HARLAN COBEN SVANITI NEL NULLA (Gone For Good, 2002) Per Anne A ma vie de cœur entier 1 Tre giorni prima di morire, mia ...
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HARLAN COBEN SVANITI NEL NULLA (Gone For Good, 2002) Per Anne A ma vie de cœur entier 1 Tre giorni prima di morire, mia madre mi annunciò che mio fratello era ancora vivo: non furono quelle le sue ultime parole, ma quasi. Non aggiunse altro, non entrò in particolari. Lo disse una sola volta, e non si sentiva affatto bene, mamma. La morfina le stava già dando la stretta finale al cuore, la sua pelle aveva assunto una tonalità a metà strada fra l'ittero e l'abbronzatura ormai sbiadita, gli occhi le si erano infossati nella testa. Dormiva quasi sempre. Ebbe un solo momento di lucidità - ammesso che di lucidità si potesse parlare, e personalmente ne dubito - del quale approfittai per farle sapere che era stata una splendida madre e che l'amavo moltissimo, e per dirle addio. Non nominammo mai mio fratello, ma ciò non significa che non fosse nei nostri pensieri, come se in quel momento stesse seduto anche lui al capezzale di mamma. "È vivo." Furono esattamente queste le sue parole. E non capii se quella notizia, ammettendone la veridicità, fosse buona o cattiva. Seppellimmo mia madre quattro giorni dopo. Quando tornammo a casa, mio padre, rosso in viso per la rabbia, entrò a passo di carica nel soggiorno. C'ero io, naturalmente, e c'era mia sorella Melissa venuta da Seattle con il marito Ralph. Zia Selma e zio Murray camminavano su e giù per la stanza. Sheila, la mia anima gemella, sedeva accanto a me tenendomi la mano. Credo di non avere dimenticato nessuno. C'era soltanto una meravigliosa composizione floreale, mostruosamente grande. Sheila sorrise stringendomi la mano quando vide il bigliettino d'accompagnamento: un cartoncino senza parole, senza messaggi, con solo il simbolo sopra. Papà guardava fuori dalla vetrata del bovindo, la stessa vetrata che negli
ultimi undici anni era stata mandata due volte in frantumi con un fucile ad aria compressa, e borbottava sottovoce: «Figli di puttana!». Poi si voltò, ricordandosi di qualcun altro che non era venuto al funerale. «Santo Iddio, pensavo che almeno i Bergman si sarebbero fatti vedere.» Quindi chiuse gli occhi e si girò dall'altra parte. La rabbia riprese a consumarlo, e mischiandosi al dolore diede vita a qualcosa di cui non ebbi la forza di prendere atto. Un altro tradimento, in quegli undici anni che di tradimenti erano stati pieni. Avevo bisogno di aria. Mi alzai. Sheila mi guardò preoccupata. «Vado a fare due passi» le dissi piano. «Ti serve compagnia?» «Non credo.» Lei annuì. Stavamo insieme da quasi un anno e non avevo mai avuto una compagna così in sintonia con le mie fisime, che sono abbastanza insolite. Mi strinse di nuovo la mano per farmi capire che mi amava e mi sentii invadere dal calore di quella stretta. Il nostro stuoino con la scritta BENVENUTO davanti alla porta di casa era di finta erba molto ruvida con una margherita di plastica nell'angolo in alto a sinistra. Lo scavalcai, incamminandomi poi verso Downing Place. Ai due lati della strada sorgevano alcune palazzine orrendamente ordinarie, con i piani sfalsati e gli infissi di alluminio, stile anni Sessanta. Indossavo ancora il vestito grigio scuro che, con quel caldo, mi dava il prurito. Il sole picchiava forte e la parte perversa di me pensò che quello sarebbe stato il giorno ideale per marcire. Mi passò davanti agli occhi l'immagine del sorriso di mia madre, quello che illuminava il mondo, quello di prima che accadesse ciò che era accaduto. Mi costrinsi ad allontanarla. Sapevo dove ero diretto, anche se probabilmente non volevo ammetterlo con me stesso. Mi ci sentivo attratto da una forza invisibile. Qualcuno potrebbe definire questo atteggiamento masochistico. Altri osserverebbero che forse aveva qualcosa a che fare con il bisogno di chiudere con il passato. Secondo me sono sbagliate entrambe le interpretazioni. Volevo solo guardare il posto dove tutto era finito. Mi assalirono i suoni e le immagini dell'estate in un quartiere residenziale. I ragazzini sfrecciavano urlando sulle loro bici. Il signor Cirino, proprietario della concessionaria Ford/Mercury sulla Route 10, stava tosando il suo giardino. Gli Stein, che avevano messo in piedi una catena di negozi
di elettrodomestici inghiottita poi da una catena ancora più grande, passeggiavano mano nella mano. Davanti a casa dei Levine era in corso una partitella di football, ma non conoscevo nessuno dei giocatori. Dal giardinetto dietro la casa dei Kaufman si alzava il fumo di un barbecue. Passai davanti alla vecchia abitazione dei Glassman. Mark Glassman, soprannominato "l'Idiota", all'età di sei anni aveva tentato di attraversare la porta a vetri scorrevole giocando a fare Superman. Ricordo l'urlo e il sangue. Erano stati necessari oltre quaranta punti di sutura. L'Idiota poi era cresciuto, trasformandosi in una specie di supermiliardario. Non credo che lo chiamino più così, ma non si può mai dire. Sulla curva c'era la casa dei Mariano, ancora di quel color giallo catarro, con un cervo di plastica a guardia del vialetto. Angela Mariano, la ragazzaccia locale, aveva due anni più di noi e ci sembrava appartenere a una specie superiore degna di riverente ammirazione. Osservando Angela prendere il sole dietro casa, con quel suo top a costine il cui contenuto sembrava sfidare la legge di gravità, avevo avvertito i primi dolorosi impulsi di una violenta tempesta ormonale. Mi veniva letteralmente l'acquolina in bocca. Angela litigava spesso con i genitori e andava a fumare di nascosto dietro il capanno degli attrezzi. Il suo ragazzo aveva la moto. L'ho incontrata l'anno scorso in Madison Avenue. Mi sarei aspettato di trovarla orribile - si dice che succeda sempre così quando si rivede dopo tanti anni l'oggetto della nostra prima cotta -, ma Angela invece era in gran forma e sembrava felice. Di fronte alla casa di Eric Frankel, al 23 di Downing Place, un annaffiatore automatico ruotava lentamente a trecentosessanta gradi. Quando facevamo la seconda media Eric aveva festeggiato il suo bar mitzvah da Chanticleer, a Short Hills. Ed era stata una festa a tema, per la precisione "viaggi spaziali". Il soffitto era stato reso simile a quello dei planetari, un cielo nero pieno di stelle. "Apollo 14", si leggeva sul cartellino del posto dove ero seduto. Il centrotavola era costituito da un elaborato modellino di razzo spaziale, posato sulla sua rampa di lancio in mezzo a una radura. I camerieri indossavano realistiche tute da astronauti e avevano i nomi dell'equipaggio del Mercury 7, quello che ci serviva era "John Glenn". Io e Cindi Shapiro ci rifugiammo in una stanzetta, dandoci dentro per oltre un'ora. Per me era la prima volta. Non sapevo che cosa stessi facendo. Cindi invece lo sapeva. Ricordo quegli splendidi momenti, con la sua lingua che mi carezzava in modo inatteso facendomi trasalire. Ma ricordo anche che lo stupore iniziale dopo una ventina di minuti si era trasformato in qualcosa
di simile alla noia, in un: "E ora?" seguito da un ingenuo: "Tutto qui?". Quando Cindi e io, leggermente arruffati ma in perfetta forma postpomiciata, tornammo di soppiatto al tavolo Apollo 14 di Cape Kennedy, mentre la band di Herbie Zan suonava Fly Me to the Moon, mio fratello Ken mi tirò da parte chiedendomi subito particolari che io, naturalmente, fui più che lieto di fornirgli. Allora mi rivolse quel particolare sorriso, battendo subito dopo la sua mano aperta sulla mia. Quella notte, sdraiati nel nostro letto a castello - lui di sopra, io di sotto - e con lo stereo che suonava il disco preferito di Ken, Don't Fear the Reaper del gruppo heavy metal Blue Oyster Cult, mio fratello maggiore mi spiegò i fatti della vita visti da uno al primo anno delle superiori. Più tardi avrei scoperto che sbagliava su quasi tutto (dava un po' troppa importanza al seno), ma ripensando a quella notte mi viene sempre da sorridere. È vivo... Scossi la testa e girai a destra in Coddington Terrace passando davanti alla vecchia casa degli Holder. Era la stessa strada che facevamo Ken e io per andare alle elementari di Burnett Hill. Una volta c'era un sentiero asfaltato tra due case per accorciare il tragitto e mi chiesi se esistesse ancora. Mia madre - la chiamavano tutti Sunny, anche i ragazzini - spesso ci seguiva quasi di nascosto mentre andavamo a scuola. Ken e io alzavamo gli occhi al cielo quando si nascondeva dietro gli alberi. Sorrisi, ripensando al suo esagerato senso protettivo. Un tempo però mi imbarazzava, mentre Ken si limitava a fare spallucce. Mio fratello era abbastanza "giusto" da fregarsene. Io no. Provai una fitta e tirai dritto. Sarà stata la mia immaginazione, ma la gente cominciò a fissarmi. Le biciclette, i palloni da basket, gli annaffiatori automatici e i tosaerba, gli urletti delle partitelle di football: tutto sembrò farsi silenzioso al mio passaggio. Alcuni mi guardavano incuriositi, perché un estraneo che gironzola in una sera d'estate indossando un abito grigio scuro è in un certo senso una curiosità. Ma la maggior parte di loro (ripeto, così mi sembrò) mi osservava inorridita riconoscendomi, incapace di credere che osassi calpestare quel suolo sacro. Mi avvicinai senza esitazione al 47 di Coddington Terrace. Avevo la cravatta allentata. Serravo i pugni dentro le tasche dei pantaloni. Toccai con la punta della scarpa il punto in cui il marciapiede si congiunge alla strada. Perché mi trovavo lì? Vidi una tendina muoversi a una finestra, poi apparve il viso sottile e quasi spettrale della signora Miller. Lei mi guardò
accigliata. Io non mi mossi né distolsi lo sguardo. Lei continuò a fissarmi e poi, sorprendendomi, la sua espressione si ammorbidi, fu come se le nostre sofferenze avessero trovato un punto di contatto. La signora Miller mi fece un cenno con la testa e io ricambiai, sentendo i miei occhi riempirsi di lacrime. Forse ne avrete sentito parlare in un notiziario o in qualche altro equivalente televisivo di quella cosa che serve per incartare il pesce. Per quelli che invece sono ancora all'oscuro, questa è la versione ufficiale. Il 17 ottobre di undici anni fa, nella cittadina di Livingston, New Jersey, mio fratello Ken Klein, allora ventiquattrenne, aveva violentato e strangolato la nostra vicina Julie Miller. Nella cantina di casa sua, al 47 di Coddington Terrace. Lì era stato trovato il cadavere. Non si riuscì a stabilire con certezza se Julie fosse stata assassinata in quello squallido ambiente o se invece fosse stata trasportata lì già morta e lasciata dietro il divano zebrato macchiato dall'umidità. Molti propendono per la prima ipotesi. Mio fratello sfuggì alla cattura rendendosi latitante, sempre secondo la versione ufficiale. In questi undici anni Ken è riuscito a sottrarsi alle ricerche, estese anche all'estero. Ci sono stati comunque degli "avvistamenti". Il primo si ebbe un anno circa dopo il delitto, in un villaggio di pescatori nel nord della Svezia. Mio fratello riuscì in qualche modo a svignarsela prima dell'arrivo degli agenti dell'Interpol. Pare che avesse ricevuto una soffiata, ma non riesco a immaginare come o da chi. Il secondo ci fu quattro anni dopo a Barcellona. Ken, come scrissero i giornali, aveva affittato "una hacienda con vista sull'oceano" (e a Barcellona non c'è nessun oceano) insieme a, cito sempre, "una flessuosa donna dai capelli scuri, forse una ballerina di flamenco". Un abitante di Livingston in vacanza in Spagna riferì addirittura di avere visto Ken cenare sulla spiaggia con la sua amante catalana. Mio fratello veniva descritto in piena forma, abbronzato, con camicia bianca aperta sul petto e mocassini senza calze. Questo turista di Livingston, un certo Rick Horowitz, era in classe con me nella quarta elementare della signora Hunt. Per tre mesi, durante l'intervallo, Rick si era esibito davanti a noi mangiando bruchi. Ma anche nella sua versione barcellonese, Ken riuscì a sgusciare tra le maglie della rete di polizia. L'ultima volta in cui mio fratello fu visto, almeno secondo la testimonianza, stava sciando sulle Alpi francesi, montagne per esperti (ed è inte-
ressante rilevare che mio fratello prima del delitto non aveva mai messo un paio di sci). La cosa non ebbe seguito giornalistico, a parte una notizia su 48 Hours. Con il passare degli anni, il suo status di fuggiasco era diventato la versione criminale di Chi l'ha visto?, nel senso che il nome di Ken spuntava fuori ogni volta che girava qualche voce o, più probabilmente, ogni volta che un cronista da strapazzo del network era a corto di notizie. Naturalmente odiavo quei servizi sul "degrado dei quartieri residenziali", come odiavo tutte le altre gentili etichette appiccicate a quella storia. In quei "servizi speciali" (ma avrei gradito che almeno per una volta fossero chiamati servizi normali, visto che ci si erano dedicati tutti) appariva sempre la stessa fotografia di Ken in completo bianco da tennis - un tempo era stato perfino nelle classifiche nazionali - e con la sua espressione più arrogante dipinta sul viso. Non riesco a immaginare dove l'abbiano trovata. Ken, in questa foto, esibiva quel tipo di bellezza che la gente odia a prima vista: sguardo sfrontato, pettinatura alla Kennedy, abbronzatura in risalto sul bianco del completo da gioco e sorriso smagliante. Faceva pensare a una di quelle persone privilegiate (e non lo era) per le quali la vita è una specie di crociera grazie al fascino (e questo era in parte vero) e al credito del quale godono (ma del quale lui non aveva mai goduto). In uno di questi speciali televisivi ero apparso anche io. Ero stato avvicinato da un produttore il quale sosteneva di voler presentare "correttamente le due facce del caso". Erano tutti pronti a linciare mio fratello, aveva osservato. Loro, invece, in nome di "un'informazione corretta", avevano bisogno di qualcuno che descrivesse "il vero Ken" alla gente. E io ci cascai. Fui intervistato per oltre un'ora da un'anchorwoman bionda e algida che mi dimostrò grande comprensione. E la cosa fra l'altro mi piacque, mi sembrò terapeutica. Lei mi ringraziò, mi accompagnò alla porta e quando la trasmissione andò in onda utilizzarono soltanto un frammento dell'intervista, togliendo la sua domanda ("Lei sicuramente non verrà a dirci che suo fratello era perfetto, vero? Non sta cercando di farlo passare per un santo, giusto?") e lasciando solo la mia risposta, con il mio viso in primissimo piano - e relativo ingrandimento dei pori - e una musica solenne in sottofondo: "Ken non era un santo, Diane". Questa che ho esposto è comunque la versione ufficiale dell'accaduto. Io non ci ho mai creduto. Non dico che non è possibile sia andata così. Ma mi sembra più plausibile che mio fratello sia morto, e che sia morto da undici anni.
E, se vogliamo dirla tutta, mia madre ha sempre creduto che Ken fosse morto. Ci credeva con tutta se stessa. Senza riserve. Suo figlio non era un assassino. Suo figlio era una vittima. È vivo... non è stato lui. La porta di casa Miller si aprì. Ne uscì il signor Miller, aggiustandosi gli occhiali sul naso. Si portò i pugni sui fianchi, in una penosa imitazione di Superman. «Levati dai piedi, Will» mi disse. Mi levai dai piedi. Un'ora dopo, ebbi un altro grosso choc. Sheila e io eravamo saliti nella stanza da letto dei miei genitori. L'arredamento era sempre lo stesso, mobili robusti e grigi con il bordino azzurro, ma il colore dopo tanti anni era sbiadito. Sedemmo sul lettone con il materasso dalle molle ormai allentate. Gli effetti più personali di mia madre, quelli che teneva nei cassetti pieni zeppi del comodino, erano sparsi sul copriletto. Mio padre era ancora al piano di sotto, e osservava il mondo con aria di sfida da dietro i vetri. Non so perché mi era venuta la voglia di frugare tra quelle cose, che mia madre aveva considerato tanto importanti da tenersele accanto. C'è un interessante rapporto tra l'autoinfliggersi un dolore e la consolazione, un approccio alla sofferenza del tipo "scherza con il fuoco". Probabilmente avevo bisogno di farlo. Guardai il bel viso di Sheila, un po' piegato sulla sinistra, con gli occhi bassi e assorti, e sentii una stretta al cuore. So che vi suonerà un po' melodrammatico, ma potrei rimanere ore a fissare Sheila. E non per la sua bellezza, che comunque non definirei classica - con quei lineamenti leggermente fuori centro per cause genetiche o, più probabilmente, per colpa del suo cupo passato - ma per il viso così pieno di vivacità, così curioso e al tempo stesso delicato da far temere che un nuovo colpo possa mandarla irreparabilmente in frantumi. Sheila mi faceva venire voglia - questa passatemela, vi prego - di essere coraggioso per lei. Fece un mezzo sorriso senza alzare lo sguardo. «Dacci un taglio.» «Non sto facendo niente.» Lei finalmente sollevò lo sguardo e notò l'espressione sul mio viso. «Che c'è?» mi chiese. Mi strinsi nelle spalle. «Tu sei il mio mondo» le dissi semplicemente. «Anche tu non sei male.»
«Ma è vero.» Finse di tirarmi uno schiaffo. «Ti amo, lo sai.» «E che altro potresti fare se non amarmi?» Alzò gli occhi al cielo. Poi le cadde lo sguardo sul lato del letto dove dormiva mia madre. E il suo viso si distese. «A che pensi?» le chiesi. «A lei.» Sorrise. «Mi piaceva sul serio.» «Peccato tu non l'abbia conosciuta prima.» «Peccato davvero.» Ci mettemmo a guardare alcuni ritagli ingialliti. Annunci di nascite: quella di Melissa, di Ken, la mia. Articoli sui successi tennistici di Ken. I suoi trofei, tutti quegli ometti di bronzo in miniatura colti a metà del servizio, ingombravano ancora quella che era stata la stanza di mio fratello. C'erano fotografie, soprattutto vecchie e precedenti il delitto. Sunny: piena di sole. Era stato quello il soprannome di mia madre fin dall'infanzia. E le si addiceva. Trovai una sua foto da presidente dell'Associazione genitoriinsegnanti. Non so che cosa stesse facendo, ma era su un palcoscenico con un buffo cappello in testa e tutti gli altri sembravano morire dal ridere. C'era un'altra foto, alla fiera di beneficenza della scuola, in cui lei indossava un costume da clown. Sunny era l'adulta preferita dai miei compagni. Erano contenti quando toccava a lei portarci a scuola in auto. Volevano sempre che il picnic di classe si svolgesse da noi. Sunny, pur restando fedele al suo compito, non ti faceva mai pesare il suo ruolo di mamma. Era abbastanza "diversa", forse un po' folle, e quindi imprevedibile. Era una donna divertente, circondata sempre da un'aura di effervescenza, per così dire. Rimanemmo lì più di due ore. Sheila se la prese comoda, guardando attentamente ogni foto. E socchiuse le palpebre osservandone una in particolare. «Questo chi è?» Mi porse la foto. Sulla sinistra si vedeva mia madre, con un bikini giallo quasi osceno per l'epoca, avrei detto il '72, e piena di curve. Teneva timidamente il braccio sulle spalle di un tipo basso, con baffi scuri e un sorriso felice. «Re Hussein» risposi. «Come?» Annuii. «Re, come dire regno di Giordania?» «Sì. Papà e mamma l'avevano incontrato al Fontainebleau di Miami.» «E allora?»
«Mamma gli chiese se si sarebbe lasciato fotografare con lei.» «Vuoi scherzare?» «Ecco la prova.» «Ma non aveva guardie del corpo o roba del genere?» «Probabilmente mamma non sembrava armata.» Sheila rise. Mi ricordai di quando mamma mi aveva raccontato quell'episodio. Il suo mettersi in posa con re Hussein, la macchina fotografica di papà che non funzionava, lui che biascicava qualcosa sottovoce, mamma che lo fulminava con lo sguardo perché si sbrigasse, il re in paziente attesa e il capo della sicurezza che controllava la macchina, risolveva il problema e la porgeva di nuovo a papà. Mia madre Sunny. «Era così cara» disse Sheila. È un ignobile cliché affermare che una parte di mamma era morta dopo la scoperta del corpo di Julie Miller, ma il guaio dei cliché è che spesso sono azzeccatissimi. La sua verve si placò, scomparve. Appena seppe del delitto non fece scene, non scoppiò in un pianto isterico. Più di una volta avrei voluto che fosse stata questa la sua reazione. La mia mamma imprevedibile si fece terribilmente prevedibile. Il suo modo di fare divenne piatto, monotono, privo di passione si potrebbe dire: il che, in una come lei, era più doloroso da constatare delle sue più bizzarre buffonate. Suonarono alla porta. Guardai dalla finestra della stanza da letto e vidi il furgoncino della rosticceria Eppes-Essen. Appetitosi sandwich per i partecipanti alle esequie. Papà, ottimisticamente, aveva ordinato troppa roba. Un'altra delusione, l'ennesima. Era rimasto in questa casa come il comandante del Titanic. Ricordo come aveva agitato il pugno la prima volta che ci avevano fatto saltare i vetri delle finestre con un fucile ad aria compressa, poco tempo dopo il delitto. Mamma avrebbe voluto cambiare città, credo. Papà no. Andarsene per lui sarebbe equivalso a una resa, avrebbe significato ammettere la colpevolezza del figlio. Andarsene sarebbe stato un tradimento. Stupido. Sheila non mi aveva staccato gli occhi di dosso. Il suo calore era quasi palpabile, un raggio di sole aggiuntivo sul mio viso, e per un momento me ne lasciai inondare. Ci eravamo conosciuti sul lavoro, circa un anno prima. Sono il direttore della Covenant House, sulla Quarantunesima strada a New York. Siamo una fondazione benefica che aiuta i giovani fuggiti da casa. Sheila si era presentata come volontaria. Veniva da un paesino dell'I-
daho, anche se sembrava che le fosse rimasto ben poco della ragazza di paese. Mi disse che molti anni prima era fuggita di casa anche lei e fu tutto quello che riuscii a sapere del suo passato. «Ti amo» le dissi. «E che altro potresti fare se non amarmi?» replicò. Non alzai gli occhi al cielo. Sheila era stata molto vicina a mia madre, verso la fine. Prendeva il pullman della Community Line alla stazione di Port Authority e scendeva a Norfolk Avenue, proseguendo a piedi fino al St Barnabas Medical Center. Mamma, prima di ammalarsi, era stata per l'ultima volta al St Barnabas quando mi aveva messo al mondo. Probabilmente questo particolare ha un suo significato profondo, qualcosa a che fare con i due estremi del ciclo vitale, ma al momento mi era sfuggito. Avevo comunque visto Sheila assistere mia madre, e la cosa mi aveva fatto pensare. Corsi il rischio. «Dovresti chiamare i tuoi genitori» dissi quasi sottovoce. Lei mi guardò come se le avessi dato uno schiaffone. Poi scivolò giù dal letto. «Sheila?» «Non è il momento, Will.» Presi una foto incorniciata dei miei genitori abbronzati, in vacanza. «Mi sembra un momento come un altro.» «Non sai niente dei miei.» «E mi piacerebbe saperlo.» Mi voltò le spalle. «Hai lavorato con i ragazzi fuggiti da casa» mi disse. «E allora?» «Sai quanto può essere dura.» Lo sapevo. Ripensai ai suoi lineamenti leggermente fuori centro. Il naso, per esempio, con quella gobba fin troppo eloquente, e cominciai a farmi delle domande. «So anche che se non ne parli è peggio.» «Ne ho parlato, Will.» «Non con me.» «Non sei il mio terapeuta.» «Sono l'uomo che ami.» «Sì.» Si voltò verso di me. «Ma non ora, va bene? Ti prego.» Non sapevo che cosa risponderle, ma probabilmente aveva ragione. Le mie dita stavano giocando distrattamente con la cornice. E fu allora che avvenne. La foto scivolò di qualche millimetro dentro la cornice.
Da sotto cominciò a fare capolino un'altra. Spostai ancora leggermente quella di sopra e apparve una mano. Cercai di spingere ancora, ma senza alcun risultato. Le mie dita trovarono allora il fermo sul retro della cornice, lo spostai e lasciai cadere sul letto la parte posteriore. Seguita immediatamente dalle due foto. La prima raffigurava i miei genitori in crociera. Avevano un'aria felice e rilassata quale forse non mi era mai capitato di vedere in papà e mamma. Ma ad attirare la mia attenzione fu la foto sottostante, quella nascosta. La data che si leggeva nel timbro rosso, sul retro, risaliva a meno di due anni prima. Era stata scattata in un prato o su una collina, qualcosa del genere. Sullo sfondo non si vedevano case ma solo monti dalle cime coperte di neve, come nella prima scena di Tutti insieme appassionatamente. L'uomo ritratto nella foto portava pantaloni corti, vecchi scarponcini da escursione, aveva sulla schiena uno zaino e sul naso un paio di occhiali da sole. Il suo sorriso era familiare. E lo era anche il suo viso, nonostante le rughe che l'attraversavano. I capelli erano lunghi. La barba aveva qualche filo grigio. Ma era impossibile sbagliarsi. L'uomo della foto era mio fratello Ken. 2 Mio padre sedeva da solo in veranda, sul retro della casa. Era scesa la sera e lui se ne stava immobile a fissare l'oscurità. Mi stavo avvicinando a lui da dietro, quando all'improvviso uno sgradevole ricordo mi bloccò. Un giorno, circa quattro mesi dopo l'uccisione di Julie, avevo trovato mio padre in cantina, e mi dava le spalle, come ora. Pensava che la casa fosse vuota. Sul palmo della mano destra aveva poggiato la sua Ruger calibro 22. Stava cullandola con la massima tenerezza, come avrebbe fatto con un piccolo animale. Non mi sono mai spaventato tanto in vita mia come quella volta. Rimasi lì, incapace di muovermi. Lui teneva gli occhi fissi sull'arma. Dopo alcuni lunghi minuti risalii in punta di piedi i pochi gradini scesi e finsi di essere appena entrato. Quando arrivai ai piedi delle scale la pistola era scomparsa. Non mi staccai da lui per una settimana. Superai la porta scorrevole di vetro. «Ehilà» gli dissi. Si voltò, con il viso che gli si allargava già in un sorriso. Per me l'aveva sempre, un sorriso. «Ehi, Will» mi salutò, e la sua voce roca s'ingentilì. Papà era sempre contento di vedere i suoi figli. Prima che accadesse ciò
che era accaduto papà era un tipo abbastanza popolare. Piaceva alla gente. Era cortese e disponibile, anche se a volte un po' brusco, e proprio questa ruvidezza lo rendeva ancora più disponibile. Ma spesso sorrideva a qualcuno senza che di questo qualcuno gli importasse più di tanto. Il mondo di papà era la sua famiglia, nient'altro aveva importanza per lui. Le sofferenze degli estranei, e a volte anche quelle degli amici, non lo toccavano mai: al centro dei suoi sentimenti c'eravamo noi. Sedetti sulla poltroncina accanto a lui, senza sapere ancora come affrontare l'argomento. Respirai a fondo un paio di volte e mi accorsi che lo stesso stava facendo lui. Mi sentivo meravigliosamente al sicuro con papà. Sarà stato anche vecchio e stanco, e ormai io ero più alto e più forte, ma sapevo che in ogni caso lui si sarebbe sempre fatto avanti per prendersi il colpo al posto mio. E che io avrei continuato a farmi indietro per lasciargli il compito di proteggermi. «Devo tagliare quel ramo» mi disse, puntando un dito nell'oscurità. Non vedevo nulla. «Sì.» La luce proveniente dalla porta a vetri colpì il suo profilo. La rabbia si era dissolta e mio padre era di nuovo a pezzi. A volte penso che abbia veramente tentato di assorbire lo choc della morte di Julie, ma che si sia ritrovato invece con il culo per terra. Nei suoi occhi si leggeva ancora quella fiamma, lo sguardo di chi si è preso all'improvviso un cazzotto allo stomaco e si domanda ancora come sia successo. «Stai bene?» mi chiese. Era il suo consueto motivetto d'apertura. «Sì» risposi. «Insomma, non proprio bene ma...» Papà agitò una mano. «Già, proprio una domanda scema.» Ripiombammo nel silenzio. Lui si accese una sigaretta. Non fumava mai dentro casa: la salute dei figli e via di seguito. Aspirò una boccata e poi, come se avesse all'improvviso ricordato, mi guardò e la spense. «È tutto a posto» gli dissi. «Tua madre e io avevamo deciso che non avrei mai fumato qui.» Non mi andava di discutere. Unii le mani e me le poggiai in grembo. Poi presi il toro per le corna e affrontai l'argomento. «Mamma mi ha detto qualcosa prima di morire.» Si voltò verso di me con gli occhi socchiusi. «Mi ha detto che Ken è ancora vivo.» Papà s'irrigidì, ma solo per un secondo. Sul viso gli si dipinse un mesto sorriso. «Era la morfina, Will.»
«È quello che ho pensato anche io. All'inizio.» «E ora?» Guardai il suo viso, in cerca di qualche segno che potesse farmi pensare a una volontà d'ingannarmi. Erano girate delle voci, ovviamente. Ken non era ricco e molti si erano chiesti come avesse fatto a mantenersi durante tutti quegli anni di latitanza. Secondo me non si era mantenuto affatto, essendo morto anche lui quella notte. Altri, probabilmente la maggioranza, credevano che fossero i miei genitori a fargli avere di nascosto dei soldi. «Mi piacerebbe sapere perché dopo tanti anni mamma abbia dovuto dire una cosa del genere» insistei. «La morfina» ripeté lui. «Stava morendo, Will.» La seconda parte di quella risposta sembrava comprendere troppe cose. Feci passare qualche attimo. «Credi che Ken sia vivo?» chiesi poi a mio padre. «No» rispose. E distolse lo sguardo. «Mamma ti aveva detto niente?» «A proposito di tuo fratello?» «Sì.» «Più o meno quello che aveva detto a te.» «Cioè che Ken sarebbe ancora vivo?» «Sì.» «E nient'altro?» Papà si strinse nelle spalle. «Mi ha detto che non l'aveva uccisa lui, Julie. Ha aggiunto che sarebbe già tornato se non avesse avuto prima qualcosa da fare.» «Che cosa?» «Mamma diceva parole senza senso, Will.» «Tu gliel'hai chiesto?» «Naturalmente. Ma lei ormai stava in pratica delirando e non mi sentiva più. "Shhh" le ho fatto. "Tutto si risolverà, stai tranquilla."» Distolse nuovamente lo sguardo. Ebbi la tentazione di mostrargli la foto di Ken, ma poi decisi di no. Volevo riflettere bene prima di imboccare quella china. «"Tutto si risolverà, stai tranquilla"» ripeté. Attraverso la porta a vetri vidi uno di quei cubi portafoto, con le vecchie immagini a colori che la luce del sole aveva sbiadito trasformandole in macchie giallo-verdi. Non esistevano foto recenti, in quella stanza. Casa nostra era intrappolata in una specie di bozzolo che si era cristallizzato un-
dici anni prima, come in quella vecchia canzone in cui l'orologio a pendolo del nonno si ferma quando il vecchio muore. «Torno subito» disse papà. Lo guardai alzarsi e allontanarsi fin quando non credette di essere fuori dalla portata del mio sguardo. Ma nell'oscurità distinguevo la sua sagoma. Lo scorsi abbassare la testa mentre le spalle cominciavano a scuotersi. Non avevo mai visto mio padre piangere. E non volevo cominciare in quel momento. Mi voltai, ricordandomi all'improvviso dell'altra foto, quella dei miei genitori abbronzati e felici in crociera. E non esclusi che anche lui stesse pensando a quella foto. Quando mi svegliai, a notte fonda, Sheila non era a letto. Mi misi a sedere e rimasi ad ascoltare. Nulla, almeno nell'appartamento. Udivo il normale ronzio notturno della strada, che saliva da diciotto piani più sotto. La luce del bagno era spenta. Tutte le luci della casa erano spente. Pensai di chiamarla, ma c'era un che di fragile in quel silenzio, fragile come una bolla di sapone. Scesi dal letto. L'appartamento non era grande, aveva una sola camera da letto. Mi spostai in salotto e vidi Sheila seduta sul davanzale della finestra a fissare la strada, giù in basso. Guardai la sua schiena, il suo collo di cigno, le meravigliose spalle, i capelli che le scendevano sulla pelle candida e provai di nuovo una fitta al cuore. La nostra relazione era ancora allo stadio delle prime pene d'amore, quell'amore che ti fa pensare quant'è bello vivere, la fase in cui non se ne ha mai abbastanza l'uno dell'altro, quella meravigliosa corsa attraverso il parco per vederla, quell'emozione che ti si agita dentro e che sai, sai, muterà quanto prima per trasformarsi in qualcosa di più ricco e profondo. Prima di allora ero stato innamorato una sola volta. Ma tanto, tanto tempo prima. «Ehi» le dissi. Si voltò un po', ma fu sufficiente. C'erano lacrime sulle sue guance, le vidi scivolare al chiaro di luna. Lei non emise suono, niente pianti o singhiozzi, niente pugni a percuotersi il petto. Soltanto lacrime. Rimasi sulla soglia, non sapendo che fare. «Sheila?» La seconda volta che ci eravamo visti, Sheila mi aveva fatto un giochetto
con le carte. Io ne avevo prese due e le avevo infilate nel mazzo mentre lei girava la testa dall'altra parte per non vedere, poi lei aveva lanciato sul pavimento una a una tutte le carte tranne quelle che avevo scelto. Sorrideva beata per la riuscita del gioco, con le mie due carte sollevate perché potessi controllare. Le avevo ricambiato il sorriso. La cosa era, come dire, ridicola. Ma Sheila era effettivamente ridicola. Le piacevano i giochetti con le carte, i cioccolatini alla ciliegia e le boy band. Cantava romanze d'opera, leggeva con grande voracità e piangeva vedendo in televisione certi spot. Sapeva imitare abbastanza efficacemente Homer Simpson e Mr Burns, anche se le imitazioni di Smithers e Apu non erano il suo forte. E, soprattutto, a Sheila piaceva ballare. Amava chiudere gli occhi, poggiare la testa sulla mia spalla e svanire nel nulla. «Mi dispiace, Will» disse senza voltarsi. «Di che cosa?» Non spostò gli occhi dalla strada, giù in basso. «Torna a letto. Ti raggiungo tra cinque minuti.» Avrei voluto rimanere, trovare qualche parola di conforto. Non lo feci. In quel momento era irraggiungibile, qualcosa l'aveva portata via. Le parole o i gesti sarebbero stati superflui o rischiosi. Questo, almeno, è ciò che mi dissi. Poi commisi un grosso errore: andai a letto e attesi. Ma Sheila non tornò più. 3 Las Vegas, Nevada Morty Meyer dormiva come un ghiro nel suo letto, supino, quando sentì sulla fronte la pressione di una canna di pistola. «Svegliati» disse una voce. Gli occhi di Morty si spalancarono. La stanza era immersa nel buio. Tentò di sollevare la testa, ma la canna della pistola glielo impedì. Lo sguardo gli scivolò sul quadrante della radiosveglia sul comodino. Ma non c'era nessuna radiosveglia, sul comodino. Non l'aveva da anni, ripensandoci. Da quando Leah era morta, almeno. Da quando aveva venduto quella casa coloniale con le sue quattro stanze da letto. «Ce la farò» disse Morty. «Lo sapete, ragazzi.» «Alzati.» L'uomo spostò la pistola. Morty sollevò la testa. Gli occhi cominciarono
ad abituarsi alla semioscurità e lui notò un foulard sul viso dell'uomo. Allora gli venne in mente quel programma alla radio che ascoltava da adolescente. «Mi serve il tuo aiuto, Morty.» «Ci conosciamo?» «Alzati.» Morty obbedì. Tirò le gambe fuori dal letto e, quando si alzò, la sua testa protestò mettendosi a girare. Morty barcollò, nel bel mezzo di quella fase in cui i sintomi della sbornia si stanno dissolvendo e i postumi si manifestano come una tempesta in arrivo. «Dov'è la tua borsa da medico?» gli chiese l'uomo. Il sollievo invase le vene di Morty. Si trattava di questo, allora. Morty cercò con lo sguardo una ferita, ma non c'era luce sufficiente. «Tu?» chiese. «No. Lei è in cantina.» Lei? Morty allungò un braccio sotto il letto e tirò fuori la borsa di pelle, vecchia e consumata. Le sue iniziali dorate, una volta lucidissime, erano ormai scomparse. La lampo non si chiudeva completamente. Leah aveva comprato quella borsa più di quarant'anni prima, quando lui si era laureato in medicina alla Columbia University. Per i trent'anni successivi Morty aveva lavorato all'ospedale di Great Neck. Lui e Leah avevano messo al mondo e tirato su tre ragazzi. E ora, vicino ai settanta, si era ridotto a vivere in una topaia e doveva soldi e favori un po' a tutti. Il gioco. Era questa la dipendenza che Morty si era scelto. Per anni era stato un giocatore accanito, ma riusciva a tenere sotto controllo i demoni che lo assalivano. Secondo alcuni anche grazie a Leah, e forse era vero. Però, alla fine, i demoni avevano avuto la meglio. È sempre così, alla fine vincono loro. Dopo la morte di Leah, lui non trovò più alcuna ragione per combattere. Lasciò che i demoni gli piantassero gli artigli nelle carni e ne facessero scempio. Aveva perduto tutto, compresa la sua licenza di medico. E si era trasferito a ovest, in quella specie di cesso. Giocava in pratica ogni sera. I figli, ormai adulti e padri di famiglia, non gli telefonavano più. Lo accusavano di aver fatto morire la loro madre, dicevano che l'aveva fatta invecchiare anzitempo. E forse avevano ragione. «Svelto» disse l'uomo. «Arrivo.»
Scesero le scale che portavano in cantina. Morty notò che la luce era accesa. L'edificio nel quale si era ricavato quella squallida cuccia aveva ospitato un tempo un'agenzia di pompe funebri e lui aveva preso in affitto una stanza al pianterreno. Il che significava poter usare il seminterrato, dove una volta venivano parcheggiati e preparati i cadaveri. In un angolo in fondo c'era uno scivolo arrugginito da parco-giochi, all'altezza di un'apertura che si affacciava sul parcheggio alle spalle dell'edificio. Era quello il sistema per calare i cadaveri in cantina. Le pareti erano coperte da mattonelle, molte delle quali incrinate dopo anni di abbandono. Per aprire il rubinetto dell'acqua bisognava usare un paio di pinze. Quasi tutte le ante degli armadi erano cadute. La puzza di morte era ancora sospesa nell'aria, simile a un vecchio spettro che si rifiuta di andarsene. La donna ferita giaceva su un tavolo d'acciaio e Morty si accorse subito che era conciata male. Si voltò verso l'Ombra. «Aiutala» disse l'uomo. A Morty non piacque quel timbro di voce. C'era della rabbia, certo, ma il sentimento dominante sembrava quello di una nuda disperazione, la voce più che ordinare era sembrata implorare. «Non si presenta bene» disse Morty. L'uomo gli premette la pistola contro il torace. «Se muore, muori anche tu.» Morty inghiottì a vuoto. Fin troppo chiaro. Si avvicinò alla donna. Per anni aveva curato e ricucito uomini, in quella cantina, ma mai una donna. Era così che Morty si guadagnava da vivere, per modo di dire. Qualche punto di sutura e via. Se ti presenti a un pronto soccorso con una ferita d'arma da fuoco o da coltello, il medico di turno è obbligato a fare denuncia alla polizia. Per evitarlo, molti si rivolgevano al rudimentale pronto soccorso di Morty. Gli tornarono in mente in un lampo le tre priorità da osservare in questi casi, come gli avevano insegnato all'università: ventilazione, respirazione, circolazione. Il respiro della donna era affannoso e gorgogliante. «L'hai conciata tu così?» L'Ombra non rispose. Morty si mise al lavoro, dando il meglio di sé. In pratica dovette rattopparla. Alla fine le condizioni di quella poveraccia si stabilizzarono, gli parve. Quindi lo sconosciuto se la sarebbe potuta portare vìa. L'uomo la sollevò delicatamente tra le braccia. «Se dici una parola...» «Ho avuto minacce peggiori.»
L'Ombra si allontanò in fretta. Morty rimase in cantina, con i nervi ancora tesi per quella sveglia a sorpresa. Sospirò e decise di tornarsene a dormire. Ma prima di risalire le scale commise un errore imperdonabile. Guardò dalla finestrella. Lo sconosciuto portò la donna fino all'auto e con la massima attenzione, quasi teneramente, la depose sul sedile posteriore. Morty rimase a osservare la scena. E all'improvviso notò del movimento. Allora guardò attentamente e si sentì dilaniare da un brivido. Un altro passeggero. C'era un altro passeggero sul sedile posteriore, uno che stonava terribilmente in quel contesto. Morty allungò istintivamente il braccio verso il telefono, ma si bloccò prima ancora di sollevare la cornetta. Chi avrebbe potuto chiamare? E per dire che cosa? Allora chiuse gli occhi come per scacciare l'immagine che aveva appena visto. Si trascinò sulle scale e si infilò a letto. Poi si mise a fissare il soffitto cercando di dimenticare. 4 Il biglietto lasciato da Sheila era breve e dolce: Ti amerò sempre. S Non era tornata a letto. Immagino che avesse passato tutta la notte guardando fuori dalla finestra. C'era stato un silenzio completo fin quando, verso le cinque di mattina, l'avevo sentita scivolare via. Non era un'ora strana, quella. Sheila si svegliava sempre presto, mi ricordava quella vecchia pubblicità dell'Esercito in cui si sosteneva che prima delle nove di mattina si riesce a combinare più di quanto gli altri fanno nel resto della giornata. Sheila, insomma, era il tipo di donna che conoscete bene, quella che ti fa sembrare un lavativo, e tu l'ami per questo. Mi aveva detto una volta, ma solo quella volta, che si era abituata ad alzarsi presto negli anni in cui aveva lavorato alla fattoria. Ma quando le avevo chiesto altri particolari, lei si era subito richiusa come un'ostrica. Il passato era una riga tracciata sulla sabbia, e la si oltrepassava a proprio rischio e pericolo. Il suo modo di fare, più che preoccuparmi, mi confondeva. Feci la doccia e mi vestii. La foto di mio fratello era dentro il cassetto
della scrivania. La tirai fuori e rimasi a lungo a studiarla. Nel petto avvertivo una sensazione di vuoto, avevo in testa un turbinio di pensieri, il cervello sembrava danzare nella scatola cranica, ma ogni sensazione era sovrastata da un'unica, semplicissima considerazione. Ken ce l'aveva fatta. Vi chiederete forse che cosa mi avesse convinto in tutti quegli anni che mio fratello era morto. In parte, confesso, questa certezza veniva da una vecchia convinzione mischiata con la cieca speranza. Amavo mio fratello. E lo conoscevo. Ken non era perfetto. Ken si accendeva come un fiammifero e vedersela faccia a faccia con qualcuno rappresentava per lui un invito a nozze. Ken era coinvolto in qualche sporca storia. Ma Ken non era un assassino. Di questo ero sicuro. Ma, oltre a questa bizzarra fiducia, c'era soprattutto qualcosa che aveva a che fare con la teoria della famiglia Klein. Anzitutto, come aveva fatto Ken a sopravvivere nella clandestinità tutti quegli anni? In banca, all'epoca del fatto, aveva soltanto ottocento dollari: dove li aveva trovati i mezzi per sottrarsi a quella caccia all'uomo in mezzo mondo? E che motivo poteva mai aver avuto di uccidere Julie? Perché in quegli undici anni non si era mai messo in contatto con noi? Perché era così agitato quando ci era venuto a trovare per l'ultima volta? Perché mi aveva detto di essere in pericolo? E perché, ripensandoci, non avevo insistito per tirargli fuori qualcosa di più Ma più preoccupante - o incoraggiante, a seconda dei punti di vista - era stato il sangue trovato sul posto. In parte era di Ken. In cantina ce n'era una larga chiazza, e delle goccioline punteggiavano i gradini fino alla porta d'ingresso. Un'altra grossa macchia era stata trovata su un cespuglio nel giardinetto alle spalle di casa Miller. La teoria della famiglia Klein era la seguente: il vero assassino aveva ucciso Julie e ferito gravemente mio fratello, che sarebbe poi morto. La teoria della polizia era più semplice: Julie aveva opposto resistenza. C'era un altro elemento a sostegno della teoria della famiglia Klein, un elemento riferibile direttamente a me: per questo, immagino, nessuno l'aveva preso sul serio. Quella sera, cioè, avevo visto un uomo appiattato vicino alla casa dei Miller. Come dicevo, stampa e autorità non mi presero sul serio in quanto io avevo tutto l'interesse a scagionare mio fratello, ma questo è importante per capire la teoria dei Klein. Alla fine, la mia famiglia si trovò davanti a un'al-
ternativa: potevamo, cioè, accettare l'idea che mio fratello avesse ucciso una donna giovane e bella senza alcun motivo e che poi fosse riuscito a finanziarsi per undici anni la latitanza senza evidenti fonti di reddito (e questo, non lo dimentichiamo, nonostante il prolungato risalto dato dalla stampa alla vicenda e la massiccia caccia all'uomo scatenata dalla polizia). Altrimenti potevamo credere che Ken avesse fatto sesso con Julie Miller, lei consenziente (come molte tracce stavano a dimostrare), e che poi si fosse infilato in qualche casino oppure che qualcuno - lo stesso forse che io avevo visto nascondersi quella sera davanti alla casa di Coddington Terrace - l'avesse terrorizzato e poi incastrato per un delitto che non aveva commesso, uccidendolo e assicurandosi che il cadavere non fosse più trovato. Non dico che questa ricostruzione fosse perfetta. Ma conoscevamo Ken e lui non poteva avere fatto ciò che la gente diceva. Qual era, allora, l'alternativa? Alcuni davano credito alla teoria della mia famiglia, ma la grande maggioranza era rappresentata da gente con la fissa del complotto, quelli per intenderci convinti che Elvis e Jimi Hendrix continuino a suonare su qualche isoletta sperduta al largo delle isole Figi. I notiziari TV dedicarono alla nostra teoria dei servizi così superficiali e ironicamente increduli, che lo spettatore si sarebbe aspettato di vedere da un momento all'altro il televisore lanciargli un sorrisetto. Con il passare del tempo la mia difesa di Ken si fece meno appassionata. Potrò sembrarvi egoista, ma volevo una mia vita. Volevo farmi una posizione. Non volevo essere il fratello di un noto assassino latitante. La Covenant House, ne sono certo, mi ha assunto tra mille riserve. E come criticarli? Anche se sono uno dei responsabili, il mio nome non compare sulla carta intestata. Non partecipo alle manifestazioni per la raccolta di fondi. Il mio lavoro si svolge rigorosamente dietro le quinte. E la cosa mi sta quasi sempre bene. Guardai di nuovo la foto di un uomo così familiare e al tempo stesso così sconosciuto. Possibile che mia madre avesse mentito fin dall'inizio? Che avesse aiutato Ken, dicendosi poi convinta che fosse morto quando ne parlava con me o con mio padre? Ora che ci penso, era stata proprio lei a sostenere con la maggiore tenacia il teorema della morte di Ken. Possibile che gli avesse passato soldi sottobanco per tutto quel tempo? Che avesse sempre saputo dove si era rifugiato il figlio?
Quante domande su cui riflettere. Mi costrinsi a distogliere lo sguardo da quella foto e aprii un armadietto della cucina. Avevo deciso che non sarei tornato a Livingston quella mattina, mi veniva da gridare al pensiero di starmene seduto un'altra giornata in quella casa trasformata in bara, e poi avevo bisogno di andare al lavoro. Mia madre non solo avrebbe capito ma mi avrebbe incoraggiato, ne ero certo. Mangiai una scodella di cereali e chiamai la segreteria telefonica dell'ufficio di Sheila, lasciando detto che l'amavo e pregandola di richiamarmi. Il mio appartamento - be', ora è il nostro appartamento - è sulla Ventiquattresima strada, all'altezza della Nona Avenue, non lontano dal Chelsea Hotel. Dista diciassette isolati dalla Covenant House, che ha sede sulla Quarantunesima non lontano dalla West Side Highway, e di solito vado a lavorare a piedi. Quella dove si trovava il mio ufficio era la zona ideale per aprirvi un rifugio di sbandati prima della grande pulizia della Quarantaduesima, quando questo tratto puzzolente di strada era il bastione del degrado più sfacciato. La Quarantaduesima era una specie di anticamera dell'inferno, dove si realizzava un'amorosa e un po' grottesca mescolanza della specie. Pendolari e turisti passavano davanti a prostitute, spacciatori, magnaccia, sex shop e cinema a luci rosse. Arrivati alla fine potevano, in alternativa, sentirsi eccitati oppure smaniare per infilarsi sotto la doccia e farsi iniettare una dose di penicillina. Per come la vedo io, quella perversione era così sporca e triste da deprimerti. Sono un uomo, e ho i miei impulsi sessuali, come quasi tutti gli uomini di mia conoscenza. Ma non ho mai capito come si faccia a considerare erotica la miseria di una donna sdentata e strafatta di crack. La grande operazione di pulizia di quell'area ci aveva in un certo senso complicato il lavoro. Noi della Covenant House sapevamo dove andare con il nostro furgone a recuperare sbandati che erano facilmente individuabili. Dopo la pulizia scovarli si fece più difficile. E, ciò che è peggio, la città non era effettivamente più pulita: lo era solo in apparenza. I cittadini cosiddetti perbene, quei pendolari e turisti dei quali parlavo, non dovevano più passare davanti a tutte quelle vetrine scure con la scritta SOLO PER ADULTI né davanti alle insegne cadenti di tuguri dove si proiettavano film i cui titoli erano parafrasi licenziose di titoli famosi. Ma la sporcizia di questo tipo non muore mai. La sporcizia è uno scarafaggio. Sopravvive. Si rintana, si nasconde. Non credo che la si possa eliminare. Nascondere la sporcizia ha poi degli aspetti negativi. Quando è visibile
puoi fartene beffe e sentirti superiore. La gente ha bisogno di sentirsi superiore, per alcuni è uno sfogo. Che cosa sceglieresti tra un assalto frontale e un pericolo che si nasconde nell'erba alta come un serpente? Infine, ma forse sto esagerando, non esiste un davanti senza un dietro, un sopra senza un sotto, e non credo che si possa avere luce senza buio, purezza senza sporcizia, bene senza male. Il primo colpo di clacson non mi fece voltare. Vivo a New York ed evitare i clacson camminando lungo le strade equivale a evitare l'acqua nuotando. Perciò mi voltai soltanto quando udii quella voce familiare gridarmi: «Ehi, stronzo!». Il furgone della Covenant House mi si fermò accanto in uno stridio di freni. Squares era il guidatore e l'unico occupante. Abbassò il finestrino e si tolse di scatto gli occhiali da sole. «Sali» disse. Aprii lo sportello e saltai a bordo. Tutto il furgone puzzava di sigarette e anche, vagamente, dei panini alla mortadella che distribuivamo ogni notte. Sul pavimento c'erano macchie di ogni tipo. Il cassetto del cruscotto era una specie di caverna vuota. Le molle dei sedili erano sfondate. Squares teneva gli occhi sulla strada. «Dove diavolo stai andando?» «Al lavoro.» «Perché?» «Terapia.» Lui annuì. Aveva girato tutta la notte alla guida di quel furgone, simile a un angelo in cerca di ragazzini da salvare. Non era bello da vedere, ma non lo era nemmeno quando aveva cominciato questo lavoro. Portava i capelli lunghi stile Aerosmith anni Ottanta, con la riga in mezzo e piuttosto unti. Credo di non averlo mai visto rasato di fresco, ma neanche con il barbone o con quella barbetta di pochi giorni tipo Miami Vice. Le zone di pelle visibili erano segnate da cicatrici lasciate dall'acne. Gli scarponi da lavoro erano talmente consumati da apparire quasi bianchi. I jeans sembravano aver subito una carica di bisonti in mezzo alla prateria ed erano troppo larghi in vita facendolo sembrare il tipo dell'elettricista sexy che tanto piace alle casalinghe. Aveva infilato un pacchetto di Carnei dentro il risvolto di una manica arrotolata. I denti erano ingialliti dal tabacco. «Sei conciato di merda» mi disse. «Detto da te ha un suo preciso significato.» Gli piacque. Lo chiamavamo "Squares", "quadrati", abbreviarivo di "quattro quadrati", per via del tatuaggio sulla fronte. Ora che Squares era un affermato istruttore di yoga, con tanto di videocassette e una catena di
palestre, quasi tutti ritenevano che quel tatuaggio raffigurasse qualche importante simbolo indù. Nulla di tutto questo. Quel tatuaggio un tempo era una svastica. Lui si era limitato ad aggiungere quattro trattini e l'aveva chiusa. A me risultava difficile convincermene. Squares è forse la persona meno portata a dare giudizi che abbia mai conosciuto. Ed è probabilmente anche il mio migliore amico. Quando mi rivelò l'origine di quei quadrati rimasi sgomento, quasi shoccato. Lui non diede mai spiegazioni né si scusò; proprio come Sheila non parlava mai del suo passato. Altri, però, mi hanno fornito certi particolari e ora lo capisco di più. «Grazie per i fiori che hai mandato» gli dissi. Non rispose. «E grazie anche per essere venuto» aggiunsi. Si era portato dietro, con il furgone, un gruppo di amici della Covenant House che alla fine risultarono essere in pratica gli unici non familiari presenti al funerale. «Sunny era una grande persona» disse. «Sì.» Un momento di silenzio. «Ma quante merde se ne sono rimaste a casa invece di venire al suo funerale!» «Grazie anche per averlo sottolineato.» «Cioè, Gesù, ma quante persone c'erano?» «Mi consoli proprio, Squares. Grazie, amico.» «Vuoi essere consolato? Allora beccati questa: la gente è stronza.» «Aspetta, prendo una penna e me lo scrivo.» Silenzio. Squares si fermò a un semaforo e mi lanciò un rapido sguardo. Aveva gli occhi rossi. Prese dalla manica arrotolata il pacchetto di sigarette. «Vuoi spiegarmi cosa c'è che non va?» «Be', vedi, l'altro giorno è morta mia madre.» «Ah, sì? Non mi dire.» Il semaforo divenne verde e il furgone si rimise in movimento. Mi passò come un lampo davanti agli occhi l'immagine di mio fratello in quella foto. «Squares?» «Ti ascolto.» «Credo che mio fratello sia vivo.» Squares sul momento rimase in silenzio. Tirò fuori dal pacchetto una sigaretta e se l'infilò tra le labbra. «Proprio un'epifania» disse poi. «Un'epifania» ripetei, assentendo con il capo.
«Ho studiato alle serali. Allora, cos'è che ti ha fatto cambiare idea all'improvviso?» Entrò nel piccolo parcheggio della Covenant House. Una volta parcheggiavamo in strada, ma di notte gli sbandati rompevano un vetro o forzavano la serratura per dormire in macchina. Non chiamavamo la polizia, naturalmente, ma cominciò a pesarci il costo dei vetri o delle serrature da cambiare. Dopo un po' cominciammo a non chiudere a chiave il furgone e chi arrivava prima al lavoro la mattina bussava al finestrino. Gli inquilini afferravano al volo il messaggio e se ne andavano in tutta fretta. Ma anche quel sistema non funzionava. Il furgone divenne, senza entrare in particolari, disgustoso e difficile da usare. I barboni non sono sempre carini e lindi. Vomitano. Se la fanno addosso. Spesso non riescono a trovare bagni pubblici. Inutile aggiungere altro. Seduto accanto a Squares mi chiesi come entrare in argomento. «Posso farti una domanda?» Lui rimase in silenzio. «Non mi hai mai detto com'è andata secondo te la faccenda di mio fratello.» «Sarebbe questa la domanda?» «Chiamiamola un'osservazione.» «Vuoi sapere perché non ti ho mai detto che cosa è successo secondo me quella notte?» «Sì.» Si strinse nelle spalle. «Non me l'hai mai chiesto.» «Ma ne abbiamo parlato tante di quelle volte.» Squares si strinse di nuovo nelle spalle. «Bene, allora te lo domando adesso. Credevi che fosse vivo?» «L'ho sempre creduto.» Capito? «Ma allora tutte quelle chiacchierate che ci siamo fatti, tutte quelle volte che ti ho esposto i miei ragionamenti per cui non poteva che essere morto...» «Ogni volta mi chiedevo se era me che volevi convincere oppure te stesso.» «E non hai mai condiviso i miei ragionamenti?» «Mai, nemmeno una volta.» «Ma non li hai nemmeno mai confutati.» Squares tirò una profonda boccata dalla sigaretta. «Il tuo autoinganno mi sembrava così tenero.»
«L'ignoranza è sinonimo di beatitudine, vero?» «Sì, quasi sempre.» «Ma a volte non potevi non darmi ragione.» «Se lo dici tu.» «Perché, non lo credi?» «Non lo credo» confermò lui. «Dicevi che tuo fratello non aveva i mezzi per nascondersi, ma di quali mezzi aveva bisogno? Pensa solo agli sbandati che vediamo ogni giorno: se uno di loro volesse davvero scomparire, non lo vedremmo più.» «Ma per loro non si scatena una caccia all'uomo internazionale.» «Caccia all'uomo internazionale.» Squares lo disse con un'espressione molto simile al disgusto. «Tu credi che ogni sbirro su questa terra si svegli la mattina pensando a come mettere le mani su tuo fratello?» Non riuscivo a dargli torto, specialmente dopo essermi reso conto che Ken poteva aver ricevuto un aiuto finanziario da nostra madre. «Non avrebbe ucciso nessuno.» «Stronzate» commentò Squares. «Non lo conosci.» «Siamo amici, giusto?» «Giusto.» «Ci credi se ti dico che un tempo bruciavo le croci e gridavo: "Heil Hitler"?» «È diverso.» «No che non lo è.» Scendemmo dal furgone. «Una volta mi hai chiesto perché non mi fossi cancellato il tatuaggio.» «Sì, e tu mi mandasti a fare in culo.» «Proprio così. Avrei potuto farmelo togliere con il laser, oppure modificarlo in modo più elaborato. Ma io lo tengo perché mi serve a ricordare.» «A ricordare che cosa, il passato?» Squares attraversò la strada con il giallo. «Il potenziale.» «Non so che cosa voglia dire.» «Perché sei senza speranza.» «Mio fratello non avrebbe mai violentato e ucciso una povera ragazza innocente.» «Certe scuole yoga insegnano i mantra. Ma ripetere una cosa per ore non la rende vera.» «Sei sul profondo, oggi.» «E tu ti stai comportando da stronzo.» Gettò la sigaretta. «Mi vuoi dire
perché hai cambiato idea?» Eravamo vicini all'ingresso. «Nel mio ufficio» gli dissi. Entrammo in silenzio. La gente si aspetta di trovare una specie di discarica, ma il nostro rifugio è quanto di più lontano si possa immaginare. L'idea di base è che un posto del genere dovrebbe essere come vorresti che fosse se ci finissero i tuoi figli dopo essersi messi nei guai. Un concetto simile stupisce sulle prime i benefattori, anche perché, come molte organizzazioni benefiche, questa sembra decisamente estranea al loro modo di pensare, ma lo stupore aumenta quando vedono come vivono i nostri ospiti. Squares e io tacevamo perché sul lavoro tutta la nostra attenzione e la nostra concentrazione è riservata ai ragazzi. Se lo meritano. Per una volta nelle loro tristi esistenze sono loro quelli che contano di più. Li accogliamo - scusatemi la scelta del paragone - come un fratello smarrito da tempo. Li ascoltiamo. Non gli mettiamo mai fretta. Gli stringiamo la mano e li abbracciamo. Li guardiamo negli occhi. Non evitiamo mai il loro sguardo, ci fermiamo e li affrontiamo. Se cerchi di barare loro se ne accorgono subito, dispongono di eccellenti rivelatori di stronzate. Li amiamo senza riserve, qui alla Covenant House, totalmente e incondizionatamente. È quello che facciamo ogni giorno. Il che non significa che abbiamo sempre successo. E nemmeno che abbiamo quasi sempre successo. Sono più le volte che perdiamo. I ragazzi vengono risucchiati dalla strada. Ma finché rimarranno in questa casa, staranno comodi. Finché resteranno qui, saranno amati. Entrando in ufficio trovammo ad attenderci due persone, un uomo e una donna. Squares si bloccò appena li vide. Sollevò le narici e si mise ad annusare l'aria, come un segugio. «Sbirri» mi disse. La donna sorrise e fece un passo verso di noi. L'uomo rimase dov'era, appoggiandosi distrattamente alla parete. «Will Klein?» «Sì?» Lei mi piazzò un portatessere aperto sotto il naso, e l'uomo la imitò. «Mi chiamo Claudia Fisher, e questo è Darryl Wilcox, siamo agenti speciali dell'Fbi.» «I federali» mi disse Squares sollevando i pollici, come colpito dal fatto che meritassi tanta attenzione. Scrutò attentamente la foto sulla tessera, poi spostò lo sguardo sulla donna. «Perché si è tagliata i capelli?» Claudia Fisher richiuse di scatto il portatessere, poi sollevò un sopracciglio guardando Squares. «E lei sarebbe?»
«Facilmente eccitabile» rispose lui. La donna si incupì, riportando poi lo sguardo su di me. «Vorremmo scambiare due parole con lei. Da solo» precisò. La Fisher era bassa e piuttosto vivace, una specie di studentessa-atleta di liceo molto conscia del suo ruolo e compressa come una molla, il tipo che si diverte ma in modo poco spontaneo. I suoi capelli erano corti e pettinati all'indietro, forse troppo fine anni Settanta, ma le stavano bene. Portava dei piccoli orecchini a cerchietto e aveva un robusto naso aquilino. Noi della Covenant House sospettiamo per natura delle forze dell'ordine. Non ho alcun desiderio di proteggere i criminali, ma non voglio nemmeno essere uno strumento di chi vuole arrestarli. Questo posto deve essere un rifugio sicuro. Collaborare con le forze dell'ordine appannerebbe il nostro credito presso il popolo della strada, e in questo lavoro il credito è tutto. Mi piace pensare a noi come neutrali, la Svizzera degli sbandati. E naturalmente le mie vicende personali, e il modo in cui i federali hanno gestito la faccenda di mio fratello, mi hanno reso poco simpatico ai poliziotti. «Preferirei che restasse» dissi. «Ciò di cui dobbiamo parlare non ha nulla a che fare con lui.» «Faccia conto che sia il mio avvocato.» La Fisher passò in rassegna Squares osservando i jeans, i capelli, il tatuaggio. Lui si aggiustò gli immaginali revers della giacca e sollevò le sopracciglia. Andai alla mia scrivania. Squares sprofondò nella poltrona di fronte a me e fece piombare sul ripiano i suoi scarponi da lavoro, sollevando una nuvoletta di polvere. La Fisher e Wilcox rimasero in piedi. Allargai le braccia. «Cosa posso fare per lei, agente Fisher?» «Stiamo cercando una certa Sheila Rogers.» Non era quello che mi aspettavo di sentire. «Saprebbe indicarci dove potremmo trovarla?» «Perché la state cercando?» chiesi. Claudia Fisher mi gratificò di un sorriso paternalistico. «Le dispiacerebbe dirci dove si trova?» «È nei guai?» «In questo momento...» fece una pausa e modificò il sorriso «vorremmo soltanto farle qualche domanda.» «Su che cosa?» «Si sta rifiutando di collaborare con noi?» «Non sto rifiutando un bel niente.»
«Allora ci dica per favore dove possiamo rintracciare Sheila Rogers.» «Gradirei sapere perché.» Lei guardò Wilcox. Wilcox annuì quasi impercettibilmente e la Fisher riportò su di me la sua attenzione. «Questa mattina l'agente Wilcox e io siamo andati al posto di lavoro di Sheila Rogers, sulla Diciottesima. Lei non c'era. Abbiamo chiesto dove avremmo potuto trovarla. Il suo datore di lavoro ci ha informato che la Rogers aveva telefonato dandosi malata. Siamo andati a cercarla al suo ultimo indirizzo conosciuto. Il padrone di casa ci ha detto che si era trasferita diversi mesi fa. La sua attuale residenza risulta la sua, signor Klein, al 378 della Ventiquattresima ovest. Siamo andati anche lì, ma Sheila Rogers non c'era.» Squares le puntò contro un dito. «Parla veramente bene, lei.» L'agente speciale Fisher lo ignorò. «Non vogliamo complicazioni, signor Klein.» «Complicazioni?» «Abbiamo urgente bisogno d'interrogare Sheila Rogers. Possiamo farlo con le buone. Altrimenti, se non collaborerà, potremmo scegliere un'alternativa molto meno piacevole.» Squares si stropicciò le mani. «Guarda guarda, una vera e propria minaccia.» «Allora, signor Klein, che cosa decide?» «Vorrei che ve ne andaste» risposi. «Che cosa sa sul conto di Sheila Rogers?» La faccenda si stava facendo strana. Cominciava a dolermi la testa. Wilcox infilò la mano nella tasca della giacca e ne estrasse un foglio, porgendolo a Claudia Fisher. «È al corrente dei precedenti penali della signorina Rogers?» mi chiese lei. Cercai di rimanere impassibile, ma anche Squares trasalì a quella domanda. La Fisher cominciò a leggere sul foglio. «Taccheggio. Prostituzione. Possesso di stupefacenti in quantità superiore a quella consentita.» Squares fece una risatina ironica. «L'ora del dilettante.» «Rapina a mano armata.» «Già andiamo meglio» commentò Squares annuendo. Poi sollevò lo sguardo sulla Fisher. «Ma per questo capo d'accusa non è stata condannata, giusto?» «Esatto.» «Quindi, forse, non l'ha fatta lei quella rapina.»
La Fisher si accigliò di nuovo. Io mi mordicchiai il labbro inferiore. «Signor Klein?» «Non posso aiutarla.» «Non può o non vuole?» Continuai a mordicchiarmi il labbro. «È un dettaglio semantico.» «Questa storia ha l'aria di un déjà vu, signor Klein.» «Che diavolo vorrebbe dire?» «Vorrebbe dire che un tempo lei ha coperto suo fratello e ora sta coprendo la sua amante.» «Vada al diavolo.» Squares mi fece una smorfia, chiaramente deluso dalla mia reazione fin troppo blanda. La Fisher non demordeva. «Lei non valuta appieno la serietà di questa faccenda.» «Sarebbe a dire?» «Non considera le ripercussioni. Le faccio un esempio: secondo lei, come reagirebbero i finanziatori della Covenant House se venisse arrestato con l'accusa, diciamo, di favoreggiamento e complicità?» Squares decise che era ora d'intervenire. «Lo sa a chi dovrebbe farla questa domanda?» Claudia Fisher lo guardò arricciando le narici, come se osservasse qualcosa che si era grattata via dalla scarpa. «Joey Pistillo» proseguì Squares. «Scommetto che Joey saprebbe risponderle.» A quel punto furono la Fisher e Wilcox a dondolarsi imbarazzati sui talloni. «Avete un cellulare?» chiese Squares. «Possiamo chiederglielo subito.» La Fisher guardò Wilcox, poi Squares. «Mi sta dicendo che conosce il vicedirettore Joseph Pistillo?» «Lo chiami. Aspetti, forse non conosce il suo numero privato.» Allungò una mano e le fece segno muovendo l'indice di consegnargli il cellulare. «Le dispiace?» Lei gli porse il telefonino. Squares premette dei tasti e poi si portò il cellulare all'orecchio. Si allungò sulla poltrona, sempre con gli scarponi sulla mia scrivania: se avesse avuto sulla testa un cappello da cowboy se lo sarebbe abbassato sugli occhi come per fare una siesta. «Joey? Ciao, bello, come va?» Squares rimase un minuto ad ascoltare,
poi scoppiò a ridere. Si fece una chiacchierata amichevole e vidi la Fisher e Wilcox farsi bianchi come cenci. In circostanze normali quella dimostrazione di potenza mi sarebbe piaciuta, quel contrasto tra il suo passato poco limpido e la sua attuale condizione di celebrità. Una sottile linea separava Squares da quasi tutti... ma in quel momento la mia mente stava annaspando. Dopo qualche minuto, Squares riconsegnò il telefono all'agente Fisher. «Joey vuole parlarvi.» La Fisher e Wilcox si trasferirono in corridoio, richiudendosi la porta alle spalle. «I federali, caro mio» mi fece Squares sollevando i pollici. «Già, sono davvero eccitato.» «Bella sorpresa. Voglio dire, chi se lo sarebbe immaginato che Sheila avesse dei precedenti penali?» Non io. Il colorito era tornato sulle guance della Fisher e di Wilcox, quando rientrarono. Lei porse a Squares il cellulare con un sorriso esagerato. Squares se lo portò all'orecchio. «Dimmi, Joey.» Rimase per un po' ad ascoltare. «Okay» fu la sua ultima parola, e chiuse la comunicazione. «Che c'è?» gli chiesi. «Ho parlato con Joey Pistillo, che è il capoccia dell'Fbi sulla costa orientale.» «E allora?» «Desidera vederti di persona» mi spiegò distogliendo lo sguardo. «Che cosa?» «Non credo che quello che ha da dire ci piacerà.» 5 Il vicedirettore Joseph Pistillo non voleva soltanto vedermi di persona, ma anche da solo. «Ho saputo che sua madre è deceduta» mi disse. «Come ha fatto?» «Prego?» «Ha letto il necrologio sul giornale?» gli chiesi. «Gliel'ha detto un amico? Come ha fatto a sapere che è deceduta?» Ci guardammo. Pistillo era un tipo robusto, calvo con l'eccezione di una sottile corona di capelli grigi tagliati cortissimi, spalle come bocce da bo-
wling, mani giunte sulla scrivania. «Oppure» proseguii, sentendo risvegliarsi in me la vecchia rabbia «ci ha fatto tenere d'occhio da un agente. Ha fatto tenere d'occhio mia madre. In ospedale. O sul letto di morte. Al funerale. Era un suo agente quel nuovo inserviente del quale parlavano a bassa voce le infermiere? Forse il suo agente era quell'autista della limousine che si era dimenticato il nome del direttore delle pompe funebri?» Nessuno di noi due abbassò lo sguardo. «Sono dispiaciuto per il suo lutto» disse Pistillo. «Grazie.» Si appoggiò allo schienale della poltrona. «Perché non ci dice dove si trova Sheila Rogers?» «Perché non mi dice per quale motivo la state cercando?» «Quando l'ha vista l'ultima volta?» «È sposato, Pistillo?» Lui non fece una piega. «Da ventisei anni. Abbiamo tre figli.» «Ama sua moglie?» «Sì.» «Se io venissi a farle richieste e minacce che coinvolgono sua moglie, lei che farebbe?» Pistillo annuì lentamente. «Se lei, signor Klein, lavorasse per l'Fbi, direi a mia moglie di collaborare.» «Tutto qui?» Sollevò un indice. «Sì, ma a una condizione.» «Vale a dire?» «Che fosse innocente. Se lei lo fosse, non avrei esitazioni.» «Quindi non si chiederebbe di quale faccenda si tratta?» «Chiedermi? Certo. Vorrei sapere...» Poi cambiò tono di voce. «Ora, però, mi lasci fare un'ipotesi.» Una pausa. Mi raddrizzai sulla sedia. «So che lei pensa che suo fratello sia morto.» Altra pausa. Rimasi in silenzio. «Ma supponiamo che lei scopra invece che è vivo e se ne sta nascosto... e, soprattutto, che è stato lui a uccidere Julie Miller.» Si sistemò meglio nella poltrona. «In via ipotetica, naturalmente. Siamo sempre sul piano delle congetture.» «Vada avanti.» «Be', che farebbe in un caso del genere? Lo denuncerebbe alla polizia?
Gli direbbe di arrangiarsi? Oppure lo aiuterebbe?» Altro silenzio. «Non mi ha fatto venire qui per giocare alle ipotesi» dissi. «No, proprio no.» Sulla destra della sua scrivania c'era lo schermo di un computer. Pistillo lo girò verso di me perché lo vedessi, poi premette qualche tasto. Apparve un'immagine a colori e qualcosa dentro di me si serrò. Una stanza dall'aspetto ordinario. Una lampada a stelo rovesciata a terra, in un angolo. Un tappeto beige. Un tavolino sul pavimento, di fianco. Un caos completo, come dopo il passaggio di un tornado o qualcosa di simile. Ma al centro della stanza giaceva un uomo, immerso in una pozza che immaginai di sangue. Il sangue era scuro, più scuro del cremisi o del color ruggine, quasi nero. L'uomo giaceva a faccia in su, con gambe e braccia spalancate come se fosse stato lasciato cadere da una notevole altezza. Osservando quell'immagine sul monitor mi sentii addosso gli occhi di Pistillo, pronto a cogliere ogni mia reazione. Lo guardai battendo le palpebre, poi riportai gli occhi sullo schermo. Premette un tasto. Un'altra immagine si sostituì a quella grondante sangue. Stessa stanza. La lampada adesso era fuori quadro. Il sangue inzuppava ancora il tappeto... ma c'era un altro corpo, rannicchiato in posizione fetale. Il primo uomo indossava una T-shirt nera e pantaloni dello stesso colore. Questo aveva una camicia di flanella e blue jeans. Pistillo premette un altro tasto. La foto ora era a inquadratura piena. E c'erano entrambi i cadaveri. Il primo al centro della stanza. Il secondo più vicino alla porta. Potevo vedere solo un viso, e non mi sembrava familiare. Fui assalito dal panico. Ken, pensai. Possibile che uno dei due fosse... Poi ricordai le loro domande. Non si trattava di Ken. «Queste foto sono state scattate ad Albuquerque, Nuovo Messico, durante il fine settimana» disse Pistillo. Sollevai le sopracciglia. «Non capisco.» «La scena dei delitti era in un caos incredibile, ma abbiamo trovato ugualmente dei capelli e delle fibre.» Mi sorrise. «Sono un profano per quanto riguarda gli aspetti tecnici del nostro lavoro. Oggi fanno dei test semplicemente incredibili. Ma a volte è con i vecchi metodi che si ottengono i risultati.» «Secondo lei, dovrei sapere di che cosa sta parlando?» «Qualcuno ha pulito quella stanza con la massima cura, ma quelli della Scientifica sono riusciti ugualmente a isolare una serie di impronte digitali:
impronte che non appartenevano a nessuna delle due vittime. Le abbiamo passate al computer, e un primo risultato l'abbiamo avuto questa mattina.» Mi si avvicinò con il capo e il sorriso adesso era scomparso. «Provi un po' a indovinare.» Vidi Sheila, la mia bella Sheila, che guardava fuori dalla finestra. Mi dispiace, Will. «Appartengono alla sua amica, signor Klein. Quella con i precedenti penali. La stessa che all'improvviso non riusciamo a trovare.» 6 Elizabeth, New Jersey Erano vicino al cimitero, ora. Philip McGuane sedeva sul sedile posteriore della sua Mercedes limousine personalizzata, un modello con le fiancate dalla blindatura rinforzata e i vetri scuri antiproiettile che gli era costato quattrocento testoni, e guardava distrattamente le macchie confuse dei fast-food, degli squallidi negozietti e dei decrepiti minimarket. Teneva nella destra uno scotch e soda che si era appena preparato al minibar della limousine. Abbassò gli occhi sul liquore ambrato. La mano era ferma. E questo lo sorprese. «Va tutto bene, signor McGuane?» McGuane si voltò verso l'altro passeggero. Fred Tanner era grosso, la taglia e la consistenza erano pressappoco quelle di un palazzo di arenaria. Le mani sembravano coperchi di tombini e le dita salsicciotti. Lo sguardo trasudava grande sicurezza. Era uno della vecchia scuola, Tanner, con il suo completo lucido come gommalacca e il vistoso anello al mignolo. Portava sempre quell'anello, un gioiello d'oro appariscente ed enorme, e quando parlava aveva l'abitudine di rigirarselo attorno al dito. «Sto bene» mentì McGuane. La limousine lasciò la Route 22 all'altezza di Parker Avenue. Tanner continuò a giocherellare con l'anello. Aveva cinquant'anni, quindici più del suo capo. Il suo viso era uno stagionato monumento di ruvide distese e angoli retri. Il taglio di capelli, eseguito apparentemente con un tosaerba, era di rigida foggia militare. McGuane conosceva bene Tanner; era in gamba, un figlio di puttana freddo, obbediente e letale per il quale il concetto di pietà aveva un'importanza trascurabile. Tanner ci sapeva fare sia con quelle enormi mani sia con i più diversi tipi di armi da fuoco. Se l'era vista con
i tipi più feroci in circolazione, uscendone sempre vincitore. Ma McGuane si rendeva anche conto che stavano per affrontare un ostacolo di livello assolutamente nuovo. «Chi è, poi, questo tipo?» chiese Tanner. McGuane scosse la testa. Indossava un Joseph Abboud su misura. Aveva affittato tre piani di un edificio sul Lower West Side di Manhattan. In un altro periodo lo si sarebbe potuto definire un "boss" o un "consigliori" o con qualche altro appellativo del genere. Ma così si usava una volta, adesso era diverso. Nonostante ciò che Hollywood vorrebbe farvi credere sono passati da un pezzo i tempi delle riunioni segrete nei retrobottega e dei doppiopetto gessati: tempi dei quali Tanner aveva senza dubbio un'enorme nostalgia. Ora si lavora negli uffici, con la segretaria, e la busta paga viene elaborata al computer. Si pagano le tasse. Si svolgono attività commerciali lecite. Ma non per questo si è migliori. «Che ci facciamo, noi, da queste parti?» chiese ancora Tanner. «Non dovrebbe essere lui a venire da lei?» McGuane non rispose. Tanner non avrebbe capito. Se il Fantasma vuole vederti, sei tu che vai da lui. Non importa chi tu sia. Rifiutarsi voleva dire che sarebbe stato il Fantasma a venire da te. McGuane si era creato un eccellente apparato di sicurezza, disponeva di gente in gamba. Ma il Fantasma apparteneva a un'altra categoria. Era paziente. Ti avrebbe studiato. Avrebbe atteso l'occasione. E poi ti avrebbe trovato. Da solo. E McGuane lo sapeva. No, meglio risolverla subito. Meglio andare da lui. A un isolato dal cimitero la limousine si fermò. «Capito, allora, che cosa voglio?» chiese McGuane. «Ho già un uomo sul posto. La situazione è sorto controllo.» «Non farlo fuori fin quando non ti avrò dato il segnale.» «D'accordo. Questo l'abbiamo già messo in chiaro.» «Non sottovalutarlo.» Tanner afferrò la maniglia dello sportello. Un raggio di sole colpì il suo anello da mignolo. «Senza offesa, signor McGuane, ma è solo un uomo, giusto? Sanguina rosso come tutti noi, no?» McGuane non ne era così certo. Tanner scese dall'auto, muovendosi con una certa eleganza per un uomo della sua stazza. McGuane si appoggiò contro lo schienale del sedile e mandò giù un lungo sorso di scotch. Era uno degli uomini più potenti di
New York. E non si arriva al vertice se non si è un bastardo imbroglione. Se sei debole, muori. Se ti mostri esitante, muori. Poco ma sicuro. E, soprattutto, non devi mai tirarti indietro. Questo McGuane lo sapeva bene, come tutti, ma in quel momento non desiderava altro che fuggire. Impacchettare le sue cose e scomparire. Come il suo vecchio amico Ken. McGuane incrociò nello specchietto retrovisore lo sguardo dell'autista. Allora respirò a fondo e annuì. L'auto si rimise in movimento. Svoltarono a sinistra, passando davanti al cancello del Wellington Cemetery. Le ruote fecero scricchiolare la ghiaia. McGuane disse all'autista di fermarsi. Lui obbedì. McGuane scese e andò a mettersi di fronte all'auto. «Ti chiamerò quando ne avrò bisogno.» L'autista annuì e si allontanò al volante della limousine. McGuane rimase solo. Si sollevò il bavero. Poi passò in rassegna con lo sguardo il cimitero. Nessun movimento. Si chiese dove fossero nascosti Tanner e il suo uomo. Probabilmente più vicino al punto dell'appuntamento. Su un albero o dietro un cespuglio. Se stavano lavorando secondo le istruzioni, McGuane non li avrebbe mai visti. Il cielo era sgombro di nubi. Il vento sibilava come la falce di un mietitore. Incurvò le spalle. I rumori del traffico che venivano dalla Route 22 rimbalzavano sulle barriere insonorizzanti e facevano la serenata ai defunti. L'odore di qualcosa uscito da poco dal forno si diffuse nell'aria immobile e McGuane pensò alla cremazione. Non c'era traccia di anima viva. McGuane trovò il sentiero e si mosse verso est. Passando davanti a tombe e cippi prese nota senza rendersene conto delle date di nascita e di morte. Calcolò le età, interrogandosi sulle cause di decesso dei più giovani. Esitò davanti a un nome familiare. Daniel Skinner. Morto a tredici anni. Sulla sua tomba era stata scolpita la figura di un angelo sorridente. McGuane ridacchiò tra sé. Skinner, un bullo violento e prepotente, aveva tormentato a lungo un ragazzino di quarta elementare. Ma un giorno - l'11 maggio, come si leggeva sulla tomba - quel ragazzino di quarta elementare, decisamente atipico, si era portato da casa un coltello da cucina per difendersi. E la prima e unica coltellata aveva colpito Skinner al cuore. Addio, angelo. McGuane cercò di scuotersi di dosso quel ricordo. Tutto aveva avuto inizio lì?
Riprese a camminare. Più avanti voltò a sinistra, rallentando il passo. Non era distante, ormai. Si guardò in giro. Nulla si muoveva, come prima. C'era più silenzio, qui, più pace e più verde. Non che gli abitanti ci facessero caso. Esitò, voltò di nuovo a sinistra e proseguì sul vialetto finché non arrivò davanti alla tomba giusta. Si fermò. Lesse il nome e la data. La sua mente viaggiò a ritroso nel tempo. Si chiese che cosa stesse provando e si rese conto di non avere particolari sensazioni. Non si prese più la briga di guardarsi attorno. Il Fantasma era lì vicino, ne avvertiva la presenza. «Avresti dovuto portare dei fiori, Philip.» La voce, morbida e mielata anche se con la "s" leggermente blesa, gli gelò il sangue. McGuane si girò lentamente per guardarsi alle spalle. John Asselta si avvicinò lentamente, con dei fiori in mano. McGuane si spostò di lato. Gli occhi di Asselta incontrarono i suoi e McGuane si sentì scavare il petto da un artiglio d'acciaio. «È passato molto tempo» disse il Fantasma. Asselta, l'uomo conosciuto da McGuane come "il Fantasma", si avvicinò alla tomba. McGuane restò perfettamente immobile. La temperatura sembrò abbassarsi una ventina di gradi quando il Fantasma gli passò davanti. McGuane trattenne il respiro. Asselta s'inginocchiò e depose lentamente i fiori a terra. Rimase inginocchiato un momento, con gli occhi chiusi. Poi si rialzò, allungò una mano dalle dita affusolate da pianista e carezzò la tomba con un gesto d'intimità. McGuane cercò di non guardare. La pelle del Fantasma faceva pensare a una cateratta, lattiginosa e simile a una palude. Sul suo viso quasi aggraziato scendevano delle vene azzurrastre come tracce stinte di lacrime. Gli occhi erano quasi incolori. La testa, troppo grossa per quelle spalle strette, aveva la forma di una lampadina. Era stata rasata da poco sui lati, e dal centro spuntava, ricadendo come una fontana, un lungo ciuffo di capelli color fango. Nei suoi lineamenti vi era qualcosa di delicato, di femmineo, come una versione da incubo di un candido fiore. McGuane mosse un altro passo indietro. Ci s'imbatte, a volte, in persone la cui innata bontà sembra esplodervi davanti con una luminosità quasi abbacinante. E ci s'imbatte, altre volte, nell'esatto contrario: qualcuno la cui semplice presenza vi avvolge in una pesante cappa di putrefazione e sangue.
