicuro.» Stauffer posò il telefono e annunciò: «C'è un Lear che ti aspetta al campo Love». «Bene.» Perot e T. J. scesero a prendere le macchine. Lasciarono l'EDS e svoltarono a destra su Forest Lane. Dopo pochi secondi, T. J. diede un'occhiata al suo tachimetro e vide che andava a centrotrenta... e Perot, a bordo della Jaguar di Margot, lo stava lasciando indietro. A Washington, al Page Terminal, Perot incontrò due vecchi amici: Bill Clements, governatore del Texas ed ex vicesegretario alla Difesa, e la moglie Rita. Clements disse: «Ciao, Ross! Cosa diavolo ci fai a Washington di domenica pomeriggio?». «Sono qui per affari» rispose Perot. «No, sentiamo la verità. Che cosa ci fai?» chiese Clements con un sorriso. «Hai un minuto?»
Clements aveva un minuto. Sedettero tutti e tre, e Perot raccontò la storia di Paul e Bill. Quando ebbe finito, Clements disse: «C'è un tale con cui dovresti parlare. Ti scrivo il nome». «E come farò a trovarlo di domenica pomeriggio?» «Diavolo, te lo scovo io.» I due uomini andarono a una cabina telefonica. Clements chiamò il centralino del Pentagono e si fece riconoscere. Chiese che gli passassero la casa di uno degli ufficiali generali di grado più alto del paese. Poi disse: «C'è qui con me Ross Perot, del Texas. È mio amico e buon amico dei militari, e voglio che tu lo aiuti». Poi passò il microfono a Perot e si allontanò. Mezz'ora più tardi Perot era in una sala operativa nei sotterranei del Pentagono, circondato dai terminal dei computer, e stava parlando con cinque o sei generali. Non li aveva mai incontrati prima di quel giorno, ma si sentiva tra amici; tutti sapevano della sua campagna in favore dei prigionieri di guerra americani nel Vietnam del Nord. «Ho bisogno di portar via due uomini da Teheran» disse. «Potete farli uscire con un aereo?». «No» rispose uno dei generali. «A Teheran siamo bloccati. La nostra base aerea di Doshen Toppeh, è in mano ai rivoluzionari. Il generale Gast è nel bunker del comando del MAAG, circondato da una folla inferocita. E non possiamo comunicare perché le linee telefoniche sono state tagliate.» «Sta bene» disse Perot. Aveva quasi previsto quella risposta. «Mi arrangerò da solo.» «È in capo al mondo, e c'è una rivoluzione» disse un altro generale. «Non sarà facile.» Perot sorrise. «Laggiù ho Bull Simons.» I generali sorrisero. «Diamine, Perot» disse uno, «non lascia nessuna possibilità agli iraniani!» «Appunto» disse Perot. «Forse dovrò andare là personalmente. Potete fornirmi un elenco di tutti gli aeroporti che ci sono fra Teheran e il confine turco?» «Certamente.» «Potreste accertare se qualcuno di quegli aeroporti è inagibile?» «Possiamo dare un'occhiata alle foto dei satelliti.» «E il radar? C'è la possibilità di entrare nel paese senza apparire sugli schermi radar iraniani?»
«Sicuro. Le procureremo una mappa dei radar a centocinquanta metri.» «Bene.» «Le occorre altro?» Diavolo, pensò Perot, è come se fossi entrato in un grande magazzino! «Per ora mi basta» rispose. I generali si misero all'opera. T. J. Marquez sollevò il ricevitore. Era Perot. «Ti ho trovato i piloti» disse T. J. «Ho chiamato Larry Joseph, che dirigeva i Continental Air Services a Vientiane, nel Laos... ora è a Washington. Lui ha scovato i piloti: Dick Douglas e Julian Kanauch. Saranno a Washington domani.» «Bene» disse Perot. «Sono stato al Pentagono e mi hanno detto che non possono portare via in aereo i nostri amici... sono bloccati a Teheran. Ma ho le mappe e le indicazioni, e possiamo arrangiarci da soli. Ecco quello che mi occorre: un jet che possa attraversare l'Atlantico, con relativo equipaggio dotato di una radio come quella che avevamo nel Laos, per poter fare le telefonate dall'aereo.» «Mi metto subito al lavoro» disse T. J. «Sono al Madison Hotel.» «D'accordo.» T. J. incominciò a chiamare. Si mise in contatto con due società texane di noleggio, ma nessuna delle due disponeva di un jet transatlantico. La seconda, la Jet Fleet, gli suggerì di rivolgersi all'Executive Aircraft che aveva sede presso Columbus, nell'Ohio. Ma quelli non potevano far nulla e non sapevano chi sarebbe stato in grado di aiutarli. T. J. pensò all'Europa. Chiamò Carl Nilsson, un dirigente dell'EDS che aveva lavorato su una proposta per la Martinair. Nilsson ritelefonò e disse che la Martinair non poteva andare in Iran, ma gli aveva dato il nome di una società svizzera che l'avrebbe fatto. T. J. chiamò la Svizzera: la società aveva sospeso proprio quel giorno il servizio con l'Iran. T. J. chiamò Harry McKillop, un vicepresidente della Braniff che abitava a Parigi. McKillopp era fuori. T. J. telefonò a Perot e confessò di aver fatto fiasco. Perot ebbe un'idea. Gli pareva di ricordare che Sol Rogers, presidente della Texas State Optical Company di Beaumont, aveva un BAC 111 o un Boeing 727. Ma non aveva il numero di telefono. T. J. chiamò il servizio informazioni. Il numero non figurava sugli elen-
chi. Telefonò a Margot. Lei aveva il numero. T. J. chiamò Rogers. Aveva venduto l'aereo. Rogers sapeva che a Washington c'era una società, l'Omni International, che affittava aerei. Diede a T. J.» numeri di casa del presidente e del vicepresidente. T. J. chiamò il presidente. Non c'era. Chiamò il vicepresidente. C'era. «Avete un jet transatlantico?» chiese T. J. «Certo. Ne abbiamo due.» T. J. tirò un sospiro di sollievo. «Abbiamo un 707 e un 727» continuò il vicepresidente. «Dove sono?» «Il 707 è al campo Meachem a Fort Worth e...» «Ma è proprio qui!» esclamò T. J. «Mi dica, ha una radio a banda laterale singola?» «Certamente.» T. J. quasi non riusciva a credere di aver avuto tanta fortuna. «L'aereo è arredato in modo piuttosto lussuoso» disse il vicepresidente. «L'aveva commissionato un principe del Kuwait che poi ha cambiato idea.» A T. J. l'arredamento non interessava. Chiese il prezzo. Il vicepresidente rispose che la decisione finale spettava al presidente. Non sarebbe rientrato fino a notte, ma T. J. avrebbe potuto chiamarlo l'indomani. T. J. fece controllare l'aereo da Jeff Heller, un vicepresidente dell'EDS che era stato pilota in Vietnam, e da due amici di Heller, un pilota delle American Airlines e un ingegnere aeronautico. Heller riferì che sembrava in buone condizioni, a quanto potevano dire senza averlo provato. L'arredamento era un po' strepitoso, spiegò sorridendo. Alle sette e mezzo dell'indomani T. J. chiamò il presidente dell'Omni costringendolo a interrompere la doccia. Il presidente aveva già parlato con il vicepresidente e pensava che si sarebbero messi d'accordo. «Bene» disse T. J. «Ora, per quanto riguarda l'equipaggio, l'assistenza a terra, l'assicurazione...» «Noi non noleggiamo aerei» disse il presidente. «Li affittiamo.» «Che differenza c'è?» «La stessa differenza che c'è tra prendere un taxi e affittare una macchina. I nostri aerei sono da affittare.» «Senta, noi ci occupiamo di computer e non sappiamo niente delle linee
aeree» disse T. J. «Anche se normalmente lei non lo fa, sarebbe disposto ad accordarsi con noi per fornire tutto il resto, incluso l'equipaggio e così via? Pagheremo tutto quel che c'è da pagare.» «Sarà una faccenda complicata. L'assicurazione...» «Ma lo farà?» «Sì, lo faremo.» Era veramente complicato, come T. J. ebbe modo di scoprire nel corso della giornata. Quel tipo insolito di accordo non piaceva per nulla alle compagnie d'assicurazione, che per giunta odiavano sentirsi mettere fretta. Era difficile capire a quali disposizioni doveva ottemperare l'EDS, dato che non era una linea aerea. L'Omni chiedeva un deposito di sessantamila dollari presso una filiale straniera d'una banca americana. I problemi furono risolti da un dirigente dell'EDS, Gary Fernandes, a Washington, e dal capo dell'ufficio legale dell'EDS, Claude Chappelear, a Dallas: il contratto, che fu registrato prima di sera, era un affitto di prova pre-vendita. L'Omni scovò un equipaggio in California e lo mandò a Dallas a prendere l'aereo e a portarlo a Washington. A mezzanotte di lunedì l'aereo, l'equipaggio, gli altri piloti e il resto della squadra di salvataggio erano tutti a Washington con Ross Perot. T. J. aveva fatto un miracolo. Ed era per questo che ci aveva messo tanto tempo. La squadra dei negoziatori - Keane Taylor, Bill Gayden, John Howell, Bob Young e Rich Gallagher, più Rashid, Cathy Gallagher e il barboncino Buffy - passò la notte, di domenica 11 febbraio all'Hyatt. Dormirono pochissimo. Poco lontano, la folla stava assaltando un'armeria. Sembrava che una parte dell'esercito avesse abbracciato la causa della rivoluzione, perché all'attacco partecipavano anche i carri armati. Verso l'alba sfondarono un muro ed entrarono. Dall'alba in poi, una fiumana di taxi arancione portò le armi ai quartieri della capitale dove i combattimenti erano ancora accaniti. Per tutta la notte la squadra tenne aperta la linea con Dallas; John Howell si sdraiò sul divano nel salotto di Gayden con il ricevitore accanto all'orecchio. Al mattino Rashid se ne andò molto presto. Non gli era stato detto dove sarebbero andati gli altri... nessun iraniano doveva sapere l'ubicazione del nascondiglio. Gli altri fecero le valigie e le lasciarono nelle rispettive stanze, nell'eventualità che più tardi ci fosse la possibilità di portarle via. Questo non
rientrava nelle istruzioni di Simons, che certamente avrebbe disapprovato, perché le valigie pronte dimostravano che quelli dell'EDS non alloggiavano più lì... ma quel mattino tutti pensavano che il colonnello esagerasse in fatto di precauzioni. Si radunarono nel salotto di Gayden pochi minuti dopo le sette. I Gallagher avevano parecchie borse, e non avevano affatto l'aria d'essere sul punto d'andare in ufficio. Nell'atrio incontrarono il direttore dell'albergo. «Ma dove andate?» chiese quello, incredulo. «In ufficio» rispose Gayden. «Ma non sa che c'è la guerra civile? Per tutta la notte le nostre cucine hanno lavorato per dar da mangiare ai rivoluzionari. Ci hanno chiesto se qui c'era qualche americano... ho risposto che non c'era nessuno, dovreste tornare di sopra e non farvi vedere.» «La vita deve continuare» disse Gayden. E uscirono. Joe Poché attendeva a bordo d'una Range Rover, e bolliva in silenzio perché erano in ritardo di un quarto d'ora e lui aveva ricevuto da Simons l'ordine di essere di ritorno alle sette e quarantacinque, con loro o senza di loro. Mentre si avvicinavano alle macchine, Keane Taylor vide un impiegato dell'albergo che stava parcheggiando. Era appena arrivato. Andò a parlargli. «Come sono le strade?» «Posti di blocco dappertutto» rispose l'impiegato. «Ce n'è uno proprio qui, in fondo al viale d'accesso dell'albergo. Non dovreste uscire.» «Grazie» disse Taylor. Salirono tutti sulle macchine e seguirono la Range Rover di Poché. Le sentinelle al cancello erano indaffaratissime nel tentativo di inserire in una machine-pistol un caricatore che non andava bene, e non degnarono d'uno sguardo le tre macchine. Fuori, la scena era spaventosa. Molte delle armi saccheggiate erano finite nelle mani di adolescenti che probabilmente non sapevano come usarle, e i ragazzi scendevano correndo la collina, gridavano e brandivano fucili e mitra, saltavano a bordo di automobili di passaggio e sparavano in aria. Poché si diresse a nord lungo via Shahanshahi, facendo un percorso tortuoso per evitare i posti di blocco. All'incrocio con viale Pahlavi c'erano i rottami d'una barricata - macchine bruciate e tronchi d'albero attraverso la strada - ma la gente che la sorvegliava stava festeggiando, tra canti e spari in aria, e le tre macchine passarono senza difficoltà. Quando si avvicinarono al nascondiglio entrarono in una zona relati-
vamente tranquilla. Svoltarono in una via stretta e poi, dopo mezzo isolato, varcarono il cancello di un giardino con la piscina vuota. L'appartamento dei Dvoranchik era al piano terreno della casa; la padrona abitava al piano di sopra. Entrarono tutti. Durante la giornata di lunedì, Dadgar continuò a cercare Paul e Bill. Bill Gayden chiamò il Bucarest, dove alcuni dipendenti iraniani fedeli continuavano a badare ai telefoni. Gayden seppe che i subordinati di Dadgar avevano chiamato due volte, parlando con due segretarie, e avevano chiesto dove potevano trovare il signor Chiapparone e il signor Gaylord. La prima segretaria aveva risposto che non conosceva i nomi degli americani... era una bugia coraggiosa, dato che lavorava per l'EDS da quattro anni e conosceva tutti. La seconda aveva detto: «Deve parlare con il signor Lloyd Briggs, che dirige la sede». «Dov'è?» «All'estero.» «Chi dirige la sede in sua assenza?» «Il signor Keane Taylor.» «Mi faccia parlare con lui.» «Al momento non c'è.» Le ragazze, benedette loro, avevano depistato gli uomini di Dadgar. Rich Gallagher si teneva in contatto con i suoi amici militari (Cathy era segretaria d'un colonnello). Chiamò l'Evin Hotel, dove erano alloggiati quasi tutti, e seppe che alcuni "rivoluzionari" si erano presentati tanto all'Evin quanto allo Hyatt mostrando le foto di due americani che stavano cercando. La tenacia di Dadgar era quasi incredibile. Simons decise che non potevano rimanere in casa Dvoranchik più di quarantotto ore. Il piano di fuga era stato preparato per cinque uomini. Adesso c'erano dieci uomini, una donna e un cagnolino. Avevano due sole Range Rover. Una macchina normale non ce l'avrebbe fatta a viaggiare su quelle strade di montagna, soprattutto con la neve. Avevano bisogno di una terza Range Rover. Coburn chiamò Majid e gli chiese di procurarne un'altra, se era possibile. Il cane preoccupava Simons. Rich Gallagher aveva intenzione di portare Buffy dentro uno zaino. Se avessero dovuto attraversare il confine passando tra i monti a piedi o a cavallo, sarebbe bastato un guaito per farli uccidere tutti... e Buffy abbaiava per niente. Simons disse a Coburn e a Taylor:
«Voglio che voi due perdiate quel fottuto cane». «Sta bene» disse Coburn. «Mi offrirò di portarlo a spasso, e lo lascerò andare.» «No» disse Simons. «Quando dico perderlo, voglio dire definitivamente.» Il problema più grosso era Cathy. Quella sera si sentì male... «problemi femminili» disse Rich. Sperava che un giorno di riposo a letto servisse a renderle le forze, ma Simons era meno ottimista. Inveiva contro l'ambasciata. «Ci sono tanti sistemi che il Dipartimento di Stato potrebbe usare per far uscire qualcuno del paese e proteggerlo, se volesse» disse. «Metterlo in una cassa, spedirlo come merce... se volessero, sarebbe uno scherzo.» Bill incominciava a sentirsi responsabile di tutte quelle difficoltà. «Per me è pazzesco che nove persone rischino la vita per due» disse. «Se io e Paul non fossimo qui, voi, non correreste pericolori... potreste attendere la ripresa regolare dei voli. Forse io e Paul dovremmo metterci nelle mani della nostra ambasciata.» Simons ribatté: «E se voi due ve ne andate e Dadgar decide di prendere altri ostaggi?». Comunque, pensò Coburn, adesso Simons non perderà d'occhio quei due neppure per un momento fino a quando saranno negli Stati Uniti. Suonò il campanello del portone, e tutti ammutolirono, agghiacciati. «Andate nelle stanze da letto e non fate chiasso» disse Simons. Coburn andò alla finestra. La padrona di casa credeva che lì abitassero in due, Coburn e Poché - non aveva mai visto Simons - quindi né lei né altri dovevano sapere che adesso c'erano undici persone. Mentre Coburn osservava, la padrona di casa attraversò il cortile e aprì il portoncino. Si fermò per qualche minuto, parlando con qualcuno che Coburn non riusciva a vedere; poi richiuse e tornò indietro sola. Quando sentì la porta del suo appartamento che si chiudeva al piano di sopra annunciò agli altri: «Falso allarme». Si erano preparati tutti per il viaggio rovistando la casa alla ricerca di indumenti pesanti. Paul pensò: Toni Dvoranchik morirebbe d'imbarazzo se sapesse che tutti questi uomini hanno frugato nei suoi cassetti. Avevano messo insieme un bizzarro assortimento di cappelli, giacche e maglioni troppo grandi o troppo piccoli. Poi non restò altro che aspettare: aspettare che Majid trovasse un'altra Range Rover, aspettare che Cathy stesse meglio e aspettare che Perot organizzasse la squadra salvataggio turca.
Guardarono alcuni vecchi incontri di football al videoregistratore. Paul giocò a ramino con Gayden. Il cane dava sui nervi a tutti, ma Coburn decise di non eliminarlo fino all'ultimo minuto, nell'eventualità che ci fosse un cambiamento dei piani e che fosse possibile salvarlo. John Howell leggeva Abissi di Peter Benchley; aveva visto una parte del film durante il volo che l'aveva condotto a Teheran e non aveva assistito alla conclusione perché l'aereo era atterrato prima che finisse, e non aveva mai capito chi fossero i buoni e i cattivi. Simons disse: «Quelli che vogliono bere possono farlo, ma se dovremo muoverci in fretta è meglio che non abbiamo alcol nello stomaco». Nonostante l'avvertimento, Gayden e Gallagher aggiunsero di nascosto un po' di Drambuie al loro caffè. Il campanello squillò di nuovo, e la scena si ripeté, ma questa volta la visita era per la padrona di casa. Erano tutti straordinariamente calmi, considerando che erano in tanti, stipati in un soggiorno e nelle tre stanze da letto. L'unico irritabile era, prevedibilmente, Keane Taylor. Lui e Paul prepararono un'abbondante cena per tutti, svuotando quasi completamente il frigo; ma quando Taylor arrivò dalla cucina gli altri avevano spolverato tutto, e per lui non era rimasto niente. Inveì energicamente e tutti risero, come facevano sempre quando si arrabbiava. Quella notte si arrabbiò di nuovo. Dormiva sul pavimento accanto a Coburn, e Coburn russava. Faceva un tale chiasso che Taylor non riusciva a dormire. Non riuscì neppure a svegliare Coburn per dirgli che russava, e si arrabbiò ancora di più. Quella notte, a Washington nevicava. Ross Perot era stanco e teso. Aveva trascorso quasi tutta la giornata a tentare, con Mitch Hart, di convincere il governo a far partire i suoi da Teheran con un aereo. Aveva parlato con il sottosegretario David Newsom al Dipartimento di Stato, con Thomas V. Beard alla Casa Bianca e con Mark Ginsberg, un giovane assistente di Carter che fungeva da collegamento tra la Casa Bianca e il Dipartimento di Stato. Stavano facendo tutto il possibile per far partire in aereo gli altri mille americani rimasti a Teheran, e non intendevano organizzare aerei speciali per Ross Perot. Rassegnato ad andare in Turchia, Perot si recò in un negozio di articoli sportivi e acquistò indumenti pesanti. Il 707 preso in affitto arrivò da Dallas, e Pat Sculley chiamò dall'aeroporto Dulles per annunciare che durante il volo erano emersi alcuni problemi meccanici: il radar secondario e il sistema di navigazione a inerzia non funzionavano a dovere, il motore numero uno consumava il doppio di olio del normale, non c'era ossigeno a
sufficienza per la cabina, mancavano le gomme di scorta, e le valvole del serbatoio dell'acqua erano bloccate dal ghiaccio. Mentre i meccanici erano al lavoro, Perot era al Madison Hotel con Mort Meyerson, un vicepresidente dell'EDS. All'EDS c'era un gruppo speciale di collaboratori di Perot, uomini come T. J. Marquez e Merv Stauffer, ai quali si rivolgeva per le questioni che non facevano parte dei problemi quotidiani del software dei computer: piani come la campagna per i prigionieri di guerra, la guerra alla droga nel Texas e il salvataggio di Paul e Bill. Sebbene Meyerson non fosse stato coinvolto nei progetti speciali di Perot, tuttavia era stato informato del piano di salvataggio: conosceva molto bene Paul e Bill, avendo lavorato con loro nei primi anni come ingegnere dei sistemi. Tuttavia per quanto riguardava gli affari era il miglior specialista di cui disponesse Perot; presto sarebbe diventato presidente dell'EDS. (Perot avrebbe continuato ad essere presidente del consiglio d'amministrazione.) Perot e Meyerson discussero d'affari, esaminando i vari progetti dell'EDS. Sebbene nessuno dei due lo dicesse, entrambi sapevano che la vera ragione di quell'incontro era la possibilità che Perot non tornasse dalla Turchia. Sotto alcuni punti di vista, erano due uomini diametralmente diversi. Il nonno di Meyerson era stato un ebreo russo che aveva risparmiato accanitamente per due anni per pagarsi il biglietto del treno da New York al Texas. Meyerson spaziava dall'atletica all'arte: giocava a palla a mano, era legato all'orchestra sinfonica di Dallas e lui stesso era un buon pianista. Per prendere in giro Perot e le sue "aquile", chiamava "i rospi di Meyerson" i propri collaboratori più stretti. Ma sotto molti altri aspetti somigliava a Perot; era un uomo d'affari audace e costruttivo, le cui idee spaventavano spesso i dirigenti più tradizionalisti dell'EDS. Perot aveva dato disposizioni perché, se gli fosse capitato qualcosa durante le operazioni di salvataggio, spettasse a Meyerson votare per il suo pacchetto azionario. L'EDS avrebbe continuato a essere guidata da un capo, non da un burocrate. Mentre Perot discuteva d'affari, si preoccupava per l'aereo e si rodeva a causa del Dipartimento di Stato, il suo pensiero, andava a sua madre. Lulu May Perot peggiorava rapidamente, e lui avrebbe voluto starle accanto. Se fosse morta mentre lui era in Turchia non l'avrebbe più rivista, e questo gli avrebbe spezzato il cuore. Meyerson lo sapeva. Interruppe la discussione per chiedere: «Ross, non sarebbe meglio che andassi io?».
«Cosa vorresti dire?» «Perché non posso andare io in Turchia al tuo posto? Hai già fatto la tua parte... sei stato in Iran. In Turchia non puoi far nulla che non possa fare anch'io. Ed è giusto che resti accanto a tua madre.» Perot ne fu commosso. Mort non era obbligato a offrirsi, pensò. «Se sei disposto...» La tentazione era forte. «Voglio pensarci bene. Lasciami il tempo di riflettere.» Non era certo di avere il diritto di lasciare che Meyerson prendesse il suo posto. «Vediamo cosa pensano gli altri.» Prese il telefono, chiamò Dallas e si mise in contatto con T. J. Marquez. «Mort si è offerto di andare in Turchia al posto mio» disse. «Cosa te ne pare?» «È la peggiore idea del mondo» rispose T. J. «Tu hai seguito il piano fin dal primo momento, e in poche ore non ce la faresti a dire a Mort tutto ciò che deve sapere. Tu conosci Simons, sai come ragiona... e Mort non lo sa. Inoltre Simons non conosce Mort... e sai che non è pronto a fidarsi di chi non conosce.» «Hai ragione» disse Perot. «Non è neppure il caso di parlarne.» Riattaccò. «Mort, ti ringrazio, ma andrò io in Turchia.» «Come vuoi.» Qualche minuto più tardi Meyerson se ne andò per tornare a Dallas con il Lear preso a noleggio. Perot richiamò l'EDS e parlò con Merv Stauffer. «Voglio che cominciate a lavorare a turni e a dormire un po'» disse. «Non voglio avere a che fare con un branco di zombi.» «Sta bene.» Perot fece tesoro del proprio consiglio e andò a dormire per qualche ora. Il telefono lo svegliò alle due del mattino. Era Pat Sculley che chiamava dall'aeroporto; i problemi meccanici dell'aereo erano stati risolti. Perot prese un taxi e raggiunse l'aeroporto Dulles. Fu una corsa allucinante di cinquanta chilometri sulle strade ghiacciate. La squadra di salvataggio turca era finalmente al completo: Perot; Pat Sculley e Jim Schwebach, il duo terribile; il giovane Ron Davis; l'equipaggio del 707; e i due piloti Dick Douglas e Julian "Scratch" Kanauch. Ma l'aereo non era stato riparato alla perfezione. Occorreva un pezzo di ricambio che a Washington non si trovava. Gary Fernandes - il dirigente dell'EDS che si era occupato del contratto d'affitto dell'apparecchio - aveva un amico che era responsabile dell'assistenza a terra per una delle linee aeree all'aeroporto La Guardia di New York; lo chiamò, e l'amico si alzò, trovò il pezzo di ricambio e lo caricò su un aereo per Washington. Nel frattempo,
Perot si sdraiò su una panca nel terminal e dormì ancora un paio d'ore. Salirono a bordo alle sei del mattino. Perot si guardò intorno sbalordito. Sull'aereo c'era una stanza da letto con un lettone enorme, tre bar, un lussuoso impianto hi-fi, il televisore e un ufficio con relativo telefono. C'erano folti tappeti, poltrone di nappa e tappezzerie di velluto. «Sembra un bordello persiano» disse Perot, sebbene non avesse mai messo piede in un bordello persiano. L'aereo decollò. Dick Douglas e Scratch Kanauch si raggomitolarono immediatamente e si addormentarono. Perot tentò di imitarli: per sedici ore non avrebbe avuto nulla da fare. Mentre l'aereo si avventurava sopra l'Atlantico, si chiese ancora una volta se ciò che stava facendo era giusto. Dopotutto, avrebbe potuto lasciare che Paul e Bill si arrangiassero a Teheran. Nessuno lo avrebbe rimproverato: era compito del governo pensare a loro. Anzi, ancora adesso l'ambasciata avrebbe potuto farli partire sani e salvi dall'Iran. D'altra parte, Dadgar avrebbe potuto ricatturarli e sbatterli in galera per vent'anni... e l'ambasciata, come aveva fatto finora, avrebbe continuato a non proteggerli. E che cosa avrebbero fatto i rivoluzionari se avessero messo loro le mani su Paul e Bill? Li avrebbero linciati? No. Perot non poteva permettere che i suoi collaboratori si arrangiassero... non era nelle sue abitudini. Era responsabile per Paul e Bill... non c'era bisogno che fosse sua madre a dirglielo. Il guaio era che adesso stava facendo correre rischi a un maggior numero di uomini. Anziché avere due persone che si nascondevano a Teheran, si sarebbe trovato con undici dipendenti in fuga nei territori selvaggi dell'Iran nord-occidentale, e altri quattro, più due piloti, che li cercavano. Se qualcosa fosse andato male... se qualcuno fosse stato ucciso... il mondo avrebbe interpretato la cosa come una pazzesca avventura tentata da un uomo che credeva di vivere ancora ai tempi del West. Immaginava i titoli dei giornali: IL TENTATIVO DI SALVATAGGIO IN IRAN DEL MILIONARIO TEXANO SI CONCLUDE TRAGICAMENTE... Se perdessimo Coburn? si chiese. Che cosa direi a sua moglie? Per Liz sarebbe difficile capire perché ho rischiato la vita di diciassette uomini per assicurare la libertà a due. Non aveva mai trasgredito la legge in tutta la sua vita, e adesso era coinvolto in tante attività illecite che non riusciva neppure a contarle. Scacciò tutti quei pensieri. La decisione era presa. Se si vive pensando a tutte le brutte cose che possono succedere, presto ci si convince che è me-
glio non far nulla. Bisogna pensare ai problemi che si possono risolvere. Le puntate sono sul tavolo e la ruota sta girando. È incominciata l'ultima partita. Il martedì l'ambasciata degli Stati Uniti annunciò che i voli per l'evacuazione di tutti gli americani di Teheran sarebbero partiti il prossimo weekend. Simons chiamò Coburn e Poché in una delle stanze da letto dell'appartamento dei Dvoranchik e chiuse la porta. «Questo risolve una parte dei nostri problemi» disse. «A questo punto, voglio che si dividano. Alcuni potranno partire con i voli dell'ambasciata, e per il viaggio in macchina resterà un gruppo meno numeroso.» Coburn e Poché erano d'accordo. «Ovviamente, Paul e Bill dovranno andare in macchina» continuò Simons. «Due di noi tre dovranno accompagnarli: uno per scortarli attraverso le montagne, e l'altro per passare regolarmente il confine e incontrarsi con Boulware. Abbiamo bisogno di due autisti iraniani per le Range Rover. Ci restano due posti liberi. Chi portiamo? Cathy no... è meglio che parta con il volo dell'ambasciata.» «Rich vorrà andare con lei» disse Coburn. «E quel fottuto cane» soggiunse Simons. Buffy è salvo, pensò Coburn soddisfatto. Il colonnello continuò: «Ci sono Keane Taylor, John Howell, Bob Young e Bill Gayden. Ecco il nostro problema: Dadgar potrebbe far arrestare qualcuno all'aeroporto, e ci ritroveremmo al punto di partenza... con qualche dirigente dell'EDS in galera. Chi rischia di più?» «Gayden» disse Coburn. «È il presidente dell'EDS World. Come ostaggio sarebbe preferibile a Paul e Bill. Anzi, quando Dadgar fece arrestare Bill Gaylord, ci chiedemmo se c'era un errore, se in realtà non voleva Bill Gayden e si era confuso per la somiglianza tra i nomi.» «Allora Gayden verrà con Paul e Bill.» «John Howell non è neppure un dipendente dell'EDS. Ed è avvocato. Dovrebbe correre pochissimi rischi.» «Howell partirà in aereo.» «Bob Young lavora per l'EDS nel Kuwait, non in Iran. Se Dadgar ha un elenco dei nomi di quelli dell'EDS di qui, Young non vi figura.» «Anche Young andrà in aereo. Taylor sarà su una delle macchine. Ora, uno di noi deve partire con il volo della squadra "pulita". Joe, tocca a lei.