«Che cosa vuoi?» chiese McGuane. Il Fantasma chinò la testa. «Hai mai sentito l'espressione "Non esistono atei nelle trincee"?» «Sì.» «È falso. È vero proprio il contrario. Quando sei in trincea, quando ti trovi faccia a faccia con la morte, è proprio allora che hai la sicurezza che Dio non esiste. Per questo combatti per la sopravvivenza, per continuare a respirare. Per questo invochi ogni entità immaginabile, perché non vuoi morire. Perché in fondo al tuo cuore sai bene che la morte è la fine dei giochi. Che dopo non c'è più niente. Niente paradiso. Niente Dio. Solo il nulla.» Il Fantasma sollevò gli occhi su di lui. McGuane rimase immobile. «Mi sei mancato, Philip.» «Che cosa vuoi, John?» «Lo sai, credo.» Era vero, ma McGuane tacque. «Ho saputo che ti trovi in una specie di impiccio» proseguì il Fantasma. «Che cosa hai sentito?» «Soltanto voci.» Il Fantasma sorrise. La sua bocca era una sottile rasoiata e al solo vederla McGuane dovette trattenere un grido. «Per questo sono tornato.» «È un problema mio.» «Magari fosse vero, Philip.» «Che cosa vuoi, John?» «I due che hai spedito in Nuovo Messico. Hanno fallito, vero?» «Sì.» «Io non fallirò» sussurrò il Fantasma. «Continuo a non capire che cosa vuoi.» «Ammetterai, voglio sperare, che anche io ho un qualche interesse in questa faccenda.» Il Fantasma attese. «Direi di sì» convenne alla fine McGuane. «Tu puoi contare su certe fonti, Philip, hai accesso a informazioni che a me sono precluse.» Il Fantasma guardò la lapide della tomba e per un attimo McGuane credette di scorgere nel suo viso qualcosa di umano. «Sei sicuro che sia tornato?» «Abbastanza sicuro» rispose McGuane. «Come fai a saperlo?» «Me l'ha detto uno dell'Fbi. I due che abbiamo spedito ad Albuquerque
avrebbero dovuto confermarlo.» «Hanno sottovalutato l'avversario.» «Così sembra.» «Sai dove è scappato?» «Ci stiamo dando da fare per scoprirlo.» «Ma non quanto dovreste.» McGuane tacque. «Preferiresti che scomparisse di nuovo. O sbaglio?» «Renderebbe tutto più semplice.» Il Fantasma scosse la testa. «Stavolta non più.» Seguì il silenzio. «Allora, chi potrebbe sapere dove è andato a finire?» chiese il Fantasma. «Il fratello, forse. L'Fbi un'ora fa ha convocato Will per fargli qualche domanda.» La cosa sembrò risvegliare l'attenzione del Fantasma, che sollevò di scatto la testa. «Che tipo di domande?» «Ancora non lo sappiamo.» «Allora» disse piano il Fantasma «potrei cominciare proprio da lì.» McGuane riuscì ad annuire. E fu allora che il Fantasma mosse verso di lui, tendendogli la mano. McGuane rabbrividì, incapace a muoversi. «Hai paura di stringere la mano a un vecchio amico, Philip?» Aveva paura, sì. Il Fantasma si avvicinò di un altro passo. McGuane sentì mancargli il respiro. Pensò di lanciare un segnale a Tanner. Una pallottola. Una pallottola avrebbe potuto porre fine a quell'incubo. «Stringimi la mano, Philip.» Era un ordine e McGuane obbedì. Quasi a sfidare la sua volontà la mano si sollevò dal fianco e si protese verso il Fantasma. Il Fantasma, sapeva McGuane, uccideva la gente. Un mucchio di gente. Senza alcuno sforzo. Era la Morte. Non soltanto un killer, ma la Morte in persona, quasi che con il suo semplice tocco potesse trapassarti la pelle, entrarti nel sangue, emettere un veleno capace di trafiggerti il cuore come quel coltello da cucina che il Fantasma aveva usato tanto tempo prima. McGuane distolse lo sguardo. Il Fantasma annullò di scatto la distanza che li separava e afferrò con la sua mano quella di McGuane, che trattenne un urlo mentre cercava di sottrarsi a quella morsa. Ma il Fantasma non mollò la presa. E allora McGuane sentì qualcosa di freddo e levigato scavargli il palmo della mano.
La stretta aumentò. McGuane ansimò di dolore. Ciò che il Fantasma aveva in mano s'infilò come una baionetta in un fascio di nervi. La stretta si fece ancora più insopportabile. McGuane si piegò su un ginocchio. Il Fantasma attese finché l'altro non sollevò lo sguardo. Gli occhi dei due uomini si incontrarono e McGuane fu certo che i suoi polmoni si sarebbero fermati, che ogni suo organo avrebbe semplicemente smesso di funzionare. Il Fantasma allentò la stretta. Fece scivolare nel palmo di McGuane quel misterioso oggetto e poi gli richiuse una a una le dita. E infine lo lasciò, facendo un passo indietro. «Può darsi che ti tocchi tornare a casa da solo, Philip.» McGuane ritrovò la voce. «Che cosa diavolo dovrebbe significare?» Ma il Fantasma fece dietrofront e si allontanò. McGuane abbassò lo sguardo e aprì la mano. E vide brillare alla luce del sole l'anello d'oro che Tanner portava al mignolo. 7 Al termine del mio colloquio con il vicedirettore Pistillo, Squares e io risalimmo in tutta fretta sul furgone. «Andiamo da te?» mi chiese lui. Annuii. «Ti ascolto» disse. Gli riferii la mia conversazione con Pistillo. Squares scosse la testa. «Albuquerque. Lo odio quel posto, amico mio. Ci sei mai stato?» «No.» «È nel Sudovest, ma tutto ha un'aria da finto Sudovest. Come se la città fosse un facsimile realizzato dalla Walt Disney.» «Me lo ricorderò, Squares. Grazie.» «Allora, quando c'è andata Sheila?» «Non lo so» risposi. «Pensaci. Tu dov'eri l'ultimo fine settimana?» «Dai miei.» «E Sheila?» «Doveva essere in città.» «Le hai telefonato?» Ci pensai su. «No, mi ha chiamato lei.» «Hai accertato la provenienza della telefonata?»
«No, il numero era coperto.» «C'è qualcuno in grado di confermare che era in città?» «Non credo.» «Quindi si sarebbe benissimo potuta trovare ad Albuquerque» osservò lui. Considerai quel particolare. «Ci sono altre spiegazioni.» «Per esempio?» «Le impronte digitali potrebbero essere vecchie.» Squares si incupì ma tenne gli occhi sulla strada. «Potrebbe essere andata ad Albuquerque il mese scorso» proseguii. «O addirittura l'anno scorso, che diavolo. A proposito, quanto durano le impronte digitali?» «Per un po', immagino.» «Forse è andata proprio così» insistetti. «O forse le sue impronte erano su un mobile o una sedia che si trovava a New York ed è stata successivamente spedita nel Nuovo Messico.» Squares si sistemò sul naso gli occhiali da sole. «Elaborata, come spiegazione.» «Ma possibile.» «Già, certo. Oppure, senti se ti piace, qualcuno potrebbe essersi fatto prestare le sue impronte digitali. E se l'è portate ad Albuquerque per il fine settimana.» Un taxi ci tagliò la strada. Squares sterzò a destra, falciando quasi un gruppo di pedoni fermi a un metro dal marciapiede. È un'abitudine degli abitanti di Manhattan. Nessun pedone aspetta sul marciapiede che il semaforo diventi verde. Tutti devono scendere e rischiare la vita per guadagnare un ipotetico margine di vantaggio. «Conosci Sheila» dissi. «La conosco.» Era difficile pronunciare quella parole, ma non potevo farne a meno. «Credi davvero che possa essere un'assassina?» Squares rimase un momento in silenzio. Un semaforo diventò rosso. Lui frenò e mi guardò. «Mi sembra di risentire parola per parola la storia di tuo fratello.» «Sto solo dicendo che ci sono altre possibilità, Squares.» «E io sto solo dicendo che la testa ti è finita nello sfintere, Will.» «Sarebbe a dire?» «Una sedia, santo Iddio? Ma parli sul serio? Ieri notte Sheila ti diceva
piangendo che le dispiaceva e stamattina, puff, è scomparsa. Ora i federali ci fanno sapere che le sue impronte digitali sono state trovate sulla scena di un delitto. E tu con che cosa te ne vieni fuori? Con una storia di sedie spedite nel Nuovo Messico!» «Questo non significa che lei abbia ucciso qualcuno.» «Significa che è coinvolta.» Non replicai. Mi misi a guardare dal finestrino senza vedere nulla. «Hai qualche idea, Squares?» «Nemmeno l'ombra.» Proseguimmo per un po'. «L'amo, sai?» «Lo so.» «Nella migliore delle ipotesi, mi ha mentito.» Squares fece spallucce. «C'è di peggio.» Mi misi a pensare. Ricordai la prima notte che avevamo passato insieme, a letto, con Sheila che poggiava la testa e un braccio sul mio petto. C'era un gran benessere, in quel momento, un senso di pace, la certezza di vivere nel più giusto dei mondi. Rimanemmo lì. E non ricordo più per quanto tempo. "Niente passato" aveva detto lei piano, come parlando a se stessa. Le chiesi cosa avesse voluto significare. Lei aveva tenuto la testa sul mio petto, con gli occhi lontani dai miei. E non aveva aggiunto una parola. «Devo trovarla» dissi. «Sì, lo so.» «Vuoi aiutarmi?» Si strinse nelle spalle. «Senza di me non potresti farlo.» «È vero. Allora, da dove cominciamo?» «Prima di andare avanti dobbiamo guardare indietro, per citare un vecchio adagio.» «Te lo sei appena inventato, vero?» «Sì.» «Ma ha ugualmente una sua validità.» «Will?» «Sì?» «Non vorrei sembrarti banale, ma se guardiamo indietro ciò che vedrai potrebbe non piacerti.» «È quasi certo» ammisi. Squares mi lasciò davanti al portone e proseguì verso la Covenant
House. Entrai in casa e lanciai le chiavi sul tavolo. Avrei chiamato ad alta voce Sheila, per assicurarmi che non fosse tornata, ma l'appartamento sembrava così vuoto e prosciugato di energie che non mi presi nemmeno la briga. Quel posto che da quattro anni chiamavo casa mi sembrava in qualche modo diverso, estraneo. Vi aleggiava un odore di rancido, come se fosse rimasto a lungo vuoto. Ma forse stavo lavorando troppo d'immaginazione. E ora? Probabilmente avrei dovuto passare l'appartamento al setaccio in cerca di "qualche elemento", qualsiasi cosa significhi questa espressione. A colpirmi subito fu però lo stile spartano al quale Sheila si era sempre ispirata. Traeva piacere dalle cose semplici, anche se apparentemente banali, e mi aveva insegnato a fare come lei. Possedeva ben poco. Il giorno in cui si era trasferita da me si era portata dietro soltanto una valigia. Non era povera, avevo visto gli estratti conto della sua banca, ma la sua filosofia era sempre stata: "È ciò che possiedi che ti possiede, e non il contrario". E mi sorpresi a pensare che ciò che possiedi, più che possedere te, ti lega, ti dà delle radici. La mia felpa extralarge dell'Amherst College era poggiata su una sedia in camera da letto. La presi, provando una fitta al petto. L'autunno scorso avevamo passato ad Amherst, il college del quale ero un ex allievo, il "fine settimana del ritorno". C'è una collina nel campus, che sale piuttosto ripida dal quadrilatero tipico dei campus del New England e scende dall'altra parte su una distesa di impianti d'atletica. Moltissimi studenti, in un accesso di originalità, la chiamano "la Collina". Una sera tardi, Sheila e io passeggiando mano nella mano nel campus andammo a sdraiarci sull'erba soffice della Collina, a guardare quel cielo puro autunnale e a parlare per ore. Ricordo di avere pensato in quel momento che non avevo mai provato in vita mia un tale senso di pace, di calma, di conforto e, sì, anche di gioia. Mentre ce ne stavamo sdraiati sulla schiena, Sheila mi posò una mano sullo stomaco e poi, senza staccare gli occhi dalle stelle, me la infilò sotto la cintura. Mi voltai quasi impercettibilmente a guardare il suo viso. E, quando le dita raggiunsero l'obiettivo, vidi il suo ghigno perverso. "Proviamo a creare l'atmosfera dei bei tempi del college" disse. D'accordo, sarà forse perché ero arrapatissimo. Ma fu proprio in quel momento, su quella collina, con la sua mano dentro i miei pantaloni, che per la prima volta realizzai - sì, realizzai - con una certezza quasi sopran-
naturale che era lei la donna per me, che saremmo rimasti sempre insieme: che l'ombra del mio primo amore, il mio unico amore prima di Sheila, l'ombra che aveva perseguitato e messo in fuga tutte le altre, si era finalmente dissolta. Guardai la felpa e per un momento mi sembrò di sentire di nuovo il profumo del caprifoglio e delle foglie che d'autunno s'accendono di rosso. Me la strinsi al petto e, per l'ennesima volta dopo il mio incontro con Pistillo, mi chiesi: possibile che sia stata tutta una falsità? No. Certe cose non si possono fingere. Squares potrà anche avere avuto ragione a proposito della capacità di violenza insita nell'essere umano. Ma ciò che legava me e Sheila non si poteva fingere. Il suo biglietto era ancora dove lei l'aveva lasciato. Ti amerò sempre. S Dovevo crederci. Lo dovevo a Sheila. Il suo passato apparteneva a lei e io non avevo voce in capitolo. Qualsiasi cosa fosse successa, Sheila avrà avuto sicuramente le sue ragioni. Mi amava. Lo sapevo. Ora il mio compito era quello di trovarla, aiutarla, cercare un modo per tornare... non so... tornare a noi. Non avrei dubitato di lei. Guardai nei cassetti. Sheila aveva un conto corrente bancario e una carta di credito, almeno a quanto mi risultava. Ma non trovai nessuna ricevuta, nessun vecchio estratto conto, nessun libretto di assegni, niente. Probabilmente aveva gettato tutto. Il salvaschermo del computer, quelle figurine che rimbalzano presenti su tanti monitor, si dissolse non appena mossi il mouse. Mi collegai a Internet, digitai il nome di Sheila e cliccai sulla posta arretrata. Niente. Strano. Sheila usava Internet abbastanza di rado, ma possibile che non ci fosse nemmeno una vecchia e-mail? Allora cliccai su "Archivio". Vuoto anche quello. Controllai i siti in memoria. Ancora nulla. Cercai tutto il cercabile. Nada. Rimasi a guardare il monitor. Un pensiero affiorò in superficie. Lo considerai per qualche momento, chiedendomi se un gesto del genere sarebbe equivalso a un tradimento. Ma non aveva importanza. Squares non sbagliava quando mi aveva detto di guardare al passato per capire quali decisioni prendere. E aveva giustamente previsto che ciò che avrei scoperto a-
vrebbe potuto non piacermi. Mi collegai a switchboard.com, monumentale elenco telefonico ordine. Alla voce "Nome" digitai "Rogers". Lo Stato era l'Idaho. La città, Mason. Questi dati li avevo letti a suo tempo sul modulo che aveva riempito per lavorare come volontaria alla Covenant House. Trovai un solo Rogers a Mason, Idaho, e trascrissi il numero su un foglietto. Sì, avrei chiamato i genitori di Sheila: se proprio dovevo guardare al passato, meglio partire dalle origini. Stavo allungando la mano sul ricevitore quando il telefono squillò. Era mia sorella Melissa. «Che stai facendo?» Riflettei un attimo su come informarla. «Qui mi si è creata una certa situazione» dissi alla fine. «Qui stiamo per seppellire mamma» fece lei, e nella sua voce riconobbi la tipica intonazione da sorella maggiore. Chiusi gli occhi. «Papà chiede di te. Devi venire.» Feci girare lo sguardo in quell'appartamento che sapeva di rancido, così estraneo. Non avevo alcun motivo di rimanerci. E pensai alla foto che avevo ancora in tasca, quell'immagine di mio fratello in montagna. «Arrivo» le dissi. Melissa mi accolse sulla porta. «Dov'è Sheila?» mi chiese. Biascicai qualcosa circa un precedente impegno e m'infilai in casa. Oggi avevamo in carne e ossa un ospite non appartenente alla famiglia, un vecchio amico di mio padre di nome Lou Farley. Secondo me lui e papà non si vedevano da dieci anni, a giudicare dal piacere con il quale si raccontavano episodi risalenti a tanto tempo prima. Uno di questi si riferiva a una vecchia squadra di softball e mi tornò in mente un vaga immagine di mio padre con indosso una divisa marrone-rossastra, di pesante fibra sintetica, che aveva sul petto il logo del Friendly's Ice Cream. Mi sembrava ancora di udire i tacchetti delle sue scarpe sul vialetto di casa e di sentire sulla spalla il peso della sua mano. Ne era passato, del tempo. Papà e Lou Farley risero. Erano anni che non sentivo mio padre ridere così. I suoi occhi erano lucidi e lontani. A volte mia madre andava a quelle partitelle e la vedo ancora sulle gradinate, con la sua camicetta senza maniche e le braccia leggermente abbronzate. Lanciai uno sguardo fuori della finestra, sperando sempre che comparisse Sheila e che tutto si rivelasse alla fine un enorme malinteso. Una parte
di me, una grossa parte di me, era come bloccata. Mentre la morte di mia madre era stato un evento atteso da tempo, perché come spesso succede il cancro di Sunny aveva avuto l'andamento di una marcia costante verso la morte con un'improvvisa accelerazione alla fine, io ero ancora troppo impreparato a tutto ciò che stava avvenendo. Sheila. Già una volta avevo amato e perduto l'oggetto del mio amore. Devo confessare che, in fatto di questioni di cuore, ho un modo di ragionare all'antica. Credo nell'anima gemella. Lo abbiamo tutti un primo amore. Il mio, quando mi lasciò, mi perforò il cuore da una parte all'altra. A lungo pensai che non mi sarei più ripreso. E avevo i miei motivi per pensarlo. Per dirne uno, la fine del nostro rapporto mi sembrava incompleta. Ma lasciamo stare. Dopo che lei mi scaricò, al termine di una giornata mi scaricò, mi convinsi di essere condannato ad accontentarmi di qualcuna... inferiore... oppure a rimanere per sempre solo. E poi conobbi Sheila. Pensai a come gli occhi verdi di Sheila si erano impressi nei miei. Pensai alla sensazione di seta che offrivano al tatto i suoi capelli rossi. Pensai a come l'iniziale attrazione fisica, un'attrazione immensa, sconvolgente, si era successivamente diffusa in tutti gli angoli del mio essere. Avevo sempre lei in mente. Provavo una grande emozione. Mi sembrava che il mio cuore saltasse un battito ogni volta che posavo gli occhi su quel viso. Ero nel furgone con Squares e lui all'improvviso mi dava una botta sulla spalla perché la mia mente vagava da un'altra parte, in un posto che Squares scherzando aveva chiamato "Sheila Land", lasciandomi con un sorriso idiota sulle labbra. Ero come intossicato. Con lei ci facevamo le coccole guardando vecchi film in TV, accarezzandoci, stuzzicandoci, cercando di capire quanto avremmo potuto resistere, con quel comodo calduccio che lottava contro l'eccitazione fisica fino a che... be', è per questo che i videoregistratori hanno il tasto "Pause". Ci tenevamo per mano. Facevamo lunghe passeggiate. Ci sedevamo su una panchina, al parco, e ci sussurravamo commenti maliziosi sugli estranei che ci passavano davanti. Se andavamo a un party mi piaceva starmene all'altra estremità della sala e osservarla da lontano, guardarla camminare, muoversi e parlare con gli altri: e quando i nostri occhi s'incontravano trasalivamo, scambiandoci poi uno sguardo d'intesa e un sorriso malizioso. Sheila mi aveva chiesto una volta di compilare uno di quegli stupidi test che aveva trovato in una rivista. Una delle domande era: "Qual è la princi-
pale debolezza del tuo amore?". Ci pensai su e scrissi: "Dimentica spesso l'ombrello nei ristoranti". Le era piaciuta, quella risposta, ma voleva che le citassi altre sue debolezze. Le ricordai che le piacevano le boy band e i vecchi dischi degli Abba. Aveva annuito solennemente, promettendo che avrebbe cercato di cambiare. Parlavamo di tutto tranne che del passato. È qualcosa che faccio spesso nel mio lavoro e non mi preoccupava quindi più di tanto. Ora, a posteriori, mi ponevo certe domande, ma allora questo particolare aveva aggiunto al nostro rapporto una nota, come dire, di mistero. E soprattutto, perdonatemi ancora, vi prego, era come se la vita non fosse esistita prima di noi. Niente amori, niente partner, niente passato. Eravamo nati nel giorno in cui ci eravamo incontrati. Melissa sedeva accanto a mio padre. Li vedevo entrambi di profilo. La somiglianza era notevole. Io ricordavo più mia madre. Ralph, il marito di Melissa, girava attorno al tavolo del buffet. Era il tipico medio dirigente americano, un uomo con le sue brave camicie a maniche corte sopra quelle T-shirt che piacciono tanto alle mogli, un "vecchio mio" dalla maschia stretta di mano, le scarpe lucide, i capelli lisci e l'intelligenza limitata. Non si allentava mai il nodo della cravatta e, anche se non era il tipo agitato, si sentiva a suo agio solo quando ogni cosa si trovava al suo posto. Non ho niente in comune con Ralph ma, onestamente, devo dire che non lo conosco molto bene. Vivono a Seattle e non vengono qui quasi mai. Ma non riesco a non ricordare quel periodo in cui Melissa stava attraversando la sua fase da ribelle e se la faceva di nascosto con Jimmy McCarthy, la pecora nera locale. Come le brillavano gli occhi, a quei tempi. Come sapeva essere spontanea e divertente in modo oltraggioso, oltre che inappropriato. Non so che cosa successe poi, che cosa la cambiò, che cosa la spaventò tanto. Secondo alcuni era solo la sopravvenuta maturità. Secondo me era vero solo in parte, doveva esserci stato dell'altro. Melissa, noi l'avevamo sempre chiamata Mel, mi fece un segnale con gli occhi. Ci rifugiammo nel tinello, la classica stanza americana della TV. M'infilai una mano in tasca toccando la foto di Ken. «Ralph e io partiamo domani mattina» mi disse. «Presto.» «Che cosa vuoi dire?» Scossi la testa. «Ci sono i ragazzi e Ralph ha il suo lavoro.» «Giusto. È stato gentile da parte vostra venire al funerale.»
Sbarrò gli occhi. «Che cosa orribile da dire.» Aveva ragione. Mi guardai alle spalle. Ralph era seduto a tavola con papà e Lou Farley e stava dando l'assalto a un panino con hamburger in salsa barbecue con relativo contorno di cavolo crudo affettato, e un frammento di cavolo gli si era fermato a un angolo della bocca. Volevo chiederle scusa. Ma non ce la feci. Mel era la più grande di noi tre, aveva tre anni più di Ken e cinque più di me. Quando Julie era stata trovata cadavere lei era scappata via: non saprei come esprimermi altrimenti. Se ne andò all'altra estremità del paese con il nuovo marito e il bambino. Il più delle volte ripensandoci capivo, ma provavo ancora rabbia per quello che sentivo a tutti gli effetti come un abbandono. Mi tornò in mente ancora una volta la foto di Ken e presi una decisione improvvisa. «Voglio mostrati qualcosa.» Mi sembrò di vedere Melissa trasalire, come se si stesse preparando ad assorbire un colpo, ma forse stavo solo anticipando ciò che pensavo sarebbe successo. Portava i capelli in stile "perfetta casalinga dei quartieri residenziali": lunghi e di un biondo freddo, le scendevano dolcemente sulle spalle, probabilmente secondo i gusti del marito. A me sembrava un'acconciatura inappropriata a una come lei. Ci allontanammo ancora un po' fino alla porta dalla quale si passava nel box. Guardai alle mie spalle, vedendo ancora mio padre con Ralph e Lou Farley. Aprii la porta. Mel mi lanciò uno sguardo incuriosito ma mi seguì. Ci fermammo al centro di quel freddo garage dal pavimento di cemento, il cui interno era una specie di sfida alle norme antincendio. Era pieno di barattoli arrugginiti di vernice, scatoloni di cartone ammorbidito dall'umidità, mazze da baseball, vecchie sedie di vimini, pneumatici privi di battistrada, il tutto sparso in giro come se ci fosse stata un'esplosione. Sul pavimento si vedevano macchie d'olio e la polvere che si era accumulata dava all'insieme una tonalità grigio stinto, oltre a rendere difficile la respirazione. Dal soffitto pendeva una fune. Ricordo quella volta che mio padre, dopo avere fatto un po' di spazio, aveva attaccato a quella fune una palla da tennis perché mi esercitassi a migliorare la battuta a baseball. Non riuscivo a credere che la fune fosse ancora lì. Melissa non mi staccava gli occhi di dosso. Non sapevo da dove cominciare. «Io e Sheila ieri abbiamo frugato tra le cose di mamma» dissi infine. Lei corrugò la fronte. Stavo cominciando a spiegarle che avevamo aper-
to i cassetti e trovato i trofei di Ken e gli annunci di nascita, quel vecchio programma teatrale della Filodrammatica di Livingston con mamma nella parte di Mame, le foto che avevano tanto incuriosito me e Sheila - ricordi quella con re Hussein, Mel? - ma le mie labbra rimasero chiuse. Allora, senza dire una parola, tirai fuori di tasca la foto e gliela misi davanti agli occhi. Non ci volle molto. Melissa si voltò come se potesse rimanere scottata. Respirò a fondo e in fretta un paio di volte, e arretrò di un passo. Feci per avvicinarmi, ma lei mi fermò con una mano. Quando risollevò di nuovo gli occhi, sul suo viso non si leggeva la minima emozione. Non c'era più sorpresa, né gioia né tormento. Nulla. Sollevai di nuovo la foto. Stavolta lei non batté ciglio. «È Ken» dissi, stupidamente. «Lo vedo anch'io, Will.» «Tutta qui la tua reazione?» «Come preferiresti che reagissi?» «È vivo. Mamma lo sapeva. Aveva questa foto.» Silenzio. «Mel?» «È vivo» disse. «Ti ho sentito.» Quella reazione, o meglio quell'assenza di reazione, mi lasciò senza parole. «C'è altro?» mi chiese Melissa. «Che cosa... È tutto qui quello che hai da dire?» «Che altro c'è da dire, Will?» «Ah già, dimenticavo. Tu devi tornare a Seattle.» «Sì.» Si allontanò da me. La rabbia tornò in superficie. «Dimmi una cosa, Mel. Scappare via ti è servito?» «Non sono scappata.» «Stronzate.» «Ralph aveva trovato lavoro lì.» «Eh, già.» «Come ti permetti di giudicarmi?» Rividi come in un flash noi tre che giocavamo per ore dentro la piscina di quel motel vicino a Cape Cod. Rividi quella volta che Tony Bonoza aveva messo in giro certe voci sul conto di Mel, ricordai come era diventato
rosso Ken udendole e come aveva affrontato Bonoza nonostante avesse due anni più di lui e lo sovrastasse di una decina di chili. «Ken è vivo» dissi di nuovo. La voce di lei sembrava adesso quasi volersi scusare. «E che cosa vuoi che faccia?» «Sembra che questo per te non abbia importanza.» «Non sono sicura che ne abbia.» «E questo che diavolo vorrebbe dire?» «Ken non fa più parte delle nostre vite.» «Parla per te.» «D'accordo, Will. Non fa più parte della mia vita.» «È tuo fratello.» «Ken ha fatto le sue scelte.» «E ora, quindi... per te è morto?» «Non sarebbe meglio se fosse morto?» Melissa scosse la testa e chiuse gli occhi. Attesi. «Forse sono scappata davvero, Will. Ma è quello che hai fatto anche tu. Potevamo scegliere: nostro fratello era morto oppure era un brutale assassino. In ogni caso, sì, per me è morto.» Sollevai di nuovo la foto. «Non è stato per forza lui, lo sai.» Melissa mi guardò e tornò d'improvviso a essere la sorella maggiore. «Andiamo, Will, sai bene come sono andate le cose.» «Ci ha difeso, da piccoli. Ci proteggeva, ci voleva bene.» «E io volevo bene a lui, ma lo vedevo ugualmente per ciò che era. Era attirato dalla violenza, e tu lo sai. Certo, ci difendeva: ma ti è mai capitato di pensare che lo facesse perché gli piaceva menare le mani? Lo sai che si era infilato in una brutta faccenda, prima di sparire?» «Questo non fa di lui un assassino.» Melissa chiuse di nuovo gli occhi. La vidi cercare dentro di sé nuove energie. «Ma per l'amor di Dio, Will, che cosa stava facendo quella notte?» Ci guardammo, e nessuno di noi abbassò lo sguardo. Rimasi zitto. Un vento gelido mi soffiava all'improvviso sul cuore. «Lasciamo stare il delitto, va bene? Ma mi vuoi dire perché Ken stava facendo sesso con Julie Miller?» Le sue parole mi penetrarono, mi germogliarono robuste e fredde nel petto. Non riuscivo a respirare. La mia voce, quando finalmente la ritrovai, era metallica e lontana. «Io e Julie avevamo rotto da più di un anno.» «Vorresti dirmi che non ci pensavi più?» «Io... lei era libera. Lui era libero. Non esisteva alcun motivo per...»
«Ken ti ha tradito, Will, sarebbe ora che tu lo ammettessi. Nella migliore delle ipotesi, è andato a letto con la donna che amavi. Ti sembra una cosa da fare al proprio fratello?» «Avevamo rotto» ripetei, a disagio. «Non potevo più vantare alcuna pretesa su di lei.» «L'amavi.» «Questo non c'entra.» Lei non staccava gli occhi dai miei. «Chi è ora che cerca di scappare?» Feci un passo indietro, inciampai e per poco non ruzzolai sui gradini di cemento. La faccia mi cadde tra le mani. Ripresi il controllo un poco alla volta. Ci volle del tempo. «È ancora nostro fratello.» «Che cosa vuoi fare, allora? Trovarlo? Consegnarlo alla polizia? Aiutarlo a nascondersi? Che cosa?» Non avevo risposta. Melissa mi passò davanti e aprì la porta per tornare nel tinello. «Will?» Alzai gli occhi su lei. «Questa non è più la mia vita. Mi dispiace.» In quel momento la rividi adolescente sul suo letto borbottare qualcosa, con i capelli arruffati e l'odore di chewing-gum nell'aria, mentre Ken e io ce ne stavamo seduti sul pavimento. Ricordavo ancora il linguaggio del corpo di lei. Se Mel era sdraiata sulla pancia e scalciava voleva dire che stava parlando di ragazzi, di feste e fesserie del genere. Ma se giaceva di schiena e guardava il soffitto, be', allora stava sognando. Pensai ai suoi sogni. Pensai che non se n'era avverato nessuno. «Ti voglio bene» le dissi. E, come se avesse letto nei mie pensieri, Melissa si mise a piangere. Non si scorda il primo amore. Il mio era finito ammazzato. Julie Miller e io ci eravamo conosciuti quando la sua famiglia si era trasferita a Coddington Terrace, mentre io frequentavo il primo anno di liceo alla Livingston High. Cominciammo a uscire insieme due anni dopo. Andavamo ai balli della scuola. Eravamo stati eletti la coppia del nostro corso. Eravamo inseparabili. Di sorprendente nella nostra rottura ci fu solo la sua assoluta prevedibilità. Ci eravamo iscritti a due college diversi, sicuri che il nostro legame avrebbe retto alla distanza e al tempo. Non resse, anche se resistette più di tanti altri. Durante il terzo anno Julie mi telefonò dicendomi che aveva voglia di vedere altra gente, che aveva cominciato a uscire con uno dell'ulti-
mo anno che si chiamava, non scherzo, Buck. Avrei dovuto farmene una ragione, in fondo ero giovane e ciò che mi era successo rappresentava un rito di passaggio tutt'altro che insolito. E probabilmente me ne sarei anche fatto una ragione, alla fine. Voglio dire, cominciai anche io a uscire con qualche ragazza. Avevo bisogno di tempo, ma stavo iniziando ad accettare la realtà. Il tempo e la distanza mi davano una mano. Poi Julie morì, e da allora mi sembrò che una parte del mio cuore non si sarebbe mai liberata della sua stretta. Fino a Sheila. Non mostrai la foto a mio padre. Tornai a casa mia alle dieci, quella sera. Era sempre vuota, sempre estranea, e c'era sempre quel tanfo. Nessun messaggio sulla segreteria telefonica. Se la vita senza Sheila era così io non volevo averci niente a che fare. Il foglietto con il numero di telefono dei suoi, nell'Idaho, era sulla scrivania. Quante ore di differenza c'erano tra New York e l'Idaho? Una? Forse due? Non ricordavo. In ogni caso, lì erano le otto o le nove di sera. Non troppo tardi per chiamare. Sprofondai in poltrona e mi misi a guardare il telefono come se fosse lui a dovermi suggerire il da farsi. Non lo fece. Allora presi il foglietto. Quando avevo detto a Sheila di telefonare ai genitori lei era impallidita. Era successo ieri. Soltanto ieri. Mi chiesi che cosa fare e il primo pensiero, il primissimo pensiero, fu quello di chiedere a mia madre perché lei avrebbe sicuramente saputo darmi la risposta giusta. Una nuova ondata di tristezza mi travolse. Sapevo però che dovevo agire. Dovevo fare qualcosa. E chiamare i genitori di Sheila era l'unica che mi venisse in mente. Una donna rispose al terzo squillo. «Pronto?» Mi schiarii la voce. «La signora Rogers?» Ci fu una pausa. «Sì?» «Mi chiamo Will Klein.» Attesi, cercando di capire se per quella donna il mio nome significasse qualcosa. Ma se così era, lei certo non me lo dimostrò. «Sono un amico di sua figlia.» «Quale figlia?» «Sheila.»
«Ah» disse la donna. «Mi risulta che si trovi a New York.» «Sì.» «È da lì che sta chiamando?» «Sì.» «Che cosa posso fare per lei, signor Klein?» Domanda sensata. Non lo sapevo nemmeno io, quindi partii dall'ovvio. «Ha idea di dove possa essere?» «No.» «Non l'ha vista, non le ha parlato?» La donna rispose con voce stanca. «Non parlo con Sheila e non la vedo da anni.» Aprii la bocca, la richiusi, cercai una strada da imboccare ma continuavo a girare a vuoto. «Lo sa che è scomparsa?» «Sì, le autorità ci hanno contattato.» Portai il ricevitore all'altro orecchio. «E avete potuto dargli qualche informazione utile?» «Utile?» «Ha idea di dove possa essere andata? Di dove è fuggita? Conosce l'indirizzo di qualche amico o parente che potrebbe ospitarla?» «Signor Klein?» «Sì?» «Sheila non fa più parte della nostra vita da moltissimo tempo.» «Perché?» Mi uscì fuori, quella domanda. Mi aspettavo naturalmente una reazione del tipo: "Non sono affari che la riguardano". Ma la donna rimase di nuovo in silenzio. Attesi, ma lei non sembrava avere alcuna intenzione di parlare per prima. «È che...» sentii che stavo cominciando a balbettare «Sheila è una persona meravigliosa.» «Lei è più di un amico, vero, signor Klein?» «Sì.» «Le autorità ci hanno detto effettivamente che Sheila viveva con un uomo. Immagino quindi che stessero parlando di lei.» «Stiamo insieme da circa un anno.» «Dalla voce mi sembra preoccupato.» «Lo sono.» «L'ama, quindi?» «Moltissimo.»
«Ma Sheila non le ha mai parlato del suo passato.» Non sapevo bene che cosa ribattere, anche se la risposta era ovvia. «Sto cercando di capire» dissi. «Non è così semplice. Nemmeno io capisco.» Il mio vicino decise a quel punto di accendere il suo stereo. Gli accordi del basso facevano tremare le pareti. Stavo telefonando con il cordless e mi spostai all'altra estremità dell'appartamento. «Voglio aiutarla» dissi. «Posso farle una domanda, signor Klein?» Il suo tono di voce mi fece aumentare la stretta delle dita sul telefono. «L'agente federale che è venuto a casa nostra» proseguì la donna «ha detto che non ne sapevano niente.» «Di che cosa non sapevano niente?» «Di Carly» rispose la signora Rogers. «Di dove possa trovarsi.» Ero confuso. «Chi è Carly?» Seguì un'altra lunga pausa. «Le do un consiglio, signor Klein.» «Chi è Carly?» chiesi di nuovo. «Continui a vivere la sua vita, e dimentichi di aver conosciuto mia figlia.» E riattaccò. 8 Presi una birra dal frigorifero e aprii la porta scorrevole, passando in quella che l'agenzia immobiliare aveva ottimisticamente definito "veranda". Aveva più o meno le dimensioni di una culla, c'era spazio al massimo per due persone in piedi purché rimanessero perfettamente immobili. Non c'erano sedie e, trovandosi al terzo piano, non si poteva nemmeno sperare nella veduta panoramica. Ma c'era aria, era sera e a me continuava a piacere. New York di notte è ben illuminata, immersa in un irreale chiarore nerazzurro. Sarà anche la città che non dorme mai, ma se la strada dove abito può costituire un indicatore direi che schiaccia una profonda pennichella. Le auto erano parcheggiate lungo il marciapiede, paraurti contro paraurti, e sembravano lottare per mantenere la posizione anche dopo che i proprietari le avevano lasciate. Gli echi della notte erano un mormorto pulsante. Udii della musica. Udii un rumore di stoviglie venire dal pizzaiolo sul marciapiede di fronte e il costante scorrere del traffico sulla West Side Highway,
ora meno intenso, simile a una ninnananna. Il mio cervello entrò in una fase di annebbiamento. Non sapevo che cosa stava succedendo. Non sapevo che cosa avrei dovuto fare. La mia telefonata alla mamma di Sheila non solo non aveva dato risposta a certe domande, ma ne aveva provocate delle altre. Le parole di Melissa, anche se mi bruciavano ancora, avevano sollevato un interessante quesito: che cosa ero pronto a fare, ora che sapevo che Ken era vivo? Volevo trovarlo, naturalmente. Volevo trovarlo a tutti i costi. Ma come? A parte il fatto che non ero un detective e non sapevo nemmeno da dove cominciare, se Ken avesse voluto farsi trovare si sarebbe presentato da me. Mettersi a cercarlo rischiava di provocare qualche disastro. E forse non era quella la mia priorità. Prima mio fratello se la squaglia. Ora la mia donna si dissolve nell'atmosfera. Mi incupii. Per fortuna non avevo un cane. Stavo portando la bottiglia alle labbra quando lo notai. Se ne stava fermo all'angolo, a una cinquantina di metri dal mio palazzo. Aveva addosso un trench e sulla testa qualcosa che assomigliava a un cappello di feltro, teneva le mani nelle tasche. Da lontano il suo viso assomigliava a una sfera bianca contro uno sfondo scuro, privo di lineamenti e troppo rotondo. Non vedevo i suoi occhi ma sapevo che mi stava osservando. Me lo sentivo addosso il peso del suo sguardo. Era palpabile. L'uomo non si mosse. Non c'erano molti passanti in strada, ma quei pochi che c'erano "passavano", sì, insomma, si muovevano. È quello che fanno tutti gli abitanti di New York. Si muovono. Si muovono con un obiettivo. Anche in attesa del semaforo o del passaggio delle auto i newyorkesi non stanno mai fermi e sono pronti a scattare. Gli abitanti di New York non hanno pace. Quell'uomo se ne stava invece immobile come un monumento. E mi guardava. Battei velocemente le palpebre. Era ancora là. Mi voltai e poi mi rigirai di scatto. Era ancora là e non si muoveva. Ma c'era dell'altro. In lui percepivo qualcosa di familiare. Non volevo esagerare. Eravamo a una certa distanza, era notte e non ho la vista di un falco, specialmente alla luce dei lampioni. Ma sentii sollevarsi i capelli sulla nuca, come i peli di un animale che avverte la presenza di un pericolo imminente. Decisi di ricambiare il suo sguardo, per studiare la sua reazione. Non si mosse. Non so per quanto rimanemmo a fissarci. Avvertii il sangue abban-
donare le punte delle dita. Venni avvolto dal gelo, ma al centro di me qualcosa si rafforzò. Non distolsi lo sguardo. E non lo distolse nemmeno quel viso privo di lineamenti. Squillò il telefono. Mi strappai da quel contatto di sguardi. Il mio orologio segnava le undici meno qualche minuto. Tardi per una telefonata. Senza voltarmi a lanciare un'ultima occhiata rientrai in casa e sollevai il ricevitore. «Dormivi?» mi chiese Squares. «No.» «Ti va di fare un giro in auto?» Era di turno con il furgone, quella notte. «Hai saputo qualcosa?» «Ci vediamo allo studio. Tra mezz'ora.» Riattaccò. Tornai alla veranda e guardai in strada. L'uomo era scomparso. La scuola di yoga si chiamava semplicemente Squares. Io ci scherzavo su, naturalmente. Squares non aveva bisogno di cognomi, come Cher o Fabio. La scuola, lo studio o come diavolo volete chiamarla, aveva sede in un palazzo a sei piani senza ascensore a University Place, dalle parti di Union Square. All'inizio le cose non erano andate precisamente a gonfie vele e la scuola aveva tirato avanti alla meglio. Poi un personaggio celebre, una pop star che conoscete fin troppo bene, "scoprì" Squares. Ne parlò agli amici. Pochi mesi dopo lo scoprì anche la rivista "Cosmos", quindi fu la volta di "Elle". A un certo punto una grossa società di "informercial", quel misto di informazioni e pubblicità, propose a Squares di fare un video e lui, che crede ciecamente nel commercio, accettò. Fu così che decollò lo Yoga Squared Workout, nome questo coperto da copyright. Il giorno in cui fu registrato il video, lui arrivò al punto di farsi la barba. Il resto è storia. D'improvviso, nessun evento sociale a Manhattan o negli Hamptons poté considerarsi un happening senza la partecipazione del guru del fitness preferito da tutti. Squares rifiutò molti inviti, ma imparò presto la lezione del "network", inteso come rete di iniziative associate. Non aveva quasi più tempo di insegnare. Se ci si vuole iscrivere a uno dei corsi, anche quelli tenuti dai suoi allievi meno esperti, la lista d'attesa è di un paio di mesi. La tariffa è di venticinque dollari a lezione. Squares ha ora quattro studi. Il più piccolo può ospitare cinquanta iscritti, il più grande quasi duecento. Gli istruttori sono ventiquattro e lavorano a rotazione. Erano le undici e mezzo
di notte quando mi diressi alla scuola dove mi aveva dato appuntamento, ed erano in corso tre lezioni. Fatevi due conti. In ascensore cominciai a udire gli strazianti accordi di un sitar mescolati con il rumore di cascatelle, un mix di suoni che personalmente trovo rilassante come i lamenti di un gatto. Appena usciti dall'ascensore si viene accolti dalla bottega dei regali, piena di incensi, libri, lozioni, audiocassette, video, CD-ROM, DVD, cristalli, perline, poncho e stoffe tinte a mano. Dietro il banco ci sono due esseri anoressici ventenniequalcosa dall'aria inequivocabile di chi si ciba soltanto di musli. Un maschio e una femmina, anche se non era facile attribuire loro il rispettivo genere. Avevano un tono di voce uniforme e pieno di sé, come quello di un maître di un ristorante particolarmente trendy. I loro piercing, numerosissimi, erano pieni di argento e turchese. «Salve» dissi. «Si tolga le scarpe, prego» mise subito in chiaro Probabilmente Maschio. «Giusto.» Me le tolsi. «Lei sarebbe?» mi chiese Probabilmente Femmina. «Devo vedere Squares, sono Will Klein.» Il nome li lasciò indifferenti. Dovevano lavorare lì da poco. «Ha un appuntamento con lo Yogi Squares?» «Yogi Squares?» ripetei. Mi fissarono. «Ditemi una cosa, uno Yogi Squares è più furbo di uno Squares qualsiasi?» Nessuna risata da parte dei ragazzotti; mi avrebbe sorpreso il contrario. Lei digitò qualcosa sulla tastiera del computer ed entrambi si misero a fissare accigliati il monitor. Lui sollevò il ricevitore e compose un numero. Il sitar ci stava dando dentro, sentivo che mi stava per scoppiare un mal di testa mostruoso. «Will?» Fece il suo ingresso nella hall una meravigliosa Wanda fasciata in una tuta aderente, il portamento eretto, le clavicole sporgenti e lo sguardo aperto. Era la più brava degli istruttori di Squares oltre che la sua donna. Stavano insieme ormai da tre anni. La suddetta tuta era color lavanda e tanto, tanto bella. Wanda era una visione sfrontata, alta, gambe lunghe, flessuosa,
bella da star male. E nera. Sì, nera. Un paradosso, questo, per chi era al corrente del "passato a scacchi" di Squares (se mi perdonate il gioco di parole). Mi strinse in un abbraccio caldo che sapeva di fumo di legna. Avrei voluto che non mi sciogliesse mai, da quell'abbraccio. «Come stai, Will?» mi chiese piano. «Meglio.» Fece un passo indietro, scrutandomi con quei suoi occhi alla ricerca della bugia. Era stata al funerale di mia madre. Lei e Squares non avevano segreti. Io e Squares non avevamo segreti. Per la proprietà transitiva se ne sarebbe potuto dedurre che io e lei non avevamo segreti. «Sta terminando una lezione di respirazione Pranayama» m'informò. Annuii. Inclinò la testa, come se le fosse appena venuto in mente qualcosa. «Hai un attimo, prima di andare via?» La sua voce cercava di mostrare indifferenza, invano. «Certo.» Fluttuò (Wanda era troppo aggraziata per camminare come un comune mortale) lungo il corridoio. La seguii con gli occhi incollati sul suo collo di cigno. Passammo davanti a una fontana così grande e arabescata che mi venne voglia di lanciarci dentro una moneta. Sbirciai in una delle aule. Silenzio totale, a parte i pesanti respiri. Sembrava un set cinematografico, pieno di persone affascinanti - non so come facesse Squares a trovare tante persone affascinanti - strette fianco a fianco in pose marziali, con i visi serenamente privi d'espressione, le gambe divaricate, le mani in fuori e un ginocchio portato avanti con un'angolazione di novanta gradi. L'ufficio che Wanda divideva con Squares era sulla destra. Lei si accomodò su una poltrona che sembrava fatta di polistirolo invece che di pelle e incrociò le gambe nella posizione del loto. Io mi sedetti di fronte a lei in una posizione più convenzionale. Non parlò per qualche istante. Teneva gli occhi chiusi e capii che stava cercando di rilassarsi. Attesi. «Io non ti ho detto niente» esordì. «Okay.» «Sono incinta.» «Ma è splendido.» Feci per alzarmi e andarmi a congratulare abbracciandola. «Squares non la sta prendendo molto bene.» Mi fermai. «Che cosa intendi dire?»
«Fa marcia indietro.» «Come?» «Tu non ne sapevi niente, vero?» «No.» «Eppure lui ti dice tutto, Will. Lo sa da una settimana.» Capii qual era il problema. «Probabilmente ha preferito non parlarne, dal momento che c'era in ballo il funerale di mia madre e tutto il resto.» Mi indirizzò un'occhiata dura. «Non ci provare.» «Hai ragione, scusa.» Distolse di scatto gli occhi dai miei. C'erano delle crepe nella sua espressione distaccata. «Pensavo che la cosa lo avrebbe reso felice.» «Non è così?» «Credo che voglia...» sembrava non riuscire a trovare le parole «che voglia evitare il fastidio.» Quella notizia mi colpì come un pugno, al punto da farmi fare un passo indietro. «Ha detto così?» «Non ha detto una parola. Ma esce sempre più spesso di notte con il furgone e tiene più lezioni di prima.» «Ti sta evitando.» «Sì.» La porta dell'ufficio fu aperta senza che avessero bussato. Sulla soglia comparve il viso non rasato di Squares. Lanciò a Wanda un sorriso veloce e superficiale e lei distolse lo sguardo. Poi sollevò il pollice verso di me. «Andiamo a fare un po' di rock and roll.» Non parlammo fino a quando non fummo al chiuso del furgone. «Te l'ha detto» fece lui. Non era una domanda ma un'affermazione, quindi non stetti lì a negare o a confermare. Infilò la chiave nel quadro. «Non ne parliamo» aggiunse. Altra affermazione che non prevedeva risposta. Il furgone della Covenant House si infila ogni volta nelle budella della città. Molti dei ragazzi sbandati vengono a bussare alla porta, molti altri li recuperiamo con questo furgone. Il nostro lavoro è quello di costruire un legame con la parte più umile e sofferente della società, di parlare ai ragazzini scappati da casa, ai monelli di strada, a quelli che vengono sempre più spesso definiti "marginali". Un ragazzo che vive in strada è un po' come un'erbaccia, se mi passate questa analogia. Più ci rimane e più difficile è strapparlo dalle radici.
Ne perdiamo tanti, di questi ragazzi. Più di quelli che salviamo. E fate conto che non abbia mai accennato a questo parallelo con l'erbaccia, un parallelo stupido perché dà per scontato che ci liberiamo di qualcosa di cattivo per preservare qualcosa di buono. Invece è esattamente il contrario. Allora proviamo in un altro modo: la strada è come il cancro, nel senso che la diagnosi precoce e la terapia immediata sono la chiave per una lunga sopravvivenza. Non è granché meglio, come esempio, ma il senso l'avete capito. «I federali hanno esagerato» disse Squares. «In che senso?» «A proposito dei precedenti di Sheila.» «Vai avanti.» «Gli arresti ci sono stati tanto tempo fa. Ti va di ascoltarmi?» «Sì.» Il furgone s'immerse nel buio. I posti dove le puttane vanno a battere sono mutevoli, nel senso che cambiano di volta in volta. Spesso si trovano vicino al Lincoln Tunnel o al Javits Center, ma ultimamente i poliziotti hanno intensificato le retate. Per rendere la città ancora più pulita. Le ragazze sono allora sciamate verso sud, in quella zona dalle parti della Diciottesima strada piena di macelli, nella parte estrema del West Side. Quella sera le battone erano uscite in forze. Squares le indicò con un cenno della testa. «Sheila potrebbe essere stata una di loro.» «Batteva?» «Una ragazzetta scappata dal Midwest viene assorbita dalla vita appena scende dalla corriera.» Il fenomeno era tutt'altro che nuovo e quindi di solito non mi sconvolgeva. Ma stavolta non si trattava di una qualsiasi estranea, bensì della donna più stupefacente che avessi mai conosciuto. «Tanto tempo fa» disse Squares, come se mi avesse letto nel pensiero. «Quando l'hanno arrestata per la prima volta aveva sedici anni.» «Prostituzione?» Annuì. «Poi ci sono stati altri tre arresti per lo stesso motivo nel giro di un anno e mezzo. A quanto risulta dalla sua fedina penale, lavorava per un magnaccia di nome Louis Castman. L'ultima volta le hanno trovato addosso una cinquantina di grammi e un coltello. Hanno cercato d'incastrarla per spaccio e rapina, ma non ci sono riusciti.» Guardai fuori dal finestrino. La notte si era fatta grigia, sbiadita. Si ve-
dono tante di quelle brutte cose, sulla strada. Noi ci diamo da fare per tappare qualche falla e so che ci riusciamo, so che cambiamo tante vite. Ma so anche che ciò che succede qui, in questo brulicante pozzo nero nella notte, i ragazzi che assistiamo non se lo staccano mai di dosso. Il guaio è compiuto. Puoi darti da fare quanto vuoi, puoi andare avanti, ma il danno è permanente. «Di che cosa hai paura?» gli chiesi. «Non ne parliamo.» «Tu l'ami. E lei ama te.» «Ed è nera.» Mi voltai verso di lui e aspettai. Lo so che il senso di quelle parole non era quello più ovvio, che lui non stava facendo il razzista. Ma è come ho appena detto, il danno è permanente. Avevo notato una certa tensione fra loro: non era forte come il loro amore, ma c'era. «L'ami» ripetei. Continuò a guidare. «Forse il suo essere nera ha contribuito all'attrazione iniziale» proseguii. «Ma lei non rappresenta più la tua redenzione. Sei innamorato di lei.» «Will?» «Sì?» «Basta.» Squares sterzò improvvisamente a destra. I fari inondarono i figli della notte. Non si dispersero come topi ma rimasero in silenzio a guardare, quasi senza battere ciglio. Squares li passò attentamente in rassegna, individuò la sua preda e frenò. Scendemmo senza dire una parola. I ragazzi ci guardarono con occhi spenti. Ricordo una battuta di Fantine nei Miserabili, il musical voglio dire, non so se ci sia anche nel libro: "Non lo sanno che stanno facendo l'amore con ciò che è già morto?". C'erano ragazze, ragazzi, travestiti, transessuali. Di notte ho visto ogni tipo di perversione, sulle strade, e rischio volentieri l'accusa di sessismo aggiungendo di non avere mai visto una donna tra i clienti. Non dico che le donne non comprino mai il sesso, sicuramente lo fanno. Ma non hanno bisogno come gli uomini di passare in rassegna questo campionario umano. I clienti sulla strada sono sempre uomini. Possono cercare una donna popputa o una magra, giovane o vecchia, dalle prestazioni semplici o disposta a quelle più elaborate, omoni, ragazzini, animali, qualsiasi cosa, insomma. Qualcuno di loro può anche presentarsi accompagnato da una donna, cioè
insieme alla moglie o la fidanzata per farla partecipare all'ammucchiata. Ma i clienti che si aggirano per le strade del peccato sono soltanto uomini. Nonostante ciò che si dice a proposito del sesso estremo, questi clienti vengono di solito qui per acquistare un certo... atto, se mi passate il termine. Qualcosa che viene eseguito su di loro, che può facilmente avere luogo dentro un'auto. Conviene a entrambi, se ci pensate bene. Non bisogna sprecare tempo e soldi per una camera. La preoccupazione di una malattia venerea o peggio c'è sempre, ma è di gran lunga inferiore. Non c'è pericolo di gravidanza. Non c'è bisogno di spogliarsi completamente... Vi risparmio gli altri particolari. Le veterane della strada, e per veterane intendo quelle dai diciotto anni in su, accolsero Squares con calore. Lo conoscevano, gli era simpatico. Diffidavano un po' della mia presenza, non venivo in trincea da diverso tempo. Ma alcune delle più anziane mi riconobbero e, stranamente, fui contento di vederle. Squares si avvicinò a una battona di nome Candi, ma probabilmente non era quello il suo vero nome. Ormai ho una certa esperienza. Con il mento Candi ci indicò due ragazzine tremanti rannicchiate davanti a un portone. Le guardai, non dovevano avere più di sedici anni, con il viso impiastricciato come due bambine che si sono impossessate dei cosmetici della mamma, e sentii male al cuore. Indossavano shorts corti oltre ogni limite, stivali a mezza coscia con tacchi altissimi e una pelliccetta falsa. Mi chiedo spesso dove li trovino certi articoli, forse i magnaccia conoscono speciali negozi d'abbigliamento per puttane. «Carne fresca» disse Candi. Squares annuì, cupo. Molte delle informazioni più utili ci vengono dalle veterane, e questo per due motivi. Il primo, decisamente cinico, è che togliere dalla circolazione le nuove arrivate significa sbarazzarsi della concorrenza. Se si vive sulla strada si diventa brutte in fretta, e Candi era francamente orribile. Una vita così ti invecchia più velocemente di quella in qualsiasi altro buco nero. Le nuove arrivate, anche se costrette a starsene rannicchiate davanti ai portoni prima di guadagnarsi la pagnotta, prima o poi verranno notate. Ma questa ipotesi è ingenerosa, credo. Il secondo motivo, quello più importante, è che le veterane vogliono essere d'aiuto: e vi prego di non considerarmi ingenuo o ottimista. Perché vedono loro stesse, le veterane. Vedono il bivio e, anche se non sono disposte ad ammettere di avere preso la direzione sbagliata, sanno che ormai per loro è troppo tardi. Non possono
tornare indietro. Ho avuto discussioni con tante di quelle Candi; ho insistito spiegando loro che non è mai troppo tardi, che c'è sempre tempo per riprendersi. Sbagliavo. Anche per questo, ripeto, cerchiamo di agire con la massima urgenza: esiste infatti un certo punto superato il quale non puoi più salvarle. La distruzione è irreversibile. La strada le consuma. Loro sbiadiscono, diventano parte della notte, si trasformano in un'unica scura entità e noi le perdiamo. Moriranno probabilmente in strada, oppure finiranno in prigione o in manicomio. «Dov'è Raquel?» chiese Squares. «Sta lavorando dentro un'auto.» «Poi torna qui?» «Sì.» Squares dedicò la sua attenzione alle due ragazzine. Una se ne stava già appoggiata al tettuccio di una Buick Regal. Non potete immaginare la frustrazione. Ti viene voglia di farti avanti, di tirare via la ragazzina e infilare la mano in gola al cliente strappandogli i polmoni. Vorresti almeno cacciarlo via, scattargli una foto, qualcosa. E invece non fai niente, per non perdere la fiducia delle ragazze. Se perdi la fiducia, è inutile che provi a salvarle. È difficile starsene senza fare niente. Io per fortuna non sono particolarmente coraggioso o aggressivo, e forse questo mi rende il compito più facile. Vidi aprirsi lo sportello dalla parte del passeggero e la Buick Regal sembrò inghiottire la ragazzina. Lei svanì lentamente, affondando nell'oscurità. Rimasi a guardare e credo di non essermi mai sentito così impotente. Mi voltai verso Squares, che teneva gli occhi fissi sull'auto. La Buick si allontanò. La ragazza era scomparsa come se non fosse mai esistita. Se l'auto sceglie di non tornare, quella ragazza non sarà effettivamente mai esistita. Squares si avvicinò alla giovane rimasta e io lo seguii, tenendomi a qualche passo di distanza. Il labbro inferiore della ragazzina tremava come se lei stesse cercando di trattenere le lacrime, ma gli occhi le brillavano mentre ci guardava con aria di sfida. Avrei voluto farla salire sul furgone, se necessario con la forza. La parte più difficile di questo lavoro è l'autocontrollo, per questo Squares era il capo. Si fermò a un metro di distanza, attento a non invadere il suo spazio. «Salve» le disse. Lei gli lanciò un'occhiata e biascicò un: «Ehi». «Chissà se puoi aiutarmi.» Fece un altro passo e tirò fuori di tasca una
foto. «L'hai vista, per caso?» La ragazzina non la guardò nemmeno. «Non ho visto nessuno.» «Ti prego» le disse Squares, con un sorriso quasi celestiale. «Non sono uno sbirro.» Lei cercò di atteggiarsi a dura. «Me l'immaginavo, dopo che ti ho visto parlare con Candi e tutto il resto.» Squares si avvicinò ancora quasi impercettibilmente. «Io, cioè il mio amico e io» e, seguendo il copione, le sorrisi facendole un cenno di saluto con la mano «stiamo cercando di salvare questa ragazza.» La cosa l'incuriosì. «Salvarla in che senso?» «Della brutta gente le sta dando la caccia.» «Chi?» «Il suo sfruttatore. Noi lavoriamo per la Covenant House, ne hai mai sentito parlare?» Lei fece spallucce. «È un posto dove è possibile starsene un po' tranquilli» le spiegò Squares, cercando di non calcare troppo la mano. «Niente di speciale. Puoi avere un piatto di minestra calda, un letto, puoi usare il telefono, trovarti degli abiti. Questa qui» e sollevò la foto di scuola di una ragazza bianca con l'apparecchio per i denti «si chiama Angie.» Dare sempre un nome, personalizzare la storia. «Stava con noi, seguiva un paio di corsi. È una tipa davvero divertente. E aveva anche trovato un lavoro. Insomma, la sua vita era cambiata, sai.» La ragazzina non aprì bocca. Squares le tese la mano. «Mi chiamano tutti Squares» disse. Lei sospirò e gliela strinse. «Io sono Jeri.» «Piacere di conoscerti, Jeri.» «Sì. Ma io non ho visto nessuna Angie, e qui ho abbastanza da fare.» A questo punto bisogna andarci con i piedi di piombo. Se si insiste la si perde per sempre, si rintana nel suo buco e non ne esce più. Tutto ciò che si può fare è piantare il seme. Farle sapere che esiste un porto sicuro dove può trovare rifugio e cibo. Darle l'occasione di togliersi dalla strada per una notte. Una volta che ti è venuta dietro le dimostri amore senza condizioni. Ma non ora, la spaventeresti. La faresti scappare. Anche se ti senti rodere dentro, non puoi fare di più. Erano pochissimi quelli in grado di svolgere a lungo il lavoro di Squares. E questi pochissimi, quelli che resistevano e si dimostravano particolarmente abili, dovevano per forza di cose essere un po' fuori di testa.
Squares esitò. Da quando lo conosco usa sempre questa tecnica per rompere il ghiaccio. La ragazza della foto era morta quindici anni prima in strada per assideramento. Squares l'aveva trovata vicino a una discarica. Al funerale la madre di Angie gli aveva dato quella foto, e credo di non averlo mai visto senza. «Okay, grazie.» Squares estrasse di tasca un biglietto e lo porse alla giovane. «Se la dovessi vedere, me lo fai sapere? Puoi chiamare quando vuoi, per qualsiasi motivo.» Lei prese il biglietto e se lo rigirò tra le dita. «Sì, forse.» Altra esitazione. «Ci vediamo» le disse Squares. «Sì.» E facemmo la cosa più innaturale di questo mondo. Ci allontanammo. Raquel si chiamava in effetti Roscoe. Quello era almeno il nome che lei, o lui, ci aveva dato. Non so mai se parlando di Raquel devo adoperare il maschile o il femminile. Sarebbe forse opportuno che lo chiedessi a lei/lui. Con Squares trovammo l'auto ferma davanti a un'entrata di servizio sbarrata con le assi. I finestrini erano appannati, ma noi ci tenemmo ugualmente a una certa distanza. Qualsiasi cosa stesse succedendo là dentro, e ne avevamo un'idea piuttosto precisa, non ci invogliava a fare i testimoni. Lo sportello si aprì un minuto più tardi e Raquel scese dall'auto. Come ormai avrete capito, Raquel era un travestito e questo spiega la confusione dei generi. Con i transessuali non si sbaglia e si parla di loro come di donne. I travestiti creano invece qualche problema, da questo punto di vista: talvolta rivolgersi a loro come donne va bene, altre volte è un tantino troppo politically correct. Come, probabilmente, nel caso di Raquel. Scese dall'auto, frugò nella borsetta e ne tirò fuori un flaconcino di spray per l'alito. Tre spruzzi, una pausa, altri tre spruzzi. L'auto si allontanò e Raquel si voltò verso di noi. Molti travestiti sono belli, Raquel no. Era nero, alto quasi due metri e doveva pesare qualcosa come centoquaranta chili. Aveva bicipiti grossi come prosciutti e la sua ombra di barba mi ricordava quella di Homer Simpson. La sua voce era così stridula che al confronto quella di Michael Jackson poteva far pensare a un camionista. Raquel sosteneva di avere ventinove anni, ma continuava a ripeterlo da quando lo conoscevo, cioè da sei anni. Lavorava cinque notti la settimana, con il sole o con la pioggia, e aveva i suoi clienti affezionati. Avrebbe po-
tuto togliersi dalla strada, se avesse voluto, trovarsi un posto al coperto dove ricevere su appuntamento, roba del genere. A lui piaceva invece quella vita, ma molti certe cose non le capiscono. La strada può essere buia e pericolosa, ma, a suo modo, crea dipendenza. La notte ha una sua energia, una sua elettricità. Ci si sente collegati alla strada come da una spina. Per alcuni dei nostri ragazzi la scelta è tra un umile lavoro da McDonald's e l'eccitazione che ti dà la notte: e se non hai futuro la questione non si pone nemmeno. Raquel ci vide e si diresse verso di noi sui suoi tacchi a spillo. Scarpe numero quarantasette. Si fermò sotto un lampione, aveva il volto stanco come una pietra sottoposta a secoli di intemperie. Non conosco il suo passato, e lui racconta un sacco di bugie. Pare che sia un ex giocatore di football costretto ad abbandonare l'attività dopo essersi maciullato un ginocchio. Un'altra volta gli sentii affermare di avere a suo tempo vinto una borsa si studio per il college grazie al punteggio totalizzato nei test attitudinali. Secondo alcuni sarebbe un reduce della guerra del Golfo. Scegliete voi la storia che preferite oppure inventatene una nuova. Raquel accolse Squares con un abbraccio e un buffetto sul viso. Poi portò l'attenzione su di me. «Hai un'aria splendida, dolce Willy» mi disse. «Grazie, Raquel.» «Devi essere saporito da mangiare.» «Ho lavorato molto all'aperto, per questo sono tanto appetitoso.» Raquel mi gettò un braccio sulla spalla. «Potrei innamorarmi di un uomo come te.» «Sono lusingato, Raquel.» «Un uomo come te potrebbe portarmi via da qui.» «Ma pensa a tutti i cuori infranti che lasceresti in questa fogna.» Ridacchiò. «Hai ragione.» Gli mostrai una foto di Sheila, l'unica che avevo. Strano, a pensarci ora. Né io né lei eravamo fanatici delle fotografie: ma possibile che ne avessi una sola? «La riconosci?» gli chiesi. Raquel studiò la foto. «È la tua donna» disse poi. «L'ho vista una volta insieme a te al rifugio.» «Giusto. L'hai vista da qualche altra parte?» «No, perché?» Non c'era alcun motivo di mentire. «Se n'è andata, la sto cercando.»
Raquel studiò ancora per un po' la foto. «Posso tenerla?» In ufficio avevo delle copie a colori e quindi gliela lasciai. «Chiederò un po' in giro» mi promise. «Grazie.» «Raquel?» Era Squares. «Ti ricordi un magnaccia che si chiamava Louis Castman?» Raquel sbiancò in viso e cominciò a guardarsi attorno. «Raquel?» «Devo tornare al lavoro, Squares. Gli affari, sai.» Mi piazzai davanti a lui. Raquel abbassò lo sguardo su di me, come se fossi un granello di forfora che avrebbe potuto togliersi dalla spalla. «Una volta lavorava in strada» gli dissi. «La tua ragazza?» «Sì.» «E lavorava per Castman?» «Sì.» Raquel si fece il segno della croce. «Un omaccio cattivo, dolce Willy. Castman era il peggiore.» «In che senso?» Si leccò le labbra. «Le ragazze, quelle là, sono una rendita, se capisci che cosa voglio dire. Merce. È un lavoro come un altro: se fanno soldi rimangono, se non fanno soldi... be', lo sai.» Lo sapevo. «Ma Castman...» Raquel sussurrava il suo nome come tanta gente sussurra la parola "cancro" «Castman era diverso.» «Cioè?» «Danneggiava la sua stessa mercanzia, a volte così, per divertimento.» «Ne parli al passato» gli fece notare Squares. «Perché non si vede più in giro da... fammi pensare... tre anni.» «È vivo?» Raquel si fece silenzioso e distolse gli occhi. Io e Squares ci scambiammo un'occhiata e aspettammo. «È ancora vivo» riprese. «Credo.» «Come sarebbe a dire "credo"?» Raquel scosse la testa. «Dobbiamo parlargli» dissi. «Sai dove possiamo trovarlo?» «Ho sentito delle voci.» «Che tipo di voci?»
Scosse ancora la testa. «Andate a vedere in un posto all'angolo tra Wright Street e la Avenue D, nel South Bronx. Ho sentito che potrebbe abitare là.» E Raquel si allontanò, sicuro sui suoi tacchi a spillo. Un'auto gli si fermò accanto e ancora una volta vidi un essere umano scomparire nella notte. 9 Di solito non si va a cuor leggero a svegliare qualcuno a casa sua all'una di notte. Ma in quella zona della città non ci si facevano scrupoli del genere. Le finestre di casa erano tutte sbarrate da assi incrociate. La porta era costituita da una tavola di compensato. Mi verrebbe da dire che la vernice si stava scrostando, ma forse sarebbe più esatto parlare di disfacimento. Squares bussò alla porta di compensato e dall'interno sentimmo subito una donna gridare: «Che volete?». Fu Squares a parlare. «Cerchiamo Louis Castman.» «Andatevene.» «Dobbiamo parlargli.» «Avete un mandato?» «Non siamo della polizia.» «Chi siete?» «Lavoriamo per la Covenant House.» «Non ci sono ragazzini scappati di casa, qui» gridò la donna, quasi isterica. «Andate via.» «A lei la scelta: parliamo ora con Castman, oppure torniamo con un gruppetto di sbirri impiccioni.» «Non ho fatto niente.» «Posso sempre farmi venire qualche idea» disse Squares. «Apra la porta.» La donna si decise immediatamente. Sentimmo scorrere un catenaccio, poi un altro, poi una catena. Si aprì uno spiraglio. Feci per avvicinarmi, ma Squares mi fermò con il braccio. Meglio aspettare che la porta venisse aperta completamente. «Presto» disse la donna, con una voce gorgogliante da strega. «Entrate, non voglio che vi vedano.» Squares spinse la porta, che si aprì del tutto. Varcammo la soglia e la donna richiuse. Due cose mi colpirono subito. L'oscurità, anzitutto. L'unica luce veniva da una lampada da pochi watt nell'angolo in fondo a destra.
Vidi una poltroncina logora, un tavolinetto e basta. Poi, quel tanfo. Fatevi venire in mente il ricordo più vivo dell'aria fresca respirata a pieni polmoni all'aperto, poi immaginatevi l'esatto contrario. C'era una tale puzza di chiuso da farmi venire paura di respirare. Era in parte puzza di ospedale, ma anche di qualcosa che non riuscivo a individuare. Mi chiesi quando era stata l'ultima volta che qualcuno aveva aperto una finestra, lì dentro, e la stanza sembrò sussurrare: "Mai". Squares si voltò verso la donna, che si era rannicchiata in un angolo. Nell'oscurità vedevamo solo una sagoma. «Mi chiamano Squares» si presentò. «Lo so chi sei.» «Ci conosciamo?» «Non ha importanza.» «Lui dov'è?» le chiese. «C'è soltanto un'altra stanza, qui dentro» rispose lei sollevando lentamente la mano. «Potrebbe essere addormentato.» Gli occhi cominciarono ad abituarsi all'assenza di luce. Mi avvicinai alla donna e lei non si mosse. Mi feci ancora più vicino. Quando sollevò la testa mi mancò quasi il fiato. Biascicai qualche parola di scusa e cominciai a indietreggiare. «No, voglio che vediate.» Attraversò la stanza andando a mettersi sotto la lampadina e si voltò. Né Squares né io trasalimmo, devo darcene atto. Ma non fu facile. Chi l'aveva conciata in quel modo ci si era applicato con il massimo impegno. A suo tempo era stata probabilmente una bellezza, ma poi sembrava avere subito un trattamento di anti-chirurgia plastica. Il naso, una volta forse ben modellato, era stato schiacciato come uno scarafaggio sotto uno scarpone. La pelle un tempo liscia era ora spaccata e increspata. Gli angoli della bocca le erano stati tirati, al punto che non si capiva più dove finisse. Decine di cicatrici violette in rilevo le attraversavano il viso, simili al lavoro che potrebbe fare un bambino di tre anni con un foglio di carta e una matita colorata. L'occhio sinistro, morto nella sua orbita, era spostato di lato; l'altro ci fissava senza battere ciglio. «Una volta battevi la strada» disse Squares. Lei annuì. «Come ti chiami?» Muovere la bocca sembrava costarle una fatica enorme. «Tanya.» «Chi ti ha conciato così?» «Tu chi credi?»
Non ci curammo di risponderle. «È dietro quella porta» disse. «A lui provvedo io e non gli faccio mai del male, capito? Non alzo mai le mani su di lui.» Non sapevo che cosa pensare, e nemmeno Squares, credo. Ci avvicinammo alla porta. Non si udiva alcun rumore. Forse stava dormendo. Tanto piacere, si sarebbe svegliato. Squares mise la mano sulla maniglia e si voltò verso di me. Gli feci capire con lo sguardo di non preoccuparsi. Allora aprì la porta. La luce era accesa, in quella stanza. Tanta luce, al punto che dovetti mettermi una mano davanti agli occhi. Udii una specie di bip-bip e vidi accanto al letto qualcosa che doveva essere un'apparecchiatura sanitaria. Ma non fu questa ad attirare subito la mia attenzione. Le pareti. Le si notava subito. Erano rivestite di sughero, si vedeva ancora del marrone, ma soprattutto erano ricoperte da fotografie. Centinaia di fotografie. Alcune ingrandite in formato poster, altre nel classico 8x12, la maggior parte in un formato intermedio, fissate al sughero con puntine da disegno. Ed erano tutte foto di Tanya. Così mi sembrò, almeno. Erano tutte precedenti alla deturpazione. Non mi ero sbagliato: Tanya era stata bella, una volta. Le foto, in maggioranza ritratti tipici del book di una modella, erano inequivocabili. Sollevai lo sguardo. Ce n'erano tante altre sul soffitto, come a comporre un affresco infernale. «Aiutatemi. Vi prego.» La vocina veniva dal letto. Squares e io ci avvicinammo. Tanya ci venne dietro, schiarendosi la voce. Ci voltammo. Sotto quella luce violenta le cicatrici sembravano quasi avere preso vita e muoversi sul suo viso come decine di vermi. Il naso non era soltanto appiattito ma sformato, simile all'argilla. Le vecchie foto sembravano illuminarsi, con un perverso effetto di "prima e dopo la cura". L'uomo a letto mugolò. Aspettammo. Tanya mosse l'occhio buono prima su di me, poi verso Squares. L'occhio sembrava diffidarci dal dimenticare per imprimerci invece nel cervello quell'immagine, per ricordarci ciò che lei era stata una volta e come lui l'aveva poi conciata. «Ha adoperato un rasoio a mano libera» disse. «Arrugginito. Ha impiegato più di un'ora per ridurmi così. E non si è limitato a tagliarmi la faccia.»
Senza aggiungere una parola, Tanya uscì richiudendosi la porta alle spalle. Restammo per un po' in silenzio. «Sei Louis Castman?» gli chiese poi Squares. «Siete sbirri?» «Sei Castman?» «Sì. E sono stato io. Cristo, confesso tutto quello che volete, sono stato io. Basta che mi portiate via da qui. Per l'amor di Dio.» «Non siamo della polizia» disse Squares. Castman giaceva supino sul letto. Collegato al suo torace c'era una specie di tubo. L'apparecchio emetteva il suo bip-bip e qualcosa continuava ad alzarsi e abbassarsi come una fisarmonica. Era un bianco, rasato e strigliato di fresco. I capelli erano puliti. Il letto aveva un binario e dei comandi. Vidi in un angolo una padella da ospedale e un lavandino, ma per il resto la stanza era vuota. Niente cassetti, armadi, televisore, radio, orologi a muro, libri, giornali, riviste. Le pesanti tende erano tirate. Provai una specie di fitta alla bocca dello stomaco. «Che cos'hai?» gli chiesi. Gli occhi di Castman, ma soltanto gli occhi, si volsero verso di me. «Sono paralizzato» disse. «Sono un fottuto tetraplegico. Sotto il collo...» s'interruppe, abbassando gli occhi «niente.» Non sapevo da dove cominciare. E non lo sapeva, apparentemente, nemmeno Squares. «Per favore» riprese lui «dovete portarmi via da qui. Prima che...» «Prima che cosa?» Chiuse gli occhi, poi li riaprì. «Mi hanno sparato... tre, forse quattro anni fa. Non lo so più. Non so che giorno e mese sia, né in che anno siamo. La luce è sempre accesa, quindi non so se è giorno o notte. Non so nemmeno chi è il presidente.» Inghiottì, non senza fatica. «È pazza, sapete. Provo a gridare aiuto ma è inutile, ha tappezzato tutto di sughero. E io passo le giornate a letto, a guardare quelle pareti.» Ritrovai con difficoltà la voce. Squares, comunque, era imperturbabile. «Non siamo venuti a sentire la storia della tua vita» gli disse. «Dobbiamo farti qualche domanda su una delle tue ragazze.» «Avete trovato la persona sbagliata. Non lavoro in strada da una vita.» «Anche la ragazza che ci interessa non lavora in strada da una vita.» «Chi è?» «Sheila Rogers.»
«Ah.» Castman sorrise udendo quel nome. «Che cosa volete sapere?» «Tutto.» «E se mi rifiutassi di parlare?» Squares mi toccò una spalla. «Andiamocene.» Nella voce di Castman si leggeva il panico allo stato puro. «Un momento.» Squares abbassò lo sguardo su di lui. «Se non vuoi collaborare, signor Castman, a noi sta bene lo stesso. Non ti disturberemo oltre.» «Aspettate!» gridò. «Lo sapete quante persone sono venute a trovarmi da quando sto qui?» «Non ci interessa» disse Squares. «Sei. Sei in tutto e nessuno da un anno in qua, credo un anno ma come faccio a saperlo? Tutte e sei erano le mie ragazze d'una volta. Sono venute per ridermi in faccia. Per guardarmi mentre mi caco addosso. E volete sapere qual è la cosa più assurda? Che, pur sapendolo, non vedevo l'ora che arrivasse qualcuna di loro. Tutto pur di spezzare la monotonia.» Squares sembrava impaziente. «Sheila Rogers.» Il tubo emise una specie di risucchio. Castman aprì la bocca e si formò una bolla di saliva. La richiuse e provò di nuovo a parlare. «L'ho conosciuta... Dio, sto cercando di ricordare... dieci, quindici anni fa. Battevo Port Authority. Lei scese da un pullman arrivato dall'Idaho o dall'Iowa, insomma un cesso di posto del genere.» Batteva Port Authority, la stazione delle corriere. La conoscevo bene, quella tecnica. I magnaccia aspettano al terminal. Cercano ragazzine appena scese dai pullman, le disperate, le fuggitive, la carne fresca, quelle che arrivano nella Grande Mela per fare le modelle o le attrici, per rifarsi una vita oppure per fuggire dalla noia o dagli abusi sessuali. I magnaccia stanno lì ad aspettare come rapaci, questo sono. E poi si lanciano, afferrano la preda e l'azzannano. «Avevo successo» riprese Castman. «Anzitutto, sono bianco. E la carne del Midwest che arriva in città, quasi tutta carne bianca, diffida dei fratelli afro. Con me invece era diverso. Avevo un bel vestito, una borsa professionale, ed ero un po' più paziente. Quel giorno, comunque, ero in attesa al terminal 127, il mio preferito perché da lì si possono tenere d'occhio fino a sei diverse uscite. Sheila scese dal pullman e, ragazzi, che sventola. Avrà avuto sedici anni, di primo pelo. E vergine, per giunta, anche se allora non lo sapevo: l'avrei scoperto dopo.» Sentii i miei muscoli irrigidirsi. Squares lentamente andò a mettersi tra
me e il letto. «Così cominciai a parlarle dolcemente. Con lei usai la tecnica più raffinata, sapete?» Sapevamo. «Le dico che voglio fare di lei una modella famosa. Ma glielo dico con le parole giuste, non come fanno quegli altri stronzi, parole come seta. Sheila però era più sveglia delle altre. Diffidente. Mi rendevo conto che non se la stava bevendo, ma a me andava bene lo stesso. Io non metto mai fretta, sapete, e lavoro alla luce del sole. Alla fine della giornata le ragazze volevano credere a quello che avevo detto, giusto? Quanti racconti avevano sentito di supermodelle scoperte alle fiere di paese o roba del genere; e poi, è proprio per questo che erano venute a New York, no?» Il bip-bip s'interruppe, la macchina emise un gorgoglio e poi riprese. «Sheila, quindi, incrocia per così dire le braccia. Mi dice subito che non va ai party o roba del genere. Qual è il problema, non è nemmeno il mio genere. Sono un uomo d'affari, io. Un fotografo professionista, oltre che un talent-scout. Faremo delle foto, tutto qui, realizzeremo un book. Ma niente party, niente droga, niente nudo, niente che possa metterla a disagio. E sono bravo come fotografo, sapete? Ho l'occhio giusto. Vedete le pareti? Le ho scattate io tutte le foto di Tanya.» Guardai i ritratti di Tanya, di quando era bella, e il gelo mi penetrò in fondo al cuore. Quando riportai lo sguardo sul letto mi accorsi che Castman mi stava fissando. «Tu» disse. «Io che cosa?» «Sheila.» Sorrise. «Per te è importante, sbaglio?» Non risposi. «La ami.» Si attardò su quell'"ami", prendendomi in giro. Rimasi immobile. «E ti capisco, amico. Ne aveva di qualità, quella ragazza. Tra l'altro, gente, sapeva succhiare il...» Feci per lanciarmi verso il letto ma Squares mi trattenne, mentre Castman rideva. Squares mi guardò dritto negli occhi scuotendo la testa, e io indietreggiai. Aveva ragione. Castman smise di ridere, senza però distogliere lo sguardo da me. «Vuoi sapere come ho fatto a trasformare la tua ragazza, caro il mio innamorato?» Rimasi in silenzio.
«Come ho fatto con Tanya. Io, vedi, mi dedicavo ai tagli di carne migliori, quelli sui quali i fratelli neri non potevano mettere gli artigli. Un'operazione raffinata, la mia. Quindi, riempio Sheila di promesse e alla fine riesco a portarmela in studio per scattare qualche foto. Tutto qui, non ho dovuto fare altro. Bastava punzecchiarla con una forchetta per accorgersi che era cotta.» «Come?» «Vuoi davvero saperlo?» «Come?!» Castman chiuse gli occhi, sempre sorridendo come se stesse assaporando quel ricordo. «Le feci un mucchio di foto, tutte belle e pulite. E alla fine le puntai un coltello alla gola. Quindi l'ammanettai a un letto, in una stanza che era...» ridacchiò, poi spalancò gli occhi e li roteò «insonorizzata, con le pareti ricoperte di sughero come questa. La drogai. La filmai quando si era per metà risvegliata, così che sembrasse consenziente. E fu così, tra parentesi, che la tua Sheila perse la verginità. In video. Con il sottoscritto. Sono un mago, sì o no?» La rabbia riprese a divamparmi dentro, consumandomi. Non sapevo quanto avrei potuto resistere prima di saltargli al collo. Ma era proprio quello che voleva lui, capii poi. «Dov'eravamo rimasti? Ah, sì. L'ammanettai e la riempii di droga per una settimana circa. Roba di prima qualità, costosa, ma sono spese che bisogna affrontare nella mia professione, e in ogni professione c'è un periodo di addestramento, giusto? Alla fine Sheila era dipendente al cento per cento. Quando le tolsi le manette, quella mi avrebbe leccato le scarpe per avere una dose, non so se mi spiego.» Si fermò, come in attesa di un applauso. Ebbi l'impressione che qualcosa mi stesse straziando le viscere. Squares riuscì a non alzare la voce. «Poi l'hai mandata sul marciapiede?» «Sì. Le ho insegnato anche qualche giochetto. Come farli venire in fretta. Come farlo con più di un uomo alla volta. Ero il suo maestro.» Temetti di vomitare da un momento all'altro. «Vai avanti» gli disse Squares. «No. No se prima non...» «Allora ti salutiamo.» «Tanya» disse Castman. «Tanya che cosa?» Si leccò le labbra. «Mi date un po' d'acqua?»
«No. Tanya, dicevi?» «Quella troia mi tiene qui. Non è giusto. Certo, le ho fatto del male ma avevo le mie buone ragioni. Voleva andarsene, sposare un tipo di Garden City. Credeva che fossero innamorati. Una bella storia alla Pretty Woman, vi pare? E si voleva tirare dietro alcune delle mie ragazze migliori. Portarsele a Garden City, ripulirle e vivere tutti felici e contenti. Cazzate. Non potevo permetterlo.» «Quindi, le hai dato una lezione» disse Squares. «Certo. È così che è andata.» «Le hai rovinato la faccia con un rasoio.» «Non solo la faccia, perché avrebbero potuto continuare a scoparsela mettendole un cuscino sul viso, non so se mi spiego. Hai detto bene, comunque. Era una lezione, anche per le altre. Però, e qui arriva la parte divertente, il suo uomo non sapeva niente ed era tornato da quella sua grande casa a Garden City per portarsela via. Quello stronzo aveva una .22. Io gli rido in faccia e lui mi spara, questo cafone di un ragioniere di Garden City. Mi spara con la sua .22 e, pam, il proiettile mi si conficca nella spina dorsale. E mi lascia così. Ci credereste? E poi, qui viene il bello, dopo che mi ha sparato Mr Garden City scopre come ho conciato Tanya. E sapete che cosa fa, allora, il grande amore di Tanya?» Attese. Rimanemmo in silenzio, considerando retorica la sua domanda. «Se ne va e la molla, capito? Vede il lavoretto che ho fatto su Tanya e se la dà a gambe. Il suo grande amore! Non vuole avere più niente a che fare con lei, e infatti quei due non si vedono da allora.» Castman si mise di nuovo a ridere. Io cercai di restare fermo e respirare. «Me ne sto in ospedale così, immobile» proseguì «e Tanya firma una dichiarazione, mi fa dimettere e mi porta qui. Per accudirmi. Capite che cosa voglio dire? Per allungarmi la vita. Se rifiuto il cibo lei m'infila un tubo in gola. Sentite, vi dirò tutto quello che volete sapere, ma voi dovete fare qualcosa per me.» «Che cosa?» gli chiese Squares. «Dovete uccidermi.» «Non se ne parla nemmeno.» «Allora dovete chiamare la polizia e farmi arrestare. Confesserò tutto.» «Che fine ha fatto Sheila Rogers?» «Promesso?» Squares mi guardò. «Abbiamo saputo abbastanza, andiamocene.» «Okay, okay, ve lo dirò. Ma voi pensateci... d'accordo?»
Spostò lo sguardo da Squares a me, poi lo riportò su Squares ma sul suo viso non lesse nulla. Io non ho idea di ciò che si leggesse sul mio. «Non so dove si trovi ora Sheila. Che diavolo, non ho proprio capito che cosa è successo a suo tempo.» «Quanto tempo ha lavorato per te?» «Due anni. Tre, forse.» «E come se n'è andata?» «Eh?» «Tu non hai l'aria del datore di lavoro che permette ai dipendenti di mettersi in proprio» osservò Squares. «Ti sto chiedendo che cosa successe.» «Batteva la strada, giusto? Cominciò ad avere dei clienti affezionati, era brava nel suo lavoro. Ma a un certo punto iniziò a farsela con pesci più grossi. Capita. Non spesso, ma capita.» «Che cosa intendi per pesci più grossi?» «Trafficanti. Trafficanti seri, penso. Lei cominciò a fare il corriere, a consegnare la merce, almeno credo. E, quel che è peggio, smise di farsi. Stavo per andarmela a riprendere, ma lei aveva amici autorevoli.» «Per esempio?» «Conoscete Lenny Misler?» «L'avvocato?» chiese Squares. «L'avvocato della mala» lo corresse lui. «La polizia la beccò durante una consegna e Misler la difese.» Squares sollevò le sopracciglia. «Lenny Misler che rappresenta una prostituta beccata durante una consegna?» «Capito? Lei esce subito e io comincio ad annusare l'aria per scoprire che cosa ha in mente Sheila. A quel punto ricevo la visita di due gorilla, che mi consigliano di starmene alla larga. Io non sono scemo e capisco che mi conviene battere in ritirata.» «Poi che cos'è successo?» «Non l'ho più rivista. L'ultima volta che ne ho sentito parlare andava al college: ci credereste?» «Sai quale college?» «No, e non sono nemmeno sicuro che sia vero. Magari era soltanto una voce.» «Nient'altro?» «No.» «Altre voci?» Castman prese a muovere gli occhi, sui quali lessi la disperazione. Vole-
va farci restare, ma non aveva altro da dirci. Guardai Squares, che annuì e si voltò per andarsene. Lo seguii. «Aspettate!» Lo ignorammo. «Vi prego, gente, vi supplico. Vi ho detto tutto quello che sapevo, no? Ho collaborato. Non potete lasciarmi qui.» Pensai ai suoi infiniti giorni e alle sue infinite notti dentro quella stanza e rimasi indifferente. «Stronzi del cazzo!» urlò. «Senti, tu, maschione. Ti sei dovuto accontentare dei miei avanzi, lo sai? Sappi che ogni volta che ti scopa, ogni volta che ti fa venire, sono stato io a insegnarglielo. Capito? Hai sentito quello che ho detto?» Mi sentii avvampare le guance, ma non mi voltai. Squares aprì la porta. «Merda.» La voce di Castman si era fatta più bassa. «Non si cambia, lo sai.» Esitai. «Ti potrà anche sembrare dolce e carina, ma da certi posti non si torna indietro. Capisci che cosa voglio dire, vero?» Cercai di dimenticare immediatamente quelle parole, che però si erano fatte strada a forza nel mio cervello e ora mi rimbalzavano dentro il cranio. Uscii e chiusi la porta, immergendomi di nuovo nell'oscurità. Tanya ci venne incontro prima che uscissimo di casa. «Lo direte alla polizia?» chiese strascicando le parole. Non gli ho mai fatto del male, voleva dire. Non ho mai alzato una mano su di lui. Ed era vero. Senza aprire bocca uscimmo in fretta, tuffandoci quasi nell'aria della notte. Respirammo a fondo, come sub che riemergono in debito d'ossigeno, tornammo al furgone e ci allontanammo. 10 Grand Island, Nebraska Sheila voleva morire sola. Il dolore stava stranamente scemando e lei si chiese il perché. Non c'era luce, però, né un momento di chiarezza assoluta. Non c'era alcun sollievo nella morte. Non c'erano angeli a circondarla. Non era venuto a tenerle la mano nessuno dei parenti scomparsi da tempo, nemmeno la nonna, che l'a-
veva fatta sentire speciale, che la chiamava "tesoro". Sola. Al buio. Aprì gli occhi. Stava sognando? Difficile a dirsi. Aveva avuto qualche allucinazione, prima. Continuava a perdere conoscenza e a riprenderla. Ricordò di avere visto il viso di Carly, di averle implorato di andarsene. Era successo davvero? Forse no, forse era stata un'illusione. Quando il dolore si faceva più acuto, davvero insopportabile, la linea tra sonno e veglia, tra realtà e sogno, diventava sempre più tenue. Lei non cercava più di reagire, era l'unico sistema per superare quel tormento. Cerchi di bloccare il dolore, ma non ci riesci. Cerchi di frazionarlo in intervalli ragionevoli, ma neanche in quel caso ci riesci. E infine trovi l'unica valvola di scarico disponibile: la lucidità. Ti disfi della lucidità. Ma te ne sei davvero disfatto se riesci a capire quello che sta succedendo? Profondi quesiti filosofici, che andavano bene per i vivi. Perché alla fine, dopo tutti i sogni e le speranze, i disastri e le ricostruzioni, Sheila Rogers sarebbe morta giovane e tra le sofferenze per mano di un altro. Giustizia poetica, immaginò. Perché in quel momento, mentre sentiva dentro di sé una mano invisibile che le strappava le viscere, ebbe una visione fin troppo chiara. Una visione orribile, ineludibile. Le stavano togliendo i paraocchi, e per la prima volta poteva vedere la verità. Sheila Rogers voleva morire sola. Ma in quella stanza c'era anche lui. Ne era certa. Le sembrava di sentire la sua mano poggiata dolcemente sulla fronte. Sentì un brivido. E, avvertendo la forza vitale allontanarsi da lei, lo implorò per l'ennesima volta. «Vattene, ti prego.» 11 Squares e io non parlammo di ciò che avevamo visto. E non chiamammo la polizia. Rividi Louis Castman prigioniero in quella stanza, incapace di muoversi, senza radio o televisore, senza nulla da guardare a parte quelle vecchie foto. Se fossi stato una persona migliore, la cosa mi avrebbe toccato. Pensai anche a quel tipo di Garden City che aveva sparato a Louis Castman per poi fare dietrofront e andarsene: per Tanya essere respinta da lui
era stato probabilmente più devastante di tutto quanto aveva dovuto subire da Castman. Mi chiesi se Mr Garden City ci pensava ancora o se avesse tirato avanti come se Tanya non fosse mai esistita. Mi chiesi se il viso di lei lo perseguitasse nel sonno. Ne dubitavo. Riflettevo su queste cose perché ero curioso e inorridito. Ma anche perché in tal modo evitavo di pensare a Sheila, a ciò che era stata, a ciò che Castman le aveva fatto. Mi ricordai che di quella vicenda lei era la vittima, che era stata rapita, violentata e che nulla di ciò che era diventata poteva esserle addebitato. Non c'era altro modo di valutare il suo comportamento. Ma una tale chiarezza di idee, una tale razionalità avrebbero avuto breve durata. E mi odiavo per questo. Erano quasi le quattro del mattino quando il furgone si fermò davanti al mio portone. «Che idea ti sei fatto di questa faccenda?» chiesi a Squares. Lui si grattò il mento irsuto. «Quello che Castman ha detto alla fine, che da certi posti non si torna indietro, è vero.» «Parli per esperienza?» «Proprio così.» «E allora?» «Allora penso che qualcosa del suo passato sia venuto a riprendersela.» «Quindi siamo sulla pista giusta?» «Probabilmente.» «Qualsiasi cosa lei abbia fatto, qualsiasi cosa tu abbia fatto, può anche non lasciarti più. Ma ciò non significa che debba essere una condanna.» Squares guardò fuori dal finestrino. Attesi. Lui continuò a guardare. Allora scesi e lui si allontanò. Un messaggio lasciato sulla segreteria telefonica ebbe l'effetto di farmi fare un brusco salto indietro nel tempo. Controllai l'ora sul display: 23.47. Terribilmente tardi. Immaginai si trattasse di qualcuno di famiglia, ma mi sbagliavo. Premetti il pulsante "Play". "Ciao, Will" disse una giovane voce femminile. Non la riconobbi. "Sono Katy. Katy Miller." Trasalii.
"Ne è passato di tempo, vero? Senti, scusa se chiamo a quest'ora, probabilmente starai dormendo. Non so. Ascolta, Will, puoi darmi un colpo appena avrai sentito questo messaggio? A qualsiasi ora. Io, be'... ecco, dovrei parlarti di una faccenda." Lasciò il numero e io rimasi come intontito. Katy Miller, la sorellina di Julie. L'ultima volta che l'avevo vista avrà avuto sei anni, o giù di lì. Sorrisi ricordando di quando - lei sicuramente non aveva più di quattro anni - si era nascosta dietro il baule militare del padre spuntando fuori al momento meno opportuno. Ricordo che Julie e io ci eravamo messi addosso in fretta e furia una coperta, non avendo il tempo di tirarci su i pantaloni, cercando di non morire dal ridere. La piccola Katy Miller. Che età poteva avere, ora, diciassette, forse diciotto anni? Strano, a pensarci. Sapevo come era stata presa la morte di Julie dalla famiglia Miller e potevo immaginare lo stato d'animo del signore e della signora Miller. Ma non avevo mai considerato il possibile impatto sulla piccola Katy. Ripensai alla scena di Julie e io che ci tiravamo su la coperta ridendo come scemi e ricordai che si era svolta in cantina. Ci eravamo dati da fare sullo stesso divano dove poi Julie sarebbe stata trovata uccisa. Perché Katy mi aveva telefonato, dopo tanti anni? Magari voleva soltanto farmi le condoglianze, pensai, anche se la cosa mi sembrava strana per tanti motivi, tra i quali, non ultimo, quell'ora tarda. Riascoltai il messaggio in cerca di qualche significato nascosto, ma non lo trovai. Diceva di richiamarla a qualsiasi ora, ma erano le quattro di mattina e mi sentivo esausto. Di qualunque cosa si trattasse, quindi, poteva aspettare ancora un po'. Mi infilai a letto e ricordai l'ultima volta che avevo visto Katy Miller. La mia famiglia era stata pregata di tenersi alla larga dalla cerimonia funebre e così avevamo fatto. Ma due giorni dopo me n'ero andato al cimitero sulla Route 22 e mi ero seduto accanto alla tomba di Julie. Senza dire una parola. Senza piangere. Senza provare conforto, senza pensare che era tutto finito, senza alcun particolare sentimento. Arrivarono i Miller a bordo della loro Oldsmobile Cierra bianca e io tagliai la corda. Ma prima incrociai lo sguardo di Katy. Sul suo viso lessi una strana rassegnazione, una consapevolezza che trascendeva la giovane età. Vidi tristezza e orrore, e forse anche compassione. Ero uscito dal cimitero e da quel giorno non l'avevo più vista o sentita.
12 Belmont, Nebraska Lo sceriffo Bertha Farrow aveva visto di tutto. Le scene dei delitti erano brutte, ma anche se con le loro teste spaccate, ossa maciullate e pozze di sangue provocavano spesso il vomito, non potevano certo competere con l'effetto "metallo contro carne" di un bell'incidente stradale. Uno scontro frontale. Un autotreno che scavalca lo spartitraffico. Un albero che spacca in due un'auto dal radiatore al sedile posteriore. Una carambola ad alta velocità sopra il guardrail. No, era un incidente stradale a fare i danni più seri. Eppure, la vista di quella donna morta nella quasi totale assenza di sangue sulla scena del delitto era in un certo modo molto peggio. Bertha Farrow guardò il viso del cadavere, i suoi lineamenti contratti dalla paura, senza capire. Poi si rese conto che quella poveretta, doveva essere morta tra enormi sofferenze. Vide le dita mutilate, la gabbia toracica deformata, le escoriazioni e capì che il danno era stato provocato da un altro essere umano, carne contro carne. La colpa non era stata di una lastra di ghiaccio, della distrazione per cambiare stazione alla radio a centotrenta chilometri orari, di un camionista in ritardo nelle consegne, dei nefasti effetti dell'alcol o della velocità. La cosa era stata intenzionale. «Chi l'ha trovata?» chiese all'agente George Volker. «I ragazzi Randolph.» «Quali?» «Jerry e Ron.» Bertha fece un rapido calcolo. Jerry doveva avere circa sedici anni, Ron quattordici. «Stavano portando a spasso Gypsy» aggiunse l'agente Volker. Gypsy era il pastore tedesco dei Randolph. «Ha sentito l'odore.» «Dove sono ora i ragazzi?» «Dave li ha portati a casa, erano piuttosto scossi. Mi sono fatto rilasciare una dichiarazione, ma non sanno niente.» Una station-wagon si avvicinò a tutta velocità e Clyde Smart, il medico legale, si fermò a poca distanza con uno stridio di freni. Lo sportello si spalancò e Clyde corse verso di loro. Bertha si portò una mano davanti agli occhi per ripararli dal sole.
«Non c'è bisogno di correre, Clyde. Non va da nessuna parte, la vittima.» L'agente Volker ridacchiò. Clyde Smart c'era abituato. Si avvicinava alla cinquantina, come Bertha. Lui e Bertha lavoravano insieme da una ventina d'anni. Ignorò la battuta e proseguì. Poi si fermò, abbassò lo sguardo sulla morta e quasi restò senza fiato. «Gesù mio!» biascicò. Si accovacciò accanto alla vittima, poi dolcemente spostò i capelli che le coprivano il volto. «Oh, Dio» disse. «Cioè...» Si fermò e scosse la testa. Anche Bertha era abituata a lui e la sua reazione non la sorprese. Quasi tutti i medici legali mantenevano il loro distacco e lavoravano freddamente. Non Clyde. Per lui la gente non era fatta di tessuto e sostanze chimiche combinate tra loro. Più di una volta Bertha lo aveva visto piangere su un cadavere. Clyde trattava ogni corpo scaricato da un'ambulanza con un rispetto incredibile, quasi patetico. Eseguiva le autopsie come se potesse far sì che le vittime si riprendessero. Era lui a dare la triste notizia ai familiari e partecipava sinceramente al loro dolore. «Puoi darmi un'ora approssimativa della morte?» gli chiese Bertha. «È abbastanza recente» rispose lui piano. «La pelle è all'inizio del rigor mortis. Non più di sei ore, direi. Prenderò la temperatura del fegato e...» Notò le mani dalle dita piegate in modo innaturale. «Oh, mio Dio» ripeté. Bertha riportò la sua attenzione sull'agente Volker. «È stata identificata?» «Niente, ancora.» «Potrebbe essersi trattato di una rapina?» «Troppo brutale» osservò Clyde. Poi sollevò lo sguardo. «Qualcuno ha voluto che soffrisse.» Vi fu un momento di silenzio. Bertha si accorse che gli occhi del medico si stavano riempiendo di lacrime. «Che altro?» chiese. Clyde riabbassò in fretta lo sguardo. «Non è una vagabonda» osservò. «È ben vestita e ben nutrita.» Le aprì la bocca. «Il lavoro del dentista sembra ben fatto.» «Tracce di violenza?» «Ha tutti i vestiti addosso. Ma che cosa le hanno fatto, buon Dio? C'è poco sangue in giro, troppo poco perché possa essere stata uccisa sul posto. Direi che è stata portata qui in macchina e scaricata. Ne saprò di più
dopo l'autopsia.» «Okay, allora. Controlliamo l'elenco delle persone scomparse e inseriamo nel computer le sue impronte digitali.» Clyde annuì e lo sceriffo Bertha Farrow cominciò ad allontanarsi. 13 Non ebbi bisogno di richiamare Katy. Lo squillo mi colpì come una piccola scarica elettrica. Dormivo un sonno così profondo e senza sogni che mi sarebbe stato impossibile riaffiorare lentamente in superficie. Un attimo prima stavo affogando nell'oscurità, un attimo dopo ero schizzato a sedere sul letto con il cuore che mi batteva a mille. Guardai l'orologio digitale: le sei e cinquantotto. Grugnii allungando un braccio verso il telefono. L'indicatore di chiamata non segnalava nulla. Veramente inutile, quel dispositivo. Chi voleva rimanere anonimo non doveva fare altro che pagare per evitare l'identificazione. Ma stavolta non aveva importanza. Sapevo chi mi stava chiamando. La mia voce mi suonò fin troppo sveglia alle orecchie quando cinguettai un allegro: «Pronto?». «Ehm... Will Klein?» «Sì?» «Sono Katy Miller.» Poi, come se ci avesse riflettuto su, aggiunse: «La sorella di Julie». «Ciao, Katy.» «Ti ho lasciato un messaggio, stanotte.» «L'ho ascoltato alle quattro di mattina.» «Oh, allora devo averti svegliato.» «Non preoccuparti.» La sua, di voce, sembrava triste, giovane e forzata. Ricordai quando era nata e feci due calcoli. «Dovresti essere all'ultimo anno delle superiori, sbaglio?» «Andrò al college in autunno.» «Dove?» «Bowdoin. È un piccolo college.» «Nel Maine. Lo conosco, è una scuola eccellente. Congratulazioni.» «Grazie.» Mi raddrizzai sul letto, cercando qualcosa da dire per superare quel si-
lenzio. Alla fine, mi rifugiai nel classico. «Ne è passato di tempo.» «Will?» «Sì?» «Vorrei vederti.» «Certo, mi piacerebbe.» «Che ne diresti se ci incontrassimo oggi stesso?» «Dove sei?» le chiesi. «A Livingston.» Una pausa. «Ti ho visto venire a casa nostra.» «Mi dispiace.» «Posso raggiungerti io in città, se credi.» «Non c'è bisogno. Avevo deciso di andare oggi da mio padre, potremmo incontrarci prima.» «Sì, certo, ma non qui. Ricordi i campi da basket del liceo?» «Certo. Troviamoci lì alle dieci.» «Okay.» Cambiai orecchio. «Inutile dirti, Katy, che questa tua telefonata mi suona un po' strana.» «Lo so.» «A che proposito vuoi vedermi?» «Tu che pensi?» Non risposi subito, ma non ce ne fu bisogno. Lei aveva già riagganciato. 14 Will uscì di casa. Il Fantasma rimase a fissarlo. Ma non lo seguì. Sapeva dove Will era diretto. Guardandolo, però, contraeva e allentava le dita, le contraeva e le allentava. Gli avambracci si erano irrigiditi. Il corpo era attraversato dal tremito. Il Fantasma ricordava Julie Miller. Ricordava il suo corpo nudo in cantina. Ricordava il contatto della sua pelle, calda dapprima per poi indurirsi lentamente fino a sembrare marmo bagnato. Ricordava il colore gialloviolaceo del suo viso, le puntine rosse dentro gli occhi sporgenti, i lineamenti contorti per la sorpresa e l'orrore, i capillari spezzati, la saliva congelata su un lato del viso come la cicatrice di una coltellata. Ricordava il collo, la sua innaturale angolazione nella morte, la profondità della ferita provocata dalla stretta della corda che le aveva tranciato l'esofago fin quasi a decapitarla. E tutto quel sangue.
Lo strangolamento era la sua tecnica preferita. Era stato in India per studiare i Thug, la setta degli assassini silenziosi che avevano perfezionato l'arte segreta dello strangolamento. Nel corso degli anni il Fantasma aveva usato con maestria pistole, coltelli e simili, ma se gli si presentava l'occasione preferiva ancora la fredda efficienza, l'audace potere, il silenzio finale, il tocco personale dello strangolamento. Will scomparve alla vista. Il fratello. Il Fantasma pensò a tutti quei film di kung fu in cui qualcuno muore e il fratello del morto giura di vendicarlo. E si chiese che cosa sarebbe successo se avesse ucciso Will Klein. No, qui le conseguenze avrebbero trasceso la vendetta. Continuò a pensare a Will. Era lui la chiave, dopo tutto. Il tempo l'aveva cambiato? Il Fantasma lo sperava. L'avrebbe comunque accertato quanto prima. Sì, era quasi giunta l'ora di incontrarsi con Will e colmare il vuoto di tutti quegli anni. Il Fantasma attraversò la strada diretto al palazzo di Will. Cinque minuti dopo si era introdotto nel suo appartamento. Presi l'autobus della Community Line e scesi all'incrocio tra Livingston Avenue e Northfield, nel cuore cioè del quartiere residenziale di Livingston. Una vecchia scuola elementare era stata trasformata in centro commerciale e i pochi negozi con qualche pretesa sembravano sempre deserti. Mi incamminai insieme a numerose colf provenienti come me dalla città. La bizzarra simmetria del pendolarismo all'inverso. Quelli che vivevano in posti come Livingston la mattina andavano a lavorare in città, mentre le donne che pulivano le loro case e guardavano i loro bambini facevano il contrario. Equilibrio rispettato. Percorsi Livingston Avenue in direzione della Livingston High School, il cui edificio era attaccato a quelli della biblioteca, del tribunale municipale e della stazione di polizia. Colto il nesso? I quattro edifici sembravano costruiti dallo stesso architetto, con lo stesso stock di mattoni, come se ciascun palazzo avesse dato vita al successivo. È qui che ero cresciuto, da ragazzino avevo preso in prestito da quella biblioteca i classici di C.S. Lewis e Madeline L'Engle. A diciotto anni, in quel tribunale, avevo cercato inutilmente di ricorrere contro una contravvenzione per eccesso di velocità. E nel più grosso dei quattro edifici avevo
trascorso gli anni del liceo insieme a seicento ragazzi del mio corso. A metà della rotonda girai a destra, verso i campi da basket, e andai a fermarmi sotto un canestro arrugginito e privo di retina. Alla mia sinistra c'erano i campi da tennis comunali. Al liceo giocavo a tennis, piuttosto bene direi, anche se nei tornei non avevo mai brillato, mi mancava il gusto per la competizione. Non che volessi perdere, ma non ce la mettevo tutta per vincere. «Will?» Mi voltai e, vedendola, sentii il sangue ghiacciarsi nelle vene. Indossava jeans a vita bassa, zoccoli anni Settanta, una camicetta troppo corta e troppo stretta che metteva in mostra un ventre piatto con il suo bravo piercing: ma il viso e i capelli... Temetti di cadere. Distolsi un momento lo sguardo, verso il campo di calcio. Avrei giurato di avere visto Julie. «Lo so» disse Katy Miller. «Ti sembro un fantasma, vero?» Mi voltai a osservarla. «Succede lo stesso a mio padre» proseguì, infilando le sue mani delicate nelle tasche strette dei jeans. «Non riesce ancora a guardarmi negli occhi senza mettersi a piangere.» Non sapevo che cosa dire. Mi si avvicinò, eravamo entrambi di fronte al liceo. «Tu hai studiato lì, vero?» le chiesi. «Mi sono diplomata il mese scorso.» «Contenta?» Si strinse nelle spalle. «Contenta di essermene andata.» Il sole splendeva sulla fredda sagoma dell'edificio, che per un attimo mi diede l'impressione di una prigione. Il liceo è così. Ero piuttosto popolare, al liceo. Ero vicepresidente del consiglio studentesco e co-capitano della squadra di tennis. Avevo degli amici. Ma, per quanto scavassi nella memoria, non riuscii a cavarne nemmeno un ricordo piacevole. Portavano tutti il marchio dell'insicurezza, caratteristica di quegli anni. Vista a posteriori la scuola, o se preferite l'adolescenza, sembra una specie di combattimento prolungato. L'obiettivo è sopravvivere, arrivare alla fine e uscirne indenni. Non ero felice al liceo, e non so nemmeno se sia previsto essere felici a scuola. «Mi dispiace per tua madre» disse Katy. «Grazie.» Tirò fuori dalla tasca posteriore un pacchetto di sigarette e me ne offrì una, che rifiutai scuotendo la testa. La guardai mentre accendeva la sua e resistetti alla tentazione di farle la morale. Gli occhi di Katy spaziavano su
tutto tranne che su di me. «Sono stata un incidente, sai. Sono arrivata tardi. Quando sono nata Julie andava già alle superiori. Ai miei genitori i medici avevano detto che non avrebbero più potuto avere figli. Poi...» Si strinse nelle spalle. «Non mi aspettavano.» «Non credere che tutti gli altri siano stati programmati.» La cosa la fece ridere, e l'eco della sua risata si ripercosse dentro di me. Era la stessa di Julie, anche nel modo di svanire. «Mi dispiace per mio padre» proseguì lei. «Quando ti ha visto non ce l'ha fatta a trattenersi.» «Non avrei dovuto farlo.» Tirò una boccata troppo lunga e piegò la testa. «Perché l'hai fatto?» Pensai inutilmente a una risposta. «Non lo so.» «Ti ho visto, dal momento in cui hai girato l'angolo. È stato strano, sai. Ricordo che da bambina ti seguivo con lo sguardo quando uscivi da casa tua. Ti osservavo dalla mia stanza. È sempre quella, la mia stanza, quindi per me è come rivedere il passato. Una strana sensazione.» Guardai a destra. Il vialetto era vuoto, ma durante l'anno scolastico proprio su quel vialetto i genitori se ne stavano in auto ad aspettare l'uscita dei figli. Forse i miei ricordi di scuola non sono tutti sereni, ma rivedo ancora mia madre che mi veniva a prendere con la sua vecchia Volkswagen rossa. Rimaneva in auto a leggere una rivista e quando suonava la campanella, quando andavo verso di lei e mi sentiva arrivare, quando sollevava la testa e si accorgeva che stavo per raggiungerla, allora il suo sorriso, il sorriso di Sunny, le esplodeva dal profondo del cuore, quel sorriso abbacinante pieno di amore assoluto, senza riserve. In quel momento, ripensandoci, mi resi conto che nessuno mi avrebbe più sorriso così. È troppo, pensai. Trovarmi lì, l'eco visiva di Julie sul volto di Katy, i ricordi. Era veramente troppo. «Hai fame?» le chiesi. «Direi di sì.» Aveva un'auto, una vecchia Honda Civic. Dallo specchietto retrovisore pendevano mille ciondoli, dentro si respirava un profumo di chewing-gum e di shampoo alla frutta. Non riconobbi la musica sparata dalle casse, ma non m'importò più di tanto. Ci fermammo in una classica trattoria del New Jersey sulla Route 10, senza avere detto una parola durante il tragitto. Dietro il banco si vedevano foto autografate di anchormen locali. Ogni séparé aveva il suo mini jukebox. Il menu era più lungo di un romanzo di Tom Clancy.
Un uomo dalla barba pungente quasi quanto il suo deodorante ci chiese in quanti eravamo. Due, rispondemmo. Katy aggiunse che voleva un tavolo per fumatori. Non sapevo che esistessero ancora aree per fumatori, ma i locali di questo tipo evidentemente sono rimasti un po' indietro con i tempi. Appena seduti lei si tirò accanto il portacenere, come a farsi proteggere. «Dopo che sei passato da casa nostra sono andata al cimitero» m'informò. Un ragazzo ci riempì i bicchieri d'acqua. Katy tirò una boccata, sollevando la testa per buttare fuori il fumo. «Non ci andavo da anni. Ma dopo averti visto, non so perché, ne ho sentito il bisogno.» Continuava a non guardarmi. Lo fanno spesso i ragazzini al rifugio, evitano il tuo sguardo, e io non insisto: so per esperienza che questo tipo di contatto è sopravvalutato. «L'immagine di Julie è quasi svanita nella mia mente. Vedo le foto e non so se i ricordi siano veri o frutto della mia fantasia. Credo di rammentare quella volta che con mia sorella salimmo su quelle enormi tazze girevoli, al luna park di Great Adventure, e poi non so se è veramente l'episodio che mi è rimasto impresso oppure soltanto la fotografia. Capisci che cosa voglio dire?» «Sì, penso di sì.» «E dopo che sei passato da casa nostra ho sentito bisogno di uscire. Mia madre piangeva, mio padre era infuriato. Dovevo proprio andarmene.» «Non volevo turbare nessuno.» Sembrò allontanare le mie parole con un gesto della mano. «Non preoccuparti. A loro fa bene, in un certo strano senso. Ci giriamo quasi sempre attorno in punta di piedi, sai. A volte vorrei... vorrei proprio gridare: "È morta".» Avvicinò il viso al mio. «Vuoi sapere una cosa assolutamente folle?» Le feci segno di andare avanti. «In cantina non abbiamo cambiato niente. Il vecchio divano e il televisore. Quel tappeto mangiucchiato dai topi. Il vecchio baule dietro il quale andavo a nascondermi. E la nostra lavanderia è sempre nello scantinato, per andarci dobbiamo passare da quella stanza. È così che viviamo. Camminiamo in punta di piedi al piano di sopra come se fossimo sul ghiaccio e avessimo paura che il pavimento possa cedere facendoci precipitare in quella cantina.» S'interruppe, attaccandosi alla sigaretta come se fosse una bocchetta d'aria. Come dicevo, non avevo mai pensato a Katy Miller o alle conseguenze
che poteva avere subito dall'assassinio della sorella. Avevo pensato ai suoi genitori, naturalmente, a come ne erano rimasti devastati. Mi ero chiesto più di una volta perché non avessero lasciato quella casa, ma d'altronde non avevo mai capito perché neppure i miei si fossero trasferiti da qualche altra parte. Come ho già detto, c'è un rapporto tra la consolazione e il dolore autoinflitto, si desidera di tirare avanti perché è preferibile soffrire che dimenticare. Restare in quella casa rappresentava la dimostrazione più convincente. Ma non avevo mai considerato la situazione di Katy Miller, non mi ero mai chiesto che cosa avesse significato per lei crescere in mezzo alle rovine, avendo sempre accanto lo spettro di quella sorella così simile a lei. La guardai di nuovo, come se la vedessi in quel momento per la prima volta. I suoi occhi continuavano a svolazzare da tutte le parti come uccelli atterriti. Vedevo le lacrime, ora. Le presi una mano, anche quella così simile a quella di Julie. E il passato mi travolse fin quasi a farmi cadere indietro. «È tutto così incredibile» disse. Parole giustissime, pensai. «Anche per me.» «Ma deve finire, Will. Tutta la mia vita... Qualsiasi cosa sia successa quella notte, ora deve finire. A volte, quando arrestano un assassino, sento in TV i parenti della vittima dire: "Non ce la potrà restituire" e penso: "Bah". Ma non è questo il punto. In quei casi la cosa finisce lì. La cattura dell'assassino in un certo senso chiude la faccenda. La gente ne ha bisogno.» Non avevo idea di dove volesse andare a parare. Provai a pensare a lei come a una di quelle ragazzine del rifugio, bisognose di aiuto e di amore. La guardai cercando di farle capire che la stavo ascoltando. «Non puoi sapete quanto ho odiato tuo fratello, e non solo per quello che ha fatto a Julie ma per dò che ha fatto a noi fuggendo da qui. Ho pregato che lo trovassero. Sogno spesso che è circondato, cerca di resistere e allora i poliziotti lo fanno secco. Lo so che non ti fa piacere sentire certe cose, ma ho bisogno che tu capisca.» «Volevi metterci una pietra sopra» dissi. «Sì. E invece...» «Invece cosa?» Sollevò gli occhi e per la prima volta i nostri sguardi s'incrociarono. Mi sentii nuovamente gelare, avrei voluto ritirare la mano ma non riuscii a muovermi. «L'ho visto» disse. Credetti di avere capito male.
«Tuo fratello. L'ho visto. O, almeno, credo che fosse lui.» Ritrovai un filo di voce. «Quando?» «Ieri. Al cimitero.» In quel momento arrivò la cameriera, che si tolse la matita da dietro l'orecchio chiedendoci cosa volevamo ordinare. Per un attimo nessuno di noi due aprì bocca. La cameriera si schiarì la voce. Katy ordinò una qualche insalata, io un'omelette al formaggio. Che tipo di formaggio? Svizzero, americano, cheddar? Il cheddar andrà benissimo, grazie. Volevo patate al forno o fritte, con l'omelette? Al forno. Toast bianchi, di segale o di frumento? Segale e nulla da bere, grazie. La cameriera finalmente si allontanò. «Ti ascolto, Katy.» Lei spense la sigaretta. «Come ti dicevo, me n'ero andata al cimitero per togliermi da casa. Lo sai dov'è sepolta Julie, vero?» Annuii. «Già, ti ho visto lì un paio di giorni dopo il funerale.» «Sì.» Si sporse verso di me. «L'amavi?» «Non lo so.» «Ma ti aveva spezzato il cuore.» «Forse. Tanto tempo fa.» Katy abbassò lo sguardo sulle sue mani. «Dimmi che cosa è successo» insistetti. «Sembrava completamente diverso... tuo fratello, voglio dire. Non me lo ricordo granché, solo un pochino. E avevo visto le foto.» Si fermò. «Mi stai dicendo che era fermo accanto alla tomba di Julie?» «Accanto a un salice.» «Che cosa?» «C'è un salice, a una trentina di metri di distanza. Io avevo scavalcato la staccionata, non ero entrata dal cancello, e quindi lui non si aspettava di vedermi. Sono arrivata alle sue spalle e l'ho visto, sotto il salice, che guardava in direzione della tomba di Julie. Non mi ha sentito, era come perso nei suoi pensieri, sai. Gli ho dato un colpelto sulla spalla e lui ha fatto letteralmente un salto, poi quando si è voltato e mi ha visto... be', hai notato quanto assomiglio a mia sorella. Si è quasi messo a gridare, sembrava che avesse visto un fantasma.» «E tu sei certa che fosse proprio Ken?» «Certa no. Cioè, come faccio a esserlo?» Tirò fuori un'altra sigaretta.
«Sì, sì, so che era lui.» «Come fai a esserne sicura?» «Mi ha detto che non era stato lui.» Mi girava la testa. Le mani mi caddero lungo i fianchi e strinsero la sedia. Quando alla fine parlai, lo feci piano. «Che parole ha usato, esattamente?» «Quelle che ti ho detto: "Non ho ucciso io tua sorella".» «E tu che hai fatto?» «Gli ho detto che era un bugiardo, che avrei gridato.» «E hai gridato?» «No.» «Perché no?» Katy non aveva ancora acceso la sigaretta. Se la tolse di bocca e la posò sul tavolo. «Perché gli ho creduto. Qualcosa nella sua voce, non so... L'ho odiato per tanto di quel tempo, non hai idea di quanto lo abbia odiato. Ma adesso...» «Che hai fatto, allora?» «Ho fatto un passo indietro. Avevo sempre voglia di gridare ma lui mi si è avvicinato, mi ha preso il viso tra le mani, mi ha guardato negli occhi e mi ha detto: "Troverò l'assassino, te lo prometto". Tutto qui. È stato un altro po' a guardarmi, poi si è staccato da me ed è fuggito via.» «L'hai raccontato...» Scosse la testa. «A nessuno. A volte non sono nemmeno sicura che sia successo, ho il dubbio di essermi immaginata quella scena, di averla sognata, di essermela inventata. Un po' come i miei ricordi di Julie.» Sollevò gli occhi su di me. «Credi che l'abbia uccisa lui, Julie?» «No.» «Ti ho visto in televisione. Hai sempre pensato che fosse morto, perché hanno trovato anche il suo sangue sul luogo del delitto.» Annuii. «Lo credi ancora?» «No, non lo credo più.» «Che cosa ti ha fatto cambiare idea?» Non sapevo che cosa risponderle. «Probabilmente lo sto cercando anche io.» «Voglio aiutarti.» Aveva detto "voglio", ma so che avrebbe voluto dire "ho bisogno". «Ti prego, Will, lascia che ti aiuti.»
Le dissi di sì. 15 Lo sceriffo Bertha Farrow, piazzata alle spalle dell'agente George Volker impegnato al computer, aggrottò le sopracciglia. «Li odio questi cosi» disse. «Non dovresti» obiettò Volker, facendo danzare le dita sulla tastiera. «I computer sono nostri amici.» Lei sembrò ancora più imbronciata. «E che sta facendo ora il nostro amico?» «Lo scanning delle impronte digitali della sconosciuta.» «Scanning?» «Come spiegarlo a una totale tecnofoba come te?...» Volker sollevò lo sguardo massaggiandosi il mento. «È come una fotocopiatrice e un fax allo stesso tempo. Fa una copia delle impronte digitali e poi le manda per email al CJIS, in West Virginia.» La sigla CJIS stava per Criminal Justice Information Service. Adesso che ogni forza di polizia è collegata ordine, anche in un paesino sperduto come quello, le impronte digitali potevano essere mandate su Internet per l'identificazione. Se erano presenti nell'enorme banca dati del CJIS, era possibile avere in tempo reale un riscontro e la relativa identificazione. «Pensavo che il CJIS fosse a Washington» disse Bertha. «Non più, il senatore Byrd l'ha fatto trasferire.» «Brav'uomo, il nostro senatore.» «Certo.» Bertha s'infilò la fondina a tracolla allontanandosi lungo il Corridoio. La sua stazione di polizia coabitava con l'obitorio di Clyde, una sistemazione pratica anche se a volte con aspetti spiacevoli. La ventilazione dell'obitorio lasciava a desiderare, e ogni tanto una nuvola di formaldeide e miasmi da decomposizione stagnava in corridoio. Dopo un attimo di esitazione, Bertha Farrow aprì la porta della morgue. Dentro non si vedevano superfici immacolate e strumenti scintillanti, come negli sceneggiati televisivi. L'obitorio di Clyde era abbastanza rudimentale, la sua era un'attività part-time perché oggettivamente non c'era molto lavoro. Il massimo era rappresentato, qualche rara volta, dalla vittima di un incidente stradale. L'anno prima Don Taylor, completamente ubriaco, si era sparato in testa per sbaglio. La vedova inconsolabile sosteneva, scher-
zando, che il vecchio Don si era sparato perché, guardandosi allo specchio, si era scambiato per un alce. Quando si dice il matrimonio. Serviva per faccende del genere, insomma, l'obitorio; un termine fra l'altro generoso, visto che si trattava dell'ex abitazione del custode dove potevano essere ospitati al massimo due cadaveri per volta. Se gli serviva altro spazio, Clyde usava l'agenzia di pompe funebri di Wally. Il cadavere della sconosciuta giaceva sul tavolo e Clyde lo stava osservando, con indosso un grembiulone azzurro e guanti di gomma chiari. Stava piangendo e dalle casse dello stereo giungevano le lamentose ma appropriate note di un brano d'opera. «L'hai già aperta?» gli chiese Bertha, anche se la risposta era ovvia. Clyde si asciugò gli occhi con due dita. «No.» «Aspetti che lei ti dia il permesso?» Le lanciò uno sguardo d'odio con i suoi occhi rossi. «Sto facendo ancora l'esame esterno.» «Che mi dici della causa della morte, Clyde?» «Non posso dirti niente se prima non concludo l'autopsia.» Bertha gli si avvicinò, mettendogli una mano sulla spalla e facendo la gattina. «Ma un'idea te la sei fatta, vero, Clyde?» «L'hanno pestata di brutto. Guarda qui?» Le indicò il punto dove di solito si trova la gabbia toracica. Al suo posto c'era qualcosa d'indefinito, le ossa erano rientrate, schiacciate come polistirolo espanso. «È piena di contusioni» osservò Bertha. «È in atto lo scolorimento, certo. Ma dai un'occhiata.» E indicò con il dito qualcosa che sembrava spuntare da sotto la pelle, vicino allo stomaco. «Costole rotte?» «Costole schiacciate» la corresse lui. «Come?» Clyde si strinse nelle spalle. «Probabilmente con un grosso martello a testa tonda, qualcosa del genere. Secondo me, ma è solo un'ipotesi, una scheggia di costola le ha perforato un organo vitale, forse un polmone o lo stomaco. Oppure, se questa poveretta ha avuto fortuna, le si è infilata nel cuore.» Bertha scosse la testa. «Non ha l'aria della donna fortunata.» Clyde si voltò, abbassò gli occhi e si rimise a piangere, con il corpo scosso dai singhiozzi trattenuti. «E questi segni sul petto?» chiese Bertha.
«Bruciature di sigarette» rispose lui senza guardare. Se l'era immaginato. Dita schiacciate, bruciature di sigaretta: non c'era bisogno di essere Sherlock Holmes per capire che la vittima era stata torturata. «Fai quello che c'è da fare, Clyde. Esami del sangue, test tossicologici, tutto.» Lui tirò su con il naso e finalmente si voltò. «Sì, Bertha. Certo, okay.» La porta alle loro spalle si aprì ed entrò Volker. «Abbiamo una traccia» disse. «Di già?» George annuì. «Era in cima all'elenco del National Crime Information Center.» «In che senso era in cima?» Volker indicò il cadavere steso sul tavolo. «La nostra amica era ricercata nientepopodimeno che dall'Fbi.» 16 Katy mi fece scendere all'altezza di Hickory Place, a circa tre isolati da casa dei miei. Non volevamo farci vedere insieme. Probabilmente eravamo un po' paranoici, ma la prudenza non è mai troppa. «E ora?» mi chiese. Me lo stavo chiedendo anch'io. «Non lo so. Ma se Ken non ha ucciso Julie...» «Allora è stato qualcun altro.» «Siamo gente sveglia, noi, vero?» Katy sorrise. «Quindi, dovremmo metterci in cerca di qualche sospetto.» Mi sembrò ridicolo - chi eravamo, la squadra speciale? - ma annuii ugualmente. «Comincerò a controllare» disse. «A controllare che cosa?» Si strinse nelle spalle con un gesto tipico dei teenager, cioè con tutto il corpo. «Non lo so, il passato di Julie. Per cercare di capire chi poteva volerla morta.» «Ci ha già pensato la polizia.» «Si sono concentrati su tuo fratello, Will.» Non aveva torto. «Okay» dissi, sentendomi ancora una volta ridicolo. «Risentiamoci stasera.»
Scesi, e Katy si allontanò senza nemmeno dirmi ciao. Rimasi lì e m'immersi nella mia solitudine. Non avevo tanta smania di muovermi. Le strade erano vuote, ma i vialetti davanti alle case erano pieni. Le station-wagon della mia gioventù, quelle con le fiancate a pannelli di legno, erano state rimpiazzate da un'ampia gamma di veicoli similfuoristrada come minifurgoni, pickup, monovolume. La maggior parte delle case era in quello stile tipico del boom edilizio dei primi anni Sessanta. Molte erano state sopraelevate, altre avevano subito modifiche esterne, attorno al 1974, con l'uso intensivo di pietra troppo bianca e troppo liscia: modifiche grazie alle quali queste case sembravano datate come lo smoking blu polvere che avevo indossato per la festa da ballo alla fine del liceo. Arrivato dai miei scoprii che non c'era nessuna auto nel vialetto e nessun conoscente in visita di condoglianze. La cosa non mi sorprese. Chiamai mio padre, senza risposta. Lo trovai in cantina, da solo, con un taglierino in mano. Se ne stava in mezzo alla stanza, circondato da vecchi scatoloni con il nastro adesivo tagliato. Era immobile, e non si voltò quando udì il suono dei miei passi. «Quanta roba aveva già messo da parte» disse piano. Quegli scatoloni erano di mia madre. Papà infilò il braccio dentro uno di loro e tirò fuori un cerchietto fermacapelli d'argento. «Te lo ricordi?» mi chiese. Sorridemmo entrambi. Perché, se tutti seguono le varie fasi della moda, mia madre queste fasi le segnava, si identificava con loro. Prendiamo per esempio quella del cerchietto per capelli. Lei li aveva fatti crescere, e per fermarli aveva una serie di questi cerchietti di varie tonalità cromatiche, come una principessa indiana. Per un po' di tempo, direi che l'Era del cerchietto è andata avanti per sei mesi, fu impossibile vederla senza. E quando i cerchietti vennero riposti nel cassetto, subentrò l'Era delle frange di camoscio, seguita a sua volta dal Rinascimento viola (che non era stata la mia preferita; vi assicuro, non è facile vivere accanto a una melanzana gigante o a una groupie di Jimi Hendrix) e, infine, dall'Era del frustino: quest'ultima, si noti, per una donna il cui rapporto più stretto con un cavallo era rappresentato dalla visione di Gran premio, uno dei primi film di Elizabeth Taylor. Le varie fasi della moda, come tante altre cose, avevano avuto termine con l'uccisione di Julie Miller. Mia mamma, Sunny, aveva infilato gli abiti negli scatoloni sistemandoli nell'angolo più buio della cantina.
Mio padre lanciò il cerchietto per capelli nello scatolone dal quale l'aveva tirato fuori. «Stavamo per traslocare, sai.» Non lo sapevo. «Tre anni fa. Ci stavamo per trasferire in un condominio a West Orange e forse in un cottage per l'inverno, vicino alla cugina Esther e a Harold. Ma, appena scoperto che tua madre era malata, abbiamo bloccato tutto.» Mi guardò. «Hai sete?» «No, davvero.» «Una Diet Coke? A me va.» Papà si diresse a passo svelto verso la rampa di scale. Guardai quei vecchi scatoloni, ciascuno aveva su un lato una scritta a pennarello con la grafia di mia madre. Su una mensola, in fondo, c'erano ancora due delle vecchie racchette di Ken. Una era la sua prima in assoluto, quando gliela regalarono aveva tre anni e mamma l'aveva messa da parte. Mi voltai e seguii papà. Arrivati in cucina aprì lo sportello del frigorifero. «Mi vuoi spiegare che cosa è successo ieri?» cominciò. «Non capisco che vuoi dire.» «Tu e tua sorella.» Tirò fuori una bottiglia da due litri di Diet Coke. «Che cosa c'era in ballo?» «Niente.» Annuì aprendo uno sportello dal quale tirò fuori due bicchieri, che riempì di ghiaccio preso dal freezer. «Tua madre spesso spiava te e Melissa» disse. «Lo so.» Sorrise. «Non era proprio discreta. Io le dicevo di darci un taglio ma lei mi zittiva, voleva che le lasciassi fare il suo mestiere di madre.» «Me e Melissa, hai detto?» «Sì.» «Perché non Ken?» «Forse non voleva sapere.» Versò la bibita nei bicchieri. «Negli ultimi tempi, però, era molto curiosa delle faccende di tuo fratello.» «Mi sembra abbastanza naturale.» «Naturale, certo. Poi, dopo il funerale, mi hai chiesto se credo che sia ancora vivo. E il giorno dopo tu e Melissa avete una discussione su Ken. Quindi te lo domando un'altra volta: che cosa c'è in ballo?» La foto la tenevo ancora in tasca. Non mi chiedete il perché. Quella mattina avevo fatto delle copie a colori con il mio scanner ma dall'originale non riuscivo a staccarmi.
Quando suonarono alla porta trasalimmo entrambi, poi ci guardammo. Papà si strinse nelle spalle. «Vado io» gli dissi. Bevvi velocemente un sorso di Coca, poggiai il bicchiere sul tavolo e andai alla porta. Quando aprii e vidi chi aveva suonato, per poco non caddi all'indietro. Era la signora Miller, la madre di Julie. Aveva in mano un piatto coperto da un foglio d'alluminio e teneva gli occhi bassi, come se stesse portando un'offerta all'altare. Rimasi un momento immobile, indeciso sul da farsi. Lei sollevò gli occhi e i nostri sguardi s'incontrarono, come due giorni prima sul marciapiede davanti a casa sua. In quegli occhi colsi un dolore vivo, elettrico, e mi chiesi se quella sensazione fosse reciproca. «Ho pensato...» cominciò. «Voglio dire, io...» «Si accomodi, la prego.» Tentò di sorridere. «Grazie.» Dalla cucina arrivò mio padre. «Chi c'è?» Mi spostai e papà vide la signora Miller, che con quel piatto sembrava volersi proteggere. Mio padre spalancò gli occhi, dietro i quali vidi bruciare qualcosa. La sua voce era un sussurro carico di rabbia. «Che diavolo ci fai qui?» «Papà...» M'ignorò. «Ti ho fatto una domanda, Lucilie. Che diavolo vuoi?» La signora Miller chinò la testa. «Papà» ripetei. Ma fu inutile, gli occhi gli si erano fatti piccoli e neri. «Non ti voglio qui» disse. «Papà, è venuta a offrirci...» «Vattene.» «Papà!» La signora Miller sembrò rimpicciolirsi. «È meglio che me ne vada, Will» disse, mettendomi in mano il piatto. «No, la prego.» «Non sarei dovuta venire.» «Proprio così, maledizione, non saresti dovuta venire» gridò mio padre. Gli lanciai un'occhiataccia, ma lui non staccava lo sguardo dalla nostra ospite. «Mi dispiace per il vostro lutto» disse la signora Miller, sempre con gli occhi bassi. Ma papà non aveva finito. «È morta, Lucilie. Non serve più, ora.»
La signora Miller batté in ritirata e io rimasi con il piatto tra le mani, guardando incredulo mio padre. Lui ricambiò lo sguardo. «Butta via quella spazzatura.» Non sapevo che cosa fare. Avrei voluto seguirla, scusarmi, ma lei era ormai lontana e camminava in fretta. Papà era tornato in cucina, lo seguii sbattendo il piatto sul banco. «Perché diavolo hai fatto quella scena?» gli chiesi. Riprese il suo bicchiere. «Non ce la voglio, qui.» «Era venuta a farci le condoglianze.» «Era venuta per tacitare il suo senso di colpa.» «Ma di che stai parlando?» «Tua madre è morta e non c'è più niente che la Miller possa fare per lei.» «Stai dicendo delle assurdità.» «Poco dopo il delitto tua madre telefonò a Lucilie, lo sapevi? Per farle le condoglianze. Lucilie la mandò al diavolo, ci accusò di avere allevato un assassino. Così, disse. Era colpa nostra, avevamo tirato su un assassino.» «È successo undici anni fa, papà.» «Hai idea di quanto ne soffrì tua madre?» «Ma anche la signora Miller soffriva terribilmente, le avevano appena ucciso la figlia.» «Perché ha aspettato tutto questo tempo? Ormai è inutile.» Scosse la testa, inflessibile. «Non voglio ascoltarla. E tua madre, anche se volesse, non può più farlo.» Si aprì la porta di casa e fecero il loro ingresso la zia Selma e lo zio Murray, con i sorrisi di condoglianze stampati sul viso. Selma prese in mano le redini della cucina, mentre Murray si dedicò a un piatto appeso al muro che pendeva da una parte. Io e mio padre smettemmo di parlare. 17 L'agente speciale Claudia Fisher raddrizzò la schiena e bussò alla porta. «Avanti.» Girò la maniglia ed entrò nell'ufficio del vicedirettore Joseph Pistillo, responsabile dell'ufficio di New York. Dopo il direttore, che stava a Washington, il vice era l'agente più alto in grado e più potente dell'Fbi. Pistillo alzò gli occhi e ciò che vide non gli piacque. «Che c'è?» «Sheila Rogers è stata trovata cadavere» disse la Fisher.
Lui imprecò. «Come?» «L'hanno trovata al margine di una strada, in Nebraska. Hanno passato le impronte al computer, che l'ha identificata.» «Maledizione.» Pistillo si mordicchiò una pellicina. Claudia Fisher rimase in attesa. «Voglio una conferma oculare.» «Fatto.» «Che cosa?» «Mi sono presa la libertà di mandare per e-mail allo sceriffo Farrow le foto segnaletiche di Sheila Rogers. Lo sceriffo e il medico legale hanno confermato l'identificazione, anche altezza e peso coincidono.» Pistillo si sistemò nella poltrona, poi afferrò una penna, se la portò davanti agli occhi e la studiò. La Fisher era in pratica sull'attenti e lui le fece segno di sedersi. «I genitori di Sheila Rogers vivono nello Utah, vero?» «Idaho.» «Fa lo stesso. Dobbiamo contattarli.» «Ho preavvertito la polizia locale, il capo conosce personalmente la famiglia.» «Okay, bene.» Pistillo si tolse la penna di bocca. «Come è stata uccisa?» «Probabile emorragia interna, provocata da un pestaggio. L'autopsia è ancora in corso.» «Gesù.» «È stata torturata, le hanno piegato indietro e poi storto le dita, probabilmente con una pinza. E sul torace aveva bruciature di sigaretta.» «Da quanto era morta?» «Dovrebbe essere morta ieri notte o nelle prime ore del mattino.» Pistillo guardò la Fisher e si ricordò che il giorno prima su quella stessa sedia c'era Will Klein, il compagno della vittima. «Veloce» disse. «Scusi?» «Se la donna è scappata, come volevano farci credere, l'hanno ritrovata prestissimo.» «A meno che lei non sia corsa via per andare proprio dagli assassini» osservò la Fisher. «Oppure che non sia mai scappata.» «Non la seguo.» Pistillo riprese a studiare la penna. «Abbiamo sempre dato per scontato che Sheila Rogers sia fuggita perché coinvolta negli omicidi di Albuquerque, giusto?»
La Fisher fece oscillare la testa. «Sì e no. Voglio dire, che senso ha tornarsene a New York per poi fuggire di nuovo?» «Forse è voluta andare al funerale della madre di Klein, non lo so. In ogni caso, non ha più importanza. Magari non sapeva che le stavamo dando la caccia. O forse, cerca di seguirmi, Claudia, qualcuno l'ha rapita.» «Come sarebbero andate le cose, secondo lei?» Pistillo posò la penna. «Secondo Will Klein, la Rogers sarebbe uscita di casa a che ora? Le sei del mattino?» «Le cinque.» «Bene, alle cinque. Cerchiamo allora di seguire uno scenario del genere. Sheila Rogers esce di casa alle cinque per darsi alla macchia. Qualcuno la trova, la tortura e la scarica in un posto sperduto del Nebraska. Come ti sembra?» La Fisher annuì lentamente. «Veloce, come ha detto lei.» «Troppo veloce?» «Forse.» «Tempi alla mano» continuò Pistillo «è molto più probabile che qualcuno l'abbia rapita subito, appena uscita dall'appartamento di Klein.» «E poi ha preso con lei un aereo per il Nebraska?» «Oppure ha guidato come un indemoniato.» «Oppure...» cominciò la Fisher. «Oppure?» Lei guardò il suo superiore. «Direi che stiamo arrivando entrambi alla stessa conclusione, i tempi sono troppo stretti. Probabilmente è sparita la notte prima.» «Il che significa?» «Il che significa che Will Klein ci ha mentito.» Pistillo sorrise. «Esattamente.» Alla Fisher le parole cominciarono a uscire in fretta. «A questo punto prendiamo in esame uno scenario più credibile. Will Klein e Sheila Rogers vanno al funerale della madre e poi a casa dei genitori. A sentire Klein, la sera sarebbero tornati all'appartamento di New York, ma su questo non abbiamo alcuna conferma. Quindi, forse...» cercò senza riuscirci di parlare più lentamente «forse i due non se ne vanno a casa. Forse lui l'affida a un complice che la tortura, la uccide e poi scarica il cadavere. Will nel frattempo se ne torna nel suo appartamento e la mattina dopo va al lavoro. E quando Wilcox e io andiamo a trovarlo in ufficio, e lo mettiamo alle strette, s'inventa questa fuga della Rogers alle prime ore del mattino.»
Pistillo annuì. «Interessante, come teoria.» «Un movente ce l'hai?» le chiese Pistillo. «Klein aveva bisogno di farla tacere.» «Per quale ragione?» «Per ciò che era accaduto ad Albuquerque.» Rimuginarono entrambi in silenzio. «Non mi convince» disse poi Pistillo. «Non convince neanche me.» «Ma pensiamo entrambi che Will Klein sa più di ciò che ci ha detto.» «Di sicuro.» Pistillo emise un profondo respiro. «In ogni caso dobbiamo dargli la brutta notizia della dipartita della signorina Rogers.» «Sì.» «Chiama il capo della polizia di quel paesino dello Utah.» «Idaho.» «Utah, Idaho... Digli di informare i familiari e poi di metterli su un aereo per l'identificazione ufficiale.» «E Will Klein?» Pistillo ci pensò su. «Parlerò con Squares, dovrà aiutarmi ad assestare questo colpo a Klein.» 18 La porta del mio appartamento era socchiusa. Dopo l'arrivo della zia Selma e dello zio Murray, io e mio padre ci eravamo accuratamente evitati. Amo mio padre, credo di averlo chiarito a sufficienza. Ma, irrazionalmente, una piccola parte di me lo ritiene responsabile della morte di mia madre. Non so perché, ed è duro da ammettere anche a me stesso, ma dal momento in cui mamma si ammalò cominciai a guardare mio padre in maniera diversa. Come se non avesse fatto abbastanza. O forse ce l'avevo con lui perché, dopo l'assassinio di Julie Miller, non l'aveva risparmiata. Non era stato abbastanza forte, come marito non si era dimostrato all'altezza. Il vero amore avrebbe potuto contribuire a far guarire mamma? A farle ritrovare la sua verve? Irrazionale, come dicevo. Era solo uno spiraglio, quello della porta, ma fu sufficiente a bloccarmi. Chiudo sempre a chiave, e vivendo a Manhattan in uno stabile senza portiere non potrei fare altrimenti, ma ultimamente non c'ero stato molto con
la testa. Forse nella fretta di vedermi con Katy Miller me l'ero dimenticato. Abbastanza naturale, direi. E a volte la serratura di sicurezza rimane incastrata. O forse non avevo mai chiuso la porta del tutto. Improbabile, pensai preoccupato. Poggiai la mano su un pannello e spinsi con la massima leggerezza in attesa dello scricchiolio dei cardini. Che però non ci fu. Udii qualcosa, un rumore debole all'inizio. Allora infilai la testa nella fessura e subito mi sentii congelare le viscere. Nulla di ciò che vidi era fuori dall'ordinario. Le luci erano tutte spente e le veneziane abbassate, quindi di illuminazione ce n'era ben poca. No, nulla fuori dall'ordinario o, almeno, nulla che io potessi vedere. Chiusi la porta e avanzai ancora di qualche metro. Si sentiva della musica. Un fatto, anche questo, in sé non particolarmente allarmante. Non ho l'abitudine di lasciare acceso lo stereo quando esco di casa, come fanno certi miei concittadini fissati per la sicurezza, ma confesso che negli ultimi tempi sono stato a dir poco distratto. Forse avevo lasciato acceso il lettore CD. Ma questo non sarebbe bastato a gelarmi il sangue nelle vene. A gelarmelo era la scelta delle canzoni Quella che sentivo in quel momento, e cercai di ricordarmi quando l'avevo ascoltata per l'ultima volta, era Don't Fear the Reaper. Provai un brivido. Perché era la canzone preferita di Ken. La eseguivano i Blue Oyster Cult, un gruppo heavy metal di cui era considerata il principale successo: eppure l'esecuzione risultava sottotono, quasi eterea. Ken, ricordo, ascoltandola afferrava la racchetta e mimava gli assolo di chitarra. So per certo di non avere quella canzone in nessuno dei miei CD. Non se ne parla nemmeno, troppi ricordi. Ma che diavolo stava succedendo? Mossi un passo nella stanza. L'appartamento, come dicevo, era buio. Mi fermai, sentendomi terribilmente stupido. Che aspetti, pezzo d'idiota, ad accendere le luci? Non ti sembrerebbe una buona idea? Stavo per allungare una mano sull'interruttore quando udii dentro di me un'altra voce: non sarebbe meglio scappare? È quello che certe volte, al cinema o davanti alla TV, gridiamo verso lo schermo, no? L'assassino è nascosto in casa e la ragazzina scema, che ha appena trovato il corpo decapitato della sua migliore amica, decide che quello è il momento giusto per farsi una passeggiata dentro quella casa buia invece di, che so, fuggire ur-
lando come un animale impazzito. Sarebbe bastato che mi spogliassi rimanendo in reggiseno e sarei stato perfetto per quella parte. La canzone si concluse con un assolo di chitarra. Attesi il silenzio, che però durò poco perché la musica ricominciò. Con la stessa canzone. Ma che diavolo stava succedendo? Fuggire urlando, così si fa. Sarei fuggito urlando, ma mancava un particolare. Non ero inciampato in nessun cadavere decapitato. Che fare, allora, chiamare la polizia? Immaginavo già la scena. Qual è il problema, signore? Lo stereo sta suonando la canzone preferita di mio fratello, quindi ho deciso di scappare urlando. Potreste precipitarvi qui con le pistole spianate? Certo, signore, siamo già per strada. Bella cazzata avrei fatto, vero? E anche pensando che qualcuno si fosse introdotto in casa mia, che effettivamente ci fosse uno sconosciuto nel mio appartamento, uno sconosciuto che si era portato dietro un CD... chi mai sarebbe potuto essere? Il mio cuore mancò un battito, mentre la vista cominciava ad abituarsi all'oscurità. Decisi di lasciare le luci spente. Se c'era qualcuno non era il caso di fargli sapere che ero lì, un facile bersaglio. Oppure, accendendo le luci l'avrei spaventato? Oh Dio, non me ne intendo di queste cose. Okay, bene, facciamo così, le luci rimangono spente. E ora? La musica. Seguire la musica. Veniva dalla stanza da letto e fu lì che mi diressi. Prima, però, con la massima prudenza riaprii la porta d'ingresso. Non mi sarei comportato da idiota completo. La riaprii lasciandola spalancata, nel caso fossi dovuto fuggire urlando. Avanzai muovendomi quasi come una marionetta, portando cioè avanti il piede sinistro ma tenendo quello destro puntato decisamente verso l'uscita. Mi fece venire in mente una delle posizioni yoga di Squares. Si allargano le gambe piegandosi da una parte, ma il peso e la "consapevolezza" vanno nella direzione opposta. Il corpo si muove da una parte, la mente dall'altra. Questa pratica viene definita da alcuni yogi, ma fortunatamente non da Squares, "allargamento della coscienza". Scivolai avanti un metro. Poi ancora un altro. Buck Dharma, dei Blue Oyster Cult (e il fatto che ricordassi ancora non solo il nome d'arte ma anche quello vero, Donald Roeser, la dice lunga sulla mia adolescenza) stava spiegando in musica in che modo potremmo essere come loro, come Giulietta e Romeo.
Morti, cioè. Arrivai davanti alla porta della stanza da letto. Inghiottii e spinsi. Niente da fare, avrei dovuto girare la maniglia. La mia mano si strinse attorno al metallo. Mi voltai a guardare, l'altra porta era sempre spalancata e il mio piede destro era ancora puntato in quella direzione, anche se non avevo più la certezza della mia "consapevolezza". Girai la maniglia più silenziosamente che potei, ma nelle mie orecchie fu come un colpo di pistola. Spinsi leggermente, così da creare un piccolissimo spiraglio, poi lasciai la maniglia. La musica era ora più forte, distinta e chiara. Probabilmente veniva dal lettore CD che Squares mi aveva regalato due anni prima per il mio compleanno. Mi sporsi per dare un'occhiata veloce. E mi sentii afferrare per i capelli. Non ebbi nemmeno il tempo di ansimare. La testa mi venne tirata avanti con tanta forza che i piedi mi si sollevarono dal pavimento. Volai dentro la stanza, con le braccia aperte in stile Superman, e atterrai di pancia. L'aria abbandonò con un sibilo i miei polmoni. Cercai di rotolare di lato ma lui, perché davo per scontato che si trattasse di un lui, mi era già a cavalcioni sulla schiena e con un braccio simile a un serpente mi serrava il collo. Cercai di liberarmi, ma la presa era incredibilmente ferrea. Lo sconosciuto mi tirò indietro la testa e sentii mancarmi l'aria. Non potevo muovermi. Avendomi completamente in suo potere, si abbassò verso di me. Sentivo nell'orecchio il suo fiato. Fece con l'altro braccio qualcosa, forse per bilanciarsi meglio, poi strinse. E fu come se mi si spaccasse la trachea. Gli occhi stavano per schizzarmi dalle orbite. Portai una mano alla gola, ma invano. Cercai di conficcargli le unghie nell'avambraccio ma fu come voler penetrare il mogano. La crescente pressione dentro la testa si era fatta insopportabile. Mi agitai scompostamente ma il mio assalitore non cedette di un millimetro. Il cranio stava per esplodere. Poi udii la voce. «Ehi, Willie boy.» Quella voce. La riconobbi immediatamente. Non la udivo da... Cristo, cercai di ricordare... dieci, forse quindici anni. Dalla morte di Julie, in ogni caso. Ma ci sono certi suoni, in particolare certe voci, che vengono immagazzinati in una speciale parte della corteccia cerebrale, nello scaffale della sopravvivenza, per così dire, e quando li risentiamo ogni nostra fibra si tende avvertendo il pericolo. Mi lasciò il collo, all'improvviso e completamente. Rotolai a terra dibat-
tendomi, boccheggiando, cercando di strapparmi dalla gola qualcosa d'inesistente. Lui si spostò di lato, ridendo. «Ti sei rammollito, Willie boy.» Indietreggiai, strisciando sul pavimento. Gli occhi mi confermarono quanto le orecchie mi avevano già detto. Non riuscivo a crederci. Era cambiato, ma non c'era da sbagliarsi. «John?» dissi. «John Asselta?» Sorrise, con quel suo sorriso mefistofelico, e io mi sentii sprofondare nel passato. Tornò in superficie la paura, quella paura che non provavo dall'adolescenza. Aveva sempre avuto quell'effetto su di me il Fantasma, come lo chiamavano tutti anche se nessuno aveva il coraggio di pronunciare davanti a lui quel soprannome. E non lo faceva soltanto a me, quell'effetto. Terrorizzava praticamente tutti, il Fantasma, anche se io godevo di una certa protezione: ero il fratellino di Ken Klein, e per lui questo era sufficiente. Sono stato sempre un rammollito, per tutta la vita ho evitato lo scontro fisico. Secondo alcuni si tratta di prudenza e maturità, ma non è così. La verità è che sono un vigliacco, ho una paura mortale della violenza. Cosa che potrebbe essere normale se legata all'istinto di sopravvivenza e roba del genere, - ma io continuo a vergognarmene. Mio fratello, che stranamente era il migliore amico del Fantasma, era dotato di quell'invidiabile aggressività che separa i grandi dai velleitari. Il suo modo di giocare a tennis, per esempio, ricordava ad alcuni il giovane John McEnroe, con la sua grinta da pit bull, quella smania di vincere a tutti i costi, quell'atteggiamento da spaccamontagne. Anche da bambino Ken lottava fino alla morte dell'avversario per poi calpestarne le spoglie. Io non sono mai stato così. Mi rialzai con fatica, mentre Asselta era già in piedi come uno spirito uscito dalla sua tomba. Spalancò le braccia. «Non si abbraccia un vecchio amico, Willie boy?» Mi venne vicino e, prima che potessi reagire, mi abbracciò. A dispetto della bassa statura e delle braccia corte, aveva un tronco stranamente lungo. Mi premette una guancia contro il petto. «Ne è passato di tempo.» Non sapevo che cosa dire, da dove cominciare. «Come hai fatto a entrare?» gli chiesi allora. «Che cosa?» Si staccò da me. «Oh, la porta era aperta. Mi dispiace essere entrato come un ladro, ma...» Sorrise, facendo spallucce. «Non sei minimamente cambiato, Willie. Ti trovo bene.» «Non avresti dovuto...» Piegò la testa da un lato e io ricordai i suoi improvvisi scatti d'ira. John
Asselta era stato compagno di Ken alla Livingston High School. Era il capitano della squadra di lotta e per due anni di seguito aveva vinto il titolo di campione della Contea di Essex nella categoria pesi leggeri. Avrebbe potuto aspirare al titolo nazionale ma era stato espulso alla terza squalifica, dopo avere volontariamente slogato una spalla a un avversario. Ricordo ancora le urla di dolore dell'avversario e il raccapriccio di alcuni spettatori nel vedere quel braccio penzolante. Come ricordo il sorrisetto di Asselta mentre quel poveraccio veniva portato via in barella. Secondo mio padre, John aveva il complesso di Napoleone, ma a me quella spiegazione era sembrata eccessivamente riduttiva. Personalmente non avrei saputo dire se il Fantasma sentisse il bisogno continuo di imporsi, o se avesse un cromosoma Y in più o se fosse il più gran figlio di puttana in circolazione. In ogni caso, si trattava sicuramente di uno psicopatico. C'era poco da girarci attorno, a quello piaceva fare del male al prossimo. Da ogni suo passo emanava un senso di distruzione. Anche i ragazzi grandi e grossi si tenevano alla larga da lui. Era consigliabile evitare di incrociare il suo sguardo o la sua strada perché non si poteva mai sapere che cosa potesse provocarlo. Colpiva senza la minima esitazione. Ti spaccava il naso. Ti tirava una ginocchiata nelle palle. Ti infilava le dita negli occhi. Ti assaliva quando gli voltavi la schiena. Ero al secondo anno delle superiori quando provocò una commozione cerebrale a Milt Saperstein, un imbranato del primo anno dotato addirittura di smacchiatore tascabile. Milt aveva commesso l'errore di appoggiarsi all'armadietto del Fantasma, che aveva sorriso lasciandolo poi andare con una leggera pacca sulla spalla. Qualche ora dopo Saperstein stava passeggiando tra una lezione e l'altra quando, all'improvviso, il Fantasma gli era spuntato alle spalle colpendolo violentemente alla testa con un braccio. Saperstein, che non l'aveva nemmeno sentito arrivare, crollò al suolo e il Fantasma gli saltò a piè pari sulla testa, ridendo. Fu necessario portare d'urgenza Milt al pronto soccorso del St Barnabas. Nessuno vide nulla. All'età di quattordici anni, secondo la leggenda, il Fantasma uccise il cane di un vicino infilandogli dei petardi nel retto. Ma il precedente in assoluto peggiore del Fantasma risale a quando aveva la tenera età di dieci anni e, secondo le voci che circolavano allora, aveva pugnalato a morte un adolescente di nome Daniel Skinner con un coltello da cucina. Sembra che Skinner, di un paio d'anni più grande, si fosse preso gioco di lui e il Fanta-
sma avesse reagito con un coltellata dritta al cuore. Sempre secondo queste voci, il Fantasma aveva trascorso qualche tempo in riformatorio e poi in terapia, senza alcun risultato. Ken sostenne sempre di essere all'oscuro di questo episodio. Una volta lo chiesi a mio padre, che non confermò né smentì. Tentai di allontanare il passato. «Che cosa vuoi, John?» Non ero mai riuscito a capire come mio fratello potesse essergli amico. La cosa non faceva piacere nemmeno ai miei genitori, anche se con gli adulti il Fantasma riusciva a essere affascinante. Il suo colorito quasi da albino, che gli era valso quel soprannome, celava lineamenti delicati. Era quasi bello, con quelle lunghe ciglia e la fossetta sul mento. Avevo saputo che dopo il diploma si era arruolato e pare avesse preso parte ad azioni segrete con quelli delle Forze speciali o con i Berretti verdi, roba del genere, ma nessuno era stato in grado di confermarlo con assoluta certezza. Il Fantasma piegò nuovamente di lato la testa. «Dov'è Ken?» mi chiese con quel suo morbido tono di voce che di solito precedeva l'attacco. Non risposi. «Sono stato via a lungo, Willie boy. Oltreoceano.» «A fare che cosa?» gli chiesi. Mi sorrise mettendo di nuovo in mostra i suoi denti candidi. «E ora che sono tornato, ho pensato di rivedere il mio migliore amico di un tempo.» Non sapevo che cosa dire. Ma all'improvviso mi ricordai di quando la sera prima, mentre me ne stavo in veranda, avevo notato quell'uomo all'angolo della strada che mi fissava. Era il Fantasma. «Allora, Willie boy, dove posso trovare tuo fratello?» «Non lo so.» Portò la mano all'orecchio. «Scusa?» «Non so dove si trovi.» «Ma com'è possibile? Sei suo fratello, ti voleva tanto bene.» «Che vuoi, John?» «Dimmi una cosa» e mi mostrò di nuovo i denti in un sorriso «che fine ha fatto la tua fiamma delle superiori, quella Julie Miller? Vi siete sposati?» Lo guardai e quello continuò a sorridere. Mi stava prendendo in giro, lo sapevo. Lui e Julie erano stranamente stati in confidenza, e non avevo mai capito il perché. Lei sosteneva di vedere qualcosa sotto la sua superficie di psicopatico pronto a scartare per un nonnulla. Una volta, scherzando, dissi a Julie che secondo me lei doveva avergli tolto una spina dalla zampa. Ora
mi stavo chiedendo come cavarmela. Presi in considerazione l'idea di scappare, ma sapevo che non ce l'avrei fatta. Come sapevo anche di non essere fisicamente alla sua altezza. Il tutto mi stava spaventando e disgustando terribilmente. «Sei stato via a lungo?» gli chiesi. «Anni, Willie boy.» «Quando hai visto Ken per l'ultima volta?» Finse di pensarci su. «Deve essere stato, diciamo, una dozzina di anni fa. Da allora ho vissuto all'estero e non mi sono tenuto aggiornato.» «Capisco.» Le sue palpebre si trasformarono in due fessure. «Ho l'impressione che tu stia dubitando di me, Willie boy.» Mi venne vicino e cercai di non fare un passo indietro. «Hai paura di me?» «No.» «Non c'è più il tuo fratellone a proteggerti, Willie.» «E non siamo nemmeno più alle superiori, John.» Sollevò gli occhi e mi fissò. «Credi che ora il mondo sia tanto diverso?» Cercai di non cedere. «Mi sembri spaventato, Willie boy.» «Vattene.» La sua risposta fu immediata. Si accovacciò e mi tirò le gambe facendomi perdere l'equilibrio. Caddi pesantemente sul pavimento, di schiena, e prima che potessi muovermi il Fantasma mi serrò un braccio tra le mani. La pressione era fortissima, e il gomito prese a piegarsi nella direzione sbagliata. Provai un dolore indicibile, come se qualcuno mi ci avesse tirato una coltellata. Cercai di muovermi, di abbandonarmi, qualsiasi cosa pur di attenuare la pressione. Il Fantasma parlò con la sua voce più calma. «Digli che non deve più nascondersi, Willie. Digli che c'è gente che potrebbe farsi male, gente come te, o tuo padre, o tua sorella. O anche quella piccola strega Miller con cui ti sei visto oggi. Diglielo.» Mosse la mano con una velocità innaturale e, in un unico movimento, mi lasciò il braccio tirandomi un pugno in pieno viso. Sentii esplodermi il naso. Caddi di nuovo all'indietro, con la testa che mi girava, perdendo parzialmente conoscenza. O forse svenni. Non lo so più. Quando tornai a sollevare lo sguardo, il Fantasma era scomparso.
19 Squares mi porse un sacchetto di ghiaccio tolto dal freezer. «Certo, ma dovrei vederlo, non ti pare?» «Giusto.» Poggiai il sacchetto sul mio naso malconcio. «Sembra uno di quegli attori per i quali le donne vanno pazze.» Squares sedette sul divano, poggiando sul tavolino i piedi calzati negli scarponi. «Spiegati meglio.» Gli spiegai meglio. «Sembra un principe» fu il suo commento. «Te l'ho detto che torturava gli animali?» «Sì.» «E che teneva in camera da letto una collezione di teschi?» «Cosa, questa, che avrà colpito le signore.» «Non capisco.» Mi tolsi il sacchetto dal naso, me lo sentivo come se fosse stato pieno di monetine. «Che motivo avrebbe il Fantasma di cercare mio fratello?» «Bella domanda.» «Secondo te dovrei andare alla polizia?» Squares si strinse nelle spalle. «Dimmi un'altra volta come si chiama.» «John Asselta.» «Immagino che tu non conosca il suo indirizzo attuale.» «No.» «Ma è cresciuto a Livingston?» «Sì, a Woodland Terrace. Al 47 di Woodland Terrace.» «Ricordi addirittura il suo indirizzo.» Questa volta fui io a stringermi nelle spalle. Livingston era così, ti ricordavi questi particolari. «Non so com'è andata con sua madre, è scappata di casa o qualcosa del genere quando lui era molto piccolo. Il padre viveva attaccato alla bottiglia. Aveva due fratelli, entrambi più grandi. Uno, mi sembra si chiamasse Sean, era un reduce del Vietnam. Portava i capelli lunghi e la barba arruffata, e non faceva altro che andarsene in giro parlando da solo. Tutti lo consideravano pazzo. Il loro giardino era una specie di discarica, con l'erba sempre incolta. Questo alla gente di Livingstone non piaceva, la polizia li multava.» Squares prese appunti. «Me ne occupo io.» Mi faceva male la testa. Provai a concentrarmi. «C'è qualcuno del genere tra gli iscritti alla tua scuola?» gli chiesi. «Voglio dire, uno psicopatico che
si diverte a far male alla gente?» «Sì. Io.» Mi sembrava difficile da credere. Sapevo vagamente che Squares era stato un teppista di dimensioni bibliche ma l'idea che fosse stato simile al Fantasma, che avrei dovuto trasalire incrociandolo in un corridoio, che avrebbe spaccato un cranio per poi farsi una risata sentendo quel rumore... be', non quadrava. Mi rimisi il ghiaccio sul naso, con una smorfia di dolore. Squares scosse la testa. «Povero caro.» «Peccato che tu non abbia preso in considerazione la carriera di medico.» «Probabilmente hai il naso rotto.» «Me l'immaginavo.» «Vuoi andare in ospedale?» «No, sono un duro.» Si fece una risatina. «In ospedale, comunque, non potrebbero farti nulla.» Poi si mordicchiò l'interno della guancia. «È uscito fuori qualcosa.» Non mi piacque il suo tono di voce. «Mi ha telefonato il nostro federale preferito, Joe Pistillo.» Mi tolsi di nuovo il sacchetto del ghiaccio dal naso. «Hanno trovato Sheila?» «Non lo so.» «Che voleva?» «Vai a sapere. Mi ha solo chiesto di portarti nel suo ufficio.» «Quando?» «Ora. Ha aggiunto che dovevo considerare quella telefonata un gesto di cortesia da parte sua.» «Cortesia per che cosa?» «Che mi venga un colpo se lo so.» «Mi chiamo Clyde Smart» disse l'uomo, con la voce più garbata che Edna Rogers avesse mai udito. «Sono il medico legale della contea.» Edna Rogers guardò il marito Neil stringere la mano al medico, ma si limitò a fare un cenno con la testa. C'era anche la donna sceriffo con uno dei suoi agenti e tutti, notò Edna, avevano espressioni di circostanza. L'uomo di nome Clyde stava cercando di somministrare parole di conforto, ma la donna lo ignorò. Clyde Smart si avvicinò al tavolo. Neil e Edna Rogers, marito e moglie
da quarantadue anni, rimasero in piedi in attesa uno accanto all'altra. Non si toccarono. Non si scambiarono energia. Erano passati molti anni da quando si sostenevano reciprocamente. Il medico legale si decise finalmente a tacere e sollevò il lenzuolo. Vedendo il viso di Sheila, Neil Rogers barcollò come un animale ferito. Poi sollevò gli occhi ed emise un grido che a Edna sembrò quello di un coyote quando si sta addensando una tempesta. E, prima di guardare a sua volta, capì dall'angoscia del marito che non ci sarebbe stato alcun rinvio, alcun miracolo dell'ultimo momento. Raccolse tutto il suo coraggio e abbassò gli occhi sulla figlia. Poi allungò una mano - anche davanti alla morte il desiderio materno di portare conforto non s'interrompe - ma si costrinse a ritirarla. Edna continuò a guardare fin quando l'immagine non si confuse, fin quando non le sembrò quasi di vedere il volto di Sheila trasformarsi, gli anni tornare velocemente indietro, e la sua primogenita era di nuovo la sua bebè, con tutta la vita davanti, con un'altra possibilità per la madre di fare la cosa giusta. E allora Edna Rogers si mise a piangere. 20 «Che è successo al suo naso?» mi chiese Pistillo. Eravamo di nuovo nel suo ufficio, e Squares si era fermato in sala d'attesa. Io sedevo in una poltroncina di fronte alla scrivania di Pistillo la cui poltrona, mi accorsi questa volta, era leggermente più alta della mia, forse per mettere in soggezione l'interlocutore. Claudia Fisher, l'agente che si era presentata alla Covenant House, se ne stava a braccia incrociate alle mie spalle. «Dovrebbe vedere come sono conciati gli altri» risposi. «Ha fatto a pugni?» «Sono caduto.» Pistillo non mi credette, ma la cosa non aveva alcuna importanza. Poggiò entrambe le mani sulla scrivania. «Vorremmo che ci desse nuovamente la sua ricostruzione» disse. «La ricostruzione di che cosa?» «Della scomparsa di Sheila Rogers.» «L'avete ritrovata?» «Abbia pazienza, la prego.» Tossì, portandosi la mano davanti alla boc-
ca. «A che ora ha lasciato il suo appartamento, Sheila Rogers?» «Perché?» «La prego, signor Klein, ci dia una mano.» «Credo che fossero più o meno le cinque del mattino.» «Ne è sicuro?» «Credo. Ho usato il verbo credere.» «Perché non ne è sicuro?» «Perché stavo dormendo. Mi è sembrato di sentirla uscire di casa.» «Alle cinque?» «Sì.» «Ha guardato l'orologio?» «Sta scherzando? No.» «E come faceva a sapere che erano le cinque?» «Ho un grande orologio interno, non lo so. Possiamo andare avanti?» Pistillo annuì e cambiò posizione in poltrona. «La signorina Rogers le ha lasciato un biglietto, giusto?» «Sì.» «Dov'era quel biglietto?» «In che punto dell'appartamento, vuol dire?» «Sì.» «Qual è la differenza?» Mi gratificò del suo sorriso più paternalistico. «La prego.» «Sul banco della cucina. È di formica, se questo può esserle d'aiuto.» «Che cosa c'era scritto, esattamente, sul biglietto?» «È una faccenda personale.» «Signor Klein...» Sospirai. Non avevo alcun motivo di litigare con lui. «Diceva che mi avrebbe amato sempre.» «Che altro?» «Tutto qui.» «Solo che l'avrebbe amata sempre, quindi?» «Sì.» «Ce l'ha ancora, quel biglietto?» «Sì.» «Possiamo vederlo?» «Può dirmi perché mi trovo qui?» Pistillo si mise comodo sulla poltrona. «Dopo essere usciti da casa di suo padre, lei e la signorina Rogers siete andati direttamente al suo appar-
tamento, signor Klein?» Mi colpì quel cambio di argomento. «Ma di che cosa sta parlando?» «Lei è stato al funerale di sua madre, giusto?» «Sì.» «E poi ha fatto ritorno a casa sua insieme a Sheìla Rogers. Non è questo che ci ha detto?» «Proprio questo.» «Ed è la verità?» «Sì.» «Non vi siete fermati da qualche parte tornando a casa?» «No.» «C'è qualcuno che possa confermarlo?» «Confermare che non ci siamo fermati?» «Confermare che siete tornati al suo appartamento, rimanendoci.» «Ma perché qualcuno dovrebbe confermarlo?» «La prego, signor Klein.» «Non lo so se c'è qualcuno in grado di confermarlo.» «Ha parlato con qualcuno?» «No.» «Vi ha visto qualche vicino?» «Non lo so.» Mi girai per guardare la Fisher. «Perché non passate al setaccio la zona? È per questo che siete famosi, no?» «Perché Sheila Rogers si trovava in Nuovo Messico?» Riportai lo sguardo su Pistillo. «Non sapevo che fosse in Nuovo Messico.» «Non le aveva mai detto che ci sarebbe andata?» «Non ne so nulla.» «E lei, signor Klein?» «E io, che cosa?» «Conosce nessuno in Nuovo Messico?» «Non so nemmeno come si arriva a Santa Fe, come dice quella canzone di Bacharach.» «La canzone, veramente, dice San José» mi corresse Pistillo, sorridendo a quella battuta scema. «Abbiamo un elenco di tutte le telefonate da lei ricevute recentemente.» «Carino, da parte vostra.» Fece spallucce. «Tecnologia moderna.» «Ed è legale una cosa del genere?»
«Ci siamo procurati un mandato.» «Non ne dubito. Che cosa vuole sapere, allora?» Claudia Fisher si mosse per la prima volta, porgendomi un foglio di carta sul quale abbassai subito lo sguardo. Sembrava la fotocopia di una bolletta telefonica. Un numero, non familiare, era stato evidenziato in giallo. «La sera prima del funerale di sua madre lei ha ricevuto una chiamata da una cabina telefonica di Paradise Hills, Nuovo Messico.» Pistillo avvicinò il viso. «Chi era l'autore di quella telefonata?» Studiai il numero, di nuovo confuso completamente. La telefonata era arrivata alle sei e un quarto di sera ed era durata otto minuti. Non sapevo che cosa significasse, ma sapevo per certo che la piega di quella conversazione non mi stava piacendo affatto. Sollevai lo sguardo. «Dovrei avere un avvocato?» La domanda calmò Pistillo, che scambiò un'altra occhiata con Claudia Fisher. «Lo può sempre avere, un avvocato» rispose, forse con eccessiva circospezione. «Voglio che sia presente Squares.» «Non è un avvocato.» «Lo voglio ugualmente. Non so che cosa diavolo stia succedendo, ma non mi piacciono queste domande. Sono venuto perché credevo aveste delle notizie da darmi e invece mi ritrovo interrogato.» «Interrogato?» Pistillo allargò le braccia. «Stiamo solo chiacchierando.» Un telefono squillò alle mie spalle. Claudia Fisher sollevò lo sportellino a scatto del suo cellulare come avrebbe potuto farlo lo sceriffo Wyatt Earp, se ai suoi tempi fossero esistiti i cellulari. «Fisher.» Rimase ad ascoltare per circa un minuto, poi riagganciò senza salutare e con la testa fece una specie di cenno di conferma a Pistillo. Mi alzai. «Ne ho avuto abbastanza.» «Si sieda, signor Klein.» «Sono stanco delle sue stronzate, Pistillo. Stanco di...» «Quella telefonata...» m'interruppe. «Sì?» «Si sieda, Will.» Mi aveva chiamato per nome. Era la prima volta. E non mi piaceva. Rimasi in piedi, in attesa. «Avevamo bisogno di una conferma» disse. «Di che cosa?» Non rispose. «Perciò abbiamo fatto arrivare dall'Idaho i genitori di Shei-
la Rogers. Che hanno reso ufficiale il riconoscimento, anche se le impronte digitali ci avevano già detto ciò che volevamo sapere.» Il volto di Pistillo si ammorbidi. Sentii piegarsi le ginocchia ma riuscii a rimanere in piedi. Lui ora mi stava guardando con occhi pesanti. Cominciai a scuotere la testa, ma sapevo che non c'era modo di evitare il colpo. «Sono spiacente, Will. Sheila Rogers è morta.» 21 Negare è qualcosa di stupefacente. Nonostante sentissi lo stomaco contrarsi e rilassarsi, il ghiaccio invadermi e congelarmi partendo da dentro, le lacrime premere contro gli occhi, riuscii in qualche modo a rimanere distaccato. E annuii, concentrandomi sui pochi particolari che Pistillo era disposto a rivelarmi. Sheila era stata scaricata al margine di una strada in Nebraska, mi disse. Annuii. Era stata uccisa "in un modo piuttosto brutale", per usare le parole scelte da Pistillo. Annuii ancora. L'avevano trovata senza documenti, ma le impronte digitali erano le sue e poi i genitori fatti venire dall'Idaho l'avevano identificata ufficialmente. Chinai per la terza volta la testa. Non mi sedetti. Non piansi. Rimasi perfettamente immobile. Qualcosa dentro di me si stava sviluppando, premendomi contro la gabbia toracica e rendendomi quasi impossibile respirare. Le parole di Pistillo sembravano giungermi da lontano, come pronunciate sott'acqua. Ebbi un flash, rividi Sheila che leggeva seduta sul divano, con le gambe ripiegate sotto di lei e le maniche del maglione allungate fin oltre le mani. Vidi la concentrazione sul suo viso, il modo in cui si preparava con il dito a voltare pagina, come i suoi occhi si riducevano a fessure in certi passaggi del libro, il suo modo di sollevare lo sguardo e sorridermi nel momento in cui si rendeva conto che la stavo osservando. Sheila era morta. Ero ancora lì, con lei, a casa nostra, tentando di rimanere aggrappato a ciò che non c'era più, quando le parole di Pistillo sembrarono affettare quella nebbiolina. «Avrebbe dovuto collaborare con noi.» Mi sembrò di riaffiorare dal sonno. «Che cosa?» «Se ci avesse detto la verità, forse avremmo potuto salvarla.»