Si è messo meno in vista di Jay. Lui ha girato per le strade, è stato alle riunioni all'Hyatt... mentre nessuno sa che lei è qui.» «Va bene» disse Poché. «Dunque la Squadra Pulita è formata dai due Gallagher, Bob Young e John Howell, guidati da Joe. La Squadra Sporca siamo io, Jay, Keane Taylor, Bill Gayden, Paul, Bill e due iraniani che guideranno. Andiamo a dirlo agli altri.» Entrarono in soggiorno e invitarono tutti a sedersi. Mentre Simons parlava, Coburn ammirava il modo in cui annunciava la decisione: dava a tutti l'impressione di chiedere cosa ne pensavano, anziché impartire ordini precisi. Ci fu qualche discussione per l'assegnazione all'uno o all'altro gruppo John Howell e Bob Young avrebbero preferito far parte della squadra Sporca, per timore che Dadgar li facesse arrestare - ma alla fine pervennero alla stessa decisione che era già stata presa da Simons. La Squadra Pulita poteva trasferirsi all'ambasciata al più presto possibile, disse il colonnello. Gayden e Joe Poché andarono in cerca del console generale Lou Goelz per parlargli. La Squadra Sporca sarebbe partita l'indomani mattina. Coburn doveva organizzare i guidatori iraniani. Avrebbero dovuto essere Majid e suo cugino, il professore; ma il professore era a Rezayieh e non poteva raggiungere Teheran, quindi Coburn doveva trovare un sostituto. Aveva già scelto Seyyed. Seyyed era un giovane ingegnere dei sistemi come Rashid e il Motociclista, ma veniva da una famiglia molto più ricca; vari parenti avevano occupato posti di rilievo nella politica e nell'esercito ai tempi dello scià. Seyyed aveva studiato in Inghilterra e parlava con accento britannico. La sua dote più preziosa, dal punto di vista di Coburn, era che veniva dall'Iran nord-occidentale, conosceva quel territorio e parlava turco. Coburn chiamò Seyyed; s'incontrarono in casa del giovane iraniano. Coburn gli raccontò la versione che aveva preparato. «Devo raccogliere informazioni sulle strade tra qui e Khoy» disse. «Ho bisogno di qualcuno che guidi la macchina. È disposto?» «Certamente» disse Seyyed. «Vediamoci questa sera alle dieci e tre quarti in piazza Argentina.» Seyyed accettò. Era stato Simons a dare quelle istruzioni a Coburn. Coburn si fidava di Seyyed, ma naturalmente il colonnello non si fidava affatto; quindi Seyyed
avrebbe ignorato dov'era la squadra fino al momento in cui fosse arrivato sul posto, e non avrebbe saputo di Paul e Bill fino a quando non li avesse visti; e da quell'istante Simons non l'avrebbe perduto d'occhio. Quando Coburn tornò a casa dei Dvoranchik, Gayden e Poché erano già rientrati dall'incontro con Lou Goelz. Avevano detto al console generale che alcuni funzionari dell'EDS sarebbero rimasti a Teheran per cercare Paul e Bill, ma gli altri volevano partire con il primo volo disponibile, e nel frattempo alloggiare all'ambasciata. Goelz aveva risposto che l'ambasciata era piena, ma che potevano stare in casa sua. Tutti pensarono che fosse un bel gesto da parte di Goelz. Negli ultimi due mesi l'avevano criticato duramente, e non gli avevano nascosto che attribuivano a lui e ai suoi colleghi la responsabilità dell'arresto di Paul e Bill; era molto generoso, dopo tutto questo, a offrire loro la sua casa. Via via che la situazione, a Teheran, si avviava allo sfascio, Goelz era sempre meno burocrate e dimostrava di essere più umano. Quelli della Squadra Pulita e quelli della Squadra Sporca si scambiarono strette di mano e auguri, senza sapere chi fosse ad avere più bisogno dell'aiuto della fortuna; poi la Squadra Pulita partì per raggiungere la casa di Goelz. Ormai era sera. Coburn e Keane Taylor andarono a prendere Majid a casa sua: avrebbe passato la notte in casa Dvoranchik, come Seyyed. Inoltre, dovevano prelevare un bidone da 200 litri di benzina che Majid custodiva per loro. Quando arrivarono, Majid non c'era. Attesero, innervositi. Finalmente Majid rientrò. Li salutò, porse loro il benvenuto, fece portare il tè. Coburn disse: «Partiamo domattina. Vogliamo che lei venga subito con noi». Majid pregò Coburn di passare con lui nella stanza accanto e gli disse: «Non posso venire». «Perché?» «Devo uccidere Hoveyda.» «Cosa?» domandò sbalordito Coburn. «Chi?» «Amir Abbas Hoveyda, l'ex primo ministro.» «Perché deve ucciderlo?» «È una lunga storia. Lo scià varò una riforma agraria, e Hoveyda cercò di togliere le terre alla mia famiglia. Ci ribellammo e Hoveyda mi fece arrestare... Da anni sto aspettando di vendicarmi.» «E deve ucciderlo proprio adesso?» chiese Coburn, ancora più scon-
certato. «Ho le armi e l'occasione. Tra due giorni tutto potrebbe cambiare.» Coburn era allibito. Non sapeva che cosa dire. Era chiaro che Majid non si sarebbe lasciato dissuadere. Coburn e Taylor caricarono il fusto di carburante sulla Range Rover e si congedarono. Majid augurò loro buona fortuna. Quando rientrarono a casa dei Dvoranchik, Coburn cominciò i tentativi per mettersi in contatto con il Motociclista, sperando che accettasse di prendere il posto di Majid. Il Motociclista era un tipo sfuggente quanto lo stesso Coburn. Di solito lo si poteva trovare a un certo numero telefonico una specie di comando rivoluzionario, probabilmente - una volta al giorno. L'ora in cui vi andava abitualmente era ormai passata - era sera tardi - ma Coburn tentò. Il Motociclista non c'era. Lo cercò a qualche altro recapito telefonico, ma fu inutile. Almeno avevano Seyyed. Alle dieci e mezzo Coburn andò all'appuntamento. Si avviò a piedi per le strade buie verso piazza Argentina, a un chilometro e mezzo di distanza, poi entrò in un cantiere e attese in un edificio deserto. Alle undici Seyyed non era ancora arrivato. Simons aveva detto a Coburn di attendere quindici minuti e non di più; Coburn decise di concedere a Seyyed ancora un po' di tempo. Aspettò fino alle undici e mezzo. Seyyed non sarebbe venuto. Coburn cominciò a chiedersi che cosa era accaduto; data la posizione della famiglia di Seyyed, era possibile che fosse caduto vittima dei rivoluzionari. Per la Squadra Sporca era un disastro. Non avevano nessun iraniano che andasse con loro. Come diavolo faremo a passare dai posti di blocco? si chiese Coburn. Che iella nera: il professore non viene, Majid rifiuta, il Motociclista non si trova e adesso Seyyed non si fa vedere. Merda. Lasciò il cantiere e si allontanò. All'improvviso sentì una macchina. Si voltò e vide una jeep carica di rivoluzionari armati che girava sulla piazza. Si nascose dietro un cespuglio. La jeep passò oltre. Coburn proseguì, allungando il passo e chiedendosi se quella notte era in vigore il coprifuoco. Era quasi arrivato a casa quando la jeep tornò rombando verso di lui. Mi hanno visto prima, pensò, e sono tornati indietro a prendermi. Era molto buio. Non era possibile che l'avessero ancora individuato. Co-
burn girò sui tacchi e tornò indietro di corsa. In quella strada non c'erano ripari. Il rombo della jeep diventò più forte. Finalmente Coburn scorse alcuni cespugli e ci si buttò in mezzo. Si sdraiò a terra, con il cuore che gli martellava in gola, mentre la jeep si avvicinava. Lo stavano cercando? Avevano catturato Seyyed e l'avevano torturato, costringendolo a confessare che aveva un appuntamento con un porco capitalista americano in piazza Argentina alle dieci e tre quarti...? La jeep passò senza fermarsi. Coburn si rialzò. Corse fino a quando arrivò a casa dei Dvoranchik. Riferì a Simons che non avevano autisti iraniani. Simons imprecò. «C'è qualcun altro che possiamo chiamare?» «Uno solo. Rashid.» Coburn sapeva che il colonnello non voleva servirsi di Rashid perché aveva guidato l'assalto al carcere, e se qualcuno che ricordava di averlo visto in quell'occasione l'avesse sorpreso al volante di una macchina carica di americani sarebbero stati guai. Ma Coburn non sapeva chi altri proporre. «Sta bene» disse Simons. «Lo chiami.» Coburn fece il numero di Rashid. Era a casa! «Sono Jay Coburn. Ho bisogno del suo aiuto.» «Sicuro.» Coburn non voleva dare per telefono l'indirizzo del nascondiglio, temendo un'intercettazione. Ricordò che Bill Dvoranchik era leggermente strabico. Disse: «Ricorda quel tale con gli occhi strani?». «Con gli occhi strani? Oh, sì...» «Non dica il suo nome. Ricorda dove abitava?» «Sicuro...» «Non lo dica. Io sono là. Ho bisogno che mi raggiunga.» «Jay, io sto a parecchi chilometri di distanza, e non so come fare per attraversare la città...» «Provi» disse Coburn. Sapeva che Rashid aveva sempre mille risorse. Bastava assegnargli un compito perché si desse da fare per portarlo a termine. «Ce la farà.» «Va bene.» «Grazie.» Coburn riattaccò. Era mezzanotte. Paul e Bill avevano scelto due passaporti tra quelli che Gayden aveva
portato dagli Stati Uniti, e Simons aveva ordinato loro di imparare a memoria i nomi, le date di nascita, i connotati, e tutti i visti e i timbri. La fotografia del passaporto di Paul somigliava più o meno a lui, ma per Bill era un problema. Nessuna delle foto andava bene, e alla fine aveva dovuto accontentarsi del passaporto di Larry Humphreys, un tipo biondo piuttosto nordico che non gli somigliava affatto. La tensione crebbe via via, mentre i sei uomini discutevano i dettagli del viaggio che sarebbe incominciato tra poche ore. Secondo gli amici militari di Rich Gallagher, a Tabriz c'erano scontri a fuoco; quindi si sarebbero attenuti al piano di percorrere la strada bassa, a sud del lago di Rezaiyeh, passando per Mahabad. Se li avessero interrogati, la loro risposta sarebbe stata il più possibile vicina alla verità... come preferiva Simons quando doveva mentire. Avrebbero detto che erano uomini d'affari e che volevano tornare a casa dalle loro famiglie; poiché l'aeroporto era chiuso, stavano andando in Turchia in macchina. Per accreditare le loro affermazioni, non avrebbero portato armi. Era una decisione difficile - avrebbero potuto pentirsene, se si fossero ritrovati inermi in mezzo a una rivoluzione - ma Simons e Coburn avevano constatato durante il viaggio di ricognizione che i rivoluzionari cercavano sempre le armi. L'istinto suggeriva a Simons che sarebbe stato meglio tentare di trarsi d'impaccio con le parole anziché sparando. Decisero anche di abbandonare la scorta di carburante: avrebbe dato alla squadra un'aria troppo professionale e organizzata per un gruppo di uomini d'affari che se ne tornavano tranquillamente in patria. Ma avrebbero portato con loro parecchio denaro. Joe Poché e la Squadra Pulita erano partiti con cinquantamila dollari, ma il gruppo di Simons aveva ancora all'incirca un quarto di milione, inclusi rial iraniani, marchi, sterline e oro. Misero cinquantamila dollari in sacchetti da cucina, appesantirono i sacchetti con pallini da caccia e li misero in una tanica di benzina. Una parte del denaro la nascosero in una scatola di fazzolettini di carta, una parte in una lampada tascabile, nello spazio per la pila. Il resto lo divisero tra loro, perché ognuno se lo nascondesse addosso. Alla una Rashid non era ancora arrivato. Simons mandò Coburn ad attenderlo sulla porta di strada. Coburn rabbrividiva di freddo nell'oscurità e si augurava che Rashid comparisse. L'indomani sarebbero partiti con lui o senza di lui; ma senza di lui, probabilmente, non sarebbero andati lontano. Gli abitanti dei villaggi di campagna avrebbero deciso di fermare gli americani per una questio-
ne di principio. Rashid sarebbe stato la guida ideale, nonostante le preoccupazioni di Simons: quel ragazzo aveva la parlantina sciolta. Coburn pensava a casa sua. Liz era infuriata con lui, lo sapeva. Assillava Merv Stauffer, lo chiamava ogni giorno per chiedere dov'era suo marito e che cosa faceva e quando sarebbe tornato a casa. Coburn capiva che avrebbe dovuto prendere qualche decisione, al ritorno in patria. Non era certo che avrebbe trascorso con Liz il resto della sua vita; e dopo quell'episodio forse anche lei l'avrebbe pensata allo stesso modo. Una volta ci amavamo, pensò. Ma dove sono finiti quei bei tempi? Sentì un passo. Un uomo piccolo, con la testa ricciuta, stava venendo verso di lui, tenendo le spalle curve per ripararsi dal freddo. «Rashid!» sibilò Coburn. «Jay?» «Cristo, che gioia vederla!» Coburn lo prese per il braccio. «Entriamo.» Andarono in soggiorno. Rashid salutò tutti, sorridendo e sbattendo le palpebre; le sbatteva spesso, soprattutto nei momenti di tensione, e aveva una tosse nervosa. Simons lo fece sedere e gli spiegò il piano. Rashid sbatté le palpebre ancora più rapidamente. Quando comprese cosa gli chiedevano di fare, cominciò a sentirsi importante. «Vi aiuterò a una condizione» disse, e tossì. «Io conosco questo paese, conosco questa società. Voi siete tutti personaggi importanti all'EDS, ma questo non è l'EDS. Se vi conduco al confine, dovrete sempre fare quello che vi dirò, senza discutere.» Coburn trattenne il respiro. Nessuno poteva permettersi di parlare così a Simons. Ma Simons sorrise. «Come vuole, Rashid.» Qualche minuto dopo Coburn prese in disparte Simons e gli chiese sottovoce: «Colonnello, ha detto sul serio? È Rashid che comanda?». «Sicuro» rispose Simons. «Comanda finché fa quello che voglio io.» Coburn sapeva meglio di Simons quanto fosse difficile tenere a freno Rashid persino quando Rashid avrebbe dovuto obbedire agli ordini. D'altra parte, Simons era il comandante più esperto per quel genere di operazioni. Ma l'Iran era la terra di Rashid, e Simons non parlava il Farsi... L'ultima cosa di cui avevano bisogno durante quel viaggio era una lotta per il potere tra Simons e Rashid. Coburn chiamò Dallas al telefono e parlò con Merv Stauffer. Paul aveva tradotto in codice una descrizione del percorso che la Squadra Sporca si proponeva di seguire per raggiungere il confine, e Coburn riferì a Stauffer
il messaggio cifrato. Poi discussero i sistemi per tenersi in contatto lungo la strada. Con ogni probabilità sarebbe stato impossibile chiamare Dallas dai telefoni a gettone dei centri di campagna, perciò decisero che avrebbero inoltrato i messaggi per mezzo di un dipendente dell'EDS a Teheran, Gholam. Gholam non doveva sapere come stavano le cose. Coburn lo avrebbe chiamato una volta al giorno. Se andava tutto per il meglio, avrebbe detto: «Ho un messaggio per Jim Nyfeler: stiamo bene». Quando la squadra avesse raggiunto Rezayieh, avrebbero aggiunto: «Siamo sul posto». Stauffer avrebbe semplicemente chiamato Gholam chiedendo se c'era qualche comunicazione. Quindi, se fosse andato tutto per il meglio, Gholam sarebbe rimasto all'oscuro. Se le cose si fossero messe male, avrebbero abbandonato la finzione; Coburn avrebbe parlato apertamente con Gholam, gli avrebbe detto che difficoltà c'erano e gli avrebbe chiesto di chiamare Dallas. Stauffer e Coburn avevano imparato il codice al punto che potevano discutere al telefono usando in prevalenza parole normalissime mescolate ai gruppi di lettere e alle parole chiave del codice; e se qualcuno ascoltava abusivamente la conversazione, non sarebbe riuscito a capirne il significato. Merv spiegò che Perot aveva intenzione di entrare in aereo nell'Iran nord-occidentale, dalla Turchia, per prendere a bordo la Squadra Sporca, se fosse stato necessario. Perot voleva che le Range Rover fossero facilmente identificabili dall'alto, e quindi proponeva di mettere sul tettuccio di ognuna una grande X, dipinta o fatta di nastro adesivo nero. Se uno dei veicoli doveva venire abbandonata - per un'avaria o per mancanza di carburante o per qualche altra ragione - la X doveva venire cambiata in A. Perot aveva inviato un altro messaggio. Aveva parlato con l'ammiraglio Moorer, il quale l'aveva avvertito che la situazione stava peggiorando e che la squadra doveva andarsene in fretta. Coburn lo riferì a Simons. Simons rispose: «Dica all'ammiraglio Moorer che qui l'unica acqua è quella del rubinetto... guardo dalla finestra e non vedo neppure una nave». Coburn rise e disse a Stauffer: «Abbiamo capito il messaggio». Erano quasi le cinque del mattino. Non c'era più tempo di parlare. Stauffer disse: «Sia prudente, Jay». Sembrava commosso. «Sicuro.» «Buona fortuna.» «Arrivederci, Merv.» Coburn riattaccò.
Allo spuntar dell'alba, Rashid prese una delle Range Rover per compiere una ricognizione. Doveva trovare un percorso che permettesse di uscire dalla città evitando i posti di blocco. Se ci fossero stati violenti combattimenti, la squadra avrebbe preso in considerazione l'eventualità di rinviare di ventiquattr'ore la partenza. Coburn prese la seconda Range Rover per andare da Gholam. Gli consegnò una somma in contanti per pagare gli stipendi al Bucarest, e non gli disse che si sarebbe servito di lui per trasmettere messaggi a Dallas. Lo scopo di quella mossa era di fornire una parvenza di normalità, in modo che passasse qualche giorno prima che i dipendenti iraniani rimasti incominciassero a sospettare che i dirigenti americani avevano lasciato la capitale. Quando Coburn tornò a casa dei Dvoranchik, discussero come si sarebbero divisi a bordo delle due macchine. Rashid, ovviamente, avrebbe guidato la prima e avrebbe portato Simons, Bill e Keane Taylor. Sulla seconda avrebbero viaggiato Coburn, Paul e Gayden. Simons disse: «Coburn, non perda di vista Paul per un istante fino a quando non sarà a Dallas. Taylor, lei faccia altrettanto con Bill». Rashid rientrò e annunciò che le strade erano tranquille. «Bene» disse Simons. «Muoviamoci.» Keane Taylor e Bill andarono a riempire i serbatoi delle Range Rover con il bidone da 200 litri. Bisognava travasare il carburante con un tubo, e l'unico modo per far iniziare l'afflusso consisteva nell'aspirare la benzina; Taylor ne inghiottì una sorsata e dovette tornare in casa a vomitare. Per una volta, nessuno rise di lui. Secondo le istruzioni di Simons, Coburn aveva acquistato un tubetto di stimolanti. Lui e Simons non dormivano da ventiquattro ore; e adesso presero una compressa per restare svegli. Paul rastrellò in cucina tutti i viveri non deperibili: cracker, creme confezionate, budini in scatola e formaggi. Non erano molto nutrienti, ma dovevano bastare. Coburn mormorò a Paul: «Non dimenticare le cassette per noi, così potremo ascoltare un po' di musica durante il viaggio». Bill caricò le coperte, le torce elettriche e gli apriscatola. Erano pronti. Uscirono tutti. Mentre stavano per salire sulle Range Rover, Rashid disse: «Paul, per favore, guidi lei la seconda macchina. È abbastanza scuro di carnagione
per poter passare per iraniano, se non apre bocca». Paul lanciò un'occhiata a Simons. Simons annuì. Paul si mise al volante. Uscirono dal cortile. XI Mentre la Squadra Sporca lasciava la casa dei Dvoranchik, Ralph Boulware era all'aeroporto di Istanbul e attendeva Ross Perot. Boulware non sapeva cosa pensare di Perot. Quando era entrato all'EDS, Boulware non era altro che un tecnico. Adesso era un dirigente. Aveva una bella casa in un quartiere bianco di Dallas, e un reddito che pochi negri americani potevano sognare. Doveva tutto all'EDS e alla politica di Perot, che promuoveva i meritevoli. Certo, tutto questo non lo davano per niente: in cambio chiedevano intelligenza e impegno e buon fiuto per gli affari. Ma quello che ti davano per niente era la possibilità di mostrare di che stoffa eri fatto. D'altra parte, Boulware sospettava che Perot volesse disporre dei suoi uomini corpo e anima. Per questa ragione gli ex militari si trovavano bene all'EDS: erano abituati alla disciplina e a lavorare ventiquattr'ore su ventiquattro. Boulware temeva che un giorno o l'altro sarebbe stato costretto a decidere se apparteneva a se stesso o a Perot. Ammirava Perot perché era andato in Iran. Un uomo tanto ricco e ben protetto che si era esposto così, in prima linea... ne aveva, di fegato. Probabilmente non esisteva in America un altro presidente del consiglio d'amministrazione d'una grande azienda che sarebbe stato capace di ideare il piano di salvataggio, e tanto meno di parteciparvi personalmente. Eppure Boulware si chiedeva - come se lo sarebbe chiesto per tutta la vita - se avrebbe mai potuto fidarsi veramente di un bianco. Il 707 di Perot atterrò alle sei del mattino. Boulware salì a bordo. Diede un'occhiata all'arredamento lussuoso e subito lo dimenticò: andava di fretta. Si sedette per riferire a Perot. «Il mio aereo parte alle sei e mezzo, quindi sarò breve» disse. «Qui non può comprare un elicottero né un piccolo aeroplano.» «Perché?» «È vietato. Può noleggiare un aereo, ma non può farsi portare dove vuole... deve esserci una destinazione precisa.» «Chi lo dice?»
«Le leggi locali. Per giunta, noleggiare un aereo è una cosa tanto insolita che i burocrati governativi le salteranno addosso a tempestarla di domande, e questo non le andrebbe. Ora...» «Un momento, Ralph, calma» disse Perot. Aveva negli occhi quella luce che diceva "il-capo-sono-io". «E se prendiamo un elicottero in un altro paese e veniamo qui?» «Sono in Turchia da un mese e ho tentato tutte le strade, e le assicuro che non può prendere a noleggio un elicottero e non può prendere a noleggio neppure un aereo, e adesso devo partire per incontrarmi con Simons al confine.» Perot fece marcia indietro. «Sta bene. Come ci arriverà?» «Il signor Fish ci ha procurato un autobus per arrivare alla frontiera. È già in viaggio... dovevo esserci anch'io, ma ho dovuto fermarmi per riferire a lei. Andrò in aereo ad Adana, circa a metà strada, e là raggiungerò l'autobus. Ho con me Ilsman, l'agente segreto, e un altro che serve da interprete. A che ora prevedono di arrivare al confine, i nostri amici?» «Domani pomeriggio alle due» disse Perot. «Non ci sarà tempo da perdere. Ci vediamo.» Boulware corse via per prendere il suo volo. Ilsman, il grasso agente segreto, e l'interprete - Boulware non conosceva il suo nome e lo chiamava Charlie Brown - erano già a bordo. Decollarono alle sei e trenta. Arrivarono ad Ankara, e dovettero attendere la coincidenza per diverse ore. A mezzogiorno raggiunsero Adana, presso la città biblica di Tarso, nella Turchia centro-meridionale. L'autobus non c'era. Aspettarono un'ora. Boulware concluse che l'autobus non sarebbe arrivato. Con Ilsman e Charlie Brown andò all'ufficio informazioni e chiese se c'erano voli da Adana per Van, una città situata a circa centosessanta chilometri dal confine. Non c'erano voli per Van. Gli aerei non ci arrivavano. «Chieda dove possiamo noleggiare un aereo» disse Boulware a Charlie Brown. Charlie Brown lo chiese. «Qui non ci sono aerei da noleggio.» «Possiamo comprare una macchina?» «Le macchine sono molto rare in questa parte della Turchia.»
«Non ci sono concessionari di automobili in città?» «Se anche ci sono, non avranno macchine da vendere.» «C'è qualche modo per andare da qui a Van?» «No.» Era come la storiella del turista che chiede al contadino le indicazioni per andare a Londra, e il contadino risponde: «Se andassi a Londra, non partirei certo da qui». Uscirono dall'aerostazione e si fermarono sul bordo della strada polverosa. Non c'era neppure il marciapiedi. Boulware era esasperato. Finora aveva avuto la vita più facile di quasi tutti gli altri della squadra di salvataggio... non era neppure stato a Teheran. Adesso che toccava a lui combinare qualcosa, sembrava destinato a far fiasco. Boulware detestava l'idea di un insuccesso. Vide avvicinarsi una macchina con scritte in turco sul fianco. «Ehi» chiese, «è un taxi?» «Sì» disse Charlie. «Diavolo, prendiamolo!» Charlie fermò il taxi. Salirono. Boulware disse: «Gli spieghi che vogliamo andare a Van». Charlie tradusse. Il taxista mise in moto la macchina. Dopo pochi secondi fece una domanda. Charlie tradusse: «Van, dove?». «Van in Turchia.» Il taxista si fermò. Charlie riferì: «Ha detto: "Sapete quant'è lontana?"». Boulware non lo sapeva con precisione, ma immaginava che fosse lontanissima. «Gli dica di sì.» Dopo un altro breve conciliabolo, Charlie riferì: «Ha detto che non ci porta a Van». «Conosce qualcuno disposto a farlo?» Il taxista rispose scrollando le spalle. Charlie disse: «Ci porterà alla fermata dei taxi, così potremo chiedere.» «Bene.» Entrarono in città. La fermata dei taxi era un altro tratto di strada polverosa. C'erano parcheggiate alcune macchine, e nessuna era nuova. Ilsman andò a parlare con i taxisti. Boulware e Charlie scovarono una botteguccia e comprarono un sacchetto di uova sode. Quando uscirono, Ilsman aveva trovato un taxista e s'era accordato sul
prezzo. Il taxista additò con orgoglio la sua macchina. Boulware la guardò, sgomento. Era una Chevrolet che doveva avere venticinque anni, e probabilmente le gomme non erano mai state cambiate. «Dice che avremo bisogno di provviste» spiegò Charlie. «Ho comprato le uova.» «Forse ci servirà qualcosa di più.» Boulware tornò nella botteguccia e comprò tre dozzine di arance. Salirono sulla Chevrolet e andarono a un distributore. Il taxista si fece riempire anche una tanica e la mise nel portabagagli. «Dove stiamo andando non ci sono distributori» spiegò Charlie. Boulware consultò una cartina. Dovevano percorrere circa ottocento chilometri, tutti tra le montagne. «Senta» disse, «è impossibile che questa macchina ci porti al confine entro le due del pomeriggio di domani.» «Lei non capisce» rispose Charlie. «Questo è un taxista turco.» «Oh, povero me» disse Boulware. Si assestò sul sedile e chiuse gli occhi. Uscirono dalla città e si addentrarono tra i monti della Turchia centrale. La strada era terra e ghiaia, piena di buche enormi, e in certi tratti non era molto più larga della macchina. Saliva serpeggiando sui fianchi delle montagne, e da una parte c'erano strapiombi vertiginosi, senza guardrail o muretti che impedissero a un automobilista imprudente di precipitare nell'abisso. Ma il panorama era spettacoloso, con vedute magnifiche di valli assolate, e Boulware decise che un giorno sarebbe tornato con Mary e Stacy e Kecia, per rifare quel viaggio con calma. Un camion stava venendo verso di loro. Il taxista si fermò. Dal camion scesero due uomini in uniforme. «Una pattuglia dell'esercito» disse Charlie Brown. Il taxista abbassò il vetro. Ilsman parlò ai soldati. Boulware non capì una parola, ma i soldati sembravano soddisfatti. Il taxista ripartì. Dopo circa un'ora furono fermati da un'altra pattuglia, e la scena si ripeté. All'imbrunire videro un ristorante sul bordo della strada e sostarono. Era primitivo e lurido. «Hanno soltanto fagioli e riso» disse Charlie in tono di scusa, mentre sedevano a tavola. Boulware sorrise: «Ho mangiato fagioli e riso per tutta la vita». Scrutò il taxista. Doveva avere sessant'anni, e sembrava stanco. «Sarà meglio che per un po' guidi io» disse Boulware. Charlie tradusse, e il taxista protestò energicamente.
«Dice che lei non sa guidare questa macchina» riferì Charlie. «È una macchina americana con un cambio speciale.» «Senta, io sono americano» disse Boulware. «Gli spieghi che molti americani sono neri. E so guidare una Chevrolet del sessantaquattro con il cambio normale, Dio santo!» I tre turchi discussero durante il pasto e finalmente Charlie annunciò: «Può guidare lei, purché s'impegni a pagare i danni se rovina la macchina». «D'accordo» disse Boulware e pensò: Bell'affare. Pagò il conto e tornarono alla macchina. Stava incominciando a piovere. Boulware si rese conto che era impossibile correre, ma la grossa macchina era stabile, e il motore potente affrontava le salite senza difficoltà. Furono fermati per la terza volta da una pattuglia militare. Boulware mostrò il passaporto americano, e Ilsman diede spiegazioni soddisfacenti. Questa volta i soldati avevano la barba lunga e indossavano uniformi piuttosto malconce. Mentre ripartivano, Ilsman disse qualcosa e Charlie tradusse: «Cerchi di non fermarsi più, quando incontriamo una pattuglia». «Perché?» «Potrebbero rapinarci.» Magnifico, pensò Boulware. Presso la cittadina di Maras, a centocinquanta chilometri da Adana e a seicentocinquanta da Van, la pioggia diventò torrenziale, e la strada di fango e ghiaia divenne pericolosa; Boulware fu costretto a rallentare ancora di più. Poco dopo Maras, il motore si spense. Tutti scesero e sollevarono il cofano. Boulware non vedeva niente di anormale. Il taxista parlò e Charlie tradusse: «Non riesce a capirlo... aveva appena regolato il motore con le sue mani». «Forse non l'aveva regolato bene» disse Boulware. «Proviamo a controllare.» Il taxista tirò fuori dal portabagagli i ferri e una torcia elettrica, e tutti e quattro si diedero da fare intorno al motore, sotto la pioggia, cercando di scoprire che cosa non andava. Alla fine si accorsero che le puntine erano regolate male. Boulware immaginò che la pioggia, o forse l'aria di montagna più rarefatta, avesse aggravato il difetto. Ci volle un po' per sistemarle, ma finalmente il motore si riaccese. Infreddoliti, bagnati e stanchi, i quattro risalirono e Boulware ri-
partì. Il territorio era sempre più desolato via via che si spingevano verso est: non c'erano paesi, né case, né bestiame, niente di niente. La strada peggiorò ancora; a Boulware ricordava certe piste nei film western. La pioggia si trasformò in neve, e la strada si coprì di ghiaccio. Boulware continuava a sbirciare lo strapiombo. Se cadi, si diceva, qui non ti fai male... ti ammazzi. Presso Mingol, all'incirca a metà percorso, si lasciarono alle spalle il maltempo. Il cielo era sereno e la luna era fulgida. Boulware vide le nubi gonfie di neve e i lampi nelle valli sottostanti. I fianchi delle montagne erano bianchi di ghiaccio, e la strada sembrava una pista per bob. Boulware pensò: Cristo, creperò quassù, e nessuno lo saprà mai, perché ignorano dove sono. All'improvviso il volante gli sobbalzò tra le mani e la macchina rallentò: Boulware visse un momento di panico, temendo di aver perso il controllo, poi capì che aveva una gomma a terra. Fermò dolcemente la macchina. Scesero tutti e il taxista aprì il portabagagli. Tirò fuori la ruota di scorta. Boulware si sentiva gelare; dovevano essere parecchi gradi sotto zero. Il taxista rifiutò ogni aiuto e pretese di cambiare da solo la ruota. Boulware si sfilò i guanti e glieli porse; l'uomo scrollò la testa. Questione d'orgoglio, pensò Boulware. Prima che la sostituzione venisse ultimata erano le quattro del mattino. Boulware disse: «Gli chieda se adesso vuol guidare lui... Io sono sfinito». Il taxista accettò. Boulware prese posto sul sedile posteriore. La macchina ripartì. Boulware chiuse gli occhi e cercò di non badare ai sobbalzi e agli scossoni. Si chiese se avrebbe raggiunto il confine in tempo. Merda, pensò, nessuno potrà dire che non abbiamo fatto di tutto. Dopo pochi secondi si addormentò. La Squadra Sporca uscì tranquillamente da Teheran. La città sembrava un campo di battaglia dopo che tutti se ne erano andati a casa. Le statue erano state abbattute, le macchine incendiate, gli alberi tagliati per creare i posti di blocco; poi i posti di blocco erano stati sgomberati... le macchine spinte sui marciapiedi, le statue fatte a pezzi, gli alberi bruciati. Alcuni di quegli alberi erano stati innaffiati a mano ogni giorno per cinquant'anni. Ma non si combatteva. Videro poca gente e pochi mezzi. Forse la rivo-
luzione era finita. O forse i rivoluzionari stavano facendo una pausa per il tè. Passarono davanti all'aeroporto e presero la superstrada per il nord, seguendo il percorso che Coburn e Simons avevano fatto durante la ricognizione. Alcuni piani di Simons erano finiti in niente, ma questo no. Tuttavia, Coburn era preoccupato. Che cosa li attendeva? C'erano ancora combattimenti nelle città e nei paesi? La rivoluzione era finita davvero? Forse gli abitanti dei villaggi erano tornati alle pecore e agli aratri. Ben presto le due Range Rover presero a sfrecciare a centodieci orari ai piedi di una catena montuosa. Sulla sinistra si estendeva una pianura; sulla destra, verdi colline scoscese, sovrastate da picchi innevati, spiccavano contro il cielo azzurro. Coburn guardò la macchina che lo precedeva e vide Taylor che faceva fotografie con l'Instamatic attraverso il lunotto posteriore. «Guardate Taylor» disse. «Cosa crede che sia?» disse Gayden. «Una gita turistica?» Coburn incominciava a essere ottimista. Finora non c'erano stati intoppi; forse tutto il paese si stava calmando. Comunque, perché gli iraniani avrebbero dovuto piantare grane? Non c'era niente di male, se alcuni stranieri volevano andarsene. Paul e Bill avevano passaporti falsi e le autorità li ricercavano, ecco cosa c'era di male. A cinquanta chilometri da Teheran, nei pressi della cittadina di Karaj, incontrarono il primo posto di blocco. Come al solito, era sorvegliato da uomini e ragazzi laceri armati di mitra. La prima Range Rover si fermò e Rashid saltò giù, prima ancora che Paul frenasse la seconda, per parlare con i rivoluzionari. Incominciò a discorrere in Farsi, a voce alta, rapidissimamente e con molti gesti. Paul abbassò il vetro. A quanto poteva capire, Rashid non stava raccontando la versione che era stata decisa; stava parlando di giornalisti. Dopo un po', Rashid disse a tutti di scendere. «Vogliono perquisirci. Cercano le armi.» Coburn, ricordando tutte le volte che l'avevano perquisito durante il viaggio di ricognizione, aveva nascosto nella Range Rover il coltello Gerber. Gli iraniani li perquisirono senza molto zelo, poi frugarono le macchine: non trovarono il coltello di Coburn né il denaro. Qualche minuto dopo Rashid disse: «Possiamo andare». Cento metri più avanti c'era un distributore. Si fermarono: Simons vole-
va tenere i serbatoi pieni il più possibile. Mentre facevano il pieno, Taylor tirò fuori una bottiglia di cognac e tutti bevvero un sorso, tranne Simons che non approvava e Rashid, al quale la religione vietava gli alcolici. Simons era irritato con il giovane iraniano. Anziché dire che erano un gruppo di uomini d'affari e stavano cercando di tornare in patria, aveva raccontato che erano giornalisti e andavano a Tabriz per assistere agli scontri. «Si attenga a quello che è stato deciso» disse Simons. «Sicuro» rispose Rashid. Coburn pensò che molto probabilmente Rashid avrebbe continuato a dire la prima cosa che gli passava per la testa al momento: era fatto così. Una piccola folla si raccolse intorno al distributore per guardare gli stranieri. Coburn era innervosito. Non erano proprio ostili, ma c'era qualcosa di indefinibilmente minaccioso nel modo in cui li osservavano. Rashid comprò una latta d'olio. Cosa intendeva fare? Prese la tanica che conteneva quasi tutto il denaro nei sacchetti di plastica appesantiti, e vi versò l'olio per nascondere il tesoro. Non era una cattiva idea, pensò Coburn; ma io ne avrei parlato con Simons, prima di farlo. Tentò di leggere le espressioni delle facce intorno a loro. Erano soltanto curiosi? Risentiti? Sospettosi? Mal disposti? Non riusciva a capirlo, ma non vedeva l'ora di andarsene. Rashid pagò e le due macchine si allontanarono lentamente dal distributore. Per altri centodieci chilometri non incontrarono ostacoli. La strada era una statale nuova, in buone condizioni. Scorreva in una valle, a fianco di una ferrovia a binario unico, e in alto torreggiavano le montagne ammantate di neve. C'era il sole. Il secondo posto di blocco era alla periferia di Qazvin. Non era un posto di blocco ufficiale - le guardie non erano in uniforme ma era più grosso e meglio organizzato di quello precedente. C'erano due posti di controllo, uno dietro l'altro, e una fila di macchine in attesa. Le due Range Rover si misero in coda. La macchina davanti a loro venne perquisita meticolosamente. Una guardia aprì il portabagagli e tirò fuori qualcosa che sembrava un lenzuolo arrotolato. Lo srotolò e trovò un fucile. Gridò qualcosa, agitando il fucile in aria. Altre guardie sopraggiunsero correndo. Si radunò una piccola folla. Il
guidatore della macchina venne interrogato, e una delle guardie lo percosse e lo buttò a terra. Rashid portò la sua macchina fuori dalla fila. Coburn disse a Paul di seguirlo. «Che cosa sta facendo?» chiese Gayden. Rashid avanzò lentamente in mezzo alla folla. La gente si scostava davanti alle Range Rover... era interessata soprattutto all'uomo con il fucile. Paul teneva la seconda Range Rover in coda alla prima. Superarono il primo posto di controllo. «Cosa cavolo sta facendo?» insistette Gayden. «Sta cercando guai» disse Coburn. Si avvicinarono al secondo posto di controllo. Senza fermarsi, Rashid gridò qualcosa alla guardia. La guardia rispose. Rashid accelerò e Paul fece altrettanto. Coburn tirò un respiro di sollievo. Era tipico di Rashid: agiva d'impulso, senza pensare alle conseguenze; e in un modo o nell'altro, se la cavava sempre. Causava semplicemente qualche batticuore a quelli che erano con lui. Alla prima fermata, Rashid spiegò che aveva detto alla guardia che le due Range Rover erano già state autorizzate a proseguire al primo controllo. Quando incontrarono un nuovo posto di blocco, Rashid convinse le guardie a scrivere una specie di lasciapassare sul parabrezza con un pennarello fluorescente; e ai tre posti di blocco successivi li lasciarono andare senza perquisirli. Keane Taylor era al volante della macchina di testa quando, mentre salivano i lunghi tornanti di una collina, videro due grossi camion che scendevano verso di loro, velocissimi e affiancati. Occupavano l'intera sede stradale. Taylor sterzò e si fermò sobbalzando nel fossatello, e Paul lo imitò. I due camion passarono oltre, sempre affiancati, e tutti commentarono che Taylor era un pessimo guidatore. A mezzogiorno fecero una sosta. Parcheggiarono sul bordo della strada, accanto a una sciovia, e mangiarono cracker e budini. Sebbene ci fosse la neve sui fianchi delle montagne, il sole brillava e non faceva freddo. Taylor tirò fuori la bottiglia di cognac, ma era vuota: Coburn sospettava che Simons avesse allentato di nascosto il tappo per far uscire il liquore. Bevvero acqua. Attraversarono la piccola, linda città di Zanjan, dove Coburn e Simons,
durante il viaggio di ricognizione, avevano parlato con il capo della polizia. Appena oltre Zanjan la statale finiva... piuttosto bruscamente. A bordo della seconda macchina, Coburn vide la Range Rover di Rashid scomparire all'improvviso. Paul schiacciò il freno, e scesero a guardare cos'era successo. Nel punto dove finiva l'asfalto, Rashid era finito giù per un tratto in netta pendenza per un paio di metri, e la macchina s'era piantata di muso nel fango. Sulla destra, il percorso continuava, trasformato in una strada sterrata di montagna. Rashid avviò il motore, innestò la marcia indietro e le quattro ruote motrici. Lentamente, centimetro per centimetro, risalì la banchina. La macchina era coperta di fango. Rashid mise in funzione i tergicristallo e lavò il parabrezza. Quando sparirono gli schizzi di fanghiglia sparì anche il lasciapassare scritto con il pennarello fluorescente. Rashid avrebbe potuto riscriverlo, ma nessuno aveva un pennarello di quel tipo. Proseguirono verso ovest, dirigendosi verso l'estremità meridionale del lago di Rezaiyeh. Le Range Rover, nonostante la strada dissestata, riuscivano ancora a filare a più di sessanta all'ora. Il percorso continuava a salire, la temperatura si abbassava e la campagna era coperta di neve, ma la strada era sgombra. Coburn si chiedeva se ce l'avrebbe fatta a raggiungere il confine quella notte, anziché l'indomani come avevano previsto. Gayden, che stava sul sedile posteriore, si sporse e disse: «Nessuno crederà che sia stato tanto facile. Faremo bene a inventare qualche episodio emozionante da raccontare quando torneremo a casa». Aveva parlato troppo presto. All'imbrunire si avvicinarono a Mahabad. Alla periferia sorgevano alcune casupole sparse di legno e di mattoni d'argilla, lungo i bordi della strada tortuosa. Le due Range Rover superarono una curva e si arrestarono di colpo; la strada era bloccata da un camion fermo e da una folla numerosa e disciplinata. Gli uomini portavano i tradizionali calzoni ampi, i panciotti neri, i copricapi a quadretti bianchi e rossi e le bandoliere delle tribù curde. Rashid saltò dalla macchina e cominciò a recitare la solita scena. Coburn osservò le guardie, e vide che avevano armi automatiche, russe e americane. «Scendete tutti» disse Rashid. Ormai era una cosa abituale. Li perquisirono uno a uno. Questa volta le perquisizioni furono più meticolose; trovarono il piccolo coltello a serra-
manico di Keane Taylor, ma glielo lasciarono. Non trovarono il coltello di Coburn né il denaro. Coburn attendeva che Rashid dicesse: «Possiamo andare». Questa volta le cose andavano per le lunghe. Rashid discusse per qualche minuto con i curdi, poi disse: «Dobbiamo andare a parlare con il capo del paese». Risalirono a bordo. Su ognuna delle macchine prese posto un curdo armato di fucile. Ricevettero l'ordine di fermarsi davanti a un piccolo edificio bianco. Una delle guardie entrò, uscì un minuto dopo, e risalì in macchina senza dare spiegazioni. Poi sostarono di fronte a quello che sembrava un ospedale. Lì presero a bordo un altro passeggero, un giovane iraniano in doppiopetto. Coburn si chiese che cosa diavolo stava succedendo. Finalmente entrarono in un vicolo e parcheggiarono davanti a quella che sembrava una piccola casa privata. Entrarono. Rashid disse agli altri di togliersi le scarpe. Gayden aveva nelle scarpe diverse migliaia di dollari in biglietti da cento. Quando se li tolse, infilò convulsamente il denaro nelle punte dei calzini. Li accompagnarono in una grande stanza dove non c'era altro che un bel tappeto persiano. Sottovoce, Simons disse a tutti dove dovevano sedersi. Lasciò posto per gli iraniani, e fece sedere Rashid lì accanto. Vicino a Rashid c'era Taylor, poi Coburn, quindi lo stesso Simons di fronte allo spazio vuoto. A destra di Simons c'erano Paul e Bill, un po' più indietro rispetto al cerchio, perché dessero meno nell'occhio. Gayden era alla destra di Bill. Quando Taylor sedette vide che uno dei calzini aveva un grosso buco in punta, e che da quel buco sporgevano i biglietti da cento dollari. Imprecò tra sé e si affrettò a spingere il denaro verso il calcagno. Il giovane in doppiopetto entrò. Sembrava istruito e parlava bene l'inglese. «State per incontrare un uomo che è appena uscito dal carcere dopo venticinque anni» disse. Per poco, Bill non ribatté: E con questo? Anch'io sono appena uscito dal carcere! Ma si trattenne appena in tempo. «Sarete processati, e quell'uomo sarà il vostro giudice» continuò il giovane iraniano. La parola "processati" fu per Paul come un pugno in faccia. Pensò: Abbiamo fatto tutta questa strada per niente.
La Squadra Pulita trascorse la giornata di mercoledì in casa di Lou Goelz a Teheran. Al mattino presto Tom Walter chiamò da Dallas. La linea era disturbata, ma Joe Poché riuscì a far sapere a Walter che lui e la Squadra Pulita erano al sicuro, si sarebbero trasferiti all'ambasciata al più presto possibile e avrebbero lasciato il paese non appena l'ambasciata avesse organizzato i voli di evacuazione. Poché riferì anche che Cathy Gallagher non era migliorata, e la sera prima era stata portata all'ospedale. John Howell chiamò Abolhasan, che aveva da riferire un altro messaggio di Dadgar. Il magistrato era disposto a trattare per una cauzione più ragionevole. Se l'EDS avesse rintracciato Paul e Bill, avrebbe dovuto consegnarli e pagare la cauzione ridotta. Gli americani dovevano capire che per Paul e Bill sarebbe stato impossibile lasciare il paese in modo regolare, e molto pericoloso cercare di farlo diversamente. Secondo Howell, questo voleva dire che Paul e Bill non sarebbero mai stati autorizzati a partire con uno dei voli organizzati dall'ambasciata. Ancora una volta si chiese se per caso la Squadra Pulita non correva maggiori pericoli della Squadra Sporca. Bob Young la pensava come lui. Mentre ne stavano parlando, sentirono sparare. Sembrava che gli spari provenissero dalla direzione dell'ambasciata americana. La Voce Nazionale dell'Iran, la stazione radio che trasmetteva da Baku, nell'Unione Sovietica, da parecchi giorni trasmetteva notiziari sui presunti piani clandestini americani per organizzare la controrivoluzione. Mercoledì la Voce Nazionale annunciò che gli schedari della SAVAK, l'odiatissima polizia segreta dello scià, erano stati trasferiti all'ambasciata degli Stati Uniti. Era una notizia quasi sicuramente inventata, ma sembrava plausibile: era stata la CIA a creare la SAVAK e si era sempre tenuta in stretto contatto, e tutti sapevano che le ambasciate americane all'estero - come tutte le ambasciate di tutti i paesi - brulicavano di spie camuffate da addetti diplomatici. Comunque, alcuni rivoluzionari di Teheran credettero a quella storia e, senza consultare i collaboratori dell'ayatollah, decisero di agire. Al mattino entrarono negli edifici che circondavano l'ambasciata e si piazzarono in posizione con le armi automatiche. Alle dieci e mezzo aprirono il fuoco. L'ambasciatore William Sullivan era nell'anticamera del suo ufficio, e stava rispondendo a una telefonata dalla scrivania della segretaria. Parlava
con il viceministro degli Esteri dell'ayatollah. Il presidente Carter aveva deciso di riconoscere il nuovo governo rivoluzionario dell'Iran, e Sullivan prendeva accordi per consegnare una nota diplomatica ufficiale. Quando posò il ricevitore, si voltò e vide che il suo addetto stampa, Barry Rosen, era lì in compagnia di due giornalisti americani. Sullivan era furioso, perché la Casa Bianca aveva dato l'ordine preciso che il riconoscimento del nuovo governo venisse annunciato a Washington e non a Teheran. Sullivan fece entrare Rosen nel suo studio e gli fece una sfuriata. Rosen gli disse che i due giornalisti erano venuti a prendere accordi per portar via il corpo di Joe Alex Morris, il corrispondente del "Los Angeles Times" che era stato ucciso durante gli scontri a Doshen Toppeh. Sullivan si vergognò un po' della sfuriata, e pregò Rosen di chiedere ai giornalisti di non rivelare ciò che avevano appreso ascoltando la telefonata. Rosen uscì. Squillò il telefono. Sullivan alzò il ricevitore. All'improvviso sentì un crepitio tremendo, e una gragnola di proiettili sfondò le finestre dell'ufficio. Sullivan si buttò sul pavimento. Strisciando, andò nell'ufficio accanto, e si trovò faccia a faccia con il suo vice, Charles Naas, che aveva tenuto una riunione per pianificare i voli d'evacuazione. Sullivan aveva due numeri telefonici che poteva usare in caso d'emergenza per mettersi in contatto con i capi rivoluzionari. Disse a Naas di chiamarne uno e all'addetto militare di chiamare l'altro. Restando stesi sul pavimento, i due uomini presero gli apparecchi dalle scrivanie e cominciarono a comporre i numeri. Sullivan tirò fuori il walkie-talkie e chiese alle unità dei marines in servizio all'ambasciata di riferirgli la situazione. L'attacco delle mitragliatrici aveva coperto una squadra di circa settantacinque rivoluzionari, i quali avevano scavalcato il muro di cinta dell'ambasciata e adesso stavano avanzando verso la residenza ufficiale dell'ambasciatore. Per fortuna quasi tutto il personale si trovava con Sullivan nell'edificio della cancelleria. Sullivan ordinò ai marines di ripiegare, di non usare i fucili, e di sparare con le pistole solo per legittima difesa. Poi, sempre strisciando, uscì nel corridoio. Durante l'ora successiva, mentre gli assalitori occupavano la residenza e la mensa, Sullivan radunò tutti i civili che si trovavano nella cancelleria e ordinò loro di rifugiarsi nella sala blindata delle comunicazioni, al piano di sopra. Quando sentì che gli aggressori stavano sfondando le porte d'acciaio
della cancelleria, ordinò ai marines di raggiungere i civili. Poi disse loro di ammucchiare le armi in un angolo e di arrendersi. Alla fine, anche Sullivan andò nella stanza blindata, lasciando fuori l'addetto militare e un interprete. Quando gli assalitori raggiunsero il primo piano, Sullivan aprì la porta della camera blindata e uscì con le mani in alto. Gli altri - un centinaio di persone - lo seguirono. Li condussero tutti nell'anticamera dell'ufficio dell'ambasciatore e li perquisirono. Ci fu una disputa confusa tra due fazioni degli iraniani, e Sullivan capì che i fedeli dell'ayatollah avevano mandato una spedizione di soccorso - presumibilmente in risposta alle telefonate di Charles Naas e dell'addetto militare - e i salvatori erano arrivati al primo piano contemporaneamente agli assalitori. All'improvviso uno sparo arrivò dalla finestra. Tutti gli americani si buttarono sul pavimento. Uno degli iraniani dovette credere che il colpo era stato sparato nella stanza, e puntò l'AK-47contro i prigionieri; poi Barry Rosen, l'addetto stampa, gridò in Farsi: «Veniva da fuori! Veniva da fuori!». In quel momento Sullivan si trovò a terra accanto ai due giornalisti che aveva visto poco prima. «Spero che prenderete nota di tutto questo» disse. Alla fine li condussero nel cortile, dove Ibrahim Yazdi, il nuovo vice Primo ministro dell'ayatollah, presentò le scuse a Sullivan per quell'attacco. Yazdi assegnò a Sullivan una scorta personale, un gruppo di studenti che da quel momento sarebbero stati responsabili dell'incolumità dell'ambasciatore americano. Il comandante del gruppo spiegò a Sullivan che erano qualificati per proteggerlo. Lo avevano studiato bene e conoscevano tutte le sue abitudini, perché fino a pochissimo tempo prima il compito loro assegnato era stato assassinarlo. Quel pomeriggio, sul tardi, Cathy Gallagher telefonò dall'ospedale. Le avevano dato qualche medicinale che aveva risolto il suo problema almeno temporaneamente, e voleva raggiungere il marito e gli altri in casa di Lou Goelz. Joe Poché non voleva che altri della Squadra Pulita lasciassero la casa, ma non voleva neppure che gli iraniani venissero a sapere dov'erano; perciò chiamò Gholam e gli chiese di andare a prendere Cathy all'ospedale e di portarla all'angolo della strada, dove l'avrebbe attesa il marito.
Cathy arrivò quella sera verso le sette e mezzo. Stava meglio, ma Gholam le aveva riferito un episodio agghiacciante. «Ieri hanno sfasciato le nostre stanze all'albergo» disse. Gholam era andato all'Hyatt per pagare il conto dell'EDS e ritirare le valigie che vi avevano lasciato, spiegò Cathy. Le stanze erano state devastate, dovunque c'erano i fori dei proiettili e il bagaglio era stato fatto a pezzi. «Solo le nostre stanze?» chiese Howell. «Sì.» «E Gholam ha saputo come è successo?» Quando Gholam era andato per pagare il conto, il direttore dell'albergo gli aveva detto: «Ma chi diavolo erano, quelli... della CIA?». Il lunedì mattina, poco dopo che tutto il gruppo dell'EDS aveva lasciato l'Hyatt, erano arrivati i rivoluzionari. Se l'erano presa con tutti gli americani, avevano preteso di vedere i passaporti e avevano mostrato le foto di due uomini che stavano cercando. Il direttore e tutti gli altri non avevano riconosciuto quei due. Howell si chiese che cosa avesse fatto infuriare i rivoluzionari al punto di spingerli a sfasciare le stanze. Forse il bar ben fornito di Gayden aveva offeso la loro fede musulmana. Inoltre, nell'appartamento di Gayden erano rimasti un magnetofono usato per le dettature, alcuni microfoni a ventosa per registrare le conversazioni telefoniche e una coppia di walkie-talkie. Forse i rivoluzionari avevano creduto che fossero strumenti di spionaggio della CIA. Durante tutto il giorno vaghe e allarmanti notizie di ciò che stava succedendo all'ambasciata arrivarono a Howell e alla Squadra Pulita tramite il cameriere di Goelz, che telefonava a vari amici. Ma Goelz ritornò mentre gli altri stavano cenando e dopo un paio di robusti drink apparve indenne dall'esperienza passata. Aveva trascorso parecchio tempo sdraiato bocconi in un corridoio. Il giorno dopo si era rimesso alla scrivania, ed era venuto a casa quella sera con buone notizie: i voli per l'evacuazione sarebbero incominciati il sabato, e la Squadra Pulita sarebbe partita con il primo aereo. Howell pensò: Forse Dadgar ha un programma diverso. A Istanbul, Ross Perot aveva la spiacevole sensazione che l'intera operazione gli sfuggisse di mano. Seppe, attraverso Dallas, che l'ambasciata americana a Teheran era stata invasa dai rivoluzionari. E sapeva anche - dato che Tom Walter aveva parlato in precedenza con Joe Poché - che la Squadra Pulita aveva avuto intenzione di trasferirsi all'ambasciata al più presto possibile. Ma dopo l'as-
salto quasi tutte le comunicazioni telefoniche con Teheran s'erano interrotte, e la Casa Bianca aveva monopolizzato le poche linee rimaste. Perciò Perot non sapeva se la Squadra Pulita s'era trovata nell'ambasciata al momento dell'assalto, e non sapeva neppure quali pericoli corressero tutti quanti, anche se si trovavano ancora in casa di Goelz. L'interruzione dei contatti telefonici significava inoltre che Merv Stauffer non poteva chiamare Gholam per scoprire se la Squadra Sporca aveva inviato "un messaggio per Jim Nyfeler" comunicando che tutto andava bene o che c'erano guai. Tutto il personale del sesto piano, a Dallas, era all'opera per ottenere una delle poche linee rimaste in funzione, in modo da poter parlare con Gholam. Tom Walter si era rivolto all'A.T.&T. e aveva parlato con Ray Johnson, che si occupava della contabilità telefonica dell'EDS. Era una contabilità colossale - i computer dell'azienda situati nelle varie parti degli Stati Uniti comunicavano tra loro attraverso le linee telefoniche - e Johnson ci teneva ad aiutare un cliente tanto importante. Aveva chiesto se la comunicazione con Teheran era questione di vita o di morte. Può ben dirlo, aveva risposto Tom Walter. Adesso Johnson stava cercando di ottenere una linea. Nel contempo, T. J. Marquez era occupato a parlare con una centralinista del servizio internazionale e cercava di convincerla a fare uno strappo alle regole. Perot aveva perso i contatti anche con Ralph Boulware, che doveva attendere la Squadra Sporca al confine turco-iraniano. L'ultima volta che Boulware si era fatto vivo era stato da Adana, a ottocento chilometri dalla destinazione prevista. Perot presumeva che fosse in viaggio per raggiungerla, ma era impossibile sapere fin dove fosse arrivato e se avrebbe fatto in tempo. Perot aveva trascorso gran parte della giornata tentando di procurarsi un piccolo aereo o un elicottero che lo portasse in territorio iraniano. Il Boeing 707 non sarebbe servito allo scopo, perché Perot aveva bisogno di tenersi a bassa quota, per cercare le Range Rover con la X o la A sul tettuccio,e poi atterrare in un piccolo aeroporto in disuso o addirittura su una strada o in un prato. Ma finora tutti i suoi sforzi erano serviti solo a confermare ciò che gli aveva detto Boulware quella mattina alle sei: non c'era niente da fare. Sull'orlo della disperazione, Perot aveva chiamato un suo amico alla DEA, la Drug Enforcement Agency, e aveva chiesto il numero telefonico del rappresentante ufficiale in Turchia, pensando che gli specialisti della lotta contro il traffico della droga sapessero come procurarsi un aereo leg-
gero. L'uomo della DEA era venuto allo Sheraton in compagnia di un altro che, a quanto aveva capito Perot, era della CIA; ma se anche sapevano dove procurarsi un aereo non l'avevano detto. A Dallas, Merv Stauffer stava telefonando in tutta Europa, alla ricerca di un aereo adatto da acquistare o noleggiare immediatamente per mandarlo in Turchia; ma finora anche lui non aveva ottenuto nessun risultato. Nel tardo pomeriggio, Perot aveva detto a Pat Sculley: «Voglio parlare con l'americano di grado più elevato che ci sia a Istanbul». Sculley era andato a piantare una grana al consolato americano e adesso, alle dieci e mezzo di sera, il console era nell'appartamento di Perot allo Sheraton. Perot gli parlò francamente: «I miei uomini non sono delinquenti» disse. «Sono dirigenti che hanno mogli e figli in pensiero per loro. Gli iraniani li hanno tenuti in carcere sei settimane senza formulare un'accusa o trovare una sola prova a loro carico. Ora sono liberi e stanno cercando di lasciare il paese. Se li prendono, può immaginare quante probabilità ci sono che ottengano giustizia: neppure una. Con la situazione che c'è in Iran, può darsi che i miei non riescano neppure a raggiungere il confine. Io voglio andare a prenderli, e per questo ho bisogno del suo aiuto. Devo farmi prestare, noleggiare o vendere un piccolo aereo. Può darmi una mano?» «No» rispose il console. «In Turchia i privati non possono avere aerei. E poiché è vietato, non esistono aerei neppure per quelli che sono disposti a trasgredire la legge.» «Ma voi dovete avere qualche aereo.» «Il Dipartimento di Stato non ha aerei.» Perot era disperato. Doveva starsene lì senza poter far niente per aiutare la Squadra Sporca? Il console disse: «Signor Perot, noi siamo qui per aiutare i cittadini americani, e quindi cercherò di procurarle un aereo. Userò tutta l'influenza di cui dispongo. Ma devo avvertirla che le probabilità di riuscita sono quasi inesistenti». «Le sarò grato comunque.» Il console si alzò per andarsene. Perot disse: «È molto importante che la mia presenza in Turchia resti un segreto. In questo momento le autorità iraniane non immaginano dove sono i miei uomini. Se scoprissero che io sono qui, farebbero presto a capire in che modo cercheranno di lasciare il paese, e sarebbe una catastrofe. Perciò la prego di usare la massima discrezione».
«Capisco.» Il console se ne andò. Dopo qualche minuto squillò il telefono. Era T. J. Marquez che chiamava da Dallas. «Perot, oggi sei sulla prima pagina del giornale.» Perot si sentì stringere il cuore: il segreto era saltato. T. J. disse: «Il governatore ti ha nominato presidente della commissione antidroga». Perot tirò il fiato. «Marquez, mi avevi fatto paura.» T. J. rise. «Non dovresti fare scherzi del genere a un vecchio» disse Perot. «Cribbio, per poco non mi è venuto un colpo.» «Aspetta un momento, c'è Margot sull'altra linea» disse T. J. «Vuole solo farti gli auguri per san Valentino.» Perot ricordò che era il 14 febbraio. Disse: «Riferiscile che sono sano e salvo, affidato alle cure premurose di due bionde». «Aspetta un attimo, glielo dico.» Dopo un minuto T. J. si fece sentire di nuovo, ridendo. «Ha risposto che è interessante il fatto che hai bisogno di due bionde per rimpiazzarla.» Perot ridacchiò. Se l'era cercata; avrebbe dovuto saperlo che era inutile averla vinta con Margot in fatto di battute di spirito. «Allora, sei riuscito a parlare con Teheran?» «Sì. La centralinista del servizio internazionale ci ha trovato una linea, e abbiamo sprecato l'occasione sbagliando numero. Poi l'A. T. & T. ci ha procurato un'altra linea e abbiamo parlato con Gholam.» «E allora?» «Niente. Non hanno dato notizie.» Perot si rabbuiò. «Cosa gli avete chiesto?» «Abbiamo detto soltanto: "C'è qualche messaggio" E lui ha risposto di no.» «Maledizione.» Perot avrebbe quasi preferito che la Squadra Sporca avesse chiamato per dire che era nei guai, perché almeno avrebbe saputo dov'era. Salutò T. J. e si preparò per andare a letto. Aveva perso i contatti con la Squadra Pulita, con Boulware, e adesso anche con la Squadra Sporca. Non era riuscito a procurarsi un aereo per andare a cercare i fuggiaschi. L'intera operazione stava andando a rotoli... e lui non poteva far nulla per rimediare.
La suspense gli logorava i nervi. Non aveva mai vissuto una simile tensione. Aveva visto molti uomini crollare, ma non era riuscito a capire veramente le loro sofferenze, perché a lui non era mai accaduto. Normalmente la tensione non lo sconvolgeva... al contrario, gli dava energia. Ma questa volta era diverso. Venne meno alla regola che aveva imposto lui stesso, e cominciò a pensare a tutte le cose disastrose che potevano accadere. Era in gioco la sua libertà, perché se l'operazione di salvataggio fosse andata male sarebbe finito in carcere. Aveva già radunato un gruppo di mercenari, partecipato all'uso illegale di passaporti americani, disposto la falsificazione di documenti d'identità militari e organizzato uno sconfinamento clandestino. Si augurava di finire in carcere negli Stati Uniti anziché in Turchia. La cosa peggiore sarebbe stata che i turchi lo consegnassero agli iraniani perché lo processassero. Rimase sveglio, pensando alla Squadra Pulita, alla Squadra Sporca, a Boulware e a se stesso. Non poteva far altro che tirare avanti. In futuro sarebbe stato più comprensivo verso gli uomini che lui metteva sotto tensione. Se avesse avuto un futuro. Coburn osservava ansiosamente Simons. Erano seduti in cerchio sul tappeto persiano e attendevano il "giudice". Prima della partenza da Teheran, Simons aveva detto a Coburn: «Tenga gli occhi su di me». Finora il colonnello si era comportato passivamente, adattandosi alle situazioni, lasciando che fosse Rashid a parlare, e non aveva reagito all'arresto della squadra. Ma forse sarebbe venuto il momento in cui avrebbe cambiato idea. Se avesse deciso di reagire, l'avrebbe fatto capire a Coburn un attimo prima d'incominciare. Arrivò il giudice. Era un uomo sulla cinquantina e portava una giacca blu sopra un maglione nocciola e una camicia con il colletto aperto. Aveva l'aria del professionista: sembrava un medico o un avvocato. Aveva una pistola calibro 45 infilata nella cintura. Rashid lo riconobbe. Si chiamava Habib Bolourian, ed era un comunista piuttosto importante. Bolourian sedette nello spazio che Simons gli aveva riservato. Disse qualcosa in Farsi e il giovane in doppio petto, che evidentemente aveva il compito di fare da interprete, chiese a tutti i passaporti. Ci siamo, pensò Coburn. Adesso siamo nei guai. Guarderà il passaporto
di Bill e capirà che è di un altro. I passaporti furono ammucchiati sul tappeto davanti a Bolourian, che guardò il primo. L'interprete incominciò a prendere appunti. Ci fu una certa confusione tra nomi e cognomi: spesso gli iraniani li scambiavano. Rashid porgeva i passaporti a Bolourian, e Gayden indicava questo e quel particolare; e Coburn si accorse che fra tutti e due stavano aggravando la confusione. Rashid passava più volte a Bolourian lo stesso passaporto e Gayden, quando si tendeva per indicare i dati, nascondeva le fotografie. Coburn ammirava la loro prontezza di spirito. Finalmente i documenti vennero restituiti, e Coburn ebbe l'impressione che quello di Bill non fosse stato neppure aperto. Bolourian incominciò a interrogare Rashid in Farsi. Rashid, a quanto sembrava, gli stava raccontando la versione preconcordata: erano uomini d'affari americani che cercavano di tornare in patria. Di suo, il giovane aggiungeva qualche abbellimento a proposito di parenti stretti che erano in punto di morte negli Stati Uniti. Poi l'interprete disse in inglese: «Volete dirci esattamente che cosa fate qui?». Rashid disse: «Ecco, vede...». A questo punto una guardia che stava dietro di lui infilò un caricatore nel mitra e gli puntò la canna contro la nuca. Rashid ammutolì. Evidentemente l'interprete voleva sentire cosa avevano da dire gli americani, per accertare se concordava con le affermazioni di Rashid; il gesto della guardia ricordava, in modo brutale, che erano nelle mani dei rivoluzionari. Gayden, che era il dirigente dell'EDS di grado più alto, rispose all'interprete. «Lavoriamo tutti per una società di data processing che si chiama PARS Data Systems, o PDS» disse. Per la precisione, la PDS era la società iraniana dell'EDS e di Abolfatah Mahvi. Gayden non nominò l'EDS perché, come aveva fatto notare Simons prima della partenza da Teheran, era possibile che Dadgar avesse diramato l'ordine di arrestare chiunque lavorasse per l'EDS. «Avevamo un contratto con la banca Omran» continuò Gayden. Diceva la verità, ma non tutta la verità. «Ma non ci pagavano, la gente tirava i sassi contro le nostre finestre, eravamo senza denaro, avevamo nostalgia delle nostre famiglie e volevamo tornare a casa. L'aeroporto era chiuso, così abbiamo deciso di andarcene in macchina.» «Questo è vero» osservò l'interprete. «È successo anche a me... volevo partire per l'Europa, ma l'aeroporto era chiuso.» Forse abbiamo un alleato, pensò Coburn.
Bolourian chiese, tramite l'interprete: «Avevate un contratto con l'ISIRAN?». Coburn restò di sasso. Per uno che aveva passato venticinque anni in carcere, Bolourian era molto ben informato. L'ISIRAN - Information Systems Iran - era una società di data processing di proprietà di Abolfatah Mahvi, acquistata in seguito dal governo. Si riteneva che avesse stretti legami con la polizia segreta, la SAVAK. E c'era di peggio: l'EDS aveva effettivamente un contratto con l'ISIRAN: le due società avevano creato congiuntamente un sistema di controllo dei documenti per conto della marina militare iraniana, nel 1977. «Non abbiamo assolutamente niente a che fare con l'ISIRAN» mentì Gayden. «Potete dimostrare per chi lavorate?» Era un problema. Prima di lasciare Teheran avevano distrutto per ordine di Simons tutti i documenti connessi con l'EDS. Si frugarono nelle tasche alla ricerca di qualcosa che potevano aver dimenticato. Keane Taylor trovò la sua tessera dell'assicurazione malattie, con la dicitura "Electronic Data Systems Corp." La porse all'interprete, spiegando: «L'Electronic Data Systems è la società madre della PDS». Bolourian si alzò e uscì dalla stanza. L'interprete, i curdi armati e gli uomini dell'EDS attesero in silenzio. Coburn si chiese: E adesso? Era possibile che Bolourian sapesse che l'EDS aveva avuto, una volta, un contratto con l'ISIRAN? E sarebbe balzato alla conclusione che gli uomini dell'EDS avevano legami con la SAVAK? O la sua domanda a proposito dell'ISIRAN era stato un colpo alla cieca? In questo caso, aveva creduto che fossero comuni dirigenti in viaggio verso casa? Bill, seduto di fronte a Coburn, si sentiva stranamente sereno. Aveva superato la paura durante l'interrogatorio, e adesso non riusciva più a preoccuparsi. Abbiamo fatto di tutto per cavarcela, pensava; e se adesso ci mettono al muro e ci sparano, pazienza. Bolourian rientrò, caricando un fucile. Coburn lanciò uno sguardo a Simons; gli occhi del colonnello erano fissi sull'arma. Era una vecchia carabina M1, e aveva l'aria di risalire al tempo della Seconda guerra mondiale. Non può sparare a tutti noi con quella, pensò Coburn. Bolourian passò l'arma all'interprete e disse qualcosa in Farsi.
Coburn si tese, pronto a scattare. Se avessero aperto il fuoco... L'interprete prese la carabina e disse: «Ora sarete nostri ospiti per il tè». Bolourian scrisse qualcosa su un foglio e lo consegnò all'interprete. Coburn intuì che doveva trattarsi del permesso per portare l'arma. «Cristo, credevo che volesse spararci» mormorò. Simons era sempre impassibile. Fu servito il tè. Fuori era ormai buio. Rashid chiese se c'era un posto dove gli americani potevano passare la notte. «Sarete nostri ospiti» disse l'interprete. «Mi occuperò personalmente di voi.» Coburn pensò: È per questo che ha bisogno d'una carabina? L'interprete continuò: «Domattina, il nostro mullah scriverà una lettera per il mullah di Rezaiyeh, con la richiesta di lasciarvi passare». Coburn mormorò a Simons: «Cosa ne pensa? Dobbiamo restar qui questa notte o proseguire?». «Non credo che abbiamo scelta» rispose Simons. «Quando ha detto "ospiti" l'ha detto per pura cortesia.» Bevvero il tè, e l'interprete disse: «Andiamo a cena». Si alzarono e rimisero le scarpe. Mentre uscivano per tornare alle macchine, Coburn si accorse che Gayden zoppicava. «Che cos'è successo?» gli chiese. «Abbassi la voce» sibilò Gayden. «Ho tutto il denaro infilato nei calzini e mi fanno male i piedi.» Coburn rise. Risalirono sulle Range Rover e si allontanarono, sempre accompagnati dai curdi e dall'interprete. Senza farsi notare, Gayden si sfilò le scarpe e sistemò meglio il denaro. Si fermarono a un distributore. Gayden mormorò: «Se non avessero intenzione di lasciarci andare, non ci porterebbero a fare il pieno, vero?». Coburn scrollò le spalle. Raggiunsero un ristorante. Quelli dell'EDS sedettero, e le guardie presero posto nei tavoli intorno, formando una specie di cerchio per isolarli dagli altri clienti. C'era un televisore acceso, e l'ayatollah stava facendo un discorso. Paul pensò: Gesù, costui doveva prendere il potere proprio adesso, quando noi siamo nei guai. Poi l'interprete spiegò che Khomeini stava dicendo che i rivoluzionari non dovevano molestare gli americani, e dovevano lasciarli partire senza far loro alcun male, e Paul si sentì un po' più tranquillo.
Venne servito il kebab di agnello e riso. Le guardie mangiarono di buon appetito, con i fucili sui tavoli accanto ai piatti. Keane Taylor mangiò un po' di riso, poi posò il cucchiaio. Aveva un forte mal di testa; aveva dato il cambio a Rashid al volante, e si sentiva come se avesse avuto il sole negli occhi tutto il giorno. Ed era preoccupato perché pensava che durante la notte Bolourian avrebbe potuto chiamare Teheran e informarsi sul conto dell'EDS. Le guardie continuavano a fargli cenni per invitarlo a mangiare, ma Taylor non riuscì a far altro che centellinare una Coca-Cola. Anche Coburn non aveva fame. Aveva ricordato che avrebbe dovuto telefonare a Gholam. Era tardi; a Dallas sarebbero stati in pensiero. Ma cosa doveva dire a Gholam... che andava tutto bene o che erano nei guai? Al termine del pasto ci fu una discussione per decidere chi doveva pagare. Rashid disse che volevano pagare le guardie. Gli americani non intendevano offenderle, dato che loro erano stati invitati come ospiti, ma nello stesso tempo ci tenevano a ingraziarsi quella gente. Alla fine Keane Taylor pagò per tutti. Mentre uscivano, Coburn disse all'interprete: «Vorrei telefonare a Teheran, per informare i nostri colleghi che è tutto a posto». «Sta bene» rispose il giovane. Andarono all'ufficio postale. Coburn e l'interprete entrarono. C'era una folla che faceva la fila davanti alle tre o quattro cabine. L'interprete parlò con un impiegato, poi disse a Coburn: «Tutte le linee con Teheran sono sovraccariche... è molto difficile mettersi in comunicazione». «Potremmo tornare più tardi?» «D'accordo.» Uscirono dalla cittadina, nell'oscurità. Dopo qualche minuto si fermarono davanti a un cancello. Il chiaro di luna rivelava in lontananza qualcosa che poteva essere una diga. Vi fu una lunga attesa mentre venivano cercate le chiavi del cancello, e finalmente entrarono. Erano in un piccolo parco che circondava un lussuoso edificio moderno a due piani, di granito bianco. «È una delle residenze dello scià» spiegò l'interprete. «Ci venne una volta sola, per inaugurare la centrale elettrica. Questa notte ci staremo noi.» Entrarono. C'era un calduccio delizioso. L'interprete esclamò, indignato: «Il riscaldamento è rimasto acceso per tre anni, nell'eventualità che lo scià decidesse di venire qui». Salirono e diedero un'occhiata in giro. C'era un lussuoso appartamento
reale con un bagno enorme, e lungo il corridoio si aprivano stanze più piccole, ognuna con due letti e il bagno annesso, presumibilmente per le guardie del corpo dello scià. Sotto ogni letto c'era un paio di pantofole. Gli americani si installarono nelle stanze delle guardie e i rivoluzionari curdi occuparono l'appartamento imperiale. Uno decise di fare il bagno: gli americani lo sentirono sguazzare e gridare allegramente. Dopo un po' uscì. Era il più imponente di tutti, e aveva indossato uno dei sontuosi accappatoi dello scià. Passeggiò affettatamente per il corridoio, mentre i suoi colleghi sghignazzavano. Si avvicinò a Gayden e disse, in inglese stentato: «Perfetto gentiluomo». Gayden scoppiò a ridere. Coburn chiese a Simons: «Qual è il programma per domani?». «Vogliono scortarci a Rezaiyeh e consegnarci al capo locale» disse il colonnello. «Sarà utile averli con noi, se incontreremo altri posti di blocco. Ma quando arriveremo a Rezaiyeh, forse riusciremo a convincerli a portarci dal professore anziché dal capo.» Coburn annuì. «Sta bene.» Rashid appariva preoccupato. «Sono carogne» bisbigliò. «Non fidatevi. Dobbiamo andarcene.» Coburn non sapeva se era il caso di fidarsi dei curdi, ma era sicuro che se avessero cercato di andarsene adesso sarebbero stati guai. Notò che una delle guardie aveva un fucile G3. «Ehi, è un'ottima arma» disse. La guardia sorrise, come se avesse capito. «Non ne avevo mai viste» continuò Coburn. «Come si carica?» «Carica... così...» disse la guardia, e glielo mostrò. Sedettero, e la guardia spiegò come funzionava il fucile. Parlava un po' l'inglese, e riusciva a farsi capire con l'aiuto dei gesti. Dopo un po' Coburn si accorse che adesso era lui ad avere in mano il fucile. E si sentì un po' più tranquillo. Gli altri avrebbero voluto fare la doccia, ma Gayden andò per primo e consumò tutta l'acqua calda. Paul fece una doccia fredda: negli ultimi tempi si era abituato. Vennero a sapere qualcosa sul conto dell'interprete. Studiava in Europa ed era a casa in vacanza quando la rivoluzione gli aveva impedito di ripartire; era così che aveva saputo della chiusura dell'aeroporto. A mezzanotte Coburn gli chiese: «Possiamo andare a telefonare, adesso?».