Ricordo solo che dall'ufficio di Pistillo mi ritrovai dentro il furgone. Squares alternava pugni sul volante a giuramenti di vendetta. Non l'avevo mai visto tanto agitato. La mia era stata invece una reazione opposta. Era come se qualcuno mi avesse staccato la spina. Guardai fuori dal finestrino. Negare funzionava ancora, ma cominciavo a sentire la realtà picchiare contro le pareti. E mi chiesi quanto ci avrebbero impiegato le pareti a crollare sotto quei colpi. «Lo prenderemo» ripeté Squares. In quel momento la cosa non mi interessava granché. Parcheggiò in doppia fila davanti al mio palazzo e saltò giù. «Sto bene, non ti preoccupare» gli dissi. «Ti accompagno su comunque. Voglio farti vedere una cosa.» Appena entrati, Squares tirò fuori di tasca una pistola e si mise a ispezionare l'appartamento tenendola spianata. Non c'era nessuno. Mi porse l'arma. «Chiudi a chiave. E se dovesse tornare quello stronzo bastardo fallo secco.» «Non ho bisogno di questa.» «Fallo secco» ripeté. Non staccai gli occhi dalla pistola. «Vuoi che rimanga?» mi chiese. «Credo che starò meglio solo.» «Certo, okay. Ma se hai bisogno di me chiamami sul cellulare. Ventiquattr'ore al giorno, sette giorni la settimana.» «Bene, grazie.» Se ne andò senza aggiungere altro. Posai la pistola sul tavolo, poi mi alzai e girai per il nostro appartamento. Non c'era più nulla di Sheila. Il suo profumo era svanito. L'aria sembrava più sottile, quasi inconsistente. Avrei voluto serrare porte e finestre, inchiodarci sopra delle assi, per cercare di conservare qualcosa di lei. Qualcuno ha ucciso la donna che amo. Per la seconda volta? No. L'omicidio di Julie aveva avuto su di me un effetto diverso, diversissimo. Continuavo a fare finta di niente, certo, ma una voce mi stava sussurrando che nulla sarebbe stato più come prima. Lo sapevo. E sapevo anche che stavolta non mi sarei ripreso. Certi colpi li puoi incassare, assorbire, come era successo con Julie e Ken. Questo era diverso. Mi sentii rimbalzare dentro un turbine di sentimenti, e quello dominante era la dispera-
zione. Non sarei più stato con Sheila. Qualcuno ha ucciso la donna che amo. Mi concentrai su questa seconda parte. Uccisa. Pensai al suo passato, all'inferno che aveva dovuto attraversare. Pensai al coraggio con cui aveva combattuto, un coraggio reso inutile da qualcuno che l'aveva sorpresa alle spalle e portata via da me. Alla disperazione cominciava ad accompagnarsi la rabbia. Andai alla scrivania, mi chinai e infilai la mano in fondo all'ultimo cassetto dal quale tirai fuori una scatolina imbottita di velluto. Respirai a fondo e l'aprii. Il diamante dell'anello era di 1,3 carati, colore G, taglio a brillante. La montatura di platino era molto semplice. L'avevo comprato due settimane prima sulla Quarantasettesima, la strada dei diamanti. L'avevo mostrato solo a mia madre e avevo pensato di chiedere davanti a lei a Sheila di sposarmi. Ma mamma da quel giorno era stata sempre peggio. Avevo deciso di aspettare, lieto comunque che mamma sapesse che avevo trovato qualcuno e lieto che questo qualcuno avesse incontrato la sua piena approvazione. Avrei atteso il momento giusto, dopo l'agonia e la morte di mia madre, per regalare quell'anello a Sheila. Ci amavamo, io e Sheila. Le avrei chiesto di sposarmi in una qualche maniera sdolcinata, goffa, in qualche modo originale, e le si sarebbero inumiditi gli occhi. Poi avrebbe detto sì, gettandomi le braccia al collo. Ci saremmo sposati e saremmo stati compagni per la vita. Che bello, sarebbe stato. Qualcuno me l'aveva portata via. Il muro del diniego cominciò a scricchiolare e a creparsi. E mi sentii invadere da un dolore che sembrava strapparmi il fiato dai polmoni. Crollai in poltrona, stringendomi le ginocchia al petto, poi cominciai a dondolarmi finché non iniziai a piangere: ma a piangere sul serio, con delle urla che mi straziavano l'anima. Non so quanto tempo rimasi a singhiozzare, ma a un certo punto mi costrinsi a smettere. Fu allora che decisi di ribellarmi al dolore. Il dolore paralizza, la rabbia no. E la rabbia era lì, a mia disposizione, in cerca di un varco. Glielo aprii io quel varco. 22
Katy Miller si fermò sulla soglia sentendo il padre alzare la voce. «Perché ci sei dovuta andare?» gridò. I suoi genitori erano in tinello, una stanza che come quasi tutta la casa aveva uno stile alberghiero. L'arredamento era funzionale, lucido, robusto e privo totalmente di calore. I quadri a olio appesi alle pareti erano immagini insignificanti di barche a vela e di nature morte. Non si vedevano statuette, souvenir delle vacanze, collezioni di qualcosa, foto di famiglia. «Sono andata a fare le condoglianze» disse la madre. «E perché diavolo gliele hai dovute fare?» «Mi è sembrato giusto.» «Giusto? Suo figlio ha ucciso nostra figlia.» «Suo figlio» ripeté Lucilie Miller. «Non lei.» «Risparmiami simili fesserie. L'ha allevato lei, il figlio.» «Questo non la rende responsabile.» «L'hai sempre pensata in maniera diversa.» La madre mantenne il suo punto di vista. «Ci pensavo da tempo, ma non te ne ho mai parlato.» Warren Miller si voltò e cominciò a camminare avanti e indietro. «E quell'imbecille ti ha buttato fuori?» «Sta soffrendo e ha reagito così.» «Voglio che non ci torni più» disse, agitando impotente il dito. «Mi hai capito? Per quanto ne so io, la Klein ha aiutato quell'assassino figlio di puttana a nascondersi.» «E allora?» Katy soffocò un soprassalto di sorpresa. Il signor Miller si voltò di scatto. «Che cosa?» «Era sua madre. Noi avremmo agito diversamente?» «Ma di che cosa stai parlando?» «A parti invertite, se fosse stata Julie a uccidere Ken e avesse avuto bisogno di nascondersi, tu che avresti fatto?» «Stai dicendo delle sciocchezze.» «No, Warren, non sono sciocchezze. Voglio sapere. Voglio sapere che cosa avremmo fatto al loro posto. Avremmo portato Julie alla polizia? Oppure avremmo cercato di salvarla?» Il signor Miller, voltandosi, si accorse della presenza di Katy sulla soglia. I loro occhi s'incontrarono e lui non riuscì per l'ennesima volta a sostenere lo sguardo della figlia. Allora, senza una parola, salì le scale a passo di carica, entrò nella nuova "stanza del computer" e si chiuse la porta al-
le spalle. La stanza del computer era la vecchia camera di Julie e per nove anni era rimasta esattamente come l'aveva lasciata lei. Poi un giorno, senza preavviso, il padre era entrato in quella stanza e l'aveva vuotata riempiendo un certo numero di scatoloni e mettendoli poi in soffitta. Aveva dipinto di bianco le pareti e comprato all'Ikea un nuovo ripiano per il PC: da allora quella era diventata la stanza del computer. Per alcuni quella decisione aveva rappresentato una chiusura con il passato, il desiderio di andare avanti. Era vero esattamente il contrario. Si trattava di una messinscena, come quella di un morente che vuole dimostrare di essere in grado di scendere dal letto, mentre invece quel movimento lo fa sentire peggio. Katy non c'era mai entrata, in quella stanza. Ora che non conteneva più alcun segno tangibile di Julie, il suo spirito sembrava in un certo modo più aggressivo. Ora si faceva affidamento sulla mente, non sugli occhi. Si evocava ciò che non si voleva più vedere. Lucilie Miller si diresse in cucina. Katy la seguì in silenzio. La madre cominciò a sciacquare i piatti e lei rimase a osservarla, desiderando - anche in questo caso per l'ennesima volta - di dirle qualcosa che non rendesse ancora più profonda la ferita. I suoi genitori non parlavano mai di Julie con lei. Mai. Durante quegli anni li aveva sorpresi a discutere del delitto cinque o sei volte e la discussione finiva sempre allo stesso modo: in silenzio e lacrime. «Mamma?» «Va tutto bene, cara.» Katy le si avvicinò e lei si mise a strofinare i piatti più energicamente. La figlia notò che sui capelli della madre erano aumentate le striature bianche, la schiena si era fatta più curva, il colorito più grigio. «Tu l'avresti fatto?» le chiese Katy. La madre rimase in silenzio. «Avresti aiutato Julie a fuggire?» Lucilie Miller continuò a strofinare. Poi caricò la lavastoviglie, versò il detersivo e l'avviò. Katy attese qualche altro momento, ma la madre non aprì bocca. La ragazza salì allora in punta di piedi al piano superiore. E udì giungere dalla stanza del computer i singhiozzi disperati del padre non attutiti a sufficienza dalla porta chiusa. Allora si fermò, poggiando i palmi delle mani sul legno pensando di poter percepire le vibrazioni. I singhiozzi del padre erano sempre così totali, così corporei. «Per favore, basta» continuava a implorare la voce soffocata dell'uomo, come se stesse invocando un invisi-
bile persecutore di piazzargli una pallottola nel cervello. Katy rimase ad ascoltare, ma la voce non s'interruppe. Dopo un po' si allontanò. Proseguì fino alla sua stanza, dove infilò le sue cose in uno zaino e si preparò a porre termine per sempre a quella situazione. Me ne stavo ancora seduto al buio, con le ginocchia serrate al petto. Era quasi mezzanotte. Avevo inserito la segreteria e selezionavo le chiamate. In circostanze normali avrei staccato il telefono, ma in me il fenomeno del diniego era ancora abbastanza potente da farmi sperare che da un momento all'altro avrebbe chiamato Pistillo per dirmi che si era trattato di un colossale errore. La mente in certi casi funziona così. Cerca una scappatoia. Fa patti con Dio. Promette. Vuole convincersi che esiste una dilazione, che tutto è stato solo un sogno, il più perverso degli incubi, e che in qualche modo è possibile tornare allo statu quo. Una sola volta avevo sollevato il telefono, per rispondere a Squares. Mi aveva detto che i ragazzi della Covenant House desideravano tenere il giorno dopo una cerimonia di suffragio per Sheila: ero d'accordo? Gli dissi che secondo me a Sheila l'idea sarebbe piaciuta moltissimo. Guardai fuori dalla finestra. Il furgone continuava a girare attorno all'isolato. Sì, era proprio Squares. Che mi proteggeva, pattugliando tutta la notte la zona. Sapevo che non si sarebbe allontanato. Sperava probabilmente che si creasse un'emergenza, in modo da potersi sfogare su qualcuno. Ripensai a quando mi aveva detto di non essere stato granché diverso dal Fantasma. Pensai al potere del passato, pensai a ciò che avevano sopportato Squares e Sheila meravigliandomi che avessero trovato l'energia per nuotare controcorrente. Squillò nuovamente il telefono. Abbassai gli occhi sulla mia birra. Non ero il tipo che allontana i problemi con l'alcol e quasi quasi avrei voluto esserlo. Avrei voluto essere intorpidito, in questo momento, ma purtroppo stava avvenendo il contrario. La pelle mi si stava staccando di dosso e avvertivo ogni sensazione, braccia e gambe si erano fatte insopportabilmente pesanti. Mi sembrava di essere trascinato sott'acqua, di annegare, di essere destinato a rimanere a pochi centimetri dalla superficie con le gambe bloccate da mani invisibili dalle quali non riuscivo a liberarmi. Attesi che entrasse in funzione la segreteria telefonica. Dopo il terzo squillo udii un clic, poi la mia voce che diceva di lasciare un messaggio
dopo il segnale. E dopo il segnale mi giunse una voce quasi familiare. «Signor Klein?» Mi raddrizzai. La donna all'altro capo del filo soffocò un singhiozzo. «Sono Edna Rogers, la madre di Sheila.» La mia mano scattò ad afferrare il ricevitore. «Sono qui.» Lei rispose piangendo e scoppiai a piangere anche io. «Non credevo che avrei sofferto tanto» disse lei a un certo punto. Tutto solo in quello che era stato il nostro appartamento, presi a dondolarmi. «L'ho tagliata fuori dalla mia vita tanto tempo fa» continuò la signora Rogers. «Non era più mia figlia. Avevo altri figli. Lei se n'era andata, per sempre. Non era ciò che volevo, ma era stato così. E anche quando mi si è presentata a casa la polizia e mi hanno detto che era morta, non ho reagito. Mi sono limitata ad annuire raddrizzando la schiena.» Non lo sapevo. Non dissi nulla. Mi limitai ad ascoltare. «E quelli ci hanno caricato su un aereo portandoci qui, in Nebraska. Ci hanno detto che avevano già le sue impronte digitali, ma che per l'identificazione ufficiale serviva una persona di famiglia. Io e Neil allora siamo saliti in macchina e a Boise ci siamo imbarcati sull'aereo. Ci hanno portato in questa stazioncina di polizia. In TV le identificazioni avvengono sempre dietro un vetro, portano il cadavere su una lettiga, ma dall'altra parte di un vetro. Qui invece è diverso. Mi hanno portato in quest'ufficio e c'era una specie di blocco coperto da un lenzuolo. Non l'avevano messa nemmeno su una barella, ma su un tavolo. Poi quell'uomo ha sollevato il lenzuolo e ho visto il viso. Per la prima volta dopo quattordici anni ho rivisto il viso di Sheila...» A quel punto non ce la fece a trattenersi. Si mise a piangere, senza interruzione. Attesi con il ricevitore contro l'orecchio. «Signor Klein» riprese poi. «Mi chiami Will, la prego.» «Lei, Will, l'amava. Vero?» «Moltissimo.» «E l'ha fatta felice?» Pensai all'anello con il diamante. «Spero di sì.» «Passerò la notte a Lincoln e domani mattina voglio prendere un aereo per New York.» «Sarebbe bello.» E le parlai della cerimonia prevista alla Covenant House.
«Avremo tempo per parlare, dopo?» mi chiese. «Naturalmente.» «Ho bisogno di sapere certe cose. E ci sono altre cose, importanti, che devo dirle.» «Credo di non capire.» «Ne parliamo domani, Will.» Ebbi una visita, quella notte. Verso l'una sentii suonare il campanello. Pensai fosse Squares e riuscii ad alzarmi e ciabattare verso la porta. Poi mi ricordai del Fantasma. Mi voltai: la pistola era sempre sul tavolo. Mi fermai. Suonarono di nuovo. Scossi la testa. No, non potevo arrivare a quel punto. Non ancora, comunque. Mi avvicinai alla porta e poggiai l'occhio allo spioncino. Ma a suonare non era stato né Squares né il Fantasma. C'era mio padre, dietro la porta. Aprii e restammo a guardarci, come se fossimo lontanissimi l'uno dall'altro. Era senza fiato, aveva gli occhi gonfi e rossi. Io rimasi immobile, sentendomi crollare tutto dentro. Lui annuì, allargò le braccia e mi fece segno di avvicinarmi. Mi rifugiai nel suo abbraccio, premendo la guancia contro la lana pungente del suo maglione che sapeva di umido e di vecchio. Mi misi a singhiozzare. Lui mi consolò carezzandomi i capelli e stringendomi a sé. Sentii mancarmi le gambe ma non scivolai, mio padre mi sorresse. E mi tenne stretto a lungo. 23 Las Vegas Morty Mayer disgiunse le carte, due dieci, e fece segno alla mazziera di servire una carta a ognuna delle due. La prima fu un nove, la seconda un asso. Diciannove di prima mano. E blackjack. Gli stava andando benissimo. Aveva vinto otto mani di seguito, in tutto dodici su tredici, per un totale di undicimila bei dollari. Morty era come drogato, la sempre ingannevole euforia del vincitore gli dava una specie di pizzicorino a braccia e gambe. Una sensazione deliziosa, paragonabile a nessun'altra. La scommessa, l'aveva ormai capito, era la più grande tentatrice. Tu le vai dietro e lei ti umilia, ti respinge, ti rende infelice: e poi,
quando stai per abbandonarla, ti sorride, ti poggia sul viso la sua mano calda, ti accarezza dolcemente ed è così piacevole, così maledettamente piacevole... La mazziera, una specie di casalinga tedesca con i capelli cotonati colore del fieno, ritirò le carte e gli consegnò le sue fiches. Morty stava vincendo. Nonostante le prediche di quegli imbecilli della Giocatori Anonimi, era effettivamente possibile vincere al casinò. Qualcuno doveva pur vincere, no? Fate il calcolo delle probabilità, Cristo santo, il casinò non può battere tutti: ai dadi si può addirittura puntare insieme al banco. Quindi, naturalmente, alcuni vincono, e tornano a casa con i soldi. Era così, impossibile il contrario. Sostenere che nessuno poteva uscire vincitore era una di quelle scemenze della Giocatori Anonimi che toglieva ogni credibilità all'organizzazione. E se cominciano a mentirti, come puoi pensare che vogliano veramente aiutarti? Morty stava giocando a Las Vegas, la vera Las Vegas, non quella piena di turisti a spasso con capi di finta antilope e scarpe da ginnastica, non quella dei giocatori che fischiano, gridano o strillano per la gioia, non quella con finte statue della Libertà o Torri Eiffel, niente Cirque du Soleil, niente luna park, niente cinema in 3D, costumi da gladiatore, fontane di acqua danzante, vulcani fasulli o sfilate di negozi per adolescenti. Questa era la "downtown Las Vegas". Qui perdevano la loro modesta paga settimanale uomini sporchi e sdentati, con la polvere dei loro pickup che gli cadeva di dosso ogni volta che scrollavano le spalle. I giocatori, in questo tipo di casinò, avevano occhi stanchi, esausti, e volti rigati dalla fatica sui quali il sole aveva inciso le tracce delle loro tribolazioni. Un uomo andava là a giocare, dopo avere faticato come uno schiavo in un lavoro che odiava, perché non aveva nessuna voglia di tornarsene alla sua roulotte, alla sua abitazione con il televisore rotto, le urla dei bambini, la moglie che si era lasciata andare, quella stessa donna che una volta lo masturbava nel retro di quel pickup e ora lo guardava senza nemmeno provare a nascondere la sua repulsione. Quest'uomo andava a giocare con quel po' di speranza che gli rimaneva, con l'esile convinzione di essere a un passo dal cambiare la propria vita. Ma la speranza durava sempre poco. Morty non era nemmeno certo che fosse presente a quei tavoli. In fondo al cuore ogni giocatore sapeva che non era mai esistita. Ogni giocatore era destinato a una vita di delusioni, a tenere per sempre il viso schiacciato contro il vetro. Al tavolo cambiò il mazziere. Morty si mise a suo agio sulla sedia, guardando la vincita, e la soddisfazione fu offuscata da quella vecchia ombra:
Leah gli mancava. A volte, svegliandosi la mattina, si girava ancora dalla parte di lei per poi farsi consumare dai ricordi, senza riuscire a scendere dal letto. Si mise a osservare quegli uomini sporchi appena arrivati dal lavoro. Quando era più giovane li avrebbe considerati dei perdenti. Ma avevano una scusa per essere lì, potevano benissimo essere nati con la P di perdente marchiata sul didietro. I genitori di Morty, emigrati da uno shtetl polacco, avevano fatto mille sacrifici per lui. Erano entrati illegalmente negli Stati Uniti, affrontato una terribile povertà in posti distanti un oceano da quelli a loro familiari, lottato con le unghie e con i denti: tutto perché il figlio avesse una vita migliore della loro. Si erano accorciati l'esistenza lavorando come schiavi, ma avevano fatto in tempo a vedere Morty laurearsi in medicina, a capire che la loro lotta era andata a buon fine, che erano riusciti a deviare in meglio e per sempre la traiettoria genealogica. Erano morti in pace. Morty venne servito di un sei coperto e di un sette scoperto. Lui chiamò carta e gli venne un dieci. Sballato. Perse anche la mano successiva. Maledizione. Aveva bisogno di quei soldi. Locani, un classico allibratore spezzagambe, li voleva indietro. Morty, che a pensarci bene era il perdente per eccellenza, era riuscito a ottenere una dilazione fornendogli certe informazioni. Aveva parlato a Locani di quell'uomo mascherato e della donna ferita. All'inizio lui sembrava disinteressato, ma la voce si era sparsa e all'improvviso qualcuno aveva voluto i particolari. Morty aveva raccontato quasi tutto. Ma non aveva volutamente accennato alla persona sul sedile posteriore. Non capiva che cosa ci fosse in ballo, ma c'erano cose che nemmeno lui era disposto a fare. Gli arrivarono due assi, e li disgiunse per raddoppiare le possibilità. Accanto a lui andò a sedersi un uomo, Morty più che vederlo avvertì la sua presenza. La avvertì nelle sue vecchie ossa, come se quell'uomo fosse un fronte di perturbazioni in arrivo. E, in preda a una paura irrazionale, non si voltò nemmeno a guardarlo. Il mazziere gli mise davanti un re e un fante. Morty aveva appena chiuso due blackjack. Lo sconosciuto avvicinò il viso al suo. «Abbandona finché sei in vincita, Morty» gli sussurrò. Allora Morty voltò lentamente la testa e vide un uomo con gli occhi di un colore grigio sbiadito e la pelle di un bianco quasi trasparente, al punto che guardandola si aveva l'impressione di poter vedere ogni vena. Lo sco-
nosciuto sorrise. «Potrebbe essere l'ora d'incassare la vincita» insistette il sussurro d'argento. Morty cercò di non rabbrividire. «Chi sei? Che cosa vuoi?» «Dobbiamo parlare.» «Di che cosa?» «Di un certo paziente che recentemente è stato ospite del tuo pregiato studio.» Marty inghiottì a vuoto. Perché si era lasciato andare con Locarvi? Per guadagnare tempo avrebbe dovuto trovare un altro sistema, uno qualsiasi. «Ho già detto a quella gente tutto ciò che so.» Il tipo pallido piegò la testa di lato. «Davvero, Morty?» «Sì.» Quegli occhi sbiaditi si posarono pesanti su di lui. Nessuno dei due uomini parlò o si mosse, ma Morty si sentì avvampare le guance. Cercò di raddrizzare la schiena ma quello sguardo lo stava fulminando. «Non credo, Morty. Credo che ti sei tenuto qualcosa per te.» Morty rimase in silenzio. «Chi altri c'era in macchina quella notte?» Guardò le fiches, cercando di non rabbrividire. «Ma di che stai parlando?» «C'era qualcun altro, vero Morty?» «Senti, lasciami in pace, capito? Le cose al tavolo mi stanno andando bene.» Il Fantasma si alzò dalla sedia scuotendo la testa. «No, Morty» disse, toccandogli dolcemente un braccio. «Ho paura che la tua fortuna stia cambiando direzione.» 24 La cerimonia si svolse nell'auditorium della Covenant House. Squares e Wanda sedevano alla mia destra, papà alla sinistra. Mi teneva un braccio sulla schiena e ogni tanto me la carezzava. Era una bellissima sensazione. La sala era gremita, soprattutto di ragazzi e ragazze che mi abbracciavano, piangevano, mi dicevano quanto Sheila sarebbe loro mancata. Il tutto durò quasi due ore. Terrel, un quattordicenne che si vendeva per dieci dollari a prestazione, suonò alla tromba una musica che aveva composto per lei. E fu la musica più dolce e triste che avessi mai sentito. Lisa,
che di anni ne aveva diciassette ed era affetta da bipolarità, disse che dopo avere scoperto di essere incinta era stata Sheila l'unica persona con la quale era riuscita a parlare. Sammy fece sorridere tutti raccontando di quella volta che Sheila aveva tentato d'insegnargli "quel ballo scemo da ragazza bianca". Jim, sedici anni, disse ai presenti che la voglia di vivere l'aveva abbandonato ed era pronto a uccidersi, quando un sorriso di Sheila gli aveva fatto capire che a questo mondo c'è pur sempre qualcosa di buono. Sheila l'aveva convinto a rimandare i suoi propositi di un giorno. Poi di un altro ancora. Allontanai il dolore e ascoltai attentamente, perché quei ragazzi lo meritavano. Quel posto aveva per me, per noi, un'enorme importanza. E ogni qual volta dubitavamo del nostro successo o ci sembrava di non dare abbastanza aiuto, ci ricordavamo sempre che c'erano in ballo dei ragazzi. Che non erano tipi da coccole. Molti erano sgradevoli e difficili da amare. Molti avevano alle spalle esistenze terribili e finivano in prigione, sulla strada o al cimitero. Ma non per questo ci arrendevamo: anzi, al contrario, capivamo che dovevamo amarli ancora di più. Senza condizioni, senza battere ciglio. Sheila lo sapeva e questo era per lei molto importante. La madre di Sheila, o quanto meno quella che decisi essere la signora Rogers, arrivò quando la cerimonia era cominciata da venti minuti. Era una donna alta, dall'aspetto asciutto e quasi friabile, come di qualcosa rimasta per troppo tempo esposta al sole. I nostri sguardi s'incontrarono, nel suo lessi una domanda alla quale risposi di sì chinando la testa. Durante la cerimonia mi voltai ogni tanto a guardarla. Sedeva perfettamente immobile, ascoltando quasi con soggezione ciò che veniva detto della figlia. A un certo punto, alzandoci tutti in piedi, vidi qualcosa che mi sorprese. Stavo osservando quel mare di volti noti, quando individuai una figura familiare con il volto semicoperto da un foulard. Tanya. La donna sfregiata che "accudiva" quel rifiuto umano di Louis Castman. Mi sembrò proprio lei, ne ero abbastanza certo: stessi capelli, stessa altezza e corporatura anche se il viso era quasi completamente coperto. Nei suoi occhi qualcosa di familiare. Non ci avevo pensato prima, ma naturalmente era possibile che lei e Sheila si fossero conosciute quando entrambe battevano la strada. Tornammo a sedere. Squares intervenne per ultimo. Sapeva parlare, essere divertente, e ridette vita a Sheila come io non avrei saputo fare. Disse ai ragazzi come lei
fosse stata "una di voi", una sbandata che aveva dovuto combattere i propri demoni. Ricordò il primo giorno di Sheila alla Covenant House, raccontò di come avesse seguito il suo "rifiorire". E soprattutto, aggiunse, l'aveva vista innamorarsi di me. Mi sentivo vuoto. Era come se mi avessero portato via tutto quello che avevo dentro, e ancora una volta mi colpì la consapevolezza che questo dolore sarebbe stato permanente, che avrei cioè potuto prendere tempo quanto volevo, darmi da fare, indagare alla ricerca di qualche verità interiore, ma alla fine non sarebbe cambiato nulla. Il rimpianto mi sarebbe rimasto sempre accanto, compagno fisso al posto di Sheila. Al termine della cerimonia non sapevamo bene che cosa fare. Rimanemmo seduti in imbarazzo, nessuno si mosse fin quando Terrei non diede nuovamente fiato alla sua tromba. Allora i presenti cominciarono ad alzarsi. Piansero e mi abbracciarono ancora. Non so quanto tempo rimasi lì impalato a prendermi gli abbracci. Provavo riconoscenza per quella manifestazione d'affetto, che però mi faceva sentire ancora di più la mancanza di Sheila. La ferita stava bruciando troppo, l'insensibilità tornò ad attivarsi, senza l'insensibilità non ce l'avrei fatta. Cercai con lo sguardo Tanya, ma era andata via. Qualcuno annunciò che alla caffetteria c'era da mangiare e i presenti vi si diressero lentamente. Notai la madre di Sheila, in piedi in un angolo, con una borsettina stretta tra le mani. Sembrava come prosciugata, quasi che le sue funzioni vitali fossero defluite da una ferita aperta. Mi avvicinai. «Lei è Will?» mi chiese. «Sì.» «Io sono Edna Rogers.» Non ci abbracciamo, non ci baciammo sulle guance, non ci stringemmo nemmeno la mano. «Dove possiamo parlare?» mi chiese. La precedetti lungo il corridoio verso le scale. Squares capì che volevamo rimanere soli e deviò il traffico. Superammo la nuova struttura medica, gli studi psichiatrici, il settore riservato al trattamento dei tossicodipendenti. Parecchie delle nostre ragazze fuggite di casa sono ora madri in attesa e noi cerchiamo di assisterle. Molti altri hanno seri problemi mentali e cerchiamo di dargli una mano. E, naturalmente, una bella fetta dei nostri "clienti" ha grossi problemi di droga. E anche per loro cerchiamo di fare del nostro meglio. Entrammo in una stanza vuota del dormitorio. Chiusi la porta, la signora
Rogers mi dava le spalle. «È stata una bella cerimonia» disse. Annuii. «Cosa era diventata Sheila...» Si interruppe e scosse la testa. «Non ne avevo idea e vorrei invece averlo saputo. Vorrei che mi avesse chiamato, che me ne avesse parlato.» Non sapevo che cosa dirle. «Da viva Sheila non mi ha mai regalato un momento d'orgoglio.» Edna Rogers tirò fuori con difficoltà un fazzoletto dalla borsetta. Si diede una bella soffiata al naso e lo ripose. «Lo so che non sembra gentile. Era una bella bambina. E alle elementari andava benissimo. Ma poi» distolse lo sguardo, scrollando le spalle «con il passare del tempo è cambiata. È diventata scontrosa. Si lamentava sempre di qualcosa, era infelice. Mi rubava i soldi dalla borsetta. Ogni tanto scappava di casa. Non aveva amici, i ragazzi l'annoiavano. Odiava studiare, odiava vivere a Mason. Poi un giorno ha abbandonato la scuola e se n'è andata: quella volta, però, non ha fatto ritorno.» Mi guardò come se aspettasse da me una risposta. «Non l'ha più rivista?» le chiesi. «Mai più.» «Non capisco. Che cosa era successo?» «Intende dire che cosa l'ha fatta decidere ad andarsene di casa per sempre?» «Sì.» «Immagina sia successo qualcosa d'importante, vero?» Aveva alzato la voce, quasi in tono provocatorio. «Magari che il padre aveva abusato di lei. O forse che io la picchiavo. Qualcosa che spieghi tutto, è così che funziona di solito: causa ed effetto. E invece, nel caso nostro, nulla di tutto questo. Suo padre e io non eravamo certo perfetti, tutt'altro. Ma non è stata nemmeno colpa nostra.» «Non volevo dire che...» «Lo so che cosa voleva dire.» Le si accesero gli occhi. Strinse le labbra e mi fissò con aria di sfida. Decisi di cambiare argomento. «Le telefonava mai Sheila?» le chiesi. «Sì.» «Spesso?» «L'ultima volta è stato tre anni fa.» Si fermò, aspettando che continuassi con le mie domande.
«Dove si trovava quando ha fatto quell'ultima telefonata?» «Non me lo disse.» «E che cosa le disse?» Stavolta ci mise parecchio a rispondere. Edna Rogers cominciò a girare per il dormitorio, guardando i letti e gli armadietti. Sprimacciò un cuscino, rimboccò l'angolo di un lenzuolo. «Sheila chiamava casa ogni sei mesi, circa. Di solito era strafatta, ubriaca o sa Dio cosa, in ogni caso con i nervi tesi. Piangeva, piangevo anche io e mi diceva delle cose orribili.» «Per esempio?» Scosse la testa. «È vero quello che ha detto poco fa quel tipo con il tatuaggio sulla fronte? Che lei e Sheila vi siete conosciuti qui e vi siete innamorati?» «Sì.» Si raddrizzò e mi guardò, con le labbra piegate in quello che nelle sue intenzioni doveva essere un sorriso. «Quindi, Sheila» riprese, e udii qualcosa che si era insinuato nella sua voce «andava a letto con il suo capo.» Il sorriso di Edna Rogers si fece ancora più amaro e mi sembrò di guardare un'altra persona. «Era una volontaria» dissi. «Capisco. E che cosa si era offerta volontariamente di fare per lei, Will?» Sentii un brivido lungo la schiena. «Vuole ancora giudicarmi?» mi chiese. «Credo che dovrebbe andarsene.» «Non riesce ad accettare la verità, vero? Mi considera una specie di mostro, una che ha rinunciato alla figlia senza alcun motivo valido.» «Non tocca a me giudicare.» «Sheila era un'adolescente difficile. Diceva bugie, rubava...» «Forse comincio a capire» dissi. «A capire che cosa?» «Perché è scappata di casa.» Batté le palpebre e mi guardò accigliata. «Non la conosceva. E continua a non conoscerla.» «Non ha sentito nemmeno una parola di ciò che è stato detto durante la cerimonia?» «Ho sentito.» La voce le si ammorbidi. «Ma quella Sheila io non l'ho mai conosciuta. La Sheila che conoscevo...» «Con il dovuto rispetto, signora, non sono nello stato d'animo migliore
per sentire altre porcherie.» Si fermò, chiuse gli occhi e sedette sul bordo di un letto. Nel dormitorio calò il silenzio. «Non è per questo che sono venuta.» «Perché è venuta?» «Per dirne una, volevo sentire qualcosa di gradevole.» «È stata accontentata.» Annuì. «È vero, ho sentito qualcosa di gradevole.» «Che cos'altro vuole?» Si alzò e mi venne vicino, dovetti vincere l'impulso di allontanarmi. Mi guardò fisso negli occhi. «Sono venuta per Carly.» Attesi, ma lei non spiegò meglio. «Quel nome me l'ha già fatto al telefono» dissi allora. «Sì.» «Non conoscevo nessuna Carly allora e continuo a non conoscerne.» Mi gratificò nuovamente di quel suo sorriso crudele e amaro. «Lei non è tipo da mentirmi, vero Will?» Provai un altro brivido. «No.» «Sheila non le ha mai fatto il nome di Carly?» «No.» «Ne è sicuro?» «Sì. Chi è questa Carly?» «La figlia di Sheila.» Accusai il colpo. Edna Rogers se ne accorse e sembrò che la cosa le facesse piacere. «La sua cara volontaria non le ha mai accennato di avere una figlia, vero?» Tacqui. «Carly ha dodici anni, ora. E no, non lo so chi è suo padre. Credo non lo sapesse nemmeno Sheila.» «Non capisco.» Infilò una mano nella borsetta e ne tirò fuori una foto, porgendomela. Era l'istantanea scattata in ospedale di una neonata avvolta in una coperta, che batteva gli occhi ancora incapaci di vedere. Dietro era scritto a mano il nome "Carly", e sotto la data di nascita. La testa prese a girarmi. «L'ultima volta che Sheila mi ha telefonato è stato in occasione del nono compleanno di Carly. E le ho parlato. A Carly, voglio dire.» «Dov'è, ora?»
«Non lo so. Per questo sono qui, Will. Per trovare mia nipote.» 25 Quando finalmente tornai a casa trovai Katy Miller seduta davanti alla porta, con lo zaino poggiato tra le gambe. Si tirò su. «Ho telefonato, ma...» Le feci segno di sì con la testa. «I miei genitori» proseguì. «Non posso rimanere un giorno di più in quella casa. Ho pensato che forse mi sarei potuta venire a schiantare su un divano di casa tua.» «Non è un bel momento.» «Ah.» Infilai la chiave nella serratura. «Ho cercato di chiarirmi le idee, sai. Ci eravamo chiesti chi poteva avere ucciso Julie e ci ho pensato su. Che cosa sai di come viveva Julie dopo che voi due avevate rotto?» Entrammo in casa. «Non credo che questa sia l'occasione più indicata.» Mi guardò finalmente in viso. «Perché, che è successo?» «È morta una persona a me cara.» «Tua madre, vuoi dire?» Scossi la testa. «Un'altra persona cara, una ragazza. È stata uccisa.» Katy inghiottì a vuoto e lasciò cadere lo zaino. «Quanto ti era cara questa donna?» «Molto.» «Era la tua amica?» «Sì.» «Una che amavi?» «Moltissimo.» Mi guardò. «Che c'è?» le chiesi. «Non lo so, Will. Sembra che qualcuno uccida le donne che ami.» Lo stesso pensiero che poco prima avevo allontanato. Ora, espresso a voce, sembrava anche più ridicolo. «Julie e io ci siamo lasciati più di un anno prima che lei venisse uccisa.» «Quindi per te era acqua passata?» Non volevo imboccare nuovamente quella strada. «Che mi dici di come viveva Julie dopo la rottura con me?»
Katy cadde sul divano come sanno fare i teenager, cioè come se non avesse ossa. Poggiò la gamba destra sul bracciolo e tirò indietro la testa, con il mento sollevato. Portava jeans strappati e un top così stretto che il reggiseno sembrava indossato sopra e non sotto. Si era legata i capelli in una coda di cavallo, ma alcune ciocche le ricadevano sul viso. «Ho cominciato a pensare che se non era stato Ken, a ucciderla, qualcun altro era stato di sicuro, giusto?» «Giusto.» «Così mi sono messa a scavare nella sua vita in quel periodo. Tipo chiamare i vecchi amici, cercando di ricordare come se la passava, cose di questo genere.» «E che cos'hai scoperto?» «Che era piuttosto incasinata.» Cercai di concentrarmi su queste parole. «In che senso?» Riportò i piedi sul pavimento e sedette composta. «Tu che cosa ricordi?» «Che era iscritta al quarto anno a Haverton.» «No.» «No che cosa?» «Julie si era ritirata.» Mi sorprese. «Ne sei sicura?» «Al quarto anno. Quando la vedesti per l'ultima volta?» Ci pensai su. Era passato effettivamente del tempo e glielo dissi. «Quando avete rotto, allora?» Scossi la testa. «Fu lei a lasciarmi, per telefono.» «Davvero?» «Sì.» «Crudele. E tu l'accettasti?» «Cercai di incontrarla, ma lei non me lo permise.» Katy mi guardò come se avessi appena tirato fuori la scusa più inconsistente nella storia dell'umanità. Ripensandoci, probabilmente aveva ragione. Perché non ero andato a Haverton? Perché non le avevo imposto di parlarne faccia a faccia? «Credo che Julie abbia finito per fare qualcosa di sbagliato» riprese lei. «Che vuoi dire?» «Non lo so, forse sto esagerando. Non ricordo molto, ma prima di morire lei sembrava felice. Da tanto non la vedevo così. Forse cominciava a stare meglio, non so.» Suonarono alla porta e istintivamente curvai le spalle. Non mi andava di
ricevere altre visite. Katy sembrò leggermi nel pensiero. «Apro io» disse, e si alzò dal divano. Era un fattorino con un cesto di frutta, che Katy depositò sul tavolo del soggiorno dove ci trovavamo. «C'è un biglietto» disse. «Aprilo.» Lo estrasse dalla busta. «Ci sono le condoglianze di alcuni ragazzi della Covenant House.» Poi tirò fuori qualcos'altro. «C'è anche un biglietto con l'annuncio di una messa di suffragio.» Katy rimase a fissarlo. «Che c'è?» Katy lo rilesse, poi sollevò gli occhi su di me. «Sheila Rogers?» «Sì.» «La tua amica si chiamava Sheila Rogers?» «Sì, perché?» Scosse la testa e posò il biglietto sul tavolo. «Che c'è?» «Nulla.» «Di' la verità. La conoscevi?» «No.» «E allora che c'è?» «Niente.» La voce di Katy si era fatta più sicura. «Lasciamo stare, d'accordo?» Squillò il telefono e attesi che entrasse in funzione la segreteria. Udii la voce di Squares. «Tira su il telefono.» Sollevai la cornetta. «Credi a quello che dice la madre?» mi chiese saltando i preamboli. «Che Sheila avesse una figlia?» «Sì.» «Che pensi di fare, allora?» Ci stavo riflettendo da quando avevo avuto quella notizia. «Ho una teoria.» «Ti ascolto.» «Forse la fuga di Sheila da casa mia aveva a che fare con la figlia.» «In che senso?» «Forse stava cercando Carly o tentava di riportarla a casa. Forse aveva saputo che la figlia era nei guai, non lo so. Ma deve esserci un nesso.» «Suona abbastanza probabile.» «E se ricostruiamo i movimenti di Sheila forse riusciremo a trovare
Carly.» «E forse faremo la fine di Sheila.» «Il rischio c'è» ammisi. Esitai. Guardai Katy che teneva lo sguardo fisso nel vuoto, mordicchiandosi il labbro inferiore. «Quindi vuoi andare avanti» disse Squares. «Sì, ma non ho intenzione di farti correre pericoli.» «Per questo dicevi che posso chiamarmi fuori quando voglio?» «Esatto. E tu, naturalmente, dirai che sarai al mio fianco fino alla fine.» «A questo punto attaccano a suonare i violini. Will, si è appena messo in contatto con me Roscoe, tramite Raquel. Forse ha trovato una traccia per scoprire il motivo della fuga di Sheila da casa tua. Ti va di farti un giro notturno in macchina?» «Passami a prendere.» 26 Philip McGuane vide sul monitor della sicurezza interna la sua vecchia nemesi. Poi udì all'interfono la voce della ragazza della reception. «Signor McGuane...» «Lo faccia entrare.» «Sì, signor McGuane. È venuto con...» «Faccia entrare anche lei.» McGuane si alzò. Le finestre del suo prestigioso ufficio si affacciavano sul fiume Hudson, vicino alla punta sudoccidentale dell'isola di Manhattan. Nei mesi caldi vedeva scivolare sul fiume i nuovi transatlantici da crociera con i loro enormi saloni rutilanti di luci al neon, alcuni alti fin quasi alle sue finestre. Quel giorno, invece, non si muoveva una foglia. McGuane continuò a cambiare con il telecomando l'immagine sul monitor, seguendo i passi del suo antagonista federale Joe Pistillo e della collaboratrice che si era portato dietro. Spendeva un patrimonio per la sicurezza, McGuane, ma ne valeva la pena. Il suo impianto utilizzava ottantatré telecamere digitali. Chiunque entrasse nel suo ascensore personale veniva inquadrato da diverse prospettive, ma la peculiarità di quell'impianto era rappresentata dalla particolare angolazione delle telecamere grazie alla quale chi entrava poteva essere ripreso come se stesse uscendo. Ascensore e corridoio avevano le pareti color verde menta, un colore orribile ma la cui importanza non sfuggiva agli
esperti di effetti speciali e di manipolazione digitale. Un'immagine su quello sfondo, infatti, poteva essere ripresa e trasferita su un altro sfondo. I suoi nemici si sentivano tranquilli andando a trovarlo in ufficio, dando per scontato che non avrebbe avuto l'impudenza di uccidere qualcuno giocando in casa, per così dire. Ma si sbagliavano. L'ufficio era proprio il posto ideale per farli fuori, sia perché la polizia l'avrebbe pensata come loro e sia, soprattutto, perché lui avrebbe potuto dimostrare con le registrazioni delle telecamere che il visitatore se n'era andato con le proprie gambe. McGuane estrasse una vecchia foto dal primo cassetto della scrivania. Aveva imparato subito a non sottovalutare una persona o una situazione e si era reso conto di quanto fosse vantaggioso farsi sottovalutare dagli avversari. Guardò i tre diciassettenni della foto, cioè lui stesso, Ken Klein e John Asselta detto il Fantasma. Erano cresciuti a Livingston, cittadina del New Jersey, anche se lui abitava all'altra estremità rispetto a Ken e al Fantasma. Avevano formato un trio alle superiori, cogliendo ciascuno negli occhi degli altri due l'affinità che li univa: ma forse era eccessivo attribuire loro una tale sensibilità. Ken Klein era il tennista supergrintoso, John Asselta il lottatore psicotico, McGuane l'affascinante ragazzo per bene presidente del consiglio studentesco. Guardò i volti nella foto. Nessuno se ne sarebbe accorto, quelli erano i volti di tre liceali molto popolari tra i compagni e dietro la facciata non si leggeva assolutamente nulla. Quando, qualche anno prima, due studenti avevano fatto una strage nella loro scuola di Columbine, McGuane aveva seguito come affascinato le reazioni dei media. Il mondo cercava delle comode scuse. Quei ragazzi venivano da un'altra scuola, avevano subito prevaricazioni, avevano genitori distratti, passavano ore e ore con i videogiochi. Ma McGuane sapeva bene che queste spiegazioni non avevano alcun valore. Anche se i tempi erano leggermente diversi, la strage di Columbine avrebbero potuto compierla loro tre, Ken, John e McGuane: perché la verità è che non ha alcuna importanza se te la passi bene economicamente, se i tuoi genitori ti amano, se te ne stai per conto tuo o se lotti per rimanere a galla. Certa gente è animata da quel furore. La porta dell'ufficio si aprì e fecero il loro ingresso Joe Pistillo e la sua giovane pupilla. McGuane sorrise e infilò nuovamente la foto nel cassetto. «"Ah, Javert"» disse a Pistillo. «"Continui a prendertela con un poveretto come me che ha solo rubato del pane?"» «Sì, proprio te, McGuane: un povero innocente perseguitato.»
McGuane spostò la sua attenzione sulla donna. «Dimmi, Joe, perché ti porti sempre dietro questa affascinante collega?» «È l'agente speciale Claudia Fisher.» «Incantato. Ma sedetevi, prego.» «Preferiamo rimanere in piedi.» McGuane si strinse nelle spalle, quasi a dire: "Fate come vi pare", e sprofondò nella sua poltrona. «Allora, che cosa posso fare per voi?» «Sei messo male, McGuane.» «Davvero?» «Davvero.» «E siete venuti ad aiutarmi? Che gentili.» «È da tanto che ti sto dietro» grugnì Pistillo. «Lo so, ma io sono un tipo volubile. Consiglio: la prossima volta mandami un mazzo di rose. Oppure tienimi la porta aperta per farmi passare. Accendi le candele. Un uomo vuole sentirsi un po' corteggiato.» Pistillo poggiò i pugni sulla scrivania. «Una parte di me vorrebbe sedersi comoda e godersi la scena mentre vieni mangiato vivo.» Inghiottì, e sembrò fare un enorme sforzo per tenersi dentro qualcosa. «Ma una parte più grande vuole vederti marcire in prigione per ciò che hai fatto.» McGuane si rivolse a Claudia Fisher. «Quando fa il duro è terribilmente sexy, non trova?» «Prova un po' a indovinare chi abbiamo trovato, Pistillo.» «Hoffa? Era l'ora, direi.» «Fred Tanner.» «Chi?» Pistillo fece un sorrisetto. «Non fare il finto tonto con me. È quel gorilla che lavora per te.» «Credo lavori con la sicurezza interna.» «L'abbiamo trovato.» «Non sapevo che si fosse perso.» «Divertente.» «Credevo fosse in vacanza, agente Pistillo.» «È in vacanza, a vita. L'abbiamo trovato nel fiume Passaic.» McGuane si accigliò. «Terribilmente insalubre.» «Soprattutto se hai due proiettili in testa. Abbiamo trovato anche un certo Peter Appel. Strangolato. Era un ex tiratore scelto dell'esercito.» «Ognuno dà il meglio di sé.» Soltanto uno strangolato, pensò McGuane. Al Fantasma non avrà fatto
piacere dover sparare all'altro invece di strozzare anche lui. «Allora, vediamo un po'» riprese Pistillo. «Abbiamo questi due ammazzati, che aggiunti ai due in Nuovo Messico fanno quattro.» «E non hai usato le dita per fare questo calcolo. Sei sottopagato, agente Pistillo.» «Vuoi parlarmi di questi quattro cadaveri?» «Come no, più che volentieri. Lo ammetto, li ho uccisi tutti io. Contento?» Pistillo portò il viso a pochi centimetri da quello di McGuane. «Stai per andare a fondo, McGuane.» «E tu a pranzo hai mangiato zuppa di cipolle.» Pistillo non arretrò di un millimetro. «Lo sai che è morta anche Sheila Rogers?» «Chi?» Pistillo si raddrizzò. «Già, non conosci nemmeno lei. Non lavora per te.» «Tanta gente lavora per me, sono un imprenditore.» «Andiamo» disse Pistillo a Claudia Fisher. «Ve ne andate così presto?» «È da tanto che aspetto questo momento. La vendetta, come si suol dire, è un piatto che va servito freddo.» Altro sorrisetto sprezzante di Pistillo. «Buona giornata, McGuane.» Dopo che furono usciti, McGuane rimase una decina di minuti immobile in poltrona. Qual era stato l'obiettivo di quella visita? Semplice, spaventarlo. Altro esempio di sottovalutazione dell'avversario. Premette sul telefono il pulsante della linea tre, quella sicura che veniva bonificata ogni giorno da eventuali microspie. Esitò, al pensiero che quella telefonata potesse essere interpretata come una dimostrazione di panico. Valutò i pro e i contro, poi decise di rischiare. Il Fantasma rispose al primo squillo, con uno strascicato: «Pronto?». «Dove sei?» «Sono appena sceso dall'aereo da Las Vegas.» «Hai saputo qualcosa?» «Certo.» «Ti ascolto.» «In auto con loro c'era anche una terza persona» disse il Fantasma. McGuane cambiò posizione sulla poltrona. «Chi?» «Una ragazzina di non più di undici o dodici anni.»
27 Katy e io eravamo in strada quando si accostò al marciapiede il furgone con Squares al volante. Lei accostò il viso al mio e mi diede un bacio sulla guancia. Squares mi guardò inarcando un sopracciglio e io risposi lanciandogli un'occhiataccia. «Pensavo che saresti rimasta a dormire da me, sul divano» le dissi. Katy era diversa da quando avevo ricevuto quel cesto di frutta. «Torno domani.» «Non vuoi dirmi che cosa sta succedendo?» S'infilò le mani in tasca. «Devo soltanto fare una piccola ricerca.» «Su che cosa?» Scosse la testa e decisi di non insistere. Prima di alzare i tacchi mi rivolse un sorrisetto. Entrai nel furgone. «Chi sarebbe quella?» mi chiese Squares. Glielo spiegai mentre percorrevamo le vie di Manhattan. Squares aveva caricato decine di panini e coperte per distribuirli ai ragazzi di strada. Panini e coperte che insieme al suo espediente sulla Angie scomparsa contribuivano a rompere il ghiaccio: e, anche se il ghiaccio rimaneva intatto, quei giovani sbandati almeno avevano qualcosa da mettere nello stomaco o con cui riscaldarsi. Avevo visto Squares compiere miracoli con coperte e panini. La prima sera quasi sempre i ragazzi respingevano qualsiasi offerta di aiuto, prendendolo a parolacce o manifestandogli apertamente la loro ostilità. Ma Squares non si offendeva e tornava alla carica perché il segreto, diceva, era l'insistenza, far vedere che sei lì, che non te ne vai, che non poni condizioni. Dopo qualche giorno il ragazzo o la ragazza ostili accettavano il panino, dopo qualche altro giorno chiedevano la coperta e alla fine attendevano con ansia l'arrivo del furgone. Allungai un braccio dietro di me e presi un panino. «Lavori di nuovo, stasera?» Squares chinò la testa guardandomi al di sopra degli occhiali da sole. «No» rispose secco. «Ho solo tanta fame.» Continuò a guidare. «Per quanto tempo pensi di continuare a evitarla, Squares?» Accese la radio. Carly Simon stava cantando You're So Vain e lui le andava dietro. «Ti ricordi questa canzone?» mi chiese. Annuii.
«Girava la voce che si riferisse a Warren Beatty. È vero?» «Non lo so.» Rimanemmo per un po' in silenzio mentre lui continuava a guidare. «Devo chiederti una cosa, Will.» Teneva gli occhi sulla strada. Rimasi ad aspettare. «Ti ha sorpreso sapere che Sheila aveva un figlio?» «Sì, parecchio.» «E ti sorprenderebbe se ti dicessi che anche io ne ho uno?» Lo guardai. «Tu non capisci la situazione, Will.» «Mi piacerebbe capirla.» «Concentriamoci su una cosa alla volta.» Il traffico di sera era miracolosamente scarso. La voce di Carly Simon si dissolse mentre attraversavamo Manhattan da est a ovest prendendo l'Harlem River Drive in direzione nord. Quando passammo davanti a un gruppo di ragazzi che avevano trovato rifugio sotto un cavalcavia, Squares accostò. «Un lavoretto veloce» disse. «Ti serve aiuto?» Scosse la testa. «Non ci impiegherò molto.» «Ti porti i panini?» Squares osservò quei potenziali collaboratori. «No» disse poi. «Ho qualcosa di meglio.» «Che cosa?» «Schede telefoniche.» Me ne porse una. «Me ne sono fatte regalare oltre un migliaio dalla compagnia telefonica TeleReach, i ragazzi vanno matti per le schede.» Aveva ragione. Appena lo videro gli si fecero incontro circondandolo. Si può fare affidamento, su Squares. Osservai i volti, cercando di separare da quella massa indistinta i singoli individui con i loro desideri, i loro sogni, le loro speranze. I ragazzi non sopravvivono a lungo in strada, e non per i terribili pericoli fisici che anzi riescono spesso a superare. È l'anima che si erode in strada, il senso di sé. E quando l'erosione raggiunge un certo livello, i giochi sono fatti. Per sempre. Sheila era stata salvata prima che raggiungesse quel certo livello. Poi qualcuno l'aveva uccisa. Allontanai quel pensiero, non era il momento. Dovevo concentrarmi su ciò che stavo facendo, non fermarmi: perché agire significa tenere lontano
il dolore, l'azione ti carbura e non ti rallenta. Dovevo farlo per lei, anche se è una frase da telenovela. Squares tornò dopo pochi minuti. «Rimettiamoci in moto.» «Non mi hai ancora detto dove stiamo andando.» «All'angolo tra la Centoventottesima strada e la Seconda Avenue, Raquel ci aspetta là.» «Per dirci che cosa?» Sorrise. «Forse abbiamo una pista.» Lasciò la superstrada passando poi davanti a una serie di palazzoni popolari. Individuai Raquel da due isolati di distanza. E non fu difficile, perché aveva le dimensioni di un piccolo principato e il suo abbigliamento faceva pensare a un'esplosione al Museo Liberace. Squares rallentò e lo guardò accigliato. «Che c'è?» chiese Raquel. «Scarpe di vernice rosa con un abito verde?» «Corallo e turchese» lo corresse. «Perfettamente coordinati alla borsetta rosso magenta.» Squares si strinse nelle spalle e andò a parcheggiare davanti a un negozio con un'insegna sbiadita sulla quale si leggeva GOLDBERG PHARMACY. Quando scesi, Raquel mi avvolse in un abbraccio che sapeva di gommapiuma bagnata. Profumava di Aqua Velva e non potei fare a meno di pensare a quella pubblicità: l'uomo Aqua Velva era effettivamente diverso. «Mi dispiace tanto» sussurrò. «Grazie.» Si staccò da me e potei riprendere a respirare. Piangeva, con le lacrime che gli scioglievano il mascara scendendo poi lungo le guance. I colori si mescolavano e le lacrime si disperdevano nella barba ruvida. «Abe e Sadie sono dentro, ti aspettano» disse Raquel. Squares entrò in farmacia, lo seguii e fummo accolti da un ding-dong. L'odore mi ricordò quello dei profumatori a forma di abete appesi agli specchietti retrovisori. Gli scaffali della farmacia erano alti e pieni di merce. Vidi bende e deodoranti, shampoo e medicine per la tosse, il tutto disposto apparentemente senza un criterio preciso. Apparve un vecchio con i mezzi occhiali appesi a una catenella. Indossava un cardigan e una camicia bianca. Aveva capelli bianchi e fitti, con una pettinatura alta che faceva pensare alla parrucca incipriata di un giudice londinese. Le sopracciglia cespugliose lo facevano assomigliare a un
gufo. «Guarda chi c'è! Il signor Squares!» Si abbracciarono e il vecchio diede a Squares qualche robusta pacca sulla schiena. «Ti trovo bene» gli disse. «Anche tu stai bene, Abe.» «Sadie» chiamò quello. «Sadie, c'è il signor Squares.» «Chi?» «Quello dello yoga. Quello tatuato.» «Con il tatuaggio sulla fronte?» «Proprio lui.» Mi avvicinai a Squares scuotendo la testa. «Ma c'è qualcuno che non conosci?» Lui si strinse nelle spalle. «Ho avuto una vita intensa.» Sadie, una vecchia che non avrebbe raggiunto il metro e mezzo di altezza nemmeno con dei tacchi più alti di quelli di Raquel, spuntò da dietro il banco della farmacia e guardò accigliata Squares. «Come sei magro» gli disse. «Lascialo in pace» le fece Abe. «Zitto tu. Mangi abbastanza?» «Certo» rispose Squares. «Sei tutto ossa. Pelle e ossa.» «Vuoi lasciarlo in pace, Sadie?» «Zitto.» Lanciò a Squares un sorrisetto complice. «Ho del kugel, ne vuoi?» «Magari più tardi, grazie.» «Te ne metto un po' in un contenitore.» «Molto gentile, grazie.» Squares si voltò verso di me. «Vi presento il mio amico Will Klein.» I due vecchi mi rivolsero i loro sguardi tristi. «È lui il fidanzato?» «Sì.» Mi passarono in rassegna, poi si guardarono. «Non so» disse Abe. «Potete fidarvi di lui» lo rassicurò Squares. «Forse sì, forse no. Noi siamo come i preti, non parliamo, lo sai. E lei era stata categorica: non dovevamo dire una parola, in nessun caso.» «Lo so.» «Se parliamo, che fine facciamo?» «Capisco.»
«Potremmo lasciarci la pelle.» «Non lo saprà nessuno, ve lo prometto.» I due vecchi si guardarono di nuovo a vicenda. «Raquel» disse poi Abe «è un bravo ragazzo... o una ragazza, non so, a volte mi confondo.» Squares si avvicinò ai due. «Ci serve il vostro aiuto.» Sadie prese la mano del marito e il gesto fu così intimo che fui tentato di guardare da un'altra parte. «Era una ragazza così bella, Abe.» «E brava» aggiunse lui. Poi mi guardò sospirando. La porta si aprì e udimmo di nuovo il ding-dong. «Mi manda Tyrone» disse un nero male in arnese. Sadie gli si avvicinò. «Venga pure, ci penso io.» Abe continuava a fissarmi. Guardai Squares, senza capire quello che stava succedendo. Lui si tolse gli occhiali da sole. «Ti prego, Abe, è importante.» Abe alzò una mano. «D'accordo, d'accordo. Ma non fare più quella faccia.» Ci invitò a seguirlo. «Da questa parte, venite.» Sollevò un'anta orizzontale del banco e ci fece passare davanti a una serie di pillole, boccette, sacchetti di plastica pieni di medicine con la loro ricetta, mortai e pestelli. Poi aprì una porta, accese una luce e scendemmo nel seminterrato. «È qui che succede» annunciò. Non vedevo granché. C'era un computer, una stampante e una macchina fotografica digitale. Tutto qui. Guardai Abe e poi Squares. «Qualcuno è così gentile da spiegarmi?» «La nostra è un'attività semplice» disse Abe. «Non esiste un archivio. Se la polizia vuole prendersi il computer, si accomodi pure: non scoprirà niente. L'archivio è tutto qui dentro.» Si batté la fronte con un dito. «E tante pratiche vengono perdute ogni giorno, vero Squares?» Squares gli sorrise. Abe notò la mia perplessità. «Non ha ancora capito?» «Non ho ancora capito.» «Falsi documenti d'identità.» «Ah.» «Non quelli che usano i minorenni per comprare alcolici.» «Certo.» Abbassò la voce. «Capisce di che cosa sto parlando?» «Non molto.» «I documenti servono a quelli che vogliono sparire, andarsene, comin-
ciare una nuova vita. Sei nei guai? Puf, e io ti faccio sparire. Come un mago, no? Se vuoi andartene, ma andartene sul serio, non hai bisogno di rivolgerti a un'agenzia di viaggio. È da me che devi venire.» «Capisco. E c'è molta richiesta dei suoi...» non sapevo esattamente che termine usare «servizi?» «Se glielo dicessi non ci crederebbe. Di solito i miei clienti sono di un certo tipo. Molti di loro non hanno rispettato la libertà vigilata oppure non hanno pagato la cauzione o hanno sul capo un mandato di cattura. Serviamo anche parecchi immigrati clandestini: vogliono rimanere in questo paese e noi gli diamo la cittadinanza.» Mi sorrise. «Poi, ogni tanto, serviamo qualcuno più "carino".» «Come Sheila» dissi. «Esattamente. Vuole sapere come funziona?» Ricominciò a spiegare senza darmi il tempo di rispondere. «Non è come alla TV, lì rendono sempre le cose difficili, vero? Cercano un ragazzo morto e poi ne chiedono il certificato di nascita o roba del genere: i loro metodi sono sempre complicati.» «Qui non fate così?» «Qui non facciamo così.» Sedette davanti al video del computer e cominciò a digitare sulla tastiera. «Anzitutto, ci impiegheremmo troppo tempo, e in secondo luogo, con Internet, il Web e compagnia bella i morti diventano subito morti, non restano più vivi. Se muori, muore anche il tuo codice di previdenza sociale. Altrimenti potrei usare il codice dei vecchi che muoiono, o di quelli di mezz'età. Capisce?» «Credo di sì. Come fate, allora, a creare una nuova identità?» «Ma non creiamo nuove identità» rispose Abe, con un gran sorriso. «Usiamo quelle autentiche.» «Non riesco a seguire.» Abe guardò serio Squares. «Non mi avevi detto che il nostro amico recuperava i ragazzi di strada?» «Tanto tempo fa» gli rispose Squares. «Ah, okay. Vediamo un po', allora.» Abe Goldberg riportò la sua attenzione su di me. «Ha visto quell'uomo, mentre eravamo su? Quello che è entrato dopo di voi?» «Sì.» «Aveva l'aria del disoccupato, vero? Forse anche del senzacasa.» «Non saprei.» «Non faccia il politically correct con me. Sembrava un vagabondo, giu-
sto?» «Direi di sì.» «Ma è una persona, capisce? Ha un nome. Aveva una madre. È nato in questo paese. E...» sorrise agitando le mani in un gesto melodrammatico «ha un codice di previdenza sociale. Potrebbe anche avere una patente, magari scaduta. Non ha importanza. Fintanto che ha il codice quell'uomo esiste, ha un'identità. Mi segue?» «La seguo.» «Diciamo allora che gli servono un po' di soldi, non so per che cosa ma gli servono. Ciò che non gli serve è un'identità: è sulla strada, che ci fa con un'identità? Non deve farsi una carta di credito, non è un proprietario terriero. Allora inseriamo il suo nome in questo piccolo computer.» Dette una pacca affettuosa sul monitor. «Prima vediamo se a suo carico esiste qualche particolare pendenza. Se non ce ne sono, e di solito è così, ci compriamo la sua identità. Mettiamo che si chiami John Smith. E mettiamo anche che lei, Will, abbia bisogno di registrarsi in un albergo con un nome diverso dal suo.» Capii dove stava arrivando. «Lei mi vende il suo codice di previdenza sociale e io divento John Smith.» Abe fece schioccare le dita. «Bingo.» «Ma se per caso non ci somigliamo?» «Il codice non è accompagnato da una descrizione fisica. Una volta che ce l'hai, ti basta comunicarlo a qualsiasi ufficio per ottenere tutti i documenti che ti servono. Se hai fretta, ho l'apparecchiatura per darti una patente di guida dell'Ohio, che però non reggerebbe a una verifica attenta. L'identità invece regge.» «E se per caso il vero John Smith finisce in carcere e ha bisogno della sua identità?» «Può usarla senza alcun problema, possono usarla cinque persone contemporaneamente. Chi lo verrebbe a sapere? Semplice, no?» «Semplice» ammisi. «Quindi Sheila è venuta da lei?» «Sì.» «Quando?» «Due o tre giorni fa. Come dicevo, non era il nostro tipo di cliente abituale. Una ragazza simpatica. E così bella, anche.» «Le ha detto dove aveva intenzione di andare?» Abe sorrise e mi toccò un braccio. «Le sembra questa un'attività nella quale si fanno tante domande? Se loro non vogliono dirlo, io non voglio
saperlo. Non parliamo mai, nemmeno una parola. Sadie e io abbiamo la nostra reputazione e, come dicevo prima, la lingua troppo sciolta può farti finire all'obitorio. Capisce?» «Sì.» «Quando Raquel ha tastato il terreno con noi, non abbiamo battuto ciglio. Discrezione, è questa la nostra parola d'ordine. Amiamo Raquel, ma ciononostante non abbiamo aperto bocca. Nemmeno una parola.» «Come mai, allora, avete cambiato idea?» Abe sembrò offeso. Guardò Squares, poi riportò lo sguardo su di me. «Ci ha preso per animali? Crede che non abbiamo anche noi dei sentimenti?» «Non volevo...» «L'assassinio» m'interruppe. «Abbiamo saputo quello che è successo a quella povera ragazza. E non è giusto.» Sollevò le mani. «Ma io che cosa posso fare? Non posso andare alla polizia... Però mi fido di Raquel e del qui presente signor Squares. Sono brave persone, vivono nell'ombra ma risplendono di luce. Come Sadie e io, capisce?» La porta in cima alle scale si aprì e scese Sadie. «Ho chiuso bottega» annunciò. «Bene.» «Dov'eri arrivato?» chiese al marito. «Gli stavo dicendo perché siamo disposti a parlare.» «Okay.» Sadie Goldberg scese con cautela le scale. Abe riportò su di me i suoi occhi da gufo. «Il signor Squares ci ha detto che c'è di mezzo una ragazzina.» «È la figlia di Sheila, dovrebbe avere più o meno dodici anni» gli spiegai. Sadie fece schioccare la lingua. «E non sapete dove si trovi.» «Proprio così.» Abe scosse la testa. Sadie gli andò vicino e i loro corpi si toccarono, quasi integrandosi. Mi chiesi da quanto erano sposati, se avevano figli, da dove venivano, come erano arrivati in quella zona e come mai si erano dedicati a quell'attività. «Vuole sapere una cosa?» mi chiese Sadie. Annuii. «La sua Sheila aveva...» sollevò in aria i due pugni «qualcosa di speciale, una particolare aura. Era bella, d'accordo, ma c'era qualcos'altro. E il
fatto che non ci sia più... ci fa sentire che ci manca qualcosa. Quando è venuta aveva un'aria così spaventata. Può darsi che l'identità che le abbiamo dato non abbia retto abbastanza, per questo forse è morta.» «Quindi vogliamo aiutarvi» intervenne Abe. Scrisse qualcosa su un pezzo di carta e me lo porse. «Il nome che le abbiamo fornito è Donna White e questo è il codice di previdenza sociale. Non so se la cosa potrà aiutarvi o no.» «E la vera Donna White?» «È una senza casa che si fa di crack.» Guardai il foglietto di carta. Sadie mi si avvicinò, poggiandomi una mano sulla guancia. «Ha l'aria della persona per bene.» Sollevai lo sguardo su di lei. «La trovi, quella ragazzina» mi disse. Annuii più volte. Poi promisi che l'avrei trovata. 28 Katy Miller stava ancora tremando quando arrivò a casa. Non è possibile, pensava. È un errore. Il nome è sbagliato. «Katy?» la chiamò la madre. «Sì?» «Sono in cucina.» «Ti raggiungo tra un momento, mamma.» Si diresse alla porta della cantina ma poi si fermò con la mano sulla maniglia. La cantina. Odiava scenderci. Dopo tanti anni sarebbe dovuta rimanere indifferente davanti a quel divano sfilacciato, al tappeto con le macchie d'umidità, al televisore così vecchio che non era nemmeno predisposto per la TV via cavo. Non era così, invece. Perché sapeva con tutti i suoi sensi che il corpo della sorella era ancora laggiù, gonfio e decomposto, con un puzzo di morte così pungente da rendere difficile deglutire. I suoi genitori capivano. Katy non doveva mai fare il bucato. Il padre non le aveva mai chiesto di andargli a prendere la scatola degli attrezzi o una lampadina tra quelle di riserva per sostituirne una fulminata. Se un'incombenza di casa prevedeva la discesa in quelle budella, suo padre e sua madre cercavano sempre di evitarglielo.
Ma stavolta no, stavolta era una sua decisione. Fece scattare l'interruttore in cima alle scale e prese vita una lampadina nuda, la cui plafoniera era andata in frantumi durante il delitto. Scese le scale scivolando contro la parete, cercando di tenere lo sguardo al di sopra del divano, del tappeto, del televisore. Perché abitavano ancora in quella casa? Per lei era assurdo. Quando la piccola JonBenét era stata uccisa, i genitori si erano trasferiti dall'altra parte degli Stati Uniti ma, a dire il vero, tutti pensavano che fossero stati proprio loro a ucciderla. I Ramsey erano probabilmente fuggiti dagli sguardi dei vicini come dal ricordo della scomparsa della loro figlia. Quello non era evidentemente il caso dei Miller. Ma c'era qualcosa in quella cittadina. I suoi genitori erano rimasti, anche i Klein erano rimasti, nessuna delle due famiglie aveva voluto arrendersi. Questo che cosa significava? Trovò in un angolo il baule di Julie. Il padre l'aveva messo su una specie di cassetta per evitare che si danneggiasse in caso di allagamento. Katy vide in un flashback la sorella che faceva i bagagli prima della partenza per il college. Ricordò di essere scivolata dentro il baule mentre Julie preparava le valigie, fingendo in un primo tempo che fosse un fortino, poi illudendosi di poter essere messa in valigia in modo da andare con lei al college. Sopra il baule c'erano delle scatole accatastate, che Katy tolse e sistemò in un angolo. Poi esaminò la serratura. Non c'era la chiave, ma a lei bastava qualcosa di piatto. Trovò tra l'argenteria un coltellino da burro, lo infilò nell'apertura e girò. La serratura scattò. Allora, lentamente come Van Helsing che apre la bara di Dracula, sollevò il coperchio. «Che stai facendo?» La voce della madre la fece sobbalzare per la sorpresa. Lucilia Miller si avvicinò. «Ma non è il bauletto di Julie, quello?» «Gesù, mamma, mi hai spaventato a morte.» La madre si fece ancora più vicina. «Che stai facendo con il bauletto di Julie?» «Io... stavo soltanto guardando.» «Che cosa?» Katy si raddrizzò. «Era mia sorella.» «Lo so, tesoro.» «Posso avere anche io il diritto di sentirne la mancanza?» La madre la fissò a lungo. «Ed è per questo che sei scesa qui?»
Katy annuì. «Tutto bene, per il resto?» «Bene.» «Non sei mai stata il tipo che si nutre di ricordi, Katy.» «Non me l'avete mai lasciato fare.» La donna considerò quelle parole. «Forse è vero.» «Mammina?» «Sì?» «Perché siamo rimasti qui?» Dapprima la madre sembrò sul punto di darle la solita risposta seccata, cioè di non volerne parlare. Ma dopo quella visita a sorpresa di Will, e dopo che lei aveva trovato il coraggio di andare a fare le condoglianze ai Klein, quella settimana si stava dimostrando decisamente insolita. La madre andò a sedersi su uno scatolone, lisciandosi la gonna. «Quando una tragedia ti colpisce, o meglio, la prima volta che una tragedia ti colpisce» disse alla figlia «è la fine del mondo. Ti senti come se ti avessero scaricato in pieno oceano durante una tempesta. L'acqua ti sbatte da una parte all'altra, ti sommerge e tu puoi solo cercare di rimanere a galla. Una parte di te, forse una gran parte di te, non vorrebbe nemmeno farti tenere la testa fuori dall'acqua. Vorresti smettere di lottare e affondare. Ma non puoi, l'istinto di sopravvivenza non te lo consente: o forse, nel caso mio, è stato perché avevo un'altra creatura da tirare su. Non lo so. Ma in un caso o nell'altro, che ti piaccia o meno, rimani a galla.» La madre si asciugò con un dito l'angolo di un occhio. Poi provò a raddrizzare la schiena e a sorridere. «È un'analogia che non regge» disse. Katy prese la mano della madre. «Per me, invece, è convincente.» «Forse» ammise la signora Miller. «Dopo un po', però, sai, la fase della tempesta si esaurisce: ed è allora che le cose peggiorano. Ti ritrovi in salvo sulla battigia, ma tutto quello sballottamento delle onde ha provocato danni irreversibili. Provi un dolore tremendo. E la cosa non finisce lì, perché a quel punto ti trovi a dover affrontare un terribile dilemma.» Katy attese, senza staccarsi dalla mano della madre. «Puoi cercare di aggirare il dolore, puoi cercare di dimenticare e tirare avanti. Ma per tuo padre e me» e Lucilie Miller chiuse gli occhi scuotendo decisamente la testa «dimenticare sarebbe stato troppo. Non potevamo tradire tua sorella così. Il dolore sarà anche stato enorme, ma come avremmo fatto a tirare avanti se avessimo abbandonato Julie? Lei esisteva, era reale. Lo so che tutto ciò non ha senso.»
E invece forse lo ha, pensò Katy. Rimasero sedute in silenzio. Poi Lucy Miller lasciò la mano di Katy, si diede una pacca sulla coscia e si alzò. «Ora me ne torno di sopra.» Katy udì i passi che si allontanavano, poi riportò la sua attenzione al bauletto. Ne frugò il contenuto. Ci impiegò quasi mezz'ora, ma alla fine lo trovò. E tutto cambiò. 29 Una volta risaliti sul furgone chiesi a Squares quale sarebbe stata la nostra prossima mossa. «Ho un'idea» rispose, e con queste tre parole vinse il titolo mondiale dell'understatement. «Inseriremo il nome Donna White nei computer delle compagnie aeree, per cercare di scoprire quando ha preso l'ultimo aereo, che indirizzo ha lasciato, roba del genere.» Tra noi cadde il silenzio. «Qualcuno deve dirlo» attaccò Squares. Mi guardai le mani. «Comincia tu, allora.» «Che cosa stai cercando di fare, Will?» «Trovare Carly» risposi, troppo in fretta. «E poi? La tirerai su come se fosse tua figlia?» «Non lo so.» «Lo capisci, naturalmente, che ti stai servendo di questa storia per congelare tutto.» «È quello che stai facendo anche tu.» Guardai fuori dal finestrino. La zona che stavamo attraversando era piena di macerie. Passammo davanti a casermoni popolari abitati quasi esclusivamente dalla sofferenza. Cercai qualcosa di buono, ma senza riuscirci. «Stavo per chiederle di sposarmi» dissi. Squares continuò a guidare, ma vidi che qualcosa nel suo atteggiamento stava per cedere. «Avevo comprato un anello, l'avevo fatto vedere a mia madre. Stavo solo aspettando che passasse del tempo, dopo la morte di mamma voglio dire.» Ci fermammo a un semaforo rosso. Squares non si voltò a guardarmi. «Devo continuare a cercare» ripresi. «Perché, in caso contrario, non so bene che cosa fare. Non sono tipo da suicidio, ma se smetto di correre...»
mi interruppi, cercando un modo per esprimere quel concetto, poi scelsi la maniera più semplice «mi riprenderà questa ossessione.» «Ti riprenderà in ogni caso.» «Lo so. Ma almeno saprò di avere fatto qualcosa di buono. Forse avrò salvato sua figlia. Forse l'avrò aiutata, anche se da morta.» «Oppure» replicò lui «potresti scoprire che non era la donna che credevi. Che ci ha preso in giro un po' tutti, o peggio ancora.» «Così sia. Tu sei ancora dalla mia parte?» «Fino alla fine, grande capo.» «Bene, perché credo di avere un'idea.» Il viso di cuoio di Squares fu increspato da quel suo tipico sorriso. «Musica per le mie orecchie, bello. Dimmi tutto.» «Abbiamo dimenticato qualcosa.» «Che cosa?» «Il Nuovo Messico. Le impronte digitali di Sheila sono state trovate sulla scena di un delitto nel Nuovo Messico.» «Credi che quel delitto abbia qualcosa a che fare con Carly?» «Potrebbe.» «Ma non sappiamo nemmeno chi è stato ucciso in Nuovo Messico. Anzi, non sappiamo nemmeno dove è stato commesso quel delitto.» «È proprio qui che entra in scena il mio piano. Scaricami sotto casa, credo che navigherò un po' sul Web.» Sì, avevo un piano. Era ragionevole pensare che non fossero stati quelli dell'Fbi a scoprire i cadaveri. Forse li aveva trovati un agente del posto, oppure un vicino o un parente. E, dal momento che il delitto era avvenuto in una cittadina non ancora anestetizzata da una tale violenza improvvisa, il delitto doveva essere finito sul giornale locale. Mi connettei a un motore di ricerca, poi cliccai sulla finestra "giornali nazionali". Avevano trentatré elenchi per il Nuovo Messico. Cercai in quelli della zona di Albuquerque, e attesi che la pagina si caricasse. Poi cliccai sugli archivi e cominciai la ricerca, digitando "delitto". Troppe voci. Digitai allora "duplice omicidio", ma anche stavolta non trovai nulla. Allora provai con un altro giornale, poi ancora con un altro. Ci impiegai quasi un'ora, ma alla fine la spuntai. SCOPERTI I CADAVERI DI DUE UOMINI
Una piccola comunità sotto choc di Yvonne Sterno Gli abitanti di Stonepointe, quartiere residenziale di Albuquerque completamente recintato, hanno appreso con sgomento a tarda notte che in una delle villette erano stati trovati i corpi di due uomini, entrambi uccisi a colpi di pistola al capo probabilmente in pieno giorno. "Non ho sentito nulla" ha dichiarato un vicino, Fred Davison. "Non riesco a credere che qualcosa del genere possa essere avvenuta da noi." Le due vittime non sono ancora state identificate. La polizia si limita a dichiarare che sta indagando. "È in corso un'indagine, stiamo seguendo diverse piste." Proprietario della villetta è un certo Owen Enfield. L'autopsia delle vittime è prevista per questa mattina. Tutto qui. Cercai sul quotidiano del giorno seguente. Nulla. Su quello di due giorni dopo. Ancora nulla. Cercai gli articoli firmati da Yvonne Sterno, in genere cronache di matrimoni o eventi a scopo di beneficenza. Ma sul duplice omicidio non una sola parola in più. Perché non c'era stato alcun seguito sul giornale? Esisteva un modo di scoprirlo. Sollevai la cornetta del telefono e composi il numero del "New Mexico Star-Beacon". Forse, se avessi avuto fortuna, avrei trovato Yvonne Sterno e forse la giornalista mi avrebbe detto qualcosa. Il centralino del giornale era uno di quelli automatizzati che ti chiedono di fare lo spelling del nome della persona con la quale vuoi parlare. Ero arrivato a S-T-E-R quando la trafila si interruppe, per farmi sapere che se stavo cercando Yvonne Sterno dovevo premere il tasto cancelletto. Seguii le istruzioni e dopo due squilli mi rispose un'altra segreteria telefonica: "Sono Yvonne Sterno dello 'Star-Beacon'. In questo momento sono a un altro telefono oppure lontana dalla scrivania". Riagganciai. Ero ancora connesso a Internet e andai sul sito degli elenchi telefonici, poi digitai il nome di Yvonne Sterno e il distretto di Albuquerque. Bingo. Mi apparve la dicitura "Y. e M. Sterno, 25 Canterbury Drive, Albuquerque" seguita dal numero di telefono. Lo composi e rispose una voce di donna. «Pronto?» Poi gridò: «Zitti laggiù, la mamma è al telefono». Ma gli strilli dei bambini non s'interruppero. «Parlo con Yvonne Sterno?»
«Deve vendermi qualcosa?» «No.» «Allora sì, sono io.» «Mi chiamo Will Klein...» «Ho proprio l'impressione che lei stia vendendo qualcosa.» «Invece no. Lei è la stessa Yvonne Sterno che scrive sullo "StarBeacon"?» «Come ha detto che si chiama, lei?» Ma, prima che potessi risponderle, alzò nuovamente la voce. «State a sentire, voi due, vi ho detto di piantarla. Tommy, dagli quel Game Boy. No, ora!» Poi tornò a dedicarsi a me. «Pronto?» «Mi chiamo Will Klein e volevo parlare con lei di quel duplice omicidio sul quale ha scritto di recente.» «Ah. E a che titolo vorrebbe parlarne?» «Avrei qualche domanda.» «Non sono una biblioteca, signor Klein.» «Mi chiami Will, per favore, e abbia un po' di pazienza. Ne succedono spesso di omicidi a Stonepointe?» «Raramente.» «E di duplici omicidi, con le vittime trovate in quel modo?» «Questo è stato il primo, che io sappia.» «E allora perché se n'è scritto così poco?» I bambini esplosero di nuovo in grida e urli, ed esplose anche Yvonne Sterno. «Ora basta! Tommy, sali in camera tua. Va bene, va bene, poi ne riparliamo ma adesso muoviti. E tu, dammi quel Game Boy. Subito, se non vuoi che lo butti nel cassonetto dell'immondizia.» La sentii sollevare di nuovo la cornetta. «Glielo chiedo di nuovo: a che titolo mi fa queste domande?» Conosco abbastanza i cronisti per sapere che la strada per arrivare al loro cuore passa dalla loro firma. «Potrei avere delle informazioni decisive su questo caso.» «Decisive» ripeté. «È un aggettivo che mi piace, Will.» «Sono certo che troverà interessante quanto ho da dirle.» «Da dove mi sta chiamando, a proposito?» «New York City.» Seguì una pausa. «Piuttosto lontano dal luogo del delitto.» «Sì.» «L'ascolto. Che cosa, mi dica, troverò decisivo oltre che interessante?»
«Prima ho bisogno di alcuni dati.» «Non è così che lavoro, Will.» «Lo so, ho dato un'occhiata agli altri articoli che ha scritto, signora Sterno.» «Visto che ormai siamo grandi amici, diamoci del tu e chiamami Yvonne.» «Bene. Mi sono accorto che non ti occupi di cronaca nera, Yvonne, ma scrivi di solito di matrimoni o di cene sociali.» «Si mangia da Dio, a quelle cene, e in nero sto da sogno. Che cosa stai cercando di dirmi?» «Che notizie come quel duplice omicidio non ti cadono ogni giorno fra le braccia.» «Okay, a questo punto mi hai proprio fatto incazzare. Mi dici dove vuoi arrivare?» «Voglio cercare di farti capire che vale la pena provare a rispondere a qualche mia domanda. Che danno può farti? E magari, chissà, potresti scoprire che io sono a posto.» Lei rimase in silenzio e io insistei. «Ti capita una notizia come questa, e nell'articolo non ci sono i nomi delle vittime, non si parla di sospetti, non c'è uno straccio di particolare?» «Non ne avevo di particolari. La notizia è arrivata a notte fonda, l'abbiamo sentita alla radio della polizia e abbiamo fatto appena in tempo a infilarla nell'ultima edizione.» «Ma perché poi non c'è stato alcun seguito? Il fatto era decisamente grosso, perché non ne avete più parlato nei giorni seguenti?» Silenzio. «Pronto?» «Aspetta un momento, i bambini hanno ricominciato.» Ma stavolta non udivo le loro grida. «Mi hanno bloccato» disse piano. «In che senso?» «Nel senso che è stato già tanto essere riusciti a pubblicare quel primo pezzo. La mattina dopo il paese era pieno di federali. Il SAC...» «E che cos'è il SAC?» «Special Agent in Charge, il capo dei federali della zona. Ha convinto il mio direttore ad abbassare la saracinesca su questo fatto. Io ho provato a insistere a titolo personale, ricevendo però soltanto una serie di "no comment".»
«Non è strano?» «Non lo so, Will, era la prima volta che mi occupavo di omicidi. Comunque sì, direi che è stato proprio strano.» «Secondo te che significa?» «A giudicare da come si è comportato poi il mio direttore direi che questa è una faccenda molto grossa, più grossa di un duplice omicidio. Ora tocca a te, Will.» Mi chiesi fino a che punto avrei dovuto spingermi. «Sai se hanno trovato impronte digitali sul luogo del delitto?» «No.» «Alcune erano di una donna.» «Vai avanti.» «Questa donna è stata trovata cadavere ieri.» «Alla faccia! Uccisa?» «Sì.» «Dove?» «In un paesino del Nebraska.» «Come si chiamava?» «Dimmi del padrone della villetta, di quell'Owen Enfield.» «Capisco, ci alterniamo alla battuta, prima uno, poi l'altro e via di seguito.» «Più o meno. Questo Enfield è uno dei due ammazzati?» «Non lo so.» «Che cosa sai di lui?» «Viveva lì da tre mesi.» «Solo?» «Stando a quanto dichiarato dai vicini, era arrivato da solo ma nelle ultime settimane era stato visto spesso con una donna e una bambina.» Una bambina. Cominciai a provare un tremito al cuore. Mi raddrizzai sulla sedia. «Che età aveva la bambina?» «Non lo so, età scolare.» «Sui dodici anni, quindi? «Sì, forse.» Mi irrigidii. «Ehi, Will, sei sempre lì?» «Hai il nome di quella ragazzina?» «No, nessuno sapeva nulla di loro.»
«Dove si trovano, ora?» «Non lo so.» «Com'è possibile?» «È uno dei grandi misteri della vita, evidentemente. Non sono riuscita a rintracciarle. Ma, come dicevo, non dovevo più seguire il caso e quindi non mi sono data da fare più di tanto.» «Riesci a scoprire dove sono finite la donna e la bambina?» «Posso provarci.» «C'è altro? Hai sentito fare il nome di qualche sospetto, il nome di una delle vittime, qualcosa?» «Ripeto, nessuno se n'è più occupato. Io poi lavoro al giornale part-time, come probabilmente avrai potuto intuire faccio la mamma a tempo pieno. Se mi sono occupata di quella faccenda è stato solo perché ero l'unica in redazione quando è arrivata la notizia. Ma qualche buona fonte ce l'ho.» «Dobbiamo trovare quell'Enfield. O almeno la donna con la bambina.» «Mi sembra un buon punto di partenza» ammise. «Ora mi vuoi dire che interesse hai tu in questa storia?» Ci pensai su. «Ti va di smuovere un po' le acque; Yvonne?» «Sì, Will. Sì, mi va.» «Sei una brava cronista?» «Vuoi una dimostrazione?» «Certo.» «Può anche darsi che mi stai chiamando da New York, ma tu sei del New Jersey. E, anche se da quelle parti esiste sicuramente più di un Will Klein, direi che tu sei il fratello di un assassino tristemente famoso.» «Un presunto assassino tristemente famoso» la corressi. «Tu come fai a saperlo?» «Mi è bastato inserire il tuo nome nel mio PC, mentre parlavamo, ed è uscita fuori questa vecchia storia. In uno degli articoli risulta che abiti a Manhattan.» «Mio fratello non ha niente a che fare con i due morti lì da voi.» «Certo, e non ha nemmeno ammazzato la vostra vicina di casa?» «Non intendevo dire questo, ma soltanto che è estraneo al vostro duplice omicidio.» «E allora mi dici perché te ne interessi?» Espirai a lungo. «Perché c'è di mezzo qualcun altro molto vicino a me.» «Chi?» «La mia ragazza. Le sue impronte digitali sono state trovate sul luogo
del delitto.» Sentii che i bambini si erano scatenati di nuovo, mi sembrò che stessero correndo per casa ululando come sirene. Ma stavolta Yvonne Sterno non li sgridò. «Quella trovata uccisa in Nebraska era la tua ragazza, allora?» «Sì.» «Per questo ti interessa questa faccenda?» «In parte.» «E l'altra parte?» Non ero ancora pronto a parlarle di Carly. «Trova Enfield» le dissi. «Come si chiamava, Will, la tua ragazza?» «Trovalo.» «Senti un po', vuoi che lavoriamo insieme? Allora non nascondermi nulla. E in ogni caso, lo scoprirei in cinque secondi quel nome: quindi dimmelo tu.» «Rogers. Si chiamava Sheila Rogers.» La udii digitare sulla tastiera. «Farò del mio meglio, Will. Abbi fede, ti richiamerò al più presto.» 30 Feci uno strano quasi-sogno. Dico "quasi" perché non ero completamente addormentato. Galleggiavo in quella terra di nessuno che divide la veglia dal sonno, una condizione nella quale a volte ti sembra di inciampare e precipitare, tanto che senti il bisogno di aggrapparti al bordo del letto. Giacevo al buio, con le mani dietro la testa e gli occhi chiusi. Come ho detto in precedenza, a Sheila piaceva ballare e mi aveva convinto a iscrivermi con lei a un circolo di ballo presso il Jewish Community Center di West Orange, New Jersey. Questo circolo era vicino sia all'ospedale di mia madre sia alla nostra casa di Livingston. Ogni mercoledì io e Sheila andavamo a trovare mia madre e poi, verso le sei e mezzo, ci vedevamo con gli altri ballerini. Rispetto alle altre coppie eravamo molto più giovani, a occhio e croce la differenza d'età era sui settantacinque anni, ma se aveste visto come si muovevano quei vecchietti! Cercavo di mantenere il loro ritmo, ma non c'era niente da fare. In loro compagnia mi sentivo imbarazzato. Sheila invece no. A volte, nel bel mezzo di un ballo, mi lasciava le mani e si allontanava da me come ondeggiando, con gli occhi chiusi. Brillava in viso, in
quei momenti, perdendosi completamente in quella specie di beatitudine. Tra le coppie anziane ce n'era una in particolare, quella dei coniugi Segal, che ballavano insieme dai tempi di un raduno dell'uso (United Services Organization) negli anni Quaranta. Era una coppia bella e gradevole. Il signor Segal aveva immancabilmente un foulard bianco attorno al collo, la moglie era sempre in blu con una collana di perle. Si muovevano magicamente sulla pedana, come amanti, come una persona sola. Negli intervalli erano socievoli e simpatici con gli altri, ma, appena la musica ricominciava per lui esisteva solo lei e viceversa. Una sera del febbraio scorso - nevicava tanto da farci pensare che il circolo sarebbe rimasto chiuso, e invece aprì regolarmente - il signor Segal arrivò da solo. Aveva il solito foulard bianco, era vestito impeccabilmente: ma i suoi lineamenti contratti furono sufficienti a farci capire. Sheila mi strinse forte la mano e vidi spuntarle una lacrima. Quando la musica attaccò, il signor Segal si alzò in piedi, scese senza esitazioni in pista e ballò da solo, con le braccia allargate come se stringessero ancora sua moglie. E la guidò, seguendo il ritmo e cullandola così dolcemente che nessuno di noi osò disturbarlo. La settimana successiva il signor Segal non si presentò. Venimmo a sapere che la moglie aveva perduto una lunga battaglia contro il cancro, ma aveva comunque voluto ballare fino alla fine. Poi partì la musica, si formarono le coppie e, mentre stringevo Sheila più forte del solito, mi resi conto che i Segal nonostante quella tristissima vicenda si erano goduti la vita più di tanti altri. E a questo punto ebbe inizio il mio quasi-sogno, anche se fin dal principio capii che di questo si trattava. Ero di nuovo al circolo di ballo, c'era anche il signor Segal e tanti altri uomini che non avevo mai visto: tutti senza compagna. All'attacco della musica, ci mettemmo a ballare da soli. Guardandomi attorno vidi mio padre, impegnato tutto solo in un goffo foxtrot. Mi rivolse un cenno di saluto. Osservai gli altri ballerini: tutti avvertivano chiaramente la presenza della loro compagna scomparsa, guardavano davanti a loro come se avessero fissato i propri occhi in quelli di uno spettro. Cercai di imitarli, ma qualcosa non andava. Non vidi nulla. Stavo ballando da solo. Sheila non c'era. In lontananza udii squillare il telefono e il mio sogno venne penetrato da una voce profonda che veniva dalla segreteria telefonica. «Sono il tenente Daniels, del Dipartimento di polizia di Livingston, e vorrei parlare con il signor Will Klein.»
Tra i rumori di fondo, oltre alla voce del tenente Daniels, mi giunse la risata ovattata di una giovane donna. A quel punto spalancai gli occhi e il circolo di ballo scomparve. Mentre allungavo il braccio verso la cornetta udii un'altra risata della ragazza. Sembrava Katy Miller. «Forse dovrei chiamare i tuoi genitori» stava dicendo il tenente Daniels alla giovane che rideva. «No.» Era proprio Katy. «Ho diciotto anni. Non può...» Sollevai la cornetta. «Parla Will Klein.» «Ciao Will, sono Tim Daniels, eravamo compagni di scuola. Ti ricordi?» Tìm Daniels. Lavorava alla stazione di servizio Hess e veniva a scuola indossando la sua tuta unta, con tanto di nome ricamato sulla tasca. Evidentemente le uniformi continuavano a piacergli. «Certo» risposi, completamente confuso. «Come va?» «Bene, grazie.» «Sei nella polizia, ora?» Non so mai niente. «Sì, e abito ancora a Livingston. Ho sposato Betty Jo Stetson, abbiamo due figlie.» Cercai di ricordarmi Betty Jo, ma inutilmente. «Bravi, congratulazioni.» «Grazie, Will.» Poi la sua voce si fece seria. «Ho letto di tua madre sul "Tribune". Mi dispiace molto.» «Ti ringrazio.» Katy Miller scoppiò di nuovo a ridere. «Ti sto chiamando perché... immagino che tu conosca Katy Miller, vero?» «Sì.» Seguì un momento di silenzio. Probabilmente si era ricordato che avevo avuto una storia con la sorella maggiore di Katy, la ragazza che aveva fatto quella fine. «Mi ha chiesto di chiamarti.» «Qual è il problema?» «Ho trovato Katy in mezzo al campo giochi di Mount Pleasant, con una bottiglia di vodka mezza vuota. È completamente partita. Pensavo di chiamare i suoi genitori...» «Nemmeno per sogno!» gridò di nuovo Katy. «Sono diciottenne!» «Va bene, ho capito. Lei mi ha chiesto di telefonare a te invece che ai suoi. Senti, ricordo ancora quando avevamo la sua età, nemmeno noi eravamo perfetti, ti pare?»
«Certo.» In quel momento Katy gridò qualche altra cosa e istantaneamente mi irrigidii. Sperai di avere capito male. Ma le sue parole, e il tono quasi di scherno in cui le gridò, ebbero su di me l'effetto di una mano fredda che mi serrasse la nuca. «Idaho!» urlò. «Dico bene, Will? Idaho!» Strinsi il ricevitore, avevo sicuramente capito male. «Che sta dicendo?» «Non lo so, continua a gridare qualcosa sull'Idaho, ma è del tutto fuori di testa.» Ancora Katy. «Quel fottuto Idaho! Patate! Idaho! È così, non è vero?» Ero quasi senza fiato. «Senti, Will. Lo so che è tardi, ma potresti passare a prenderla?» Ritrovai un po' di voce. «Arrivo.» 31 Squares preferì salire le scale a piedi per evitare che il rumore dell'ascensore svegliasse Wanda. La Yoga Squared Corporation era la proprietaria dell'immobile. Squares e Wanda occupavano i due piani sopra la scuola. Erano le tre del mattino, Squares aprì la porta. Entrò nel soggiorno buio, illuminato solo dai freddi spicchi di luce dei lampioni. Wanda sedeva al buio sul divano, con le braccia conserte e le gambe accavallate. «Ciao» le disse Squares sottovoce, come se temesse di svegliare qualcuno anche se nella palazzina c'erano solo loro due. «Vuoi che me ne sbarazzi?» gli chiese lei. Squares si pentì di essersi tolto gli occhiali da sole. «Sono davvero stanco, Wanda. Lasciami fare qualche ora di sonno.» «No.» «Che cosa vuoi che dica?» «Sono ancora nel primo trimestre e mi basta mandare giù una pillola. Ma prima devo saperlo: vuoi che me ne sbarazzi?» «Adesso, all'improvviso, sono io che devo decidere?» «Sto aspettando.» «Ma non eri una convinta femminista, Wanda? Che fine ha fatto il diritto della donna a decidere?» «Risparmiami queste scemenze.»
Squares strinse i pugni in tasca. «Che cosa vuoi che faccia?» Wanda si voltò da una parte e lui ne vide il profilo, il lungo collo, la posa altera. L'amava. Non aveva mai amato nessuna, prima di lei, e nessuna l'aveva mai amato. Da bambino la madre si divertiva a bruciarlo con il ferro per arricciare i capelli. La smise finalmente quando lui aveva due anni: proprio il giorno, quando si dice la coincidenza, in cui suo padre la uccise a botte per poi impiccarsi dentro un armadio. «Tu il passato ce l'hai scritto in fronte» disse Wanda. «Un lusso che non tutti possiamo permetterci.» «Non capisco che cosa vuoi dire.» Né lui né lei avevano acceso la luce. I loro occhi cominciavano ad abituarsi alla penombra, ma la stanza sembrava ancora avvolta da una nebbiolina e questo, forse, semplificava le cose. «Alla maturità ho avuto la media più alta» disse Wanda. «Lo so.» Lei chiuse gli occhi. «Lasciamelo dire ugualmente, va bene?» Squares chinò la testa per indicarle di andare avanti, «Sono cresciuta in un quartiere abitato da gente ricca, di famiglie di neri ce n'erano poche. Nel mio corso eravamo in trecento e io ero l'unica studentessa nera. Sono arrivata prima, potevo scegliere il college e ho scelto Princeton.» Tutto questo lui lo sapeva già, ma rimase zitto. «Quando sono arrivata qui ho cominciato subito a sentirmi fuori posto. Ti risparmio la tiritera sull'assenza di autostima e così via. Ma smisi di mangiare, persi peso, diventai anoressica: non volevo ingoiare ciò di cui non avrei potuto poi liberarmi. Passavo intere giornate sul pavimento, esercitandomi a tirarmi su dalla posizione supina senza usare gambe e braccia. Scesi sotto i quaranta chili e ogni volta che mi guardavo allo specchio inorridivo vedendo quella grassona che ricambiava il mio sguardo.» Squares le si avvicinò. Avrebbe voluto prenderle la mano ma, da idiota, non lo fece. «Mi ridussi al punto che fu necessario ricoverarmi. Avevo provocato danni agli organi... il cuore, il fegato, i medici non sono ancora sicuri. Non ho avuto arresti cardiaci ma in certi periodi credo di esserci andata vicino. Alla fine mi sono ripresa, e ti risparmio anche questa parte, ma i dottori mi dissero che probabilmente non sarei mai rimasta incinta. E, in caso contrario, quasi sicuramente non avrei potuto portare a termine la gravidanza.» «E che cosa dice adesso il tuo dottore?» le chiese Squares, in piedi di
fronte a lei. «Non mi ha fatto promesse.» Wanda lo fissò. «Non ho mai avuto tanta paura in vita mia.» Lui sentì il cuore cadergli a pezzi. Avrebbe voluto sederle accanto, stringerla fra le braccia. Ma ancora una volta qualcosa lo trattenne e si maledisse per questo. «Se portarla avanti può mettere a rischio la tua salute...» cominciò. «È mio, il rischio.» Cercò di sorridere. «Rieccola, la grande femminista.» «Quando ti ho detto che sono spaventata non mi riferivo alla mia salute.» Lui lo sapeva. «Squares?» «Sì?» La voce di lei era quasi implorante. «Non mi escludere dalla tua vita, okay?» Non sapeva che cosa dire e ricorse a un'ovvietà. «È un passo impegnativo.» «Lo so.» «Non credo di essere mentalmente all'altezza» disse lentamente. «Ti amo.» «Anch'io ti amo.» «Sei l'uomo più forte che abbia mai conosciuto.» Squares scosse la testa. Giù in strada un ubriaco si mise a cantare a squarciagola della sua Rosemary e di quanto l'amava. Wanda, non più a braccia conserte, attese. «Forse non dovremmo andare avanti» disse Squares. «Se non altro, per non compromettere la tua salute.» Wanda lo vide allontanarsi e, prima che potesse ribattere qualcosa, lui era scomparso. In un autonoleggio della Trentasettesima aperto giorno e notte affittai un'auto con la quale raggiunsi la stazione di polizia di Livingston. Mancavo da questi locali dai tempi della scuola elementare Burnett Hill, che ce li aveva fatti visitare quando facevo ancora la prima. In quella mattinata di sole non ci mostrarono ovviamente la camera di sicurezza perché era occupata da qualcuno, come adesso era occupata da Katy. E, per un bambino di prima elementare, il pensiero che a pochi metri da dove si trova potreb-
be essere rinchiuso un pericoloso criminale è di quelli che rimangono impressi tutta la vita. Il tenente Tim Daniels mi diede il benvenuto con una stretta di mano troppo energica. Mi accorsi che gli era cresciuta la pancia e che quando camminava qualcosa che aveva addosso, chiavi o manette che fossero, tintinnava. Era più atticciato di quanto non lo fosse da ragazzo, ma il viso era ancora liscio e intatto. Riempii qualche modulo e Katy mi venne affidata in custodia. Nell'ora che avevo impiegato per raggiungere Livingston la sbornia le era in parte passata. Non rideva più, teneva la testa bassa. E sul viso le era apparsa quell'espressione imbronciata tipica di certi teenager. Ringraziai di nuovo Tìm, mentre lei non tentò nemmeno di fargli un sorriso o un cenno di saluto. Ci dirigemmo verso l'auto, ma una volta all'aperto lei mi prese per un braccio. «Facciamo due passi.» «Sono le quattro del mattino e io sono stanco.» «Se mi siedo in macchina vomito.» Mi fermai. «Che cosa stavi urlando, al telefono, a proposito dell'Idaho?» Ma Katy stava già attraversando Livingston Avenue. Le andai dietro ma lei allungò il passo. Riuscii comunque a raggiungerla. «I tuoi saranno preoccupati» le dissi. «È tutto a posto, ho detto loro che avrei passato la notte a casa di un'amica.» «Vuoi dirmi perché bevevi da sola?» Katy continuò a camminare, respirando più a fondo. «Avevo sete.» «Capisco. E che cos'è che gridavi a proposito dell'Idaho.» Mi guardò senza rallentare l'andatura. «Penso che tu lo sappia.» La presi per un braccio. «Mi dici a che gioco stai giocando?» «Non sono io a giocare, Will.» «Di che stai parlando?» «Idaho, Will. La tua Sheila Rogers era dell'Idaho, no?» Ancora una volta le sue parole mi colpirono duro. «E tu come fai a saperlo?» «L'ho letto.» «Sul giornale?» Ridacchiò. «Davvero non lo sai?» Le afferrai le spalle. «Insomma, di che stai parlando?» «Che college aveva frequentato la tua Sheila?» «Non lo so.»
«Pensavo che voi due vi amaste alla follia.» «È complicato.» «Direi proprio.» «Continuo a non capire, Katy.» «Sheila Rogers è andata a Haverton, Will. Con Julie. Facevano parte dello stesso circolo femminile.» Mi fermai, sgomento. «Non è possibile.» «Non posso credere che tu non lo sapessi. Sheila non te ne aveva mai parlato?» Scossi la testa. «Ne sei certa?» «Sheila Rogers, di Mason, Idaho. È tutto nell'annuario del circolo, l'ho trovato in un vecchio baule in cantina.» «Non capisco. Dopo tutti questi anni tu ricordi quel nome?» «Sì.» «Come mai? Voglio dire, ricordi i nomi di tutte le iscritte nel circolo di Julie?» «No.» «Come fai allora a ricordare quello di Sheila Rogers?» «Perché Sheila e Julie abitavano insieme.» 32 Squares arrivò a casa mia portando ciambelle e altre leccornie comprate in un posto battezzato La Bagel tra la Quindicesima e la Prima. Erano le dieci del martino e Katy dormiva sul divano. Squares si accese una sigaretta. Mi accorsi che era vestito come la sera prima, un particolare questo non facile da notare perché lui non vestiva esattamente come un esponente dell'alta società: ma quella mattina sembrava proprio male in arnese. Ci sedemmo su due sgabelli davanti al banco della cucina. «Lo so che cerchi di confonderti con i tipi da strada» gli dissi «ma...» Prese un piatto dalla credenza. «Hai intenzione di continuare con le battute, oppure mi dici che cosa è successo?» «C'è qualche motivo che mi impedisca di fare entrambe le cose?» Abbassò la testa e ancora una volta mi fissò da sopra gli occhiali da sole. «Butta così male?» «Peggio.» Katy si mosse sul divano e la udii lamentarsi. Avevo a portata di mano un antidolorifico e gliene porsi due compresse con un bicchiere d'acqua.
Le mandò giù e si diresse con passo malfermo verso la doccia. Io tornai sullo sgabello. «Come va il naso?» mi chiese Squares. «Me lo sento come se fosse occupato dal cuore, che cerca in tutti i modi di uscire.» Lui diede un morso a un bagel sul quale aveva spalmato crema di salmone affumicato e masticò lentamente. Aveva le spalle curve. Sapevo che non aveva passato la notte a casa, sapevo che doveva essere successo qualcosa tra lui e Wanda. E, soprattutto, sapevo che non voleva che gli facessi domande su questo argomento. «Peggio, dicevi?» riprese. «Sheila mi ha mentito.» «Questo lo sapevamo già.» «Ma non del tutto.» Continuò a masticare. «Conosceva Julie Miller. Erano iscritte allo stesso circolo, al college. Abitavano addirittura insieme.» Smise di masticare. «Ti dispiace ripetere?» Gli raccontai tutto quello che avevo appena saputo. La doccia non aveva smesso un attimo di scrosciare. Katy avrebbe sofferto ancora per un po' le conseguenze di quella sbronza ma i giovani, tutto sommato, si riprendono prima di noialtri. Alla fine Squares si raddrizzò sullo sgabello, incrociò le braccia e sorrise. «Grandioso» disse. «Anche a me è venuto in mente questo aggettivo.» «Non ci arrivo, amico mio.» Cominciò a spalmare la crema di salmone su un altro bagel. «La tua fidanzatina, uccisa undici anni fa, abitava al college con la tua ultima compagna: anche lei assassinata.» «Sì.» «E tuo fratello è accusato del primo delitto?» «Altro sì.» «Okay, certo.» Squares annuì come se ormai gli fosse tutto chiaro. «Continuo a non capire» disse invece. «Deve essere stato tutto un imbroglio.» «Che cosa è stato un imbroglio?» «La storia mia e di Sheila.» Cercai di fare spallucce. «Deve essere stato tutto un imbroglio, una falsità.» Mosse la testa come a dire "sì e no" e i lunghi capelli gli ricaddero sul
viso. Li riportò indietro. «A che scopo?» «Non lo so.» «Pensaci.» «L'ho fatto.» «Okay, forse hai ragione. Immagina allora che Sheila ti abbia mentito o, non so, abbia cercato in qualche modo d'imbrogliarti. Mi segui?» «Ti seguo.» Sollevò le mani con i palmi rivolti verso l'alto. «A che scopo?» «Ripeto, non lo so.» «Allora consideriamo le varie possibilità.» Sollevò un dito. «Prima possibilità: potrebbe essersi trattato di una gigantesca coincidenza.» Mi limitai a guardarlo. «Aspetta un attimo: quanto tempo fa filavi con Julie Miller? Più di dodici anni fa?» «Sì.» «Quindi Sheila potrebbe non esserselo ricordato. Voglio dire, tu ricordi i nomi delle ex ragazze di ogni tuo amico? Forse Julie non le aveva mai parlato di te. O forse Sheila se l'era dimenticato, il tuo nome. Poi, diversi anni dopo, voi due vi conoscete...» Continuai a guardarlo. «Sì, lo so, come spiegazione è piuttosto stiracchiata» ammise. «Quindi come non detto. Seconda possibilità.» Sollevò un altro dito, si fermò e alzò gli occhi al cielo. «Non so proprio da dove cominciare.» «Appunto.» Mangiammo. Lui rimase in silenzio a riflettere. «Okay, diciamo allora che Sheila sapeva esattamente fin dall'inizio chi eri.» «Diciamolo.» «Continuo a non capire, amico mio. E poi?» «Già, e poi?» La doccia tacque. Presi una ciambella con semi di papavero, che mi rimasero in mano. «Ci ho pensato tutta la notte» dissi. «E allora?» «Ogni volta torno con il pensiero al Nuovo Messico.» «Come mai?» «L'Fbi voleva interrogare Sheila a proposito di un duplice omicidio, non risolto, avvenuto ad Albuquerque.» «E con questo?»
«Anche Julie Miller è stata assassinata, anni prima.» «Altro omicidio non risolto, anche se la polizia sospetta tuo fratello» osservò lui. «Sì.» «Tu vedi un nesso tra i due omicidi.» «Deve esserci.» «Okay. Vedo il punto A e il punto B, ma non capisco come si faccia a collegarli.» «Nemmeno io.» Restammo in silenzio. Katy fece capolino alla porta, con il pallore della mattina dopo stampato sul viso. «Ho appena vomitato di nuovo» bofonchiò. «Grazie per l'aggiornamento.» «Dove sono i miei vestiti?» «Nell'armadio in camera da letto.» Mi ringraziò con un gesto stanco e richiuse la porta. Guardai il lato destro del divano, quello sul quale Sheila si sedeva di solito a leggere. Ma come era potuto succedere? Mi venne in mente il vecchio adagio: "Meglio avere amato e perduto che non avere amato affatto" e ci riflettei su. Ma soprattutto mi chiesi se fosse peggio perdere l'amore di una vita oppure rendersi conto che forse lei non ti aveva mai amato. Pensa un po' che alternativa. Squillò il telefono e stavolta non attesi che scattasse la segreteria. Sollevai la cornetta. «Pronto?» «Will?» «Sì?» «Sono Yvonne Sterno, la risposta di Albuquerque a Jimmy Olsen, il reporter amico di Superman.» «Che cosa hai scoperto?» «Ci ho lavorato su tutta la notte.» «E allora?» «La cosa è sempre più inspiegabile.» «Ti ascolto.» «Okay. Allora, ho convinto il mio contatto a frugare tra le dichiarazioni dei redditi e roba del genere. Ti faccio notare che il mio contatto è un'impiegata statale e l'ho fatta lavorare nelle ore libere. Di solito è più facile trasformare l'acqua in vino o vedere mio zio che offre un pranzo al ristorante piuttosto che convincere uno statale...»
«Yvonne?» la interruppi. «Sì?» «Diamo per scontato che io sia rimasto colpito dalle tue miracolose risorse. Dimmi che cosa hai scoperto.» «Certo, hai ragione.» La udii sfogliare un po' di carte. «La casa dove sono stati scoperti i cadaveri era stata presa in leasing da una società, la Clipco.» «Di chi è?» «Vai a sapere, impossibile risalire ai soci. È una specie di copertura, apparentemente la società non svolge alcuna attività.» Ci pensai su. «Owen Enfield aveva un'auto, una Honda Accord grigia. Anche questa presa in leasing da quelle brave persone della Cripco.» «Forse Enfield lavorava alla Cripco.» «Forse. È quello che sto cercando di accertare.» «Dov'è ora l'auto?» «Altra storia interessante, questa. La polizia l'ha trovata abbandonata davanti a un centro commerciale di Lacida: circa trecentocinquanta chilometri a est di qui.» «E che fine ha fatto Owen Enfield?» «Secondo me è morto. Per quanto ne sappiamo potrebbe essere uno dei due ammazzati.» «E la donna e la ragazzina? Dove sono andate a finire?» «Non ho idea. Che diavolo, non so nemmeno come si chiamano.» «Hai chiesto ai vicini?» «Sì, e come ti avevo detto nessuno sapeva granché su di loro.» «Nemmeno una descrizione fisica?» «Ah.» «Ah che cosa?» «Proprio per questo volevo parlarti.» Squares continuava a mangiare, ma capivo che stava ascoltando. Katy stava ancora vestendosi o facendo offerte agli dèi di porcellana nel bagno adiacente. «Le descrizioni erano piuttosto vaghe» proseguì Yvonne. «La donna era sui trentacinque, bruna, carina. I vicini non hanno saputo dirmi di più. Nessuno sapeva il nome della bambina, doveva essere sugli undici-dodici anni, capelli castano chiaro. Una vicina l'ha definita particolarmente carina, ma quale bambina di quell'età non lo è? Il signor Enfield me l'hanno
invece descritto sul metro e ottanta, capelli corti grigi, baffi e pizzetto, sulla quarantina.» «Allora non era una delle vittime» osservai. «Come fai a saperlo?» «Ho visto una foto dei due cadaveri.» «Quando?» «Quando l'Fbi mi ha interrogato per avere informazioni sulla mia ragazza.» «Sei riuscito a vedere le vittime?» «Non chiaramente, ma abbastanza per accorgermi che nessuno dei due aveva capelli corti e grigi.» «Tutta la famiglia, insomma, sarebbe svanita nel nulla?» «Sì.» «C'è un'altra faccenda, Will.» «Cioè?» «Stonepointe è una comunità nuova, completamente autosufficiente.» «E allora?» «Conosci la QuickGo, quella catena di negozi specializzati in articoli di largo consumo?» «Certo, anche da queste parti ce n'è qualcuno.» Squares si tolse gli occhiali da sole e mi fissò senza capire. Mi strinsi nelle spalle e lui si avvicinò. «Be', accanto al complesso residenziale c'è un grosso QuickGo frequentato da tutti i residenti.» «E quindi?» «Uno dei vicini giura di averci visto Owen Enfield alle tre del pomeriggio il giorno del duplice omicidio.» «Non ti seguo, Yvonne.» «Il fatto è che in ogni QuickGo ci sono delle telecamere interne. Mi segui, ora?» «Sì, credo di sì.» «Ho già controllato. Tengono i nastri un mese prima di registrarci sopra.» «Quindi» osservai «se riuscissimo a mettere le mani su quel nastro potremmo vedere che faccia ha questo signor Enfield.» «Grosso "se". Il gestore del negozio è stato categorico, non ha intenzione di darmi né il nastro né nient'altro.» «Ma deve esserci un sistema.»
«Sono aperta a ogni proposta, Will.» Squares mi poggiò una mano sulla spalla. «Che c'è in ballo?» Coprii il microfono e lo misi al corrente. «Conosci qualcuno in rapporti con la QuickGo?» gli chiesi. «Per quanto possa sembrare incredibile, la risposta è no.» Maledizione. Rimanemmo un po' a rifletterci. Yvonne si mise a canticchiare il ritornello pubblicitario della QuickGo, uno di quei motivettì che ti entrano dal canale uditivo e cominciano a rimbalzarti da una parete all'altra del cranio in cerca di una via d'uscita che non troveranno mai. Ricordai la nuova campagna pubblicitaria, quella in cui il vecchio refrain era stato modificato con l'aggiunta di una chitarra elettrica, un sintetizzatore e un basso e facendo cantare con l'orchestra una superstar della pop music conosciuta semplicemente come Sonay. Fermi tutti. Sonay. Squares mi guardò. «Che cosa c'è?» «Credo che forse una mano me la puoi dare, tutto sommato.» 33 Sheila e Julie erano state iscritte allo stesso club studentesco femminile, il Chi Gamma. Avevo ancora l'auto presa a nolo per andare a Livingston e decisi quindi di farmi con Katy le due ore di viaggio per raggiungere l'Haverton College, in Connecticut, e vedere di scoprire qualcosa. Prima di partire telefonai alla segreteria per non fare un viaggio a vuoto e scoprii che all'epoca la dipendente del college responsabile del Chi Gamma era una certa Rose Baker. La signora Baker era andata in pensione tre anni fa, andando ad abitare in una casa del campus dall'altra parte della strada. Sarebbe stata lei l'obiettivo principale della nostra piccola indagine. Parcheggiammo davanti alla casa che ospitava il Chi Gamma, me la ricordavo ancora dai tempi dei troppo sporadici viaggi che facevo fin lì dalla mia università, l'Amherst College, per andare a trovare Julie. Si capiva subito che ospitava un club femminile, con quelle colonne finto grecoromane tutte bianche e quelle morbide increspature dei margini che conferivano un che di donne all'intero edificio. Qualcosa della palazzina mi fece venire in mente una torta nuziale. La casa di Rose Baker era più modesta, per dirla con gentilezza. Il rosso di un tempo si era trasformato in un anonimo color argilla, le tendine alle finestre sembravano essere state fatte a pezzi da un gatto. E le scandole ret-
tangolari che ricoprivano le pareti esterne si erano staccate come se la casa fosse rimasta vittima di un attacco di seborrea acuta. In circostanze normali avrei cercato di prendere un appuntamento, ma in TV non lo fanno mai. Il detective bussa alla porta e la persona cercata è sempre a casa. Consideravo una situazione del genere improbabile e poco convincente ma stavo cominciando a ricredermi. Anzitutto, la signora chiacchierona della segreteria mi aveva informato che Rose Baker usciva raramente di casa e quando lo faceva non si allontanava molto. In secondo luogo, e per me ancora più importante, se avessi telefonato a Rose Baker e lei mi avesse chiesto perché volevo vederla, che cosa avrei risposto? Vorrei vederla per parlare un po' di un delitto. No, meglio presentarmi non annunciato con Katy e vedere come si metteva. Se non fosse stata in casa avremmo sempre potuto consultare gli archivi della biblioteca oppure visitare la sede del circolo. Non avevo idea se ne avrei tratto qualche vantaggio, ma tutto sommato procedevamo a vista. Mentre ci avvicinavamo alla porta di Rose Baker non riuscii a sopprimere un moto d'invidia per gli studenti con lo zaino sulla schiena che vedevo andare e venire. Amavo il college, amavo tutto del college. Amavo farmela con gli amici trasandati e fannulloni. Amavo vivere da solo, facendo il bucato di rado e mangiando pizza con il salame a mezzanotte. Amavo chiacchierare con i professori disponibili e tardo-hippie. Amavo discutere di quei nobili argomenti e di quelle dure realtà che mai riuscivano a farsi strada nel verde del nostro campus. Quando arrivammo davanti allo zerbino, dal benvenuto un po' troppo cordiale, udii filtrare dalla porta una canzone familiare. Feci una smorfia e ascoltai più attentamente. La musica era ovattata ma mi sembrava Elton John, più precisamente la canzone Candle in the wind. Bussai alla porta. «Un minuto» cinguettò una voce femminile. Pochi secondi dopo la porta si aprì. Rose Baker era probabilmente sui settant'anni e, come notai sorpreso, sembrava vestita per un funerale. Era completamente in nero, dal cappello a tesa larga con velo fino alle comode scarpe. Il rosso sembrava applicato liberamente al viso con un aerografo. La sua bocca formava una O quasi perfetta e gli occhi erano grandi e tondi, come se il viso si fosse congelato immediatamente dopo la sorpresa. «La signora Baker?» chiesi. Sollevò il velo. «Sì?» «Mi chiamo Will Klein e questa è Katy Miller.» Gli occhi si spostarono su Katy, bloccandosi.
«È un momento poco adatto?» le chiesi. La domanda sembrò sorprenderla. «No, niente affatto.» «Vorremmo parlarle, se non le dispiace.» «Katy Miller» ripeté, senza staccarle gli occhi di dosso. «Sì, signora» confermai. «La sorella di Julie.» Non era una domanda, ma Katy annuì ugualmente. «Entrate, prego» ci invitò Rose Baker. La seguimmo in soggiorno. Poi Katy e io ci bloccammo, colpiti da ciò che avevamo davanti agli occhi. Lady Di. Era dappertutto. La stanza era tappezzata, ricoperta, invasa dall'oggettistica che aveva come protagonista la principessa Diana. C'erano foto, naturalmente, ma anche servizi da tè, targhe commemorative, cuscini ricamati, lampade, statuette, libri, ditali, minuscoli bicchierini (quanto rispetto!), uno spazzolino da denti (che schifo!), un abat-jour, occhiali da sole, un set di sale e pepe, e chi più ne ha più ne metta. Mi accorsi che la canzone che stavo ascoltando non era quella della versione originale classica di Elton John-Bernie Taupin, ma quella più recente in morte della principessa nella quale si dava l'addio alla "rosa inglese". Avevo letto da qualche parte che quest'ultima versione aveva il record di singolo più venduto al mondo. Questo doveva significare qualcosa, anche se non ero sicuro di voler sapere che cosa. «Vi ricordate di quando è morta la principessa Diana?» chiese Rose Baker. Guardai Katy, lei guardò me ed entrambi annuimmo. «Ricordate quanto ha pianto il mondo intero?»" Rimase a fissarci e noi annuimmo di nuovo. «Per quasi tutti il pianto, il lutto e il dolore sono stati una moda passeggera. Hanno pianto qualche giorno, magari anche una o due settimane. E poi...» fece schioccare le dita, come un mago, con quei suoi occhi tondi sempre più grandi «per loro tutto è finito. Come se lei non fosse mai esistita.» Ci guardò, in attesa di qualche segno di consenso da parte nostra. Io cercai di soffocare una smorfia. «Ma per alcuni di noi Diana, principessa del Galles, be', era proprio un angelo. Troppo buona, forse, per un mondo come questo. Non la dimenticheremo mai. Non lasceremo mai spegnere la luce.»
Si portò agli occhi un fazzoletto. Mi venne spontaneo un commento sarcastico, ma riuscii a ricacciarlo indietro. «Prego, sedetevi» ci invitò. «Posso offrirvi del tè?» Katy e io rispondemmo educatamente di no. «Qualche biscotto, allora?» Ci porse un piatto colmo di biscotti sagomati, manco a dirlo, sul profilo della principessa Diana completo di corona. Ce la cavammo entrambi con un: "No, grazie", non avendo alcuna intenzione di mordicchiare la defunta Lady Di. Decisi di andare al sodo. «Signora Baker, ricorda la sorella di Katy, Julie?» le chiesi. «Naturalmente.» Poggiò sul tavolino il piatto con i biscotti. «Le ricordo tutte, le ragazze. Mio marito Frank, che insegnava inglese al college, è morto nel 1969. Non avevamo figli, tutti i miei familiari erano passati a miglior vita. E quel circolo, quelle ragazze, hanno rappresentato per ventisei anni la mia vita.» «Capisco» dissi. «E la sera, quando vado a letto e spengo la luce, è il viso di Julie che mi torna in mente più spesso degli altri. Non perché fosse una ragazza speciale, e lo era, ma naturalmente per quello che le è accaduto.» «Vuol dire il delitto?» Era una domanda stupida, ma non avevo esperienza di quel gioco e volevo che la Baker continuasse a parlare. «Sì.» Rose Baker prese tra le sue una mano di Katy. «Che tragedia! Mi spiace tanto, cara.» «Grazie» le disse Katy. Anche se poteva sembrare scortese, non riuscii a non fare una considerazione. Era stata una tragedia, certo: ma, in quella vertiginosa accozzaglia di lutto regale, possibile che la Baker non fosse riuscita a trovare un angolo per una foto di Julie, del signor Baker o dei familiari passati a miglior vita? «Signora Baker, ricorda un'altra studentessa socia del circolo, una certa Sheila Rogers?» le chiesi. I suoi lineamenti si contrassero e la voce si affievolì. «Sì.» Cambiò posizione sulla poltrona. «Sì, la ricordo.» Dalla sua reazione era fin troppo chiaro che non aveva ancora saputo del delitto. Decisi che non era ancora il caso di dirglielo. C'era evidentemente un problema Sheila e volevo scoprire di che cosa si trattava. Avevamo bisogno di onestà. Se le avessi detto che anche Sheila era morta, la Baker avrebbe potuto addolcire le sue risposte. Ma prima che potessi tornare alla carica, lei alzò una mano. «Posso farle una domanda?»
«Naturalmente.» «Perché mi sta chiedendo certe cose proprio ora?» Guardò Katy. «È successo tanto tempo fa.» Rispose Katy. «Sto cercando di scoprire la verità.» «La verità su che cosa?» «Mia sorella è cambiata mentre si trovava qui.» Rose Baker chiuse gli occhi. «Forse è meglio che non te ne parli, cara.» «Invece sì, la prego.» La disperazione nella sua voce era così palpabile che avrebbe potuto scardinare una finestra. «La prego, abbiamo bisogno di sapere.» Rose Baker tornò a chiudere gli occhi per qualche istante. Poi annuì a se stessa e li riaprì, quindi unì le mani e se le poggiò sul grembo. «Quanti anni hai?» «Diciotto.» «Più o meno l'età che aveva Julie quando è arrivata qui.» Rose Baker sorrise. «Le somigli.» «Me l'hanno detto spesso.» «È un complimento. Julie illuminava una stanza, per tanti versi mi ricorda proprio Diana. Entrambe erano belle, entrambe erano speciali, quasi divine.» Sorrise e agitò un dito. «Ed entrambe avevano un che di selvaggio, erano incredibilmente cocciute. Julie era una bella persona, gentile, bravissima. Una studentessa eccezionale.» «Eppure non ha completato gli studi» dissi. «No.» «Perché?» Riportò lo sguardo su di me. «Lady Di aveva tentato di resistere, ma nessuno può controllare i venti del destino. Soffiano a loro piacimento.» «Non la seguo» disse Katy. Un orologio a muro con l'immagine della principessa Diana batté le ore, in una pallida imitazione del Big Ben, e Rose Baker attese che tacesse. «Il college cambia i giovani» riprese poi. «Si trovano per la prima volta a vivere fuori casa, affidati a loro stessi...» S'interruppe distratta e per un attimo temetti di doverla riportare con i piedi per terra. «Julie era normale, all'inizio, ma a un certo punto cominciò quasi a rinchiudersi in se stessa, ad allontanarsi da tutti noi. Saltava le lezioni. Ruppe con il suo ragazzo, quello della sua città. Una cosa non insolita, questa, succede a quasi tutte le studentesse del primo anno. Ma nel caso suo è successo più tardi, al terzo anno credo. Pensavo che l'amasse davvero, quel ragazzo.»
Inghiottii ma non battei ciglio. «Prima mi avete chiesto di Sheila Rogers» disse Rose Baker. «Sì» rispose Katy. «Esercitava una cattiva influenza.» «Come?» «Quando Sheila è arrivata qui quello stesso anno...» Rose si portò un dito sotto il mento e piegò di lato la testa, come se nella sua mente si fosse fatta strada una nuova idea. «Be', forse sono stati i venti del destino. Come i paparazzi che hanno costretto la limousine di Diana ad accelerare. O come quel terribile autista, Henri Paul. Lo sapevate che il tasso di alcol nel suo sangue era il triplo del massimo consentito?» «Sheila e Julie erano diventate amiche?» azzardai. «Sì.» «Vivevano insieme, vero?» «Per un certo periodo, sì.» Aveva gli occhi lucidi, ora. «Non vorrei apparire melodrammatica, ma Sheila Rogers ha avuto un influsso negativo sul circolo Chi Gamma. Avrei dovuto cacciarla, ora lo so. Ma allora non avevo elementi per capirlo.» «Che cosa ha fatto, Sheila?» Scosse di nuovo la testa. Rimasi a pensarci su. Durante il terzo anno Julie era venuta a trovarmi ad Amherst, dopo avermi scoraggiato ad andare da lei a Haverton: cosa che avevo trovato piuttosto strana. Mi ricordai dell'ultima volta che io e Julie eravamo stati insieme, lei aveva deciso che saremmo andati in un bed and breakfast di Mystic invece che al campus, cosa che allora avevo trovato romantica. Ora, naturalmente, quella scelta la vedevo sotto una diversa prospettiva. Tre settimane dopo, Julie mi aveva telefonato per rompere la nostra relazione. Ma, ripensando a quella mia ultima visita al suo college, ricordo che lei mi era sembrata letargica e strana. Avevamo passato a Mystic soltanto una notte e, anche mentre facevamo l'amore, la sentivo allontanarsi progressivamente da me con il pensiero. Aveva dato la colpa allo studio, aveva detto che stava sgobbando come un somaro. E io l'avevo bevuta perché, ripensandoci ora, mi faceva comodo crederle. Facendo due più due, il risultato era adesso abbastanza chiaro. Sheila era andata al college subito dopo le angherie di Louis Castman, la droga, il marciapiede. Non è facile lasciarsi alle spalle una vita del genere. Probabilmente parte di quel degrado fisico e morale se l'era portato dietro, e non
ne serve molto per avvelenare un pozzo. Sheila, dunque, arriva all'inizio del terzo anno di Julie, che comincia a comportarsi in maniera strana. Una ricostruzione plausibile. Tentai un diverso approccio. «Si laureò, Sheila Rogers?» «No, anche lei abbandonò gli studi.» «Nello stesso periodo in cui li abbandonò Julie?» «Non sono nemmeno sicura se il loro ritiro fu ufficiale. Julie cominciò verso la fine dell'anno a saltare le lezioni, rimaneva a lungo in camera sua, si svegliava dopo mezzogiorno. E quando la misi davanti alle sue responsabilità, traslocò.» «Per andare dove?» «In un appartamento fuori dal campus. Ci abitava anche Sheila.» «Sa dirmi quando, esattamente, Sheila ha lasciato il college?» Rose Baker finse di pensarci su. Dico finse perché mi accorsi subito che sapeva la risposta e che per qualche motivo stava fingendo a nostro beneficio. «Credo che se ne andò dopo la morte di Julie» rispose alla fine. «Quanto tempo dopo?» Tenne gli occhi bassi. «Credo di non averla più vista dopo il delitto.» Guardai Katy. Anche lei teneva gli occhi bassi. Rose Baker si portò una mano tremante davanti alle labbra. «Sa dove andò a stare Sheila?» le chiesi. «No. Se n'era andata e tutto il resto non aveva più importanza.» Non ci guardava più e la cosa mi sembrò preoccupante. «Signora Baker?» Continuava a non guardarmi. «Che cos'altro era successo, signora Baker?» «Perché siete venuti qui?» chiese. «Gliel'ho detto, volevamo...» «Sì, ma perché proprio ora?» Katy e io ci guardammo, lei annuì. «Ieri Sheila Rogers è stata trovata morta, assassinata» dissi. Pensai che non mi avesse udito. Rose Baker teneva gli occhi fissi su una principessa Diana di velluto nero, una riproduzione grottesca e inquietante. Diana aveva i denti azzurri e la pelle sembrava trattata con un cattivo abbronzante. Rose fissò quell'immagine e ancora una volta riflettei sull'assenza di foto del marito, dei familiari o delle sue ragazze del circolo: c'erano soltanto immagini di quell'estranea morta dall'altra parte dell'Atlantico. E mi chiesi se anche lei, come me davanti alla morte di Sheila, stesse dan-
do corpo alle ombre per eludere la sofferenza. «Signora Baker?» «È stata strangolata come le altre?» «No.» Poi mi voltai verso Katy, e anche lei aveva udito quello che avevo udito io. «Le altre, ha detto?» «Sì.» «Quali altre?» «Julie è stata strangolata» disse. «Proprio così.» Curvò le spalle. Le rughe del suo viso sembravano ora più pronunciate, fin quasi ad affondare nella carne. La nostra visita aveva risvegliato i demoni da lei costretti a forza dentro gli scatoloni oppure sepolti sotto le cianfrusaglie della principessa Diana. «Non sapete niente di Laura Emerson, vero?» Katy e io ci scambiammo un'altra occhiata. «No» risposi. Rose Baker riprese a far scorrere velocemente lo sguardo sulle pareti. «Sicuri di non volere del tè?» «La prego, signora Baker. Chi è Laura Emerson?» Si alzò, trascinandosi fino al caminetto e posò dolcemente le mani su un busto di ceramica di Lady Diana sistemato al centro della mensola. «Un'altra delle ragazze del circolo, era un anno indietro a Julie.» «Che cosa le è successo?» le chiesi. Scoprì sul busto un granello di sporcizia e lo grattò via con un'unghia. «Laura era stata trovata morta vicino a casa sua, nel Nord Dakota, otto mesi prima di Julie. Strangolata anche lei.» Mi sentii afferrare le gambe da mani di ghiaccio che cercavano di tirarmi giù. Katy, con il viso bianco come un cencio, si strinse nelle spalle per farmi capire che anche lei non ne sapeva nulla. «Hanno mai scoperto l'assassino?» chiesi. «No. Mai.» Tentai di afferrare il significato di quella rivelazione, di trarne delle conclusioni. «Dopo l'omicidio di Julie, signora Baker, è stata interrogata dalla polizia?» «Non dalla polizia.» «Ma qualcuno l'ha interrogata?» «Si, due dell'Fbi.» «Ricorda i loro nomi?» «No.»
«Le chiesero di Laura Emerson?» «No, sono stata io a parlargliene.» «Che cosa gli ha detto?» «Che era già stata assassinata un'altra ragazza.» «E loro come reagirono?» «Si raccomandarono di tenermelo per me, perché parlarne a qualcuno avrebbe compromesso le indagini.» Troppo velocemente, pensai. Tutto mi stava crollando addosso troppo velocemente e non riuscivo a stare dietro alle novità. Erano morte tre ragazze, tutte appartenenti allo stesso circolo universitario. C'era quindi un nesso tra le loro morti, un nesso innegabile. E questo significava che l'assassinio di Julie non era stato quel caso isolato di violenza che l'Fbi aveva voluto far credere, a noi e al mondo intero. Ma, peggio ancora, quelli dell'Fbi sapevano e ci avevano mentito per tutti questi anni. Perché? Era questo ora il vero interrogativo. 34 Ero carico di rabbia, avrei voluto esplodere dentro l'ufficio di Pistillo, afferrarlo per il bavero e obbligarlo a darmi delle risposte. Ma la vita va diversamente. La Route 95 era tutta un cantiere e si circolava a passo d'uomo; trovammo un traffico impossibile anche sulla Cross Bronx Expressway, quello sull'Harlem River Drive si trascinava come un soldato ferito. Mi attaccai al clacson, guizzando da una corsia all'altra, ma a New York con una guida del genere rientri nella media degli automobilisti. Katy chiamò con il cellulare un amico, Ronnie, che a suo dire ci sapeva fare con il computer. Ronnie cercò su Internet il nome Laura Emerson, confermandoci poi a grandi linee ciò che sapevamo. Era stata strangolata otto mesi prima di Julie e il cadavere l'avevano scoperto al Court Manor Motor Lodge di Fessenden, Nord Dakota. Il delitto aveva avuto un notevole risalto sui giornali locali per un paio di settimane prima di cadere nel dimenticatoio. Le cronache non avevano parlato di violenza sessuale. Sterzai all'improvviso per imboccare l'uscita della superstrada, bruciai un semaforo rosso e lasciai l'auto nel parcheggio Kinney non lontano da Federal Plaza. Ci dirigemmo a passo veloce verso l'edificio dell'Fbi ma, purtroppo, per entrare bisognava superare un metal detector. Le mie chiavi fecero scattare l'allarme e vuotai le tasche. Poi toccò alla cintura. Una
guardia mi passò sul corpo una bacchetta simile a un vibratore. E alla fine avemmo il via libera. Arrivati davanti all'ufficio di Pistillo chiesi di vederlo con la voce più ferma e decisa che riuscii a trovare, ma la segretaria sembrò tutt'altro che intimidita. Ci gratificò di un sorriso sincero come quello della moglie di un politico, poi dolcemente ci invitò a sedere. Katy mi guardò, stringendosi nelle spalle. Io non mi sedetti, anzi cominciai a camminare su e giù come un leone in gabbia, ma sentivo che la rabbia stava sbollendo. Quindici minuti dopo la segretaria ci annunciò che "l'assistente direttore incaricato Joseph Pistillo", disse proprio così usando la qualifica ufficiale del suo capo, era pronto a riceverci. Aprì la porta ed entrai a passo di carica. Pistillo, che ci aspettava in piedi, indicò Katy. «E lei chi è?» «Katy Miller» dissi. Sembrò stupito. «Che cosa ci fai con Klein?» le chiese. Ma io non avevo alcuna intenzione di lasciarmi sviare. «Perché non mi ha detto niente di Laura Emerson?» Si voltò verso di me. «Di chi?» «Non m'insulti, Pistillo.» Lui tacque qualche attimo. «Perché non ci sediamo?» propose poi. «Risponda alla mia domanda.» Si calò sulla poltrona senza staccare gli occhi dai miei. La scrivania era lucida e viscida, e nell'aria stagnava un sentore di deodorante. In un angolo c'era un borsone da palestra. «Lei non può permettersi di fare domande» disse. «Laura Emerson è stata strangolata otto mesi prima di Julie.» «E allora?» «Entrambe erano socie dello stesso circolo studentesco.» Pistillo congiunse le mani. Stava giocando la carta dell'attesa, e vinse lui. «Vorrebbe dirmi che non lo sapeva?» gli chiesi. «Certo che lo sapevo.» «E non ci vede alcun nesso?» «Proprio così.» Aveva lo sguardo fermo, di quel gioco era evidentemente pratico. «Sta parlando sul serio?» Decise a quel punto di far scorrere lo sguardo sulle pareti, anche se non c'era molto da guardare: una foto del presidente Bush, una bandiera americana e qualche diploma. Tutto qui, più o meno. «All'epoca cercammo di
capire se questo nesso c'era, ovviamente. Mi sembra che qualcosa del genere fece anche la stampa locale e forse pubblicarono qualche articolo, ora non ricordo. Ma alla fine nessuno riuscì a stabilire un rapporto tra i due delitti.» «Sta scherzando?» «Laura Emerson venne strangolata in un altro Stato e in un altro periodo e non furono trovate tracce di stupro o di altre violenze sessuali. Il cadavere fu scoperto in un motel. Julie invece» e si rivolse a Katy «tua sorella è stata trovata cadavere in casa.» «E il fatto che entrambe fossero socie dello stesso circolo studentesco?» «Una coincidenza.» «Sta mentendo.» Non gli piacque e un'ombra di rosso gli passò sul viso. «Stia attento» disse, puntandomi contro un dito grosso come un manganello. «Non può permettersi di dire certe cose.» «Vorrebbe farmi credere che non ha visto alcun collegamento tra i due delitti?» «Proprio così.» «E ora, Pistillo?» «Ora che cosa?» La rabbia aveva ripreso a bollirmi dentro. «Anche Sheila Rogers era socia di quel circolo. Vogliamo chiamarla un'altra coincidenza?» La domanda lo sorprese con la guardia abbassata. Si sistemò sulla poltrona, quasi volesse aumentare la distanza che ci separava. Non lo sapeva davvero oppure pensava che non l'avrei scoperto? «Non ho intenzione di parlare di un'indagine in corso.» «Lo sapeva» dissi lentamente. «E sapeva anche che mio fratello era innocente.» Scosse la testa, ma in maniera poco convincente. «Non sapevo, o meglio, non so nulla di tutto questo.» Non gli credetti, aveva mentito fin dall'inizio. Ne ero certo. Si irrigidì, come in attesa del mio prossimo assalto: parlai invece in tono pacato e fui io per primo a sorprendermene. «Si rende conto di ciò che ha fatto?» gli sussurrai quasi. «Il danno alla mia famiglia, mia madre, mio padre...» «Lei non c'entra in questa storia, Will.» «Eccome se c'entro.» «La prego, vi prego, non vi immischiate.»
Lo fissai. «No.» «Lo dico per il vostro bene. Forse non mi crederete, ma sto cercando di proteggervi.» «Da chi?» Non rispose. «Da chi?» ripetei. Batté le mani sui braccioli della poltrona e si alzò. «Questa conversazione è terminata.» «Che cosa voleva davvero da mio fratello, Pistillo?» «Non ho alcuna intenzione di continuare a parlare di un'indagine in corso.» Andò alla porta. Cercai di bloccargli la strada e lui mi aggirò, lanciandomi un'occhiata gelida. «Stia alla larga dalla mia indagine o la faccio arrestare per ostruzione al corso della giustizia.» «Perché sta cercando d'incastrarmi?» Pistillo si fermò e fece dietrofront. Vidi qualcosa mutare nel suo atteggiamento, un drizzare la spina dorsale forse, un lampo che gli passava negli occhi. «Vuole davvero che ci addentriamo nelle verità, Will?» Non mi piacque quel suo nuovo tono di voce e, all'improvviso, non fui sicuro della risposta da dargli. «Sì.» «Allora cominciamo da lei» disse lentamente. «Che c'entro io?» «È sempre stato convinto dell'innocenza di suo fratello» proseguì, ora in tono più aggressivo. «Come mai?» «Perché lo conosco.» «Davvero? Eravate legati lei e Ken negli ultimi tempi?» «Siamo sempre stati legati.» «Lei lo vedeva spesso, vero?» Mossi i piedi per il disagio. «Per essere legati a qualcuno non c'è bisogno di vederlo spesso.» «Davvero? Ci dica una cosa, Will: chi ha ucciso Julie Miller, secondo lei?» «Non lo so.» «Bene. Esaminiamo allora ciò che per lei è successo.» Pistillo mi si avvicinò e mi resi conto che, senza accorgermene, non controllavo più la situazione. Sembrava smanioso e non avevo idea del perché. Si fermò abbastanza vicino a me da cominciare a invadere il mio spazio. «Il suo caro fratello, quello al quale era tanto legato, la sera del delitto ha avuto rapporti sessuali con la sua vecchia fiamma. Non è questa la sua teoria, Will?»
Probabilmente ero sulle spine. «Sì.» «La sua ex ragazza e suo fratello che facevano le porcherie.» Emise un verso di riprovazione. «La cosa deve averla mandata su tutte le furie.» «Ma di che sta cianciando?» «La verità, Will. È la verità che cerchiamo, vero? E allora forza, mettiamo le carte in tavola.» I suoi occhi duri e freddi non si staccarono dai miei. «Suo fratello torna a casa dopo... quanto? Due anni? E che fa? Si fa una passeggiata, arriva alla fine dell'isolato e ha un rapporto sessuale con la ragazza che lei ama.» «Avevamo rotto» obiettai, anche se non mi era sfuggito quanto poco convincente fosse il mio tono. Lui fece un sorrisetto. «Sicuro, certe storie finiscono, vero? E si era aperta la stagione della caccia a quella ragazza, soprattutto per il suo amato fratello.» Pistillo non staccò il viso dal mio. «Lei sostiene di avere visto qualcuno, quella sera. Qualcuno che si aggirava nei pressi della casa dei Miller.» «Esatto.» «Come ha fatto a vederlo, per la precisione?» «In che senso?» gli chiesi. Ma lo sapevo benissimo. «Ha detto di avere visto qualcuno vicino a casa Miller, no?» «Sì.» Pistillo sorrise e allargò le braccia. «Il fatto, Will, è che lei non ci ha mai detto che cosa ci faceva da quelle parti.» Lo disse senza alcuna particolare inflessione, con una voce quasi cantilenante. «Lei, Will. Fuori da casa Miller. Da solo. La sera tardi. Con suo fratello e la sua ex insieme in casa...» Katy si voltò verso di me. «Stavo facendo una passeggiata» dissi in fretta. Pistillo sfruttò immediatamente il vantaggio. «Uh-uh, certo, okay. Vediamo allora se ho capito bene. Suo fratello sta facendo sesso con la ragazza che lei, Will, ama ancora. Per caso, nello stesso momento, lei sta passeggiando dalle parti della casa. Julie viene uccisa. Noi troviamo tracce del sangue di suo fratello sul luogo del delitto. E lei, Will, sa che non è stato suo fratello a ucciderla.» Si fermò per lanciarmi un altro dei suoi sorrisetti. «Mi dica, allora: se le indagini le conducesse lei, di chi sospetterebbe?» Un grosso masso mi stava schiacciando il torace. Non riuscivo a parlare. «Se sta cercando di...» «La sto invitando ad andarsene a casa. Solo questo. Andatevene, tutti e
due, e tenetevi alla larga da questa storia.» 35 Pistillo propose a Katy di farla accompagnare a casa, ma lei rifiutò aggiungendo che voleva rimanere con me. La cosa non gli piacque, ma non poteva certo costringerla. Tornammo in silenzio al mio appartamento. Una volta in casa le mostrai la mia incredibile collezione di menu da asporto. Lei ordinò roba cinese e io scesi a comprarla. Riempimmo la tavola di quelle scatole bianche, io seduto al mio solito posto e Katy a quello di Sheila. Ebbi un flash di una cena cinese come questa con Sheila appena uscita dalla doccia e avvolta nell'accappatoio di spugna, con i capelli legati indietro, il profumo di bagnoschiuma e le efelidi sul petto... Strano come ci si ricordi per sempre di certi particolari. Il dolore riprese a ruggirmi dentro, a ondate devastanti. Ogni volta che mi fermavo tornava a colpire duro, sempre più in profondità. Il dolore ti consuma. Se non stai in guardia ti esaurisce al punto che non ti importa più di niente. Mi versai del riso nel piatto e lo feci seguire da una cucchiaiata di salsa d'aragosta. «Sei sicura di voler passare la notte qui?» Katy annuì. «Ti lascio la stanza da letto.» «Preferisco dormire sul divano.» «Sei certa?» «Tranquillo.» Fingemmo di mangiare. «Non ho ucciso Julie» dissi. «Lo so.» Fingemmo di continuare a mangiare. «Perché ti trovavi lì, quella sera?» mi chiese alla fine. Tentai di sorridere. «Non la bevi la storia che stavo facendo una passeggiata, vero?» «No.» Posai le bacchette sul tavolo come se temessi che potessero spezzarsi. Mi chiesi come spiegarlo qui, a casa mia, alla sorella della ragazza che avevo amato e che ora sedeva sulla sedia della donna che avrei voluto sposare. Entrambe uccise. Entrambe collegate a me. Sollevai gli occhi su
Katy. «Forse non avevo davvero chiuso con Julie.» «Volevi vederla?» «Sì.» «E allora?» «Suonai il campanello ma nessuno venne ad aprire.» Katy ci pensò su. Abbassò gli occhi sul piatto e cercò di dare alla sua voce un tono casuale. «Strano tempismo.» Ripresi le bacchette. «Will?» Tenni il capo chino. «Lo sapevi che c'era tuo fratello a casa mia?» Con una bacchetta mi misi a girare il cibo dentro il piatto. Lei sollevò la testa e mi fissò. Udii il vicino aprire e chiudere la porta. In strada suonò un clacson, mentre qualcuno stava gridando qualcosa in una lingua che poteva essere russo. «Lo sapevi» disse Katy. «Sapevi che Ken era da noi. Con Julie.» «Non ho ucciso tua sorella.» «Che cosa successe, Will?» Incrociai le braccia sul petto. Poi chiusi gli occhi e reclinai la testa all'indietro. Non volevo rivivere quella scena, ma non avevo scelta. Katy voleva sapere e ne aveva il diritto. «Era stato uno strano fine settimana» cominciai. «Julie e io avevamo rotto da un anno e non l'avevo più rivista da quel giorno. Avevo cercato di incontrarla durante le vacanze, ma apparentemente lei non c'era mai.» «Era stata a lungo lontana da casa.» «Lo stesso valeva per Ken e proprio questo rendeva bizzarra la faccenda. All'improvviso ci siamo ritrovati tutti e tre a Livingston contemporaneamente, non ricordo nemmeno l'ultima volta che era successo. Anche Ken si comportava in maniera strana, stava sempre a guardare fuori dalla finestra. Non usciva mai di casa. Aveva qualcosa in mente, non so cosa. Comunque, un giorno mi chiese se avessi sempre in mente Julie e gli risposi di no, ormai la nostra storia era morta e sepolta.» «Gli avevi mentito.» «Era stato come...» Cercai le parole per spiegare ciò che pensavo. «Mio fratello per me era come un dio, era forte, coraggioso e...» Scossi la testa, non mi piaceva come la stavo raccontando. Ricominciai. «Quando avevo sedici anni feci un viaggio in Spagna con i miei. Sulla Costa del Sol. L'atmosfera era quella di un grosso party, un po' come appare la Florida agli
europei che ci vanno in primavera. Ken e io la sera andavamo in una discoteca vicina all'albergo. La quarta sera un tizio mi buttò a terra mentre ballavo in pista. Feci finta di niente e quello si mise a ridere. Allora ricominciai a ballare e un altro mi buttò a terra. Tentai d'ignorare anche lui, ma tornò il primo che con una spinta mi fece finire di nuovo a gambe all'aria.» M'interruppi, battendo le palpebre quasi avessi voluto allontanare quel ricordo come si cerca di togliere dall'occhio un granello di sabbia. La guardai. «Lo sai allora che cosa ho fatto?» Scosse la testa. «Mi misi a chiamare Ken, gridando. Non mi rialzai, non restituii lo spintone. Chiamai in soccorso mio fratello e poi mi tolsi dai piedi.» «Eri spaventato.» «Lo ero sempre.» «È naturale.» Non la pensavo così. «Lui arrivò?» mi chiese Katy. «Certo.» «E allora?» «Scoppiò una rissa. Quelli erano un gruppo di ragazzi di qualche paese scandinavo e Ken si prese un sacco di legnate.» «E tu?» «Non tirai nemmeno un pugno. Feci qualche passo indietro cercando di ragionare con loro, di convincerli a fermarsi.» Per la vergogna mi si erano di nuovo imporporate le guance. Mio fratello, che di scazzottate ne aveva fatte ben più della media, aveva ragione: le botte per un po' fanno male, ma la vergogna della vigliaccheria non ti abbandona mai. «Durante la rissa Ken si fratturò un braccio, il destro. Era un tennista eccezionale, mio fratello, un tennista da classifica nazionale. Quelli di Stanford sembravano interessati a lui. Dopo quella rissa il suo servizio non fu più lo stesso e Ken non andò al college.» «Non è stata colpa tua.» Come si sbagliava. «Il fatto è che Ken mi difendeva sempre. Certo, ce le davamo come se le danno tutti i fratelli. Lui mi sfotteva in maniera spietata. Ma per proteggermi si sarebbe fatto travolgere da un treno, mentre io non ho mai trovato il coraggio di ricambiare.» Katy si portò una mano sul mento. «Che cosa c'è?» le chiesi. «È strano, tutto qui.»
«Che cosa è strano?» «Che tuo fratello sia stato così insensibile da portarsi a letto Julie.» «Non è stata colpa sua. Mi aveva chiesto se tra lei e me era tutto finito e gli avevo risposto di sì.» «Gli hai dato via libera.» «Sì.» «Ma alla fine ti sei messo a seguirlo.» «Non capisci» le dissi. «Sì che capisco, invece. Certe cose le facciamo tutti.» 36 Ero piombato in un sonno talmente profondo che non lo sentii arrivare. Avevo trovato coperte e lenzuola pulite per Katy, mi ero assicurato che stesse comoda sul divano, poi avevo fatto una doccia e tentato di leggere. Ma le parole sembravano nuotarmi davanti agli occhi avvolte in una nebbiolina buia. Non so quante volte avevo letto, riletto e sempre dimenticato lo stesso paragrafo. Allora mi ero seduto davanti al computer ed ero entrato in Internet. Poi avevo fatto una serie di flessioni e di esercizi yoga che mi aveva insegnato Squares. Non volevo sdraiarmi, non volevo fermarmi per paura che il dolore mi cogliesse di nuovo a tradimento. Ero un avversario di tutto rispetto, ma alla fine il sonno era riuscito a mettermi alle corde e mandarmi al tappeto. Stavo così precipitando in un pozzo del tutto sgombro di sogni quando mi sentii afferrare una mano e udii un clic. Sempre addormentato cercai di spostare la mano, che però non si mosse. Qualcosa di metallico era chiuso intorno al mio polso. Stavo battendo le palpebre quando quello mi venne addosso, atterrando su di me con tutto il suo peso e lasciandomi senza fiato. Boccheggiai mentre lui, chiunque fosse, mi si piazzava a cavalcioni sul petto puntandomi le ginocchia sulle spalle. Poi, prima che potessi opporre un minimo tentativo di resistenza, afferrò la mano che mi era rimasta libera e me la portò sopra la testa, di lato. Stavolta non udii il clic ma sentii il freddo metallo chiudersi attorno alla mia pelle. Ero ammanettato al letto con entrambe le mani. Le vene mi si riempirono di ghiaccio. Aprii la bocca, per gridare o almeno dire qualcosa. L'assalitore mi afferrò per la nuca, poi senza un attimo d'esitazione staccò da un rotolo un pezzo di nastro da pacchi e mi coprì la
bocca. Quindi, per non sbagliare, prese ad avvolgermi un nuovo pezzo di scotch dietro il cranio e sulla bocca, ripetendo questa operazione dieci o quindici volte, come se volesse impacchettarmi tutta la testa. Non riuscivo a parlare o a gridare. Respirare era un'impresa, visto che dovevo succhiare l'aria con il mio naso rotto. Che mi faceva un male da cani. Le spalle mi dolevano sia perché, ammanettato com'ero, non potevo muoverle e sia per il peso delle sue ginocchia. Lottai, ma fu uno sforzo inutile, come inutile si rivelò il tentativo di scrollarmi di dosso lo sconosciuto. Avrei voluto chiedergli che cosa voleva, che cosa aveva in mente di fare ora che mi aveva immobilizzato. E a quel punto mi venne in mente che nella stanza accanto c'era Katy. La camera era immersa nel buio e il mio assalitore era per me poco più di un'ombra. Il suo volto era nascosto da qualcosa di scuro, ma non riuscii a capire che maschera fosse, sempre ammesso che si trattasse davvero di una maschera. Respirare stava diventando quasi impossibile e sbuffai per il dolore. L'uomo, chiunque fosse, terminò di impacchettarmi la bocca e, dopo un attimo di esitazione, mi si tolse di dosso. Poi, mentre lo guardavo terrorizzato e impotente, andò alla porta, l'aprì, entrò nella stanza dove Katy stava dormendo e si richiuse la porta alle spalle. Gli occhi stavano per schizzarmi fuori dalle orbite. Cercai di urlare ma il nastro adesivo attutiva ogni suono. Scalciai come un cavallo brado, mi agitai, ma senza il minimo risultato. Allora mi misi ad ascoltare, e per un momento udii soltanto il silenzio più completo. Poi Katy gridò. Oh, Cristo! Ripresi ad agitarmi. Il suo era stato un grido breve, troncato a metà come se qualcuno avesse girato un interruttore. Ero in preda a un panico totale. Diedi degli inutili strattoni alle manette, voltai freneticamente la testa a destra e a sinistra. Niente. Katy gridò ancora. Fu un grido più debole, stavolta, come l'ansito di un animale ferito. Nessuno avrebbe potuto udirla e, se anche qualcuno avesse sentito, non avrebbe certo reagito. Non a New York, poco ma sicuro, e a quest'ora di notte. E se qualcuno avesse reagito, chiamando la polizia, sarebbe stato troppo tardi. Allora, persi il controllo. Stavo impazzendo, ero in preda a convulsioni come durante un attacco
epilettico. Il naso mi doleva da morire. Inghiottii alcune fibre del nastro adesivo. E ripresi ad agitarmi. Ma senza fare il minimo progresso. Oh, Dio! Okay, ora calmati. Sii lucido. Pensa per un secondo. Girai la testa verso la manetta di destra. Non sembrava così stretta, c'era un po' di gioco. Forse, se avessi provato con meno foga sarei riuscito a tirare fuori la mano. Rilassati. Cerca di stringere la mano a tubo e farla passare attraverso la manetta. E così tentai. Tentai di trasformare la mia mano in qualcosa di più sottile, la arrotondai portando il pollice a toccare il mignolo. Poi la tirai su, prima lentamente e poi con maggiore forza. Niente da fare. La pelle prese a raggrinzirsi attorno all'anello metallico e poi a graffiarsi. Ma non ci feci caso e continuai a fare forza. Non funzionava. Nell'altra stanza era calato il silenzio. Tesi l'orecchio, ma non udii alcun suono. Nulla. Cercai di inarcare il corpo, cercai di sollevarmi con uno strattone così forte che magari anche il letto si sarebbe sollevato. Solo quattro, cinque centimetri e forse ricadendo si sarebbe sfasciato. Insistetti, e il letto in effetti scivolò in fuori di qualche centimetro. Ma non servì a nulla. Ero ancora in trappola. Udii Katy urlare ancora, con la sua voce gonfia di panico: «John...». Poi nuovamente il grido s'interruppe a metà. John, pensai. Aveva detto John. Asselta? Il Fantasma... Oh, no, Dio, ti prego, no, fa che non sia così. Udii qualcosa di soffocato. Voci. Un gemito, forse. Come un cuscino premuto sulla bocca. Il mio cuore batteva follemente contro la gabbia toracica. La paura mi assaliva da ogni parte. Scossi la testa a destra e a sinistra, in cerca di qualcosa, qualsiasi cosa. Il telefono. Forse avrei potuto?... Le gambe le avevo libere, magari avrei potuto allungarle afferrando il telefono tra i piedi e facendomelo ricadere in mano. A quel punto avrei potuto formare il 911, il numero per le emergenze, o lo 0. Avevo già i piedi sollevati. Contrassi i muscoli addominali, tirai su le gambe e le feci scattare verso destra. Ma ero ancora molto agitato, vacillai e persi l'equilibrio. Cercai di ritirarmi su, ma così facendo urtai con un pie-
de il telefono. Il ricevitore cadde rumorosamente sul pavimento. Maledizione. E ora? Persi completamente il controllo. Mi misi a pensare agli animali finiti in quelle trappole dentate, quelle che gli segano un arto se tentano di liberarsi e fuggire. Mi dimenai fino a spossarmi. Avevo esaurito tutte le risorse e stavo per arrendermi quando ricordai qualcosa che Squares mi aveva insegnato. La posizione dell'aratro. Era così che la chiamavano. Halasana, in hindi. È quella che si assume quando, sdraiati sulla schiena, si sollevano le gambe unite e poi i fianchi, facendosi passare le gambe sopra la testa fino a toccare con le punte degli alluci il pavimento alle spalle. Non sapevo se ce l'avrei fatta, ma non aveva importanza. Schiacciai lo stomaco e sollevai le gambe quanto più potevo, per poi portarmele dietro la testa. I talloni andarono a sbattere contro la parete, il torace mi premeva sul mento rendendo la respirazione ancora più difficile. Premetti le gambe contro la parete, sentendo una raffica di scariche di adrenalina. Il letto si spostò dalla parete. Continuai a spingere, guadagnando qualche altro centimetro. Okay, bene. Ora veniva il difficile. Se le manette fossero state troppo strette, se cioè non ci fosse stato spazio sufficiente per ruotare i polsi, non ce l'avrei fatta, o in alternativa mi sarei slogato entrambe le spalle. Fa niente. Dall'altra stanza solo silenzio, un silenzio di tomba. Lasciai ricadere le gambe sul pavimento. Quella che stavo facendo era una capriola all'indietro per scendere dal letto. Il peso delle gambe mi diede la spinta e, assistito per una volta dalla fortuna, riuscii a far ruotare i polsi dentro le manette. I piedi ricaddero sul pavimento e io li seguii, battendo cosce e addome sulla bassa testiera. Alla fine mi trovai in piedi alle spalle del letto. Ero ancora ammanettato e imbavagliato con il nastro adesivo, ma ero in piedi. Provai un'altra scarica di adrenalina. Bene, e ora? Non avevo tempo da perdere. Piegai le ginocchia, abbassai le spalle fino al bordo superiore della testiera e mi preparai a caricare come un giocatore di football. Le gambe si mossero come pistoni. Non esitai, non mi fermai a pensare nemmeno per un attimo. Il letto andò a schiantarsi contro la porta.
La collisione fu impressionante. Il dolore mi serpeggiò lungo la spalla, le braccia, la spina dorsale. Sentii qualcosa spezzarsi e un dolore bruciante invadermi le giunture. Lo ignorai, feci qualche passo indietro ed effettuai una seconda carica con il letto. Poi una terza. Il nastro adesivo sulla bocca rendeva il mio grido percepibile soltanto dalle mie orecchie. Al terzo tentativo diedi un forte strattone alle manette nel preciso istante in cui il letto si schiantava contro la porta. I tubolari della testiera saltarono. Ero libero. Allontanai il letto dalla porta e cercai di togliermi dalla bocca il nastro adesivo, ma ci voleva troppo tempo. Allora afferrai e girai la maniglia, poi spalancai la porta e piombai nell'oscurità. Katy era sul pavimento. Aveva gli occhi chiusi e sembrava svenuta. L'uomo le stava a cavalcioni sul petto e le aveva portato le mani alla gola. La stava strangolando. Senza esitare mi lanciai addosso a lui, come un missile. Mi sembrò di impiegare una vita prima di raggiungerlo, come se mi fossi tuffato in un liquido vischioso. Mi vide arrivare, aveva avuto tutto il tempo di prepararsi, ma questo significava che avrebbe dovuto toglierle le mani dalla gola. Si girò per affrontarmi. Non riuscivo a distinguerne i lineamenti, era solo una silhouette scura. Mentre gli rovinavo addosso mi afferrò per le spalle, mi piantò un piede nello stomaco e, sfruttando la mia forza d'inerzia, rotolò all'indietro. Volai nella stanza, agitando le braccia come le pale di un mulino a vento. Ma anche stavolta ebbi fortuna, o almeno così credetti, perché atterrai contro una morbida poltroncina: che per un attimo rimase in equilibrio e poi si rovesciò per il mio peso. Battei la testa contro il tavolino e quindi sul pavimento. Tentai di vincere lo stordimento e di rialzarmi in piedi. Ma, quando mi stavo preparando a un secondo assalto, vidi qualcosa che mi terrorizzò come nulla prima di allora. Anche l'uomo in nero si era rialzato. Ora aveva un coltello e si stava muovendo verso Katy. Tutto si rallentò. Ciò che accadde da quel momento non durò più di uno o due secondi, ma negli occhi della mia mente si svolse in un'altra curva temporale. Il tempo li fa questi scherzi, è effettivamente relativo. Certi momenti volano via e altri rimangono cristallizzati.
Ero troppo distante per arrivarci. Lo sapevo. Anche superando la nebbia del mio cervello e quella botta in testa rimediata sbattendo contro il tavolo... Il tavolo. Dove avevo lasciato la pistola di Squares. Ce l'avevo il tempo per prenderla, voltarmi e sparare? Tenevo gli occhi ancora su Katy e l'assalitore. No, non ce l'avevo quel tempo. Lo capii subito. L'uomo si chinò afferrando Katy per i capelli. Mentre mi muovevo per prendere la pistola mi portai una mano alla bocca, strappando il nastro adesivo per lo spazio sufficiente a gridare: «Fermo o sparo!». Lui girò la testa nel buio. Io ero già carponi e strisciavo sul pavimento, come un guerrigliero. Quello vide che ero disarmato e decise di terminare ciò che stava facendo. La mia mano trovò la pistola. Non c'era tempo per prendere la mira. Premetti il grilletto. L'esplosione lo fece sussultare. E questo mi fece guadagnare tempo. Mi girai di scatto, premendo di nuovo il grilletto. L'uomo fece un salto indietro, come un ginnasta. Non riuscivo ancora a vederlo bene, per me era solo un'ombra. Spostai la pistola in direzione di quella massa scura, continuando a sparare. Quanti proiettili c'erano dentro quell'arnese? Quanti ne avevo sparati? Lui sobbalzò all'indietro, ma si muoveva ancora. Ero riuscito a colpirlo? Si lanciò verso la porta. Gli gridai di fermarsi ma non mi stette a sentire. Pensai di sparargli alla schiena, ma qualcosa, forse un barlume di umanità, me lo impedì. Lui era già uscito e io avevo altri pensieri. Guardai Katy riversa sul pavimento. Era immobile. 37 Un altro agente, il quinto secondo i miei calcoli, venne a sentire il mio racconto. «Voglio sapere prima come sta la ragazza» dissi. Il medico aveva smesso di lavorare su di me. Nei film il dottore difende sempre i suoi pazienti, dice al poliziotto di interrompere l'interrogatorio perché il ferito ha bisogno di riposo. Il mio, un giovane medico del pronto soccorso probabilmente pakistano, non aveva principi professionali di questo tipo. Con un colpo secco mi rimise a posto la spalla mentre la polizia
cominciava a cuocermi sulla griglia, poi mi passò della tintura di iodio sui polsi e si mise a giocherellare con il mio naso. Tirò fuori un seghetto - non voglio chiedermi che cosa ci fanno in ospedale con un seghetto - e mi aprì le manette mentre quelli continuavano a farmi domande. Ero ancora in boxer e giacca del pigiama, l'ospedale aveva coperto i miei piedi nudi con soprascarpe di carta. «Risponda alla mia domanda» disse l'agente. La cosa andava avanti ormai da due ore. L'adrenalina era stata interamente consumata e il dolore stava cominciando ad azzannarmi le ossa. Ne avevo abbastanza. «Okay, a voi non la si fa. Allora, come prima cosa mi sono ammanettato entrambe le mani. Poi ho sfasciato qualche mobile, ho sparato diversi proiettili contro le pareti, ho quasi strangolato quella ragazza in casa mia e poi ho chiamato la polizia per farmi arrestare. Mi avete beccato.» «Potrebbe anche essere andata così» disse l'agente. Era un omone con dei baffi unti che mi fecero pensare a quei quartetti vocali improvvisati nelle botteghe di barbiere di un tempo. Mi aveva dato il suo nome, ma già da tre poliziotti prima i nomi non mi interessavano più. «Come?» «Potrebbe essere stato uno stratagemma.» «Vuol dire che mi sarei slogato la spalla, tagliato le mani e avrei sfasciato il letto per allontanare i sospetti?» Si esibì nella caratteristica scrollata di spalle da poliziotto. «Senta, una volta ho conosciuto uno che si era tagliato il pisello per convincerci che non era stato lui a uccidere la sua ragazza. Aveva raccontato che era stato assalito da un gruppo di neri. Lui voleva farsi solo un taglietto, ma poi gli era sfuggita la mano e se l'era portato via tutto.» «Grande storia» commentai. «Nel caso suo potrebbe essere successa la stessa cosa.» «Il mio pene sta benissimo, grazie comunque per l'interessamento.» «Lei ci ha raccontato che quel tipo si è introdotto in casa sua. I vicini hanno sentito gli spari.» «Sì.» Mi lanciò uno sguardo scettico. «Come mai, allora, nessuno dei vicini l'ha visto fuggire?» «Forse, e quella che sto azzardando è solo un'ipotesi, perché erano le due di notte.» Ero ancora seduto sul lettino metallico del pronto soccorso, con le gam-
be penzoloni. Mi si stavano addormentando. Scesi a terra. «Dove pensa di andare?» mi chiese l'agente. «Voglio vedere Katy.» «Non credo.» I suoi baffi fremettero. «In questo momento ci sono i genitori, con lei.» Studiò il mio viso in cerca di una reazione e cercai di non dargliene nemmeno una. Nuovo fremito dei baffi. «Il padre ha un'opinione molto decisa sul suo conto» disse. «Lo immagino.» «Crede che sia stato lei ad aggredirla.» «E a che scopo?» «Motivo, vuol dire?» «No, voglio dire proprio scopo, intenzione. Crede che stessi tentando di ucciderla?» Incrociò le braccia e scrollò nuovamente le spalle. «Mi sembra plausibile.» «E allora perché vi ho chiamato quando lei era ancora viva. Ho architettato questa messinscena, secondo voi, no? Perché non l'ho finita, Katy?» «Non è facilissmo strangolare qualcuno. Forse lei ha creduto che fosse morta.» «Si rende conto, spero, di quanto appaia idiota tutto ciò.» La porta alle sue spalle si aprì e fece il suo ingresso Pistillo, che mi lanciò un'occhiata tagliente come una lama. Chiusi gli occhi e mi massaggiai con pollice e indice la sella nasale. Pistillo era con uno degli agenti che mi avevano già interrogato, che fece un gesto al suo collega baffuto. Questi sembrò seccato per l'interruzione, ma seguì l'altro fuori dalla porta. Rimasi solo con Pistillo. All'inizio restò in silenzio. Si mise a girare per la stanza del pronto soccorso, studiando i contenitori di vetro pieni di batuffoli d'ovatta, gli abbassalingua, il bidone dei rifiuti nocivi. Negli ospedali regna di solito l'odore di disinfettante, ma quello puzzava di acqua di colonia da steward. Non saprei dire se proveniva da un medico o da un poliziotto, ma vidi Pistillo arricciare disgustato il naso. Io mi ero già abituato. «Mi dica che cos'è successo» attaccò. «I suoi amici del Dipartimento di polizia non le hanno già raccontato tutto?» «Preferisco sentirlo da lei quello che è successo. Prima che la sbattano in
cella.» «Voglio sapere come sta Katy.» Soppesò per uno o due secondi la mia richiesta. «Collo e corde vocali le faranno male per un po', ma si rimetterà.» Chiusi gli occhi e mi lasciai invadere dal sollievo. «Ora cominci a parlare» disse lui. Gli raccontai ciò che era successo. E lui rimase in silenzio fino a quando non arrivai al punto in cui Katy urlava il nome "John". «Ha idea di chi possa essere questo John?» mi chiese. «Forse.» «Ascolto.» «Uno che conoscevo da ragazzo. Si chiama John Asselta.» Pistillo cambiò espressione. «Sa chi è?» gli chiesi. Ignorò la domanda. «Che cosa le fa pensare che Katy si riferisse ad Asselta?» «Perché è quello che mi ha rotto il naso.» Gli parlai dell'aggressione del Fantasma e Pistillo non sembrò felice. «Asselta stava cercando suo fratello?» «È quello che ha detto.» Il suo viso s'imporporò. «E perché diavolo non me l'ha raccontato prima?» «Sì, è strano, vero?, visto che lei è sempre stato quello al quale mi sarei potuto rivolgere, l'amico di cui fidarmi...» Era ancora arrabbiato. «Sa qualcosa di John Asselta?» «Siamo cresciuti nella stessa cittadina. Lo chiamavamo il Fantasma.» «È uno dei più pericolosi pazzi in circolazione.» Pistillo scosse la testa. «Ma non può essere stato lui.» «Che cosa glielo fa pensare?» «Il fatto che lei e Katy siate vivi.» Silenzio. «È un assassino freddo e spietato» proseguì Pistillo. «Perché allora non è in carcere?» chiesi. «Non sia ingenuo, quello ci sa fare.» «Ci sa fare ad ammazzare la gente.» «Sì. Vive all'estero, nessuno sa esattamente dove. Ha lavorato per gli squadroni della morte in America Centrale, ha collaborato con i dittatori africani.» Pistillo scosse di nuovo la testa. «No, se Asselta l'avesse voluta
morta ora noi staremmo attaccando una targhetta all'alluce di quella ragazza.» «Forse si riferiva a un altro John» azzardai. «O forse ho sentito male.» «Forse.» Ci pensò su. «Altra cosa che mi sfugge: se il Fantasma o qualcun altro voleva uccidere Katy, perché non farla fuori e basta? Perché prendersi il disturbo di ammanettare lei, Will?» Anche io mi ero posto quella domanda inquietante, ma una risposta me l'ero data. «Per incastrarmi.» «In che senso?» «L'assassino mi ammanetta al letto, poi strangola Katy. Quindi...» e avvertii un pizzicorino al cuoio capelluto «forse voleva far ricadere la colpa su di me.» Pistillo si accigliò. «Non vorrà aggiungere "come è successo nel caso di mio fratello", vero?» «Sì. Stavo proprio per dirlo.» «Stronzate.» «Ci pensi, Pistillo. Una cosa che non siete mai riusciti a spiegare è stata la presenza del sangue di mio fratello sul luogo del delitto.» «Julie Miller oppose resistenza.» «Ma andiamo, era troppo quel sangue.» Mi avvicinai a lui. «Ken è stato incastrato undici anni fa e forse qualcuno stanotte ha voluto che la storia si ripetesse.» Pistillo assunse un'espressione di scherno. «Non faccia il melodrammatico. E lasci che le dica un'altra cosa: i poliziotti non se la bevono la storiella della sua uscita dalle manette come il mago Houdini. Secondo loro, Will, lei ha cercato di uccidere la ragazza.» «Lei che ne pensa?» gli chiesi. «Di là c'è il padre di Katy, ed è a dir poco imbestialito.» «La cosa non mi sorprende.» «Ma fa riflettere ugualmente, non trova?» «Lo sa che non sono stato io, Pistillo. E sa anche che Julie non l'ho uccisa io, nonostante le sua sceneggiata di ieri.» «Gliel'avevo detto di farsi da parte.» «E io ho preferito non darle retta.» Pistillo emise un lungo respiro. «Proprio così, caro il mio duro. Adesso le spiego come d'ora in poi giocheremo a questo gioco.» Mi venne vicino e cercò di farmi abbassare lo sguardo, ma non ci riuscì. «Lei sta andando in carcere.»