«Va bene.» Una delle guardie scortò Coburn in città. Andarono all'ufficio postale, che era ancora aperto. Ma era impossibile parlare con Teheran. Coburn attese fino alle due del mattino, poi rinunciò. Quando rientrò nel palazzo accanto alla diga, tutti dormivano. Andò a letto. Almeno erano ancora vivi. Era già molto. Nessuno sapeva che còsa li aspettava, tra quel posto e il confine. Decise che se ne sarebbe preoccupato l'indomani. XII «Si svegli, Coburn. Muoviamoci. Andiamo!» La voce rauca di Simons strappò Coburn al sonno. Aprì gli occhi e si chiese: Dove sono? Nel palazzo dello scià a Mahabad. Oh, merda. Si alzò. Simons stava radunando la Squadra Sporca per la partenza, ma le guardie non si vedevano: a quanto pareva dormivano ancora. Gli americani fecero più chiasso che potevano, e finalmente i curdi uscirono dall'appartamento reale. Simons disse a Rashid: «Gli spieghi che dobbiamo partire, che abbiamo fretta e che i nostri amici ci stanno aspettando alla frontiera». Rashid riferì, poi disse: «Dobbiamo aspettare». Simons si allarmò. «Perché?» «Tutti quanti vogliono fare la doccia.» Keane Taylor osservò: «Non mi pare che ci sia tanta urgenza... quasi tutti non si sono lavati da un anno o due, potrebbero aspettare ancora un giorno». Simons frenò l'impazienza per mezz'ora, poi disse a Rashid di ricordare alle guardie che loro dovevano andare. «Dobbiamo vedere il bagno dello scià» disse Rashid. «Maledizione, l'abbiamo già visto» ribatté il colonnello. «Che bisogno c'è?» Tutti sfilarono nell'appartamento reale e commentarono doverosamente che quel lusso era vergognoso; ma le guardie non si decidevano a muoversi. Coburn si chiese cosa stava succedendo. Avevano cambiato idea? Non
intendevano più scortare gli americani fino alla prossima città? Bolourian si era informato sul conto dell'EDS durante la notte? Simons non intendeva restare bloccato ancora a lungo... Finalmente comparve il giovane interprete, e risultò evidente che le guardie stavano aspettando proprio lui. Il piano era immutato: un gruppo di curdi avrebbe scortato gli americani durante la prossina tappa. Simons disse: «A Rezaiyeh ci sono alcuni nostri amici... vorremmo andare a casa loro, anziché parlare con il capo della città». «È pericoloso» disse l'interprete. «Più a nord si combatte ancora... la città di Tabriz è sempre nelle mani dei sostenitori dello scià. Devo consegnarvi a chi è in grado di proteggervi.» «Sta bene, ma possiamo partire subito?» «Certamente.» Partirono. Entrarono in città e ricevettero l'ordine di fermarsi davanti a una casa. L'interprete entrò. Attesero. Qualcuno portò pane e formaggio fresco per la colazione. Coburn scese dalla sua macchina e salì su quella di Simons. «E adesso cosa sta succedendo?» «Questa è la casa del mullah» spiegò Rashid. «Sta scrivendo una lettera per il mullah di Rezaiyeh.» Passò quasi un'ora prima che l'interprete tornasse con la lettera. Poi andarono alla stazione di polizia, e lì videro il veicolo che doveva scortarli: una grossa ambulanza bianca con la luce rossa sul tetto, i finestrini sfondati, e una scritta in Farsi scarabocchiata sulla fiancata con un pennarello rosso, presumibilmente "Comitato Rivoluzionario di Mahabad" o qualcosa di simile. Era carica di curdi armati. Era il sistema migliore per viaggiare senza dare nell'occhio. Finalmente si avviarono, preceduti dall'ambulanza. Simons era preoccupato a causa di Dadgar. Evidentemente, a Mahabad nessuno aveva ricevuto l'ordine di cercare Paul e Bill; ma Rezaiyeh era una città molto più grande. Simons non sapeva se l'autorità di Dadgar si estendeva anche nelle province; sapeva solo che finora il magistrato aveva sorpreso tutti con la sua intransigenza e la sua capacità di restare in carica nonostante i cambiamenti di governo. Simons avrebbe preferito che la squadra non venisse condotta davanti alle autorità di Rezaiyeh. «Abbiamo alcuni buoni amici a Rezaiyeh» disse al giovane interprete. «Se poteste condurci a casa loro, saremmo al sicuro.» «Oh, no» rispose l'interprete. «Se disobbedissi agli ordini e vi succe-
desse qualcosa, la pagherei cara.» Simons desistette. Era chiaro che erano più prigionieri che ospiti dei curdi. A Mahabad la rivoluzione era caratterizzata dalla disciplina comunista anziché dall'anarchia islamica, e l'unico modo per liberarsi della scorta sarebbe stato ricorrere alla violenza. Simons non era ancora pronto a farlo. Appena fuori città, l'ambulanza lasciò la strada e si fermò davanti a un piccolo caffè. «Perché ci siamo fermati?» chiese Simons. «Colazione» disse l'interprete. «Non abbiamo bisogno di far colazione» disse energicamente il colonnello. «Ma...» «Non abbiamo bisogno di far colazione!» L'interprete scrollò le spalle e gridò qualcosa ai curdi che stavano scendendo dall'ambulanza. Quelli risalirono e il convoglio proseguì. Raggiunsero la periferia di Rezaiyeh nella tarda mattinata. La strada era sbarrata dall'inevitabile posto di blocco. Questo era una cosa seria, con veicoli parcheggiati, sacchetti di sabbia e filo spinato. Il convoglio rallentò e una guardia armata indicò di entrare nel cortile di un distributore che era stato trasformato in un comando provvisorio. La strada d'accesso era sotto il tiro delle mitragliatrici. L'ambulanza non riuscì a fermarsi in tempo e andò a sbattere in pieno contro il filo spinato. Le due Range Rover parcheggiarono in perfetto ordine. L'ambulanza fu subito circondata dalle guardie, e incominciò una discussione. Rashid e l'interprete andarono a prendervi parte. I rivoluzionari di Rezaiyeh non erano del tutto convinti che i rivoluzionari di Mahabad fossero dalla loro parte. Quelli di Rezaiyeh erano azerbagiani e non curdi, e la discussione si svolgeva in un miscuglio di turco e di Farsi. I curdi avevano ricevuto l'ordine di consegnare le armi, a quanto pareva, e rifiutavano sdegnosamente. L'interprete sbandierava la lettera del mullah di Mahabad. Nessuno badava a Rashid. Finalmente l'interprete e Rashid tornarono alle macchine. «Vi accompagneremo in un albergo» disse l'interprete. «Poi io andrò dal mullah.» L'ambulanza si era incastrata nel filo spinato, e prima di poter ripartire fu necessario liberarla. Alcune guardie del posto di blocco li scortarono in città.
Era una grossa città di provincia. C'erano parecchi edifici di cemento e di pietra e alcune strade lastricate. Il convoglio si fermò in una delle vie principali. Si sentiva gridare in distanza. Rashid e l'interprete entrarono in un edificio - presumibilmente un albergo - e gli altri attesero. Coburn era ottimista. Non c'era l'abitudine di alloggiare i prigionieri in un albergo prima di fucilarli. Era solo una bega amministrativa. Le grida lontane divennero più forti, e una folla apparve in fondo alla via. Coburn, sulla seconda macchina, disse: «Cosa diavolo succede?». I curdi saltarono giù dall'ambulanza e circondarono le due Range Rover, formando un cuneo davanti alla prima. Uno indicò la portiera di Coburn e fece il gesto di girare una chiave. «Bloccate le portiere» disse Coburn agli altri. La folla si avvicinò. Era una specie di corteo. Alla testa della processione c'erano parecchi ufficiali dell'esercito con le uniformi stracciate. Uno piangeva. «Sapete cosa credo?» disse Coburn. «L'esercito si è appena arreso, e stanno facendo sfilare gli ufficiali per la strada principale.» La folla girò intorno ai veicoli, urtando i curdi e lanciando occhiate ostili attraverso i finestrini. I curdi non si mossero e cercarono di allontanare la gente a spintoni. Sembrava che da un momento all'altro stesse per scoppiare una rissa. «Si mette male» disse Gayden. Coburn teneva d'occhio la macchina davanti, e si chiedeva che cosa avrebbe fatto Simons. Coburn vide la canna di un fucile puntata contro il finestrino, dalla parte del guidatore. «Paul, non guardare, ma qualcuno ti sta puntando un fucile alla testa.» «Gesù...» Coburn immaginava cosa sarebbe accaduto: la folla avrebbe incominciato a spintonare le macchine, a farle dondolare, e poi le avrebbe rovesciate... Di colpo, tutto finì. I militari sconfitti erano l'attrazione principale, e quando passarono oltre la folla li seguì. Coburn si rilassò. Paul disse: «Per un momento ho temuto...». Rashid e l'interprete uscirono dall'albergo. Rashid riferì: «Non vogliono saperne di un gruppo di americani... non vogliono rischiare». Coburn credeva di sapere cosa significava: in città gli umori erano tali che la folla sarebbe stata capace di incendiare l'albergo se avesse ospitato gli stranieri. «Dobbiamo andare al comando rivoluzionario.» Ripartirono. Per le strade c'era un'attività febbrile; innumerevoli camion-
cini di tutti i tipi venivano caricati di armi e vettovaglie, probabilmente destinate ai rivoluzionari che stavano ancora combattendo a Tabriz. Il convoglio si fermò di fronte a una costruzione che sembrava una scuola. Davanti al cortile c'era una folla enorme e chiassosa che evidentemente attendeva di entrare. Dopo una discussione, i curdi convinsero la sentinella a lasciar passare l'ambulanza e le due Range Rover. La folla reagì rabbiosamente quando gli stranieri entrarono. Coburn tirò un respiro di sollievo quando il cancello del cortile si chiuse dietro di lui. Scesero. Il cortile era pieno di automobili crivellate da proiettili. Un mullah, in piedi su un mucchio di casse di fucili, stava presiedendo una cerimonia davanti a una folla di uomini. Rashid disse: «È il giuramento delle nuove reclute che devono partire per Tabriz a combattere in nome della rivoluzione». Le guardie condussero gli americani verso l'edificio su un lato del cortile. Un uomo scese la scalinata e cominciò a urlare rabbiosamente, indicando i curdi. «Non devono entrare armati» tradusse Rashid. Coburn si accorse che i curdi erano innervositi; si trovavano di colpo in un territorio ostile. Mostrarono la lettera del mullah di Mahabad. Seguì un'altra discussione. Finalmente Rashid disse: «Voi aspettate qui. Io entro a parlare con il capo del comitato rivoluzionario». Salì i gradini e sparì. Paul e Gayden accesero le sigarette. Paul era impaurito e depresso. Pensava che quelli avrebbero chiamato Teheran e avrebbero scoperto chi era. Ritornare in carcere, adesso, forse sarebbe stato il male minore. Disse a Gayden: «Le sono veramente grato per tutto quel che ha fatto per me, ma temo che sia finita». Coburn si preoccupava di più per la folla davanti al cancello. Lì dentro, almeno, qualcuno cercava di mantenere l'ordine. Là fuori c'era un branco di lupi. E se avessero convinto una sentinella ad aprire? Sarebbe stato un massacro. A Teheran un uomo - un iraniano - che aveva irritato la folla era stato letteralmente fatto a pezzi da quell'orda impazzita. Le guardie puntarono le armi, indicando agli americani di spostarsi su un lato del cortile, contro il muro. Obbedirono. Si sentivano molto vulnerabili. Coburn guardò il muro. Era sforacchiato dai proiettili. Anche Paul l'aveva visto ed era pallido. «Mio Dio» disse. «Credo che ci siamo.» Rashid si chiese: Quale può essere la psicologia del capo del comitato rivoluzionario?
Ha un milione di cose da fare, si disse. Ha appena preso il comando di questa città, e non aveva mai avuto il potere prima d'ora. Deve occuparsi degli ufficiali dell'esercito sconfitto, rastrellare i presunti agenti della SAVAK e interrogarli, deve riportare la normalità, guardarsi da una controrivoluzione e mandare uomini a combattere a Tabriz. Tutto ciò che desidera fare, concluse Rashid, è sbrigare più cose che può e liberarsi dai fastidi. Non ha tempo né comprensione per gli americani in fuga. Se deve prendere una decisione, ci butterà semplicemente in carcere per il momento, e si occuperà di noi più tardi, con tutto comodo. Quindi devo fare in modo che non decida. Rashid fu fatto entrare in un'aula scolastica. Il capo era seduto sul "pavimento. Era un uomo alto e forte, con l'euforia della vittoria dipinta in faccia: ma sembrava esausto, confuso e irrequieto. L'uomo che aveva accompagnato Rashid disse, in Farsi: «Viene da Mahabad con una lettera del mullah... ha con lui sei americani». Rashid ricordò un film nel quale un uomo entrava in un edificio sorvegliatissimo esibendo fulmineamente la patente di guida anziché il lasciapassare. Se ti mostravi abbastanza sicuro, potevi fugare i sospetti. «No, vengo da parte del Comitato Rivoluzionario di Teheran» disse Rashid. «Nella capitale ci sono cinque o seimila americani, e abbiamo deciso di rimandarli in patria. L'aeroporto è chiuso, quindi adesso li faremo passare tutti da questa parte. Dobbiamo prendere accordi e stabilire le procedure per occuparci di tanta gente. Sono qui per questo. Ma lei ha già tanti problemi... forse è meglio che ne parli con i suoi subalterni.» «Sì» disse il capo, e li congedò con un cenno. Era la tecnica della Grossa Menzogna, e aveva funzionato. «Io sono il vice-capo» disse l'accompagnatore di Rashid, quando uscirono dall'aula. Entrarono in un'altra stanza dove c'erano cinque o sei uomini che bevevano il tè. Rashid parlò con il vice-capo, a voce abbastanza alta perché gli altri sentissero. «Questi americani vogliono solo tornare a casa dalle famiglie. Noi siamo ben felici di sbarazzarcene, e intendiamo trattarli bene perché non abbiano motivi di risentimento contro il nuovo regime.» «Perché ha portato con sé quei sei americani?» chiese il vice-capo. «Per fare una prova. In questo modo, vede, possiamo accertare quali sono i problemi.» «Ma non dovete lasciare che passino la frontiera.» «Oh, sì, invece. Sono uomini onesti, non hanno fatto niente di male nel
nostro paese, e in patria hanno mogli e figli... uno ha un bambino che sta morendo in ospedale. Quindi il Comitato Rivoluzionario di Teheran mi ha dato l'ordine di accompagnarlo oltre il confine...» Rashid continuò a parlare. Ogni tanto il vice-capo l'interrompeva per fare qualche domanda: Per chi lavoravano gli americani? Cosa avevano con loro? Come faceva Rashid a sapere che non erano agenti della SAVAK che spiavano per i controrivoluzionari di Tabriz? Rashid aveva una lunga risposta pronta per ogni domanda. Finché parlava, sapeva essere convincente; mentre se stava zitto gli altri avrebbero avuto il tempo di pensare a qualche obiezione da opporgli. C'era gente che andava e veniva di continuo. Il vice-capo uscì tre o quattro volte. Finalmente tornò e disse: «Devo chiarire la faccenda con Teheran». Rashid si sentì stringere il cuore. Naturalmente, nessuno a Teheran avrebbe confermato quella frottola. Ma per avere la comunicazione ci sarebbe voluta un'eternità. «A Teheran è già stato chiarito tutto, e non c'è bisogno di farlo ancora» disse. «Ma se insiste, porterò gli americani ad aspettare in albergo.» Poi soggiùnse: «È meglio che mandi con noi qualche guardia». Il vice-capo avrebbe mandato le guardie in ogni caso: chiederle sarebbe servito ad attenuare i sospetti. «Ecco, non so» disse il vice-capo. «Non può tenerli qui» disse Rashid. «Potrebbe succedere qualcosa.» Trattenne il respiro. Lì erano in trappola. In albergo, avrebbero avuto almeno la possibilità di tentare di raggiungere il confine... «Sta bene» disse il vice-capo. Rashid dissimulò il suo sollievo. Paul fu ben contento di vedere Rashid che scendeva la scalinata della scuola. Era stata una lunga attesa. Nessuno aveva puntato i fucili contro di loro, ma erano stati il bersaglio di molte occhiate ostili. «Possiamo andare all'albergo» disse Rashid. I curdi arrivati da Mahabad strinsero la mano a tutti e ripartirono con l'ambulanza. Pochi minuti dopo gli americani se ne andarono con le Range Rover, seguiti da quattro o cinque guardie armate a bordo di un'altra macchina. Andarono all'albergo. Questa volta entrarono tutti. Ci fu una discussione tra il portiere e le guardie, ma le guardie la spuntarono, e gli americani ebbero quattro stanze al secondo piano, sul retro, e l'ingiunzione di tenere chiuse le tende e di tenersi lontani dalle finestre, nell'eventualità che qualche cecchino li considerasse obiettivi appetibili.
Si radunarono in una delle stanze. Si sentiva sparare in lontananza. Rashid organizzò il pranzo e mangiò con loro: pollo alla griglia, riso, pane e Coca-Cola. Poi uscì per andare alla scuola. Le guardie entravano e uscivano di continuo, senza mollare i fucili. Ce n'era uno che a Coburn dava l'impressione d'essere una carogna. Era giovane, basso e muscoloso, con i capelli neri e gli occhi da serpente. Via via che il tempo passava, sembrava sempre più annoiato. A un certo punto entrò e disse: «Carter no buono». Si guardò intorno, in attesa d'una reazione. «CIA no buona» disse. «America no buona.» Nessuno gli rispose. Uscì. «Quello sta cercando di provocarci» disse con calma Simons. «Che nessuno abbocchi.» Un po' più tardi, la guardia ci riprovò. «Io molto forte» disse. «Lottatore. Io campione di lotta. Io stato in Russia.» Nessuno parlò. L'uomo sedette e maneggiò il fucile, come se non sapesse caricarlo. Si rivolse a Coburn. «Conosce fucili?» Coburn scrollò la testa. L'uomo guardò gli altri. «Chi conosce fucili?» L'arma era un M1, e tutti la conoscevano; ma nessuno aprì bocca. «Volere scambio?» disse la guardia. «Fucile per zaino?» Coburn disse: «Non abbiamo uno zaino e non vogliamo un fucile». La guardia desistette e tornò nel corridoio. Simons disse: «Dove diavolo è Rashid?». La macchina trovò una buca, e il sobbalzo svegliò Ralph Boulware. Era stanco e intontito dopo il breve sonno irrequieto. Guardò dai finestrini. Era mattina presto. Vide la riva di un lago immenso, così grande che non si scorgeva la sponda opposta. «Dove siamo?» chiese. «Quello è il lago di Van» rispose Charlie Brown, l'interprete. C'erano case e paesetti e automobili: erano usciti dalle montagne selvagge ed erano tornati a quella che passava per civiltà in quella parte del mondo. Boulware studiò la cartina. Erano a circa centosessanta chilometri dal confine. «Ehi, benone!» disse. Vide un distributore. Erano tornati veramente alla civiltà. «Fermiamoci a
far benzina» disse. Alla stazione di servizio presero pane e caffè. Il caffè lo svegliò quasi meglio d'una doccia. Disse a Charlie: «Dica al vecchio che voglio guidare io». Il taxista aveva marciato a cinquanta o sessanta chilometri orari, ma Boulware spinse la vecchia Chevrolet fino a centodieci. Sembrava che avesse una possibilità di arrivare al confine in tempo per l'appuntamento con Simons. Mentre correva lungo la strada intorno al lago, Boulware sentì uno scoppio smorzato, seguito da uno stridore lacerante; poi la macchina cominciò a sobbalzare e a impennarsi, e vi fu lo scricchiolio del metallo contro la pietra: era scoppiata una gomma. Frenò bruscamente, imprecando. Scesero tutti a guardare la ruota: Boulware, il vecchio taxista, Charlie Brown e Ilsman, il grassone. Il copertone era brandelli e il cerchione s'era deformato. E avevano usato la ruota di ricambio durante la notte, quando c'era stata la prima foratura. Boulware guardò più attentamente. I dadi erano incastrati: anche se fossero riusciti a trovare un'altra gomma di ricambio, non ce l'avrebbero fatta a rimuovere quella danneggiata. Boulware si guardò intorno. C'era una casa a una certa distanza. «Andiamo là» disse. «Possiamo telefonare.» Charlie Brown scrollò la testa. «Qui non ci sono telefoni.» Boulware non intendeva rassegnarsi, dopo tutto quello che aveva passato: era troppo vicino alla meta. «Sta bene» disse a Charlie. «Si faccia dare un passaggio per tornare all'ultima cittadina e ci procuri un altro taxi.» Charlie s'incamminò. Due macchine lo superarono senza rallentare, poi si fermò un camion. Era carico di fieno e di bambini. Charlie saltò a bordo e il camion sparì in lontananza. Boulware, Ilsman e il taxista sedettero a guardare il lago e a mangiare arance. Un'ora dopo una piccola familiare europea arrivò sfrecciando e si fermò con un grande stridore di freni. Boulware diede cinquecento dollari al taxista che li aveva portati fin lì da Adana, quindi salì sul nuovo taxi con Ilsman e Charlie e se ne andò, lasciando la Chevrolet sulla riva del lago come una balena arenata. Il nuovo taxista filava come il vento, e a mezzogiorno arrivarono a Van, sulla sponda orientale del lago. Van era una piccola città, con costruzioni
di mattoni in centro e casupole di argilla nei sobborghi. Ilsman diede istruzioni al taxista per raggiungere la casa di un cugino del signor Fish. Pagarono il taxista ed entrarono. Islam attaccò una lunga discussione con il cugino del signor Fish. Boulware sedette nel soggiorno, e ascoltò senza capire una parola, impaziente di procedere. Dopo un'ora disse a Charlie: «Senta, cerchiamo un altro taxi. Non abbiamo bisogno del cugino». «È una zona molto pericolosa, da qui al confine» rispose Charlie. «Siamo forestieri, dobbiamo assicurarci una protezione.» Boulware s'impose di pazientare. Finalmente Ilsman strinse la mano al cugino del signor Fish e Charlie disse: «I suoi figli ci condurranno alla frontiera». C'erano due figli e due macchine. Si addentrarono fra i monti. Boulware non vide neppure l'ombra dei pericolosi banditi dai quali doveva essere protetto: c'erano solo campi innevati, capre magrissime, e poca gente lacera che viveva in catapecchie. La polizia li fermò nel villaggio di Yuksekova, a pochi chilometri dal confine, e li fece entrare nel piccolo comando imbiancato a calce. Ilsman mostrò le sue credenziali, e vennero prontamente lasciati andare. Boulware era molto colpito: forse Ilsman faceva davvero parte dell'equivalente turco della CIA. Raggiunsero il confine alle quattro di giovedì pomeriggio, dopo ventiquattro ore di viaggio ininterrotto. Il posto di frontiera era in mezzo alla desolazione. C'erano due costruzioni di legno. C'era anche un ufficio postale, e Boulware si chiese chi diavolo se ne serviva. Forse i camionisti. Duecento metri più avanti, dalla parte iraniana, c'era un gruppo di edifici più grandi. Della Squadra Sporca non c'era traccia. Boulware era irritato. Aveva rischiato di rompersi il collo per arrivare più o meno puntuale: dove diavolo era Simons? Da una delle baracche uscì una guardia e gli chiese: «Sta cercando gli americani?». Boulware restò di sasso. Ma non doveva essere una faccenda segretissima? A quanto pareva, la segretezza era andata a rotoli. «Sì» disse. «Sto cercando gli americani.» «C'è una telefonata per lei.» Boulware era ancora più sorpreso. «Accidenti!» Che tempismo fenomenale. Chi diavolo poteva sapere che lui era lì?
Seguì la guardia nella baracca e andò all'apparecchio. «Sì?» «Qui è il consolato americano» disse una voce. «Lei come si chiama?» «Ehi, cos'è questa storia?» chiese Boulware, diffidente. «Senta, vuol dirmi che cosa ci fa lì?» «Non so chi sia lei e non ho intenzione di dirle quello che sto facendo.» «E va bene, allora ascolti. Io so chi è lei, e so cosa sta facendo. Se ha qualche difficoltà, mi chiami. Ha una matita?» Boulware annotò il numero, ringraziò il suo interlocutore e riattaccò, perplesso. Un'ora fa non sapevo che sarei arrivato qui, pensò, quindi come poteva saperlo qualcun altro? E soprattutto il consolato americano. Poi pensò a Ilsman. Forse Ilsman si teneva in contatto con i suoi superiori del MIT, i quali erano in contatto con la CIA, e la CIA era in contatto con il consolato. Poteva darsi che Ilsman avesse chiesto a qualcuno di fare una telefonata a nome suo, a Van, o magari alla stazione di polizia di Yuksekova. Si chiese se era un bene o un male che il consolato sapesse quel che stava succedendo. Ricordava l'"aiuto" che Paul e Bill avevano avuto dall'ambasciata degli Stati Uniti a Teheran: se avevi amici al Dipartimento di Stato non avevi bisogno di nemici. Poi non pensò più al consolato. Il problema importante era un altro: dov'era la Squadra Sporca? Uscì di nuovo e guardò al di là della terra di nessuno. Decise di attraversarla per andare a parlare con gli iraniani. Chiamò Ilsman e Charlie Brown perché l'accompagnassero. Quando si avvicinò, vide che le guardie di frontiera iraniane non erano in uniforme. Molto probabilmente erano rivoluzionari che si erano insediati dopo la caduta del governo. Disse a Charlie: «Chieda se hanno saputo qualcosa d'un gruppo di uomini d'affari americani che avrebbero dovuto passare di qui con due jeep». Non fu necessario che Charlie traducesse la risposta; gli iraniani scrollarono energicamente la testa. Si avvicinò un uomo d'una tribù locale, con una fascia lacera intorno alla fronte e un fucile vecchissimo. Seguì un dialogo piuttosto lungo, poi Charlie spiegò: «Quest'uomo dice che sa dove sono gli americani, e l'accompagnerà da loro se è disposto a pagare». Boulware chiese quanto voleva, ma Ilsman gli raccomandò di non accettare la proposta, a nessun prezzo. Il grassone parlò in tono deciso a Charlie, e Charlie tradusse. «Lei ha una giacca di pelle, guanti di pelle, e un
magnifico orologio.» Boulware, che amava molto gli orologi, ne portava uno che gli aveva regalato Mary quando s'erano sposati. «E allora?» «Dato che è vestito così, credono che sia della SAVAK. E là odiano la SAVAK.» «Mi cambierò. In macchina ho un'altra giacca.» «No» disse Charlie. «Cerchi di capire. Vogliono soltanto che lei passi il confine per farle saltare le cervella.» «E va bene» disse Boulware. Ritornarono dalla parte turca. Dato che c'era un ufficio postale, Boulware decise di chiamare Istanbul per riferire a Ross Perot. Andò nell'ufficio. Dovette firmare un registro. L'impiegato gli disse che ci sarebbe voluto un po' di tempo per avere la comunicazione. Boulware uscì di nuovo. Le guardie turche, gli disse Charlie, cominciavano a innervosirsi. Alcuni iraniani li avevano accompagnati attraverso la terra di nessuno, e quelle irregolarità alle guardie non piacevano affatto. Boulware pensò: Tanto, qui non concludo niente... Chiese: «Ci chiameranno, se il gruppo passa il confine mentre noi siamo a Yuksekova?». Charlie s'informò. Le guardie promisero. Dissero che nel villaggio c'era un albergo: avrebbero telefonato lì. Boulware, Ilsman, Charlie e i due figli del cugino del signor Fish risalirono sulle macchine e tornarono a Yuksekova. Presero alloggio in quella che doveva essere la peggior locanda del mondo. I pavimenti erano di terra battuta. Il gabinetto era un buco per terra, sotto la scala. Tutti i letti erano in un unico stanzone. Charlie Brown ordinò da mangiare, e glielo portarono avvolto in pezzi di giornale. Boulware non sapeva se aveva fatto bene ad abbandonare il posto di frontiera. C'erano tante cose che potevano andar male; poteva darsi che le guardie non telefonassero come avevano promesso. Decise di accettare l'offerta d'aiuto del consolato americano, facendolo intervenire per ottenergli l'autorizzazione di attendere al confine. Andò all'unico telefono della locanda, un vecchissimo apparecchio a manovella, e chiamò il numero che gli avevano dato. Ebbe la comunicazione, ma la linea era disturbata e non si capiva quasi niente. Alla fine il suo interlocutore disse che avrebbe richiamato, e riattaccò. Boulware attese accanto al fuoco. Era sulle spine. Dopo un po' perse la pazienza e decise di tornare alla frontiera anche senza il permesso.
Lungo il tragitto forarono una gomma. Si fermarono tutti in mezzo alla strada mentre i figli del cugino sostituivano la ruota. Ilsman sembrava nervoso. Charlie spiegò: «Dice che è un posto pericolosissimo, qui sono tutti assassini e banditi». Boulware non era molto convinto. Ilsman aveva accettato di fare il lavoro per ottomila dollari, e adesso Boulware sospettava che il grassone cercasse di alzare il prezzo. «Gli chieda quante persone sono state uccise il mese scorso su questa strada» disse a Charlie. Guardò attentamente la faccia di Ilsman mentre rispondeva. Charlie tradusse: «Trentanove». Ilsman aveva l'aria assolutamente seria. Boulware pensò: Merda, dice la verità. Si guardò intorno. Montagne, neve... Rabbrividì. A Rezaiyeh, Rashid prese una delle Range Rover e tornò alla scuola dove aveva sede il comando rivoluzionario. Si chiedeva se il vice-capo aveva telefonato a Teheran. Coburn non era riuscito a ottenere la comunicazione, quella notte: i dirigenti rivoluzionari avevano lo stesso problema? Rashid pensava di sì. Ora, se il vicecapo non aveva potuto parlare, che cosa avrebbe fatto? Aveva due sole possibilità: trattenere gli americani o lasciarli andare senza controllare. Forse non era disposto a lasciarli andare così: forse non voleva mostrare a Rashid che lì non erano organizzati a dovere. Rashid decise di comportarsi come se fosse certo che la telefonata era stata fatta e che era arrivata la conferma. Entrò nel cortile. Il vice-capo era lì, appoggiato a una Mercedes. Rashid incominciò a esporgli il problema di far passare attraverso la città seimila americani da accompagnare al confine. Quanti se ne potevano alloggiare a Rezaiyeh, per una notte? Al posto di frontiera di Sero era possibile sbrigare le formalità in fretta? Ricordò che l'ayatollah Khomeini aveva ordinato di trattare bene gli americani che lasciavano l'Iran, perché il nuovo governo non voleva beghe con gli Stati Uniti. Poi cominciò a parlare della documentazione: forse il comitato di Rezaiyeh avrebbe dovuto distribuire lasciapassare che autorizzavano gli americani a lasciare il paese a Sero. Lui, Rashid, avrebbe avuto bisogno di un lasciapassare, quel giorno, per portare in Turchia i sei americani. Propose al vice-capo di entrare nella scuola per preparare il documento. Il vice-capo acconsentì. Entrarono nella biblioteca. Rashid scovò carta e penna e le diede al vice-capo.
«Che cosa scriviamo?» disse poi. «Forse dovremmo scrivere: Il latore della presente è autorizzato a condurre sei americani oltre il posto di frontiera di Sero. No, diciamo Barzagan o Sero, nell'eventualità che Sero sia chiuso.» Il vice-capo scrisse. «Forse potremmo dire: Si invitano tutte le guardie a fornire collaborazione e assistenza per identificare gli americani e scortarli se necessario.» Il vice-capo scrisse anche quello. Poi firmò. Rashid disse: «Magari sarebbe opportuno aggiungere: Comitato della Rivoluzione Islamica». Il vice-capo aggiunse la dicitura. Rashid guardò il documento. Sembrava improvvisato, inadeguato. Aveva bisogno di qualcosa che gli conferisse un'aria ufficiale. Trovò un timbro di gomma e un tampone, e timbrò la lettera. Poi lesse il timbro: «Biblioteca della Scuola di Religione, Rezaiyeh. Fondata nel 1344». Rashid intascò il foglio. «Dovremmo farne stampare seimila, in modo che basti aggiungere la firma» disse. Il vice-capo annuì. «Comunque, ne riparleremo domani» continuò Rashid. «Ora vorrei proseguire per Sero, per discutere il problema con le guardie del confine.» «Sta bene.» Rashid se ne andò. Non c'era niente d'impossibile, al mondo. Salì sulla Range Rover. L'idea di andare al confine era buona, pensò; avrebbe potuto scoprire come stavano le cose prima di fare il tragitto in compagnia degli americani. Alla periferia di Rezaiyeh c'era un posto di blocco sorvegliato da un branco di ragazzini armati di fucili. Non fecero difficoltà, ma Rashid si chiedeva come avrebbero reagito vedendo sei americani: quei ragazzi smaniavano dalla voglia di usare le loro armi. Poi trovò la strada sgombra. Era sterrata ma abbastanza buona, e Rashid mantenne una velocità piuttosto sostenuta. Prese a bordo un autostoppista e gli chiese se era possibile passare il confine a cavallo. Era facilissimo, rispose l'autostoppista. Si dava il caso che suo fratello avesse i cavalli... Rashid percorse quei sessantacinque chilometri in poco più di un'ora. Fermò la Range Rover davanti al posto di frontiera. Le guardie lo guarda-
rono con aria sospettosa. Mostrò il lasciapassare rilasciato dal vice-capo. Le guardie chiamarono Rezaiyeh e - dissero - parlarono con il vice-capo, il quale garantì per Rashid. Incominciò a guardare la Turchia. Era una vista molto piacevole. Ne avevano passate di tutti i colori per arrivarci. Per Paul e Bill avrebbe significato la libertà, il ritorno in patria e in famiglia. Per tutti gli altri dell'EDS sarebbe stata la fine di un incubo. Per Rashid significava un'altra cosa: l'America. Capiva la psicologia dei dirigenti dell'EDS. Sentivano molto i loro obblighi. Se li aiutavi, ci tenevano a dimostrare la loro gratitudine. Sapeva che non avrebbe dovuto far altro che chiedere perché lo conducessero con loro nella terra dei suoi sogni. Il posto di frontiera dipendeva dal villaggio di Sero, che si trovava a meno d'un chilometro, in fondo a un sentiero di montagna. Rashid decise di andare a parlare con il capo del villaggio per intavolare rapporti amichevoli e spianare la strada per ogni eventualità. Stava per avviarsi, quando dalla parte turca si fermarono due macchine. Un negro alto, in giacca di pelle, scese dalla prima e si avvicinò alla catena che delimitava la terra di nessuno. Rashid si sentì balzare il cuore in gola. Lui conosceva quell'uomo! Agitò le braccia e gridò: «Ralph! Ralph Boulware! Ehi, Ralph!». Il giovedì mattina Glenn Jackson - battista, cacciatore e Uomo dei Razzi - era nel cielo di Teheran a bordo di un jet preso a nolo. Jackson si era fermato nel Kuwait dopo aver riferito sulla possibilità che Paul e Bill lasciassero l'Iran passando di là. La domenica, il giorno in cui Paul e Bill erano usciti dal carcere, Simons aveva inviato a Jackson, tramite Merv Stauffer, l'ordine di recarsi ad Amman in Giordania e di cercare di prendere a nolo un aereo per andare in Iran. Jackson era arrivato ad Amman il lunedì e si era messo subito all'opera. Sapeva che Perot era andato a Teheran da Amman con un jet delle Arab Wings. E sapeva anche che il presidente delle Arab Wings, Akel Biltaji, aveva permesso a Perot di spacciarsi per il corriere dei videotapes dell'NBC. Jackson si mise in contatto con Biltaji e chiese di nuovo il suo aiuto. Disse a Biltaji che l'EDS doveva far uscire dall'Iran due dirigenti. Inventò nomi falsi per Paul e Bill. Sebbene l'aeroporto di Teheran fosse chiuso, disse, voleva andarci con un aereo e cercare di atterrare. Biltaji si dichiarò
d'accordo. Ma il mercoledì mattina Stauffer - secondo le istruzioni ricevute da Simons - cambiò gli ordini per Jackson. Adesso il suo compito era occuparsi della Squadra Pulita. La Squadra Sporca aveva lasciato Teheran, a quanto risultava a Dallas. Il giovedì Jackson decollò da Amman e puntò verso est. Mentre scendevano verso la conca tra le montagne dov'era annidata Teheran, dalla capitale si levarono in volo due aerei. Gli aerei si avvicinarono, e Jackson vide che erano caccia a reazione dell'Aeronautica militare iraniana. Si chiese che cosa sarebbe accaduto. Dalla radio del pilota uscì una scarica crepitante. Mentre i caccia volavano in cerchio, il pilota parlava; Jackson non capiva una parola, ma si rallegrava perché gli iraniani parlavano anziché sparare. La discussione continuò. Il pilota insistette. Alla fine si girò verso Jackson e disse: «Dobbiamo tornare indietro. Non ci lasciano atterrare». «E se atterrassimo comunque, cosa farebbero?» «Sparerebbero.» «Sta bene» disse Jackson. «Ritenteremo questo pomeriggio.» A Istanbul, il giovedì mattina, un giornale in lingua inglese fu consegnato all'appartamento di Perot allo Sheraton. Perot lo prese e lesse ansiosamente la corrispondenza in prima pagina che parlava dell'attacco contro l'ambasciata americana a Teheran, avvenuto il giorno prima. Notò con sollievo che non era nominato neppure uno della Squadra Pulita. C'era stato un unico ferito, un sergente dei marines, Kenneth Krause. Ma secondo il giornale Krause non riceveva le cure mediche di cui aveva bisogno. Perot chiamò John Carlen, il comandante del Boeing 707, e gli chiese di raggiungerlo. Gli mostrò il giornale e disse: «Se la sentirebbe di andare a Teheran questa notte a prendere il marine ferito?». Carlen, un californiano abbronzato dai capelli brizzolati, non si scompose: «Possiamo farlo» disse. Perot si stupì nel vedere che non aveva esitato. Avrebbe dovuto volare tra le montagne di notte, senza l'aiuto del controllo del traffico aereo, e atterrare in un aeroporto chiuso. «Non vuol parlarne con il resto dell'equipaggio?» chiese Perot. «No, saranno tutti d'accordo. I proprietari dell'aereo daranno fuori da
matti.» «Allora non glielo dica. Mi assumo tutte le responsabilità.» «Devo sapere esattamente dove si trova il marine» continuò Carlen. «L'ambasciata dovrà provvedere a condurlo all'aeroporto. Conosco parecchia gente in quell'aeroporto e potrò convincerli a fare uno strappo alle regole per lasciarmi atterrare: poi, o mi lasceranno ripartire o decollerò comunque.» Perot pensò: E quelli della Squadra Pulita porteranno la barella. Chiamò la sua segretaria Sally Walther, a Dallas, e si fece mettere in comunicazione con il generale Wilson del Corpo dei marines. Wilson era un vecchio amico. Il generale rispose. «Sono in Turchia per affari» gli disse Perot. «Ho appena letto del sergente Krause. Ho qui un aereo. Se l'ambasciata può far portare Krause all'aeroporto, questa notte andremo a prenderlo con un aereo, in modo che possa ricevere le cure necessarie.» «Sta bene» disse Wilson. «Se è grave, mandalo pure a prendere. Se no, non voglio che tu faccia correre rischi al tuo equipaggio. Ti richiamo.» Perot parlò di nuovo con Sally. Altre brutte notizie. Un addetto stampa dell'Iran Task Force del Dipartimento di Stato aveva parlato con Robert Dudney, corrispondente da Washington del "Dallas Times Herald", e gli aveva rivelato che Paul e Bill erano in viaggio per uscire dall'Iran. Perot imprecò per l'ennesima volta contro il Dipartimento di Stato. Se Dudney avesse pubblicato la notizia e se a Teheran si fosse risaputo, Dadgar avrebbe ordinato sicuramente di raddoppiare la vigilanza al confine. L'equipe del sesto piano, a Dallas, pensava che fosse tutta colpa di Perot. Aveva parlato troppo apertamente con il console che era andato a trovarlo la sera prima, e con ogni probabilità era stato il console a lasciar trapelare il segreto. Adesso stavano tutti cercando disperatamente di far insabbiare la notizia; ma il giornale non prometteva niente. Il generale Wilson richiamò. Il sergente Krause non era grave, e l'aiuto di Perot non era necessario. Perot non pensò più a Krause e si concentrò sui suoi problemi. Gli telefonò il console. Aveva fatto del suo meglio, ma non poteva aiutarlo ad acquistare o ad affittare un piccolo aereo. Era possibile prenderne uno a noleggio per andare da un aeroporto all'altro entro i confini della Turchia, ma questo era tutto. Perot non gli parlò delle indiscrezioni che erano filtrate alla stampa.
Convocò Dick Douglas e Julian "Scratch" Kanauch, i due piloti che aveva condotto con sé perché portassero in Iran due piccoli apparecchi, e disse che quei due apparecchi non era riuscito a trovarli. «Non si preoccupi» disse Douglas. «Scoveremo un aereo.» «Come?» «Non lo chieda.» «No, voglio saperlo.» «Io ho lavorato nella Turchia orientale. So dove ci sono gli aerei. Se ne ha bisogno, li ruberemo.» «Ci avete pensato bene?» domandò Perot. «E perché?» rispose Douglas. «Se ci abbattono sull'Iran, che differenza fa che abbiamo o no rubato l'aereo? Se non ci abbattono, possiamo riportare gli aerei dove li abbiamo presi. E anche se saranno un po' sforacchiati, ce ne andremo prima che qualcuno se ne accorga. Che altro c'è da pensare?» «Sta bene» disse Perot. «Andiamo.» Mandò John Carlen e Ron Davis all'aeroporto a registrare un piano di volo per Van, l'aeroporto più vicino al confine. Davis telefonò per dire che il 707 non poteva atterrare a Van: era un aeroporto dove si parlava soltanto turco, e quindi nessun aereo straniero era autorizzato ad atterrare, eccettuati gli aerei militari americani che portavano un interprete a bordo. Perot telefonò al signor Fish e gli chiese di organizzarsi per far arrivare in volo la squadra a Van. Pochi minuti dopo il signor Fish richiamò per comunicare che era tutto sistemato. Sarebbe andato con la squadra per fungere da guida. Perot era sorpreso: fino a quel momento il signor Fish aveva sostenuto incrollabilmente che non voleva saperne di andare nella Turchia orientale. Forse era stato contagiato dallo spirito d'avventura. Ma Perot avrebbe dovuto restare a Istanbul. Lui era il mozzo della ruota; doveva tenersi in contatto telefonico con il resto del mondo, ricevere i rapporti di Boulware, di Dallas, della Squadra Pulita e della Squadra Sporca. Se il 707 avesse potuto atterrare a Van, Perot sarebbe andato, perché la radio di bordo gli avrebbe permesso di chiamare telefonicamente tutto il mondo; ma senza quella radio sarebbe stato tagliato fuori da ogni contatto, nella Turchia orientale, e non ci sarebbero stati collegamenti tra i fuggitivi in Iran e coloro che andavano a riceverli. Quindi mandò a Van Pat Sculley, Jim Schwebach, Ron Davis, il signor Fish e i piloti Dick Douglas e Julian Kanauch, e nominò Pat Sculley co-
mandante della Squadra di Salvataggio Turca. Quando quelli se ne andarono, ricominciò a smaniare. Un altro gruppo dei suoi uomini era partito per un'impresa pericolosa in una zona pericolosa. E lui poteva soltanto star lì ad aspettare. Pensò a John Carlen e all'equipaggio del Boeing 707. Li conosceva da pochi giorni soltanto ed erano persone normalissime. Eppure sarebbero stati disposti a rischiare la vita per andare a Teheran e portar via un marine ferito. Simons avrebbe detto: È quello che gli americani fanno per gli altri americani. Nonostante tutto, quel pensiero era consolante. Il telefono squillò. Rispose. «Ross Perot.» «Sono Ralph Boulware.» «Salve, Ralph. Dov'è?» «Al confine.» «Bene!» «Ho appena visto Rashid.» Il cuore di Perot diede un tuffo. «Magnifico! Che cos'ha detto?» «Sono sani e salvi.» «Dio sia lodato!» «Sono in un albergo a cinquanta o sessanta chilometri dalla frontiera. Rashid è venuto in avanscoperta. Adesso è tornato da loro. Dice che probabilmente passeranno domani, ma è solo una sua idea, perché Simons potrebbe decidere diversamente. Se sono tanto vicini, non credo che Simons sia disposto ad attendere fino a domattina.» «Giusto. Dunque, Pat Sculley, il signor Fish e gli altri stanno venendo da lei. Arriveranno a Van in aereo, poi noleggeranno un autobus. Dove possono trovarla?» «Sono in un villaggio che si chiama Yuksekova, il posto più vicino alla frontiera. In una specie di albergo. È l'unico della zona.» «Lo dirò a Sculley.» «Benissimo.» Perot riattaccò. Oh, cribbio, pensò: finalmente le cose incominciano ad andar bene! Pat Sculley aveva ricevuto da Perot l'ordine di raggiungere il confine, assicurarsi che la Squadra Sporca entrasse in Turchia senza difficoltà, e portare tutti a Istanbul. Se non avessero raggiunto la frontiera, avrebbe dovuto entrare in Iran per cercarli, preferibilmente con un aereo rubato da
Dick Douglas, o eventualmente in macchina. Sculley e la Squadra di Salvataggio Turca presero un volo regolare da Istanbul per Ankara, dove li stava aspettando un jet preso a nolo. (L'aereo noleggiato li avrebbe condotti a Van e ritorno; non sarebbe andato altrove. L'unico modo per indurre il pilota a portarli in Iran sarebbe stato costringerlo a dirottare.) L'arrivo di un jet a Van sembrava un avvenimento eccezionale. Quando scesero a terra furono accolti da un contingente di poliziotti che sembravano decisi a dar loro filo da torcere. Ma il signor Fish andò a confabulare con il capo della polizia e tornò indietro sorridendo. «State a sentire» disse. «Prenderemo alloggio nel miglior albergo della città, ma vi avverto: non è lo Sheraton, quindi non lamentatevi.» Salirono su due taxi. L'albergo aveva un grande atrio centrale, sul quale si affacciavano le stanze che erano allineate su tre piani di ballatoi; dal basso si vedevano tutte le porte. Quando gli americani entrarono, l'atrio era pieno di turchi che bevevano birra e seguivano una partita di calcio trasmessa da un televisore in bianco e nero, tra grida e applausi. Quando i turchi videro gli stranieri ammutolirono di colpo. Si fecero dare le stanze. Ogni camera da letto aveva due brande e un buco nell'angolo, separato da una tenda, che fungeva da gabinetto. I pavimenti erano di legno, le pareti imbiancate, e non c'erano finestre. Le stanze erano infestate da scarafaggi, e c'era un unico bagno per piano. Sculley e il signor Fish andarono a noleggiare un autobus che li portasse tutti al confine. Una Mercedes li prese a bordo davanti all'albergo e li condusse a un negozio di elettrodomestici con qualche televisore antiquato in vetrina. Era chiuso - ormai era sera - ma il signor Fish bussò sulla saracinesca, e finalmente uscì qualcuno. Andarono nel retro e sedettero intorno a un tavolo, sotto l'unica lampadina. Sculley non capì la conversazione, ma alla fine il signor Fish ottenne l'autobus e il relativo autista. Tornarono all'albergo con l'autobus. Gli altri erano radunati nella stanza di Sculley. Nessuno se la sentiva di sedere su quei letti, e tanto meno di dormirci. Tutti volevano partire immediatamente per il confine, ma il signor Fish esitava. «Sono le due del mattino» disse. «E la polizia tiene d'occhio l'albergo.» «Che importa?» ribatté Sculley. «Ci saranno altre domande, altre seccature.» «Proviamo.»
Scesero tutti. Arrivò il direttore, molto ansioso, e cominciò a interrogare il signor Fish. Poi entrarono due poliziotti che parteciparono alla discussione. Il signor Fish si rivolse a Sculley. «Non vogliono che partiamo.» «Perché?» «Si rende conto che abbiamo un'aria molto sospetta?» «Senta, c'è una legge che ci impedisce di andare?» «No, ma...» «Allora andiamo. Glielo dica.» Ci fu un'altra discussione in turco, ma alla fine i poliziotti e il direttore dell'albergo cedettero, e il gruppo salì sull'autobus. Lasciarono la città. La temperatura si abbassò rapidamente quando si addentrarono tra i monti coperti di neve. Tutti portavano indumenti pesanti e avevano coperte negli zaini. Per fortuna. Il signor Fish, che era seduto accanto a Sculley, disse: «Ora la situazione si fa seria. Con la polizia posso arrangiarmi, sono in buoni rapporti. Ma sono preoccupato per i banditi e i militari... con loro non sono ammanigliato». «Cosa conta di fare?» «Credo che riuscirò a convincerli a lasciarci passare, purché nessuno di voi abbia armi da fuoco.» Sculley rifletté. Solo Davis era armato; e Simons aveva sempre pensato che le armi potevano essere più dannose che utili: le Walther PPK non erano mai partite da Dallas. «Sta bene» disse. Ron Davis abbassò il vetro del finestrino e buttò sulla neve la sua calibro 38. Un po' più avanti la luce dei fari rivelò un soldato in uniforme che agitava le braccia in mezzo alla strada. L'autista tirò avanti come se volesse travolgerlo, ma il signor Fish gli gridò di fermarsi. Sculley guardò dal finestrino, vide sul fianco della montagna un plotone di soldati armati di fucili potentissimi e pensò: Se non ci fossimo fermati, ci avrebbero falciati. Un sergente e un caporale salirono sull'autobus. Controllarono tutti i passaporti. Il signor Fish offrì loro il pacchetto di sigarette. Gli parlarono per qualche minuto, poi salutarono con un cenno e scesero. Dopo qualche chilometro l'autobus fu fermato di nuovo e la scena si ripeté. La terza volta, gli uomini che salirono a bordo non erano in uniforme. Il
signor Fish era nervosissimo. «Fate finta di niente» sibilò agli americani. «Leggete, fate qualcosa, ma non guardateli.» Parlamentò con i turchi per circa mezz'ora, e quando finalmente l'autobus fu autorizzato a ripartire, due di loro rimasero a bordo. «Protezione» disse enigmaticamente il signor Fish, e alzò le spalle. Ufficialmente, Sculley aveva il comando, ma non poteva far altro che attenersi alle istruzioni del signor Fish. Non conosceva quel territorio e non parlava il turco; molto spesso non aveva idea di quel che succedeva. Era difficile comandare, in circostanze del genere. Il meglio che poteva fare, pensò, era tenere il signor Fish nella direzione giusta e dargli una scrollatina quando incominciava a scoraggiarsi. Alle quattro del mattino arrivarono a Yuksekova, il villaggio più vicino al posto di frontiera. Lì, secondo quanto aveva detto a Van il cugino del signor Fish, avrebbero trovato Ralph Boulware. Sculley e il signor Fish entrarono nella locanda. Era buia come una stalla e puzzava come la latrina d'uno stadio. Gridarono e chiamarono e finalmente comparve un ragazzino con una candela. Il signor Fish parlò con lui in turco poi disse: «Boulware non c'è. È partito da qualche ora. Non sanno dove sia andato». XIII Nell'albergo di Rezaiyeh, Jay Coburn era assalito ancora una volta da un senso d'impotenza, lo stesso che aveva provato a Mahabad e poi nel cortile della scuola: non poteva decidere del proprio destino, la sua sorte era nelle mani di un altro... in questo caso, nelle mani di Rashid. Dove diavolo era Rashid? Coburn chiese alle guardie se poteva telefonare. Lo condussero nell'atrio. Chiamò la casa del professore, il cugino di Majid che abitava a Rezaiyeh, ma nessuno rispose. Senza molte speranze, fece il numero di Gholam a Teheran. Con sua grande sorpresa, riuscì a mettersi in comunicazione. «Ho un messaggio per Jim Nyfeler» disse. «Siamo sul posto.» «Ma dove siete?» chiese Gholam. «A Teheran» mentì Coburn. «Ho bisogno di vederla.» Coburn doveva mantenere la finzione. «D'accordo, ci vediamo domattina.»
«Dove?» «Al Bucarest.» «Sta bene.» Coburn tornò di sopra. Simons chiamò lui e Taylor in una delle stanze. «Se per le nove Rashid non è tornato, ce ne andremo» disse il colonnello. Coburn si sentì meglio. Simons continuò: «Le guardie si annoiano, stanno diventando disattente. Ce la squalglieremo di nascosto, o le sistemeremo nell'altro modo». «Abbiamo una macchina sola» disse Coburn. «E dovremo lasciarla qui, per confonderli. Raggiungeremo il confine a piedi. Diavolo, sono soltanto cinquanta o sessanta chilometri. Possiamo tagliare attraverso i campi: tenendoci lontani dalle strade eviteremo i posti di blocco.» Coburn annuì. Così andava bene. Finalmente riprendevano l'iniziativa. «Prendiamo il denaro» disse Simons a Taylor. «Chieda alle guardie di accompagnarla alla macchina. Porti qui la scatola dei fazzoletti di carta e la lampada tascabile, e tiri fuori il denaro.» Taylor uscì. «Prima mangiamo» disse Simons. «Sarà una passeggiata molto lunga.» Taylor andò in una stanza vuota e rovesciò sul pavimento il denaro contenuto nella scatola dei fazzoletti e nella torcia elettrica. All'improvviso la porta si spalancò. Taylor si sentì arrestare il cuore. Alzò gli occhi e vide Gayden con un sorriso che gli andava da un orecchio all'altro. «Cuccù!» disse Gayden. Taylor era furibondo. «Carogna» disse. «Mi hai fatto prendere un accidente.» Gayden rise come un pazzo. Le guardie li accompagnarono in sala da pranzo. Gli americani sedettero a un grande tavolo rotondo, e le guardie presero posto a un altro. Vennero serviti tè e agnello con riso. Non fu un pasto allegro: tutti si chiedevano che cos'era successo a Rashid e come se la sarebbero cavata senza di lui. C'era un televisore acceso e Paul non riusciva a staccare gli occhi dallo schermo. Si aspettava da un momento all'altro di veder apparire la sua faccia in una foto segnaletica. Dove diavolo era Rashid?
Erano a un'ora di macchina dal confine, ma erano in trappola, sorvegliati dalle guardie, e c'era ancora il pericolo che li rispedissero a Teheran, in carcere. Qualcuno disse: «Ehi, guardate chi c'è!». Entrò Rashid. Si avvicinò al tavolo con aria d'importanza. «Signori» annunciò, «questo è il vostro ultimo pasto.» Tutti lo fissarono inorriditi. «In Iran, voglio dire» soggiunse lui. «Possiamo andarcene.» Tutti applaudirono. «Ho una lettera del comitato rivoluzionario» spiegò Rashid. «Sono andato in ricognizione al confine. Lungo la strada ci sono due posti di blocco, ma ho sistemato tutto. So dove possiamo procurarci i cavalli per attraversare le montagne... comunque non credo che ne avremo bisogno. Al posto di frontiera non c'è nessuno che rappresenti il governo... è nelle mani degli abitanti del villaggio. Ho incontrato il capo del villaggio, e ci autorizza a passare. E là c'è Ralph Boulware. Ho parlato con lui.» Simons si alzò. «Andiamo» disse. «Subito.» Lasciarono il pasto a metà. Rashid parlò con le guardie e mostrò la lettera del vice-capo del comitato. Keane Taylor pagò il conto dell'albergo. Rashid aveva acquistato un fascio di manifesti di Khomeini, e li diede a Bill perché li attaccasse alle macchine. Uscirono dopo pochi minuti. Bill aveva fatto un ottimo lavoro con i manifesti. Le fattezze severe dell'ayatollah tappezzavano le Range Rover. Partirono. Rashid era al volante della prima macchina. Mentre stavano per uscire dalla città, Rashid frenò di colpo, si sporse dal finestrino e fece segnali convulsi a un taxi che si avvicinava. Simons ringhiò: «Rashid, cosa cavolo sta combinando?». Senza rispondere, Rashid saltò a terra e corse verso il taxi. «Cristo» disse Simons. Rashid parlò per un minuto con il taxista, e poi il taxi si rimise in moto. Rashid spiegò: «Gli ho chiesto di indicarci il modo per uscire dalla città passando per le strade secondarie. C'è un posto di blocco che voglio evitare perché è sorvegliato da ragazzi armati di fucili, e non so come potrebbero reagire. Il taxista aveva già un cliente, ma tornerà. Aspettiamo.» «Non possiamo aspettare troppo» disse il colonnello. Il taxi tornò dopo dieci minuti. Lo seguirono per le vie buie e sterrate,
fino a quando arrivarono a una strada piuttosto ampia. Il taxista svoltò a destra. Rashid lo seguì a tutta velocrtà. Sulla sinistra, a pochi metri di distanza, c'era il posto di blocco, con i ragazzini che sparavano in aria. Il taxi e le due Range Rover si allontanarono in fretta, prima che i ragazzi si accorgessero che qualcuno era passato sotto il loro naso. Dopo cinquanta metri, Rashid si fermò a un distributore. Keane Taylor gli chiese: «Perché diavolo si è fermato?». «Dobbiamo far benzina.» «Abbiamo tre quarti di serbatoio, ed è più che sufficiente per arrivare oltre il confine... andiamocene.» «Forse in Turchia non troveremo benzina.» Simons disse: «Rashid, andiamo.» Rashid balzò a terra. Dopo aver fatto il pieno a entrambe le macchine, Rashid continuò a discutere con il taxista, offrendogli cento rial - poco più di un dollaro - perché li aveva guidati fuori città. Taylor disse: «Rashid, gli dia una manciata di denaro, e andiamo». «Pretende troppo» rispose Rashid. «Oh, Dio» disse Taylor. Finalmente Rashid diede duecento rial al tassista e risalì sulla Range Rover. «Si sarebbe insospettito se non avessi discusso» spiegò. Uscirono dalla città. La strada si snodava tortuosa tra le montagne. Era in buone condizioni e potevano viaggiare a velocità abbastanza sostenuta. Dopo un po' la strada incominciò a costeggiare un dosso, tra ripidi burroni alberati. «Questo pomeriggio c'era un posto di blocco» disse Rashid. «Forse sono tornati a casa.» I fari inquadrarono due uomini sul bordo della strada; facevano cenno di fermarsi. Non c'erano barriere. Rashid non frenò. «Credo sia meglio fermarci» disse Simons. Rashid tirò diritto. «Le ho detto di fermarsi!» urlò Simons. Rashid si fermò. Bill guardò dal parabrezza e disse: «Guardate». Pochi metri più avanti c'era un ponte che scavalcava un burrone. Ai due lati, dal burrone stavano salendo molti montanari. Trenta, quaranta, cinquanta... ed erano armati fino ai denti. Sembrava un'imboscata. Se le macchine avessero tentato di superare il posto di blocco, le avrebbero crivellate.
«Grazie a Dio ci siamo fermati» mormorò Bill. Rashid balzò a terra e incominciò a parlare. I montanari tesero una catena attraverso il ponte e circondarono le Range Rover. Ben presto apparve evidente che era l'incontro più ostile capitato fino a quel momento. Gli uomini circondavano le macchine, guardavano dentro con aria minacciosa e brandivano i fucili. Due o tre incominciarono a gridare qualcosa a Rashid. Era spaventoso, pensò Bill: essere arrivati fin lì, dopo tanti pericoli e tante traversie, per essere bloccati da un branco di stupidi contadini. E se volessero prendersi queste due splendide Range Rover e tutto il nostro denaro? si chiese. Chi verrebbe mai a saperlo? I montanari s'incattivirono. Cominciarono a spintonare Rashid. Tra un momento spareranno, pensò Bill. «Non fate niente» disse Simons. «Restate in macchina e lasciate che se la sbrighi Rashid.» Bill pensò che Rashid aveva bisogno di aiuto. Toccò il rosario che aveva in tasca e cominciò a pregare. Recitò tutte le preghiere che conosceva. Ormai siamo nelle mani di Dio, pensò: ci vorrà un miracolo per tirarci fuori da questo guaio. A bordo della seconda macchina, Coburn stava immobile mentre un montanaro, dall'esterno, gli puntava un fucile alla testa. Gayden, che era seduto dietro di lui, fu colto da un impulso improvviso e bisbigliò: «Jay! Perché non blocca la portiera?». Coburn sentì una risata isterica salirgli alla gola. Rashid si rendeva conto d'essere a un passo dalla morte. Quei montanari erano banditi, pronti ad ammazzare chiunque per portargli via la giacca. A loro non importava niente di niente, né della rivoluzione, né d'altro. Non riconoscevano nessun governo, non obbedivano a nessuna legge. Non parlavano neppure il Farsi, la lingua dell'Iran. Parlavano turco. Lo spintonavano e urlavano in turco. Lui urlava in Farsi, ma invano. Si stanno caricando e ci uccideranno tutti, pensò. Sentì una macchina che si avvicinava. Dalla direzione di Rezaiyeh apparvero due fari. Si fermò una Land Rover, e ne scesero tre uomini. Uno indossava un lungo cappotto nero, e i montanari lo trattavano con deferenza. L'uomo si rivolse a Rashid. «Mi faccia vedere i passaporti.»
«Certamente» disse Rashid. Condusse l'uomo alla seconda Range Rover. Bill era sulla prima, e Rashid voleva che l'uomo si stancasse di esaminare i passaporti prima di dare un'occhiata a Gaylord. Bussò sul finestrino, e Paul abbassò il vetro. «I passaporti.» Sembrava che l'uomo fosse abituato a maneggiare passaporti. Li esaminò scrupolosamente uno a uno, confrontando le fotografie con le facce. Poi, in perfetto inglese, faceva domande: Dov'è nato? Dove abita? La sua data di nascita? Per fortuna, Simons aveva imposto a Bill e Paul di imparare tutti i dati dei passaporti falsi, e quindi Paul poté rispondere senza esitazioni. Senza molto entusiasmo, Rashid condusse l'uomo alla prima Range Rover. Bill e Keane Taylor s'erano scambiati il posto, e Bill era nell'angolo più lontano dalla luce. L'uomo ripeté la solita scena. Guardò per ultimo il passaporto di Bill. Poi disse: «La fotografia non è sua». «Sì, lo è» disse convulsamente Rashid. «È molto malato. È dimagrito, la pelle ha cambiato colore... non vede che è moribondo? Deve tornare in America al più presto possibile per farsi curare, e lei lo sta trattenendo... vuole che muoia perché il popolo iraniano non ha avuto pietà di un malato? È così che teniamo alto l'onore del nostro paese? E...» «Sono americani» disse l'uomo. «Mi segua.» Si voltò ed entrò nella casupola accanto al ponte. Rashid lo seguì. «Non ha il diritto di fermarci» disse. «Il Comitato Rivoluzionario Islamico di Rezaiyeh mi ha dato l'ordine di accompagnarli alla frontiera, e trattenerci è un reato controrivoluzionario contro il popolo iraniano.» Tirò fuori la lettera scritta dal vice-capo e munita del timbro della biblioteca. L'uomo la lesse. «Comunque, quell'americano non somiglia affatto alla foto del suo passaporto.» «Le ho detto che è malato» gridò Rashid. «Il comitato rivoluzionario li ha autorizzati a raggiungere il confine! Mi tolga di torno questi banditi!» «Anche noi abbiamo un comitato rivoluzionario» disse l'uomo. «Dovrete venire tutti al nostro comando.» Rashid non poté che rassegnarsi. Jay Coburn vide Rashid uscire dalla casupola con l'uomo dal lungo cappotto nero. Rashid aveva l'aria sconvolta. «Andiamo al loro villaggio a farci controllare» disse Rashid. «E dobbiamo andare con le loro macchine.»
Si metteva male, pensò Coburn. Le altre volte che li avevano fermati, li avevano autorizzati a restare sulle Range Rover, e si erano sentiti un po' meno prigionieri. Lasciare le macchine era come perdere il contatto con la base. E Rashid non aveva mai avuto quell'aria spaventata. Salirono tutti sui veicoli dei montanari, un camioncino e una familiare malconcia. Si avviarono lungo una pista sterrata. Le Range Rover li seguirono, guidate da due montanari. La pista si addentrò nell'oscurità. Merda, pensò Coburn, è finita. Nessuno saprà più niente di noi. Dopo cinque o sei chilometri arrivarono al villaggio. C'era una sola costruzione di mattoni, con un cortile; le altre erano casupole d'argilla con i tetti di paglia. Ma nel cortile c'erano sei o sette jeep magnifiche. Coburn disse: «Gesù, questi vivono rubando le macchine». Due Range Rover sarebbero state una preziosa aggiunta alla collezione, pensò. I due veicoli che portavano gli americani si fermarono nel cortile; poi arrivarono le Range Rover; quindi altre due jeep, che bloccarono l'uscita. Tutti scesero. L'uomo dal cappotto nero disse: «Non abbiate paura. Vogliamo solo parlare con voi, poi potrete ripartire». Entrò nell'edificio di mattoni. «Mente!» sibilò Rashid. Li condussero all'interno e ordinarono di togliersi le scarpe. I montanari erano affascinati dagli stivali da cowboy di Keane Taylor: uno li prese, li esaminò, e li passò agli altri perché li ammirassero. Gli americani furono introdotti in una grande stanza nuda, con un tappeto persiano sul pavimento e materassi e coperte arrotolati contro le pareti. L'unica luce proveniva da una specie di lanterna. Sedettero in cerchio, circondati dai montanari armati di fucile. Un altro processo come a Mahabad, pensò Coburn. Tenne d'occhio Simons. Entrò il mullah più grosso e più brutto che avessero mai visto, e ricominciò l'interrogatorio. Era Rashid a parlare, in un miscuglio di Farsi, turco e inglese. Mostrò di nuovo le lettera del comitato rivoluzionario e diede il nome del vicecapo. Qualcuno uscì per andare a telefonare a Rezaiyeh. Coburn si chiese come avrebbe fatto: la lampada a petrolio indicava che non c'era l'elettricità, quindi com'era possibile che ci fosse un telefono? I passaporti furono esaminati di nuovo. Gli uomini continuavano a entrare e uscire. E se hanno il telefono? si chiese Coburn. E se il comitato di Rezaiyeh è
stato messo in allarme da Dadgar? Forse è meglio se controllano veramente, pensò; almeno così qualcuno saprà che siamo qui. Adesso potrebbero ammazzarci, far sparire i nostri cadaveri, e nessuno saprebbe mai che cosa è successo. Un montanaro entrò, rese la lettera a Rashid e parlò al mullah, «Tutto a posto» disse Rashid. «Hanno ricevuto la conferma.» L'atmosfera cambiò di colpo. Il minaccioso mullah si trasformò nel Buon Gigante e strinse la mano a tutti. «Ci dà il benvenuto nel suo villaggio» tradusse Rashid. Venne portato il tè. Rashid disse: «Ci hanno invitati a restare ospiti del villaggio per questa notte». Simons disse: «Risponda che è impossibile. I nostri amici ci aspettano al confine». Entrò un ragazzetto sui dieci anni. Per cementare quella nuova amicizia, Keane Taylor tirò fuori la foto di suo figlio Michael, che aveva undici anni, e la mostrò ai montanari. Tutti presero a parlottare, e Rashid spiegò: «Vogliono farsi fotografare». Gayden disse: «Keane, tiri fuori la macchina fotografica». «Ho quasi finito il rullino» disse Taylor. «Keane, tiri fuori quella maledetta macchina.» Taylor la tirò fuori. Gli erano rimasti tre scatti, ma non aveva il flash, e sarebbe stato necessario qualcosa di ben più perfezionato dell'Instamatic per fotografare alla luce della lanterna. Ma i montanari si schierarono, agitando in aria i fucili, e Taylor non poté fare altro che fingere di fotografarli. Era incredibile. Cinque minuti prima sembravano sul punto di massacrarli; adesso ridevano e gridavano e scherzavano allegramente. E con ogni probabilità potevano cambiare di nuovo umore. Taylor incominciò a fare la scena, comportandosi come un fotoreporter: gridò di stringersi di più per poterli inquadrare tutti e "scattò" decine di foto. Portarono altro tè. Coburn gemette. Negli ultimi giorni aveva bevuto tanto tè da annegarci dentro. Versò di nascosto il suo, facendo una macchia scura sul magnifico tappeto. Simons disse a Rashid: «Gli spieghi che dobbiamo andare». Vi fu un breve conciliabolo, poi Rashid riferì: «Dobbiamo bere un altro tè». «No» disse Simons in tono deciso, e si alzò. «Muoviamoci.» Sorridendo
con calma e rivolgendo sorrisi e inchini ai montanari, il colonnello cominciò a impartire ordini con una voce che smentiva il suo fare cerimonioso: «Tutti in piedi. Rimettete le scarpe. Avanti, andiamocene.» Tutti si alzarono. Ognuno dei montanari pretese di stringere la mano a ognuno dei visitatori. Simons continuava a sospingerli verso la porta. Recuperarono le scarpe e le infilarono, senza smettere di inchinarsi e di stringere le mani agli ospiti. Finalmente uscirono e salirono sulle Range Rover. Vi fu una breve attesa mentre i montanari spostavano le jeep che bloccavano l'uscita. Poi, seguendo le due jeep, si avviarono lungo la pista. Erano ancora vivi, ancora liberi, ancora in viaggio. I montanari li accompagnarono fino al ponte e si congedarono. Rashid chiese: «Ma non ci scortate fino al confine?». «No» gli risposero. «Il nostro territorio finisce al ponte. Dall'altra parte è territorio di Sero.» L'uomo dal lungo cappotto nero venne a stringere la mano a tutti. «Non dimentichi di mandarci le foto» raccomandò a Taylor. «Ci conti» promise tranquillamente Taylor. La catena che bloccava il ponte era stata tolta. Le due Range Rover passarono, accelerando. «Spero che la storia non si ripeta al prossimo villaggio» disse Rashid. «Questo pomeriggio ho parlato con il capo e mi sono messo d'accordo.» La Range Rover accelerò. «Rallenti» disse Simons. «No, dobbiamo sbrigarci.» Erano a poco più d'un chilometro e mezzo dal confine. Simons disse: «Rallenti, maledizione. Non voglio farmi ammazzare proprio adesso». Stavano passando davanti a quello che sembrava un distributore. C'era una piccola baracca, con una luce accesa. All'improvviso Taylor urlò: «Fermo! Fermo!». Simons disse: «Rashid...». Sulla seconda Range Rover, Paul strombazzò e fece lampeggiare i fari. Con la coda dell'occhio Rashid vide due uomini che uscivano di corsa dalla baracca, caricando i fucili. Frenò di colpo. La macchina si arrestò con un gran stridore di gomme. Paul si era già fermato accanto al distributore. Rashid fece marcia indietro e saltò a terra. I due uomini gli puntarono contro i fucili. Ecco che si ricomincia, pensò.