Sospirai. «Credevo di avere già superato la mia quota massima di minacce, per oggi.» «Niente minacce, Will. Lei finirà dritto in carcere stanotte stessa.» «Bene, voglio un avvocato.» Guardò l'orologio. «Ormai è troppo tardi. Passerà la notte sotto chiave e domani mattina sarà portato davanti al giudice che le contesterà i capi d'accusa: tentato omicidio e aggressione di secondo grado. L'ufficio del procuratore distrettuale sottolineerà la sua pericolosità, ricordando la storia di suo fratello, e chiederà al giudice di non concedere la libertà su cauzione. Secondo me, invece, il giudice gliela concederà.» Feci per parlare ma lui sollevò una mano. «Risparmi il fiato. Quanto sto per dirle non le farà piacere: non mi interessa se è stato lei o no. Raccoglierò prove sufficienti per farla condannare, e se non le troverò le creerò. Racconti pure al suo avvocato quello che le sto dicendo, io negherò. Secondo lei a chi crederanno? A uno dei più rispettati tutori dell'ordine di questo paese oppure a un sospettato di omicidio, uno che da undici anni commette il reato di favoreggiamento nei confronti del fratello assassino?» Lo fissai. «Perché lo sta facendo?» «Le avevo detto di stare alla larga.» «Al posto mio lei che cosa avrebbe fatto? Se si fosse trattato di suo fratello?» «Questo non ha importanza. Lei non mi ha dato ascolto e ora la sua ragazza è morta mentre Katy Miller ha appena rischiato di fare la stessa fine.» «Non ho mai torto un capello né all'una né all'altra.» «E invece sì, la colpa è tutta sua. Crede che sarebbe successo quello che è successo, se lei mi avesse ascoltato?» Queste parole raggiunsero il bersaglio ma non mi diedi per vinto. «E lei allora, Pistillo, che ha ignorato e sepolto il nesso con Laura Emerson e...» «Stia a sentire, Will, non sono venuto a giocare a ping-pong. Lei adesso va in prigione e sarà condannato, non s'illuda.» Si diresse alla porta. «Pistillo?» Lui si voltò. «Ma qual è, veramente, il suo obiettivo?» Si fermò, avvicinando le labbra a pochi centimetri dal mio orecchio. «Lo chieda a suo fratello.» E uscì. 38
Passai la notte nella camera di sicurezza del commissariato di Midtown South, sulla Trentacinquesima ovest. La cella puzzava di urina e vomito, oltre che di quel tanfo di vodka acida tipico del sudore degli ubriachi. Un mix leggermente meno schifoso dell'acqua di colonia degli steward. Avevo due compagni di cella. Uno era un travestito che piangeva come una fontana e sembrava indeciso se usare il cesso metallico in piedi o accovacciato. L'altro era un nero che dormì per tutto il tempo. Non ho storie di prigione da raccontare, non sono stato picchiato, rapinato o sodomizzato. La nottata è trascorsa senza nulla da segnalare. L'agente del turno di notte aveva infilato nel lettore CD Born to Run di Bruce Springsteen. Il mio genere di conforto preferito. Come ogni bravo ragazzo del New Jersey, conoscevo a memoria tutte le parole. Potrà sembrare strano, ma ogni volta che ascoltavo le ballate del Boss pensavo sempre a Ken. Non eravamo proletari, non avevamo dovuto superare tempi duri, né io né lui ce la facevamo con i ragazzotti con le macchine superveloci né bighellonavamo al lido (nel New Jersey è sempre "il lido", mai "la spiaggia") come è il caso di quasi tutti i fan di Springsteen (a giudicare almeno da quanto ho visto agli ultimi concerti della E-Street Band): ma nelle sue storie di lotta c'era qualcosa - lo spirito di un uomo che tenta di spezzare le sue catene, di un uomo che vuole di più e trova il coraggio di fuggirsene via - che oltre a darmi i brividi mi faceva venire in mente Ken, anche prima del delitto. Ma quella notte, mentre Bruce mi diceva cantando che lei era tanto bella da farlo perdere tra le stelle, pensai a Sheila. E ricominciai a soffrire da matti. L'unica telefonata concessami l'avevo fatta a Squares, svegliandolo. «Bingo!» fu il suo commento quando sentì ciò che mi era successo. Quindi promise di trovarmi un buon avvocato e di farmi avere notizie sulle condizioni di Katy. «A proposito» aggiunse poi «volevo parlarti di quei nastri registrati del QuickGo.» «Che mi sai dire?» «La tua idea ha funzionato, domani ce li fanno vedere.» «Se mi permetteranno di uscire da qui.» «Eh, già. Se non ti danno la libertà su cauzione sono proprio degli schifosi, amico mio.» La mattina seguente gli agenti mi scortarono al numero 100 di Centre Street, dove fui preso in consegna da quelli della Penitenziaria che mi
chiusero in un'altra camera di sicurezza, nello scantinato. Se credete che l'America non sia più il crogiolo di razze che era una volta, dovreste passare un po' di tempo nel pot-pourri di (dis)umanità che vive in questa ONU su scala ridotta. Ho sentito almeno dieci diverse lingue. Ho visto pelli dalle tonalità cromatiche che avrebbero potuto dare ispirazione a un'azienda specializzata in matite e pastelli. Ho visto berretti da baseball, turbanti, perfino un fez. Parlavano tutti contemporaneamente e quando riuscivo a capire, ma anche quando non ci riuscivo, mi accorgevo che ognuno di loro proclamava la propria innocenza. In aula, quando mi presentai davanti al giudice, c'era anche Squares. E il mio nuovo avvocato, la signora Hester Crimstein. L'avevo già vista in occasione di qualche processo famoso, ma non ricordavo quale. Mi si presentò e poi non mi rivolse più lo sguardo, che riservò invece al giovane procuratore distrettuale: e fu lo sguardo che un giovane giaguaro assetato di sangue potrebbe riservare al cinghiale ferito. «Chiediamo che al signor Klein venga negata la libertà su cauzione» stava dicendo il giovane procuratore distrettuale «in quanto lo consideriamo un elemento pericoloso.» «Perché pericoloso?» chiese il giudice, che sembrava trasudare noia da ogni poro. «Suo fratello, sospettato di omicidio, è latitante da undici anni. Non solo, vostro onore, ma la vittima del fratello era la sorella dell'attuale mancata vittima.» Questo sembrò risvegliare l'attenzione del giudice. «Vuole ripetere?» «L'imputato, signor Klein, è accusato di aver tentato di uccidere una certa Katherine Miller. Il fratello del signor Klein, Kenneth, è sospettato di avere ucciso undici anni fa Julie Miller, sorella maggiore di Katherine.» Il giudice, che si stava massaggiando il viso, si bloccò di colpo. «Un momento, me lo ricordo quel caso.» Il giovane procuratore distrettuale sorrise come se gli avessero appena appuntato sul petto una medaglia d'oro. Il giudice si rivolse al mio legale. «Avvocato Crimstein?» «Vostro onore, la difesa ritiene che tutte le accuse mosse al signor Klein debbano essere immediatamente archiviate.» Il giudice riprese a massaggiarsi il viso. «Mi consideri addirittura sconvolto, avvocato Crimstein.» «In breve, riteniamo che il signor Klein vada rilasciato sulla parola. Non ha alcun precedente penale, il suo lavoro consiste nell'aiutare i poveri di
questa città, è ben radicato nella sua comunità. Per quanto riguarda poi quel ridicolo richiamo al fratello, si tratta nel peggiore dei casi di un sillogismo giudiziario.» «Non crede, avvocato Crimstein, che il popolo rappresentato dalla procura distrettuale abbia seri motivi di preoccupazione?» «Nemmeno un po', vostro onore. Ho saputo che la sorella del signor Klein recentemente si è fatta fare la permanente. Questo significa che esiste una probabilità che il signor Klein la imiti?» Si udirono delle risate. Il procuratore distrettuale non si diede per vinto. «Vostro onore, con tutto il rispetto per la sciocca analogia della mia collega...» «Che c'è di sciocco?» esclamò lei. «Noi sosteniamo che il signor Klein è sicuramente in grado di rendersi irreperibile.» «Ridicolo! Non lo è certo più di qualsiasi altro. Se l'accusa sostiene questa ipotesi è perché ritiene che il fratello del signor Klein a suo tempo si diede alla latitanza, ma nessuno può esserne certo anche perché potrebbe essere morto. In ogni caso, vostro onore, il rappresentante dell'accusa sta trascurando un elemento cruciale.» Hester Crimstein rivolse un sorriso al giovane procuratore distrettuale. «Avvocato Thomson?» chiese il giudice. Quello tenne il capo basso. Hester Crimstein attese qualche altro istante poi sferrò il colpo di grazia. «La vittima di questo odioso reato, Katherine Miller, ha dichiarato questa mattina che il signor Klein è innocente.» La cosa al giudice non piacque. «Avvocato Thomson?» «Non è del tutto vero, vostro onore.» «Non del tutto?» «La signorina Miller ha dichiarato di non aver visto il suo aggressore, perché c'era buio e l'uomo portava una maschera.» «E ha detto che non era il mio cliente» terminò per lui la Crimstein. «Ha detto che non credeva fosse il signor Klein» replicò Thomson. «Ma è una ragazza ferita e confusa, vostro onore. Non ha visto l'aggressore, quindi non può escludere che...» «In questa sede non si discute il caso, signor Thomson» lo interruppe il giudice. «E la sua opposizione alla libertà su cauzione è respinta. La cauzione è fissata in trentamila dollari.» Il giudice batté il martelletto. E fui libero.
39 Volevo andare all'ospedale a trovare Katy, ma a Squares non sembrava una buona idea. C'era il padre accanto a lei e aveva deciso di non lasciarla nemmeno per un minuto. Aveva anche messo davanti alla porta una guardia privata armata. Lo capii: non essendo riuscito a proteggere una figlia non voleva ora a nessun costo ripetere lo stesso errore. Con il cellulare di Squares chiamai l'ospedale, ma la centralinista aveva avuto disposizione di non passare telefonate nella camera di Katy. Allora telefonai a un fioraio e le feci mandare dei fiori con un biglietto in cui le auguravo di rimettersi al più presto. L'idea di inviare, a una ragazza che stava per morire strangolata in casa mia, un cesto di fiori con un orsacchiotto e un palloncino attaccato a un bastoncino era riduttiva e scema, ma mi sembrava l'unico sistema per farle sapere che pensavo a lei. Squares imboccò il Lincoln Tunnel al volante della sua Coupé de Ville del '68 color azzurro veneziano, un'auto sobria e anonima come potrebbe esserlo il nostro amico Raquel/Roscoe a un raduno delle Figlie della Rivoluzione americana. Dura, come al solito, la traversata del tunnel. La gente dice che il traffico sta peggiorando, ma io non ne sono tanto sicuro. Da ragazzino, a domeniche alterne, in quel tunnel si avventurava la nostra auto, una station-wagon con pannelli di legno lungo le fiancate. Ricordo ancora l'insopportabile lentezza con la quale procedevamo dentro la galleria, al buio, con quelle stupide luci gialle intermittenti appese al soffitto simili a pipistrelli, come se avessimo bisogno di farci dire di non correre. Ricordo le piccole cabine di vetro occupate dai sorveglianti, la fuliggine che attaccandosi alle mattonelle aveva dato loro una tonalità avorio con sfumature color urina. Tutti noi, durante la traversata, tenevamo gli occhi fissi sul parabrezza in attesa di vedere in lontananza la prima fioca luce e finalmente, accolti da quegli spartitraffico metallici color gomma, salivamo nel mondo dei grattacieli che per noi era una specie di realtà alternativa. Andavamo al circo Ringling Bros, and Barnum & Bailey o al Radio City Music Hall a vedere uno di quegli show così abbaglianti nei primi dieci minuti e così noiosi dopo, oppure ci mettevamo in fila davanti a un botteghino che vendeva biglietti a metà prezzo, oppure ancora andavamo a sfogliare i libri della grande libreria Barnes & Noble (a quel tempo mi sembra che esistesse una sede unica), o visitavamo il museo di storia naturale o una di quelle fiere all'aperto: la preferita di mia madre era la "New York Is Book
Country" che si svolgeva in settembre sulla Quinta Avenue. Mio padre brontolava lamentandosi del traffico, dei parcheggi e di tutta quella "sporcizia", intesa in diversi sensi, ma mia madre amava New York. Aveva una passione per il teatro, le manifestazioni artistiche, il caos simpatico e rumoroso della metropoli. Sunny era riuscita a costringersi abbastanza da entrare in quel mondo suburbano fatto di scarpe da ginnastica o di gruppi di pendolari dentro un'auto: ma i suoi sogni, i suoi desideri inappagati erano proprio lì, sotto la superficie della città. Ci amava, lo so. Ma a volte, seduto dietro di lei dentro la station-wagon, la osservavo guardare dal finestrino e mi chiedevo se non sarebbe stata più felice senza di noi. «Bella pensata» disse Squares. «Che cosa?» «Ricordarsi che Sonay era una devota praticante dello Yoga Squares.» «Già. Com'è andata?» «L'ho chiamata spiegandole il nostro problema. Mi ha detto che la QuickGo è gestita da due fratelli, Ian e Noah Muller. Gli ha telefonato dicendogli ciò che volevamo e...» Squares si strinse nelle spalle. Scossi la testa. «Sei incredibile.» «Sì. È vero.» Gli uffici della QuickGo avevano sede all'interno di un magazzino ai margini della Route 3, nel cuore delle paludi del New Jersey settentrionale. Si fa molta ironia sul New Jersey, soprattutto perché le nostre strade più trafficate attraversano le zone più brutte e malfamate del cosiddetto Garden State, lo "Stato giardino". Quasi tutto il New Jersey è rigoglioso e lussureggiante, ma i critici hanno ragione su due punti. Primo, le nostre città sono più che degradate. Trenton, Newark, Atlantic City, scegliete voi, non meritano molto rispetto e non ne godono. Prendete Newark. Ho amici cresciuti a Quincy, Massachusetts, che dicono sempre di essere di Boston. Ho altri amici cresciuti a Bryn Mawr che dicono di essere di Filadelfia. Io sono cresciuto a meno di quindici chilometri di distanza da Newark: e non ho mai detto, né mai ho sentito nessuno dire, di essere di Newark. Secondo punto. Non mi interessa cosa possono dire gli altri, ma negli acquitrini del New Jersey settentrionale c'è un certo odore, a volte leggero ma in ogni caso inequivocabile. E non è piacevole. Non sembra un odore naturale, fa pensare al fumo, agli agenti chimici, a una fossa settica che perde. Fu questo il tanfo che ci accolse quando scendemmo dall'auto davanti al magazzino della QuickGo. «Hai scorreggiato?» mi chiese Squares.
Lo guardai. «Dài, sto solo cercando di allentare la tensione.» Entrammo. I fratelli Muller valevano circa cento milioni di dollari a testa, ma si dividevano un modesto ufficio in mezzo a una specie di hangar. Le scrivanie, che sembravano acquistate a una svendita di vecchio arredamento scolastico, erano sistemate una di fronte all'altra. Le sedie erano di un modello pre-ergonomico, non si vedevano computer, fax o fotocopiatrici, ma soltanto le scrivanie con due alti schedari metallici e un paio di telefoni. Le pareti erano di vetro, ai fratelli piaceva guardare gli scatoloni e i carrelli elevatori e non gli interessava granché se qualcuno guardava loro. I due fratelli si assomigliavano e vestivano allo stesso modo. Indossavano pantaloni scuri e camicia bianca botton-down sopra magliette della salute con il collo a V. Le camicie erano sbottonate in modo che si vedessero spuntare da sotto i peli grigi simili a lana d'acciaio. I fratelli si alzarono e puntarono su Squares i loro più ampi sorrisi. «Lei deve essere il guru della signorina Sonay» disse uno dei due. «Yogi Squares.» Squares rispose con un cenno del capo sereno, da saggio. Si precipitarono entrambi a stringergli la mano, mi aspettavo che da un momento all'altro si buttassero in ginocchio. «Ci siamo fatti spedire i nastri la scorsa notte» disse il più alto dei due, chiaramente desideroso di approvazione. Squares lo degnò di un altro cenno del capo. Ci fecero attraversare il magazzino, si sentiva il bip-bip dei veicoli industriali in retromarcia, vedemmo aprirsi porte simili a quelle dei garage, al di là delle quali venivano caricati i camion. I fratelli salutavano ogni dipendente e ognuno dei dipendenti rispondeva al salute. Entrammo in una stanza priva di finestre. Un televisore con un'antenna a forma di appendiabiti e un videoregistratore erano posati su uno di quei carrelli che non avevo più visto dai tempi delle elementari, quando ce li portava in classe il ragazzo degli audiovisivi. Il fratello più alto accese il televisore e dallo schermo si sprigionò elettricità statica. Poi infilò una cassetta nel videoregistratore. «Questa copre dodici ore» disse. «Quel tipo è entrato nel negozio attorno alle tre, giusto?» «Così ci è stato detto.» «Io l'ho regolato alle due e quarantacinque. Il nastro si muove con una certa velocità, perché cattura solo un'immagine ogni tre secondi. A proposito, mi spiace ma l'avvolgimento veloce non funziona. E non abbiamo nemmeno un telecomando, quindi appena è pronto prema il tasto "Play".
Pensiamo che vogliate un po' di privacy, quindi vi lasciamo soli. Prendetevela comoda.» «Potremmo avere bisogno di tenerci la cassetta» osservò Squares. «Nessun problema, possiamo fare delle copie.» «Grazie.» Uno dei due fratelli strinse di nuovo la mano a Squares. L'altro, e non me lo sto inventando, fece un rapido inchino. Poi fummo lasciati soli. Feci partire il videoregistratore e l'elettricità statica scomparve insieme con il sonoro. Sul televisore girai la manopola del volume ma, naturalmente, non esisteva sonoro. Le immagini erano in bianco e nero. In un angolo dello schermo si vedeva un orologio. La telecamera riprendeva dall'alto il registratore di cassa, dietro il quale sedeva una giovane donna dai lunghi capelli biondi. Il suo muoversi a scatti, ogni tre secondi, mi diede le vertigini. «Come facciamo a riconoscere questo Owen Enfield?» mi chiese Squares. «Cercando un quarantenne dai capelli corti, immagino.» Cominciai a pensare che questa ricerca potesse rivelarsi più semplice di quanto immaginavo. I clienti erano tutti anziani e in tenuta da golf, probabilmente Stonepointe godeva di un certo fascino soprattutto tra i pensionati. Mi ripromisi di chiederlo a Yvonne Sterno. Lo individuammo alle tre, otto minuti e quindici secondi. Di schiena, comunque. Indossava pantaloncini e una camicia a mezze maniche, non riuscimmo a vedere la faccia ma portava i capelli cortissimi. Passò davanti al registratore di cassa e si diresse all'ultimo bancone. Aspettammo. Alle tre, nove minuti e ventiquattro secondi il potenziale Owen Enfield spuntò da dietro un altro bancone e si presentò davanti alla bionda con i capelli lunghi seduta alla cassa. Aveva in mano una confezione di qualcosa che sembrava latte e una pagnotta. Poggiai il dito sul pulsante "Stop", per fermare l'immagine e guardare meglio il nostro soggetto. Ma non ce ne fu bisogno. Il pizzetto avrebbe potuto fuorviare, così come i capelli grigi tagliati cortissimi. Se avessi guardato distrattamente questa cassetta o se fossi passato davanti al monitor in una strada trafficata, avrei potuto non accorgermene. In quel momento invece non ero assolutamente distratto, ma concentratissimo. Premetti il pulsante "Pause" quando sull'orologio dell'immagine registrata si leggevano le tre, nove minuti e cinquantuno secondi.
Ogni dubbio venne cancellato. Rimasi lì, immobile. Non sapevo se avrei dovuto festeggiare o piangere. Mi voltai verso Squares, che teneva gli occhi su di me invece che sullo schermo. Annuii, confermandogli ciò che lui già sospettava. Owen Enfield era mio fratello Ken. 40 Si udì il ronzio dell'interfono. «Signor McGuane, sono arrivati i signori Joshua Ford e Raymond Cromwell» annunciò la ragazza della reception, che era anche nello staff della sicurezza interna. Joshua Ford era socio anziano dello Stafford, Cummings and Ford, uno studio legale che dava lavoro a oltre trecento avvocati. Raymond Cromwell doveva essere quindi il collaboratore incaricato di prendere appunti e di fatturare il tempo extra. Philip li guardò entrambi sul monitor. Ford era un omone di un metro e novanta che doveva pesare un centinaio di chili. Aveva la fama di duro, aggressivo, scostante e, a conferma di questo profilo, muoveva i muscoli facciali e la bocca come se stesse mordendo un sigaro o una gamba umana. Cromwell, al contrario, era giovane, carino, fresco di manicure e liscio come la cera. McGuane spostò lo sguardo sul Fantasma, che gli sorrise, e si sentì ancora una volta come colpito da una folata gelida. Di nuovo si chiese se era stata una mossa intelligente fare entrare Asselta in quella faccenda. Alla fine, però, aveva deciso che non era il caso di preoccuparsi, perché anche il Fantasma aveva un suo interesse in gioco. E, a parte ciò, il Fantasma ci sapeva fare in circostanze del genere. «Faccia entrare soltanto il signor Ford» disse McGuane all'interfono, senza distogliere lo sguardo da quel sorriso agghiacciante. «E faccia accomodare il signor Cromwell nella sala d'attesa.» «Sì, signor McGuane.» Aveva riflettuto su come gli sarebbe convenuto giocarsela. Non gli interessava la violenza fine a se stessa, ma non per questo se ne asteneva. Era un mezzo per raggiungere un fine. Il Fantasma aveva ragione a proposito di quella stronzata dell'ateo dentro la trincea. La verità è che siamo soltanto degli animali, o organismi, se si preferisce, leggermente più complessi di un qualsiasi protozoo. Morendo si scompare, ed è semplicemente da megalomani ritenere che gli esseri umani siano in qualche modo al di so-
pra della morte, che abbiano l'abilità di trascenderla a differenza di tutte le altre creature. In vita siamo una categoria speciale, dominante, perché la più forte e la più spietata. Deteniamo il potere, noi. Ma credere che da morti siamo diversi agli occhi del Signore, che possiamo ingraziarcelo strisciando come vermi e baciandogli il culo... be', non per fare il comunista, ma questo è il meccanismo speculativo del quale i ricchi si sono sempre serviti per tenere i poveri al posto loro fin dall'inizio del genere umano. Il Fantasma si avvicinò alla porta. Per raggiungere determinati obiettivi si usano tutti i mezzi. McGuane ricorreva spesso a scorciatoie che altri consideravano tabù. Non si uccide mai, per esempio, un federale, un procuratore distrettuale o un poliziotto: McGuane li aveva fatti fuori tutti e tre. Non si attacca mai, per fare un altro esempio, la gente potente che potrebbe crearti problemi e attirare l'attenzione. McGuane non si atteneva nemmeno a questo principio. Quando Joshua Ford aprì la porta, il Fantasma lo aspettava stringendo in mano una mazza di ferro. Era lunga più o meno come una mazza da baseball, ma dotata di una molla che ne aumentava la devastante potenza. Se si decideva di colpire qualcuno alla testa, a prescindere dalla forza usata, quella mazza era in grado di spaccare il cranio come un guscio d'uovo. Joshua Ford entrò con il passo spavaldo del ricco e sorrise a McGuane. «Signor McGuane.» McGuane ricambiò il sorriso. «Signor Ford.» Avvertendo una presenza alla sua destra, Ford si voltò verso il Fantasma con la mano tesa per una stretta di circostanza. Ma il Fantasma stava guardando da un'altra parte. Mirò allo stinco e diede un colpo secco. Ford emise un grido e crollò sul pavimento come una marionetta alla quale avessero tagliato i fili. Il Fantasma tornò a colpirlo, stavolta alla spalla destra, e Ford non sentì più il braccio. Il Fantasma gli assestò una mazzata alla gabbia toracica: si udì una specie di crepitio e Ford tentò di sottrarsi ai colpi appallottolandosi. «Dov'è?» chiese McGuane, dall'altra estremità dell'ufficio. Joshua Ford emise una specie di gracidio: «Chi?». Grosso errore. Il Fantasma fece abbattere la sua arma sulla caviglia di Ford, che ululò di dolore. McGuane spostò lo sguardo sul monitor della TV a circuito chiuso. Cromwell se ne stava comodamente seduto in sala d'attesa e non sentiva nulla. Nessuno avrebbe sentito nulla. Il Fantasma colpì ancora il legale, sullo stesso punto della caviglia. Si udì un rumore simile a quello della ruota di un camion che passa su una
bottiglia di birra. Ford sollevò una mano, chiedendo pietà. Con il passare degli anni, McGuane aveva capito che è preferibile colpire prima di interrogare. Moltissimi, di fronte alla minaccia del dolore fisico, tentano di cavarsela convincendoti a non farlo, e questo è doppiamente vero per quelli che sono abituati a usare la lingua. Cercheranno appigli, mezze verità, bugie credibili. Sono persone razionali e pensano che altrettanto debbano esserlo i loro avversari. Le parole possono essere usate per disinnescare un pericolo. Quindi bisogna togliere alle vittime un'illusione del genere. Il dolore e la sofferenza che si accompagnano a un'improvvisa aggressione fisica hanno un effetto devastante sulla psiche. Il ragionamento cognitivo o, se si preferisce, l'intelligenza dell'individuo evoluto svanisce, crolla. E si torna uomo di Neanderthal, quell'essere primitivo che è capace soltanto di sottrarsi al dolore. Il Fantasma guardò McGuane, che annuì. Allora si fece da parte per permettergli di avvicinarsi. «Si è fermato a Las Vegas» spiegò McGuane. «E questo è stato il suo grosso errore. Lì è andato da un dottore. Abbiamo controllato i tabulati di tutte le cabine telefoniche vicine, per controllare le chiamate interstatali fatte un'ora prima e un'ora dopo la visita dal medico. E ne abbiamo trovato soltanto una interessante: a lei, avvocato Ford. È a lei che ha telefonato. Per maggiore sicurezza ho incaricato uno dei miei di tenere d'occhio il suo ufficio. Ieri i federali le hanno fatto una visita, Ford. Come vede, quindi, tutto quadra. Ken aveva bisogno di un avvocato, uno duro, indipendente e non riconducibile in alcun modo a me. Uno come lei, insomma.» «Ma...» McGuane sollevò una mano per interromperlo e Ford obbedì richiudendo la bocca. McGuane allora si fece da parte e guardò il Fantasma. «John.» Il Fantasma si avvicinò nuovamente e, senza esitazione, colpì l'avambraccio di Ford, subito sopra il gomito. Il gomito si piegò in modo innaturale. Dal viso di Ford scomparve quel po' di colore che era rimasto. «Se nega o continua a fingere di non sapere di che cosa sto parlando» lo minacciò McGuane «il mio amico la smetterà con le gentilezze e comincerà a farle male davvero, se capisce che cosa voglio dire.» Ford attese qualche secondo. Quando finalmente sollevò gli occhi, McGuane notò con sorpresa il suo piglio fermo. Ford guardò il Fantasma, poi McGuane. «Andate al diavolo!» Il Fantasma guardò McGuane, poi inarcò un sopracciglio. «Coraggioso.»
«John...» Ma il Fantasma lo ignorò e abbatté la mazza, simile a un colpo di frusta, sul volto di Ford. Si udì una specie di schiocco e la testa di Ford si piegò di scatto, mentre il pavimento si riempiva di schizzi di sangue. Ford ricadde restando immobile e il Fantasma si preparò ad assestargli un'altra mazzata su un ginocchio. «Ha perso conoscenza?» chiese McGuane. La domanda fermò il Fantasma, che s'inginocchiò. «No, ma il respiro è irregolare.» Si rialzò. «Un'altra botta e il signor Ford potrebbe farsi un bel sonno eterno.» McGuane ci pensò su. «Signor Ford?» Quello sollevò lo sguardo. «Dov'è?» gli chiese ancora. Questa volta Ford scosse la testa. McGuane si avvicinò allora al monitor e lo girò in modo da farlo vedere a Joshua Ford. Sullo schermo Cromwell, seduto con le gambe accavallate, sorseggiava un caffè. McGuane gli indicò il giovane collaboratore. Il Fantasma puntò a sua volta il dito sul monitor. «Ha delle belle scarpe. Allen-Edmonds?» Ford tentò di mettersi seduto, puntandosi con le mani sul pavimento, ma ricadde. «Quanti anni ha?» gli chiese McGuane. Ford non rispose. Il Fantasma sollevò la mazza. «Le ha chiesto...» «Ventinove.» «Sposato?» Ford annuì. «Bambini?» «Due maschi.» McGuane rimase per un po' a studiare il monitor. «Hai ragione, John, sono proprio delle belle scarpe.» Si rivolse a Ford. «Mi dica dove si trova Ken o lui morirà.» Il Fantasma depose con cura la mazza, poi s'infilò una mano in tasca e ne estrasse una bacchetta Thug da strangolamento. Il manico era di mogano, lungo venti centimetri e del diametro di cinque, di forma ottagonale e con profondi solchi per migliorare la presa. Alle due estremità era fissata una funicella intrecciata di crine. «Lui non c'entra niente» protestò Ford.
«Mi ascolti attentamente, perché non lo ripeterò» gli disse McGuane. Ford attese. «Noi non bluffiamo mai.» Il Fantasma sorrise. McGuane fece passare qualche secondo, senza staccare gli occhi da Ford. Poi premette il pulsante dell'interfono. «Sì, signor McGuane?» «Faccia entrare il signor Cromwell.» «Subito, signore.» Sul monitor si vide un robusto agente della sicurezza interna stagliarsi sulla porta della sala d'attesa e fare un cenno a Cromwell, che posò la tazza del caffè sul tavolino e si alzò sistemandosi la giacca. Ford si voltò verso McGuane e i loro sguardi s'incrociarono. «Lei è un uomo stupido» disse McGuane. Il Fantasma strinse in pugno il manico della sua arma e attese. L'agente aprì la porta e Raymond Cromwell entrò sfoggiando un sorriso di circostanza. Quando vide il sangue e il suo principale steso sul pavimento spalancò la bocca e sembrò che lo choc gli avesse mandato in corto circuito i muscoli facciali. «Ma che?...» Il Fantasma gli fu alle spalle e gli colpì con un calcio entrambe le gambe, Cromwell emise un grido e crollò in ginocchio. I movimenti del Fantasma erano coordinati e aggraziati, senza apparente sforzo, come in un grottesco balletto. La funicella calò davanti al viso dell'uomo e, quando gli cadde attorno al collo, il Fantasma diede un violento strattone spingendo al tempo stesso le ginocchia contro la spina dorsale di Cromwell. La corda si serrò sulla sua pelle liscia come cera. Il Fantasma prese a girare il manico, bloccando il flusso di sangue al cervello. Cromwell strabuzzò gli occhi, cercando di afferrare la funicella. Ma il Fantasma non mollò la presa. «Fermo!» gridò Ford. «Parlerò!» Ma non vi fu risposta. Il Fantasma mantenne lo sguardo fisso sulla sua vittima. Il viso di Cromwell aveva assunto un'orribile tonalità viola. «Ho detto...» Ford si rivolse in fretta a McGuane, assolutamente rilassato e con le braccia conserte. I due incrociarono gli sguardi. E nel silenzio immobile echeggiarono come attutiti gli orribili gorgoglii di Cromwell. «Vi prego» sussurrò Ford. Ma McGuane scosse la testa, ripetendo la frase appena pronunciata. «Noi non bluffiamo mai.»
Il Fantasma diede un altro giro all'impugnatura e mantenne la presa. 41 Dovevo parlare a mio padre di quella videocassetta. Squares mi aveva lasciato a una fermata d'autobus vicino a Meadowlands. Non avevo idea di che cosa fare, dopo avere visto ciò che avevo visto. Mentre percorrevamo la New Jersey Turnpike, e osservavo dal finestrino quel desolante paesaggio postindustriale, il mio cervello aveva inserito il pilota automatico. Era quello l'unico sistema per continuare a funzionare. Ken era effettivamente vivo. Ne avevo avuto la prova. Viveva nel Nuovo Messico e si faceva chiamare Owen Enfield. Una parte di me era in estasi. C'era una possibilità di redenzione, una possibilità di riunirmi a mio fratello, una possibilità, ardita quanto si vuole, di raddrizzare la situazione. Poi, però, pensai a Sheila. Le sue impronte digitali erano state trovate in casa di Ken, oltre ai due cadaveri. Che ruolo aveva avuto Sheila in quella storia? Non ne avevo idea, o forse non volevo prendere atto di ciò che era ovvio. Mi aveva tradito; quando il mio cervello funzionava, il tradimento prendeva forma in ogni scenario plausibile. E se rimanevo troppo tempo a pensarci, se mi permettevo di affondare in certi semplici ricordi, certi particolari come quel modo che aveva di piegare le gambe sotto il corpo quando chiacchieravamo sul divano, o di tirarsi indietro i capelli come se fosse in piedi sotto una cascatella, il suo profumo quando usciva dalla doccia avvolta nell'accappatoio, il suo indossare nelle notti d'autunno le mie felpe che le ballavano addosso, il suo canticchiarmi in un orecchio mentre ballavamo, quei suoi sguardi dall'altra parte della stanza che riuscivano a bloccarmi la respirazione... il semplice pensiero che tutto questo potesse aver fatto parte di una lunga ed elaborata menzogna... Meglio il pilota automatico. Arrancavo con in mente un unico pensiero: arrivare alla fine di quella storia. Mio fratello e la mia donna mi avevano abbandonato senza preavviso o una parola di saluto, e sapevo che non me li sarei potuti lasciare alle spalle senza conoscere la verità. Squares mi aveva messo in guardia fin dall'inizio dicendomi che ciò che avrei scoperto forse non mi sarebbe piaciuto, ma certe rivelazioni sarebbero probabilmente state necessarie. Forse
era venuto il mio turno di essere coraggioso, forse avrei salvato io Ken e non il contrario. Era su questo che avrei dovuto concentrarmi: Ken era vivo. Ed era innocente. Se fino ad allora avevo inconsciamente nutrito dei dubbi sulla sua innocenza, aveva provveduto Pistillo a cancellarli. Avrei potuto rivederlo, stare con lui. Avrei potuto, chissà, riabilitare il passato, far riposare in pace mia madre, qualcosa del genere. A proposito di mamma. L'ultimo giorno di lutto ufficiale mio padre non era in casa. Zia Selma, che sfaccendava in cucina, mi disse che era andato a fare due passi. Indossava un grembiule, zia Selma, e mi chiesi dove l'avesse preso perché in casa nostra non c'erano grembiuli, ne ero sicuro. Se l'era forse portato dietro? La zia era il tipo di donna che sembra sempre in grembiule anche se non ce l'ha addosso, non so se rendo l'idea. La osservai mentre puliva l'acquaio. Selma era la sorella tranquilla di Sunny e tranquillamente arrancava, l'avevo sempre dato per scontato e come me molti altri, credo. Selma... Selma c'era, e basta. Era una di quelle persone che vivono sotto la quota minima rilevabile dal radar, come se temessero di attirare l'attenzione del destino. Lei e lo zio Murray non avevano figli, non so perché, anche se ricordo di avere per caso sentito i miei genitori parlare di un bimbo nato morto. Mi alzai e la guardai come se la vedessi per la prima volta, un altro essere umano che lottava ogni giorno per vivere nel giusto. «Grazie» le dissi. Selma annuì. Desideravo spiegarle che le volevo bene, che la ringraziavo, che mi sarebbe piaciuto rafforzare i rapporti tra noi e loro specialmente ora che mamma non c'era più, sapevo che mamma l'avrebbe voluto. Ma non ce la feci e allora l'abbracciai. Selma dapprima s'irrigidì, colpita da questa inaspettata dimostrazione di affetto, ma poi si rilassò. «Va tutto bene» mi disse. Conoscevo l'itinerario delle passeggiate che mio padre preferiva. Attraversai Coddington Terrace, tenendomi accuratamente alla larga dalla casa dei Miller. Anche mio padre la evitava, lo sapevo, aveva cambiato itinerario anni fa. Passai dal prato degli Jarat e da quello degli Arnay, poi imboccai il sentiero che attraversava Meadowbrook raggiungendo i campi da baseball della Little League. Erano deserti perché la stagione era terminata, e mio padre se ne stava seduto tutto solo sull'ultima delle gradinate. Ricordo ancora quanto gli piaceva allenare, quanto gli piaceva quella T-shirt bianca con le maniche verdi a tre quarti e la scritta SENATORS sul petto, il ber-
retto verde con la S alto sulla fronte. Amava la panchina, dove sedeva con le braccia poggiate sulle sbarre rugginose mentre sotto le ascelle gli si formava un alone di sudore. Teneva il piede destro sul terreno, il sinistro sul cemento, e con un movimento lento e armonioso si toglieva il berretto, si asciugava il sudore della fronte con l'avambraccio e poi se lo calcava nuovamente sulla testa. In quelle serate di tarda primavera gli si illuminava il viso, specialmente quando giocava Ken. Allenava insieme ai signori Bertillo e Horowitz, i suoi migliori amici e compagni di bevute, entrambi morti d'infarto prima dei sessant'anni: e, sedendo ora accanto a lui, sapevo che udiva ancora quegli applausi e l'eco degli sfottò, che continuava a sentire quel caratteristico odore dolciastro di argilla. Mi guardò e sorrise. «Rammenti quell'anno che tua madre si mise a fare l'arbitro?» «Vagamente. Quanti anni avevo, quattro?» «Sì, più o meno.» Scosse la testa, sempre sorridendo, perso nei suoi ricordi. «È successo al culmine della fase femminista di mamma. Indossava T-shirt con slogan tipo "Il posto della donna è in Camera (e al Senato)", roba del genere. Non dimenticare che questo succedeva qualche anno prima che le ragazze fossero ammesse a giocare nella Little League. Be', un bel giorno tua madre venne a sapere che non esistevano arbitri donna: allora si lesse attentamente tutte le norme della Little League, scoprendo che non c'era alcun articolo che vietasse alle donne di arbitrare.» «E quindi si è iscritta?» «Sì.» «E poi?» «I vecchi soloni del baseball rischiarono l'infarto, ma le regole andavano rispettate e la lasciarono arbitrare. Emersero subito, però, un paio di problemi.» «Tipo?» «Mamma si dimostrò il peggiore arbitro al mondo.» Papà sorrise di nuovo, un sorriso che non vedevo da tempo, così radicato nel passato da farmi stare male. «Conosceva a malapena le regole. E la sua vista, come sai, non era certo delle migliori. Ricordo che al primo incontro sollevò il pollice urlando: "Safe!". Ogni volta che decideva su una palla faceva una serie di piroette, come in una coreografia di Bob Fosse.» Ridemmo entrambi e mi immaginai lui che assisteva, imbarazzato ma anche eccitato, agli istrionismi di mamma. «E gli allenatori non s'imbestialivano?»
«Certo, ma sai che cosa fecero i dirigenti della Little League?» Scossi la testa. «Le affiancarono come arbitro Harvey Newhouse. Te lo ricordi?» «Il figlio era nel mio stesso corso. Harvey era un giocatore professionista di football, no?» «Sì, con i Rams. Pesava sicuramente oltre centotrenta chili. Lui si metteva dietro il battitore, mentre mamma stava in mezzo al campo: ogni volta che un allenatore cominciava a dar fuori di matto, Harvey lo guardava minaccioso e quello tornava a sedersi in panchina.» Ridemmo di nuovo, e tra noi cadde un dolce silenzio, mentre ci chiedevamo entrambi come potesse essere stato in pratica annientato, ancora prima dell'insorgere della malattia, uno spirito come quello di mamma. Poi mio padre si voltò a guardarmi, e spalancò gli occhi notando come ero conciato in viso. «Che diavolo ti è successo?» «Niente di grave, stai tranquillo.» «Hai fatto a cazzotti?» «È tutto a posto, ti assicuro. Ho bisogno di parlarti.» Lui tacque. Non sapevo da dove cominciare, ma fu proprio papà a togliermi d'impaccio. «Fammela vedere.» Lo guardai. «Mi ha chiamato tua sorella, stamattina. Mi ha detto di quella foto.» Ce l'avevo ancora in tasca e la tirai fuori. Lui se la tenne sul palmo della mano, come se fosse stato un animaletto che temeva di schiacciare. Po abbassò lo sguardo. «Mio Dio!» I suoi occhi si fecero lucidi. «Non lo sapevi?» gli chiesi. «No.» Guardò di nuovo la foto. «Mamma non mi aveva mai detto niente fino a quando...» Vidi qualcosa passargli sul viso. Sua moglie, la compagna della sua vita, glielo aveva nascosto e questo gli bruciava. «C'è qualcos'altro» dissi. Si voltò verso di me. «Ken ha vissuto in Nuovo Messico.» Gli feci una sintesi di quello che ero venuto a sapere e papà sorbì le mie parole tranquillo e in silenzio, come se avesse trovato l'equilibrio in piedi su una barca. «Da quanto tempo viveva lì?» mi chiese alla fine. «Pochi mesi. Perché?» «Tua madre mi aveva detto che stava per tornare a casa, appena fosse riuscito a provare la sua innocenza.»
Rimanemmo seduti in silenzio. Supponiamo che le cose siano andate così, pensai, cioè che undici anni fa Ken sia stato incastrato. E che sia fuggito all'estero, come avevano scritto i giornali. Gli anni passano. E lui torna a casa. Perché? Per provare la sua innocenza, come sosteneva mia madre? Plausibile, certo: ma perché proprio ora? Non lo sapevo, ma per un motivo o per l'altro Ken era tornato, e il suo piano era fallito. Qualcuno l'aveva scoperto. Chi? La risposta sembrava ovvia: chi aveva ucciso Julie. Questa persona, uomo o donna che fosse, doveva far tacere Ken. E poi? Vai a sapere. Mancavano ancora dei tasselli. «Papà?» «Sì?» «Hai mai avuto il sospetto che Ken fosse vivo?» Prese tempo. «Era più facile pensare che fosse morto.» «Non è una risposta.» Il suo sguardo prese di nuovo a vagare. «Ken ti amava tanto, Will.» La frase rimase come sospesa a mezz'aria. «Ma non era del tutto pulito» aggiunse papà. «Lo so» dissi. Assorbì quelle parole prima di riprendere. «Quando Julie fu uccisa, Ken era già nei guai.» «In che senso?» «Era venuto a casa a nascondersi.» «Da che cosa?» «Non ne ho idea.» Ci riflettei su, ricordando ancora una volta che mancava da casa da oltre un anno e mi era sembrato agitato, anche quando mi chiedeva di Julie. E non sapevo proprio come interpretare quel suo modo di fare. «Te lo ricordi Philip McGuane?» mi chiese papà. Annuii. Philip era un vecchio amico di Ken dei tempi del liceo, il "leader del corso", e ora si mormorava fosse "ammanicato" con ambienti non proprio rispettabili. «Ho sentito che è andato ad abitare nella vecchia casa dei Bonano.» Quando ero ragazzo, i Bonano, nota famiglia mafiosa, vivevano nella più grossa tenuta di Livingston, quella con la cancellata e i due leoni di pietra a guardia del vialetto. Secondo certe voci - e come avrete capito i piccoli comuni dell'hinterland pullulano di voci - in quella proprietà c'era-
no sotterrati dei cadaveri, la recinzione era attraversata dall'alta tensione e se un ragazzino avesse tentato di entrare passando dal bosco si sarebbe preso una pallottola in testa. Dubitavo che quelle voci fossero attendibili, ma la polizia arrestò il vecchio Bonano quando aveva novantun anni. «Perché mi hai fatto il nome di McGuane?» «Ken se la faceva con lui.» «In che senso?» «Non so dirti altro.» Pensai al Fantasma. «C'era di mezzo anche John Asselta?» Mio padre s'irrigidì e nei suoi occhi lessi la paura. «Perché mi fai questa domanda?» «Perché loro tre al liceo erano amiconi...» Poi decisi di giocare a carte scoperte. «L'ho visto di recente.» «Asselta?» «Sì.» Gli si era ammorbidita la voce. «È tornato?» Annuii. Papà chiuse gli occhi. «Che c'è?» gli chiesi. «È pericoloso.» «Lo so.» Lui puntò il dito contro il mio viso. «È stato lui?» Bella domanda, pensai. «In parte, almeno.» «In parte?» «È una lunga storia, papà.» Chiuse nuovamente gli occhi. Quando li riaprì, si mise le mani sulle cosce e si alzò. «Andiamo a casa.» Volevo chiedergli qualcos'altro, ma sapevo che quello non era il momento giusto. Papà ebbe qualche problema a scendere quelle traballanti gradinate. Gli tesi una mano, ma la rifiutò. Una volta messo piede sulla ghiaia ci incamminammo verso il sentiero. Dove, con un sorriso paziente e le mani in tasca, ci aspettava il Fantasma. Per un attimo credetti fosse uno scherzo della mia immaginazione, quasi che l'averci pensato avesse prodotto quell'orribile visione. Ma sentii mio padre prendere fiato di scatto. E poi udii quella voce. «Che scena toccante» disse il Fantasma. Mio padre mi si mise davanti quasi volesse farmi da scudo. «Che cosa vuoi?» gridò.
Ma il Fantasma scoppiò a ridere. «"Accidenti, figliolo"» disse, facendo il verso a qualcuno «"quando in quel big match sono stato eliminato ho avuto bisogno di un intero pacchetto di Life Savers per sentirmi meglio."» Restammo con i piedi inchiodati al suolo. Il Fantasma alzò gli occhi al cielo, poi li chiuse e si riempì d'aria i polmoni. «Ah, la Little League.» Abbassò lo sguardo su mio padre. «Ricorda quella volta che il mio vecchio si presentò alla partita, signor Klein?» Papà serrò la mascella. «Fu un gran momento, Will, te l'assicuro. Il mio caro padre era così ubriaco che si liberò la vescica accanto allo snack-bar. Te l'immagini? Temetti che alla signora Tansmore venisse un infarto.» Rise contento, e l'eco di quella risata mi artigliò il cuore. «Bei tempi, eh?» aggiunse quando l'eco svanì. «Che cosa vuoi?» gli chiese ancora mio padre. Ma il Fantasma ormai aveva preso il via e nulla l'avrebbe fatto deviare. «Dica un po', signor Klein, ricorda quando allenò quella squadra di all-star alle finali dello Stato?» «Sì.» «Ken e io eravamo, vediamo... in quarta elementare, no?» Silenzio da parte di papà. Il Fantasma fece schioccare le dita. «No, un momento.» Il sorriso gli scomparve dal viso. «Me ne stavo dimenticando. Quell'anno non andai a scuola, vero? E nemmeno l'anno dopo. Ero in prigione, sa?» «Non sei mai andato in prigione» disse papà. «Vero, vero, ha proprio ragione signor Klein. Ero...» e il Fantasma con le sue dita ossute fece il segno delle virgolette «"ospedalizzato". Lo sai che cosa significa, caro il mio Will? Che rinchiudono un ragazzino insieme con i più depravati segaioli che abbiano mai infestato questo sventurato pianeta, e lo fanno per il suo bene, ovviamente. Il mio primo compagno di stanza si chiamava Timmy ed era un piromane. Alla tenera età di tredici anni Timmy aveva ucciso i genitori dandogli fuoco. Una notte rubò a un inserviente ubriaco una scatola di fiammiferi e diede fuoco al mio letto, dovettero ricoverarmi per tre settimane nel centro medico. Ebbi la tentazione di darmi fuoco per non tornare nella mia stanza.» Un'auto passò per Meadowbrook Road. Vidi sul sedile posteriore un ragazzino, appollaiato su un qualche seggiolino di sicurezza. Non c'era vento e gli alberi erano troppo immobili. «È successo tanto tempo fa» disse piano mio padre.
Il Fantasma socchiuse gli occhi come se stesse riservando alle parole di mio padre una particolare attenzione. «È vero, ha assolutamente ragione signor Klein. E non è che la mia vita in famiglia fosse il massimo, come base di partenza. Che prospettive avevo, voglio dire? Quello che mi è successo potrebbe perfino considerarsi una fortuna, nel senso che invece di tenermi a casa insieme a un padre manesco mi hanno curato.» Capii allora che stava parlando dell'uccisione di Daniel Skinner, l'attaccabrighe fatto fuori con un coltello da cucina. Ma ciò che mi colpì, ciò che mi fece riflettere, fu la constatazione che la sua storia era simile a quella di tanti ragazzi che aiutiamo a Covenant House: vittime di abusi in famiglia, primi reati in età giovanissima, una qualche forma di psicosi. Tentai di guardare il Fantasma come avrei guardato uno dei nostri assistiti, ma le immagini non erano sovrapponibili. Non era più un ragazzino. Non so a quale età varcano quella soglia, a quale età si trasformano da adolescenti bisognosi di aiuto in degenerati che dovrebbero finire al fresco: e forse anche questo modo di vedere non era corretto. «Ehi, Willie boy.» Il Fantasma cercò di incrociare il mio sguardo, ma mio padre intromise il suo. Gli misi una mano sulla spalla per fargli capire che sapevo cavarmela da solo. «Che c'è?» gli chiesi. «Lo sai che sono stato» nuovo segno delle virgolette con le dita «"ospedalizzato" un'altra volta, vero?» «Sì.» «Io ero al quarto anno, tu al secondo.» «Me lo ricordo.» «E per tutto il tempo che ci sono rimasto, soltanto una persona è venuta a trovarmi. Lo sai chi era questa persona?» Annuii. Era Julie. «Ironico, non trovi?» «L'hai uccisa tu?» gli chiesi. «Solo uno di noi ne ha la colpa.» Mio padre si interpose un'altra volta. «Ora basta.» Mi avvicinai al Fantasma. «Che vuoi dire?» «Tu, Willie boy. Proprio tu.» Ero confuso. «Che cosa...» «Ora basta» ripeté mio padre. «Avresti dovuto lottare per lei» continuò il Fantasma. «Avresti dovuto
proteggerla.» Quelle parole, anche se pronunciate da un folle come Asselta, mi penetrarono nel petto come una piccozza. «Che ci fai qui?» gli chiese mio padre. «Vuole la verità, signor Klein? Non ne sono sicuro.» «Lascia in pace la mia famiglia. Se devi prendere qualcuno, prendi me.» «No, signore, non voglio lei.» Sembrò soffermarsi su mio padre e sentii qualcosa di freddo afferrarmi lo stomaco. «Credo di preferirla così com'è.» Il Fantasma ci fece un breve saluto con la mano e si inoltrò nella zona alberata. Lo vedemmo addentrarsi nel boschetto e la sua immagine si affievolì progressivamente fino a scomparire, proprio come un fantasma. Restammo lì, io e papà, ancora per uno o due minuti. Udivo il suo respiro rauco e metallico, un respiro che sembrava provenire dal fondo di una caverna. «Papà?» Ma lui si era rimesso in cammino. «Andiamo a casa, Will.» 42 Mio padre non aprì bocca. Rientrati a casa si diresse subito in camera da letto, quella che aveva diviso con mia madre per quasi quarant'anni, e chiuse la porta. Mi venivano in mente tanti pensieri ai quali cercai di dare ordine, ma erano troppi. Il mio cervello minacciava di abbassare la saracinesca. Eppure non sapevo abbastanza, non ancora: e avevo bisogno di sapere di più. Sheila. Esisteva un'altra persona in grado di gettare un po' di luce su quell'enigma che era stato l'amore della mia vita. Così feci le mie scuse, salutai e tornai in città. Il cielo aveva cominciato a incupirsi e la zona era brutta ma, per una volta in vita mia, avevo superato la fase paura. La porta si socchiuse, trattenuta dalla catena, prima ancora che avessi bussato. «Dorme» disse Tanya. «È con te che voglio parlare.» «Non ho niente da dire.» «Ti ho visto alla cerimonia di suffragio.» «Vattene.» «Ti prego. È importante.» Tanya sospirò e tolse la catena. Scivolai in casa. La lampada schermata
era all'altra estremità della stanza e diffondeva un debole chiarore. Mentre facevo vagare lo sguardo su quel posto così deprimente mi chiesi se per caso Tanya non ne fosse, al pari di Louis Castman, una prigioniera. La fissai e lei si ritrasse, quasi che il mio sguardo avesse il potere di ustionarla. «Quanto tempo ancora pensi di tenerlo qui?» le chiesi. «Non ho fatto progetti.» Tanya non mi invitò a sedere e rimanemmo in piedi a fissarci. Lei incrociò le braccia e attese. «Perché sei venuta alla cerimonia?» le domandai. «Volevo renderle omaggio.» «Conoscevi Sheila?» «Sì.» «Eravate amiche?» È probabile che abbia sorriso. Ma aveva un viso così straziato, con le cicatrici accanto alla bocca simili a serpi, che non potei esserne certo. «Nemmeno un po'.» «Perché sei venuta, allora?» «Vuoi sentire qualcosa di veramente strano?» Non sapevo che cosa rispondere, quindi chinai la testa. «È stata la prima volta in sedici mesi che sono uscita da questa casa.» Nemmeno stavolta sapevo bene che cosa dire. Me la cavai quindi con un: «Mi fa piacere che tu sia qui». Lei mi guardò scettica. Nella stanza si udiva soltanto il suo respiro. Non so che cosa non andasse nel suo fisico, non so se c'entrasse il brutale pestaggio che aveva subito, ma ogni suo respiro sembrava uscire da una stretta cannuccia di paglia con qualche goccia di liquido ancora appiccicata dentro. «Ti prego, dimmi perché sei venuta.» «Te l'ho detto, volevo salutarla per l'ultima volta.» Fece una pausa. «E ho pensato che avrei potuto essere d'aiuto.» «Aiuto?» Guardò la porta della stanza dove giaceva Louis Castman e seguii il suo sguardo. «Mi ha detto perché eri venuto qui. Così ho pensato che magari avrei potuto darti qualche elemento.» «Che cosa ti ha raccontato, Castman?» «Che eri innamorato di Sheila.» Si fece più vicina alla lampada ed era difficile non distogliere lo sguardo dal suo viso. Finalmente si sedette, facendomi segno di imitarla. «È vero?»
«Sì.» «L'hai uccisa tu?» La domanda mi fece trasalire. «No.» Non mi sembrò convinta. «Non capisco. Sei venuta per aiutarmi?» le chiesi. «Sì.» «E perché allora sei scappata?» «Non riesci a immaginarlo?» Scossi la testa. Le mani le caddero in grembo e il corpo cominciò a dondolare avanti e indietro. «Tanya?» «Ho sentito il tuo nome.» «Come dici?» «Mi hai chiesto perché ero scappata.» Il dondolio s'interruppe. «L'ho fatto perché ho sentito il tuo nome.» «Non capisco.» Fissò di nuovo la porta. «Louis non sapeva chi eri. E nemmeno io, fino a quando al funerale non ho sentito pronunciare il tuo nome, durante l'orazione funebre di Squares. Tu sei Will Klein.» «Sì.» La sua voce si fece più fioca, al punto che dovetti sporgermi per sentire. «E sei il fratello di Ken.» Silenzio. «Conoscevi mio fratello?» «Ci eravamo conosciuti tanto tempo fa.» «Come?» «Attraverso Sheila.» Si raddrizzò sulla sedia e fissò lo sguardo su di me. «Louis ti ha parlato di un grosso gangster che si era messo con Sheila.» «Sì.» «Era tuo fratello.» Stavo per protestare, ma mi bloccai accorgendomi che aveva ancora qualcosa da aggiungere. «Sheila non aveva molto in comune con questo ambiente. Era troppo ambiziosa. Lei e Ken si erano trovati. Lui l'aveva sistemata in un elegante college del Connecticut, ma in pratica solo perché vendesse droga. Da queste parti per un posto a un angolo di strada dove poter spacciare ci si scanna, letteralmente. Ma se riesci a controllare il traffico di droga in un colle-
ge per ragazzi ricchi, hai fatto la tua fortuna.» «Mi stai dicendo che è stato mio fratello a mettere in piedi questo business?» Riprese a dondolarsi. «E tu mi stai seriamente dicendo che non lo sapevi?» «Proprio così.» «Pensavo...» S'interruppe. «Che cosa?» «Non lo so che cosa pensavo.» «Ti prego.» «È strano. Prima Sheila sta con tuo fratello, poi all'improvviso spunta accanto a te. E tu dai l'impressione di essere all'oscuro di tutto.» Ancora una volta non seppi che cosa ribattere. «Che cos'è successo, allora, a Sheila?» «Lo sai meglio di me.» «No, mi riferisco ad allora. A quando lei era al college.» «Dopo che lasciò la strada non l'ho più vista. Mi telefonò un paio di volte, tutto qui. Ma anche le telefonate finirono. Ken significava brutte notizie, mentre tu e Squares mi siete sembrati a posto. Chissà, mi ero detta, forse Sheila ha trovato qualcosa di buono. Poi però ho udito il tuo nome...» Si strinse nelle spalle, come per allontanare quel pensiero. «Il nome Carly ti dice niente?» «No. Dovrebbe?» «Lo sapevi che Sheila aveva una figlia?» La domanda fece riprendere il dondolio di Tanya. «Oh Dio!» esclamò con voce addolorata. «Lo sapevi?» Scosse la testa decisa. «No.» La incalzai con un'altra domanda. «Conosci un certo Philip McGuane?» «No.» «E John Asselta? Oppure Julie Miller?» «No» disse in fretta. «Non ho mai sentito nessuno di questi nomi.» Si alzò allontanandosi di scatto da me. «Avevo sperato che fosse riuscita a fuggire» disse. «C'era riuscita, per un certo tempo.» La vidi curvare le spalle e il respiro le si fece ancor più affannoso. «Avrebbe dovuto andarle meglio.» A quel punto Tanya si diresse alla porta di casa, ma non la seguii. Guar-
dai in direzione della stanza di Louis Castman. E ancora una volta pensai che in quella casa i prigionieri erano due. Tanya si fermò e avvertii i suoi occhi su di me. Mi voltai a guardarla. «Esistono delle tecniche operatorie» le dissi. «Squares conosce un sacco di gente. Possiamo aiutarti.» «No, grazie.» «Non puoi vivere per sempre di vendetta.» Abbozzò un sorriso. «Tu pensi che si tratti di questo?» Puntò un dito contro il suo viso martoriato. «Credi che sia per questo che lo tengo chiuso qui?» Ero ancora una volta confuso. Tanya scosse di nuovo la testa. «Te l'ha detto come aveva ingaggiato Sheila?» Annuii. «Lui se ne attribuisce tutto il merito, sostiene che lei era rimasta colpita dai suoi vestiti inappuntabili, dal suo modo di fare suadente. Ma quasi tutte le ragazze, anche quelle appena scese dalla corriera, hanno paura di andare da sole con un uomo. Quindi, capisci, a fare la differenza è stata una circostanza: Louis aveva una socia. Una donna con il compito di aiutarlo a concludere l'affare, di far sentire le ragazze al sicuro.» Attese. Aveva gli occhi asciutti. Dentro di me cominciò un tremore che ben presto trovò sfogo. Tanya andò alla porta e l'aprì. Io uscii e non tornai più. 43 Trovai due messaggi nella segreteria telefonica. Il primo l'aveva lasciato Edna Rogers, la madre di Sheila, con voce fredda e impersonale. Il funerale, m'informava, si sarebbe svolto fra due giorni in una cappella di Mason, Idaho. Seguivano l'ora, l'indirizzo e le istruzioni per raggiungere Mason da Boise. Archiviai questo messaggio. Il secondo era di Yvonne Sterno, che mi pregava di richiamarla urgentemente. Sembrava, dal tono di voce, che non riuscisse a trattenere l'eccitazione e questo mi mise a disagio. Mi chiesi se avesse scoperto la vera identità di Owen Enfield e, in tal caso, se la considerasse una scoperta positiva o negativa. Yvonne rispose al primo squillo. «Che c'è?» le chiesi.
«Un fatto grosso, Will.» «Ti ascolto.» «Avremmo dovuto rendercene conto prima.» «Di che si tratta?» «Prova a mettere insieme i pezzi. Un tipo con uno pseudonimo. Tutto quell'interesse dell'Fbi. Tutta quella segretezza. Una piccola comunità in una zona tranquilla. Mi segui?» «Direi proprio di no.» «La chiave di tutto è questa Cripco che, come ti dicevo, è una società fantasma. Ho attivato qualche fonte e mi è andata bene, anche perché quelli della Cripco non si dannano troppo per blindare la loro attività. Se qualcuno individua il soggetto, è il loro ragionamento, o sa o non sa. E non fanno un serio controllo dei precedenti.» «Yvonne?» «Sì?» «Non sto capendo assolutamente niente di ciò che dici.» «La Clipco, che ha preso in leasing la casa e l'auto di Owen Enfield, è una società messa in piedi dall'US Marshal's Office.» Ancora una volta la testa prese a girarmi come impazzita. Attesi che passasse e mi sembrò che da quella indistinta massa scura filtrasse un bagliore di speranza. «Aspetta un attimo. Mi stai dicendo che Owen Enfield è un agente infiltrato?» «No, non credo. Voglio dire, che cosa ci potrebbe essere da indagare a Stonepointe, qualcuno che bara a gin rummy?» «E allora?» «Ti ricordo che il programma di protezione dei testimoni è gestito dall'US Marshal's Office, non dall'Fbi.» Altra confusione. «Quindi, Owen Enfield...» «Proprio così, lo tenevano nascosto a Stonepointe dopo avergli dato una nuova identità. La chiave, come dicevo prima, è che non compiono troppi controlli sui precedenti. Tanta gente non lo sa. E spesso fanno delle scemenze incredibili. La mia fonte mi raccontava che una volta avevano mandato un nero trafficante di droga in una zona residenziale di Chicago abitata esclusivamente da bianchi candidi come gigli. Un fiasco completo. Non è il caso nostro ma, per quello che ho capito, questo Owen Enfield era un tipaccio, come lo sono quasi tutti quelli che entrano nel programma di protezione. Un bel giorno, per qualche motivo, Enfield ammazza quei due e scappa. L'Fbi non vuole che esca fuori la notizia e li capisco, pensa come
sarebbe stato imbarazzante se i media avessero reso noto che il governo aveva stretto un accordo con qualcuno che poi si era messo ad ammazzare la gente. Avrebbero goduto a dir poco di cattiva stampa, non so se mi spiego.» Rimasi in silenzio. «Will?» «Sì?» Ci fu una pausa. «Mi stai nascondendo qualcosa, vero?» Avrei dovuto dirle la verità o no? «Dài, Will. Il patto era che ci saremmo scambiati tutte le informazioni, io do una cosa a te e tu dai una cosa a me.» Non so che cosa le avrei detto - non so cioè se le avrei rivelato che mio fratello e Owen Enfield erano la stessa persona, dopo aver deciso che rendere questo fatto di pubblico dominio era preferibile a tenerlo nascosto ma fu qualcun altro a decidere al posto mio. Udii un clic e la linea cadde. Poi qualcuno bussò forte alla porta. «Agenti federali. Aprite subito.» Riconobbi la voce, era quella di Claudia Fisher. Misi la mano sulla maniglia e stavo per girarla quando venni quasi travolto. La Fisher fece irruzione con la pistola spianata e mi intimò di alzare le mani. Con lei c'era l'agente Darryl Wilcox e mi sembrarono entrambi pallidi, stanchi e forse anche spaventati. «Ma che diavolo succede?» «Mani in alto!» Obbedii. Lei tirò fuori le manette e stava per infilarmele, ma poi ci ripensò. Abbassò d'improvviso il tono di voce. «Viene con noi senza fare storie?» Feci segno di sì con la testa. «Allora andiamocene, forza.» 44 Non mi misi a discutere. Non risposi al loro bluff, non chiesi di fare una telefonata, nulla di tutto questo. Non gli domandai nemmeno dove stavamo andando. Proteste del genere, in una fase tanto delicata, si sarebbero potute rivelare inutili se non addirittura dannose. Pistillo mi aveva avvertito di tenermi alla larga, ed era arrivato al punto da farmi arrestare per un reato che non avevo commesso. Aveva promesso
che mi avrebbe incastrato, se se ne fosse presentata la necessità. E ciononostante io non gli avevo dato retta. Mi chiesi da dove avessi tirato fuori questo inedito coraggio e capii che non di coraggio si trattava: più semplicemente, mi ero reso conto di non avere più nulla da perdere. O forse il coraggio è proprio questo, lo dimostri cioè solo quando hai superato quel punto al di là del quale non te ne frega più niente di niente. Sheila e mia madre erano morte. Mio fratello lo consideravo ormai perduto. Se metti qualcuno con le spalle al muro vedrai venire fuori la bestia che è in lui, anche se questo qualcuno è un debole come me. Ci fermammo davanti a una fila di case nel paesino di Fair Lawn, New Jersey. Dovunque guardassi vedevo le stesse cose: praticelli in ordine, aiuole con troppi fiori, mobili da giardino un tempo bianchi e ora arrugginiti, tubi di gomma simili a serpenti collegati ad annaffiatori che sembravano barcollare in quella pigra caligine. Ci avvicinammo a una casa non diversa dalle altre e la Fisher aprì la porta d'ingresso, che non era chiusa a chiave. Mi fecero attraversare una stanza con un divano rosa e un televisore dentro il suo bravo mobiletto. Sopra questo mobiletto si vedevano le foto di due ragazzi sistemate in ordine di età, cioè da quando i due erano in fasce. Nell'ultima, ormai adolescenti e vestiti in giacca e cravatta, stavano schioccando un bacio sulle guance di una donna che presumibilmente era la loro madre. La cucina aveva una porta a battente. Pistillo era seduto al tavolo di formica con un tè freddo. La donna delle foto, probabile madre dei due ragazzi, era accanto al lavello. La Fisher e Wilcox si allontanarono, io rimasi in piedi. «Mi avete messo una cimice nel telefono» dissi. Pistillo scosse la testa. «Una cimice serve solo a sapere l'origine di una chiamata. Nel suo caso abbiamo invece usato strumenti per l'intercettazione: e con l'autorizzazione del magistrato, tanto per chiarire subito la faccenda.» «Che cosa volete da me?» «Quello che voglio da undici anni: suo fratello.» La donna accanto al lavandino girò un rubinetto per sciacquare un bicchiere. Attaccate al frigo con le calamite c'erano altre foto, alcune con la donna, alcune con Pistillo e altri giovani, ma soprattutto con i due ragazzi di prima. Queste erano più recenti e si trattava per lo più di istantanee, in spiaggia, in giardino, roba del genere. «Maria?» disse Pistillo.
La donna chiuse il rubinetto e si voltò verso di lui. «Maria, ti presento Will Klein. Will, Maria.» La donna, che ritenni fosse la moglie di Pistillo, si asciugò le mani con uno strofinaccio. Aveva un modo deciso di stringere la mano. «Piacere di conoscerla» disse, eccedendo forse in formalismo. Borbottai qualcosa e, quando Pistillo me l'indicò, sedetti su una sedia metallica con l'imbottitura di plastica. «Posso offrirle qualcosa da bere, signor Klein?» mi chiese Maria. «No, grazie.» Pistillo sollevò il suo bicchiere di tè freddo. «È dinamite, questa roba. Dovrebbe berla.» Maria continuava ad attardarsi in cucina. Decisi quindi di accettare il tè, così da poter andare avanti. Lei, con tutta calma, riempì un bicchiere e me lo mise davanti. Io ringraziai e abbozzai un sorriso, lei provò a ricambiarlo ma il suo risultò perfino più scialbo del mio. «Aspetto nell'altra stanza, Joe» disse finalmente. «Grazie, Maria.» Pistillo rimase a guardare la porta che si richiudeva dopo l'uscita di Maria. «È mia sorella» disse poi, e m'indicò le foto attaccate al frigo. «Quelli sono i suoi due ragazzi: Vic junior ora ha diciotto anni, Jack sedici.» «Uh-uh.» Incrociai le braccia e le appoggiai sul tavolo. «Avete ascoltato le mie telefonate.» «Sì.» «Allora dovreste già sapere che non ho assolutamente idea di dove si trovi mio fratello.» Bevve un sorso di tè. «Questo l'ho capito.» Stava ancora guardando il frigorifero e m'invitò con un cenno a fare come lui. «Non le sembra che manchi qualcosa, in quelle foto?» «Non sono nello stato d'animo migliore per fare giochetti, Pistillo.» «Neppure io. Ma guardi attentamente: che cosa manca?» Non mi preoccupai più di tanto perché sapevo già la risposta: «Il padre». Mi puntò contro un dito come il presentatore di un programma a quiz. «Incredibile, ha indovinato al primo tentativo.» «Ma di che diavolo sta parlando?» «Mia sorella ha perduto il marito dodici anni fa. I ragazzi... be' si faccia due calcoli. Avevano sei e quattro anni e Maria li ha allevati da sola. Io l'ho aiutata per quanto ho potuto ma uno zio non è un padre, le sembra?» Rimasi in silenzio.
«Si chiamava Victor Dober. Il nome le dice niente?» «No.» «Vic fu assassinato. Gli spararono due volte alla testa, come in un'esecuzione.» Si scolò il bicchiere di tè freddo. «Suo fratello era lì.» Il cuore mi vacillò nel petto. Pistillo si alzò senza attendere la mia reazione. «Lo so che la mia vescica protesterà, Will, ma me ne faccio un altro bicchiere. Vuole qualcosa anche lei, visto che sono in piedi?» Cercai di superare lo choc. «Che cosa intende dire con quel "suo fratello era lì"?» Ma Pistillo ora se la prendeva comoda. Aprì il freezer, tirò fuori un vassoietto di ghiaccio e lo rovesciò nel lavello. Alcuni cubetti rimbalzarono contro la ceramica, lui li afferrò con la mano e li fece cadere nel bicchiere. «Prima di cominciare voglio da lei una promessa.» «Che cosa?» «Riguarda Katy Miller.» «Cioè?» «È soltanto una ragazzina.» «Questo lo so da me.» «Siamo in presenza di una situazione pericolosa, non ci vuole un genio per capirlo. E non voglio che Katy ne subisca altre conseguenze.» «Nemmeno io.» «Allora siamo d'accordo. Me lo prometta, Will, mi prometta che non coinvolgerà più Katy.» Lo guardai e capii che su quel punto non era disposto a transigere. «D'accordo, Katy resta fuori.» Mi guardò in viso alla ricerca della bugia, ma aveva ragione. Katy aveva già pagato un prezzo alto e non avrei tollerato che ne pagasse uno ancora maggiore. «Mi parli di mio fratello» dissi. Terminò di versarsi il tè e tornò a sedersi, guardò il tavolo e infine sollevò gli occhi. «Ha letto sui giornali di quelle grosse operazioni di polizia» cominciò. «Ha letto che il mercato del pesce di Fulton è stato bonificato. Ha visto la sfilata di vecchi gangster in TV e sui giornali e avrà pensato che la mala era stata sconfitta, che la polizia aveva trionfato.» Mi sentii all'improvviso la gola asciutta come una pergamena, come se potesse chiudersi da un momento all'altro. Bevvi una lunga sorsata dal mio bicchiere, il tè era troppo dolce. «Sa niente di Darwin?» mi chiese.
La domanda mi sembrò retorica, ma quello aspettava una risposta. «La sopravvivenza dei più forti, vuol dire?» «Non dei più forti, questa è l'interpretazione moderna ed è sbagliata. Per Darwin a sopravvivere non sono i più forti ma i più adattabili. Coglie la differenza?» Annuii. «I cattivi più intelligenti si sono quindi adattati. Hanno spostato i loro affari fuori Manhattan, si sono messi a spacciare nelle aree con meno concorrenza. E hanno cominciato dalle cittadine del New Jersey. Prendiamo Camden: tre degli ultimi cinque sindaci sono stati condannati. Non parliamo di Atlantic City, lì se non paghi una mazzetta non attraversi nemmeno la strada. E Newark, con quelle stronzate sul recupero urbano? Il recupero urbano significa tanti soldi, e tanti soldi significano tangenti e mazzette.» Cambiai posizione sulla sedia. «Tutto questo che c'entra, Pistillo?» «C'entra, pezzo di stronzo, eccome se c'entra!» Era rosso in viso e si capiva che stava facendo uno sforzo enorme per non alterarsi ulteriormente. «Mio cognato, il padre di quei due ragazzi, stava cercando di ripulire le strade da quella spazzatura umana e si era infiltrato: ma qualcuno l'ha scoperto e lui e il suo collega ci hanno lasciato la pelle.» «E lei crede che mio fratello fosse coinvolto in questo duplice omicidio?» «Sì, proprio così.» «Ne ha le prove?» «Qualcosa di più delle prove.» Pistillo sorrise. «Suo fratello ha confessato.» Mi appoggiai allo schienale della sedia come per evitare quel colpo. E scossi la testa. Calmo, quello farebbe e direbbe di tutto, ricordai a me stesso. Non più tardi della scorsa notte si era mostrato deciso a incastrarmi. «Ma stiamo correndo troppo, Will, e non voglio che si faccia idee sbagliate. Non crediamo che suo fratello abbia ucciso qualcuno.» Altra scudisciata. «Ma se ha appena detto...» Sollevò una mano. «Mi stia a sentire, per favore.» Si alzò di nuovo in piedi. Aveva bisogno di tempo, era evidente. Sul viso gli si leggeva un'espressione sorprendentemente franca, distesa addirittura, ma questo perché stava ricacciando indietro la rabbia. E io mi chiesi se avrebbe resistito. Chissà quante volte, mentre Pistillo guardava la sorella, era stato sul punto di cedere. «Suo fratello lavorava per Philip McGuane. Immagino lei sappia di chi
sto parlando.» Non volevo concedergli nulla. «Vada avanti.» «McGuane è più pericoloso del suo amico Asselta, soprattutto perché è più intelligente. La OCID lo considera uno dei pezzi grossi della costa orientale.» «La OCID?» «Organized Crime Investigation Division, che si occupa del crimine organizzato. Tornando al discorso dei soggetti più adattabili di altri, direi che McGuane sarebbe il sopravvissuto per eccellenza. Non mi addentro nelle diverse sfaccettature del crimine organizzato come la nuova mafia russa, la Triade, i cinesi, gli italiani di una volta. McGuane precedeva sempre di due passi la concorrenza. A ventitré anni era già un boss. Il suo campo d'attività è il solito, droga, prostituzione, usura, ma la sua specialità è la corruzione. E si distingue perché mette in piedi i suoi business in zone di scarsa concorrenza lontano dalla città.» Ripensai a quello che Tanya mi aveva detto a proposito di Sheila che spacciava all'Haverton College. «McGuane ha ucciso mio cognato e il collega con il quale lavorava in coppia, un certo Curtis Angler. Era coinvolto anche suo fratello Ken, ma l'abbiamo arrestato con capi d'accusa più lievi.» «Quando?» «Sei mesi prima che Julie Miller venisse uccisa.» «Come è possibile che io non ne abbia mai saputo niente?» «Perché Ken non gliel'ha detto. E perché noi non volevamo suo fratello, ma McGuane. Perciò lo abbiamo infiltrato.» «Cioè?» «Gli abbiamo offerto l'immunità in cambio della sua collaborazione.» «Volevate che testimoniasse a carico di McGuane?» «Non solo. McGuane è un tipo accorto e noi non avevamo elementi a sufficienza per inchiodarlo con un'accusa di omicidio. Ci serviva un informatore. Quindi abbiamo appiccicato un microfono a Ken e l'abbiamo rimandato dai suoi compari.» «Mi sta dicendo che Ken ha lavorato per lei?» Un lampo freddo attraversò lo sguardo di Pistillo. «Non stia tanto a magnificare questa faccenda» esclamò. «Quella feccia di suo fratello non era un tutore dell'ordine, ma solo un sacco di merda che tentava di salvarsi la pelle.» Cercai di tenere presente che anche ciò che mi aveva appena detto pote-
va essere inventato. «Vada avanti.» Allungò una mano e prese un biscotto dal banco della cucina, lo masticò lentamente e poi lo mandò giù con una sorsata di tè. «Non sappiamo ciò che successe esattamente, posso soltanto esporle la nostra teoria.» «Mi dica.» «McGuane se ne accorse. Tenga presente che McGuane è un brutale figlio di puttana e per lui uccidere qualcuno è un'opzione, come per altri potrebbe essere scegliere se passare dal Lincoln o dall'Holland Tunnel. È soltanto una questione di convenienza, nient'altro. Lui non ha sentimenti.» Capii dove stava per arrivare. «Quindi, se McGuane avesse scoperto che Ken si era messo a fare l'informatore...» «Suo fratello sapeva perfettamente che sarebbe stato ridotto a spezzatino, conosceva i rischi che stava correndo. Noi lo tenevamo sotto controllo, ma una notte Ken se l'è svignata.» «Perché McGuane l'aveva scoperto?» «Sì, è quello che pensiamo. Ken è finito a casa vostra, non sappiamo perché. Probabilmente l'ha considerata un posto sicuro per nascondersi, nel senso che McGuane non avrebbe mai potuto sospettare che lui avrebbe messo a rischio i familiari.» «E poi?» «A questo punto, Will, avrà capito che anche Asselta lavorava per McGuane.» «Se lo dice lei.» Ignorò le mie parole. «Asselta aveva molto da perdere. Lei ha citato Laura Emerson, la socia di quel circolo femminile assassinata a sua volta. Suo fratello ci ha detto che era stato Asselta a ucciderla. L'aveva strangolata, il suo modo di esecuzione preferito. Secondo Ken, Laura aveva scoperto il business della droga a Haverton e voleva andare alla polizia.» Feci una smorfia. «E l'hanno uccisa per questo?» «Certo, l'hanno uccisa per questo. Pensava forse che le avrebbero comprato un gelato? Quelli sono mostri, Will, se lo metta bene in testa.» Ricordai Philip McGuane che veniva a casa nostra a giocare a Risiko!. Vinceva sempre. Era un ragazzino tranquillo, con un grande spirito d'osservazione, di quelli che ti fanno venire in mente le acque calme e immagini analoghe. Era capoclasse, mi sembra, e lo ammiravo. Asselta si era dimostrato fin da piccolo uno psicotico, lo si immaginava capace di tutto. Ma McGuane? «Sono venuti in qualche modo a sapere dove si nascondeva suo fratello,
forse il Fantasma aveva seguito Julie al ritorno dal college, non lo sappiamo. Comunque, sorprende suo fratello a casa Miller e, secondo la nostra teoria, cerca di uccidere entrambi. Lei aveva detto di avere visto qualcuno, quella notte: le crediamo, e crediamo che questo qualcuno possa essere stato proprio Asselta, anche perché sul luogo del delitto abbiamo trovato le sue impronte digitali. Ken rimane ferito, e questo spiega il suo sangue, ma riesce a fuggire, e il Fantasma rimane con il cadavere di Julie Miller. Quale sarebbe stata la cosa più logica da fare? Far apparire Ken l'autore del delitto. Quale sistema migliore per screditarlo se non addirittura per farlo scappare a gambe levate per la paura?» Si mise a sbocconcellare un altro biscotto, senza guardarmi. Sapevo che poteva avermi mentito, ma le sue parole sembravano avere il crisma della verità. Cercai di calmarmi e di assimilare ciò che avevo appena udito. Tenni gli occhi su di lui, che tenne i suoi sui biscotti. Toccava a me, ora, ricacciare indietro la rabbia. «Ciò significa che per tutto questo tempo...» mi fermai, deglutii e provai di nuovo. «Per tutto questo tempo lei ha sempre saputo che non è stato Ken a uccidere Julie.» «Non proprio.» «Ma ha appena detto...» «È una teoria, Will, soltanto una teoria. È altrettanto probabile che sia stato proprio lui a ucciderla.» «Lei non ci crede.» «Non stia a dirmi che cosa credo o non credo.» «Che motivi avrebbe potuto avere Ken per uccidere Julie?» «Suo fratello era un pessimo elemento, non se lo dimentichi.» «Questa non è una ragione sufficiente.» Scossi la testa. «Perché, Pistillo? Perché si è sempre incaponito a sostenere la colpevolezza di Ken, pur sapendo che non era stato lui a ucciderla?» Decise di non rispondere, ma forse non ce n'era bisogno. Apparve tutto improvvisamente ovvio. Guardai quelle istantanee sul frigo, così eloquenti. «Forse lei rivoleva indietro Ken a ogni costo» dissi, rispondendo alla mia domanda. «Ken era l'unico a poterle consegnare McGuane e al mondo non gliene fregava assolutamente niente se un testimone oculare si nascondeva. La stampa non se ne sarebbe occupata, non si sarebbe scatenata una caccia all'uomo. Ma se Ken uccideva una ragazza nella cantina di casa, scuotendo la pace di quel sobborgo elegante, l'attenzione dei media sarebbe stata soffocante. E quei titoli, secondo lei Pistillo, gli avrebbero reso più
difficile la latitanza.» Lui continuò a studiarsi le mani. «Ho ragione, vero?» Pistillo alzò lentamente gli occhi su di me. «Suo fratello aveva stretto con noi un accordo» disse freddo «e con la sua fuga l'accordo è saltato.» «Per questo vi siete sentiti autorizzati a mentire.» «Ci siamo sentiti autorizzati a dargli la caccia con tutti i mezzi possibili.» Stavo tremando. «E anche a mandare all'inferno la sua famiglia?» «Questa me la risparmi.» «Lo sa che cosa ci ha fatto?» «Lo vuole sapere, Will? Non me ne frega niente. Se crede di avere sofferto guardi mia sorella negli occhi, guardi i suoi figli.» «Però non è giusto...» Pistillo batté una mano sul tavolo. «Non mi stia a spiegare cosa è giusto e cosa è sbagliato. Mia sorella è stata una vittima innocente.» «Anche mia madre.» «No!» Stavolta batté il pugno sul tavolo, poi mi puntò contro l'indice. «C'è una grossa differenza tra di loro, e gliela spiego subito. Nel caso di Vic abbiamo un poliziotto assassinato che non aveva scelta, non poteva porre termine alle sofferenze dei suoi cari. Suo fratello, invece, ha preferito la clandestinità: è stata una sua decisione, e se questa decisione ha fatto soffrire la sua famiglia è con lui che dovete prendervela.» «Ma è lei, Pistillo, che ce l'ha costretto. Qualcuno lo cercava per ucciderlo e, come se non bastasse, lei gli ha fatto credere che l'avrebbe arrestato per omicidio. Gli ha forzato la mano, costringendolo a prolungare ulteriormente questa clandestinità.» «È stata una decisione sua, non mia.» «Per aiutare la sua famiglia ha sacrificato la mia, Pistillo.» Lui non riuscì a trattenersi e diede una manata al bicchiere, che mi innaffiò di tè per poi infrangersi sul pavimento. Si alzò in piedi abbassando lo sguardo su di me. «Non osi paragonare ciò che ha sofferto la sua famiglia con ciò che ha sofferto mia sorella. Non osi, capito?» Lo guardai negli occhi. Discutere con lui sarebbe stato inutile, e oltretutto non sapevo ancora se stava dicendo la verità o se invece la stava distorcendo per i suoi reconditi fini. Ma in ogni caso volevo saperne di più e non mi conveniva quindi farmelo nemico. C'era sicuramente dell'altro, c'erano ancora troppe domande senza risposta.
La porta si aprì e face capolino Claudia Fisher, incuriosita dal baccano. Pistillo sollevò una mano per farle capire che era tutto a posto, poi tornò a sedersi. La Fisher attese un attimo, poi ci lasciò nuovamente soli. Pistillo ansimava ancora. «Poi che cos'è successo?» gli chiesi. Sollevò lo sguardo. «Non l'ha ancora capito?» «No.» «È stato un vero colpo di fortuna. Un nostro agente si trovava in vacanza in Svezia. Una mera coincidenza.» «Ma di che sta parlando?» «Un nostro agente. Ha incontrato in strada suo fratello.» Battei le palpebre. «Un momento, questo quando sarebbe successo?» Pistillo fece un rapido calcolo mentale. «Quattro mesi fa.» Ero in piena confusione. «E Ken è riuscito a scappare?» «No, che diavolo. L'agente ha preferito non correre rischi e non l'ha perso un momento di vista.» Pistillo incrociò le braccia e si protese verso di me. «L'abbiamo preso» disse, quasi in un sussurro. «Abbiamo preso suo fratello e ce lo siamo riportato indietro.» 45 Philip McGuane versò il brandy. Il cadavere del giovane avvocato Cromwell era stato portato via. Joshua Ford era ancora steso a terra come una pelle d'orso, vivo e cosciente, ma non si muoveva. McGuane porse al Fantasma un napoleone e i due amici bevvero insieme. McGuane mandò giù un lungo sorso, il Fantasma poggiò le mani a coppa attorno al bicchiere e sorrise. «Che c'è?» gli chiese McGuane. «Buono questo brandy.» «Sì.» Il Fantasma osservò il liquore. «Stavo pensando a quando ci rifugiavamo tra gli alberi alle spalle di Riker Hill, a bere la birra più scadente che riuscivamo a trovare. Te lo ricordi, Philip?» «La Schlitz e la Old Milwaukee.» «Proprio così.» «Ken aveva quell'amico all'Economy Wine and Liquor che non gli chie-
deva mai i documenti.» «Bei tempi» disse il Fantasma. «Questo» e McGuane sollevò il bicchiere «è migliore.» «Lo pensi davvero?» Il Fantasma assaggiò un sorso, poi chiuse gli occhi e lo mandò giù. «Hai mai sentito quella teoria secondo la quale, a ogni scelta che fai, dividi il mondo in universi alternativi?» «Sì.» «Mi chiedo se esistano mondi dove noi saremmo diversi oppure se, al contrario, eravamo destinati in ogni caso a vivere in questo.» McGuane fece un sorrisetto. «Non mi starai diventando sentimentale, vero John?» «Non direi proprio. Ma nei momenti di sincerità non posso fare a meno di chiedermi se per me le cose dovevano andare proprio così.» «A te piace fare male alla gente, John.» «È vero.» «Ti è sempre piaciuto.» Il Fantasma si mise a riflettere. «No, non sempre. L'importante sarebbe però capire il perché.» «Perché ti piace fare male alla gente, vuoi dire?» «Non soltanto farle del male. Mi piace uccidere facendo soffrire, e scelgo lo strangolamento perché è un modo orribile di morire. Non è come l'effetto immediato di una pallottola o come il baluginio di un coltello che ti apre la gola. La vittima si aggrappa letteralmente all'ultimo respiro, sente che le viene negato il nutrimento dell'ossigeno. Strangolandoli posso osservarli da vicino mentre lottano invano per un soffio d'aria che non arriverà.» «Senti, senti.» McGuane poggiò sul tavolino il bicchiere. «Alle feste devi essere divertentissimo, John.» «Proprio così.» Poi il Fantasma tornò serio. «Ma perché, Philip, una cosa del genere mi eccita tanto? Che cosa mi è successo, che ne è stato della mia morale se mi sento andare al massimo quando gli altri rantolano?» «Non vorrai dare la colpa a tuo padre, vero, John?» «No, sarebbe troppo banale.» Posò a sua volta il bicchiere sul tavolino e fissò McGuane. «Mi avresti fatto ammazzare, Philip? Se non avessi fatto fuori quei due al cimitero mi avresti ucciso?» McGuane scelse la verità. «Non lo so. Probabilmente.» «E tu sei il mio migliore amico.» «E tu forse il mio.»