Fece la solita scena, ma a quelli non interessava affatto. Salirono a bordo, uno per macchina. Rashid si rimise al volante. «Avanti» gli disse l'uomo. Dopo un minuto arrivarono ai piedi della collina che portava al confine. Lassù in alto si vedevano le luci del posto di frontiera. L'uomo che stava a fianco di Rashid disse: «Svolti a destra». «No» disse Rashid. «Siamo stati autorizzati a raggiungere il confine e...» L'uomo alzò il fucile e tolse la sicura. Rashid fermò la macchina. «Stia a sentire, questo pomeriggio sono stato al villaggio e ho avuto il permesso di passare...» «Di là.» Erano a meno d'un chilometro dalla Turchia e dalla libertà. Erano sette uomini della Squadra Sporca contro due guardie. La tentazione era forte... Una jeep scese a precipizio dal posto di frontiera e frenò bruscamente davanti alla Range Rover. Un giovane agitatissimo che brandiva una pistola saltò giù e corse verso Rashid. Rashid abbassò il vetro e disse: «Ho l'ordine del Comitato Rivoluzionario Islamico...». Il giovane esagitato gli puntò la pistola alla testa. «Giù per quella strada!» urlò. Rashid si arrese. Si avviarono lungo la pista. Era anche più stretta dell'ultima. Il villaggio era a meno d'un chilometro e mezzo. Quando arrivarono, Rashid saltò a terra e disse agli altri: «Restate qui... me la sbrigo io». Parecchi uomini uscirono dalle casupole per vedere cosa stava succedendo. Avevano l'aria di essere banditi, ancor più degli abitanti dell'ultimo villaggio. Rashid chiese a voce alta: «Dov'è il capo?». «Non è qui» rispose qualcuno. «Allora andate a chiamarlo. Gli ho parlato questo pomeriggio... sono suo amico... mi ha autorizzato ad attraversare il confine con questi americani.» «Perché è con gli americani?» chiese qualcuno. «Per ordine del Comitato Rivoluzionario Islamico...» All'improvviso comparve il capo del villaggio, con il quale Rashid aveva parlato quel pomeriggio. Si avvicinò e baciò Rashid sulle guance. A bordo della seconda Range Rover, Gayden disse: «Ehi, sembra che le cose si mettano bene». «Dio sia ringraziato» borbottò Coburn. «Non ce la farei a bere altro tè, neppure per salvarmi la vita.»
L'uomo che aveva baciato Rashid si accostò. Indossava una pesante giubba afgana. Si affacciò dal finestrino e strinse le mani a tutti. Rashid e le due guardie risalirono in macchina. Pochi minuti più tardi stavano salendo la collina per raggiungere il posto di frontiera. Paul, al volante della seconda macchina, all'improvviso ripensò a Dadgar. Quattro ore prima, a Rezaiyeh, era parso ragionevole rinunciare all'idea di passare il confine a cavallo, evitando la strada e il posto di frontiera. Adesso non ne era più tanto sicuro. Dadgar era capace di aver mandato le foto di Paul e Bill a tutti gli aeroporti, a tutti i porti di mare e a tutti i posti di confine. Anche se lì non c'era nessuno che rappresentasse il governo, era possibile che le fotografie fossero affisse a una parete. Gli iraniani sembravano felici di avere un pretesto per fermare gli americani e interrogarli. L'EDS aveva sempre sottovalutato Dadgar... Il posto di frontiera era illuminato da potenti tubi fluorescenti. Le due macchine si avvicinarono lentamente, passarono oltre gli edifici e si fermarono davanti alla catena che delimitava il territorio iraniano. Rashid scese. Parlò con le guardie, poi tornò ad annunciare: «Non hanno la chiave per togliere le catene». Smontarono tutti. Simons disse a Rashid: «Vada dalla parte turca e veda se c'è Boulware». Rashid sparì. Simons provò a sollevare la catena. Non si alzava abbastanza per lasciar passare una Range Rover. Qualcuno trovò alcune assi e le appoggiò sulla catena, per vedere se era possibile superare l'ostacolo in quel modo. Simons scrollò la testa. Era inutile. Si rivolse a Coburn. «C'è una sega da ferro nella cassetta degli attrezzi?» Coburn tornò alla macchina. Paul e Gayden accesero le sigarette. Gayden disse: «Ora deve decidere cosa intende fare con quel passaporto.» «Sarebbe a dire?» «Secondo la legge americana, ci sono una multa di diecimila dollari e una pena detentiva per chi usa un passaporto falso. La multa la pagherò io, ma in prigione dovrà andarci lei.» Paul rifletté. Fino a quel momento non aveva trasgredito nessuna legge. Aveva mostrato il passaporto falso, ma soltanto a banditi e rivoluzionari
che non avrebbero avuto il diritto di chiederlo. Sarebbe stata una gran bella cosa rimanere in regola con la legge. «Giustissimo» disse Simons. «Quando saremo fuori da questo stramaledetto paese non dovremo far niente d'illecito. Non voglio essere costretto a tirarvi fuori da un carcere turco.» Paul consegnò il passaporto a Gayden e Bill fece altrettanto. Gayden li porse a Taylor, che se li infilò negli stivali. Coburn tornò con una sega da ferro. Simons la prese e cominciò a segare la catena. Le guardie iraniane arrivarono di corsa, urlando. Simons si fermò. Rashid tornò dalla parte turca del confine, portandosi dietro due guardie e un ufficiale. Parlò con gli iraniani, poi disse a Simons: «Non può tagliare la catena. Dicono che dobbiamo attendere fino a domattina. Anche i turchi non vogliono che passiamo stanotte». Simons mormorò a Paul: «Si prepari a star male». «Sarebbe a dire?» «Se glielo dico, si senta male.» Paul capì ciò che stava pensando Simons: le guardie turche volevano dormire, e non avevano nessuna intenzione di passare la notte a badare a un branco di americani: ma se un americano avesse avuto bisogno urgente di essere ricoverato in ospedale, non avrebbero potuto mandarlo via. I turchi ritornarono dalla loro parte. «Adesso cosa facciamo?» chiese Coburn. «Aspettiamo» disse Simons. Tutte le guardie iraniane, tranne due, rientrarono nel loro piccolo edificio. Faceva molto freddo. «Dovete dare l'impressione che siamo disposti ad aspettare tutta la notte» disse Simons. Anche le altre due guardie se ne andarono. «Gayden, Taylor» disse Simons. «Entrate e offrite denaro alle guardie perché ci custodiscano le macchine.» «Custodirle?» disse Taylor, incredulo. «Le ruberanno.» «Appunto» disse Simons. «Potranno rubarle... se ci lasceranno andare.» Taylor e Gayden entrarono. «Ecco fatto» disse Simons. «Coburn, prenda Paul e Bill e passi.» «Andiamo, amici» disse Coburn. Paul e Bill scavalcarono la catena e proseguirono. Coburn stava dietro di
loro. «Continuate a camminare, qualunque cosa succeda» disse. «Se sentite gridare o sparare, mettetevi a correre. Ma non dobbiamo fermarci né tornare indietro, in nessun caso.» Simons li seguì. «Allungate il passo» disse. «Non voglio che voi due vi facciate sparare proprio qui.» Sentirono che dalla parte iraniana era scoppiata una discussione. Coburn disse: «Non voltatevi. Andate avanti». Dalla parte iraniana, Taylor stava porgendo una manciata di biglietti di banca alle due guardie, che sbirciavano un po' i quattro uomini avviati attraverso la terra di nessuno e un po' le due Range Rover, due macchine del valore di almeno ventimila dollari ciascuna... Rashid stava dicendo: «Non sappiamo quando potremo tornare a prenderle... Forse passerà parecchio tempo...». Una delle guardie obiettò: «Dovevate restare tutti qui fino a domattina...». «Le macchine valgono parecchio, qualcuno deve custodirle...» Le guardie distolsero gli occhi dalle Range Rover, fissarono i quattro che stavano andando in Turchia, fissarono di nuovo le macchine ed esitarono... troppo a lungo. Paul e Bill raggiunsero la parte turca ed entrarono nella baracca. Bill diede un'occhiata all'orologio. Erano le 11 e 45 di giovedì 15 febbraio, il giorno dopo san Valentino. Il 15 febbraio 1960 aveva infilato l'anello di fidanzamento al dito di Emily. Lo stesso giorno, sei anni dopo, era nata Jackie... oggi compiva i tredici anni. Bill pensò: Ecco il tuo regalo, Jackie... hai ancora un padre. Coburn li seguì nella baracca. Paul passò il braccio intorno alle spalle di Coburn e disse: «Jay, hai vinto la partita». Dalla parte iraniana, le guardie videro che metà degli americani erano già in Turchia e decisero di ritirarsi dal gioco finché erano in vantaggio, tenendosi il denaro e le Range Rover. Rashid, Gayden e Taylor si avvicinarono alla catena. Gayden si fermò. «Andate avanti» disse. «Voglio essere l'ultimo ad andarmene.» E fu l'ultimo. Nella locanda di Yuksekova, intorno a una stufa panciuta e fumante, Ralph Boulware, Ilsman l'agente segreto, Charlie Brown l'interprete e i due
figli del cugino del signor Fish attendevano una telefonata dal posto di confine. Fu servita la cena: pezzi di carne, probabilmente d'agnello, avvolti in carta da giornale. Ilsman disse che aveva visto qualcuno, al confine, fotografare Rashid e Boulware. Spiegò, tramite Charlie Brown: «Se dovesse avere problemi per quelle foto, ci penserò io». Boulware si domandò che diavolo voleva dire. Charlie soggiunse: «Pensa che lei è un uomo onesto, e che quello che sta facendo è molto bello». Era un'offerta sinistra, pensò Boulware: come quando un mafioso ti dice che sei suo amico. À mezzanotte non erano ancora arrivate notizie della Squadra Sporca, e neppure di Pat Sculley e del signor Fish, che dovevano essere in viaggio con un autobus. Boulware decise di andare a letto. Beveva sempre un po' d'acqua, prima di dormire. Su un tavolo c'era una caraffa. Diavolo, pensò, non sono ancora morto. Bevve, e si accorse di aver inghiottito qualcosa di solido. Oh, Dio, si chiese, che cos'era? Si sforzò di non pensarci. Stava andando a letto quando un ragazzino lo chiamò al telefono. Era Rashid. «Ehi, Ralph?» «Sì.» «Siamo al confine!» «Vengo subito.» Chiamò gli altri e pagò il conto. Con i figli del cugino del signor Fish che guidavano, si avviarono lungo la strada dove, come continuava a ripetere Ilsman, l'ultimo mese i banditi avevano ucciso trentanove persone. Lungo il tragitto bucarono un'altra gomma. I figli del cugino dovettero cambiarla al buio, perché le batterie della loro torcia elettrica s'erano scaricate. Boulware non sapeva se doveva aver paura, mentre stava lì in attesa sul bordo della strada. Poteva darsi che Ilsman fosse un bugiardo, un truffatore. Ma le sue credenziali, finora, avevano protetto tutti. Se il servizio segreto dei turchi era all'altezza dei loro alberghi, diavolo, Ilsman poteva essere l'equivalente turco di James Bond. La gomma fu sostituita e le macchine ripartirono. Proseguirono nella notte. Andrà tutto bene, pensò Boulware. Paul e Bill sono al confine, Sculley e il signor Fish stanno arrivando con un autobus, Perot è a Istanbul con un aereo. Ce la faremo. Arrivarono alla frontiera. Nelle baracche delle guardie c'erano le luci ac-
cese. Boulware saltò giù dalla macchina ed entrò correndo. Fu accolto da grida e applausi. C'erano tutti: Paul e Bill, Coburn, Simons, Taylor, Gayden e Rashid. Boulware strinse calorosamente la mano a Paul e Bill. Cominciarono tutti a raccogliere giacche e borse. «Ehi, ehi, un momento» disse Boulware. «Il signor Fish verrà a prenderci con un autobus.» Tirò fuori dalla tasca una bottiglia di Chivas Regal che aveva tenuto in serbo per quel momento. «Ma possiamo bere tutti un sorso!» Brindarono per festeggiare, tutti tranne Rashid che non beveva alcolici. Simons prese in disparte Boulware. «Allora, come vanno le cose?» «Ho parlato con Ross questo pomeriggio» disse Boulware. «Il signor Fish sta arrivando con Sculley, Schwebach e Davis. Vengono con un autobus. Potremmo andarcene subito tutti quanti - siamo in dodici e su due macchine ci staremmo - ma credo che dovremmo aspettare l'autobus. Saremmo tutti insieme, e non rischieremmo più di perdere qualcuno. E poi, pare che la strada sia infestata da banditi e assassini. Non so se sia un'esagerazione, ma non fanno altro che ripeterlo e io incomincio a crederlo. Se la strada è pericolosa, saremo più al sicuro restando insieme. E infine, se andiamo a Yuksekova ad aspettare il signor Fish, non potremo evitare di alloggiare nella peggior locanda del mondo, e di attirare la curiosità di altri poliziotti.» «D'accordo» disse Simons, non molto convinto. «Aspettiamo ancora un po'.» Aveva l'aria stanca, pensò Boulware; era un vecchio che aveva bisogno di riposare. Anche Coburn sembrava svuotato, esausto, quasi distrutto. Boulware si chiese che cosa avevano passato prima di arrivare fin lì. Lui, invece, si sentiva magnificamente, sebbene avesse dormito pochissimo in quelle ultime quarantotto ore. Ripensò alle interminabili discussioni con il signor Fish sui modi di raggiungere il confine; al contrattempo di Adana, quando l'autobus non era arrivato; alla corsa in taxi fra i monti, sotto una tempesta di neve... E adesso, dopotutto, era lì. Nella baracca c'era un freddo tremendo, e la stufa a legna non otteneva altro risultato che riempire la stanza di fumo. Erano tutti stanchi, e il whisky aveva fatto venir loro sonno. Uno ad uno si addormentarono sulle panche di legno e per terra. Simons non dormiva. Rashid lo guardava camminare avanti e indietro come una tigre in gabbia, fumando un sigaro dopo l'altro. Quando spuntò l'alba incominciò a guardare dalla finestra, al di là della terra di nessuno, in
Iran. «Ci sono circa cento uomini armati» disse a Rashid e a Boulware. «Cosa credete che farebbero se sapessero chi ha passato il confine questa notte?» Anche Boulware incominciava a domandarsi se aveva fatto bene a proporre di attendere il signor Fish. Rashid guardò dalla finestra. Vide le Range Rover oltre il confine e ricordò qualcosa. «La tanica» disse. «Ho lasciato la tanica con il denaro. Potrebbe servirci.» Simons si limitò a guardarlo. D'impulso, Rashid uscì e si avviò attraverso la terra di nessuno. Il percorso gli sembrava interminabile. Pensò alla psicologia delle guardie iraniane. Per loro siamo una partita chiusa, decise. Se hanno qualche dubbio circa il modo in cui si sono comportate stanotte, devono aver passato le ultime ore inventando scuse per giustificarsi. Adesso sono convinte di aver fatto ciò che dovevano. Ci vorrà un po' prima che cambino idea. Arrivò dall'altra parte e scavalcò la catena. Si avvicinò alla prima Range Rover e aprì il portello posteriore. Due guardie uscirono di corsa dalla baracca. Rashid prelevò la tanica dalla macchina e chiuse il portello. «Abbiamo dimenticato l'olio» disse, avviandosi di nuovo verso la catena. «A che cosa vi serve?» chiese insospettita una guardia. «Non avete più le macchine.» «Per l'autobus» disse Rashid, scavalcando la catena. «L'autobus che ci porta a Van.» S'incamminò. Sentiva che le guardie gli tenevano gli occhi incollati sulla schiena. Non si voltò a guardare fino a quando fu rientrato nella baracca oltre il confine turco. Pochi minuti dopo si sentì il rombo di un motore. Guardarono dalle finestre. Stava arrivando un autobus. Tutti proruppero in acclamazioni. Pat Sculley, Jim Schwebach, Ron Davis e il signor Fish scesero dall'autobus ed entrarono. Ci furono interminabili strette di mano. I nuovi arrivati avevano portato un'altra bottiglia di whisky, e tutti brindarono di nuovo. Il signor Fish confabulò con Ilsman e le guardie.
Gayden passò il braccio intorno alle spalle di Pat Sculley e chiese: «Ha visto chi c'è con noi?» E indicò. Sculley vide Rashid che dormiva in un angolo. Sorrise. A Teheran era stato il superiore di Rashid e durante il primo incontro con Simons nella sala del consiglio d'amministrazione dell'EDS - erano trascorse soltanto sei settimane? - aveva insistito perché Rashid fosse della partita. Adesso sembrava che Simons avesse finito per convincersi che lui aveva ragione. Il signor Fish disse: «Io e il signor Sculley dobbiamo andare a Yuksekova a parlare con il capo della polizia. Voi aspettateci qui, per favore». «Un momento» disse Simons. «Abbiamo aspettato Boulware, e poi abbiamo aspettato lei. Adesso che altro dobbiamo attendere?» Il signor Fish rispose: «Se non chiariamo le cose in anticipo, ci saranno guai, perché Paul e Bill non hanno il passaporto». Simons si rivolse a Boulware. «Questo problema doveva averlo risolto il suo amico Ilsman» disse in tono irritato. «Credevo che l'avesse fatto» disse Boulware. «Credevo che li avesse pagati.» «E allora cosa sta succedendo?» Il signor Fish disse: «Così è meglio». Simons ringhiò: «E allora sbrigatevi». Sculley e il signor Fish se ne andarono. Gli altri incominciarono a giocare a poker. Avevano migliaia di dollari nascosti nelle scarpe, ed erano euforici. A un certo punto Paul si trovò con un full d'assi, e il piatto salì oltre i mille dollari. Keane Taylor continuava a rilanciare; aveva una coppia di re scoperti, e Paul immaginava che avesse un altra carta coperta, un full di re. Paul non sbagliava. Vinse millequattrocento dollari. Arrivarono altre guardie per il cambio, compreso un ufficiale che andò su tutte le furie quando trovò la stanza piena di mozziconi di sigarette, biglietti da cento dollari e un branco di americani, due dei quali erano entrati in Turchia senza passaporto. Le ore passavano, e tutti incominciarono a sentirsi male: avevano bevuto troppo whisky e avevano dormito troppo poco. Via via che il sole saliva nel cielo, il poker sembrava sempre meno divertente. Simons s'innervosì. Gayden cominciò a prendersela con Boulware. Boulware si chiese dov'erano finiti Sculley e il signor Fish. Ormai Boulware era sicuro di aver commesso un errore. Avrebbero dovuto partire tutti per Yuksekova non appena era arrivato al posto di frontie-
ra. E un altro sbaglio era stato lasciare che il signor Fish assumesse il comando delle operazioni. Adesso aveva perso l'iniziativa. Alle dieci, dopo quattro ore d'assenza, tornarono Sculley e il signor Fish. Il signor Fish disse all'ufficiale che erano autorizzati ad andarsene. L'ufficiale rispose seccamente e, come per caso, aprì la giacca mettendo in mostra la pistola. Le altre guardie si allontanarono dagli americani. Il signor Fish mormorò: «Dice che ce ne andremo quando lui ci darà il permesso». «Ora basta» disse Simons. Si alzò e soggiunse qualcosa in turco. Tutte le guardie lo guardarono sorprese: non avevano immaginato che parlasse la loro lingua. Simons condusse l'ufficiale nella stanza accanto. Uscirono dopo pochi minuti. «Possiamo andare» disse Simons. Lasciarono la baracca. Coburn chiese: «L'ha pagato, colonnello... o l'ha spaventato a morte?». Simons sorrise vagamente e non rispose. Pat Sculley disse: «Vuol venire a Dallas, Rashid?». In quegli ultimi due giorni, pensò Rashid, tutti avevano parlato come se lui dovesse accompagnarli fino a destinazione; ma era la prima volta che qualcuno gli chiedeva direttamente se voleva farlo. Ora doveva prendere la decisione più importante della sua vita. Vuol venire a Dallas, Rashid? Il sogno stava per avverarsi. Pensò a tutto ciò che si lasciava alle spalle. Non aveva figli, né moglie, neppure una ragazza... non si era mai innamorato. Ma pensò ai genitori, alla sorella e ai fratelli. Forse avrebbero avuto bisogno di lui: almeno per qualche tempo, la vita in Iran sarebbe stata dura. Eppure, che aiuto poteva dar loro? Avrebbe lavorato ancora per pochi giorni o per poche settimane a spedire negli Stati Uniti le suppellettili degli americani, a curare i cani e i gatti... e poi più nulla. L'EDS, in Iran, aveva chiuso. Probabilmente era tramontata anche l'era dei computer, almeno per molti anni. Come disoccupato, sarebbe stato un peso per la sua famiglia, una bocca in più da sfamare in tempi difficili. Ma in America... In America poteva continuare gli studi. Poteva sfruttare le sue doti, aver successo negli affari... soprattutto con l'aiuto di gente come Pat Sculley e Jay Coburn. Vuol venire a Dallas, Rashid?
«Sì» disse a Sculley. «Voglio venire a Dallas.» «E allora, cosa aspetta? Salti sull'autobus.» Salirono tutti a bordo. Paul sedette con un sospiro di sollievo. L'autobus si mise in moto, e l'Iran scomparve in lontananza: probabilmente non l'avrebbe rivisto mai più. Sull'autobus c'erano alcuni sconosciuti: alcuni turchi dalle uniformi improvvisate e due americani che - mormorò qualcuno - erano piloti. Paul era troppo sfinito per far domande. Uno dei militari turchi del posto di frontiera era salito con loro; presumibilmente s'era fatto dare un passaggio. Si fermarono a Yuksekova. Il signor Fish disse a Paul e Bill: «Dobbiamo parlare con il capo della polizia. È qui da venticinque anni e questo è l'avvenimento più importante che sia mai capitato. Ma non preoccupatevi. È solo una formalità». Paul, Bill e il signor Fish scesero ed entrarono nella piccola stazione di polizia. Paul non era preoccupato. Era uscito dall'Iran, e sebbene la Turchia non fosse esattamente un paese occidentale, almeno non era in preda alla rivoluzione. O forse era troppo stanco per aver paura. Paul e Bill furono interrogati per due ore, e poi rilasciati. A Yuksekova altre sei persone salirono sull'autobus: una donna e un bambino che a quanto pareva erano la moglie e il figlio della guardia, e quattro uomini luridi - «Per proteggerci» disse il signor Fish - che presero posto dietro una tenda in fondo al veicolo. Ripartirono, diretti a Van dove li stava aspettando un aereo preso a nolo. Paul guardava il panorama. Era ancora più bello della Svizzera, pensò, ma incredibilmente povero. Macigni enormi costellavano la strada. Nei campi, la gente lacera calpestava la neve perché le capre potessero brucare l'erba ghiacciata. C'erano grotte chiuse da cancelli di legno, e sembrava che la gente ci abitasse. Passarono accanto alle rovine d'una fortezza di pietra che forse risaliva ai tempi delle crociate. L'autista sembrava convinto di partecipare a un Gran Premio. Guidava con molta aggressività, sicuro che niente potesse venirgli incontro dalla direzione opposta. Un gruppo di soldati gli accennò di fermarsi e lui passò oltre tranquillamente. Il signor Fish gli urlò di frenare, ma lui urlò a sua volta e tirò diritto. Qualche chilometro più avanti, l'esercito li stava aspettando in forze; probabilmente avevano saputo che l'autobus aveva ignorato l'ultimo posto di blocco. I soldati sbarravano la strada con i fucili spianati, e l'autista fu costretto a fermarsi.
Un sergente balzò a bordo e trascinò giù l'autista puntandogli la pistola alla tempia. Adesso siamo nei pasticci, pensò Paul. La scena era quasi divertente. L'autista non era per niente intimorito: inveiva contro i militari con la stessa energia con cui quelli strillavano con lui. Il signor Fish, Ilsman e un paio di passeggeri misteriosi scesero a parlamentare, e alla fine sistemarono tutto. L'autista fu letteralmente ributtato sull'autobus, ma questo non bastò a domarlo: ripartì continuando a urlare dal finestrino e agitando il pugno verso i soldati. Arrivarono a Van nel tardo pomeriggio. Andarono al municipio, dove furono affidati alla polizia locale, e le guardie del corpo si dileguarono come neve al sole. I poliziotti compilarono vari moduli e poi li scortarono all'aeroporto. Mentre stavano per salire sull'aereo, Ilsman fu fermato da un poliziotto: aveva una .45 nella fondina sotto l'ascella, e a quanto pareva anche in Turchia i passeggeri non potevano portare armi da fuoco a bordo degli aerei. Comunque, Ilsman mostrò ancora una volta le credenziali e il problema fu risolto. Anche Rashid venne fermato. Portava la tanica con dentro il denaro, e ovviamente a bordo degli aerei non erano ammessi liquidi infiammabili. Raccontò ai poliziotti che la tanica conteneva olio abbronzante per le mogli degli americani, e quelli gli credettero. Salirono tutti a bordo. Simons e Coburn, che stavano smaltendo gli effetti degli stimolanti, si sdraiarono e si addormentarono quasi subito. Mentre l'aereo rullava e decollava, Paul si sentiva euforico come se quello fosse il suo primo volo. Ricordava che a Teheran, in carcere, aveva sognato di fare quella cosa normalissima, prendere un aereo e volar via. Salire tra le nuvole, adesso, gli dava una sensazione che non provava da molto tempo: il senso della libertà. Secondo gli strani regolamenti del traffico aereo turco, l'apparecchio noleggiato non poteva recarsi dove erano disponibili voli regolari; quindi non potevano andare direttamente a Istanbul dove li attendeva Perot. Dovevano cambiare ad Ankara. Mentre attendevano la coincidenza, risolsero un paio di problemi. Simons, Sculley, Paul e Bill salirono su un taxi e si fecero portare all'ambasciata americana.
Fu una lunga corsa attraverso la capitale. L'aria era brunastra e aveva un odore molto forte. «Che schifo» commentò Bill. «È il carbone ad alto contenuto di zolfo» disse Simons, che aveva vissuto in Turchia negli anni Cinquanta. «Qui non hanno mai sentito parlare di disposizioni anti-inquinamento.» Il taxi si fermò davanti all'ambasciata americana. Bill guardò dal finestrino e il cuore gli diede un tuffo: sulla porta c'era di guardia un giovane marine dall'uniforme impeccabile. Ecco, quelli erano gli Stati Uniti. Pagarono la corsa. Mentre entravano, Simons chiese al marine: «Avete un parco macchine qui, soldato?». «Sissignore» rispose il marine, e fornì le indicazioni. Paul e Bill andarono all'ufficio passaporti. Avevano in tasca le loro foto formato passaporto che Boulware aveva portato dagli Stati Uniti. Paul dichiarò: «Abbiamo perso i passaporti. Abbiamo lasciato Teheran piuttosto in fretta». «Oh, sì» disse l'impiegato, come se li stesse aspettando. Dovettero riempire i moduli. Un funzionario li condusse in un ufficio e spiegò che aveva bisogno di qualche consiglio. Il consolato americano a Tabriz, in Iran, era assediato dai rivoluzionari, e forse il personale avrebbe dovuto andarsene come avevano fatto loro due. Spiegarono il percorso che avevano seguito e i problemi che avevano incontrato. Pochi minuti dopo uscirono dall'ambasciata con due passaporti validi per sessanta giorni. Paul guardò il suo e disse: «Hai mai visto niente di più bello in tutta la tua vita?». Simons versò l'olio dalla tanica e tirò fuori il denaro nei sacchetti di plastica appesantiti. Era un disastro; alcuni sacchetti s'erano rotti e le banconote erano intrise d'olio. Sculley incominciò a ripulirle e ad ammucchiarle in pacchetti da diecimila dollari: erano 65.000 dollari in tutto, più una somma equivalente in rial iraniani. Mentre era al lavoro, entrò un marine. Vide quei due uomini spettinati e con le barbe lunghe, inginocchiati sul pavimento a contare un piccolo patrimonio in biglietti da cento dollari, e restò di stucco. Sculley disse a Simons: «Crede che dovrei dirglielo, colonnello?». Simons borbottò: «Il suo collega alla porta lo sa, soldato». Il marine salutò militarmente e uscì.
Erano le undici di sera quando fu chiamato il loro volo per Istanbul. Uno a uno passarono attraverso l'ultimo controllo di sicurezza. Sculley precedeva Simons. Si voltò e si accorse che la guardia aveva chiesto di vedere il contenuto della busta che il colonnello aveva con sé. La busta conteneva tutto il denaro estratto dalla tanica. «Oh, merda» disse Sculley. La guardia guardò nella busta e vide sessantacinquemila dollari e quattro milioni di rial. E scoppiò il finimondo. Parecchi soldati spianarono i fucili, uno gridò, e arrivarono di corsa alcuni ufficiali. Sculley vide Taylor, che aveva cinquantamila dollari in una valigetta nera, farsi largo tra la folla che circondava Simons, dicendo: «Scusate, scusate, scusate...». Davanti a Sculley, Paul aveva già superato il controllo. Sculley passò i suoi trentamila dollari a Paul, poi girò sui tacchi e tornò indietro. I soldati stavano portando via Simons per interrogarlo. Sculley li seguì con il signor Fish, Ilsman, Boulware e Jim Schwebach. Simons fu condotto in una stanzetta. Uno degli ufficiali si voltò, vide i cinque che li seguivano e disse in inglese: «Voi chi siete?». «Siamo tutti insieme» rispose Sculley. Sedettero e il signor Fish parlamentò con gli ufficiali. Dopo un po' riferì: «Vogliono vedere i documenti che comprovano che lei ha portato quella somma in Turchia». «Quali documenti?» «Bisogna dichiarare tutta la valuta estera che si introduce nel paese.» «Diavolo, nessuno ce l'ha chiesto!» Boulware disse: «Signor Fish, spieghi a questi buffoni che siamo entrati in Turchia da un piccolo posto di frontiera dove le guardie probabilmente non sanno neppure leggere i moduli, e non ci hanno chiesto di dichiarare un bel nulla; ma siamo disposti a farlo adesso». Il signor Fish riprese a discutere con gli ufficiali. Finalmente Simons fu autorizzato a partire con il denaro; ma i militari annotarono il nome, il numero del passaporto e i connotati, e non appena atterrarono a Istanbul, il colonnello Simons fu arrestato. Alle tre del mattino di sabato 17 febbraio 1979, Paul e Bill entrarono nell'appartamento di Ross Perot allo Sheraton di Istanbul.
Fu il grande momento della vita di Perot. Si sentì sopraffare dall'emozione mentre li abbracciava. Erano lì, sani e salvi, dopo tutte quelle settimane di attesa, dopo le decisioni impossibili e i rischi tremendi. Guardò le loro facce raggianti. L'incubo era finito. Gli altri li seguirono, affollandosi. Ron Davis, come al solito, faceva lo spiritoso. Si era fatto prestare gli abiti pesanti di Perot, e Perot aveva finto di essere ansioso di riaverli; ora Davis si tolse il cappello, i guanti e la giacca, e li buttò teatralmente sul pavimento esclamando: «Ecco qui, Perot, la sua maledetta roba!». Poi entrò Sculley e annunciò: «Hanno arrestato Simons all'aeroporto». L'allegria di Perot svanì. «Perché?» chiese, sbalordito. «Portava una forte somma in una busta e lo hanno perquisito.» Perot scattò irosamente: «Maledizione, Pat, perché portava quel denaro?». «L'aveva tolto dalla tanica. Vede...» Perot l'interruppe. «Dopo tutto quello che ha fatto Simons, perché ha lasciato che corresse un rischio inutile? Stia a sentire. Io parto a mezzogiorno, e se per quell'ora Simons non sarà libero, lei resterà qui a Istanbul finché non l'avrà tirato fuori!» Sculley e Boulware si consultarono con il signor Fish. Boulware disse: «Dobbiamo tirar fuori dal carcere il colonnello Simons». «Ecco» disse il signor Fish. «Ci vorrà una decina di giorni...» «Al diavolo» disse Boulware. «Perot andrà su tutte le furie. Voglio farlo uscire subito.» «Sono le cinque del mattino!» protestò il signor Fish. «Quanto?» chiese Boulware. «Non lo so. C'è troppa gente che è al corrente, ad Ankara come a Istanbul.» «Basteranno cinquemila dollari?» «Per cinquemila dollari venderebbero le loro madri.» «Benissimo» disse Boulware. «Diamoci da fare.» Il signor Fish fece una telefonata, poi annunciò: «Il mio avvocato ci aspetterà al carcere, vicino all'aeroporto». Boulware e il signor Fish salirono sulla vecchia macchina malconcia dell'agente di viaggi, lasciando a Sculley il compito di pagare il conto dell'albergo. Andarono al carcere e s'incontrarono con l'avvocato. L'avvocato salì in
macchina e disse: «Ho fatto chiamare un giudice, e sta arrivando. Ho già parlato anche con la polizia. Dov'è il denaro?». Boulware disse: «Ce l'ha il prigioniero». «Come sarebbe?» Boulware spiegò: «Lei entri e porti fuori il colonnello, e lui le consegnerà i cinquemila dollari». Era pazzesco, ma l'avvocato fece proprio così. Entrò nel carcere e pochi minuti dopo uscì con Simons. Salirono in macchina. «Non dobbiamo pagare quei buffoni» disse il colonnello. «Aspetterò che gli passi. Parleranno fino a sgolarsi e tra pochi giorni mi lasceranno andare.» Boulware disse: «Bull, per favore non si opponga al programma. Mi dia la busta». Simons consegnò la busta. Boulware contò cinquemila dollari e li diede all'avvocato dicendo: «Ecco il denaro. Si dia da fare». L'avvocato si diede da fare. Mezz'ora dopo Boulware, Simons e il signor Fish furono accompagnati all'aeroporto da una macchina della polizia. Un agente prese i loro passaporti e li fece passare attraverso il controllo e la dogana. Quando uscirono sulla pista, l'auto della polizia era lì per portarli fino al Boeing 707. Salirono a bordo. Simons girò gli occhi sulle tende di velluto e i divani di nappa, i televisori e i bar, e chiese: «Cosa cavolo è?». L'equipaggio era già a bordo e attendeva. Un'hostess si avvicinò a Boulware e chiese: «Vuol bere qualcosa?». Boulware sorrise. Il telefono squillò nell'appartamento di Perot. Fu Paul a rispondere. Una voce disse: «Pronto?». «Pronto?» disse Paul. La voce chiese: «Chi parla?». Insospettito, Paul chiese: «Chi è lei?». «Ehi, Paul!» Paul riconobbe Merv Stauffer. «Salve, Merv!» «Paul, c'è qui qualcuno che vuol parlarle.» Vi fu un attimo di silenzio, poi una voce di donna disse: «Paul?». Era Ruthie. «Ciao, Ruthie!» «Oh, Paul!»
«Ciao! Cosa fai di bello?» «Come, cosa sto facendo?» disse Ruthie. Piangeva. «Ti sto aspettando!» Il telefono squillò. Prima che Emily andasse a rispondere, qualcuno sollevò il ricevitore della derivazione nella camera dei bambini. Dopo un istante sentì una bambina strillare: «È papà! È papà!». Emily si precipitò nella stanza. I bambini si stavano disputando il microfono. Emily resistette per un paio di minuti, poi prese il ricevitore. «Bill?» «Ciao, Emily.» «Oh, ma stai bene! Non pensavo che... Oh, Bill!» A Dallas, Merv cominciò a trascrivere un messaggio in codice di Perot. Prenda... il... Ormai s'era così abituato che riusciva a trascrivere il codice via via che lo riceveva. ... codice... e... Era perplesso, perché in quegli ultimi tre giorni Perot gli aveva dato filo da torcere con il codice. Perot non aveva la pazienza di usarlo, e Stauffer era costretto a insistere: «Ross, Simons ci tiene». Adesso che il pericolo era passato, Ross aveva improvvisamente incominciato a usare il codice? ... lo... metta... dove... Stauffer intuì il resto e scoppiò a ridere. Ron Davis chiamò il servizio e ordinò uova e pancetta per tutti. Mentre mangiavano, Dallas richiamò. Era Stauffer, e voleva parlare con Perot. «Ross, è appena arrivato il "Dallas Times Herald." Era un altro scherzo? Stauffer continuò: «Il titolo in prima pagina dice: "Gli uomini di Perot stanno lasciando l'Iran in macchina".». Perot si sentì bollire. «Credevo che fossimo riusciti a insabbiare la notizia.» «Cribbio, Ross, abbiamo tentato di tutto! Ma la proprietà del giornale non riesce a farsi obbedire dal direttore.» Tom Luce s'intromise. Era fuori dalla grazia di Dio. «Ross, quei bastardi sarebbero disposti a far ammazzare la squadra di salvataggio e a distrugge-
re l'EDS e a mandarti in galera, solo per essere i primi a pubblicare la notizia. Gli abbiamo spiegato quali possono essere le conseguenze, ma se ne infischiano. Cribbio, quando questa storia sarà finita, dovremo fargli causa, dovesse volerci un'eternità e qualunque cifra possa costare...» «Forse» disse Perot. «Ma bisogna stare attenti ad attaccar briga con gente che compra l'inchiostro a barili e la carta a tonnellate. Che probabilità ci sono che la notizia arrivi a Teheran?» «Non lo sappiamo. Ci sono parecchi iraniani nel Texas, e quasi tutti verranno a sapere questa storia. È ancora molto difficile ottenere una comunicazione telefonica con Teheran, ma noi ci siamo riusciti un paio di volte, quindi potrebbero farlo anche loro.» «E se lo facessero...» «Allora, naturalmente, Dadgar scoprirebbe che Paul e Bill gli sono sfuggiti...» «E potrebbe decidere di prendere altri ostaggi» disse freddamente Perot. Era disgustato con il Dipartimento di Stato perché aveva passato la notizia, furioso con il "Dallas Times Herald" perché l'aveva pubblicata, ed esasperato perché non poteva rimediare. «E la Squadra Pulita è ancora a Teheran» disse. L'incubo non era finito. XIV A mezzogiorno di venerdì 16 febbraio Lou Goelz chiamò Joe Poché e gli disse di condurre quelli dell'EDS all'ambasciata, alle cinque del pomeriggio. Ai biglietti e al check-in dei bagagli avrebbero provveduto durante la notte all'ambasciata, e il sabato mattina sarebbero partiti con un volo della Pan Am. John Howell era nervoso. Aveva saputo da Abolhasan che Dadgar si dava ancora da fare. Ignorava cosa ne fosse stato della Squadra Sporca. Se Dadgar avesse scoperto che Paul e Bill se ne erano andati, o se avesse deciso di lasciarli perdere e di prendere altri ostaggi, la Squadra Pulita sarebbe stata arrestata. E qual era il posto più adatto per bloccare qualcuno? L'aeroporto, dove tutti dovevano identificarsi presentando i passaporti. Si chiese se era prudente prendere il primo aereo. Ci sarebbero stati parecchi voli, secondo Goelz. Forse avrebbero dovuto aspettare e stare a vedere cosa succedeva al primo gruppo di evacuati, scoprire se davano la caccia ai dipendenti dell'EDS. Così, almeno, avrebbero saputo in anticipo
quali erano le procedure. Ma l'avrebbero saputo anche gli iraniani. Prendere il primo volo comportava un vantaggio: probabilmente c'era una gran confusione, e quella confusione avrebbe aiutato Howell e la Squadra Pulita a passare inosservati. Alla fine decise che il primo volo era il migliore, ma continuò a sentirsi irrequieto. Anche Bob Young la pensava come lui. Sebbene Young non lavorasse più per l'EDS in Iran - adesso era nel Kuwait - si era trovato lì durante le trattative per il contratto con il ministero, si era incontrato con Dadgar, ed era possibile che il suo nome figurasse negli schedari del magistrato. Anche Joe Poché preferiva il primo volo, sebbene non ne parlasse... non parlava mai molto: Howell lo giudicava assai poco comunicativo. Rich e Cathy Gallagher non erano certi di voler abbandonare l'Iran. Dissero, con molta fermezza, che qualunque cosa avesse detto il colonnello Simons, Joe Poché non era "responsabile" per loro, e che avevano il diritto di decidere da soli. Poché riconobbe che avevano ragione, ma fece osservare che se avessero deciso di restare in Iran, non avrebbero potuto sperare che Perot mandasse un'altra squadra di salvataggio pet loro, se poi li avessero arrestati. Alla fine, anche i Gallagher decisero di partire con il primo volo. Quel pomeriggio tutti setacciarono i loro documenti e distrussero quelli che nominavano Paul e Bill. Poché consegnò a ciascuno duemila dollari, ne intascò cinquecento, e mise il resto del denaro nelle scarpe, diecimila dollari per scarpa. Ne portava un paio che gli aveva prestato Gayden, più grandi della sua misura, per nascondere i biglietti di banca. In tasca aveva anche un milione di rial, che intendeva consegnare a Lou Goelz perché li desse ad Abolhasan, per pagare gli ultimi stipendi ai dipendenti iraniani dell'EDS. Pochi minuti prima delle cinque, mentre stavano salutando il cameriere di Goelz, squillò il telefono. Rispose Joe Poché. Era Tom Walter. Disse: «Li abbiamo. Ha capito? Li abbiamo». «Ho capito» disse Poché. Salirono tutti in macchina; Cathy teneva in braccio il barboncino, Buffy. Poché guidava. Non parlò agli altri del messaggio enigmatico di Walter. Parcheggiarono in una strada secondaria vicino all'ambasciata e scesero; la macchina sarebbe rimasta lì fino a che qualcuno avesse deciso di rubar-
la. Howell non provò nessun sollievo quando entrò nell'ambasciata. C'erano almeno mille americani, ma c'erano anche decine e decine di rivoluzionari armati. L'ambasciata godeva del diritto di extraterritorialità, e quindi doveva essere considerata territorio americano, ma evidentemente i rivoluzionari iraniani non badavano a simili sottigliezze diplomatiche. La Squadra Pulita si mise in coda. Passarono quasi tutta la notte facendo la fila. Fecero la fila per riempire i moduli, poi per consegnare i passaporti, quindi per far controllare i bagagli. Tutte le valigie vennero messe in uno stanzone enorme, e gli sfollati dovettero ritrovarle e applicare gli scontrini. Poi fecero di nuovo la fila per aprire le valigie davanti ai rivoluzionari che le perquisivano, senza ometterne neppure una. Howell venne a sapere che ci sarebbero stati due aerei, due 747 della Pan Am. Uno andava a Francoforte, l'altro ad Atene. Gli evacuati erano organizzati secondo le aziende per le quali lavoravano, ma quelli dell'EDS erano inclusi con il personale dell'ambasciata che stava per partire. Avrebbero preso il volo per Francoforte. Alle sette del sabato mattina salirono sugli autobus per raggiungere l'aeroporto. Fu un tragitto infernale. Su ogni autobus salirono due o tre rivoluzionari armati. Quando uscirono dai cancelli dell'ambasciata, videro una folla di giornalisti e di squadre della televisione; gli iraniani avevano deciso che la fuga degli americani umiliati doveva essere un avvenimento televisivo mondiale. L'autobus si avviò sobbalzando sulla strada per l'aeroporto. Accanto a Poché c'era una guardia che non doveva avere più di quindici anni. Era in piedi nella corsia, e dondolava ad ogni movimento del veicolo, con l'indice sul grilletto del fucile. Poché notò che l'arma non aveva la sicura. Se quello fosse inciampato... Le vie erano piene di traffico. Sembrava che tutti sapessero che a bordo degli autobus c'erano gli americani, e il loro odio era evidente. Urlavano e agitavano i pugni. Un camion si affiancò e il guidatore si sporse dal finestrino e sputò contro l'autobus. Il convoglio fu fermato parecchie volte. A quanto pareva, le varie zone della città erano in mano a diversi gruppi rivoluzionari, e ogni gruppo si sentiva in dovere di dimostrare la propria autorità fermando gli autobus, e poi dando il permesso di proseguire.
Ci vollero due ore per percorrere quei dieci chilometri e arrivare all'aeroporto. Era una scena caotica. C'erano altre telecamere e altri giornalisti, e centinaia di uomini armati che correvano di qua e di là, alcuni in uniforme più o meno parziale, altri che dirigevano il traffico, e tutti davano ordini, tutti avevano un'idea diversa circa l'esatta destinazione degli autobus. Gli americani entrarono finalmente nel terminal alle nove e mezzo. Il personale dell'ambasciata incominciò a distribuire i passaporti ritirati durante la notte. Ne mancavano cinque: quelli di Howell, Poché, Young e i due Gallagher. Dopo che Paul e Bill avevano affidato i loro alla custodia dell'ambasciata, nel novembre precedente, l'ambasciata aveva rifiutato di renderli senza informare la polizia. Possibile che fossero tanto infidi da rifare lo stesso scherzo? Poi arrivò Poché, che si faceva largo tra la calca e aveva in mano cinque passaporti. «Li ho trovati su uno scaffale dietro un banco» disse. «Credo che ci fossero finiti per caso.» Bob Young vide due americani che tenevano in mano alcune fotografie e scrutavano la folla. Inorridì quando si accorse che si avvicinavano a loro e abbordavano Rich e Cathy Gallagher. Dadgar avrebbe preso in ostaggio Cathy? I due sorrisero e spiegarono che avevano alcune valigie dei Gallagher. Young tirò un sospiro di sollievo. Alcuni amici dei Gallagher avevano recuperato parte dei bagagli all'Hyatt, e avevano pregato quei due americani di portarli all'aeroporto e di cercare di consegnarli ai legittimi proprietari. I due avevano accettato ma non conoscevano i Gallagher; e perciò si erano fatti dare le fotografie. Era stato un falso allarme; ma contribuì ad a crescere l'ansia di tutti. Joe Poché decise di cercare di scoprire qualcosa. Andò in cerca di un impiegato della Pan Am addetto alla distribuzione dei biglietti. «Lavoro per l'EDS. Gli iraniani stanno cercando qualcuno?» domandò. «Sì, cercano due persone» rispose l'impiegato. «Nessun altro?» «No, e l'elenco della gente da fermare è vecchio di diverse settimane.» «Grazie.» Poché tornò a riferirlo agli altri. Gli evacuati incominciarono a passare dal check-in alla sala delle partenze.
Poché disse: «Propongo di dividerci. Daremo meno nell'occhio e se uno o due di voi si troverà in difficoltà gli altri potranno farcela comunque a passare. Io verrò per ultimo, e se qualcuno sarà costretto a restare, resterò anch'io». Bob Young diede un'occhiata alla sua valigia e vide che portava un cartellino con il nome di William D. Gaylord. Fu assalito dal panico, per un istante. Se gli iraniani l'avessero visto, l'avrebbero arrestato scambiandolo per Bill. Sapeva com'era accaduto. Le sue valigie erano state distrutte all'Hyatt dai rivoluzionari che avevano sfasciato le stanze. Una o due altre valigie, però, erano rimaste quasi indenni, e Young ne aveva presa una. Quella. Strappò il cartellino con il nome e se lo cacciò in tasca, deciso a sbarazzarsene alla prima occasione. Varcarono tutti l'ingresso riservato ai passeggeri. Poi dovettero pagare la tassa aeroportuale. Poché sorrise ironicamente: i rivoluzionari dovevano aver deciso che la tassa aeroportuale era l'unica innovazione valida introdotta dallo scià. Quindi fecero la coda per il controllo dei passaporti. Howell arrivò allo sportello quando ormai era mezzogiorno. La guardia controllò meticolosamente la documentazione d'uscita e la timbrò. Poi guardò la foto del passaporto e studiò con attenzione la faccia di Howell. Finalmente consultò un elenco che aveva davanti. Howell trattenne il respiro. La guardia gli restituì il passaporto e gli accennò di proseguire. Joe Poché fu l'ultimo al controllo passaporti. La guardia lo scrutò con particolare attenzione, confrontando la faccia con la fotografia, perché adesso Poché aveva la barba. Ma alla fine anche lui poté andare. Quelli della Squadra Pulita erano di buon umore, nella sala partenze. Ormai era tutto finito, pensò Howell, adesso che avevano superato il controllo dei passaporti. Alle due del pomeriggio incominciarono a uscire dai cancelli. A questo punto, normalmente, c'era un controllo di sicurezza. Questa volta, oltre a cercare le armi, le guardie confiscavano carte topografiche, fotografie di Teheran e grosse somme di denaro. Quelli della Squadra Pulita non persero il loro denaro, comunque: le guardie non perquisirono le scarpe di Poché. Oltre i cancelli c'era una parte dei bagagli accatastata sulla pista. I passeggeri dovevano accertare se lì c'erano le loro valigie, e se c'erano dove-
vano aprirle per farle perquisire prima che venissero caricate sull'aereo. Nessuna delle valigie della Squadra Pulita era stata scelta per quel trattamento speciale. Salirono sugli autobus e vennero portati ai due 747. Anche lì c'erano telecamere. Ai piedi della scaletta ci fu un altro controllo dei passaporti. Howell si mise in coda con altre cinquecento persone che attendevano di salire sull'aereo per Francoforte. Ma era meno preoccupato: a quanto pareva, nessuno lo cercava. Salì a bordo e trovò un posto. Sull'aereo c'erano parecchi rivoluzionari armati, tanto nel settore passeggeri quanto nella cabina di comando. Ci fu una grande confusione quando molti passeggeri che dovevano andare ad Atene si accorsero d'essere saliti sull'aereo per Francoforte e viceversa. Tutti i posti si riempirono, poi si riempirono anche i posti dell'equipaggio, e c'era ancora parecchia gente che non aveva trovato da sedere. Il comandante accese gli altoparlanti e chiese attenzione. Il chiasso si smorzò. «I passeggeri Paul John e William Deming sono pregati di identificarsi» disse. Howell si sentì gelare. John era il secondo nome di Paul Chiapparone. Deming era il secondo nome di Bill Gaylord. Stavano ancora cercando Paul e Bill. Evidentemente non si trattava soltanto d'una questione di nomi su un elenco all'aeroporto. Dadgar aveva ancora un potere notevole, e i suoi fidi erano implacabilmente decisi a trovare Paul e Bill. Dopo dieci minuti, il comandante riattivò gli altoparlanti. «Signore e signori, non abbiamo ancora rintracciato Paul John e William Deming. Ci è stato comunicato che non potremo decollare fino a che non saranno stati trovati. Se qualcuno a bordo sa dove sono, è pregato di informarci.» Col cavolo, pensò Howell. Bob Young ricordò di colpo che aveva in tasca il cartellino della valigia con il nome "William D. Gaylord". Andò nella toilette e lo gettò nel gabinetto. I rivoluzionari passarono di nuovo lungo la corsia, chiedendo i passaporti. Li controllarono scrupolosamente uno per uno, confrontando le foto con le facce. John Howell tirò fuori un tascabile che aveva preso a casa dei Dvoranchik e cercò di leggerlo, per darsi un'aria disinvolta. Era Dubai, il libro di
Robin Moore che narrava un'avventurosa vicenda d'intrighi nel Medio Oriente. Ma non riusciva a concentrarsi su quell'avventura: ne stava vivendo una autentica. Prima o poi, pensò, Dadgar dovrà capire che Paul e Bill non sono su questo aereo. E allora cosa farà? È così maledettamente ostinato. E anche furbo. È il sistema ideale per effettuare il controllo dei passaporti... sull'aereo, con tutti i passeggeri ai loro posti, quando nessuno può nascondersi. Ma poi che cosa farà? Salirà personalmente a bordo e passerà per la corsia, guardando in faccia a tutti quanti. Non riconoscerà Rich e Cathy e Joe Poché, ma riconoscerà Bob Young. E soprattutto riconoscerà me. A Dallas, T.J. Marquez ricevette una chiamata da Mark Ginsberg, l'aiutante della Casa Bianca che si era interessato al problema di Paul e Bill. Ginsberg era a Washington e seguiva la situazione di Teheran. Disse: «Cinque dei vostri sono su un aereo in attesa di partire all'aeroporto di Teheran». «Bene!» disse T.J. «Non va bene affatto. Gli iraniani stanno cercando Chiapparone e Gaylord, e non lasceranno partire l'aereo fino a che non li avranno trovati.» «Oh, diavolo!» «In Iran non esiste il controllo del traffico aereo, quindi è necessario che decollino prima di notte. Non sappiamo con certezza cosa succederà, ma non rimane molto tempo. Può darsi che i vostri vengano fatti scendere dall'aereo.» «Non potete permettere che facciano una cosa simile!» «La richiamerò.» T.J. riattaccò. Dopo tutto quello che avevano passato Paul e Bill e la Squadra Sporca, adesso l'EDS si sarebbe ritrovata con altri dei suoi in un carcere di Teheran? Era un pensiero insopportabile. A Dallas erano le sei e mezzo del mattino, a Teheran le quattro del pomeriggio. Restavano due ore di luce. T.J. riprese il telefono. «Mi chiami Perot.»
«Signore e signori» disse il comandante, «Paul John e William Deming non sono stati rintracciati. Il responsabile delle operazioni a terra effettuerà un altro controllo dei passaporti.» I passeggeri gemettero. Howell si chiese chi era il "responsabile delle operazioni a terra". Dadgar? Poteva essere uno dei collaboratori di Dadgar. Alcuni conoscevano Howell, altri no. Guardò lungo la corsia. Qualcuno salì a bordo. Howell lo fissò. Era un uomo con l'uniforme della Pan Am. Howell si rilassò. L'uomo procedette lentamente lungo la corsia, controllando uno ad uno i cinquecento passaporti, scrutò in faccia i passeggeri, poi esaminò le foto e i sigilli per accertare che non fossero manomessi. «Signore e signori, è di nuovo il comandante che vi parla. Hanno deciso di controllare i bagagli via via che vengono caricati. Se sentite il numero del vostro scontrino, siete pregati d'identificarvi.» Cathy aveva tutti gli scontrini nella borsetta. Quando furono chiamati i primi numeri, Howell vide che li stava controllando. Cercò di attirare la sua attenzione, di farle capire che non doveva identificarsi. Poteva essere un trucco. Furono chiamati altri numeri, ma nessuno si alzò. Howell immaginò che preferissero perdere i bagagli, pur di non scendere dall'aereo. «Signore e signori, siete pregati di identificarvi quando vengono chiamati i numeri. Non dovrete scendere dall'aereo, ma semplicemente consegnare le chiavi dei bagagli perché vengano aperti e requisiti.» Howell non si sentiva affatto tranquillizzato. Fissava Cathy, cercando di attirare il suo sguardo. Chiamarono altri numeri, ma lei non si alzò. «Signore e signori, una buona notizia. Ci siamo messi in contatto con la direzione centrale europea della Pan Am e siamo stati autorizzati a decollare con i passeggeri in soprannumero.» Vi fu un debole applauso. Howell guardò Joe Poché. Teneva il passaporto sul petto e stava appoggiato alla spalliera, ad occhi chiusi, come se dormisse. Deve avere ghiaccio nelle vene, pensò Howell. Senza il minimo dubbio, Dadgar stava smaniando mentre il sole tramontava. Ormai doveva essere evidente che Paul e Bill non erano sull'aereo. Se
mille persone fossero state costrette a sbarcare e a tornare all'ambasciata, l'indomani le autorità rivoluzionarie avrebbero dovuto ripetere tutta la scena... e qualcuno avrebbe finito per dire "Basta!" Howell sapeva che lui e il resto della Squadra Pulita erano indubbiamente colpevoli di vari reati. Avevano collaborato alla fuga di Paul e Bill e, indipendentemente dal fatto che gli iraniani lo chiamassero cospirazione o complicità o favoreggiamento, doveva essere contro la legge. Ripensò a quello che avevano deciso di raccontare se li avessero arrestati. Avevano lasciato l'Hyatt il lunedì mattina, avrebbero detto, e si erano trasferiti in casa di Keane Taylor. (Howell avrebbe preferito dire la verità, che erano andati a casa dei Dvoranchik, ma gli altri avevano fatto notare che questo avrebbe potuto mettere nei guai la padrona di casa, mentre il padrone di casa di Taylor abitava da tutta un'altra parte.) Avevano passato il lunedì e il martedì da Taylor, e il martedì pomeriggio erano andati in casa di Lou Goelz. E a partire da quel momento, ciò che avrebbero raccontato sarebbe stata la verità. Quella versione non sarebbe servita a proteggere la Squadra Pulita; Howell sapeva anche troppo bene che Dadgar non si curava affatto che i suoi ostaggi fossero colpevoli o innocenti. Alle sei il comandante annunciò: «Signore e signori, abbiamo il permesso di decollare». I portelli sbatterono e dopo pochi secondi l'aereo si mosse. Le hostess dissero ai passeggeri senza posto di sedersi sul pavimento. Mentre l'aereo rollava, Howell pensò: Ormai non ci fermeremo, anche se ce lo ordinassero... Il 747 accelerò lungo la pista e si staccò dal suolo. Erano ancora nello spazio aereo iraniano. Gli iraniani potevano mandare i caccia a reazione... Un po' più tardi il comandante disse: «Signore e signori, abbiamo lasciato lo spazio aereo iraniano». I passeggeri applaudirono stancamente. Ce l'abbiamo fatta, pensò Howell. Riprese il tascabile. Joe Poché si alzò e andò in cerca del capo steward. «Il pilota potrebbe far pervenire un messaggio negli Stati Uniti?» chiese. «Non so» rispose lo steward. «Scriva il messaggio, e glielo chiederò.» Poché tornò a sedersi, tirò fuori carta e penna. Scrisse: A Merv Stauffer, 7171 Forest Lane, Dallas, Texas.
Rifletté sul tenore del messaggio. Ricordò il motto dei reclutatoli dell'EDs: «Le aquile non stanno in branco... dovete trovarle una alla volta». Scrisse: Le aquile sono volate al nido. Ross Perot voleva incontrarsi con la Squadra Pulita prima di rientrare negli Stati Uniti; voleva riunirli tutti, per poterli vedere e toccare e assicurarsi che fossero sani e salvi. Ma il venerdì, a Istanbul, non riuscì ad avere la conferma della destinazione del volo che avrebbe portato via da Teheran la Squadra Pulita. John Carlen, il pilota del Boeing 707 preso in affitto, trovò la soluzione. «Gli aerei dei voli di evacuazione devono sorvolare Istanbul» disse. «Attenderemo sulla pista fino a quando passeranno sulle nostre teste, poi li chiameremo per radio e glielo chiederemo.» Alla fine non fu necessario: il sabato mattina Stauffer chiamò Perot per dirgli che la Squadra Pulita avrebbe preso l'aereo per Francoforte. A mezzogiorno, Perot e gli altri lasciarono lo Sheraton e andarono all'aeroporto per raggiungere Boulware e Simons che attendevano sull'aereo. Decollarono nel tardo pomeriggio. Quando furono in volo, Perot chiamò Dallas: con la radio del 707 era facile come telefonare da New York. Parlò con Merv Stauffer. «Notizie della Squadra Pulita?» chiese. «Ho ricevuto un messaggio» disse Stauffer. «È arrivato dalla direzione europea della Pan Am. Dice soltanto: Le aquile sono volate al nido.» Perot sorrise. Tutti salvi. Lasciò la cabina di comando e tornò in quella passeggeri. I suoi eroi avevano l'aria esausta. All'aeroporto di Istanbul aveva mandato Taylor al duty-free shop per comprare sigarette, spuntini è liquori, e Taylor aveva speso più di mille dollari. Fecero un brindisi per festeggiare la felice partenza della Squadra Pulita, ma nessuno era dell'umore adatto, e dieci minuti più tardi avevano ancora i bicchieri pieni. Qualcuno propose qualche partita a poker; ma smisero quasi subito. L'equipaggio del 707 includeva anche due hostess molto carine. Perot disse loro di abbracciare Taylor, e fece una foto. Poi minacciò di mostrare la foto alla moglie di Taylor, Mary, se mai Taylor gli avesse piantato qualche grana. Quasi tutti erano troppo stanchi per dormire, ma Gayden andò nella lussuosa camera da letto e si sdraiò. Perot si seccò un po': pensava che il letto spettasse di diritto a Simons, che era più vecchio e sembrava completa-
mente esausto. Ma Simons aveva attaccato discorso con una delle hostess, Anita Melton, una svedese bionda e vivace, che aveva molto spirito e molta immaginazione. Era divertentissima. Simons riconosceva il lei una personalità simile alla sua, una creatura che s'infischiava di quello che pensavano gli altri. Gli era simpatica. Era la prima volta, dopo la morte di Lucille, che si sentiva attratto da una donna. Aveva ripreso veramente a vivere. Ron Davis aveva sonno. Il lettone era abbastanza grande per due, e quindi andò a sdraiarsi accanto a Gayden. Gayden aprì gli occhi. «Davis?» chiese, incredulo. «Cosa diavolo ci fai a letto con me?» «Non si agiti» disse Davis. «Adesso potrà raccontare ai suoi amici che ha dormito con uno sporco negro.» E chiuse gli occhi. Mentre l'aereo si avvicinava a Francoforte, Simons ricordò che era ancora responsabile della sorte di Paul e Bill e cominciò a considerare le possibili azioni del nemico. Chiese a Perot: «La Germania ha un accordo di estradizione con l'Iran?». «Non lo so» rispose Perot. Quella risposta gli fruttò un'Occhiata del Toro. «Me ne accerto subito» aggiunse. Chiamò Dallas e chiese dell'avvocato Tom Luce. «Tom, la Germania ha un accordo di estradizione con l'Iran?» Luce rispose: «Sono sicuro al novantanove per cento che non l'ha». Perot lo riferì a Simons. Simons commentò: «Ho visto molti uomini morire perché erano sicuri al novantanove per cento di non correre pericoli». Perot disse a Luce: «Vediamo di assicurarcene al cento per cento. Ti richiamo fra qualche minuto». Atterrarono a Francoforte e presero alloggio in un albergo nel complesso aeroportuale. L'impiegato tedesco sembrava molto curioso, e annotò i numeri di tutti i passaporti. Simons divenne ancora più irrequieto. Si radunarono nella stanza di Perot, e Perot richiamò Dallas. Questa volta parlò con T.J. Marqùez. T.J. disse: «Ho chiamato un avvocato specialista di diritto internazionale a Washington, e lui pensa che ci sia un accordo di estradizione tra Iran e Germania. Ha detto anche che i tedeschi sono molto pignoli in queste faccende legali, e se ricevono la richiesta di fermare Paul e Bill molto proba-
bilmente lo faranno». Perot riferì a Simons. «Sta bene» disse Simons. «A questo punto non possiamo correre rischi. C'è un cinema con tre sale, qui all'aeroporto. Paul e Bill possono nascondersi lì... Dov'è Bill?» «È andato a comprare un dentifricio» disse qualcuno. «Jay, vada a cercarlo.» Coburn uscì. Simons disse: «Paul andrà in un cinema con Jay. Bill in un altro, con Keane. Pat Sculley monterà di guardia fuori. Prenderà un biglietto, così potrà entrare e tener d'occhio gli altri». Era interessante, pensò Perot, veder scattare gli interruttori e girare gli ingranaggi, quando il vecchio Simons ritornava in azione. Il colonnello continuò: «Nel sotterraneo, vicino ai cinema, c'è l'entrata della stazione. Se c'è aria di guai, Sculley farà uscire i quattro e tutti saliranno sulla metropolitana per arrivare in centro. Là prenderanno a noleggio una macchina e andranno in Inghilterra. Se invece non succede niente, li faremo uscire dai cinema quando verrà il momento di salire sull'aereo. Avanti, muoviamoci». Bill era sceso a fare acquisti. Aveva cambiato un po' di denaro e aveva comprato un dentifricio, uno spazzolino e un pettine. Decise che una camicia nuova e pulita lo avrebbe aiutato a sentirsi un po' più umano, e quindi andò a cambiare un po' di denaro. Stava facendo la fila davanti allo sportello del cambio quando Coburn gli batté la mano sulla spalla. «Ross vuole vederti in albergo» disse Coburn. «Perché?» «Non posso parlarne qui, devi venire con me.» «Vorrai scherzare!» «Andiamo.» Andarono da Perot, che spiegò a Bill quel che stava succedendo Bill non riusciva a crederlo. Aveva pensato d'essere al sicuro, nella moderna e civile Germania. Sarebbe stato mai al sicuro? si chiese. Dadgar l'avrebbe perseguitato fino in capo al mondo e non si sarebbe dato pace fino a che lui fosse stato rispedito in Iran o ucciso? Coburn non sapeva se c'era veramente pericolo per Paul e Bill a Francoforte, ma conosceva il valore delle precauzioni di Simons. Gran parte dei piani di Simons, in quelle ultime sette settimane, era finita in nulla: l'assalto al primo carcere, l'idea di sottrarre Paul e Bill agli arresti domiciliari, la
fuga via Kuwait. Ma alcune delle situazioni per le quali Simons aveva fatto i piani si erano realizzate veramente, e spesso erano state le più assurde: il carcere di Gasr era stato assalito dalla folla e Rashid si era trovato sul posto; la strada per Sero, che Simons e Coburn avevano scrupolosamente battuto nella loro ricognizione, era stata alla fine la loro via di fuga; e persino l'aver costretto Paul e Bill a imparare a memoria tutti i dati dei passaporti falsi si era rivelato decisivo quando l'uomo dal lungo cappotto nero aveva incominciato a far domande. Coburn non aveva bisogno d'essere convinto; quello che decideva Simons a lui andava bene. Andarono al cinema. C'erano tre film: due erano porno, e il terzo era Lo squalo, parte seconda. A Bill e Taylor toccò Lo Squalo. Paul e Coburn andarono a vedere un film sulle fanciulle nude dei Mari del Sud. Paul sedette e fissò lo schermo, stanco e annoiato. Il film era in tedesco, anche se il dialogo ovviamente non contava molto. Cosa poteva esserci di peggio, pensò, di un mediocre film porno? All'improvviso sentì russare. Guardò Coburn. Coburn dormiva profondamente. Quando John Howell e il resto della Squadra Pulita atterrarono a Francoforte, Simons aveva già preparato tutto per il trasbordo. Ron Davis era al cancello d'arrivo, e attendeva per tirar fuori la Squadra Pulita dalla coda e condurla a un'altra uscita, dove c'era il Boeing 707. Ralph Boulware assisteva alla scena da lontano: non appena avesse visto arrivare il primo componente della Squadra Pulita, sarebbe sceso al cinema per dire a Sculley di recuperare i quattro. Jim Schwebach era nella zona riservata alla stampa, dove i giornalisti aspettavano i profughi americani. Stava seduto accanto allo scrittore Pierre Salinger (il quale ignorava d'essere tanto vicino a un colpo veramente sensazionale) e fingeva di leggere la pubblicità di un mobilificio su un giornale tedesco. Il compito di Schwebach era seguire la Squadra Pulita da un cancello all'altro, per assicurarsi che nessuno la pedinasse. Se ci fosse stata qualche grana, Schwebach e Davis avrebbero provocato una diversione. Non avrebbe avuto molta importanza se fossero stati arrestati dai tedeschi, perché non correvano il rischio di venire estradati in Iran. Il piano funzionò come un orologio. Vi fu un unico intoppo: Rich e Cathy Gallagher non volevano andare a Dallas. Là non avevano parenti né amici, non sapevano quale sarebbe stato il loro futuro, non sapevano se li avrebbero autorizzati a portare negli Stati Uniti il barboncino, Buffy, e non
volevano prendere un altro aereo. Salutarono tutti e se ne andarono per i fatti loro. Gli altri della Squadra Pulita - John Howell, Bob Young e Joe Poché seguirono Ron Davis e salirono sul Boeing 707. Jim Schwebach si accodò a distanza. Ralph Boulware andò a chiamare i cinque al cinema, e tutti salirono a bordo per tornare a casa. Da Dallas, Merv Stauffer aveva chiamato l'aeroporto di Francoforte e aveva ordinato le vettovaglie per il volo. Aveva chiesto trenta pasti superdeluxe, ognuno dei quali includeva pesce, pollo e carne: sei vassoi di pesce e frutti di mare con salsa, rafano e limone; sei vassoi di antipasti; sei vassoi di sandwich con formaggio-e-prosciutto, roast beff, tacchino e formaggio svizzero; sei vassoi di verdure crude con salsa al roquefort; tre vassoi di formaggi con vari tipi di pane e cracker; quattro vassoi di pasticceria deluxe; quattro vassoi con frutta fresca; quattro bottiglie di brandy; venti Seven-Up e venti ginger ale; dieci bottiglie di soda e dieci di acqua tonica; dieci litri di succo d'arancia; cinquanta confezioni di latte; venti litri di caffè appena fatto, al caldo nei thermos; cento confezioni di posate di plastica, con coltelli, forchette e cucchiai; sei dozzine di piatti di carta in due formati; sei dozzine di bicchieri di plastica; sei dozzine di tazze di plastica; sei stecche per marca di Kent, Marlboro, Kool e Salem Light; e due scatole di cioccolatini. C'era stata un po' di confusione, e il servizio dell'aeroporto aveva consegnato il doppio di tutto. Ci fu un ritardo nella partenza. C'era stata una gelata imprevista, e il Boeing 707 era l'ultimo in coda per le operazioni di sbrinatura... i voli commerciali avevano la precedenza. Bill cominciò a preoccuparsi. A mezzanotte l'aeroporto si sarebbe chiuso, e in questo caso sarebbero stati costretti a scendere e a tornare in albergo. Bill non voleva passare la notte in Germania. Voleva sentire sotto i piedi il suolo americano. John Howell, Joe Poché e Bob Young raccontarono il loro volo da Teheran. Paul e Bill rimasero sconvolti quando seppero con quanta implacabilità Dadgar aveva tentato di impedire la loro partenza. Finalmente l'aereo venne liberato dal ghiaccio... ma il motore numero 1 non si accendeva. Il pilota John Carlen scoprì che il guaio era dovuto alla valvola d'avviamento. Il motorista Ken Lenz scese e tenne aperta la valvola manualmente mentre Carlen avviava il motore. Perot condusse Rashid nella cabina di comando. Rashid non aveva mai volato, prima di quell'avventura, e voleva stare con l'equipaggio. Perot dis-
se a Carlen: «Ci faccia vedere un decollo spettacoloso». «D'accordo» disse Carlen. Rollò sulla pista e si staccò da terra, mantenendo un angolo nettissimo. Nella cabina passeggeri, Gayden rideva: aveva appena saputo che, dopo sei settimane passate in carcere in compagnia esclusivamente maschile, Paul era stato costretto ad assistere a un film porno, e trovava la cosa molto divertente. Perot stappò una bottiglia di champagne e propose un brindisi. «Alla salute degli uomini che hanno detto ciò che avrebbero fatto, e poi l'hanno fatto». Ralph Boulware sorseggiò lo champagne e si sentì riscaldare piacevolmente. È giusto, pensò. Abbiamo detto quello che avremmo fatto, e poi l'abbiamo fatto davvero. È giusto. Aveva un'altra ragione per essere felice. Lunedì prossimo Kecia compiva sette anni. Ogni volta che aveva telefonato, Mary gli aveva raccomandato: «Torna a casa per il compleanno di Kecia». A quanto pareva ce l'avrebbe fatta. Bill incominciò finalmente a rilassarsi. Ormai solo un volo mi divide dall'America e da Emily e dalle mie creature, pensò. Ormai sono al sicuro. Già altre volte aveva creduto d'essere in salvo: quando aveva raggiunto l'Hyatt a Teheran, quando aveva attraversato il confine turco, quando era decollato da Van e quando era atterrato a Francoforte. E ogni volta aveva avuto torto. Aveva torto anche adesso. Paul aveva sempre avuto la passione degli aerei, e approfittò dell'occasione per fare il volo nella cabina di comando del Boeing 707. Mentre l'aereo sorvolava la parte settentrionale dell'Inghilterra, si accorse che il pilota John Carlen, il motorista Ken Lenz e il primo ufficiale Joe Fosnot erano in difficoltà. Con il pilota automatico l'aereo sbandava, prima a sinistra e poi a destra. La bussola non funzionava, e il sistema di navigazione inerziale era diventato inaffidabile. «Che cosa significa?» chiese Paul. «Significa che dovremo pilotare manualmente attraverso l'Atlantico» disse Carlen. «Ma possiamo farcela... è soltanto faticoso, ecco tutto.» Pochi minuti dopo l'aria diventò freddissima, poi caldissima. L'impianto di pressurizzazione non funzionava più a dovere. Carlen portò l'aereo a bassa quota.