Il Fantasma sorrise. «Eravamo una bella coppia, no, Philip?» McGuane non rispose. «Quando conobbi Ken avevo quattro anni» proseguì il Fantasma. «Tutti i bambini del quartiere erano stati diffidati dall'avvicinarsi a casa nostra, gli avevano detto che noi Asselta eravamo una pessima compagnia. Sai come vanno queste cose.» «Lo so.» «Ken invece era attirato da casa mia, gli piaceva esplorarla con me, Mi viene in mente quando trovammo la pistola del mio vecchio, avevamo sei anni, credo. Ricordo che la impugnai, il contatto con il potere ci aveva come ipnotizzato. Con la pistola terrorizzammo Richard Werner... non credo che tu l'abbia conosciuto perché la sua famiglia traslocò quando lui faceva la terza elementare. Una volta lo rapimmo e lo legammo, lui si mise a piangere e per la paura se la fece addosso.» «E la cosa ti piacque.» Il Fantasma annuì lentamente. «Forse.» «Vorrei farti una domanda.» «Ti ascolto.» «Perché hai usato il coltello con Daniel Skinner, se tuo padre aveva una pistola?» Il Fantasma scosse la testa. «Non voglio parlarne.» «Non ne hai mai voluto parlare.» «Proprio così.» «Perché?» Rispose direttamente alla domanda. «Il mio vecchio ci sorprese a giocare con la pistola e me le suonò di santa ragione.» «Lo faceva spesso.» «Sì.» «Hai mai provato a vendicarti?» gli chiese McGuane. «Vendicarmi di mio padre? No, mi faceva troppa pena perché potessi odiarlo. Non aveva mai accettato il fatto che mia madre se ne fosse andata di casa, pensava che sarebbe tornata e si preparava a quel giorno. Quando beveva se ne stava seduto tutto solo sul divano e le parlava, rideva insieme a lei; poi attaccava a singhiozzare. Gli aveva spezzato il cuore. Ho fatto male a tanti uomini, Philip, alcuni di loro mi hanno implorato di farli morire. Ma non credo di avere mai udito nulla di così straziante come i singhiozzi di mio padre quando pensava a mia madre.» Dal pavimento giunse un gemito rauco di Joshua Ford. Lo ignorarono
entrambi. «Dov'è ora tuo padre?» chiese McGuane. «A Cheyenne, Wyoming, e non beve più. Ha trovato una brava donna e ora è fissato per la religione. Ha sostituito l'alcol con Dio, un vizio con un altro.» «Lo chiami mai?» «No» rispose sottovoce il Fantasma. Bevvero in silenzio. «E tu, Philip? Non eri povero, tu, e non hai subito violenze in famiglia, i tuoi genitori non hanno abusato di te.» «Hanno fatto solo i genitori» ammise McGuane. «So che tuo zio era un malavitoso, che è stato lui a metterti in certi affari. Ma tu avresti potuto ugualmente percorrere un'altra strada: perché non l'hai fatto?» McGuane ridacchiò. «Che c'è?» «Siamo più diversi di quanto credessi.» «Che vuoi dire?» «A te dispiace. Ammazzi la gente, lo sai fare bene, uccidere ti eccita: ma consideri te stesso un male.» Si raddrizzò all'improvviso sulla sedia. «Mio Dio.» «Che c'è?» «Sei più pericoloso di quanto pensassi, John.» «Perché?» «Non sei tornato per Ken.» La voce di McGuane si abbassò. «Sei tornato per quella bambina, vero?» Il Fantasma bevve un lungo sorso e preferì non dare nessuna risposta. «A proposito delle scelte e di quegli universi alternativi di cui parlavi» riprese McGuane. «Credi che le cose sarebbero andate diversamente se Ken fosse morto quella notte?» «Sarebbe proprio un universo alternativo» rispose il Fantasma. «Ma forse non migliore. E ora che cosa facciamo?» «Ci servirà la collaborazione di Will, è l'unico che può far uscire Ken allo scoperto.» «Non ci aiuterà.» Il Fantasma si accigliò. «Tu dovresti sapere come riuscire a convincerlo.» «Il padre, vuoi dire?»
«No.» «La sorella?» «Vive troppo lontano» osservò il Fantasma. «Ma un'idea ce l'hai?» «Pensaci bene.» McGuane pensò. E quando capì, sul volto gli comparve un sorriso. «Katy Miller.» 46 Pistillo non mi staccava gli occhi di dosso, pronto a cogliere la mia reazione a quella notizia bomba. Ma mi ripresi subito. Forse le cose cominciavano a quadrare. «Avete catturato mio fratello?» «Sì.» «E l'avete subito estradato negli Stati Uniti?» «Sì.» «Come mai sui giornali non c'era nemmeno una riga?» «La notizia ce la siamo tenuta per noi.» «Perché temevate che McGuane l'avrebbe scoperto?» «Soprattutto per questo.» «Che altro?» Pistillo scosse la testa. «Pensate di servirvi ancora di mio fratello?» gli chiesi. «Potrebbe darci una mano.» «Quindi avete stretto un altro accordo?» «Più che altro abbiamo riattivato il vecchio.» Mi sembrò di intravedere un barlume nella caligine. «L'avete ammesso al programma di protezione dei testimoni?» Lui annuì. «All'inizio l'abbiamo tenuto in un albergo, guardato a vista. Ma a quel punto molto di ciò che suo fratello ci aveva detto era ormai superato. Ken rimane un testimone chiave, forse il più importante di tutti, ma ci serviva tempo. Non potevamo tenerlo per sempre in un albergo e lui non voleva rimanerci. Ken allora si è rivolto a un avvocato di grido e abbiamo raggiunto un accordo. Gli abbiamo trovato una casa in Nuovo Messico, con l'obbligo di mettersi ogni giorno in contatto con uno dei nostri agenti. Quando ne avremmo avuto bisogno l'avremmo chiamato a testimoniare. E se avesse violato l'accordo, anche un solo punto dell'accordo, gli avremmo
appioppato nuovamente tutte le accuse, compresa quella di avere assassinato Julie Miller.» «Cosa è andato storto?» «McGuane l'ha scoperto.» «Come?» «Non lo sappiamo, forse una soffiata. Sta di fatto che ha mandato due sicari per fare fuori suo fratello.» «Quei due cadaveri in casa» dissi. «Sì.» «Chi li ha ammazzati?» «Suo fratello, riteniamo. L'avevano sottovalutato. Li ha uccisi e poi è scappato.» «E ora volete rimettere le mani su di lui.» Pistillo fece vagare lo sguardo sulle foto fissate allo sportello del frigo. «Sì.» «Ma io non lo so dov'è Ken.» «Questo ormai l'ho accertato, ma Ken deve tornare da noi. Lo proteggeremo ventiquattr'ore su ventiquattro, gli troveremo una casa sicura, tutto quello che vuole. Questo per quanto riguarda la carota. Il bastone, invece, è che la sentenza dipenderà dalla sua collaborazione.» «Che cosa vuole, insomma, da me?» «Ken finirà per mettersi in contatto con lei.» «Come fa a esserne così sicuro?» Fissò il bicchiere e sospirò. «Come fa a esserne così sicuro?» gli chiesi di nuovo. «Perché Ken le aveva già telefonato.» Nel petto mi si formò un blocco di piombo. «A casa sua, Will, sono arrivate due chiamate fatte da una cabina telefonica di Albuquerque, vicina a casa di suo fratello. La prima risale a una settimana prima dell'uccisione dei due sicari, l'altra subito dopo.» La notizia non mi colpì, al contrario di quanto mi sarei aspettato. Forse le tessere cominciavano a occupare i loro spazi: ma come? «Non sapeva di quelle due telefonate, vero, Willie?» Inghiottii a vuoto chiedendomi chi, a parte me, avrebbe potuto rispondere a quelle due chiamate, sempre ammesso che Ken le avesse fatte. Sheila. «No, non ne sapevo niente.» «Questo noi lo ignoravamo quando ci siamo messi per la prima volta in
contatto con lei. Era logico ritenere che al telefono avesse risposto il padrone di casa.» Lo guardai. «Sheila Rogers come entra in questa faccenda?» «Sul luogo del duplice omicidio sono state trovate le sue impronte digitali.» «Lo so.» «E allora le rivolgo una domanda, Will. Sapevamo che suo fratello le aveva telefonato, sapevamo che la sua donna era andata a trovare Ken in Nuovo Messico: nei nostri panni che cosa avrebbe concluso?» «Che in qualche modo ero coinvolto anch'io.» «Esatto. Pensavamo che Sheila fosse il suo corriere, o qualcosa del genere e che lei stesse aiutando suo fratello. Così, quando Ken si è reso irreperibile, abbiamo dato per scontato che lei sapesse dove era andato a nascondersi.» «Ora invece ha capito che io non c'entro niente.» «Certo.» «Che cosa sospetta, allora?» «Quello che sospetta lei, Will.» La voce gli si era fatta più dolce e, maledizione, vi lessi dentro anche della compassione. «Che Sheila Rogers l'ha usata. Che lavorava per McGuane. Che è stata lei a rivelare a McGuane dove si trovava Ken. E che successivamente McGuane l'ha fatta uccidere, dopo che i sicari mandati a far fuori Ken ci avevano lasciato le penne.» Sheila. Il suo tradimento mi penetrava nelle carni come uno stiletto, fino all'osso. Difenderla ora, pensare che per lei non ero stato solo un povero babbeo ma qualcosa di più, significava essere più ingenui di Pollyanna, oppure guardare le cose con delle lenti rosa appiccicate agli occhi. «Le sto dicendo tutto questo, Will, perché temevo che lei potesse fare qualcosa di stupido.» «Tipo parlare con la stampa.» «Sì. E anche perché voglio che lei capisca. Se McGuane e Asselta trovano suo fratello lo fanno fuori, se lo troviamo noi lo proteggiamo. A lui la scelta.» «Esatto. C'è da dire, comunque, che finora di casini ne avete combinati un bel po'.» «Ma per Ken rimaniamo sempre l'alternativa migliore» obiettò lui. «E non pensi che McGuane si dimentichi di suo fratello. Crede davvero che quell'aggressione a Katy Miller sia stata solo una coincidenza? Abbiamo bisogno della sua collaborazione per il suo bene, Will.»
Rimasi in silenzio. Non potevo fidarmi di lui e lo sapevo. Non potevo fidarmi di nessuno, questo era tutto ciò che fino a quel momento avevo imparato. Ma Pistillo era particolarmente pericoloso. Per dodici anni aveva guardato il volto disfatto della sorella e certe cose ti lasciano il segno, ti fanno desiderare di perseguire i tuoi obiettivi anche a costo di distorcere la verità. Pistillo aveva lasciato capire fin troppo chiaramente che non si sarebbe fermato davanti a nulla e a nessuno per mettere le mani su McGuane. Avrebbe sacrificato mio fratello, già mi aveva messo al fresco e, soprattutto, aveva distrutto la mia famiglia. Pensai a mia sorella, che se n'era scappata a Seattle. Pensai a mia madre, al sorriso di Sunny, e mi resi conto che l'uomo seduto davanti a me, quest'uomo che si proclamava la salvezza di mio fratello, l'aveva mandata al cimitero. L'aveva uccisa lui mia madre, nessuno potrà mai convincermi che il suo tumore non fosse in qualche modo legato ai tanti dispiaceri sofferti, che il suo sistema immunitario non sia stato un'altra vittima di quella notte orribile. E ora quest'uomo voleva che l'aiutassi. Non sapevo quante bugie ci fossero in ciò che mi aveva raccontato. Ma decisi di mentire a mia volta. «D'accordo, l'aiuterò» dissi. «Bene. Darò disposizione che le accuse a suo carico vengano immediatamente ritirate.» Non lo ringraziai. «Le diamo un passaggio, se vuole.» Avrei voluto rifiutare l'offerta, ma temevo così facendo di metterlo sul chi vive. Se aveva scelto l'arma dell'inganno, l'avrei fatto anche io. Perciò accettai. «Ho saputo che quanto prima si svolgeranno i funerali di Sheila Rogers» disse quando mi alzai. «Sì.» «Ora che non è più indagato è libero di spostarsi a piacimento.» Tacqui. «Andrà ai funerali?» mi chiese. Stavolta gli dissi la verità. «Non lo so.» 47 Non potevo restarmene a casa ad attendere chissà che, quindi la mattina dopo andai al lavoro. Fu buffo. Mi aspettavo di essere poco più che inutile ma mi sbagliavo di grosso. Quando arrivai alla Covenant House... be', mi sentirei di paragonare l'esperienza a quella dell'atleta che "entra in partita".
Quei ragazzini, cercai di ricordarmi, meritano a pieno titolo tutti i miei sforzi. È un luogo comune, lo ammetto, ma me ne convinsi tanto da farmi assorbire completamente dal lavoro. Certo, vennero a porgermi le condoglianze, e lo spirito di Sheila sembrava aleggiare ovunque. Erano ben pochi, lì dentro, i posti ai quali non associare il suo ricordo. Ma riuscii a superare l'emozione. Con questo non voglio dire che me l'ero dimenticata o che non volevo più scoprire chi l'aveva uccisa e dove si nascondeva mio fratello, oppure quale destino attendeva Carly. Certo che no. Ma in quel momento non potevo far molto. Avevo cercato di telefonare a Katy in ospedale, ma il blocco delle chiamate era ancora in atto. Squares aveva incaricato un'agenzia di investigazione di passare al computer delle compagnie aeree il nome Donna White, ossia la falsa identità scelta da Sheila per allontanarsi da New York, ma fino a quel momento la ricerca non aveva dato alcun risultato. Quindi attesi. Mi offrii di trascorrere la notte in strada a cercare sbandati. Squares si unì a me - nel frattempo gli avevo raccontato tutto - e insieme scomparimmo nell'oscurità. I ragazzini di strada erano come illuminati nel blu della notte. I loro volti erano piatti, lisci, senza increspature. Se vedi un vagabondo adulto, una donna che si trascina dietro sacchi di plastica pieni di cose inutili, un uomo con un carrello del supermercato, qualcuno rannicchiato dentro uno scatolone, qualcun altro che ti chiede qualche spicciolo con un bicchierone di plastica, sai che sono dei senzacasa. Al contrario gli adolescenti, i quindicenni o sedicenni fuggiti dagli abusi domestici che si danno alla droga o alla prostituzione, si integrano meglio nell'ambiente. Con gli adolescenti non sai mai se sono degli sbandati o se, pur avendo una casa, girano senza meta. Nonostante ciò che si sente, non è facile ignorare il dramma dei vagabondi adulti. Te la sbattono in faccia la loro condizione. Puoi spostare lo sguardo, continuare a camminare e ricordarti che se cedi, se gli lasci cadere nel bicchiere un dollaro loro lo spendono per prendersi una sbronza oppure ci comprano droga o ne fanno qualsiasi altro uso che la tua mente razionale possa immaginare. Ma ciò che hai fatto, l'avere tirato dritto davanti a un essere umano in difficoltà, ti rimane impresso e il rimorso ti dà una fitta. I nostri ragazzini, invece, sono davvero invisibili, sembrano come cuciti alla notte con un filo che non lascia traccia. Puoi trascurarli senza dover sopportare effetti collaterali. Udimmo della musica a tutto volume, qualcosa dal marcato ritmo latino. Squares mi porse un mazzetto di schede telefoniche da distribuire. Arri-
vammo in un punto della Avenue A noto per lo spaccio d'eroina e cominciammo con il nostro consueto repertorio. Parlammo, li blandimmo e li ascoltammo. Vidi quegli occhi spenti, vidi come i ragazzi si grattavano quegli immaginali insetti sotto pelle. Vidi i buchi dell'ago, le vene affondate nelle braccia. Alle quattro di mattina Squares e io eravamo nuovamente nel furgone. Nelle ultime ore non ci eravamo parlati granché. Lui guardò fuori dal finestrino, i ragazzini erano ancora lì, all'angolo della strada, e sembravano aumentare, come se venissero vomitati sui marciapiedi. «Dovremmo andare al funerale» disse Squares. Non mi fidai della mia voce. «L'hai mai vista al lavoro di notte, hai visto il suo volto quando si dava da fare per i ragazzini?» L'avevo vista e sapevo perché lui me l'aveva chiesto. «Certe emozioni non puoi fingerle, Will.» «Vorrei poterci credere.» «Come ti sentivi quando eri con Sheila?» «Mi sentivo l'uomo più fortunato al mondo.» «Neanche quello puoi fingerlo.» «Come ti spieghi allora tutta questa storia?» «Non me la spiego.» Squares ingranò la marcia e il furgone riprese la strada. «Ma stiamo lavorando troppo di cervello, ogni tanto dovremmo ricordarci anche del cuore.» «Sembra bello a sentirlo, Squares, ma temo che non significhi niente.» «E allora dimmi se ti piace questa: andiamo a dare l'ultimo saluto alla Sheila che conoscevamo.» «Anche se era tutta una finta?» «Sì. Ma forse andiamo anche per imparare, per capire quello che è successo.» «Non eri stato tu a dire che probabilmente ciò che avremmo scoperto non ci sarebbe piaciuto?» «È vero.» Squares inarcò le sopracciglia. «Accidenti, sono proprio in gamba.» Sorrisi. «Glielo dobbiamo, Will. Lo dobbiamo alla sua memoria.» Aveva ragione. Ci avvicinavamo alla conclusione e io avevo bisogno di risposte. Forse al funerale avrei potuto averne qualcuna e forse il funerale in sé, l'atto di seppellire la mia falsa amata, avrebbe contribuito alla mia
guarigione. Non riuscivo a immaginarmelo, ma volevo in ogni caso provarle tutte. «E c'è sempre il problema Carly da considerare.» Squares puntò il dito contro il finestrino. «In fondo salvare i ragazzini è il nostro mestiere, no?» Mi voltai verso di lui. «Certo. E, a proposito di bambini...» Attesi. Non riuscivo a vedere i suoi occhi perché lui, come in quella vecchia canzone di Corey Hart, portava gli occhiali da sole di notte: ma gli vidi stringere le mani sul volante. «Squares?» «Stavamo parlando di te e Sheila.» «Quello è il passato e non cambierà, qualsiasi cosa potremmo venire a sapere.» «Concentriamoci su una cosa alla volta, va bene?» «Non va bene. L'amicizia dovrebbe essere una strada a doppio senso.» Scrollò la testa e tra noi cadde il silenzio. Non tolsi gli occhi dal suo viso butterato e non rasato, il tatuaggio sulla fronte sembrava ancora più scuro. Lui si mordicchiava il labbro inferiore. «Non l'ho mai detto a Wanda» disse dopo un po'. «Che hai un bambino?» «Un maschio» spiegò sottovoce. «Dov'è, adesso?» Tolse una mano dal volante e si grattò il viso. La mano, notai, aveva un leggero tremito. «Si trova sotto due metri di terra, da quando era piccolissimo.» Chiusi gli occhi. «Si chiamava Michael e non volli avere niente a che fare con lui, l'ho visto soltanto due volte. L'ho lasciato solo con la madre, una diciassettenne drogata alla quale non avresti affidato nemmeno un cane. Quando il piccolo aveva tre anni lei, fatta persa, è finita con la macchina contro un autoarticolato, ammazzandosi e ammazzando il bambino. Non so ancora se sia stato o no un suicidio.» «Mi dispiace» sussurrai. «Michael oggi avrebbe ventun anni.» Cercai disperatamente qualcosa da dire. Non trovai nulla ma ci provai lo stesso. «È successo tanto tempo fa, eri un ragazzo.» «Non cercare di razionalizzare, Will.» «No, voglio solo dire che...» non avevo idea di che termini usare «se avessi un figlio ti chiederei di fargli da padrino, diventeresti il suo tutore se
dovesse succedermi qualcosa. E non lo farei per amicizia o per correttezza, ma solo per egoismo. Per il bene del bambino.» Lui continuò a guidare. «Ci sono cose che non ti puoi mai perdonare.» «Non l'hai ucciso tu, Squares.» «Già, certo, io non ne ho nessuna colpa.» Ci fermammo a un semaforo rosso e lui accese la radio. In quel momento stavano pubblicizzando una miracolosa pillola per dimagrire. La spense subito. Poi si sporse in avanti con il busto e poggiò gli avambracci sopra il volante. «Vedo quei ragazzini di strada, cerco di salvarli. E continuo a pensare che se ne aiuto abbastanza, chissà, le cose potrebbero cambiare per Michael. Forse potrei in qualche modo salvare anche lui.» Si tolse gli occhiali e la voce si fece più dura. «Ma ciò che so, ciò che ho sempre saputo, è che io non sono degno di essere salvato, qualsiasi cosa possa fare.» Scossi la testa e cercai di farmi venire in mente qualche parola di conforto o quanto meno qualcosa che potesse distrarlo, ma ogni frase suonava trita e banale. Come in molte tragedie, ciò che avevo udito spiegava molto eppure non diceva nulla di quell'uomo. «Ti sbagli» fu tutto quello che alla fine riuscii a spiccicare. Lui si rimise gli occhiali e non tolse gli occhi dalla strada. Mi accorsi che si stava nuovamente chiudendo a riccio. Decisi di insistere. «Hai detto che bisogna andare al funerale perché dobbiamo a Sheila qualcosa. E a Wanda non devi niente?» «Will?» «Sì?» «Non credo di avere più voglia di parlarne.» 48 Il primo volo del mattino per Boise si svolse nella più assoluta normalità. Decollammo dal LaGuardia, che potrebbe essere un aeroporto anche più schifoso ma non senza un particolare impegno di Nostro Signore. Io presi il mio solito posto in turistica, dietro una vecchia e minuta signora che per tutto il viaggio tenne lo schienale reclinato contro le mie ginocchia. Studiare i suoi follicoli e il suo scalpo pallido - avevo praticamente la sua testa in grembo - mi aiutò a distraimi. Squares, seduto accanto a me, leggeva un articolo su di lui pubblicato dallo "Yoga Journal". Ogni tanto annuiva trovando qualcosa che lo con-
vinceva. «È vero, troppo vero, sono proprio così io» commentava. Lo faceva per darmi fastidio: per questo era il mio migliore amico. Riuscii a tenere la guardia alzata fin quando vedemmo il cartello: BENVENUTI A MASON, IDAHO. Squares aveva noleggiato una Buick Skylark e durante il tragitto ci eravamo perduti due volte. Anche qui, nella cosiddetta provincia rurale, dominavano i grossi centri commerciali. C'erano le insegne di tutti i principali megastore, Central, Home Depot, Old Navy: la nazione unita in quella tronfia monotonia. La cappella era piccola, bianca e assolutamente anonima. Individuai subito Edna Rogers, che se ne stava fuori tutta sola a fumare una sigaretta. Squares accostò al marciapiede e io, con lo stomaco in una morsa, scesi. L'erba era color marrone bruciato. Edna Rogers guardò nella nostra direzione e, con gli occhi fissi su di me, esalò una lunga boccata di fumo. Mi diressi verso di lei, con Squares al mio fianco. Mi sentivo vuoto, distante. Il funerale di Sheila. Eravamo lì per seppellire Sheila. Il pensiero vorticava come certe immagini su un vecchio televisore rotto. Edna Rogers, con gli occhi duri e asciutti, continuava a tirare lunghe boccate. «Non sapevo se ce l'avrebbe fatta» disse rivolta a me. «Sono qui.» «Ha saputo qualcosa di Carly?» «No» le risposi, ma non era del tutto vero. «E lei?» Scrollò le spalle. «La polizia non si sta certo dannando per cercarla, dicono che non risulta da nessuna parte che Sheila avesse una figlia. Ho l'impressione che non credano nemmeno all'esistenza di Carly.» Il seguito fu una serie di immagini confuse e accelerate. Squares presentò le sue condoglianze, si avvicinarono altri partecipanti al funerale, soprattutto uomini in giacca e cravatta. Ascoltandoli mi resi conto che erano colleghi del padre in una fabbrica di telecomandi per le porte automatizzate dei box. La cosa mi suonò strana, ma al momento non capii il perché. Strinsi altre mani e dimenticai ogni nome. Il padre di Sheila era un bell'uomo, alto, che mi accolse con un forte abbraccio e poi si avvicinò ai colleghi. Sheila aveva un fratello e una sorella, entrambi afflitti e turbati. Rimanemmo tutti fuori, quasi temessimo di dover dare inizio alla cerimonia. I presenti si divisero in due gruppi e i più giovani si unirono al fratello e alla sorella di Sheila. Il padre se ne stava in un semicerchio di colleghi - in giacca e con la cravatta dal nodo troppo grosso - che annuivano con le mani in tasca. Le donne facevano gruppo a parte accanto all'ingresso della cappella.
Squares attirava molte occhiate, ma c'era abituato. Aveva ancora i jeans impolverati, ma si era messo un blazer blu e una cravatta grigia. Avrebbe anche indossato un completo ma Sheila non l'avrebbe mai riconosciuto, mi disse sorridendo. Finalmente cominciammo tutti a entrare nella cappella. Mi meravigliai che ci fosse tanta gente ma scoprii che erano venuti per i familiari di Sheila e non per lei, che se ne era andata di casa tanto tempo prima. Edna Rogers mi scivolò silenziosa accanto e infilò un braccio sotto il mio, poi alzò gli occhi e riuscì ad abbozzare un coraggioso sorriso. Non sapevo ancora come regolarmi con lei. Entrammo per ultimi. Udii qualcuno sussurrare "che bella espressione" aveva Sheila, oppure "sembra ancora viva", commenti che ho sempre trovato di cattivo gusto. Non sono un ebreo osservante ma mi piace il modo in cui la nostra fede regola le onoranze funebri: i morti, voglio dire, li seppelliamo in fretta e non abbiamo bare aperte. Non mi piacciono le bare aperte. Non mi piacciono per tutti i motivi più evidenti. Mi fa venire i brividi guardare un corpo morto, prosciugato sia della forza vitale sia dei suoi fluidi, imbalsamato, ben vestito, truccato, uno insomma che potrebbe figurare nel Museo delle cere di Madame Tussaud o, peggio ancora, uno che sembra "ancora vivo" tanto che da un momento all'altro ti aspetti che si metta a respirare o si sollevi a sedere. Ma, soprattutto, che immagine serberanno i familiari del loro caro esposto come un salmone affumicato? Volevo che il mio ultimo ricordo di Sheila fosse quello di lei stesa a occhi chiusi in una bara piena di cuscini (ma chi l'ha detto che le bare devono essere sempre piene di cuscini?), una bara di pregiato mogano che stava per essere chiusa ermeticamente? Queste considerazioni si fecero sempre più pesanti fin quasi a schiacciarmi mentre, sempre con Edna Rogers, ci mettemmo in fondo alla coda: dovevamo anche fare la fila per rendere questo vuoto omaggio. Ma non ci fu modo di evitarlo. Edna mi si stringeva al braccio con troppa energia e, avvicinandoci alla bara, le si piegarono le ginocchia. L'aiutai a tenersi su e lei mi sorrise di nuovo, solo che stavolta mi sembrò di notare in quel sorriso una genuina dolcezza. «L'amavo» mi sussurrò. «Una madre non smette mai di amare la figlia.» Annuii, senza avere il coraggio di parlare. Muovemmo un altro passo e mi sembrò di essere di nuovo in attesa per imbarcarmi su quel maledetto aereo. Mi aspettavo quasi di sentire un altoparlante gracchiare: "Quelli dal-
la fila venticinque in su possono vedere la salma". Un pensiero stupido, ma che contribuiva a far vagare la mente: tutto, pur di tenerla lontana da qui. Alle nostre spalle, per ultimo c'era Squares. Tenevo gli occhi lontani dalla bara ma, mentre avanzavamo lentamente, sentivo battermi di nuovo nel petto quell'irragionevole speranza. Non credo sia un fatto insolito. Era successo anche al funerale di mia madre, il pensiero cioè che si trattasse di un errore, un equivoco cosmico, l'idea che guardando dentro la cassa l'avrei trovata vuota oppure occupata da qualcuno che non era Sheila. Per questo, forse, a qualcuno le bare aperte piacevano. Davano il senso di chiudere una partita. Se vedi, accetti. Ero accanto a mia madre quando è morta, l'ho vista spirare. Eppure, al funerale, avevo avuto la tentazione di controllare la bara per avere la sicurezza, per verificare se alle volte Dio non avesse cambiato idea. Molti familiari, credo, reagiscono così. Negare ciò che hai davanti agli occhi è uno degli aspetti del fenomeno e si spera contro ogni evidenza. Come stavo facendo io. Stavo stringendo accordi con un'entità nella quale non credevo, stavo pregando perché avvenisse un miracolo, perché qualcuno si fosse sbagliato, magari l'Fbi nel prendere le impronte digitali o i Rogers nell'identificarla oppure amici e parenti riuniti nella cappella: il miracolo che Sheila fosse ancora viva, che non l'avessero uccisa e lasciata ai margini di una strada. Ma tutto questo, ovviamente, non era avvenuto. Non esattamente, in ogni caso. Quando Edna Rogers e io arrivammo all'altezza del feretro mi costrinsi a guardarvi dentro. E subito il terreno mi mancò sotto i piedi e cominciai a precipitare. «Hanno fatto un bel lavoro, non trova?» mi sussurrò la signora Rogers. Si aggrappò al mio braccio e cominciò a piangere. Ma questo succedeva da un'altra parte, lontano da me. Io non ero con lei. Stavo ancora guardando dentro la bara e proprio allora si fece strada la verità. Sheila Rogers era effettivamente morta, senza alcuna ombra di dubbio. Ma la donna che amavo, la donna con cui avevo vissuto, la donna che avevo tenuto tra le braccia, la donna che volevo sposare, non era Sheila Rogers. 49 Non svenni, ma ci mancò poco.
La cappella cominciò in effetti a girare su se stessa. La mia vista subì uno strano fenomeno, un'alternanza di luce e buio, di immagini ravvicinate e subito dopo lontane. Inciampai, rischiando di finire dentro la bara accanto a Sheila Rogers, una donna che non avevo mai visto prima ma che conoscevo fin troppo intimamente. Una mano scattò ad afferrarmi il braccio. Era Squares. Lo guardai. Aveva il volto contratto, pallido. I nostri sguardi s'incrociarono e lui mi fece un leggerissimo segno d'intesa. Non era stata la mia immaginazione, non era stato un miraggio. L'aveva visto anche Squares. Rimanemmo fino al termine del funerale. Che altro avremmo potuto fare? Me ne stetti seduto, incapace di staccare gli occhi dal cadavere di quella sconosciuta, incapace di parlare. Ero sopraffatto, tremavo, ma nessuno ci faceva caso. Dopo tutto, eravamo a un funerale. Dopo che la bara fu calata nella fossa, Edna Rogers ci invitò a tornare a casa sua ma rifiutammo educatamente, con la scusa che rischiavamo di perdere l'aereo. Ci infilammo in auto, Squares mise in moto e ci allontanammo quanto bastava. Poi lui accostò al marciapiede e mi lasciò sfogare. «Vediamo se siamo sintonizzati sulla stessa lunghezza d'onda» disse. Annuii, ormai quasi calmo. Ancora una volta avevo dovuto controllarmi, ma stavolta per mettere freno all'euforia. Non tenni lo sguardo sull'obiettivo, sul quadro d'insieme, ma mi concentrai sui dettagli, sulle minuzie. Misi a fuoco un albero, perché non ce la facevo ad assorbire con lo sguardo l'intera foresta. «Tutte quelle cose che abbiamo sentito sul conto di Sheila» disse ancora Squares «la sua fuga da casa, gli anni trascorsi sulla strada, la droga che spacciava, la camera divisa al college con la tua ex ragazza, le impronte digitali a casa di tuo fratello... Tutte queste cose...» «Si riferivano alla sconosciuta che abbiamo appena sepolto» conclusi al posto suo. «E quindi Sheila, o meglio la signora che io e te conoscevamo come Sheila...» «Non ha fatto nulla di tutto questo, non è stata nulla di tutto questo.» Squares ci pensò su. «Grandioso» disse poi. Riuscii a sorridere. «Decisamente.» «Se la nostra Sheila non è morta vuol dire che è viva» osservò Squares sull'aereo che ci riportava a New York. Lo guardai.
«Stai a sentire, la gente paga fior di bigliettoni per abbeverarsi alla mia fonte di saggezza» mi disse. «E io invece mi abbevero gratis, pensa che fortuna.» «Che facciamo ora?» Incrociai le braccia. «Donna White.» «Lo pseudonimo che aveva preso dai Goldberg?» «Esatto. I tuoi hanno controllato fra i passeggeri di una compagnia aerea?» «Sì, stavano cercando di ricostruire la sua fuga a ovest.» «Credi che ora potrebbero allargare il campo delle ricerche?» «Sì, certo.» La hostess ci portò lo "spuntino" e il mio cervello continuò a ronzare. Il volo stava avendo su di me un effetto salutare, mi dava tempo di pensare. Purtroppo, però, mi dava anche il tempo di confrontare le realtà, di notare le ripercussioni. Cercai di impedirmelo, non volevo che la speranza mi oscurasse il pensiero. Non ancora, non adesso che sapevo tanto poco. «Questo spiega un sacco di cose» dissi. «Per esempio?» «Per esempio la sua smania di segretezza, il non volersi fare fotografare, i pochi effetti personali. Il silenzio sul suo passato.» Squares annuì. «Una volta Sheila...» e mi interruppi perché verosimilmente non era quello il suo nome «si distrasse e mi raccontò di essere cresciuta in una fattoria. Ma il padre della vera Sheila Rogers lavorava in un'azienda che produce telecomandi per porte di box. Era anche terrorizzata all'idea di telefonare ai genitori, probabilmente per il semplice motivo che quelli non erano i suoi genitori. E io lo interpretai come la conseguenza di un passato terribile.» «Mentre invece potrebbe essersi trattato di una donna che aveva deciso di nascondersi.» «Esatto.» «Quindi la vera Sheila Rogers» proseguì Squares sollevando lo sguardo «voglio dire, quella che abbiamo appena sepolto se la faceva con tuo fratello.» «Così sembrerebbe.» «E le sue impronte digitali erano sul luogo del delitto.» «Esatto.» «E la tua Sheila?»
Mi strinsi nelle spalle. «Bene, allora diamo per scontato che la donna con Ken in Nuovo Messico, quella vista dai vicini, era la Sheila Rogers morta?» «Sì.» «E avevano con loro una bambina.» Silenzio. Squares mi guardò. «Stai pensando quello che penso io?» «Sì, sto pensando che la bambina era Carly e Ken porrebbe benissimo esserne il padre.» «Già.» Mi misi comodo sul sedile e chiusi gli occhi. Squares aprì il vassoietto dello snack, ne osservò il contenuto e imprecò. «Will?» «Sì?» «Hai idea di chi sia la donna che amavi?» «No. Nessuna» risposi, senza aprire gli occhi. 50 Squares se ne andò a casa, promettendomi che mi avrebbe informato se avesse saputo qualcosa sui movimenti di Donna White. Me ne tornai a casa anch'io, distrutto dalla stanchezza mentale. Quando infilai la chiave nella serratura sentii una mano toccarmi la spalla. Trasalii facendo un salto indietro. «Tranquillo» disse lei. Katy Miller. Aveva la voce rauca e portava un collarino ortopedico, il volto era gonfio e gli occhi arrossati di sangue. Oltre il margine del collarino, sotto il mento, vidi un lungo livido viola scuro e giallo. «Stai bene?» le chiesi. Annuì. L'abbracciai esitante, troppo esitante, senza stringerla a me e tenendola a distanza per paura di farle male. «Non mi spezzo» disse. «Quando sei uscita?» «Qualche ora fa. Non posso fermarmi molto, se mio padre sapesse dove sono...» Alzai una mano. «Non dire altro.»
Aprii la porta ed entrammo, lei muovendosi fece una smorfia di dolore. Andammo a sederci sul divano e le chiesi se voleva qualcosa da bere o da mangiare. Rispose di no. «Sei sicura di aver fatto bene a lasciare l'ospedale?» «Mi hanno detto che potevo, ma che devo riposarmi.» «Come hai fatto ad allontanarti da tuo padre?» Abbozzò un sorriso. «Sono una testa dura.» «Lo vedo.» «E ho mentito.» «Non ne dubito.» Non poteva girarsi e mi guardò solo con gli occhi, che le si fecero lucidi. «Grazie, Will.» Scossi la testa, «Non posso fare a meno di pensare che è stata colpa mia.» «Fesserie.» Cambiai posizione sul divano. «Quando quello ti ha aggredito hai gridato il nome John. Almeno, mi sembra di avertelo sentito gridare.» «Me l'ha detto la polizia.» «Non te lo ricordi?» Fece segno di no. «Che cosa ricordi?» Le si riempirono gli occhi di lacrime. «Le sue mani sulla gola. Dormivo e all'improvviso qualcuno mi stava stringendo il collo. Ricordo che cercavo disperatamente di respirare.» La voce le si spezzò. «Sai chi è John Asselta?» «Sì, era amico di Julie.» «Poteva essere il suo quel nome John che hai gridato?» Ci pensò su. «Non lo so proprio, Will. Perché?» Ricordai la promessa di tenerla fuori che avevo fatto a Pistillo. «Credo che Asselta abbia avuto a che fare con l'uccisione di Julie.» Assorbì quelle parole senza battere ciglio. «Per "avere a che fare" intendi?...» «Per il momento è tutto quello che posso dire.» «Parli come un poliziotto.» «È stata una strana settimana.» «Dimmi che cosa hai saputo.» «Anche se sei curiosa credo che dovresti dar retta ai medici.» Mi guardò accigliata. «E questo che significa?»
«Che hai bisogno di riposo.» «Vuoi che non mi impicci?» «Sì.» «Hai paura che mi possa succedere qualche altra cosa?» «Sì, una gran paura.» Il suo sguardo sembrò incendiarsi. «So badare a me stessa.» «Non ne dubito, ma ci troviamo su un terreno molto pericoloso.» «E tu finora che hai fatto?» Touché. «Senti, Katy, ho bisogno che ti fidi di me.» «Will?» «Sì?» «Non ti libererai di me tanto facilmente.» «Non voglio liberarmi di te, ma è necessario proteggerti.» «Non puoi» disse piano. «E lo sai.» Non replicai. Katy mi si avvicinò ancora. «Devo arrivare alla verità. E tu dovresti capirlo più degli altri.» «Infatti lo capisco.» «E allora?» «Ho promesso di non aprire bocca.» «Promesso a chi?» «Tu fidati di me, okay?» Si alzò. «Okay neanche per sogno.» «Sto cercando...» «Se io dicessi a te di girare al largo, mi staresti a sentire?» Rimasi a testa bassa. «Non posso parlare.» Andò alla porta. «Aspetta un momento» le dissi. «Ora non ho tempo» tagliò corto. «Mio padre si starà chiedendo che fine ho fatto.» Mi alzai. «Chiamami, mi raccomando.» Le diedi il mio numero di cellulare, il suo l'avevo già imparato a memoria. Uscì sbattendo la porta. Katy Miller scese in strada. Il collo le faceva un male cane: lo stava sforzando troppo, lo sapeva, ma non poteva farci nulla. Era su tutte le furie. Erano arrivati fino a Will? Non le sembrava possibile, ma magari lui era marcio come gli altri. O forse no, forse Will credeva davvero di pro-
teggerla. Quindi, da allora in poi, lei avrebbe dovuto essere più prudente. Si sentiva la gola secca, aveva un gran bisogno di bere qualcosa, ma inghiottire era ancora doloroso. Quando sarebbe finito tutto questo? Presto, sperò. Ma lei sarebbe arrivata fino alla fine, l'aveva promesso a se stessa. Ormai non poteva più tornare indietro, voleva assistere alla resa dei conti con l'assassino di Julie. Camminò in direzione sud sulla Diciottesima, poi puntò verso la zona delle macellerie all'ingrosso. Era un'ora tranquilla, quella, l'arco di tempo tra lo scarico merci della giornata e la sordida vita notturna. New York era così, un teatro nel quale si rappresentano quotidianamente due show diversi con scene, costumi e perfino attori differenti. Ma di giorno, di notte o anche al crepuscolo in quella strada stagnava un tanfo di carne marcia, del quale non ci si riusciva a liberare. Un tanfo umano o animale, difficile capire. Era tornato il panico. Si fermò, cercando di scacciarlo. Il ricordo di quelle mani che le stringevano la gola, che giocavano con lei aprendo e chiudendo la trachea a loro piacimento. Tanta forza da una parte, tanta impotenza dall'altra. Lui le aveva bloccato la respirazione. Le aveva stretto il collo finché lei aveva smesso di respirare, finché la vita aveva preso a defluire lentamente. Proprio come a Julie. Era così persa in questo orribile ricordo che non si rese conto di nulla fin quando lui non le afferrò un gomito. Allora si voltò di scatto. «Ma che?...» Il Fantasma non allentò la presa. «Mi sembra di aver capito che mi stavi cercando» disse con quella sua voce da gatto che fa le fusa. «Bene, eccomi qui» aggiunse sorridendo. 51 Rimasi seduto. Katy aveva tutte le ragioni di essere arrabbiata, ma la sua rabbia era per me il male minore: preferibile, cioè, a un altro funerale. Mi stropicciai gli occhi e stesi le gambe. Probabilmente mi ero addormentato, non saprei dirlo con certezza, ma quel che è certo è che quando squillò il telefono mi accorsi con sorpresa che era mattina. Prima di rispondere guardai sul display da chi venisse la chiamata. Era Squares. Afferrai il ricevitore. «Ehi» dissi.
Saltò i preliminari. «Forse abbiamo trovato la nostra Sheila.» Mezz'ora dopo, entravo nella hall del Regina Hotel. L'albergo si trovava a circa un chilometro e mezzo da casa mia. Avevamo pensato che lei si fosse rifugiata all'altra estremità degli Stati Uniti e invece Sheila - non sapevo come altro chiamarla - era rimasta tanto vicino. L'agenzia investigativa alla quale Squares si rivolgeva di solito non aveva dovuto faticare granché per localizzarla, perché lei aveva abbandonato ogni cautela dopo la morte della donna alla quale aveva preso il nome. Aveva fatto un versamento su un conto della First National e un pagamento con la Visa. Non si può vivere in questa città, e a pensarci bene quasi da nessuna parte, senza carta di credito. I giorni in cui ci si registrava nei motel sotto falso nome e si pagava in contanti sono passati da un pezzo. Esistono ancora delle topaie, posti che a malapena hanno l'abitabilità, dove i titolari sono disposti a guardare da un'altra parte. Ma rappresentano delle eccezioni, quasi dappertutto oggigiorno ti chiedono come minimo di prendere i dati della tua carta di credito, in caso tu ti portassi via qualcosa o danneggiassi la stanza. La transazione non entra necessariamente in rete, perché potrebbero limitarsi alla registrazione del numero della carta: ma di questa in ogni caso tu hai bisogno. Lei, probabilmente, aveva ritenuto di essere in salvo: i Goldberg, una coppia che sopravviveva grazie alla discrezione, le avevano venduto una nuova identità e lei non aveva motivo di temere che la potessero tradire. Se avevano parlato era stato sia per l'amicizia che li legava a Squares e Raquel sia perché si erano sentiti in parte corresponsabili del suo "assassinio". Se a ciò si aggiunge il fatto che ora la vera Sheila Rogers era morta, e quindi nessuno avrebbe avuto motivo di risalire fino a lei, si capiva perché avesse leggermente abbassato la guardia. La carta di credito era stata usata il giorno prima per prelevare soldi da un bancomat di Union Square. Da lì era stato un gioco da ragazzi controllare presso gli alberghi della zona. Il lavoro degli investigatori privati si basa di solito sugli informatori e sulle mance, il che è in pratica la stessa cosa. I buoni detective dispongono di fonti nelle compagnie telefoniche, l'Ufficio delle imposte, le società delle carte di credito, la Motorizzazione civile, un po' dappertutto. Se pensate che sia difficile, se cioè considerate quasi impossibile trovare qualcuno disposto a dare informazioni a pagamento, vuol dire che non leggete abbastanza i giornali. In questo caso la ricerca era stata ancora più facile, era bastato telefonare
agli alberghi chiedendo di parlare con Donna White fin quando non si era trovato quello in cui la centralinista aveva detto "Attenda in linea, prego". E ora, mentre salivo i gradini ed entravo nella hall del Regina, mi sentivo eccitatissimo. Era viva. Non potevo permettermi di illudermi finché non l'avessi vista con i miei occhi. La speranza combina strani scherzi al cervello, lo può ottenebrare come illuminare. Mentre fino a ieri mi sforzavo di credere che un miracolo fosse possibile, ora temevo che qualcuno potesse portarmi via quel sogno diventato realtà: che stavolta guardando dentro la bara vi avrei trovato la salma della mia Sheila. Ti amerò sempre. Così c'era scritto sul biglietto che mi aveva lasciato. Sempre. Avevo detto a Squares che volevo andarci da solo e lui aveva capito. La donna alla reception, una bionda dal sorriso incerto, era al telefono. Mi fece capire che stava per finire. Le feci segno di prendersela comoda e mi appoggiai al banco, fingendomi rilassato. Un minuto dopo riagganciò il ricevitore e mi dedicò la sua incondizionata attenzione. «Posso esserle utile?» «Sì.» La mia voce suonò innaturale, troppo modulata, come se fossi l'ospite di un programma radiofonico. «Dovrei vedere Donna White. Può dirmi il suo numero di stanza?» «Mi spiace, signore, ma non diamo il numero di stanza dei nostri ospiti.» Mi sarei dato uno schiaffo in fronte. Come potevo essere stato tanto stupido? «Certo, mi scusi, la chiamo prima. C'è un telefono interno?» Indicò un punto alla mia destra. Sulla parete c'erano tre telefoni bianchi uno accanto all'altro, tutti senza tastiera. Sollevai un ricevitore e attesi il segnale di libero. Mi rispose una centralinista, alla quale chiesi di collegarmi con la stanza di Donna White. «È un piacere» disse, ricorrendo a quella che ormai era diventata la frase buona per ogni occasione dei dipendenti alberghieri. Il cuore mi si arrampicò sulla trachea. Due squilli. Poi tre. Al sesto fui automaticamente collegato con una voce metallica, che mi informò che la persona desiderata non era in quel momento nella sua camera, dandomi le istruzioni per lasciare un messaggio. Riagganciai. E ora? Non mi restava che aspettare, che altro avrei potuto fare? Comprai un giornale all'edicola e mi andai a sistemare in un punto della hall dal quale
era possibile sorvegliare l'entrata. Tenni il giornale sul viso, come il personaggio di un fumetto, sentendomi un completo idiota. Avevo i crampi allo stomaco. Non mi ero mai considerato un tipo da ulcera, ma negli ultimi giorni un bruciore acido aveva preso ad artigliarmi. Cercai di leggere il giornale, nel tentativo, ovviamente vano, di distrarmi. Non riuscivo a concentrarmi, non potevo stare fermo e ogni tre secondi fissavo l'entrata. Voltai le pagine, guardai le foto, mi sforzai di leggere i risultati sportivi. Passai ai fumetti, ma anche Beetle Bailey era troppo impegnativo. Ogni tanto la bionda alla reception mi lanciava un'occhiata e, quando i nostri sguardi s'incontravano, lei sorrideva con aria di superiorità. Mi stava tenendo d'occhio, indubbiamente. O forse ragionavo ormai da paranoico. Ero soltanto uno che leggeva il giornale nella hall, non avevo fatto alcunché per insospettirla. Passò un'ora senza che accadesse nulla. Squillò il mio cellulare e me lo portai all'orecchio. «Non l'hai ancora vista?» mi chiese Squares. «Non è nella sua stanza. O, quanto meno, non risponde al telefono.» «Dove sei in questo momento?» «Appostato nella hall.» Squares emise un suono. «Che cosa c'è?» chiesi. «Hai detto davvero "appostato"?» «Senti, piantala.» «Perché questo lavoro non lo facciamo fare a un paio di ragazzi dell'agenzia? Ci chiameranno appena arriva.» Ci pensai su. «Non ancora» dissi poi. E in quel momento lei entrò. Spalancai gli occhi e, senza accorgermene, presi a respirare in profonde boccate. Mio Dio. Era proprio la mia Sheila. Era viva. Per poco non feci cadere il cellulare. «Will?» «Devo andare.» «Lei è lì?» «Ti richiamo.» La mia Sheila aveva cambiato foggia di capelli, che ora erano neri e corti, con le punte all'insù alla fine di quel suo collo di cigno. Adesso aveva anche la frangetta. Ma l'effetto... Vederla e sentirmi come se mi avessero
sferrato un pugno sul torace fu tutt'uno. Sheila continuò ad avanzare e io feci per alzarmi ma il capogiro mi costrinse a fermarmi. Lei camminava nel suo solito modo, senza esitazioni, a testa alta, decisa. Le porte dell'ascensore erano già aperte e mi resi conto che avrei potuto non riuscire a raggiungerla. Entrò in ascensore. Io ero ormai in piedi e mi misi a camminare a passo svelto, ma senza correre. Non volevo farmi notare. Qualsiasi cosa stesse avvenendo, qualsiasi cosa l'avesse convinta a svanire, a cambiare nome, a camuffarsi e sa Dio a che cos'altro, richiedeva da parte mia delle contromosse adeguate. Non potevo, cioè, gridare il suo nome e mettermi a correre in mezzo alla hall. Il rumore dei miei passi sul marmo mi rimbombava nelle orecchie. Non ce l'avrei fatta. Mi fermai a guardare le porte dell'ascensore che si richiudevano. Maledizione. Premetti il pulsante e immediatamente se ne aprì un altro. Feci per entrare, ma le porte si richiusero e l'ascensore si mise di nuovo in movimento. Ma poi, pensai, che cosa avrei risolto prendendolo se non sapevo nemmeno a che piano sarebbe scesa lei? Controllai le lucine dell'ascensore della mia Sheila, che si muovevano a intervalli regolari. Quinto piano, sesto piano. Era l'unica passeggera? Pensavo di sì. L'ascensore si fermò al nono piano. Okay. Schiacciai il pulsante di chiamata e a scendere fu proprio quello appena preso da lei. Mi ci infilai dentro e premetti il numero nove, sperando di arrivare prima che lei entrasse in camera. Le porte cominciarono a chiudersi e io mi stavo appoggiando alla parete di fondo quando all'improvviso una mano si infilò tra i battenti, che si riaprirono. Un uomo sudato vestito di grigio entrò con un sospiro e mi fece un cenno di saluto, poi premette il numero undici. Le porte si richiusero e cominciammo a salire. «Fa caldo fuori» commentò. «Già.» Sospirò di nuovo. «Buon hotel, non trova?» Un turista, pensai. Avevo usato un milione di ascensori di New York, e i newyorkesi capiscono le regole: in ascensore si guardano i numeri che lampeggiano; in ascensore non si fa conversazione con gli sconosciuti. Gli risposi di sì, che trovavo il Regina un buon hotel. Frattanto le porte
si aprirono al nono piano e schizzai fuori. Il corridoio era lungo. Guardai a sinistra. Nulla. Guardai a destra e sentii chiudersi una porta. Simile a un cane da caccia che ha finito di puntare mi lanciai nella direzione dalla quale era venuto il rumore. A destra, alla fine del corridoio. Seguii l'odore, per così dire, e decisi che la porta che avevo sentito chiudersi doveva essere quella della stanza 912 o 914. Guardai l'una e l'altra e mi ricordai un episodio della serie di Batman nel quale Catwoman gli promette che dietro una porta troverà lei e dietro l'altra una tigre. Batman aveva scelto quella sbagliata. Ma qui Batman non c'entrava niente. Bussai a entrambe le porte, poi mi misi tra le due e attesi. Niente. Bussai di nuovo, stavolta più forte. Fui premiato con un po' di movimento proveniente dalla stanza 912. Mi piazzai davanti alla porta, sistemandomi il colletto della camicia. Udii la catenella che veniva tolta e mi preparai. La maniglia si abbassò e la porta cominciò ad aprirsi. L'uomo era corpulento e seccato. Indossava una maglietta con il collo a V e un paio di boxer a righe. «Che c'è?» abbaiò. «Mi scusi. Cercavo Donna White.» Si piazzò i pugni sui fianchi. «Ho l'aria di una Donna White?» Strani rumori provenivano dalla stanza di quello scorbutico. Tesi l'orecchio. Mugolii, mugolii di finto piacere. L'uomo in mutande incrociò il mio sguardo e non mi sembrò contento. Feci un passo indietro. TV a pagamento, pensai. Si stava guardando un filmetto porno. Tipico caso di "porno interruptus". «Mi scusi» dissi. Quello mi sbatté la porta in faccia. Okay, cancelliamo la stanza 912. Almeno speravo con tutto il cuore di poterla cancellare. Che follia. Sollevai il braccio per bussare alla 914 quando udii una voce. «Serve aiuto?» Mi voltai e vidi all'estremità del corridoio un tipo in blazer blu con il cranio rasato e senza collo. Sul bavero del blazer notai un piccolo logo. L'uomo gonfiò il torace: era un agente della sicurezza dell'albergo, orgoglioso del suo status. «No, grazie» risposi. Si accigliò. «Lei è un ospite dell'albergo?» «Sì.» «Che numero di stanza?» «Non ho numero di stanza.»
«Ma ha appena detto...» Bussai forte alla porta. Testa rasata si mosse veloce e per un momento pensai che volesse tuffarsi su di me per proteggere la porta, ma all'ultimo momento si fermò. «Mi segua, prego.» Lo ignorai e bussai ancora, senza ottenere risposta. Testa rasata mise un braccio sul mio, io me ne liberai e bussai un'altra volta gridando: «Lo so che non sei Sheila!». Questo frastornò l'agente, sempre più accigliato. Ci mettemmo entrambi a guardare la porta, ma nessuno venne ad aprire. Testa rasata mi prese di nuovo il braccio, stavolta più educatamente, e io decisi di non reagire. Mi riportò giù, nella hall. Mi ritrovai sul marciapiede davanti all'albergo e, voltandomi, vidi Testa rasata gonfiare il torace e incrociare le braccia. E ora? Altro assioma newyorkese: non si può stare fermi su un marciapiede. Il flusso dei pedoni è essenziale, la gente ha fretta e non può trovare ostacoli sul suo cammino. Se ci sono, può anche deviare ma senza fermarsi. Cercai un posto sicuro. Il trucco era rimanere il più vicino possibile all'edificio. Mi avvicinai a un finestrone a specchio, estrassi di tasca il cellulare, chiamai l'albergo e chiesi di parlare con Donna White. Fui gratificato di un altro: «È un piacere» e mi passarono la stanza desiderata. Nessuna risposta. Stavolta lasciai un semplice messaggio. Le diedi il mio numero di cellulare pregandola di richiamarmi e cercando di non dare alcun tono di supplica alle mie parole. Mi misi in tasca il telefono, ponendomi ancora quella domanda: e ora? La mia Sheila era lì dentro. Il pensiero mi faceva girare la testa. La desideravo, ma c'erano troppi interrogativi, troppi "se" e "ma". Mi costrinsi a spazzarli via. Allora, vediamo un po'. Anzitutto, era possibile che l'albergo avesse un'altra uscita? Un'uscita posteriore, oppure un passaggio dalle cantine? Forse i suoi occhi dietro gli occhiali da sole mi avevano visto? Per questo si era affrettata a prendere l'ascensore? Seguendola avevo sbagliato numero della stanza? Quello era possibile. Sapevo che si trovava al nono piano e questo era già qualcosa. Oppure no, perché se effettivamente mi aveva visto avrebbe potuto scendere a un altro piano e proseguire sulle scale per sviarmi. Devo restare su questo marciapiede?
Non sapevo darmi una risposta. A casa non potevo tornare, poco ma sicuro. Respirai a fondo. Osservai i pedoni passarmi accanto, così numerosi, una massa indistinta, entità separate che formavano un tutto unico. Poi, guardando dentro quella massa, la vidi. E il mio cuore si bloccò. Era lì ferma e mi fissava. Ero troppo sopraffatto per potermi muovere, sentii qualcosa cedere dentro di me. Mi portai una mano alla bocca per soffocare un grido. Lei si mosse nella mia direzione, con gli occhi velati di lacrime. Scossi la testa. Lei non si fermò, ma allungò le braccia e mi tirò a sé. «Va tutto bene» sussurrò. Chiusi gli occhi e rimanemmo a lungo a stringerci. Senza parlare. Senza muoverci. Poi ci allontanammo, scivolando tra la gente che passava. 52 «Il mio vero nome è Nora Spring.» Sedevamo a un tavolino al piano inferiore di uno Starbucks, su Park Avenue, accanto a un'uscita d'emergenza. Non c'era nessun altro, ma lei teneva gli occhi sulle scale temendo che fossi stato seguito. Questo Starbucks, come tanti altri, aveva alle pareti quadri dalle tonalità color terra, oltre a foto ingrandite di uomini dalla pelle scura intenti, con eccessiva allegria, alla raccolta del caffè. Lei aveva tra le mani un latte freddo, io un cappuccino. Le poltroncine erano viola, enormi e abbastanza eleganti. Le accostammo tra loro e ci prendemmo le mani. Ero confuso, ovviamente. Volevo risposte, è logico. Ma, al di là di questo, mi sentivo inondato di gioia allo stato puro. Un fiotto di incredibile meraviglia che mi calmava. Ed ero felice. Qualsiasi cosa stessi per udire non avrebbe diminuito la mia felicità. La donna che amavo era tornata, e nulla avrebbe dovuto cambiare quella situazione. Bevve un sorso di latte. «Mi dispiace» disse. Le strinsi la mano. «Andarmene in quel modo. Farti pensare che...» si interruppe «non riesco nemmeno a immaginare che cosa devi avere pensato.» I suoi occhi trovarono i miei. «Non ho mai voluto farti del male.» «Sto bene.» «Come hai scoperto che non ero Sheila?»
«Al funerale della vera Sheila. Ho visto la salma.» «Avrei voluto dirtelo, soprattutto quando ho saputo che era stata uccisa.» «Perché non l'hai fatto?» «Ken mi ha detto che avresti rischiato di farti ammazzare.» Il nome di mio fratello suonò decisamente stonato. Nora distolse lo sguardo. Io le feci scivolare una mano lungo il braccio e mi fermai sulla spalla, dove i muscoli erano come annodati per la tensione. Glieli massaggiai dolcemente, un gesto per noi familiare. Lei chiuse gli occhi, mentre le mie dita la rilassavano. Rimanemmo a lungo in silenzio e fui io a romperlo. «Da quanto conosci mio fratello?» «Da quasi quattro anni.» Annuii, anche se scioccato, cercando di incoraggiarla a continuare, ma lei teneva sempre il viso girato. Le presi dolcemente il mento tra le dita e la feci voltare, poi le sfiorai le labbra con un bacio. «Ti amo tanto» disse. Quelle parole mi fecero quasi schizzare dalla poltroncina. «Anch'io ti amo.» «Ho paura, Will.» «Ti proteggerò io.» Lei ricambiò il mio sguardo senza abbassare gli occhi. «Ti ho mentito, per tutto il tempo che siamo stati insieme.» «Lo so.» «Pensi davvero che porremo passarci sopra?» «Ti ho perso una volta e non voglio che succeda più.» «Ne sei tanto sicuro?» «Ti amo. E ti amerò sempre.» Studiò il mio viso, ma non sapevo che cosa vi stava cercando. «Sono sposata, Will.» Provai a rimanere impassibile, ma non fu facile. Le sue parole mi avvolsero, stringendomi come le spire di un boa constrictor. Stavo quasi per ritirare la mano che stringeva la sua. «Racconta.» «Cinque anni fa sono fuggita di casa abbandonando mio marito, Cray. Lui era...» chiuse gli occhi «terribilmente violento. Preferisco non entrare in particolari, anche perché non sono importanti. Vivevamo a Cramden, una cittadina non lontana da Kansas City. Un giorno, dopo che Cray mi aveva fatto finire all'ospedale, scappai. È tutto ciò che devi sapere, d'accordo?»
Feci segno di sì con la testa. «Non ho famiglia. Ho degli amici, ma non volevo coinvolgerli nel mio dramma. Cray è pazzo, non mi lasciava andare via. Aveva minacciato...» La voce le si affievolì. «Lasciamo stare. Non potevo far correre rischi a qualcuno. Trovai un rifugio per le donne vittime di maltrattamenti. Spiegai che volevo andarmene da Cramden, ma avevo paura di Cray. Perché è un poliziotto, sai. Non hai idea... Avevo vissuto tanto tempo nel terrore da cominciare a credere che quell'uomo fosse onnipotente. È impossibile da spiegare.» Mi feci più vicino, senza lasciarle la mano. Avevo già visto le conseguenze delle violenze in famiglie e la capivo. «Quelli del rifugio mi aiutarono a fuggire in Europa. Vivevo a Stoccolma, ma non me la passavo bene. Facevo la cameriera ed ero sempre sola. Volevo tornare a casa, ma avevo tanta paura di mio marito che mi mancava il coraggio. Ma dopo sei mesi temetti di uscire di senno. Nei miei incubi vedevo sempre Cray che mi ritrovava...» La voce le si spezzò. Io, non sapendo che cosa fare, avvicinai ancora la poltroncina finché i braccioli si toccarono. E credo che quel gesto le abbia fatto piacere. «Un giorno conobbi una donna, un'americana che abitava dalle mie parti. All'inizio eravamo entrambe diffidenti, ma capii che anche lei aveva un segreto: forse perché tutte e due avevamo l'aria delle fuggitive. Ed eravamo terribilmente sole, nonostante lei avesse un marito e una figlia. Anche loro si nascondevano, ma questo all'inizio non lo sapevo.» «Quella donna era Sheila Rogers?» le chiesi. «Sì.» «E il marito...» mi interruppi e inghiottii «era mio fratello.» Annuì. «Avevano una bambina. Carly.» Le cose cominciavano a quadrare. «Io e Sheila diventammo amiche intime. E divenni amica anche di Ken, sebbene lui all'inizio non si fidasse. Andai a stare da loro, li aiutavo ad accudire Carly. Tua nipote è una bambina meravigliosa, Will. Bella e brava, oltre che circondata da una speciale aura, se mi passi questa immagine.» Mia nipote. Ken aveva una figlia. E io una nipote che non avevo mai visto. «Tuo fratello parlava sempre di te, Will. Parlava anche di tuo padre, di tua madre e perfino di Melissa, ma il suo mondo eri tu. Seguiva il tuo lavoro, sapeva che tipo di attività svolgevi a Covenant House. Si nascondeva in
Svezia da circa sei anni e credo che anche lui si sentisse solo. Così, quando decise di fidarsi di me, cominciò a parlarmi a lungo: soprattutto di te.» Battei le palpebre e abbassai gli occhi sul tavolino, studiando i tovaglioli marrone di Starbucks sui quali si leggeva una stupida poesia sull'aroma. Erano di carta riciclata, quei tovaglioli, e di colore marrone perché non avevano usato lo sbiancante. «Stai bene?» mi chiese. «Sto bene.» Sollevai gli occhi. «E poi, che cosa è successo?» «Mi misi in contatto con un'amica a Cramden e da lei venni a sapere che Cray si era rivolto a un investigatore privato, grazie al quale aveva scoperto che vivevo a Stoccolma. Ero terrorizzata ma, al tempo stesso, avevo deciso di andarmene dalla Svezia. Come ti ho detto, io e Cray abitavamo nel Missouri e pensai quindi che se mi fossi trasferita a New York sarei stata al sicuro. Ma dovevo cambiare identità, nel caso Cray mi stesse dando ancora la caccia. Sheila aveva lo stesso problema, aveva un altro nome, ma capiva che poteva non bastarle. Fu allora che architettammo un piano abbastanza semplice.» Lo conoscevo, quel piano. «Vi siete scambiate le identità.» «Esatto. Lei diventò Nora Spring e io Sheila Rogers. In tal modo, mio marito avrebbe trovato lei. E quelli che cercavano lei, me.» Mi resi conto che qualcosa continuava a non quadrare. «È così, allora, che sei diventata Sheila Rogers. Scambiandoti l'identità con un'altra donna.» «Sì.» «E sei finita a New York.» «Sì.» Ora veniva la parte più delicata. «E un bel giorno in qualche modo ci siamo incontrati.» Nora sorrise. «Ti stai chiedendo come sia potuto succedere, vero?» «Direi di sì.» «Stai pensando che è davvero una strana coincidenza che io mi sia offerta di fare la volontaria proprio dove lavoravi tu.» «Mi sembra improbabile» ammisi. «E hai ragione, non fu una coincidenza.» Sospirò. «Non so bene come spiegartelo, Will.» Continuai a tenerle la mano e attesi. «Devi capire, mi sentivo terribilmente sola così lontana dagli Stati Uniti. Avevo soltanto tuo fratello e Sheila, oltre a Carly, naturalmente. Passavo il
tempo a sentire tuo fratello raccontare meraviglie di te ed era come... era come se tu fossi diverso da tutti gli uomini che avevo conosciuto. A dire il vero, penso di essermi innamorata di te ancora prima di conoscerti. Quindi, appena arrivata a New York, decisi di scoprire come fossi nella realtà. Forse, pensai, se tu mi fossi sembrato a posto ti avrei anche potuto rivelare che tuo fratello era vivo, oltre che innocente, anche se lui più volte mi aveva ripetuto quanto potesse essere pericoloso per te venirlo a sapere. Ma non avevo un piano preciso. Arrivai a New York e un giorno mi presentai alla Covenant House: chiamalo destino, chiamalo come vuoi, ma appena ti ho visto ho capito che ti avrei amato per sempre.» Ero confuso e spaventato, ma sorridevo. «Che cosa c'è?» mi chiese. «Ti amo.» Mi poggiò la testa sulla spalla e rimanemmo in silenzio. C'era dell'altro, ma poteva aspettare. Per ora ci godevamo il piacere di stare insieme. Quando Nora fu pronta riprese il suo racconto. «Qualche settimana fa ero seduta accanto al letto di tua madre, in ospedale. Soffriva tanto, Will, mi confessò che non ce la faceva più, che voleva morire. Lo sai che odissea è stata la sua, vero?» Feci segno di sì con la testa. «Volevo bene a tua madre, anche questo lo sai, credo.» «Sì.» «Non potevo rimanere lì senza far niente e quindi non ho mantenuto la promessa fatta a tuo fratello. Volevo che lei conoscesse la verità prima di morire, se lo meritava. Volevo sapesse che suo figlio era vivo, che l'amava e che non aveva fatto del male a nessuno.» «Le hai detto di Ken?» «Sì. Ma lei, anche se obnubilata dalle medicine, era scettica. Aveva bisogno di una prova, credo.» Trasalii. Ora capivo come era cominciato tutto. Quella visita alla camera da letto dopo il funerale, la foto nascosta dietro la cornice. «Quindi hai dato a mia madre la foto di Ken?» Nora annuì. «Mamma non aveva visto Ken, ma solo la foto.» «Esatto.» Il che spiegava perché noi non ne avevamo mai saputo niente. «Ma le hai detto che sarebbe tornato.» «Sì.»
«Era una bugia?» Ci pensò su. «Forse ho esagerato, ma non la definirei una bugia. Sheila si è messa in contatto con me quando l'hanno catturato. Ken era sempre tanto prudente e aveva previsto un piano per lei e Carly. Così, quando l'hanno preso, madre e figlia sono fuggite e la polizia non ne ha saputo mai niente. Sheila è rimasta all'estero fin quando Ken non ha ritenuto che il pericolo fosse passato, poi è tornata di nascosto.» «E appena arrivata ti ha telefonato?» «Sì.» Il puzzle si stava ricomponendo. «Da una cabina telefonica nel Nuovo Messico?» «Sì.» Quella doveva essere stata la prima telefonata di cui mi aveva parlato Pistillo, quella dal Nuovo Messico al mio appartamento. «Allora che cosa è successo?» «Le cose hanno cominciato a mettersi male. Ho ricevuto una telefonata di Ken, agitatissimo perché qualcuno li aveva trovati. Due uomini erano entrati, mentre lui e Carly erano fuori casa, e avevano torturato Sheila per sapere da lei dov'era andato. A un certo punto lui era rientrato e li aveva uccisi entrambi, ma Sheila era gravemente ferita. Mi chiamò per dirmi di scappare, di mettermi in salvo perché la polizia avrebbe trovato le impronte digitali di Sheila: e anche McGuane e i suoi avrebbero saputo che Sheila era con lui.» «Cercavano tutti Sheila.» «Sì.» «Ed eri tu, Sheila. Quindi dovevi scomparire.» «Volevo dirtelo, ma Ken ha insistito, ha detto che non sapendo nulla saresti stato più al sicuro. Poi mi ha ricordato che c'era da considerare anche Carly. Quella gente aveva torturato e ucciso sua madre e se a Carly fosse successo qualcosa non me lo sarei potuto mai perdonare.» «Quanti anni ha, Carly?» «Dovrebbe essere vicina ai dodici, ormai.» «Quindi è nata prima che Ken si desse alla latitanza.» «Credo che all'epoca avesse sei mesi.» Altro punto dolente. Ken aveva una bambina ma non me ne aveva mai parlato. «Perché aveva tenuto segreta la nascita della piccola?» le chiesi. «Non lo so.» Finora ero riuscito a seguire la logica degli avvenimenti, ma in questa
logica non rientrava Carly. Ci pensai su. Era nata sei mesi prima della latitanza del padre. Che cosa era avvenuto nella vita di mio fratello? Sei mesi prima significava più o meno il periodo in cui Ken era un infiltrato dell'Fbi: poteva esserci un nesso temporale? Ken aveva avuto paura di mettere in pericolo la vita della piccola? Mi sembrò un'ipotesi plausibile. No, mi sfuggiva qualcosa. Stavo per fare a Nora un'altra domanda, chiederle altri particolari, quando sentii squillare il mio cellulare. Era Squares, probabilmente. Sul display non apparve alcun nome ma riconobbi all'istante il numero: Katy Miller. Premetti il tasto verde e mi avvicinai il telefono all'orecchio. «Katy?» «Oh, no, no, ha sbagliato. Riprovi, per favore.» La paura tornò a invadermi. Oh, Cristo, il Fantasma! Chiusi gli occhi. «Se le fai del male, quanto è vero Dio...» «Andiamo, Will» mi interruppe. «Non sei nella condizione di fare minacce.» «Che cosa vuoi?» «Dobbiamo fare due chiacchiere, vecchio mio.» «Lei dov'è?» «Chi? Ah, Katy, vuoi dire? È qui accanto a me.» «Voglio parlarle.» «Non mi credi, Will? Mi offendi.» «Voglio parlare con lei» ripetei. «Vuoi una prova che sia viva?» «Qualcosa del genere.» La voce del Fantasma si fece se possibile ancora più bassa e morbida. «Che ne diresti se la facessi gridare? Sarebbe una prova sufficiente?» Chiusi nuovamente gli occhi. «Non ti sento, Will.» «No.» «Ne sei sicuro? Per me non sarebbe un problema, le faccio fare uno di quegli urli che ti penetrano nel cervello e ti spezzano i nervi. Che ne dici?» «Ti prego, non farle del male. Lei non c'entra niente.» «Dove sei?» «A Park Avenue.» «Sii più preciso.» Gli diedi un indirizzo due isolati più avanti. «Mando una macchina. Sarà lì tra cinque minuti, tu entraci. Capito?»
«Sì.» «Un'altra cosa, Will.» «Che cosa?» «Non chiamare nessuno, non dirlo a nessuno. Katy Miller ha il collo dolorante in conseguenza di un precedente incontro, e non ti dico quanto mi tenti l'idea di sincerarmi delle sue condizioni.» S'interruppe. «Sei sempre lì, vecchio mio?» «Sì.» «Resisti, allora. Tra poco sarà tutto finito.» 53 Claudia Fisher entrò agitatissima nell'ufficio di Pistillo, che sollevò la testa. «Che c'è?» «Raymond Cromwell non dà più notizie di sé.» Cromwell era l'agente infiltrato che avevano assegnato a Joshua Ford, l'avvocato di Ken Klein. «Ma non aveva un microfono nascosto addosso?» chiese Pistillo. «Avevano appuntamento da McGuane, e non poteva certo andarci con microfono e fili sotto la camicia.» «E da allora non l'ha più visto nessuno?» «Proprio così, e lo stesso vale per Ford. Scomparsi entrambi.» «Gesù Cristo!» «Che cosa pensa di fare?» Pistillo, in piedi, si era già messo in movimento. «Chiamare ogni agente disponibile e fare subito un blitz nell'ufficio di McGuane.» Per me era più che straziante lasciare su due piedi Nora - mi ero già abituato a quel nome - ma non avevo scelta. L'idea di Katy sola con quel sadico psicotico mi azzannava le ossa fino al midollo. Ricordai come mi ero sentito, ammanettato al letto e impotente, mentre lui cercava di ucciderla. Chiusi gli occhi sperando che quell'immagine scomparisse. Nora si sforzò di convincermi a non andare, ma poi capì che dovevo farlo. Il nostro bacio di addio fu quasi troppo tenero. Mi staccai da lei, aveva di nuovo gli occhi velati di lacrime. «Torna da me» mi disse. La rassicurai e mi precipitai fuori. L'auto era una Ford Taurus nera con i vetri scuri e all'interno sedeva sol-
tanto l'autista, ma non lo riconobbi. Mi porse una mascherina come quelle che danno in aereo per dormire, dicendomi di mettermela e di sdraiarmi sul pavimento dietro i sedili anteriori. Feci come mi aveva detto, lui accese il motore, mise in moto e la Taurus si mosse. Approfittai del tempo a disposizione per riflettere. Sapevo tante cose, ormai, non tutto ma abbastanza. Ed ero ragionevolmente sicuro che il Fantasma aveva detto la cosa giusta: tutto sarebbe finito presto. Ripassai con la mente la sequenza degli avvenimenti, arrivando alla seguente parziale conclusione. Undici anni fa Ken si era dedicato ad attività illecite con i suoi vecchi amici McGuane e Asselta. C'era poco da girarci attorno, ormai, le cose stavano così. Ken aveva sbagliato. Sarà stato anche un eroe per me, ma mia sorella Melissa aveva sottolineato come fosse portato alla violenza. Io potevo addolcire quanto volevo quel concetto parlando di smania per l'azione, di fascino della trasgressione, ma la sostanza non cambiava. Un giorno Ken fu arrestato e accettò di aiutare le autorità a incastrare McGuane. Rischiò la vita, gli appiccicarono addosso un microfono e fece l'infiltrato. Ma McGuane e il Fantasma in qualche modo lo scoprirono. Ken fuggì rifugiandosi a casa nostra, ancora non so bene perché. Né ho capito che parte aveva avuto Julie. Non tornava a casa da un anno: era stata solo una coincidenza il suo ritorno pressoché contemporaneo a quello di Ken? Oppure lo aveva seguito, come amante o perché era lui a fornirle la droga? Ed era stata pedinata dal Fantasma, convinto che alla fine lei lo avrebbe condotto da Ken? Non lo sapevo. Non ancora, almeno. Comunque, il Fantasma li scoprì, probabilmente in un momento delicato. E li attaccò. Ken rimase ferito ma riuscì a fuggire, Julie non fu altrettanto fortunata. Il Fantasma, volendo mettere Ken sotto pressione, fece in modo che sembrasse lui l'autore del delitto: e Ken, terrorizzato dall'idea di essere ucciso o peggio, prese Sheila Rogers, la sua donna, e Carly, la loro figlioletta di pochi mesi, e si dileguò insieme a loro. Il buio al quale mi aveva costretto la mascherina si fece ancora più cupo e udii il tipico rumore di fondo che si avverte quando in auto si imbocca un tunnel. Poteva trattarsi del Midtown Tunnel o più probabilmente del Lincoln, nel qual caso voleva dire che eravamo diretti nel New Jersey. Pensai a Pistillo e alla sua posizione in quella faccenda. Lui si limitava ad applicare la vecchia norma del fine che giustifica i mezzi. In diverse circostanze Pistillo sarà stato anche il "mezzo", ma in quel caso agiva spinto da moti-
vazioni personali. Il suo ragionamento era fin troppo chiaro: Ken era un imbroglione che, per qualche motivo, aveva violato un accordo scomparendo. Si era quindi aperta la stagione della caccia a Ken il latitante, una caccia estesa a mezzo mondo per aumentare le probabilità di mettergli le mani addosso. Gli anni passano, Ken e Sheila sono sempre insieme e la figlia Carly cresce. Poi, un giorno, Ken viene catturato e riportato negli Stati Uniti. Immagino che lui fosse convinto che l'avrebbero condannato a morte per l'assassinio di Julie Miller e invece le autorità, che hanno sempre saputo della sua innocenza, lo vogliono per incastrare McGuane. E Ken può ancora aiutarli. Stringono allora un altro accordo. Ken si nasconde in Nuovo Messico e, quando la situazione appare sotto controllo, Sheila e Carly lasciano la Svezia e lo raggiungono ad Albuquerque. Ma McGuane scopre il nascondiglio e manda due uomini. Quando arrivano Ken è fuori casa con la figlia e loro allora torturano Sheila per farsi dire dove possono trovarlo. Lui rincasa, li sorprende, li uccide, poi carica sull'auto la sua donna in fin di vita e la figlia e si dà nuovamente alla fuga. Non senza avere prima avvertito Nora, che ha assunto l'identità di Sheila, che tra poco si troverà addosso la polizia e McGuane. E anche Nora è così costretta a scappare. Quello era più o meno quanto sapevo. La Ford Taurus si fermò e udii l'autista spegnere il motore. Decisi che ero stato troppo a lungo passivo e che a quel punto, se volevo avere qualche speranza di rimanere vivo, avrei dovuto far sentire la mia voce. Mi tolsi quindi la mascherina dagli occhi e guardai l'orologio, avevamo viaggiato per un'ora. Mi misi a sedere. Eravamo nel mezzo di una fitta boscaglia, con il terreno coperto da aghi di pino e gli alberi in pieno rigoglio. Vidi una specie di torre di guardia, una piccola struttura di alluminio che poggiava su una piattaforma alta circa tre metri. Assomigliava a un enorme capanno degli attrezzi, realizzato sicuramente non a scopo decorativo, un reperto postindustriale in stato di abbandono. I bordi e la porta avevano una patina di ruggine. L'autista si voltò verso di me. «Scendi.» Obbedii, con gli occhi fissi su quella struttura. Vidi aprirsi la porta e spuntare il Fantasma, vestito di nero da capo a piedi come se stesse andando al Greenwich Village per un reading di poesia. Mi fece un gesto di saluto. «Ciao, Will.»
«Lei dov'è?» gli chiesi. «Chi?» «Non cominciare con le stronzate.» Il Fantasma incrociò le braccia. «Guarda guarda, siamo diventati dei soldatini coraggiosi.» «Dov'è?» «Katy Miller, vuoi dire?» «Sì, e lo sai.» Il Fantasma aveva in mano qualcosa, sembrava una corda, forse un lazo. Mi sentii gelare. «Assomiglia tanto alla sorella, non trovi? Come potevo resistere? Vedendo quel collo, voglio dire... quel bel collo di cigno, già pieno di lividi...» Cercai di calmare il tremito della mia voce. «Dov'è?» Batté le palpebre. «È morta, Will.» Il cuore mi sprofondò sotto i talloni. «Mi ero scocciato di aspettare, così...» Poi scoppiò a ridere, e l'eco della sua risata si ripercosse nel silenzio, squarciando l'aria, artigliando le foglie. Rimasi immobile. Lui mi puntò contro un dito. «T'ho fregato!» gridò. «Stavo solo scherzando, Willie boy, mi divertivo un po'. Katy sta benissimo.» Mi fece segno di entrare. «Vieni a vedere con i tuoi occhi.» Corsi alla piattaforma, con il cuore piantato in gola. C'era una scaletta arrugginita, la salii, passai davanti al Fantasma e aprii la porta di quel capanno d'alluminio. Poi girai a destra. Katy era là. La risata del Fantasma mi risuonava ancora nelle orecchie. Corsi da lei, aveva gli occhi aperti ma le ciocche di capelli li coprivano quasi completamente. I lividi sul collo si erano fatti di un giallo itterico, le braccia erano legate alla sedia ma lei non sembrava ferita. Mi chinai scostandole i capelli dagli occhi. «Stai bene?» «Sì.» Sentii la rabbia ribollirmi dentro. «Ti ha fatto del male?» Katy Miller scosse la testa. «Che cosa vuole da noi?» mi chiese con voce tremante. «Lascia che risponda io, per favore.» Ci voltammo all'ingresso del Fantasma. Tenne la porta aperta. Il pavimento era cosparso di bottiglie di birra rotte. In un angolo si vedeva un vecchio armadietto da archivio, in un altro c'era un computer portatile chiuso. L'arredamento comprendeva anche tre sedie pieghevoli, di quelle
usate nelle assemblee scolastiche. Su una delle tre sedeva Katy, il Fantasma prese la seconda e mi fece segno di occupare quella alla sua sinistra. Rimasi in piedi e lui, con un sospiro, si rialzò. «Mi serve il tuo aiuto, Will.» Si voltò verso Katy. «E ho pensato che la presenza della signorina Miller avrebbe potuto servire da incentivo.» Mi rivolse uno di quei suoi sorrisi che facevano accapponare la pelle. Lo affrontai. «Se le fai del male, se solo alzi una mano...» Il Fantasma non si agitò né cambiò posizione. Ma la mano che teneva lungo il fianco scattò all'improvviso, colpendomi sotto il mento e poi di taglio sul collo. Un suono soffocato mi uscì dalle labbra ed ebbi l'impressione di essermi inghiottito la trachea. Mi voltai barcollando e il Fantasma se la prese comoda, si chinò e lasciò partire un pugno che concluse la sua corsa contro i miei reni. Caddi in ginocchio, semiparalizzato da quel colpo. Abbassò lo sguardo su di me. «Il tuo atteggiamento mi sta dando sui nervi, Willie boy.» Stavo per vomitare. «Dobbiamo metterci in contatto con tuo fratello, per questo sei qui» proseguì. Alzai gli occhi. «Non so dove si trovi.» Il Fantasma scivolò via da me andandosi a piazzare alle spalle della sedia di Katy. Poi con dolcezza, quasi con troppa dolcezza, le mise le mani sulle spalle. Katy trasalì e lui prese a massaggiarle i lividi con i due indici. «Sto dicendo la verità» insistetti. «Oh, ti credo.» «E allora che cosa vuoi?» «So come arrivare a Ken.» Ero confuso. «Che cosa?» «Hai mai visto uno di quei vecchi film nei quali il fuggitivo lascia messaggi nella piccola pubblicità dei quotidiani?» «Credo di sì.» Il Fantasma sorrise, come soddisfatto della mia risposta. «Ken ha ulteriormente perfezionato questo sistema, si serve di un newsgroup su Internet. Più precisamente, lascia e riceve messaggi su rec.music.elvis. Si tratta, come avrai capito, di una bacheca elettronica a disposizione dei fan di Elvis. Così, se per esempio il suo avvocato ha bisogno di mettersi in contatto con lui gli indica il giorno e l'ora servendosi di un nome in codice. E Ken saprebbe dove mandare un MI al suddetto avvocato.» «MI?»