«Non possiamo attraversare l'Atlantico a questa altitudine» disse a Paul.. «Perché?» «Non abbiamo abbastanza carburante... un aereo»e consuma di più, a bassa quota.» «Perché non possiamo restare più in alto?» «Non potremmo respirare.» «Ma a bordo ci sono le maschere a ossigeno.» «Non c'è ossigeno a sufficienza per attraversare l'Atlantico. Nessun aereo ne porta tanto.» Carlen e gli altri dell'equipaggio manovrarono per un po', poi il pilota sospirò e disse: «Le dispiace condurre qui Ross, Paul?». Paul andò a chiamare Perot. Carlen disse: «Signor Perot, credo che sia meglio atterrare al più presto possibile». Spiegò perché non potevano attraversare l'Atlantico con l'impianto di pressurizzazione che non funzionava. Paul disse: «John, le sarò grato in eterno se non dovremo atterrare in Germania». «Non si preoccupi» disse Carlen. «Ci fermeremo all'aeroporto di Heathrow, a Londra.» Perot andò a riferirlo agli altri. Carlen chiamò il controllo del traffico aereo di Londra, per radio. Era la una del mattino, e gli risposero che Heathrow era chiuso. È un caso d'emergenza, spiegò. Gli diedero il permesso di atterrare. Paul non riusciva a crederlo. Un atterraggio d'emergenza, dopo tutto quello che aveva passato. Ken Lenz incominciò a scaricare il carburante per portare l'aereo al di sotto del massimo peso per l'atterraggio. Londra avvertì Carlen che c'era nebbia sull'Inghilterra meridionale, ma per il momento a Heathrow la visibilità era di ottocento metri. Quando Ken Lenz chiuse le valvole del carburante, una spia rossa che avrebbe dovuto spegnersi restò accesa. «Uno dei tubi di scarico non è rientrato» disse Lenz. «Non posso crederci» disse Paul. Accese una sigaretta. Carlen chiese: «Paul, me ne dà una?». Paul lo fissò. «Ma mi aveva detto che ha smesso di fumare dieci anni fa.» «Mi dia una sigaretta, per favore.» Paul gliela diede, e disse: «Adesso ho veramente paura».
Tornò nella cabina passeggeri. Le hostess avevano messo tutti al lavoro per riporre vassoi, bottiglie e bagagli, in previsione dell'atterraggio. Paul andò in camera da letto. Simons era sdraiato. S'era rasato la barba con l'acqua fredda, e aveva la faccia piena di cerotti. Dormiva profondamente. Paul uscì e disse a Jay Coburn: «Simons sa quello che sta succedendo?». «Sicuro» rispose Coburn. «Ha risposto che lui non sa pilotare un aereo e non può far nulla, e quindi andava a fare un sonnellino.» Paul scrollò la testa, sbalordito. Quello era sangue freddo! Tornò nella cabina di comando. Carlen era tranquillo come sempre, e la sua voce era calma, le mani sicure. Ma quella sigaretta preoccupava Paul. Dopo un paio di minuti la spia rossa si spense. Il tubo di scarico era rientrato. Si avvicinarono a Heathrow tra le nuvole dense e cominciarono a scendere. Paul teneva d'occhio l'altimetro. Quando scese a meno di seicento piedi e poi a meno di cinquecento, non si vedeva ancora nulla, fuori, tranne la nebbia grigia e turbinante. A trecento piedi la scena non era ancora cambiata. Poi, di colpo, uscirono dalle nubi e davanti a loro c'era la pista, illuminata come un albero di Natale. Paul tirò un sospiro di sollievo. Toccarono terra e le autopompe e le ambulanze arrivarono a sirene spiegate: ma era stato un atterraggio perfetto. Rashid aveva sentito parlare di Ross Perot per anni. Perot era il multimilionario, il fondatore dell'EDS, il genio degli affari, l'uomo che stava a Dallas e spediva in giro per il mondo tipi come Coburn e Sculley, quasi fossero pezzi su una scacchiera. Per Rashid era stata un'esperienza sensazionale incontrarsi con Perot e scoprire che era un essere umano dall'aspetto normalissimo, piuttosto basso di statura e sorprendentemente cordiale. Rashid era entrato nella stanza dell'albergo, a Istanbul, e l'ometto dal gran sorriso e dal naso storto aveva teso la mano e gli aveva detto: «Salve, sono Ross Perot». E Rashid gli aveva stretto la mano e aveva risposto: «Salve, sono Rashid Kazemi» con la stessa naturalezza. Da quel momento s'era sentito più che mai parte dell'EDS. Ma all'aeroporto di Heathrow dovette ricordarsi che le cose non stavano esattamente così. Non appena l'aereo si fermò, una torma di agenti di polizia, doganieri e funzionari dell'immigrazione salì a bordo e incominciò a fare domande.
Non erano entusiasti di quel che vedevano: un branco di uomini sporchi, malvestiti, con la barba lunga, che portavano un capitale in monete di vari stati, a bordo di un aereo incredibilmente lussuoso con un numero delle isole Grand Cayman. Questo, dissero con la tipica flemma britannica, era a dir poco molto irregolare. Ma dopo aver interrogato tutti per un'ora o più, non trovarono le prove che gli uomini dell'EDS fossero contrabbandieri di droga, terroristi o membri dell'OLP. Dato che avevano passaporti degli Stati Uniti, gli americani non avevano bisogno di visti né di altre documentazioni per entrare in Inghilterra. Erano tutti in regola... tranne Rashid. Perot affrontò il funzionario dell'immigrazione. «Non c'è motivo perché lei sappia chi sono, ma mi chiamo Ross Perot e se vuole informarsi sul mio conto, magari presso la dogana degli Stati Uniti, credo si convincerà che può fidarsi di me. Ho troppo da perdere cercando di introdurre in Gran Bretagna un immigrante clandestino. Mi assumo personalmente la responsabilità per questo giovane. Lasceremo l'Inghilterra entro ventiquattro ore. Domattina incontreremo il suo collega all'aeroporto di Gatwick, e poi prenderemo il volo della Braniff per Dallas.» «Purtroppo è impossibile, signore» disse il funzionario. «Questo signore dovrà restare con noi fino a quando lo faremo salire sull'aereo.» «Se resta lui, resto anch'io» disse Perot. Rashid era sbalordito. Ross Perot avrebbe passato la notte all'aeroporto, o magari in cella, per non abbandortarlo! Era incredibile. Se quella proposta l'avesse fatta Pat Sculley, o Jay Coburn, Rashid sarebbe stato riconoscente, non sorpreso. Ma Ross Perot! Il funzionario dell'immigrazione sospirò. «Conosce qualcuno in Gran Bretagna che possa garantire per lei, signore?» Perot si spremette il cervello. Chi conosco in Gran Bretagna? si chiese. «Non credo... no, un momento.» Ma certo! Uno dei più grandi eroi britannici era stato ospite dei Perot a Dallas un paio di volte. E Perot e Margot erano stati suoi ospiti in Inghilterra, in un posto che si chiamava Broadlands. «Conosco il conte Mountbatten di Birmania» disse. «Vado a parlare con il mio superiore» disse il funzionario, e scese dall'aereo. Rimase assente molto a lungo. Perot disse a Sculley: «Appena scendiamo, il suo compito è trovare posti di prima classe per tutti su quel volo della Braniff per Dallas». «Sissignore» disse Sculley.
Il funzionario dell'immigrazione tornò. «Posso darle ventiquattro ore» disse a Rashid. Rashid guardò Perot. Oh, caspita, pensò: è un piacere lavorare per lui! Presero alloggio al Post House Hotel presso l'aeroporto, e Perot chiamò Merv Stauffer a Dallas. «Merv, abbiamo qui con noi una persona con il passaporto iraniano e niente visto d'ingresso negli Stati Uniti... sai di chi sto parlando.» «Sicuro.» «Ha salvato la vita a parecchi americani e non voglio che abbia seccature quando arriveremo negli Stati Uniti.» «Sicuro.» «Chiama Harry Mekillop. Fagli sistemare tutto, d'accordo?» «Sicuro.» Sculley svegliò tutti alle sei. Dovette tirare giù dal letto Coburn, che soffriva ancora degli effetti ritardati degli stimolanti di Simons: era esausto e di pessimo umore, e non gli importava niente di prendere l'aereo. Sculley aveva noleggiato un autobus per raggiungere l'aeroporto di Gatwick, un viaggio di due ore da Heathrow. Mentre uscivano, Keane Taylor, alle prese con uno scatolone di plastica contenente alcune delle numerose bottiglie e delle stecche di sigarette che aveva comprato all'aeroporto di Istanbul, disse: «Ehi, c'è qualcuno che vuole aiutarmi a portare questa roba?». Nessuno fiatò. Salirono tutti sull'autobus. «Allora andate al diavolo» disse Taylor e regalò tutto al portiere dell'albergo. Lungo il tragitto per Gatwick sentirono dalla radio dell'autobus che la Cina aveva invaso il Vietnam del Nord. Qualcuno disse: «Ecco, questa sarà la nostra prossima missione». «Sicuro» disse Simons. «Potremmo farci lanciare tra i due eserciti. Da qualunque parte sparassimo, andrebbe sempre bene.» All'aeroporto, mentre seguiva il gruppo dei suoi uomini, Perot notò che l'altra gente indietreggiava per lasciarli passare, e si rese conto improvvisamente che avevano un aspetto orribile. Quasi tutti non facevano il bagno e non si radevano da diversi giorni, e portavano un assortimento di indumenti molto sporchi, troppo larghi o troppo stretti. Probabilmente puzzavano.
Perot chiese dell'ufficiale addetto al servizio passeggeri della Braniff. La Braniff era una linea aerea di Dallas, e Perot se ne era servito moltissime volte per recarsi a Londra; quasi tutto il personale lo conosceva. Disse all'ufficiale: «Posso affittare l'intero salone superiore del 747 per la mia comitiva?». L'ufficiale fissava gli uomini. Perot sapeva che cosa stava pensando; di solito il signor Perot viaggiava in compagnia di alcuni uomini d'affari, tranquilli e dignitosi, e adesso era con una specie di banda di meccanici che dovevano aver lavorato su un motore particolarmente lurido. L'ufficiale disse: «Ecco, non possiamo affittarle il salone a causa dei regolamenti internazionali, signore, ma credo che se i suoi compagni di viaggio andranno lassù gli altri passeggeri non li disturberanno». Perot capì il sottinteso. Mentre saliva a bordo, disse a una hostess: «Voglio che questi uomini abbiano tutto ciò che chiedono». Poi passò oltre e l'hostess si rivolse a una collega, sgranando gli occhi. «Ma chi diavolo è?» La collega glielo spiegò. Il film in programma era La febbre del sabato sera, ma il proiettore non funzionava. Boulware era deluso; l'aveva già visto e l'avrebbe rivisto con piacere. Restò a rodersi il fegato in compagnia di Paul. Quasi tutti gli altri andarono nel salone. Ancora una volta Simons e Coburn si sdraiarono e si addormentarono. Nel bel mezzo dell'Atlantico Keane Taylor, che in quelle ultime settimane aveva portato addosso somme fino a duecentocinquantamila dollari distribuendole a manciate, decise improvvisamente di fare i conti. Stese una coperta sul pavimento del salone e cominciò a raccogliere il denaro. Uno a uno, gli altri estraevano rotoli di biglietti di banca dalle tasche, gli stivali, i berretti e le maniche delle camicie, e li buttavano sulla coperta. Uno o due degli altri passeggeri di prima classe erano saliti, nonostante l'aspetto sgradevole degli accompagnatori di Perot; ma quando videro quegli uomini con le barbe lunghe, i berretti di lana, gli stivali sudici e i giubbotti malconci che gettavano centinaia di migliaia di dollari sul pavimento e incominciavano a contarli, si affrettarono a dileguarsi. Dopo qualche minuto salì una hostess e si avvicinò a Perot. «Alcuni passeggeri ci chiedono d'informare la polizia» disse. «Le dispiace scendere a tranquillizzarli?»
«Con piacere.» Perot scese in prima classe e si presentò. Alcuni passeggeri lo conoscevano di nome. Incominciò a raccontare ciò che era accaduto a Paul e Bill. Mentre parlava, altri si avvicinarono per ascoltare. L'equipaggio della cabina interruppe il lavoro e si fermò; poi arrivarono anche alcuni dell'equipaggio della classe turistica. Ben presto si radunò una vera e propria folla. Perot incominciò a rendersi conto che quella vicenda avrebbe interessato tutto il mondo. Di sopra, i protagonisti dell'avventura stavano giocando un ultimo scherzo a Keane Taylor. Mentre raccoglieva il denaro, Taylor aveva lasciato cadere tre pacchetti da diecimila dollari, e Bill li aveva infilati in tasca. Naturalmente, i conti non quadravano. Tutti stavano seduti a gambe incrociate sul pavimento, reprimendo le risate, mentre Taylor contava e ricontava. «Com'è possibile che sia fuori di trentamila dollari?» esclamò alla fine, irritato. «Maledizione, tutto il denaro è qui! Forse non sono molto lucido. Che cosa mi succede?» In quel momento Bill risalì e chiese: «Cosa succede, Keane?». «Dio, mi mancano trentamila dollari, e non so assolutamente come li ho spesi.» Bill estrasse i tre mucchietti dalla tasca e disse: «Sono questi?». Tutti risero fragorosamente. «Dia qua» esclamò in tono rabbioso Taylor. «Dannazione, Gaylord, vorrei averla lasciata in galera!» Gli altri risero ancora più forte. L'aereo scese verso Dallas. Ross Perot, seduto accanto a Rashid, gli indicava le località che stavano sorvolando. Rashid guardava dal finestrino, guardava la terra bruna e piatta e le grandi strade che procedevano in rettilineo per chilometri e chilometri. L'America. Joe Poché provava una sensazione piacevole, la stessa che aveva provato quando era capitano di una squadra di rugby nel Minnesota, dopo una lunga partita vittoriosa. La stessa sensazione di quando era tornato dal Vietnam. Aveva fatto parte d'una buona squadra, era sopravvissuto, e aveva imparato molto. Adesso, per renderlo completamente felice gli mancava solo un po' di
biancheria pulita. Ron Davis era seduto a fianco di Jay Coburn. «Ehi, Jay, e adesso cosa faremo per vivere?» Coburn sorrise. «Non lo so.» Sarebbe stato strano, pensò Davis, sedere di nuovo dietro una scrivania. Non era sicuro che quella prospettiva gli piacesse. All'improvviso ricordò che Marva era incinta di tre mesi. Ormai si doveva vedere. Si chiese come gli sarebbe sembrata con la pancia. Io so di che cosa ho bisogno, pensò. Di una Coca-Cola. In lattina. Presa a un distributore, in una stazione di servizio. E pollo fritto del Kentucky. Pat Sculley stava pensando: Basta con i taxi color arancione. Sculley era seduto accanto a Jim Schwebach; erano di nuovo insieme, i due piccoletti terribili, e durante l'intera avyentura non avevano sparato neppure un colpo di pistola. Stavano parlando delle conclusioni che l'EDS poteva trarre da quell'operazione. La società aveva programmi in corso in altri paesi del Medio Oriente e si stava spingendo in Estremo Oriente; forse sarebbe stato opportuno creare una squadra di salvataggio permanente, un gruppo di specialisti addestrati e armati, pronti a compiere operazioni clandestine in paesi lontani? No, conclusero: quella era stata una situazione eccezionale. Sculley non se la sentiva più di vivere in paesi primitivi. A Teheran aveva detestato la seccatura mattutina di ammucchiarsi su un taxi color arancione in compagnia di altri due o tre, con la musica persiana che tuonava nella radio e l'inevitabile litigio con il taxista per il prezzo della corsa. Dovunque andrò, si disse, qualunque cosa faccia, voglio andare in ufficio da solo, con la mia macchina, una bella macchina americana comoda con l'aria condizionata e la musica in sordina. E quando andrò in bagno, non sarò costretto ad accovacciarmi su un buco nel pavimento. Mentre l'aereo atterrava, Perot gli disse: «Pat, lei uscirà per ultimo. Si assicuri che tutti superino senza problemi le varie formalità». «Certo.» L'aereo si fermò. Il portello si aprì, e salì a bordo una donna. «Dov'è?» chiese. «Eccolo» rispose Perot, indicando Rashid. Rashid fu il primo a scendere dall'aereo. Perot pensò: Merv Stauffer ha sistemato tutto. Gli altri scesero e passarono dalla dogana. Dall'altra parte, la prima persona che Coburn vide fu Merv Stauffer, tarchiato e occhialuto, con un sorriso da un orecchio all'altro. Coburn l'ab-
bracciò. Stauffer si frugò in tasca e tirò fuori la fede di Coburn. Coburn era commosso. Aveva lasciato l'anello a Stauffer perché lo custodisse. Da quel giorno, Stauffer era stato il perno delle operazioni. Era rimasto a Dallas, con un telefono incollato all'orecchio, a darsi da fare. Coburn aveva parlato con lui quasi ogni giorno, riferendo gli ordini e le richieste di Simons, ricevendo informazioni e consigli; sapeva meglio di ogni altro quanto fosse stato importante il lavoro di Stauffer. Eppure, nonostante tutto ciò che aveva avuto da fare, Stauffer non aveva dimenticato la fede nuziale. Coburn la rimise al dito. Aveva riflettuto molto sul suo matrimonio, durante le ore d'inattività a Teheran: ma adesso dimenticò tutto. Era ansioso di rivedere Liz. Merv gli disse di uscire dall'aeroporto e di salire sull'autobus che attendeva là fuori. Coburn seguì le indicazioni. Sull'autobus vide Margot Perot. Le sorrise e le strinse la mano. Poi, all'improvviso, l'aria risuonò di strilli di gioia, e quattro bambini gli si buttarono addosso: Jim, Kristi, Scott e Kelly. Coburn rise forte e cercò di abbracciarli tutti nello stesso istante. Liz era in piedi dietro ai bambini. Coburn si liberò con garbo dalla stretta dei figli e i suoi occhi si riempirono di lacrime. Abbracciò la moglie, senza parlare. Quando sull'autobus salì Keane Taylor, sua moglie non lo riconobbe. Keane, di solito così elegante, portava una lurida giacca da sci color arancio e un berretto di lana. Da una settimana non si faceva la barba ed era dimagrito di sette chili. Rimase davanti a lei per qualche secondo, fino a che Liz Coburn chiese: «Mary, non saluti Keane?». Poi i suoi figli, Mike e Dawn, gli saltarono addosso. Quel giorno era il quarantunesimo compleanno di Taylor. Fu il compleanno più felice della sua vita. John Howell vide sua moglie Angela seduta in prima fila, dietro all'autista. Aveva sulle ginocchia Michael, il bimbo di undici mesi, che portava un paio di blue jeans e una maglietta a righe. Howell lo prese in braccio e disse: «Ciao, Michael, ti ricordi di papà?». Sedette accanto ad Angela e la cinse con le braccia. Era un po' imbarazzante, e di solito Howell era troppo timido per abbandonarsi a manifestazioni d'affetto in pubblico, ma continuò a stringerla a sé, felice. Ad attendere Ralph Boulware c'erano Mary e le bambine, Stacy e Kecia. Prese in braccio Kecia e le disse: «Buon compleanno!» Era tutto come doveva essere, pensò mentre le abbracciava. Aveva fatto ciò che doveva fare,
e la sua famiglia era lì, dove doveva essere. Sentiva di aver dimostrato qualcosa d'importante, almeno a se stesso. In tutti gli anni trascorsi nell'aeronautica, a pasticciare con gli strumenti o a guardare le bombe che cadevano, non aveva mai avuto la sensazione che il suo coraggio venisse messo alla prova. Alcuni suoi parenti erano stati insigniti di decorazioni per i combattimenti a terra. E lui aveva sempre avuto l'inquietante sensazione di avere un ruolo facile, come il personaggio che nei film di guerra distribuisce la colazione prima che i soldati veri vadano a combattere. Si era sempre chiesto se aveva le qualità giuste. Adesso pensò alla Turchia, ad Adana, alla corsa sotto la tormenta a bordo della Chevrolet del '64, alla gomma cambiata con i figli del cugino del signor Fish in un territorio infestato dai banditi; e pensò al brindisi di Perot agli uomini che avevano detto ciò che avrebbero fatto, e poi l'avevano fatto davvero; e trovò la risposta. Oh, sì, aveva le qualità giuste. Le figlie di Paul, Karen e Ann Marie, indossavano gonne scozzesi eguali. Ann Marie, la più piccola, lo raggiunse per prima, e Paul la sollevò tra le braccia e la strinse forte. Karen era troppo grande per prenderla in braccio, ma la strinsecon lo stesso slancio. Dietro di loro c'era Ruthie, la sua bambina più grande, tutta vestita in toni miele e panna. La baciò a lungo e poi la guardò sorridendo. Non sarebbe riuscito a smettere di sorridere neppure se avesse voluto. Si sentiva pieno di tenerezza, ed era la sensazione più bella che avesse mai provato. Emily guardava Bill come se non credesse ai propri occhi. «Oh» balbettò. «Che gioia rivederti, tesoro.» Nell'autobus scese quasi il silenzio, quando Bill la baciò. Rachel Schwebach si mise a piangere. Bill baciò le bambine, Vicki, Jackie e Jenny, poi guardò il figlio. Chris aveva l'aria molto adulta nell'abito blu che aveva avuto in regalo per Natale. Bill aveva già visto quell'abito: ricordava la foto di Chris, davanti all'albero di Natale, la foto che aveva fissato sopra la sua branda nella cella del carcere, tanto lontano, tanto tempo prima... Emily non si stancava di toccarlo per assicurarsi che fosse davvero lì. «Hai un aspetto magnifico» disse. Bill sapeva di avere un aspetto orribile. «Ti amo» le disse. Ross Perot salì sull'autobus e chiese: «Ci siamo tutti?». «Il mio papà no!» esclamò una vocetta lamentosa. Era Sean Sculley. «Non preoccuparti» disse Perot. «Verrà subito. È in gamba.» Pat Sculley era stato fermato da un doganiere che gli aveva chiesto di
aprire la valigia. Tutto il denaro lo portava lui, e naturalmente il doganiere l'aveva visto. Aveva chiamato vari agenti, e Sculley era stato condotto in un ufficio per essere interrogato. Gli agenti tirarono fuori alcuni moduli. Sculley incominciò a spiegare, ma quelli non volevano ascoltare, volevano solo riempire i moduli. «Il denaro è suo?» «No, è dell'EDS.» «L'aveva quando ha lasciato gli Stati Uniti?» «Quasi tutto.» «Quando e come ha lasciato gli Stati Uniti?» «Una settimana fa, con un 707 privato.» «Dov'è andato?» «A Istanbul, poi al confine iraniano.» Un altro uomo entrò nell'ufficio e chiese: «Lei è il signor Sculley?». «Sì.» «Le chiedo scusa per tutti i fastidi che le abbiamo causato. Il signor Perot l'attende qui fuori.» Poi l'uomo si rivolse agli agenti. «Strappate pure i moduli.» Sculley sorrise e uscì. Non era più nel Medio Oriente. Era a Dallas, dove Perot era Perot. Sculley salì sull'autobus e vide Mary, Sean e Jennifer. Li abbracciò e li baciò tutti, e poi chiese: «E adesso cosa succede?». «C'è un piccolo ricevimento in vostro onore» disse Mary. L'autobus si mise in moto, ma non arrivò lontano. Si fermò dopo pochi metri, a un'altra uscita, e tutti vennero fatti rientrare nell'aeroporto e accompagnati a una porta con la scritta Concorde Room. Quando entrarono, mille persone si alzarono, applaudendo e acclamando. Qualcuno aveva portato un enorme striscione con la scritta: JOHN HOWELL N. 1 PAPÀ Jay Coburn fu commosso nel vedere la reazione di quella folla così numerosa. L'autobus era stato una buona idea, per lasciare agli uomini la possibilità di riabbracciare i loro cari in privato prima di venire lì. Chi aveva organizzato tutto? Stauffer, naturalmente.
Mentre si avviava attraverso la sala, la gente cercava di stringergli la mano, gli gridava parole di bentornato. Coburn sorrideva e ricambiava i saluti... c'era David Behne, c'era Dick Morrison... e tutte le facce si confondevano e le parole diventavano un'unica voce amichevole. Quando Paul e Bill entrarono con le mogli e i figli, le acclamazioni divennero assordanti. Ross Perot si sentiva salire le lacrime agli occhi. Non era mai stato così stanco in vita sua, ma era immensamente soddisfatto. Pensò alla fortuna e alle coincidenze che avevano reso possibile l'operazione di salvataggio: il fatto che lui conoscesse Simons, che Simons fosse stato disposto ad andare, che l'EDS avesse assunto tanti veterani del Vietnam, che loro fossero stati disposti a partecipare all'operazione, che quelli del sesto piano sapessero come ottenere tante cose, qua e là per il mondo, grazie all'esperienza acquisita nella campagna per i prigionieri di guerra, che T.J. fosse riuscito a noleggiare un aereo, che la folla avesse assaltato il carcere di Gasr... E pensò a tutte le cose che avrebbero potuto andar male. Ricordò il proverbio: il successo ha mille padri, l'insuccesso è orfano. Tra pochi minuti avrebbe preso la parola e avrebbe raccontato ciò che era successo, e come avevano fatto a riportare a casa Paul e Bill. Ma sarebbe stato difficile esprimere con le parole i rischi che avevano corso, il prezzo terribile che avrebbero dovuto pagare se le cose fossero andate male e fossero finiti in un tribunale o peggio. Ricordava il giorno dalla sua partenza da Teheran, quando aveva pensato che la sua fortuna era come sabbia che scorreva in una clessidra. All'improvviso, rivide quella clessidra, e tutta la sabbia aveva finito di scorrere. Sorrise tra sé, afferrò la clessidra immaginaria e la capovolse. Simons si chinò a parlargli all'orecchio. «Ricorda che si era offerto di pagarmi?» Perot non l'avrebbe mai dimenticato. Quando Simons ti lanciava quell'occhiata, ti sentivi gelare. «Sicuro.» «Vede?» chiese Simons, inclinando la testa. Paul stava venendo verso di loro, con Ann Marie in braccio, tra la folla degli amici plaudenti. «Lo vedo.» Simons disse: «Questa è la mia ricompensa». E tirò una boccata dal sigaro. Finalmente nella sala si fece silenzio, e Perot cominciò a parlare. Chiamò Rashid e gli passò il braccio intorno alle spalle. «Voglio presentarvi un componente importantissimo della squadra di salvataggio» disse agli a-
scoltatori. «Come ha detto il colonnello Simons, Rashid pesa solo sessantatré chili, ma ha duecentocinquanta chili di coraggio.» Tutti risero e applaudirono di nuovo. Rashid si guardò intorno. Molte, molte volte aveva pensato di andare in America; ma neppure nei sogni più audaci aveva immaginato di ricevere una simile accoglienza! Perot incominciò a raccontare l'avventura. Mentre ascoltava, Paul si sentiva stranamente umile. Non era un eroe. Gli eroi erano gli altri. Lui era un privilegiato: aveva i migliori amici del mondo. Bill si guardò intorno e vide Ron Sperberg, che era amico e collega da anni. Sperberg portava un grande cappello da cowboy. Siamo tornati nel Texas, pensò Bill. È il cuore degli Stati Uniti, il posto più sicuro del mondo. Qui non potranno raggiungerci. Questa volta l'incubo è veramente finito. Siamo tornati. Siamo salvi. Siamo a casa. EPILOGO Jay e Liz Coburn divorziarono. Kristi, la secondogenita, la più emotiva, scelse di andare a vivere con il padre. Coburn fu nominato direttore delle Risorse Umane dell'EDS Federal. Nel settembre 1982 lui e Ross Perot Junior furono i primi a compiere il giro del mondo in elicottero. L'apparecchio usato da loro si trova oggi nel National Air and Space Museum a Washington. Si chiama Spirit of Texas. Paul diventò controller dell'EDS e Bill direttore del marketing del Medicaid, nella Divisione Assistenza Malattie. Joe Poché, Pat Sculley, Jim Schwebach, Ron Davis e Rashid continuarono a lavorare per l'EDS in varie parti del mondo. La moglie di Davis, Marva, il 19 luglio 1979 diede alla luce un maschietto, Benjamin. Keane Taylor fu nominato direttore nazionale dell'EDS nei Paesi Bassi, dove fu raggiunto da Glenn Jackson. Gayden continuò a dirigere l'EDS World, e ad essere quindi il superiore di Taylor. John Howell divenne socio dello studio legale di Tom Luce, l'Hughes & Hill. Angela Howell ebbe una bambina, Sarah, il 19 giugno 1980. Rich Gallagher lasciò l'EDS il 1° luglio 1979. Era dell'est degli Stati Uniti e non si era mai sentito del tutto a suo agio all'EDS. Anche Lloyd Briggs e Paul Bucha se ne andarono più o meno in quell'epoca. Ralph Boulware lasciò anche lui l'EDS. Lulu May Perot, la madre di Ross, morì il 3 aprile 1979.
Ross Perot Junior si laureò e andò a lavorare per il padre nell'autunno del 1981. Un anno dopo Nancy Perot fece altrettanto. Perot continuò a guadagnare ancora di più. Le sue proprietà immobiliari acquistarono valore, la sua società petrolifera trovò pozzi da sfruttare, e l'EDS ottenne altri contratti sempre più cospicui. Le azioni dell'EDS che erano quotate circa 18 dollari quando Paul e Bill erano stati arrestati, quattro anni dopo valevano sei volte di più. Il colonnello Simons morì il 21 maggio 1979, dopo una serie di attacchi cardiaci. Nelle ultime settimane di vita, ebbe come compagna Anita Melton, la spiritosa hostess del Boeing 707. Il loro rapporto era strano, tragico; non divennero amanti, ma erano innamorati. Vivevano insieme nella villetta degli ospiti nella tenuta di Perot a Dallas. Lei gli insegnava a cucinare, e lui l'aveva iniziata al jogging, e prendeva i tempi con il cronometro. Si tenevano quasi sempre per mano. Dopo la morte di Simons, suo figlio Harry e la moglie Shawn ebbero un maschietto e lo chiamarono Arthur Simons Junior. Il 4 novembre 1979 l'ambasciata degli Stati Uniti a Teheran fu nuovamente invasa dai rivoluzionari iraniani. Questa volta presero cinquantadue ostaggi che furono tenuti prigionieri per più di un anno. Una missione di salvataggio ordinata dal presidente Carter fallì ignominiosamente nei deserti dell'Iran centrale. Ma Carter non aveva l'aiuto di Bull Simons. APPENDICE
TRIBUNALE DISTRETTUALE DEGLI STATI UNITI PER IL DISTRETTO DEL TEXAS SETTENTRIONALE, DIVISIONE DI DALLAS ELECTRONIC DATA SYSTEMS CORP. IRAN contro L'ORGANIZZAZIONE DELLA PREVIDENZA SOCIALE DEL GOVERNO DELL'IRAN, IL MINISTERO DELLA SANITÀ E DELLA PREVIDENZA SOCIALE DEL GOVERNO DELL'IRAN, IL GOVERNO DELL'IRAN N. CA3-79-218-F (Estratti della motivazione)
Né l'EDSCI né altri a suo nome hanno procurato illegalmente il contratto. Non esistono prove che funzionari o dipendenti dei Convenuti si siano fatti corrompere per assicurare il contratto, e l'evidenza non indica l'esistenza di frodi o episodi di corruzione al fine di procurare il contratto... I prezzi stabiliti dal contratto non erano esorbitanti; anzi, l'evidenza dimostra che i prezzi erano ragionevoli e in conformità con le somme addebitate ad altri dell'EDS per servizi analoghi. I prezzi non erano molto diversi da quelli richiesti per servizi analoghi da altre società nel campo dell'assistenza sanitaria... Il fatto che la Previdenza Sociale e il Ministero non avessero presentato notifica scritta rifiutando le fatture non pagate è ingiustificato, e quindi costituiva una violazione del contratto. L'assegnazione del dottor Towliati alla Previdenza Sociale quale vicedirettore non costituiva una giustificazione. Non risulta che i servizi del dottor Towliati influissero sull'approvazione delle fatture, e non risulta che il dottor Towliati si comportasse in modo non corretto nel controllo delle prestazioni previste dal contratto. Anzi, l'evidenza ha dimostrato che il Ministero e la Previdenza Sociale avevano piena e continua possibilità di controllare le prestazioni dell'EDSCI. Inoltre, non esistono evidenze credibili di raggiri ode! fatto che l'EDSCI abbia cospirato con qualcuno per ottenere abusivamente l'approvazione per il pagamento delle fatture o per negare ai Convenuti la possibilità di valutare le prestazioni dell'EDSCI stessa a termini del contratto. L'EDSCI non e venuta materialmente meno agli obblighi contrattuali, anzi, ha fornito le prestazioni previste per ogni fase fino al 16 gennaio 1978, data della scadenza del contralto... Il recupero delle somme dovute secondo il contratto non è inficiato dalle affermazioni dei Convenuti, non suffragate dall'evidenza, secondo le quali l'EDSCI aveva ottenuto il contratto mediante frode o corruzione. Specificamente, l'evidenza non dimostra che i rapporti dell'EDS con il Gruppo Mahvi fossero illeciti. L'esecuzione del contratto da parte dell'EDSCI non ha trasgredito nessuna legge iraniana... L'attore ha presentato abbondanti prove a dimostrazione del fatto e dei risultati dei suoi servizi: testimonianze di coloro che hanno realizzato e diretto i sistemi di data processing, documentazioni fotografiche comprovanti gli aspetti delle funzioni di preparazione dei dati, nonché i rapporti preparati congiuntamente dall'EDSCI e dal Ministero circa l'ottemperanza del contratto. Non sono state presentate prove credibili che possano confutare queste risultanze...
(Estratto dalla sentenza) Si ordina che all'attore, Electronic Data Systems Corporation Iran venga pagata dai convenuti, il Governo dell'Iran, l'Organizzazione della Previdenza Sociale del Governo dell'Iran e il Ministero della Sanità e della Previdenza Sociale del Governo dell'Iran, congiuntamente e separatamente, la somma di quindici milioni, centoseltantasettemila e quatlrocentoquattro dollari ($ 15.177.404), più due milioni, oltocentododicimila e duecentocinquantun dollari ($ 2.812.251) a titolo di interessi accumulati prima del giudizio, più un milione, settantanovemila, ottocentosettantacinque dollari ($ 1.079.875) per spese legali, più gli interessi su tutte le somme precedenti al nove per cento (9%) annuo dalla presente data, più tutte le spese di giudizio... FINE