«Messaggio istantaneo. Immagino te ne sarai servito qualche volta. È una specie di chat-room privata, assolutamente impossibile da localizzare.» «Come fai a sapere tutto questo?» Sorrise di nuovo e tornò ad avvicinare le mani al collo di Katy. «Il mio forte è anche la raccolta d'informazioni» disse. Staccò le mani da Katy e mi resi conto che stavo trattenendo il fiato. Ne infilò una in tasca e quando la tirò fuori mi accorsi che stava stringendo di nuovo quella specie di lazo. «Io a che ti servo, allora?» gli chiesi. «Tuo fratello non ha voluto incontrarsi con l'avvocato» rispose. «Probabilmente ha fiutato la trappola. Gli abbiamo fissato un altro appuntamento via MI, e spero proprio che tu lo convinca ad andarci.» «E se non dovessi riuscirci?» Sollevò la corda, vidi che all'estremità era assicurato un manico. «Lo sai che cos'è?» mi chiese. Non risposi. «È un lazo del Punjab» disse, come dando inizio a una conferenza. «Lo usavano i Thug, quei membri di una setta chiamati "assassini silenziosi". Alcuni ritengono che i Thug siano stati spazzati via nel diciottesimo secolo, altri invece non ne sono così sicuri.» Guardò Katy e sollevò quell'arma primitiva. «Devo proseguire, Will?» Scossi la testa. «Capirà che è una trappola.» «Il tuo compito è proprio quello di convincerlo del contrario. Se non ce la farai» e alzò gli occhi, sorridendo «be', la cosa avrà un suo lato positivo nel senso che ti godrai una dimostrazione pratica di quanto ha sofferto Julie tanti anni fa.» Sentii il sangue abbandonare le mie estremità. «Lo ucciderai» dissi. «Non necessariamente.» Sapevo che mentiva ma l'espressione sul suo volto era spaventosamente sincera. «Tuo fratello ha delle cassette, ha raccolto materiale compromettente. Ma ai federali non ha ancora fatto vedere o sentire niente, lo ha tenuto nascosto per tutti questi anni. Ha fatto bene, ci ha dimostrato spirito di collaborazione, significa che è rimasto il Ken che conosciamo e che amiamo.» Si fermò a riflettere. «E ha qualcosa che voglio.» «Che cosa?» Non si curò di rispondermi. «La condizione è la seguente: se ci consegna
tutto e promette di sparire di nuovo, amici come prima.» Era una bugia, lo sapevo. Ucciderà Ken, ucciderà tutti noi, non avevo alcun dubbio. «E se non ti credessi?» Fece cadere il lazo attorno al collo di Katy, che emise un gemito. Il Fantasma sorrise e mi guardò negli occhi. «Ha veramente importanza?» Inghiottii. «Direi di no.» «Diresti?» «Collaborerò.» Lasciò il lazo, che rimase a pendere dal collo di Katy come la più perversa delle collane. «Non toccarlo. Abbiamo ancora un'ora, passala guardandole il collo, Will. E immagina.» 54 McGuane era stato preso in contropiede. Non l'aveva prevista quell'irruzione dell'Fbi che si stava svolgendo davanti ai suoi occhi. Certo, Joshua Ford era un personaggio importante. Certo, la sua scomparsa avrebbe sollevato degli interrogativi, anche se prima di ucciderlo l'avevano costretto a telefonare alla moglie per informarla che doveva recarsi fuori città "per una faccenda delicata". Ma quello spiegamento di forze gli era sembrato francamente eccessivo. Lui, comunque, non si preoccupava, era sempre preparato a tutto. Il sangue era stato lavato con un nuovo preparato al perossido, in grado di nasconderne anche la traccia più microscopica al test del luminol. Anche capelli e fibre erano stati rimossi e, se pure qualcosa fosse stato trovato, si poteva spiegare con la presenza nello studio di Ford e Cromwell, che lui non aveva certo negato. Ma i due se n'erano anche andati, e McGuane poteva provarlo. Quelli della sicurezza, infatti, avevano già sostituito la registrazione televisiva originale con quella manipolata digitalmente, nella quale si vedevano Ford e Cromwell andarsene sulle loro gambe. McGuane premette un tasto che automaticamente cancellava e riformattava i file del computer: l'Fbi non avrebbe trovato nulla. Poi eseguì un backup. Il computer inviava ogni ora i backup a un archivio segreto, in modo che i file rimanessero al sicuro nel cyberspazio. Solo McGuane conosceva l'indirizzo e avrebbe quindi potuto richiamare quel backup quando voleva. Si alzò sistemandosi il nodo della cravatta quando Pistillo fece irruzione nel suo studio con Claudia Fisher e altri due agenti, puntandogli contro la pistola.
McGuane allargò le braccia. Niente paura, mai mostrare paura. «Che sorpresa piacevole.» «Dove sono?» urlò Pistillo. «Chi?» «Joshua Ford e l'agente speciale Raymond Cromwell.» McGuane non trasalì. Ecco, quindi, il motivo di quello spiegamento di forze. «Mi sta dicendo che il signor Cromwell è un agente federale?» «Proprio così» abbaiò Pistillo. «Dov'è?» «E allora voglio fare una protesta ufficiale.» «Che cosa?» «L'agente Cromwell si è spacciato per avvocato.» La voce di McGuane non tradiva la minima emozione. «Io gli ho creduto e mi sono fidato di lui, sicuro di essere protetto dalla riservatezza del rapporto avvocato-cliente. Ora vengo a sapere che è un agente infiltrato: a questo punto voglio la garanzia che nulla di ciò che gli ho detto potrà essere usato contro di me.» Pistillo era rosso in viso. «Dov'è, McGuane?» «Non ne ho la minima idea, se n'è andato insieme con Ford.» «Che tipo di incarico gli aveva affidato?» McGuane sorrise. «Andiamo, Pistillo. Conosce fin troppo bene l'esistenza del segreto professionale.» Pistillo aveva una gran voglia di premere il grilletto e mirò al centro del viso di McGuane, che però non mostrò la minima emozione. Allora abbassò l'arma. «Perquisite ogni locale» latrò. «Etichettate e imballate tutto e arrestate questo signore.» McGuane si lasciò ammanettare, senza fare il minimo accenno alla videocassetta. Preferì che la scoprissero da soli, avrebbe avuto in tal modo un impatto maggiore. Ma mentre gli agenti lo portavano via capì che qualcosa non era andato per il verso giusto. Non perché avesse esagerato, in fondo non era la prima volta che eliminava un agente federale. Ma sentì che doveva aver trascurato qualcosa, esponendosi troppo. E temette di avere commesso quell'errore fatale che gli avrebbe fatto perdere tutto. 55 Il Fantasma uscì e scese dalla piattaforma, lasciandomi solo con Katy. Mi sedetti e cominciai a fissare quel lazo che le pendeva dal collo. Stava ottenendo l'effetto desiderato, avrei collaborato, non potevo rischiare che la corda si stringesse attorno al collo di quella povera ragazza spaventata.
Katy mi guardò. «Ci ucciderà.» Non era una domanda. Era la verità, naturalmente, ma continuai a negare e le promisi che non le sarebbe successo niente, che avrei trovato una via d'uscita: ma non mi illusi certo di aver cancellato le sue preoccupazioni. La gola mi faceva meno male, ma sentivo ancora dolore al rene che aveva preso quel terribile pugno. Mi guardai attorno. Pensa, Will. E pensa in fretta. Sapevo come sarebbero andate le cose. Il Fantasma mi avrebbe costretto a fare il garante di quell'appuntamento-trappola, e all'arrivo di Ken saremmo morti tutti. Avrei tentato di mettere in guardia mio fratello, servendomi magari di qualche codice particolare. L'unica nostra speranza era che Ken fiutasse il tranello e li prendesse in contropiede. Ma dovevo trovare una via d'uscita, una qualsiasi, anche a costo di sacrificarmi per salvare Katy. Ci sarebbe stata sicuramente una falla, un momento di distrazione: e io dovevo essere pronto a sfruttarlo. «Lo so dove ci troviamo» sussurrò Katy. «Dove?» «Siamo nella riserva idrica di South Orange, una volta venivamo qui a bere. Non è lontano da Hobart Gap Road.» «Cioè, a che distanza?» «Un chilometro e mezzo, forse.» «Conosci la strada? Voglio dire, se riuscissimo a scappare saresti in grado di portarci fuori di qui?» «Credo di sì.» Poi annuì energicamente. «Sì, sì, ce la farei.» Bene, era già qualcosa. Non molto, ma pur sempre un inizio. Guardai fuori, l'autista se ne stava appoggiato alla Taurus mentre il Fantasma, con le mani dietro la schiena, si bilanciava sulle punte dei piedi. Teneva gli occhi al cielo, come se avesse improvvisamente deciso di fare del birdwatching. L'autista si accese una sigaretta. Il Fantasma non si mosse. Osservai attentamente il pavimento e trovai quello che cercavo, un grosso pezzo di vetro di bottiglia. Sbirciai nuovamente all'esterno, né il Fantasma né l'autista stavano guardando dalla mia parte. Allora scivolai alle spalle di Katy. «Che cosa stai facendo?» mi sussurrò. «Ti libero dai lacci.» «Sei fuori di capoccia? Se quello ti vede...» «Dobbiamo provare a fare qualcosa.» «Ma...» Katy s'interruppe. «Che cosa facciamo, anche se mi liberi?»
«Non lo so» ammisi. «Ma tu tieniti pronta, ci sarà il modo a un certo punto di scappare ed è un'occasione che dobbiamo sfruttare.» Premetti il vetro rotto sulla corda e iniziai a segarla, su e giù. Era un lavoro lungo e cercai di accelerare il ritmo. La corda, filo a filo, cominciò a cedere. Ero più o meno a metà strada quando sentii vibrare la piattaforma. Mi fermai. Qualcuno stava salendo la scaletta. Katy emise una specie di piagnucolio e io mi staccai da lei, tornando di corsa a sedermi proprio mentre entrava il Fantasma. Che mi fissò. «Hai il fiatone, Willie boy.» Mi feci scivolare il vetro dietro la schiena, finendo quasi per sedermici sopra. Il Fantasma mi osservava accigliato e io non dissi una parola, anche se avevo le pulsazioni a mille. Poi guardò Katy, e lei tentò di ricambiare con un'espressione di sfida. Che coraggio, quella ragazza. Ma in quel momento mi sentii invadere di nuovo dal terrore. La corda sfilacciata era in bella evidenza. «Insomma, facciamo quello che dobbiamo fare» dissi. Fu sufficiente per distarlo. Il Fantasma si voltò verso di me e Katy cambiò la posizione delle mani, riuscendo in parte a coprire la corda. Ma non sarebbe bastato, se il Fantasma avesse guardato con attenzione. O forse no. Quello attese, poi andò al computer e per un secondo, per il più breve dei secondi, mi voltò le spalle. Adesso, pensai. Dovevo scattare e infilargli nel collo il frammento di vetro. Feci un veloce calcolo mentale. Ero troppo lontano? Forse. E poi l'autista. Era armato? Ce l'avevo il coraggio di... Il Fantasma si voltò di scatto. L'occasione, se di occasione davvero si trattava, era sfumata. Il computer era già acceso e il Fantasma digitò qualcosa, connettendosi a un provider, poi premette altri tasti. «È ora di parlare con Ken» mi disse sorridendo. Sentii un nodo allo stomaco. Il Fantasma premette il tasto "Invio" e io lessi sullo schermo ciò che aveva scritto. "Ci sei?" Aspettammo. La risposta giunse un attimo dopo. "Ci sono." Il Fantasma sorrise. «Ah, Ken.» Scrisse qualcos'altro e premette nuovamente il tasto "Invio".
"Sono Will, con me c'è anche Ford." Lunga pausa. "Dimmi il nome della prima ragazza che ti sei fatto." Il Fantasma si girò verso di me. «Come prevedevo, vuole la prova che sia veramente tu quello con cui sta chattando.» Non dissi nulla, ma la mia mente era in subbuglio. «Lo so a cosa pensi» proseguì lui. «Vuoi metterlo in guardia, vuoi dargli una risposta sbagliata ma non molto diversa da quella giusta.» Si avvicinò a Katy e sollevò il manico di legno del lazo. Solo un po', ma abbastanza perché la corda le si avvolgesse attorno al collo. «Ora ti spiego ciò che devi fare, Will. Voglio che ti alzi, vada al computer e scriva la risposta giusta, mentre io continuerò a stringere la corda. Se combini qualche scherzo, se ho il semplice sospetto che stai combinando qualcosa, non mi fermerò finché iei non sarà morta. Tutto chiaro?» Feci segno di sì con la testa. Strinse ancora un po' il lazo e Katy emise un gemito. «Vai» mi ordinò. Corsi al computer, con la mente come anestetizzata dalla paura. Aveva ragione, prima stavo cercando di immaginare una bugia plausibile per mettere sull'avviso Ken. Ma ora non potevo più. Poggiai le dita sui tasti e scrissi: "Cindi Shapiro". Il Fantasma sorrise. «Davvero? Era sempre un po' in calore quella Cindi. E bravo Will!» Allentò la corda e Katy respirò affannosamente, poi tornò al computer. Io portai lo sguardo alla mia sedia, il pezzo di vetro era ancora in piena vista e mi risedetti in fretta. Attendemmo la risposta. "Vattene a casa, Will." Il Fantasma si massaggiò il viso. «Risposta interessante.» Ci pensò su. «Dove te la sei fatta?» mi chiese poi. «Che cosa?» «Cindi Shapiro. A casa tua, a casa sua, dove?» «Al bar mitzvah di Eric Frankel.» «Ken lo sa?» «Sì.» Il Fantasma sorrise e riprese a scrivere. "Mi hai messo alla prova, ora tocca a te. Dove me la sono fatta Cindi?" Altra lunga pausa. Io sedevo sul bordo della sedia. Era stata una mossa intelligente quella del Fantasma di invertire per un momento i ruoli. Ma soprattutto non sapevamo se dall'altra parte c'era davvero Ken: dalla sua ri-
sposta l'avremmo capito. Passarono trenta secondi. Poi: "Vai a casa, Will". Il fantasma riprese a digitare. "Ho bisogno di essere certo che sei proprio tu." Pausa più lunga. Poi, finalmente: "Al bar mitzvah di Frankel. Adesso vattene a casa". Era proprio Ken... Fissai Katy e i nostri sguardi s'incontrarono. Il Fantasma scrisse ancora: "Dobbiamo vederci". La risposta arrivò subito: "Niente da fare". "Per favore. È importante." "Vai a casa, Will. È pericoloso." "Dove sei?" "Come hai fatto a trovare Ford?" «Mmh» fece il Fantasma. Ci pensò su, poi scrisse: "Pistillo". Altra lunga pausa. "Ho saputo di mamma. Ha sofferto molto?" Il Fantasma non mi consultò per la risposta: "Sì". "Come sta papà?" "Non bene. Dobbiamo vederti." Altra pausa. "Non è possibile." "Possiamo aiutarti." "Meglio se ve ne state alla larga." Il Fantasma mi guardò. «Forse è il caso di allettarlo con il suo vizio preferito.» Non capivo che cosa intendesse dire e rimasi a guardarlo battere sui tasti. "Possiamo farti avere dei soldi. Ne hai bisogno?" "Ne avrò bisogno. Provvederete con un bonifico internazionale." Allora, come se mi leggesse nel pensiero, il Fantasma digitò: "Devo vederti. Ti prego". "Ti voglio bene, Will. Vai a casa." Ancora una volta, come se vedesse nella mia mente, il Fantasma digitò: "Aspetta". "Ora mi disconnetto, fratello. Non preoccuparti." Il Fantasma emise un profondo sospiro. «Non funziona» disse. Batté velocemente: "Disconnettiti, e tuo fratello muore".
Pausa. Poi: "Chi è?". Il Fantasma sorrise. "Ti do un indizio: l'amico Casper." Nessuna pausa, stavolta. "Lascialo andare, John." "Non credo proprio." "Lui non c'entra." "Lo sai che con me non è il caso di buttarla sul sentimentale. Vieni, dammi quello che voglio e non lo uccido." "Prima lascialo andare, poi ti darò quello che vuoi." Il Fantasma rise e digitò ancora: "Lo spiazzo, Ken. Ricordi lo spiazzo, vero? Ti concedo tre ore per arrivarci". "Impossibile, non mi trovo nemmeno sulla costa orientale." «Stronzate» biascicò il Fantasma. Poi riprese a battere freneticamente sui tasti: "Allora ti conviene sbrigarti. Tre ore. Se non ci sarai gli taglierò un dito della mano, e un altro ogni mezz'ora. Poi passerò ai piedi, quindi mi affiderò all'ispirazione. Allo spiazzo, Ken, fra tre ore". Il Fantasma si disconnesse, poi chiuse di scatto il computer portatile e si alzò. «Bene» disse sempre sorridendo. «Mi sembra che siamo andati piuttosto bene, non trovi?» 56 Nora chiamò Squares sul cellulare, fornendogli una versione sintetica degli eventi che avevano accompagnato la sua scomparsa. Lui l'ascoltò senza interromperla. Si incontrarono davanti al grattacielo della Metropolitan Life, in Park Avenue. Nora salì a bordo del furgone e l'abbracciò. Che bello essere tornata lì dentro. «Non possiamo chiamare la polizia» osservò Squares. «Will su questo punto è stato categorico.» «Che diavolo possiamo fare, allora?» «Non lo so. Ma ho paura. Il fratello di Will mi ha parlato di quella gente, lo uccideranno di sicuro.» Squares ci pensò su. «Con quale sistema comunicate tu e Ken?» «Tramite un newsgroup su Internet.» «Mandiamogli un messaggio, forse lui avrà qualche idea.»
Il Fantasma si teneva in disparte. Il tempo cominciava a scarseggiare. Ero all'erta, deciso a sfruttare qualsiasi occasione si fosse presentata. Avrei corso il rischio. Presi da terra la bottiglia rotta e ne esaminai il collo. Feci mentalmente le prove, cercando di immaginare la probabile mossa difensiva del Fantasma e la mia contromossa. Dove si trovavano, mi chiesi, le sue arterie? In quale punto la sua carne era più vulnerabile, più soffice? Lanciai un'occhiata a Katy. Stava resistendo bene. Ripensai a ciò che mi aveva imposto Pistillo, a come aveva insistito perché la lasciassi fuori da quella faccenda. Aveva ragione, era stata colpa mia. La prima volta che lei si era offerta di aiutarmi avrei dovuto rifiutare. L'avevo messa in una situazione pericolosa. E non contribuiva certo ad attenuare il mio senso di colpa il pensiero che ero stato io a cercare di aiutare lei, che solo io potevo capire quanto lei smaniasse per venire a capo della morte della sorella. Dovevo trovare un sistema per salvarla. Mi voltai a guardare il Fantasma, che ricambiò lo sguardo. Non battei ciglio. «Lasciala andare» dissi. Finse di sbadigliare. «Sua sorella è stata buona, con te.» «E allora?» «Non c'è alcun motivo di farle del male.» Il Fantasma alzò i palmi verso l'alto. «E che bisogno c'è di un motivo?» mi chiese con la sua voce flebile. Katy chiuse gli occhi e io mi fermai. Stavo solo peggiorando la situazione. Guardai l'orologio, ancora due ore. "Lo spiazzo", quell'area dove i fumatori di spinelli si riunivano dopo una giornata spassosa alla Heritage Middle School, non distava più di cinque chilometri. Sapevo perché il Fantasma aveva fissato l'appuntamento lì: il posto era isolato, specialmente nei mesi estivi, e facile da controllare. Una volta lì, Ken avrebbe avuto ben poche speranze di uscirne vivo. Il cellulare del Fantasma squillò e lui abbassò lo sguardo, come se lo sentisse suonare per la prima volta. Per la prima volta vidi passargli sul viso qualcosa che assomigliava alla confusione. Mi irrigidii, ma non ebbi il coraggio di allungare la mano e afferrare il frammento di vetro. Non ancora. Ero pronto, però. Si portò il cellulare all'orecchio. «Avanti» disse. Mentre ascoltava studiai il suo viso privo di colore. La sua espressione
era rimasta calma, ma stava evidentemente succedendo qualcosa. Continuò a battere le palpebre, guardò l'ora. Non parlò per quasi due minuti. «Arrivo» disse alla fine. Si alzò e mi si mise di fronte, abbassando la bocca all'altezza del mio orecchio. «Se ti muovi da questa sedia mi implorerai di uccidere la ragazza. Capito?» Feci segno di sì con la testa. Il Fantasma uscì, chiudendosi la porta alle spalle. La stanza non era illuminata e la luce del giorno si era ormai ridotta a qualche lama che filtrava tra il fogliame. Non c'erano finestre sul davanti e quindi non avevo modo di sapere che cosa stavano facendo. «Che succede?» sussurrò Katy. Mi portai l'indice alle labbra e rimasi ad ascoltare. Un motore si mise a girare al minimo, un'auto si mosse. Ricordai la sua minaccia di non muovermi. Il Fantasma era uno al quale si tendeva a obbedire, ma poi considerai che ci avrebbe ucciso in ogni caso. Mi piegai, scivolando giù dalla sedia, ma la mia non fu precisamente una mossa disinvolta: da handicappato, direi. Guardai Katy, che guardò me, e le feci segno di non parlare. Lei annuì. Mi tenni il più basso possibile e con la massima cautela mi trascinai alla porta. Mi sarei messo a strisciare sul ventre come un commando, ma i vetri sul pavimento mi si sarebbero conficcati addosso. Mi mossi lentamente, cercando di non tagliarmi. Arrivato alla porta appoggiai la tempia a terra e guardai fuori attraverso la fessura tra porta e pavimento. Vidi l'auto allontanarsi, allora provai a trovare un'altra angolazione ma non era facile. Mi misi a sedere e sbirciai attraverso la fessura tra porta e telaio. Vedere qualcosa da lì era ancora più problematico. Mi sollevai di qualche centimetro e all'improvviso lo vidi. L'autista. Che fine aveva fatto il Fantasma? Feci un rapido calcolo. Due uomini, un'auto, l'auto si allontana. Non sono mai stato forte in matematica, ma quello significava che non poteva essere restato che un uomo. Mi voltai verso Katy, sussurrandole: «Se n'è andato». «Che cosa?» «L'autista è ancora là, ma il Fantasma se n'è andato con l'auto.» Tornai alla mia sedia e presi il vetro di bottiglia. Poi camminando con la massima circospezione, nel timore che anche il più piccolo cambiamento
di peso potesse scuotere quella struttura, mi portai alle spalle di Katy e ripresi a segare la corda. «Ora che facciamo?» bisbigliò lei. «Tu conosci una via d'uscita da qui, faremo una corsa.» «Sta calando l'oscurità.» «Per questo ci proviamo adesso.» «Quell'altro, l'autista, potrebbe essere armato» osservò. «Quasi sicuramente lo è. Preferisci forse aspettare che ritorni il Fantasma?» Scosse la testa. «Come fai a sapere che non sta già tornando?» «Non lo so.» La corda cedette. Katy, finalmente libera, si massaggiò i polsi. «Allora, vieni con me?» le chiesi. Mi guardò con un'espressione che probabilmente era la stessa che io un tempo riservavo a Ken, un misto di speranza, soggezione e fiducia. Cercai di mostrarmi coraggioso, ma la parte dell'eroe non è mai stata il mio forte. Lei annuì. In fondo alla stanza c'era una finestra. Il mio piano era quello di aprirla, scavalcarla e fuggire nella boscaglia. Avremmo cercato di non fare alcun rumore, ma se l'autista ci avesse sentito ci saremmo messi a correre come pazzi. Contavo sul fatto che potesse essere disarmato o, in alternativa, che avesse disposizione di non ferirci seriamente. Il Fantasma, sapendo che Ken si sarebbe mosso con la massima cautela, aveva bisogno di noi da vivi - quanto meno di me - per tendere la trappola. O forse no. La finestra era bloccata. Spinsi e tirai, ma niente da fare. Doveva essere stata verniciata un milione di anni prima e non c'era verso di aprirla. «E ora?» mi chiese Katy. Mi sentivo come un pugile messo alle corde. La guardai, mentre ripensavo a ciò che aveva detto il Fantasma accusandomi di non aver protetto Julie. Non avrei commesso un'altra volta lo stesso errore. «C'è un solo modo per uscire da qui» dissi guardando la porta. «Ci vedrà.» «Forse no.» Premetti l'occhio contro la fessura. La luce del sole stava scomparendo e le ombre prendevano il sopravvento. Vidi l'autista, se ne stava seduto su un ceppo d'albero, e scorsi anche nella semioscurità la punta rossa della sigaretta che stava fumando. Ci dava le spalle.
M'infilai in tasca il vetro di bottìglia e abbassando il palmo della mano feci segno a Katy di camminare chinata. La maniglia si girò con facilità e la porta scricchiolò aprendosi. Mi bloccai e guardai fuori, ma l'autista non si era mosso. Dovevo rischiare. Aumentai leggermente l'ampiezza dello spiraglio e lo scricchiolio cessò. Aprii complessivamente la porta di una trentina di centimetri, sufficienti per scivolare fuori da lì. Katy mi guardò e io le feci un cenno di assenso. Lei allora si chinò e uscì dalla porta socchiusa. Io la seguii. Eravamo entrambi fuori, ci appiattimmo contro il pavimento della piattaforma, interamente visibili. Richiusi la porta. L'autista non si era ancora voltato. Bene, adesso dovevamo scendere dalla piattaforma. Non potevamo usare la scaletta, era troppo visibile. Feci segno a Katy di seguirmi e strisciammo sul ventre spostandoci di lato. La piattaforma era di alluminio, e l'assenza di frizione e di schegge ci facilitò. Arrivati al lato del capanno, mentre svoltavamo, udii un rumore non dissimile da un gemito. Poi qualcosa cadde a terra. Mi irrigidii. Un'asse sotto la piattaforma doveva avere ceduto e ora l'intera struttura ondeggiava. «Ma che diavolo?...» esclamò l'autista. Ci appiattimmo e mi tirai contro Katy, in modo che anche lei girasse l'angolo. Lui non poteva vederci, ma aveva udito il rumore e stava guardando: ciò che vide fu la porta chiusa e la piattaforma vuota. «Che diavolo state facendo, là dentro?» gridò. Trattenemmo il fiato e udii lo scricchiolio delle foglie: ma ero preparato, avevo abbozzato una specie di piano. Mi tenni pronto. Lui gridò di nuovo. «Che diavolo state?...» «Niente» urlai a mia volta, tenendo la bocca contro la parete del capanno perché ne venisse attutita, come se provenisse dall'interno. Era un rischio che dovevo correre. Se non avessi risposto lui sarebbe sicuramente salito a controllare. «Questa bicocca fa schifo» dissi. «Continua a ondeggiare a ogni nostro movimento.» Silenzio. Trattenemmo ancora il fiato, Katy mi si premette contro e la sentii tremare. Le carezzai la schiena per tranquillizzarla, sarebbe andato tutto bene. Tesi l'orecchio cercando di captare il rumore dei passi dell'autista, ma non udii nulla. Con lo sguardo tentai allora di farle capire che doveva strisciare fino all'altra estremità della piattaforma. Lei esitò, ma non a lungo. Il mio nuovo piano prevedeva che fuggissimo calandoci lungo il palo dal
lato posteriore. Sarebbe scesa lei per prima e avevo preparato un piano di riserva nel caso, fin troppo probabile, che l'autista se ne fosse accorto. Le indicai la strada, lei capì e si avvicinò al palo. Poi vi si abbracciò, come un vigile del fuoco. La piattaforma si mosse di nuovo e, mentre guardavo impotente, si udì ancora quel rumore simile a un gemito, ma stavolta più forte. Vidi una vite che si stava allentando. «Ma che...» Stavolta però l'autista non si limitò a chiederci che cosa stava succedendo. Lo udii avvicinarsi e Katy, sempre aggrappata al palo, mi guardò. «Salta giù e scappa!» le gridai. Lei si lasciò cadere a terra, poi si voltò a fissarmi in attesa. «Corri!» le gridai di nuovo. «Non ti muovere o sparo!» le intimò l'autista. «Corri, Katy!» Mi lasciai cadere a mia volta, ma la mia caduta fu leggermente più lunga. Ricordai di avere letto da qualche parte che in questi casi bisogna atterrare flettendo le ginocchia e poi rotolare, ed è quello che feci: rotolai contro un albero. Quando mi rialzai vidi l'autista che correva verso di noi. Era a circa una quindicina di metri di distanza e aveva il viso contratto dall'ira. «Se non vi fermate siete morti.» Ma non aveva in mano una pistola. «Corri!» gridai nuovamente a Katy. «Ma...» «Ti vengo dietro. Vai!» Sapeva che stavo mentendo. Ma io, secondo il mio piano, dovevo rallentare l'avversario il tempo necessario a Katy per allontanarsi di corsa. Lei esitò, l'idea del mio sacrificio non le piaceva. L'autista ci aveva quasi raggiunto. «Corri a cercare aiuto. Vai!» urlai. Finalmente obbedì, e fuggì via scavalcando di corsa radici ed erba alta. Mi stavo infilando la mano in tasca quando quello mi si lanciò contro, sbattendomi a terra. L'urto fu particolarmente violento, ma riuscii ugualmente a serrare le braccia attorno alla sua schiena. Ci rotolammo stretti l'uno all'altro, e anche questo lo avevo letto da qualche parte: quasi ogni lotta finisce per svolgersi a terra. Nei film si tira un pugno e l'avversario va al tappeto, nella vita reale si abbassa la testa e ci si avvinghia al nemico. Rotolai quindi abbracciato all'autista, prendendo qualche pugno e concentrandomi sul vetro di bottiglia che stringevo in pugno.
Mi aggrappai a lui con quanta forza avevo, anche se mi rendevo conto che non gli stavo facendo molto male. Ma non m'interessava, quello che per me contava era impedirgli di inseguire Katy. Ogni secondo era importante per farle aumentare il vantaggio e quindi continuai a stringerlo, nonostante i suoi tentativi di liberarsi. E fu allora che mi beccai la testata. Tirò indietro la testa e mi colpì sul viso con la fronte. Non mi ero mai preso una testata in faccia e vi assicuro che fa un male cane, come se una di quelle enormi sfere d'acciaio da demolizione vi si schiantasse sul viso. Gli occhi mi si riempirono di lacrime e fui costretto ad allentare la presa. L'autista si preparò ad assestarmi un'altra capocciata, ma istintivamente la schivai e mi rannicchiai su me stesso. Lui allora si alzò in piedi, accingendosi a tirarmi un calcio alle costole. Ma ora toccava a me. Mi preparai e, appena il calcio giunse a segno gli bloccai il piede contro il mio stomaco con una mano. Nell'altra stringevo il vetro e glielo infilai nella parte morbida del polpaccio, lui urlò mentre il vetro gli penetrava nella carne. L'urlo e la sua eco misero in fuga gli uccelli. Estrassi il vetro e colpii di nuovo, stavolta i tendini dietro il ginocchio, sentendo il suo sangue caldo sulla mano. L'autista crollò e prese a dibattersi scompostamente, come un pesce all'amo. Stavo per colpire di nuovo quando udii la sua voce. «Ti prego, vattene.» Lo guardai, la gamba gli pendeva inutilizzabile, ormai per noi non rappresentava più una minaccia, non ora almeno. E io non ero un killer, non ancora almeno. Ma stavo perdendo tempo, il Fantasma poteva tornare da un momento all'altro. Allora mi voltai e cominciai a correre. Dopo venti o trenta metri mi girai a guardare, lui non mi stava inseguendo ma strisciava sul terreno. Avevo ripreso a correre quando udii la voce di Katy. «Sono qui, Will!» Mi voltai e la vidi. «Da questa parte» disse. Corremmo senza fermarci, schiaffeggiati dai rami degli alberi, inciampando sulle radici ma senza mai cadere. Katy aveva calcolato bene, quindici minuti dopo uscimmo dal bosco trovandoci su Hobart Gap Road. Quando Will e Katy uscirono dal bosco, il Fantasma era poco distante.
Li seguì con lo sguardo, poi sorrise e rientrò in auto tornando alla bicocca sulla piattaforma per fare un po' di pulizia. C'era del sangue, non se l'era aspettato. Will Klein continuava a sorprenderlo. Un fatto positivo, quello. Quando ebbe terminato, il Fantasma si rimise al volante percorrendo la South Livingston Avenue senza però trovare traccia di Will o di Katy. Meglio così. Si fermò accanto alla buca delle lettere di Northfield Avenue dentro la quale, dopo una breve esitazione, fece cadere il pacchetto. Fatto. Poi riprese Northfield Avenue fino alla Route 280, e da lì imboccò la Garden State Parkway in direzione nord. Non ne aveva ancora per molto. Pensò a come tutto aveva avuto inizio e a come sarebbe dovuto finire. Pensò a McGuane, a Will, a Katy, a Julie, a Ken. Ma, soprattutto, pensò al suo giuramento e al motivo per il quale era ritornato. 57 Nei cinque giorni seguenti successero parecchie cose. Dopo la nostra fuga, io e Katy andammo ovviamente a denunciare l'accaduto e portammo gli agenti sul posto dove il Fantasma ci aveva tenuto prigionieri. Non c'era nessuno, il capanno era vuoto. Furono trovate tracce di sangue vicino a dove avevo ferito quel tipo con il vetro di bottiglia, ma niente impronte digitali o capelli. Niente di niente. Era quello che mi aspettavo, d'altronde, e probabilmente non aveva alcuna importanza. Eravamo quasi alla fine. Philip McGuane fu arrestato per l'omicidio di un agente federale infiltrato, Raymond Cromwell, e del noto avvocato Joshua Ford. Stavolta, comunque, non gli fu concessa la libertà su cauzione. Quando mi vidi con Pistillo notai i suoi occhi brillare della stessa soddisfazione di chi ha conquistato il suo Everest personale, di chi ha scoperto il suo speciale Santo Graal, di chi ha sottomesso il suo personale e accanito demone: decidete voi. «L'organizzazione è a pezzi» commentò Pistillo, con un eccesso di allegria. «Abbiamo inchiodato McGuane con un'accusa di omicidio. L'operazione sta per concludersi.» Gli chiesi come fossero riusciti finalmente a incastrarlo e lui, una volta tanto, fu più che lieto di mettermi a parte dell'operazione. «McGuane aveva realizzato questa videocassetta manipolata nella quale
si vedeva il nostro agente uscire dall'ufficio. Era questo video, decisamente impeccabile, il suo alibi. Non difficile da realizzare con la tecnologia digitale, mi dicono quelli della Scientifica.» «Poi che cosa è successo?» Pistillo sorrise. «Ci è arrivata per posta un'altra videocassetta spedita, guarda guarda, da Livingston, New Jersey, come si leggeva nel timbro sulla busta. Dentro c'era la registrazione autentica, nella quale si vedevano due uomini trascinare un cadavere dentro un ascensore privato. I due, tra l'altro, hanno già confessato fornendoci delle prove. Nella busta c'era anche un biglietto con le indicazioni per trovare i due corpi. E, ciliegina sulla torta, il pacco postale conteneva anche le cassette e le prove raccolte in questi anni da suo fratello.» Cercai di capire il significato di quell'ultima parte, ma senza successo. «Conosce il nome del mittente?» «No» rispose, e mi diede l'impressione che quel particolare non gli interessasse granché. «Ora che cosa succederà a John Asselta?» gli chiesi. «Abbiamo emesso un mandato di cattura a suo carico.» «È una vita che lo cercate.» Si strinse nelle spalle. «Che altro possiamo fare?» «Ha ucciso Julie Miller.» «Su ordine di altri, lui è stato soltanto l'esecutore materiale.» La precisazione non era tale da consolarmi. «Non credete di riuscire a catturarlo, vero?» «Ascolti, Will. Mi piacerebbe inchiodare il Fantasma, ma onestamente non è facile. Asselta ha già lasciato gli Stati Uniti, è stato visto all'estero. Troverà lavoro al servizio di qualche tiranno che lo proteggerà. Ma alla fin fine, ricordiamocelo bene, lui è stato solo l'arma: e io voglio quelli che hanno premuto il grilletto.» Non ero d'accordo ma non obiettai. Gli chiesi che cosa ne sarebbe stato ora di Ken e lui si prese del tempo prima di rispondermi. «Voi due, lei e Katy Miller, non ci avete detto tutto. Vero?» Cambiai posizione sulla sedia. Gli avevamo parlato del sequestro, decidendo di tenere per noi i contatti che avevamo avuto con Ken. «No, vi abbiamo detto tutto» risposi. Pistillo mi guardò fisso, poi scrollò di nuovo le spalle. «Se devo essere sincero, non so se Ken ci serva ancora. Ma ora suo fratello è al sicuro, Will.» Avvicinò il suo viso al mio. «Lo so che non vi siete messi in contat-
to con lui» e dal suo viso capii che non ci credeva affatto «ma se riesce in qualche modo a parlarci, gli dica che può rimettere fuori il naso. Non è mai stato tanto sicuro come adesso. E potrebbe servirci per corroborare le prove che ha raccolto.» Cinque giorni pieni di avvenimenti, come dicevo. Li passai, a parte l'incontro con Pistillo, con Nora. Parlammo del suo passato, ma non in profondità perché le ombre che calavano sul suo viso erano tutt'altro che scomparse. Aveva ancora una paura tremenda dell'ex marito e la cosa mi mandava naturalmente in bestia. Avremmo dovuto sistemare i conti con questo signor Cray Spring di Cramden, Missouri. Non so ancora come, ma non potevo certo permettere che Nora vivesse perennemente nel terrore. No di certo. Mi parlò di mio fratello, dei soldi che aveva da parte in Svizzera, delle giornate dedicate agli spostamenti da un posto all'altro, di come avesse cercato in continuazione quella pace che continuava a sfuggirgli. Mi parlò anche di Sheila Rogers, l'uccellino ferito di cui sapevo ormai tanto. Ma soprattutto Nora mi parlò di mia nipote Carly, e parlandomene si illuminava in viso. A Carly piaceva ruzzolare dai pendii a occhi chiusi. Era una lettrice vorace, era bravissima a fare la ruota acrobatica. Aveva una risata contagiosa. In un primo momento la bambina era stata sulle sue; i genitori, comprensibilmente, non le avevano dato molte occasioni per socializzare, ma Nora aveva saputo attendere con pazienza. E per lei il momento più difficile era stato quello in cui aveva dovuto abbandonare Carly (aveva usato proprio il verbo "abbandonare", che a me sembrò eccessivo) togliendo alla piccola l'unica amica che le era stato permesso di avere. Katy Miller si tenne alla larga. Se n'era andata senza dirmi dove, e io non insistetti per saperlo, ma telefonava quasi ogni giorno. Ora sapeva la verità, ma pensai che tutto sommato saperla non era stato per lei di grande aiuto. Con il Fantasma ancora in giro i giochi rimanevano aperti, con il Fantasma ancora in giro continuavamo a guardarci alle spalle. Vivevamo tutti nella paura, penso. Ma per me la partita si stava chiudendo. Avevo soltanto bisogno di vedere mio fratello, ora forse più che mai. Pensai agli anni che aveva vissuto da solo, pensai ai suoi lunghi spostamentì. Non era vita da Ken, quella, lui agiva alla luce del sole e non era tipo da starsene nascosto nell'ombra. Volevo rivedere mio fratello per tante comprensibili ragioni. Volevo andare alla partita con lui, volevo sfidarlo a basket uno contro uno, volevo fare tardi guardando insieme vecchi film. Ma, naturalmente, ora c'erano
anche altre ragioni. Come ho detto, io e Katy non facemmo parola del contatto avuto con Ken, in modo da poter tenere aperta quella linea di comunicazione. Alla fine decidemmo di cambiare newsgroup e gli mandai un messaggio raccomandandogli di non temere la morte, nella speranza che cogliesse il significato. Così fu. Tutto risaliva, ancora una volta, alla nostra adolescenza: non temere la signora con la falce, ossia Don't Fear the Reaper, la canzone dei Blue Oyster Cult preferita da Ken. Trovammo un newsgroup dedicato al vecchio gruppo heavy metal, non aveva molto spazio disponibile ma riuscimmo ugualmente a fissare le ore in cui scambiarci i messaggi. Ken era sempre diffidente ma anche lui voleva mettere la parola fine a quella storia. Io avevo ancora papà e Melissa e avevo passato gli ultimi undici anni con nostra madre: Ken mi mancava da matti, ma credo che noi mancassimo a lui ancora di più. Fu necessaria una fase preparatoria, ma alla fine io e Ken organizzammo una riunione di famiglia. Quando avevo dodici anni e Ken quattordici i nostri genitori ci avevano mandato a un campo estivo, Camp Millstone, a Marshfield, Massachusetts. "Il campo di Cape Cod" si leggeva nella pubblicità, ma se fosse stato così Cape Cod avrebbe occupato metà Massachusetts. Le capanne avevano nomi di college, quella dove dormiva Ken era Yale mentre la mia era Duke. Passammo una bella estate. Giocavamo a basket e a softball, partecipavamo alle gare con i ragazzi degli altri campi. Mangiavamo roba schifosa e bevevamo quella specialità dei campi estivi dall'accattivante nome di "succo di scarafaggio". I counselors, ossia i ragazzi più grandi responsabili di ogni gruppo, erano allo stesso tempo simpatici e sadici. Sapendo ciò che ora so, non manderei per tutto l'oro del mondo un mio figlio al campo estivo. Ma allora lo adoravo. Vi sembra ragionevole? Quattro anni fa avevo portato Squares a visitare Camp Millstone. Lo stavano per chiudere definitivamente e Squares decise di comprarlo in blocco per trasformarlo in un raffinato centro yoga. Costruì lui stesso la fattoria centrale sul terreno dove una volta si giocava a calcio. Esisteva solo un viale d'accesso e la fattoria era proprio in mezzo all'ex campo di calcio, quindi era possibile vedere chiunque stesse arrivando. Decidemmo che sarebbe stato quello il posto migliore dove incontrarci. Melissa ci raggiunse da Seattle ma, per precauzione, le facemmo prendere un aereo per Filadelfia e ci vedemmo - io, mio padre e lei - al Vince
Lombardi Rest Stop sulla New Jersey Turnpike. E da lì ci spostammo in auto a Marshfield. A parte Nora, Katy e Squares nessuno sapeva di questa riunione di famiglia: loro tre avrebbero viaggiato ciascuno per proprio conto e ci avrebbero raggiunto l'indomani, perché anche loro avevano interesse a mettere la parola fine a questa storia. Ma quella sera, la prima sera, sarebbe stata riservata esclusivamente alla famiglia. Guidai io, con papà nel sedile accanto e Melissa in quello posteriore. Nessuno parlò molto, la tensione ci premeva in petto: nel mio più che negli altri, ritengo. Avevo imparato a non dare nulla per scontato e non avrei quindi accettato di credere che tutto andava bene, tutto era finito, fino a quando non avessi visto Ken con i miei occhi, non lo avessi sentito parlare, non lo avessi stretto a me. Pensai a Sheila e a Nora. Pensai al Fantasma, al mio vecchio capoclasse Philip McGuane e a ciò che da adulto era diventato. Quella metamorfosi avrebbe dovuto sorprendermi, ma, in realtà, non era stato così. Rimaniamo sempre "scioccati" quando veniamo a sapere di episodi di violenza nei quartieri residenziali, quasi che un prato ben rasato e innaffiato, una palazzina a piani sfalsati, la Little League, le madri che accompagnano i figli agli allenamenti di calcio, le lezioni di piano e le riunioni genitoriinsegnanti rappresentino una specie di barriera insormontabile per il male. Se il Fantasma e McGuane fossero cresciuti a una quindicina di chilometri di distanza, cioè a Newark, nessuno si sarebbe detto "sbalordito" o "sgomento" per la loro trasformazione. Infilai nel lettore il CD del concerto di Bruce Springsteen al Madison Square Garden nell'estate del 2000. C'erano lavori in corso sulla Route 95 ma quando, ripeto, non ci sono? - e per arrivare a destinazione impiegammo cinque interminabili ore. Fermai l'auto davanti alla fattoria rossa completa di finto silos. Non c'erano altre auto né era previsto che ce ne fossero. Secondo i piani saremmo arrivati prima noi e poi Ken. Melissa scese per prima e l'eco dello sportello sbattuto rimbalzò sui campi. Quando misi piede a terra mi sembrò di rivedere il vecchio campetto di calcio. Il parcheggio era stato realizzato nel punto in cui una volta si trovava una delle due porte e il viale di accesso in quello dove c'erano le gradinate. Guardai mio padre, che teneva però il viso voltato da un'altra parte. Rimanemmo un momento lì in piedi, poi ruppi l'incantesimo e mi diressi verso la fattoria seguito a qualche metro di distanza da papà e Melissa.
Stavamo pensando tutti e tre a mamma. Avrebbe dovuto esserci anche lei, per poter vedere ancora una volta il figlio. Questo incontro, sapevamo, avrebbe fatto nuovamente spuntare il sorriso di Sunny. Nora l'aveva consolata dandole una foto e non so dirvi quanto quel gesto significhi e significherà sempre per me. Sapevo che Ken sarebbe venuto solo, dopo avere messo al sicuro Carly chissà dove. Parlavamo raramente della figlia, quando ci mettevamo in contatto. Ken avrebbe rischiato in proprio venendo a questa riunione di famiglia, ma non avrebbe messo in pericolo la bambina: e lo capivo benissimo. Cominciammo a camminare su e giù per la casa, nessuno aveva bisogno di bere qualcosa. In un angolo vidi un arcolaio. Il tic-tac dell'orologio a pendolo era insopportabile. Poi papà si mise a sedere e Melissa mi venne vicino, guardandomi con quei suoi occhi da sorella maggiore. «Perché non ho la sensazione che l'incubo stia per finire?» mi chiese in un sussurro. Non volevo neanche prenderla in considerazione, quell'idea. Cinque minuti dopo, udimmo avvicinarsi un'auto. Corremmo tutti alla finestra. Spostai le tendine, era il crepuscolo ma si vedeva ancora bene. L'auto era una Honda Accord grigia, un modello decisamente anonimo. Il mio cuore saltò un battito. Volevo precipitarmi fuori, ma rimasi dov'ero. La Honda si fermò. Per diversi secondi, scanditi da quel maledetto orologio a pendolo, non avvenne nulla. Poi lo sportello dalla parte del volante si aprì e la mia mano afferrò la tendina con tanta forza da strapparla quasi. Vidi un piede posarsi a terra, poi qualcuno scivolò fuori e rimase fermo accanto all'auto. Era Ken. Mi sorrise. Era il caratteristico sorriso di Ken, quel sorriso pieno di fiducia, spavaldo. Non mi serviva altro. Gridai di felicità e corsi alla porta, la spalancai ma Ken mi stava già venendo incontro correndo a sua volta. Entrò come una furia, mi afferrò e questo fu sufficiente perché gli anni si liquefacessero. Finimmo avvinghiati a terra, rotolandoci sul tappeto. Ridevo come un idiota e sentivo che anche lui stava ridendo. Il seguito fu un meraviglioso ricordo sfocato. Papà ci saltò addosso, seguito da Melissa. Rivedo la scena in una sequenza di istantanee confuse. Ken che abbraccia papà; papà che gli mette un braccio attorno al collo e lo bacia sulla testa, un lungo bacio con gli occhi chiusi e le lacrime che gli colano sulle guance; Ken che fa girare in aria Melissa; lei che piange, dan-
do leggere pacche al fratello come per accertarsi che sia effettivamente vivo. Undici anni. Non so per quanto tempo è andata avanti questa scena, per quanto tempo abbiamo fatto questo meraviglioso, delirante casino. A un certo punto ci siamo calmati abbastanza per sederci tutti e quattro sul divano. Ken mi teneva accanto a sé, ogni tanto mi serrava il collo con la mossa della cravatta e mi picchiettava con le nocche sul cranio. Non avrei mai creduto che prendere colpi sulla testa mi avrebbe fatto un tale piacere. «Te la sei vista con il Fantasma e sei ancora vivo» disse Ken, con la mia testa sotto la sua ascella. «Perciò ora non hai più bisogno che io ti guardi le spalle.» Mi staccai da lui. «Sì, invece, che ne ho bisogno» l'implorai quasi. Al calare dell'oscurità uscimmo tutti all'aperto. L'aria della sera nei polmoni dava una sensazione meravigliosa. Ken e io camminavamo davanti, Melissa e papà ci seguivano a una decina di metri rendendosi probabilmente conto che era quello che volevamo. Ken mi teneva un braccio sulle spalle. Ricordo che una volta, al campo estivo, giocando a baseball sbagliai una palla facilissima e questo errore fece perdere la mia squadra. Gli amici cominciarono a sfottermi, al campo succede un po' a tutti. Quel giorno Ken mi portò a fare due passi e anche quella volta mi tenne un braccio sulle spalle. E ora, come allora, mi sentivo al sicuro. Prese a raccontarmi la storia dall'inizio e non si discostava da quella che già conoscevo. Aveva fatto delle brutte cose, stringendo poi un patto con i federali. Ma McGuane e Asselta l'avevano scoperto. Glissò sul perché quella sera era tornato a casa e, soprattutto, sul perché poi era andato da Julie. Ma io volevo che tutto fosse finalmente chiarito, c'erano già stati fin troppi punti oscuri. «Perché tu e Julie eravate tornati?» gli chiesi quasi a bruciapelo. Lui tirò fuori di tasca un pacchetto di sigarette. «Fumi, ora?» «Sì, ma voglio smettere.» Mi guardò. «Julie e io avevamo deciso che era il posto più indicato per incontrarci.» Ricordai ciò che mi aveva detto Katy, che cioè la sorella mancava da casa da più di un anno, come Ken. Aspettai che mio fratello andasse avanti, ma lui guardava la sigaretta senza accenderla.
«Mi spiace» disse. «Sapevo che non te l'eri tolta di mente, Will. Ma in quel periodo mi drogavo, ero una vera merda. O forse no, forse ero soltanto egoista, non lo so.» «Non ha importanza» dissi. Ed era vero, non importava più. «Continuo però a non capire la parte di Julie in questa storia.» «Mi aiutava.» «Come, ti aiutava?» Ken accese la sigaretta e potei vedere sul suo viso delle rughe. I lineamenti, quasi cesellati, erano ora segnati dal tempo rendendolo quasi più bello. Gli occhi erano ghiaccio puro. «Lei e Sheila avevano un appartamento vicino a Haverton. Erano amiche.» Si interruppe. «Senti, Julie era caduta nella trappola della droga, per colpa mia. Quando Sheila venne a Haverton feci conoscere le due ragazze e Julie cominciò a fare quella vita. Si mise anche lei a lavorare per McGuane.» L'avevo capito che doveva essere andata più o meno così. «Spacciava droga?» Fece segno di sì con la testa. «Ma quando mi beccarono e strinsi quell'accordo avevo bisogno di un complice che mi aiutasse a incastrare McGuane. All'inizio eravamo terrorizzati, ma poi capimmo che era l'unica via d'uscita: la strada per la redenzione, capisci?» «Credo di sì.» «Mi tenevano d'occhio da vicino, ma non Julie, non avevano motivo di sospettarla. E lei mi aiutò a mettere al sicuro certe carte compromettenti. Ogni volta che registravo delle cassette le consegnavo a lei. Proprio per questo ci eravamo visti quella notte: avevamo raccolto materiale a sufficienza e stavamo per passarlo ai federali e mettere la parola fine a questo gran casino.» «Non capisco. Perché tenevate tutto quel materiale senza consegnarlo ai federali a mano a mano che lo raccoglievate?» Ken sorrise. «Hai conosciuto Pistillo?» «Sì.» «Cerca di capire, Will. Non voglio dire che tutti gli sbirri siano corrotti, ma alcuni lo sono. E uno di loro ha spifferato a McGuane che mi trovavo in Nuovo Messico. Ma, a parte questo, altri, come Pistillo, sono maledettamente troppo ambiziosi. Avevo bisogno di un asso nella manica, il materiale raccolto dovevo consegnarlo alle mie condizioni.» La spiegazione era più che logica. «Poi, però, il Fantasma ha scoperto dove ti trovavi.»
«Sì.» «Come?» Eravamo arrivati a uno steccato, Ken vi poggiò un piede, io mi voltai e notai che Melissa e papà continuavano a tenersi a una certa distanza. «Non lo so, Will. Senti, io e Julie eravamo terrorizzati, forse è successo per questo. E comunque stavamo per chiudere quella faccenda, ci sentivamo quasi al sicuro. Eravamo in cantina, su quel divano, cominciammo a baciarci...» Distolse lo sguardo. «E poi?» «E poi all'improvviso mi sono trovato una corda attorno al collo.» Tirò una lunga boccata dalla sigaretta. «Il Fantasma era entrato in silenzio mentre io ero sopra Julie. Non riuscivo più a respirare, mi stava strangolando, stringeva tanto quella corda che temetti che mi si rompesse l'osso del collo. Poi non so bene che cosa successe. Julie lo colpì, credo, e fu così che riuscii a liberarmi. Lui le mollò un pugno in faccia, io cominciai a indietreggiare. Il Fantasma tirò fuori una pistola e sparò, il primo proiettile mi colpì alla spalla.» Chiuse gli occhi. «Allora mi misi a correre, Dio mi perdoni. Corsi e basta.» La notte ci stava assorbendo. Udivo il canto dei grilli. Ken diede qualche altra boccata alla sigaretta e io sapevo a che cosa stava pensando: lui era fuggito e lei era morta. «Quello aveva una pistola, non è stata colpa tua» gli dissi. «Già, certo.» Ma Ken non sembrava convinto. «A questo punto avrai capito che cosa è successo dopo. Sono corso da Sheila, abbiamo preso Carly, io avevo da parte dei soldi guadagnati lavorando per McGuane. Siamo scappati convinti di avere alle calcagna Asselta e McGuane. Dopo qualche giorno, leggendo sui giornali che mi sospettavano di avere ucciso Julie, mi sono reso conto che non stavo fuggendo solo da loro, ma dal mondo intero.» A quel punto gli feci la domanda che mi angustiava fin dall'inizio. «Perché non mi hai detto di Carly?» Voltò di scatto la testa come se gli fosse arrivato un destro alla mascella. «Ken?» Non mi guardò in viso. «Possiamo lasciar stare questo argomento, per ora?» La sua voce si era fatta strana, più distaccata. «Vorrei sapere.» «Non è un gran segreto.» Sentivo che la fiducia stava tornando, ma era una fiducia in qualche modo diversa, appesantita da un'ombra. «Mi trova-
vo in lina situazione pericolosa, i federali mi avevano arrestato poco prima della sua nascita e temevo per lei. Così decisi di non parlarne con nessuno. Con nessuno. Andavo a trovare madre e figlia, ci andavo spesso, ma non vivevo con loro. Carly stava con la madre e con Julie, non volevo che la piccola potesse essere ricondotta a me. Capisci?» «Certo.» Attesi che continuasse, ma lui sorrise. «Che c'è?» «Mi è tornato in mente il campo estivo.» Sorrisi anch'io. «Mi piaceva stare al campo» disse. «Anche a me. Ken?» «Sì?» «Come hai fatto a rimanere latitante per tanto tempo?» Ridacchiò piano. «Carly» disse poi. «Carly ti ha aiutato a nasconderti?» «Credo che non avere parlato di lei con nessuno mi abbia salvato la vita.» «E come?» «Stavano cercando tutti un uomo in fuga, un uomo da solo. O forse anche un uomo che si accompagnava a una ragazza. Quello che nessuno stava cercando era una famiglia di tre persone, in grado quindi di spostarsi da una parte all'altra rimanendo invisibile alle forze dell'ordine.» Anche questa spiegazione era plausibile. «I federali hanno avuto fortuna quando mi hanno beccato. Ero diventato imprudente. Oppure, non so, a volte mi viene da pensare che forse volevo che mi trovassero. Vìvendo come vivevamo noi, cioè nella paura, senza mettere mai radici... be', ti stanca, Will. Mi siete mancati tanto, soprattutto tu. Forse avevo abbassato la guardia, o forse avevo bisogno di scrivere la parola fine.» «Quindi ti hanno estradato?» «Sì.» «E hai stretto un altro accordo?» «Ero certo che mi avrebbero incriminato per l'uccisione di Julie. Ma quando mi hanno portato davanti a Pistillo mi accorsi che aveva una tale voglia di mettere le mani su McGuane che Julie passava in secondo piano. Oltretutto sapevano che non ero stato io a ucciderla. Così...» Si strinse nelle spalle. Si mise a parlare del Nuovo Messico, spiegandomi di non avere mai fat-
to cenno ai federali di Carly e Sheila proprio per proteggerle. «Non volevo che tornassero in America tanto presto» disse con voce improvvisamente più dolce. «Ma Sheila non mi stette a sentire.» Mi raccontò di quel giorno in cui lui e Carly erano fuori casa quando erano arrivati quei due, e lui rientrando li aveva sorpresi che torturavano la donna che amava. Li aveva uccisi entrambi e ancora una volta era stato costretto a fuggire. Fermandosi però prima alla solita cabina telefonica per chiamare Nora a casa mia: ed era stata quella la seconda telefonata intercettata dall'Fbi. «Sapevo che l'avrebbero cercata perché l'appartamento di Albuquerque era pieno delle impronte digitali di Sheila. E se non l'avessero trovata i federali, l'avrebbe trovata McGuane. Le raccomandai di nascondersi fino a quando tutto non fosse finito.» Gli ci vollero un paio di giorni per trovare a Las Vegas un medico dotato della necessaria discrezione ma, quando lo trovò, era ormai troppo tardi. Sheila Rogers, sua compagna da undici anni, morì il giorno seguente. Carly dormiva sul sedile posteriore quando sua madre esalò l'ultimo respiro. Non sapendo che altro fare, e nella speranza di allentare la pressione su Nora, aveva lasciato il cadavere della sua donna ai margini di una strada e si era allontanato. Melissa e papà si erano avvicinati. Rimanemmo tutti in silenzio per qualche istante. «E poi?» gli chiesi piano. «Lasciai Carly a un'amica di Sheila. Una cugina, per la precisione. Sapevo che lì sarebbe stata al sicuro. E poi cominciai il viaggio di ritorno sulla costa orientale.» L'aveva appena detta, quella frase sul viaggio di ritorno sulla costa orientale era appena uscita dalla sua bocca... che tutto cominciò ad andare storto. Avete mai vissuto un momento del genere? Ascoltate, annuite, prestate attenzione. Tutto sembra logico e consequenziale quando all'improvviso vedete qualcosa, qualcosa di piccolo e all'apparenza irrilevante, su cui non vale quasi la pena soffermarsi. E a quel punto vi accorgete sempre più spaventati che tutto è terribilmente sbagliato. «Abbiamo sepolto mamma un martedì» dissi. «Che cosa?» «Abbiamo sepolto mamma un martedì» ripetei. «Certo» disse Ken. «Tu quel giorno eri a Las Vegas, giusto?»
Rimase a pensarci su. «Giusto.» Mi feci girare quella risposta nel cervello. «Che c'è?» mi chiese Ken. «Non capisco una cosa.» «Cioè?» «Il pomeriggio del funerale» e mi fermai aspettando che mi guardasse «eri nell'altro cimitero con Katy Miller.» Qualcosa gli guizzò sul viso. «Ma di che stai parlando?» «Katy ti ha visto al cimitero, in piedi sotto un albero vicino alla tomba di Julie. Hai detto a Katy che eri innocente, che eri tornato per scoprire il vero assassino. Come facevi a essere lì se ti trovavi dall'altra parte degli Stati Uniti?» Mio fratello non rispose. Sentii qualcosa che mi afferrava dentro ancora prima di udire quella voce che fece barcollare nuovamente il mio mondo. «Ho mentito.» Ci voltammo mentre Katy Miller sbucava da dietro un albero. La guardai senza dire una parola. Lei si avvicinò. In mano stringeva una pistola, puntata al petto di Ken. Spalancai la bocca, poi udii Melissa prendere fiato e mio padre gridare: «No!». Ma mi apparve tutto distante un anno luce. Katy guardò direttamente me, come per dirmi qualcosa che non riuscii a capire. Scossi la testa. «Avevo soltanto sei anni» disse Katy. «Facile quindi scartarmi come testimone. Ero solo una bimbetta, no? Ho visto tuo fratello, quella notte. Ma ho visto anche John Asselta. Forse li ho confusi, direbbero i poliziotti. E poi come fa una bambina di sei anni a capire la differenza tra le grida di piacere e quelle di dolore? Fu facile per Pistillo e i suoi ignorare ciò che gli avevo raccontato, loro volevano McGuane. Per loro mia sorella era solo una delle tante drogate dei sobborghi.» «Di che stai parlando?» le chiesi. Spostò gli occhi su Ken. «Ero lì quella notte, Will, me ne stavo nascosta dietro il vecchio baule militare di papà. E ho visto tutto.» Mi guardò di nuovo e credo di non avere mai visto degli occhi così chiari. «John Asselta non ha ucciso mia sorella. È stato Ken.» Mi sembrò di crollare e la testa riprese a girarmi. Guardai Melissa, era bianca in viso. Poi spostai lo sguardo su mio padre, che però teneva gli occhi bassi. «Ci hai visto fare l'amore» disse Ken.
«No.» La voce di Katy era straordinariamente ferma. «Tu l'hai uccisa, Ken. Hai deciso di strangolarla per far ricadere la colpa sul Fantasma, l'hai strangolata come avevi strangolato Laura Emerson perché minacciava di denunciare lo spaccio di droga a Haverton.» Feci un passo avanti. Katy si voltò verso di me e mi fermai. «Dopo il fallito tentativo di McGuane di far uccidere Ken in Nuovo Messico, ricevetti una telefonata di Asselta» cominciò. Parlava come se avesse provato a lungo quel discorso, e sospetto che lo abbia fatto. «Mi disse che tuo fratello era già stato catturato in Svezia. All'inizio non gli credetti: se davvero a suo tempo l'avevano arrestato, mi chiesi, perché non se ne era saputo niente? Lui mi spiegò che l'Fbi voleva servirsi di Ken per incastrare McGuane. Ero sgomenta al pensiero che dopo tutti quegli anni avrebbero rimesso in libertà l'assassino di mia sorella. Non potevo permetterlo, non dopo quello che la mia famiglia aveva passato. E Asselta lo sapeva, immagino, per questo si era messo in contatto con me.» Stavo scuotendo la testa, ma lei proseguì. «Il mio compito era quello di rimanere vicino a te perché immaginavamo che se Ken avesse deciso di contattare qualcuno questo qualcuno saresti stato tu. E mi sono inventata di averlo visto al cimitero in modo che tu ti fidassi di me.» Ritrovai la voce. «Ma tu sei stata assalita. In casa mia.» «Sì.» «Hai anche gridato il nome di Asselta.» «Pensaci, Will.» La voce di lei era così tranquilla, sicura. «A che cosa devo pensare?» «Ti sei chiesto perché eri stato ammanettato al letto?» «Perché stava per incastrarmi, allo stesso modo in cui aveva incastrato...» Adesso era lei a scuotere la testa, poi con la pistola indicò Ken. «Ti ha ammanettato perché non voleva che ti facessi male» disse. Aprii la bocca ma non ne uscì alcun suono. «Mi voleva sola. Doveva scoprire che cosa ti avevo detto, che cosa ricordavo, prima di uccidermi. Ed è vero che ho gridato il nome John, ma non perché credevo che fosse lui dietro quella maschera. L'ho chiamato per avere aiuto. E tu mi hai salvato la vita, Will; tuo fratello mi avrebbe ucciso.» I miei occhi si voltarono lentamente verso Ken. «Sta mentendo» disse subito lui. «Perché avrei dovuto uccidere Julie, dal
momento che mi stava aiutando?» «In parte è vero» ammise Katy. «E hai ragione: Julie aveva considerato l'arresto di Ken una via di redenzione, come ti ha detto lui. Ed è vero anche che Julie aveva accettato di collaborare con Ken per consegnare McGuane ai federali. Ma Ken si spinse troppo in là.» «In che senso?» le chiesi. «Sapeva che avrebbe dovuto sbarazzarsi anche del Fantasma, non poteva permettersi che rimanesse in circolazione. E l'unica maniera per farlo era quella di incastrarlo per l'assassinio di Laura Emerson. Ken dava per scontato che Julie avrebbe collaborato anche sotto questo aspetto, ma si sbagliava. Ti ricordi quanto erano vicini Julie e John, vero?» Riuscii a fare segno di sì con la testa. «C'era effettivamente un legame tra di loro e non pretendo di capire il perché. Forse nemmeno loro due avrebbero potuto spiegarlo. Ma Julie teneva tanto a lui, probabilmente era stata l'unica persona ad avere a cuore John. Quindi, avrebbe volentieri contribuito a mandare in carcere McGuane, ma sicuramente non John Asselta.» Non riuscivo a parlare. «Stronzate» commentò Ken. «Will?» Non lo guardai. «Quando Julie scoprì che cosa aveva in mente Ken» proseguì Katy «telefonò al Fantasma per metterlo in guardia. Ken venne a casa nostra per prendere i documenti e le cassette, lei cercò di guadagnare tempo e fecero sesso. Ken poi le chiese il materiale, ma Julie si rifiutò di consegnarglielo. Lui s'infuriò, le domandò dove l'aveva nascosto, ma mia sorella non glielo disse. Quando Ken capì come stavano le cose, non riuscì a controllarsi e la strangolò. Il Fantasma arrivò troppo tardi, anche se solo per pochi secondi, e sparò a Ken che stava fuggendo. Secondo me l'avrebbe inseguito, ma vedendo Julie morta sul pavimento perse il controllo. S'inginocchiò a terra, la prese tra le braccia ed emise il lamento più straziante e inumano che io abbia mai udito. Come se dentro di lui si fosse rotto qualcosa impossibile da riaggiustare.» Katy mi si avvicinò, impossessandosi del mio sguardo senza lasciarlo. «Ken non era fuggito perché aveva paura di McGuane o di rimanere incastrato o di altro» disse. «Era fuggito perché aveva ucciso Julie.» Per me fu come cadere in una profonda crepa del terreno, tentando disperatamente di aggrapparmi a qualcosa. «Ma il Fantasma...» riuscii a dire, quasi balbettando «il Fantasma ci ha sequestrato.»
«Tutta una messinscena. Ci ha lasciato scappare, ma né io né lui pensavamo che ti saresti dato tanto da fare per fuggire con me. L'autista doveva rendere tutto più credibile, mai avremmo sospettato che gli avresti fatto tanto male.» «Ma perché?» «Perché il Fantasma sapeva la verità.» «Quale verità?» Lei indicò di nuovo Ken. «Che tuo fratello non sarebbe mai venuto a salvarti la vita, non avrebbe mai corso quel rischio. Che l'unica maniera per convincerlo era organizzare questa riunione di famiglia.» Scossi ancora una volta la testa. «Quella notte lasciammo allo spiazzo un uomo, nel caso Ken si fosse presentato. Ma non si fece vedere.» Guardai Melissa. Guardai mio padre. E capii che era tutto vero, ogni parola che Katy aveva detto. Tutto vero. Ken aveva ucciso Julie. «Non ho mai voluto farti del male» mi disse ancora Katy. «Ma la mia famiglia doveva chiudere la partita. L'Fbi l'aveva lasciato andare e non mi rimaneva scelta. Non potevo permettere che la facesse franca dopo che aveva ucciso mia sorella.» Mio padre parlò per la prima volta. «E ora che cosa hai intenzione di fare, Katy, sparargli?» «Sì.» A quel punto, scoppiò l'inferno. Fu mio padre a sacrificarsi, lanciandosi con un grido su Katy. Lei sparò, papà barcollò senza però fermarsi e con una manata le tolse l'arma. Poi cadde reggendosi una gamba. Ken ne approfittò immediatamente. Quando sollevai gli occhi aveva già estratto la pistola, e i suoi occhi, quelli che avevo definito di ghiaccio puro, erano fissi su Katy. Stava per spararle, non mostrava alcuna esitazione. Doveva solo mirare e fare fuoco. Gli saltai addosso e con la mano colpii la pistola proprio mentre premeva il grilletto. Il proiettile andò fuori bersaglio. Mi avvinghiai a mio fratello e finimmo a terra, ma non come poco prima. Lui mi mollò una gomitata allo stomaco, lasciandomi senza fiato. Poi puntò la pistola contro Katy. «No» gli dissi. «Devo farlo.»
L'afferrai. Lottammo. Gridai a Katy di scappare. Ken sfruttò subito il vantaggio e mi si scrollò di dosso. I nostri sguardi s'incontrarono. «Lei è l'ultimo ostacolo» disse. «Non ti lascerò ucciderla.» Lui allora mi puntò la canna contro la fronte, i nostri volti quasi si toccavano. Udii gridare Melissa e le intimai di allontanarsi. Con la coda dell'occhio la vidi tirare fuori un cellulare e comporre un numero. «Forza, premi il grilletto» dissi a Ken con aria di sfida. «Credi che non lo farò?» «Sei mio fratello.» «E allora?» Ancora una volta pensai a quante forme può assumere il male, a come dal male non possiamo mai considerarci veramente al sicuro. «Non hai sentito quello che ha detto Katy? Non capisci ciò che sono capace di fare, quanta gente ho tradito, a quanti ho fatto del male?» «Non lo faresti a me» sussurrai. Rise, con il viso ancora a pochissimi centimetri dal mio e la pistola ancora premuta contro la mia fronte. «Che cosa hai detto?» «Non lo faresti a me» ripetei. Tirò indietro la testa e l'eco della sua risata sembrò ripercuotersi nel completo silenzio. Quel suono mi ghiacciò il sangue nelle vene. «Non a te?» disse. Poi avvicinò le labbra al mio orecchio. «Tu sei quello che ho tradito di più» sussurrò. «Quello al quale ho fatto più male.» Quelle parole mi caddero addosso come un blocco di cemento. Alzai lo sguardo su di lui, aveva i lineamenti tesi ed ero certo che avrebbe sparato. Allora chiusi gli occhi e attesi. Sentii grida, del movimento, ma tutto mi sembrò distante. Quello che ora udivo, l'unico suono che riusciva a raggiungermi, era il pianto di Ken. Il mondo era svanito, rimanevamo soltanto noi due. Non saprei dire esattamente che cosa successe. Forse la causa di tutto fu la posizione in cui mi trovavo, supino e impotente; mentre lui, il mio fratello maggiore, ma stavolta non il mio salvatore e protettore, incombeva su di me. Forse Ken guardandomi mi aveva visto terribilmente vulnerabile e in lui aveva prevalso qualcosa d'istintivo, qualcosa che gli aveva sempre imposto di tenermi al riparo dalle disgrazie. Forse fu questo, non so. Ma quando i nostri sguardi s'incontrarono, i suoi lineamenti si ammorbidirono gradualmente. Poi tutto cambiò di nuovo. Sentii Ken allentare la presa, senza però togliermi la pistola dalla fronte.
«Devi farmi una promessa, Will.» «Quale?» «Si tratta di Carly.» «Tua figlia.» Chiuse gli occhi e mi sembrò sinceramente angosciato. «Lei vuole bene a Nora. Voglio che voi due vi prendiate cura di lei, come se fosse vostra. Promettimelo.» «Ma che cosa?...» «Ti prego» m'implorò disperato. «Promettimelo.» «D'accordo.» «E promettimi anche che non la porterai mai da me.» «Cosa?» Stava piangendo, e le lacrime che gli rigavano le guance bagnavano anche il mio volto. «Promettimelo, maledizione. Non dovrai mai parlarle di me, dovrai tirarla su come una figlia, non dovrai mai portarmela in carcere. Promettimelo, Will. Promettimelo o sparo.» «Prima dammi la pistola, poi prometterò.» Ken abbassò gli occhi su di me, quindi mi mise in mano la pistola e mi baciò a lungo. Lo circondai con le braccia e me lo tenni stretto, quell'assassino. Pianse sul mio torace come un bambino. Rimanemmo così fin quando udimmo in lontananza le sirene. Cercai di spingerlo via. «Vai» gli sussurrai, quasi pregandolo. «Ti prego, scappa.» Ma Ken non si mosse, stavolta, e non saprò mai il perché. Forse aveva corso fin troppo. Forse stava cercando di farla finita con il suo orribile passato. Forse voleva solo che continuassi a tenerlo stretto. Non lo so, so soltanto che rimase tra le mie braccia fino a quando gli agenti non me lo tolsero di dosso. 58 Quattro giorni dopo L'aereo di Carly era in orario. Squares ci portò in auto e, dopo aver parcheggiato, venne con me e Nora al terminal C dell'aeroporto di Newark. Nora camminava davanti, conosceva la bambina ed era ansiosa e al tempo stesso eccitata al pensiero di rivederla. Io ero ansioso e al tempo stesso spaventato.
«Wanda e io ci siamo parlati» mi disse Squares. Lo guardai. «Abbiamo chiarito ogni cosa.» «E allora?» Si fermò e fece spallucce. «Sembra che io e te stiamo per diventare padri prima di quanto immaginassimo.» Lo abbracciai, incredibilmente felice per lui e Wanda. Per quanto riguardava la mia situazione ero invece perplesso. Stavo per prendermi cura di una ragazzina di dodici anni che non avevo mai visto: avrei fatto del mio meglio ma, contrariamente a quanto aveva detto Squares, non sarei mai potuto essere il padre di Carly. Con Ken avevamo chiarito quasi tutto, compresa la possibilità che passasse in carcere il resto dei suoi giorni, ma il suo insistere nel non voler vedere la figlia continuava a tormentarmi. Lo faceva per proteggere la piccola, immagino, pensava che in tal modo lei avrebbe avuto un'esistenza migliore. Ho detto "immagino" perché non potevo chiederglielo. Una volta assicurato alla giustizia, Ken si era rifiutato di vedere anche me, ma le parole che mi aveva sussurrato... Tu sei quello che ho tradito di più. Quello al quale ho fatto più male... mi riecheggiavano ancora nella mente, lacerandomi con artigli d'acciaio. Squares rimase fuori, io e Nora ci precipitammo nel terminal. Nora aveva al dito l'anello di fidanzamento. Eravamo in anticipo, naturalmente. Ci mettemmo a correre lungo il corridoio, poi lei mise la borsetta sul tapis roulant dei raggi X; io feci squillare il metal detector, ma era solo il mio orologio. Facemmo un'altra corsa e raggiungemmo il gate, anche se mancava un quarto d'ora all'atterraggio. Ci sedemmo ad aspettare, tenendoci per mano. Melissa aveva deciso di rimanere ancora qualche giorno a Livingston, per stare vicino a nostro padre fino a quando non fosse guarito. Yvonne Sterno, come le avevo promesso, ebbe la notizia in esclusiva, ma non sapevo se la sua carriera ne avrebbe tratto qualche beneficio. Non mi ero ancora messo in contatto con Edna Rogers, ma l'avrei fatto quanto prima. Katy non era stata incriminata per aver ferito papà. Ripensai a quanto ardentemente desiderasse mettere la parola fine a quella storia e mi chiesi se quella notte le fosse stata utile. Probabilmente sì. Il vicedirettore Joe Pistillo aveva appena annunciato che alla fine dell'anno sarebbe andato in pensione. Solo ora capivo fin troppo bene perché ci tenesse tanto a lasciare fuori da quella faccenda Katy Miller, non tanto
per la sua incolumità quanto per ciò che aveva già passato. Non saprei dire se Pistillo dubitasse veramente delle dichiarazioni di una bambina di sei anni oppure se il volto dolente della propria sorella l'avesse indotto a manipolare le parole di Katy adattandole ai suoi obiettivi. Ora so che, ufficialmente, i federali dissero di aver tenuto nascosta quella testimonianza all'unico scopo di tutelare una ragazzina. Ma questa versione non mi ha mai convinto. La verità sul conto di mio fratello mi aveva ovviamente devastato: eppure, per quanto strano possa sembrare, mi stava bene. Alla fin fine, la più brutta delle verità è sempre preferibile alla più gradevole delle menzogne. Il mio mondo si era fatto più cupo, ma almeno era tornato a girare sul suo asse. Nora avvicinò il suo viso al mio. «Stai bene?» «Spaventato.» «Ti amo. Anche Carly ti amerà.» Sollevammo gli occhi sul monitor, che prese a lampeggiare. L'addetto al gate della Continental Airlines annunciò al microfono che il volo 672 era atterrato. Il volo di Carly. Mi voltai a guardare Nora, che sorrise e mi strinse ancora la mano. Feci vagare lo sguardo sui passeggeri in attesa, gli uomini in giacca e cravatta, le donne con il bagaglio a mano, le famigliole che partivano per le vacanze, i ritardatari, i frustrati, i logorati dalla vita. E passando distrattamente in rassegna quei volti vidi lui che mi guardava. E il mio cuore si fermò. Il Fantasma. Uno spasmo mi squarciò le viscere. «Che c'è?» mi chiese Nora. «Nulla.» Il Fantasma mi fece segno di avvicinarmi e io mi alzai, come in trance. «Dove stai andando?» «Torno subito.» «Ma Carly sta per arrivare.» «Devo fare una corsa in bagno.» Le posai un lieve bacio sulla testa e lei mi sembrò preoccupata. Guardò verso l'altra estremità del gate, ma il Fantasma era già scomparso. Se mi fossi avviato mi avrebbe raggiunto lui, mentre ignorarlo avrebbe significato peggiorare la situazione. Scappare, poi, sarebbe stato puerile, alla fine ci avrebbe ritrovati.
Dovevo affrontarlo. Mi incamminai verso il punto in cui l'avevo visto. Mi sentivo le gambe di gomma ma non mi fermai. Passando davanti a una fila di telefoni pubblici fuori uso udii la sua voce. «Will?» Mi voltai, ed era lì che mi faceva segno di sedermi accanto a lui. Obbedii e ci mettemmo a guardare la vetrata, invece di guardarci in faccia. Il vetro aumentava l'effetto dei raggi, e il caldo era impietoso. Socchiusi gli occhi e così fece anche John. «Non è per tuo fratello che sono tornato a Livingston, ma per Carly» disse. Rimasi impietrito da quelle parole. «Non puoi prendertela.» Sorrise. «Non capisci.» «Allora spiegati.» Si accomodò meglio nella poltroncina e mi fissò. «Tu vorresti tracciare una linea, Will, mettendo i buoni da una parte e i cattivi dall'altra. Ma non è così che va la vita. Non è mai così semplice. L'amore, per esempio, conduce all'odio e credo che tutto ciò che è avvenuto sia riconducibile a questo, all'amore primitivo.» «No so di che cosa stai parlando.» «Tuo padre amava troppo Ken. Se cerco l'origine di tutto, Will, ecco dove la trovo: nell'amore di tuo padre.» «Continuo a non capire.» «Ciò che sto per dirti l'ho detto soltanto a un'altra persona. Questo almeno lo capisci?» «Sì.» «Devi riandare con la memoria ai tempi in cui io e Ken eravamo in quarta elementare. Non sono stato io, sai, ad ammazzare a coltellate Daniel Skinner. È stato Ken. Ma tuo padre l'amava tanto che ha deciso di proteggerlo, pagando il mio vecchio. Con cinquemila bigliettoni se l'è comprato. E, che tu ci creda o no, tuo papà era convinto di aver fatto una buona azione. Il vecchio mi picchiava dalla mattina alla sera, molti pensavano che sarei dovuto andare in affidamento. E, nelle previsioni di tuo padre, mi avrebbero dato la legittima difesa o, in caso contrario, sarei andato in terapia potendo contare su tre pasti caldi al giorno.» Tacqui, annichilito. Ripensai a quell'incontro a tre al campo di baseball, alla terribile paura di papà, al suo silenzio glaciale mentre tornavamo a casa, a quelle parole che aveva detto ad Asselta: "Se devi prendere qualcuno,
prendi me". Ancora una volta c'era una spiegazione terribile. «L'ho detta a una sola persona la verità» riprese. «Indovina a chi.» Un'altra tesserina entrò nella sua casella. «Julie.» Annuì. Questo, dunque, spiegava il legame che univa lei e il Fantasma. «Insomma, perché sei qui?» gli chiesi. «Per vendicarti sulla figlia di Ken?» «No» rispose con una risatina. «Non è facile spiegartelo a parole, Will, ma forse la scienza può venirci in aiuto.» Mi porse una cartellina, la guardai. «Aprila» m'invitò. La aprii. «È l'autopsia della testé defunta Sheila Rogers» spiegò. Mi rabbuiai. Non capivo come se la fosse procurata, ma evidentemente aveva le sue risorse. «E questo che cosa c'entra con tutto il resto?» «Leggi qui.» Il Fantasma m'indicò con una delle sue sottili dita una voce a metà cartellina. «Guarda in fondo a questo capoverso: niente cicatrici sul pube, nessuna menzione di strie pallide sul petto e sulla parete addominale. Niente di insolito, certo. Non significherebbe nulla, a meno di non farci caso di proposito.» «Fare caso a che?» Chiuse la cartellina. «La vittima non aveva mai partorito.» Notò l'espressione confusa che mi si era dipinta sul volto. «Per farla breve, Sheila Rogers non poteva essere la madre di Carly.» Stavo per aprire bocca quando il Fantasma mi porse un'altra cartellina, intestata a una donna. Julie Miller. Il freddo mi si insinuò nelle ossa. Lui l'aprì e lesse. «"Cicatrici pubiche, strie pallide, modifiche dell'architettura microscopica dei tessuti della regione mammaria e di quella uterina." E si parla di un trauma recente. Vedi qui? La cicatrice da episiotomia era ancora pronunciata.» Rimasi a guardare quelle parole. «Julie non era tornata a casa soltanto per vedersi con Ken. Aveva bisogno di lasciarsi alle spalle un periodo molto travagliato, voleva ritrovare se stessa, Will. Voleva che tu sapessi la verità.» «Quale verità?» Proseguì senza rispondermi. «Te l'avrebbe detto, ma non sapeva come avresti reagito. Vista anche la facilità con cui avevi accettato la vostra rottura... A questo mi riferivo quando ti dissi che avresti dovuto lottare per lei. E invece l'hai lasciata andare via.»
I nostri sguardi s'incrociarono. «Sei mesi prima di morire Julie aveva dato alla luce una bambina. Dopo la nascita, madre e figlia erano andate a vivere da Sheila. Penso che quella sera Julie te l'avrebbe finalmente detto, ma intervenne tuo fratello. Anche Sheila voleva bene alla bambina e, quando Julie fu uccisa e Ken fu costretto a fuggire, volle tenerla come se fosse sua. Ken, dal canto suo, non tardò a capire che la presenza della piccola era una carta da sfruttare durante la latitanza. Non aveva figli e non li aveva nemmeno Sheila: quale copertura migliore di quella di due genitori con la loro piccina?» Mi tornarono in mente le parole che mi aveva sussurrato Ken... «Capisci quello che ti sto dicendo, Will?» Tu sei quello che ho tradito di più. Quello al quale ho fatto più male. La voce del Fantasma squarciò la caligine nella mia mente. «Non sei un sostituto di padre. Sei tu il vero padre di Carly.» Probabilmente avevo smesso di respirare. Fissai il vuoto. Tradito e ferito. Mio fratello. Mio fratello si era preso la mia bambina. Il Fantasma si alzò in piedi. «Non sono tornato per cercare vendetta o giustizia. La verità è che Julie è morta per proteggermi e io non sono riuscito a impedirlo. Avevo giurato che avrei salvato la sua bambina, e ci ho impiegato undici anni.» Riuscii a fatica ad alzarmi anche io e rimanemmo fianco a fianco. I passeggeri stavano sciamando fuori dall'aereo. Il Fantasma m'infilò qualcosa in tasca, un pezzo di carta. L'ignorai. «Ho spedito io a Pistillo quella videocassetta della sicurezza interna e non dovrai più preoccuparti di McGuane. Le prove le trovai in casa di Julie, quella notte, e me le sono tenute per tutti questi anni. Tu e Nora adesso siete al sicuro, ho pensato io a ogni cosa.» Sbarcarono altri passeggeri. Io rimasi lì, ad ascoltare e ad aspettare. «Ricordati che Katy è la zia di Carly e che i Miller sono i nonni. Falli partecipare alla sua vita. Mi stai a sentire?» Annuii, e in quel momento Carly uscì dal gate. Fu come se dentro di me crollasse un muro. Quell'adolescente camminava con un'andatura come... come quella della madre. Si guardò attorno e quando vide Nora il suo viso si aprì nel più stupefacente dei sorrisi. E il mio cuore andò in frantumi, in pezzi, letteralmente. Perché quel sorriso, vedete, era quello di mamma. Il sorriso di Sunny, simile a un'eco del passato, un segno che non tutto di mia madre - e non tutto di Julie - si era estinto. Soffocai un singhiozzo e sentii una mano posarmisi sulla schiena.
«Vai, ora» mi sussurrò il Fantasma, spingendomi dolcemente verso mia figlia. Mi voltai, ma John Asselta era già scomparso. Feci allora l'unica cosa che avrei potuto fare. Mi diressi verso la donna che amavo e mia figlia. EPILOGO Quella sera, dopo avere messo a letto Carly con il bacio della buonanotte, trovai il pezzo di carta che il Fantasma mi aveva infilato in tasca. Erano le prime righe di un articolo di giornale. KANSAS CITY HERALD Un uomo trovato cadavere nella sua auto Cramden, Missouri - Cray Spring, funzionario del Dipartimento di polizia di Cramden, ieri fuori servizio, è stato trovato strangolato all'interno della sua auto, apparentemente vittima di una rapina. Il suo portafoglio era infatti scomparso. La polizia ha riferito che l'auto è stata rinvenuta in un parcheggio alle spalle di un bar di Cramden. Il capo della polizia locale, Evan Kraft, ha reso noto che al momento non vi sono sospettati e che l'indagine è tuttora in corso. RINGRAZIAMENTI L'autore desidera ringraziare per la loro consulenza tecnica le seguenti persone: Jim White, direttore esecutivo di Covenant House, Newark; dottoressa Anne Armstrong-Coben, direttore sanitario della Covenant House, Newark; Frank Gilliam, responsabile recupero in strada della Covenant House, Atlantic City; Mary Ann Daly, direttore programmi della Covenant House, Atlantic City; Kim Sutton, direttore della Covenant House, Atlantic City; dottor Steven Miller, direttore del reparto di medicina d'urgenza all'ospedale pediatrico New York-Presbyterian, Columbia University; dottor Douglas P. Lyle; Linda Fairstein, viceprocuratore distrettuale, Manhattan; Gene Riehl, dell'Fbi (in pensione); Jeffrey Bedford, agente speciale dell'Fbi. Tutti loro hanno aperto all'autore preziosi squarci, che ora rivedono distorti o ignorati dallo stesso per adattarli alle sue esigenze. Covenant House esiste veramente, anche se scrivendone mi sono preso delle grosse libertà. Mi sono inventato un mucchio di cose, cercando co-
munque di rappresentare al meglio il gran cuore di questa importante organizzazione benefica. Chi volesse dare una mano o saperne di più può collegarsi al sito www.covenanthouse.org. L'autore vuole anche ringraziare la sua meravigliosa squadra: Irwyn Applebaum, Nita Taublib, Danielle Perez, Barb Burg, Susan Corcoran, Cynthia Lasky, Betsy Hulsebosch, Jon Wood, Joel Gotler, Maggie Griffin, Lisa Erbach Vance e Aaron Priest. Per me siete tutti importantissimi. FINE