LYNDA LA PLANTE TAGLIO NETTO (Clean Cut, 2007) Questo libro è dedicato alla memoria di un giovane davvero speciale. Il b...
8 downloads
403 Views
1MB Size
Report
This content was uploaded by our users and we assume good faith they have the permission to share this book. If you own the copyright to this book and it is wrongfully on our website, we offer a simple DMCA procedure to remove your content from our site. Start by pressing the button below!
Report copyright / DMCA form
LYNDA LA PLANTE TAGLIO NETTO (Clean Cut, 2007) Questo libro è dedicato alla memoria di un giovane davvero speciale. Il bel Jason McCreight dai capelli di fuoco. Non smetterò mai di piangerlo. Jason mi è sempre stato di grande aiuto, soprattutto nel mio lavoro di scrittrice. Al momento della primissima stesura di Taglio netto, Jason ha svolto un ruolo fondamentale, presentando le sue annotazioni e avanzando i suoi dubbi. Aveva sottolineato un paragrafo, e quando gliene ho domandato il perché, lui sorridendo mi ha risposto: «Perché mi piaceva». Non saprei dire se avesse per lui un significato particolare, ma il paragrafo in questione era il seguente: Anna piangeva perché era consapevole di un fatto: diversamente da suo padre, lei non avrebbe retto. Se Langton non si fosse rimesso in salute, si sarebbe aperta una difficile fase di transizione, e lei dubitava di poterla superare. Questo problema, però, l'avrebbe affrontato a tempo debito. Per il momento, intendeva offrirgli tutto il sostegno e l'incoraggiamento possibili per aiutarlo ad accettare quel che il futuro aveva in serbo per lui. Di lì in avanti, per quanto lo amasse, lei avrebbe vissuto alla giornata, sperando di resistere almeno finché luì non fosse stato abbastanza in forze da sopportare il distacco. 1. Primo giorno Anna era di pessimo umore: non era tornato a cena. Gli impegni di lavoro a volte avevano la precedenza, ovvio, lo sapeva, ma sarebbe bastata una telefonata, e lei avrebbe capito. In fondo, la reciproca comprensione delle loro esigenze professionali era sempre stata uno degli aspetti più vantaggiosi della loro relazione. Era venerdì, e c'era comunque un lungo weekend da godersi: avevano programmato di andarsene fuori città e di passare la notte in qualche accogliente alberghetto. Ad aggravare il fastidio di quella mancata chiamata, c'era il fatto che raramente il loro tempo libero coincideva. Gli aveva lasciato dei messaggi sul telefonino, ma non le piaceva insistere troppo, perché lui poteva essere impegnato fuori dall'ufficio; in ogni
caso, Anna sapeva che Langton aveva bisogno di prendersi una pausa dalla lunga e noiosa indagine che lo teneva impegnato da mesi. Gettò il cibo ormai sciupato nella spazzatura. Non era certo una novità. Mentre tornava a sedersi, picchiettandosi delicatamente i denti con l'estremità di una matita, Anna provò a calcolare quante volte Langton aveva saltato la cena. In alcuni casi non si era neppure presentato ed era andato a dormire a casa propria. Benché fossero conviventi a tutti gli effetti, lui aveva tenuto un appartamentino a Kilburn e, quand'era alle prese con casi particolarmente pressanti e doveva lavorare senza tregua, preferiva andare lì a riposare, per non disturbarla. Non c'erano controversie su questo punto; a volte, anzi, Anna ne era contenta, anche se non lo avrebbe mai ammesso. E poi dall'appartamento di Kilburn ogni tanto passava Kitty, figlia acquisita dal suo secondo matrimonio. Tutto questo Anna lo capiva benissimo, soprattutto se anche lei aveva per le mani qualche indagine difficile. Non lavoravano più insieme: avevano smesso quando erano diventati una coppia. Ciò era dipeso in parte dalla (un tempo) tacita legge della polizia metropolitana di Londra secondo cui gli agenti non dovevano fraternizzare troppo, soprattutto se impegnati nello stesso caso. Era Langton quello più a disagio, quando lui e Anna lavoravano insieme, ma lei aveva accolto le sue riserve e aveva provato un certo sollievo quando, dopo il caso della Dalia Rossa, erano stati assegnati a inchieste diverse. Avevano tacitamente stabilito di non portarsi il lavoro a casa e di non coinvolgersi a vicenda, e Anna si atteneva con scrupolo a questa regola; Langton, invece, era così sommerso di lavoro che spesso attaccava con bestemmie e parolacce non appena metteva piede in casa. Anna non aveva mai ritenuto di dover sollevare la questione, ma quella regola pareva ormai valere solo per lei. Lui inveiva e sbraitava, prendendosela con gli uomini della sua squadra, con la stampa, con la magistratura, con qualsiasi cosa lo facesse innervosire sul momento, e raramente, o mai, si informava sulla giornata di Anna. Questa voce era senz'altro da iscrivere nella lista dei contro. Anna si mise a riempire la lavastoviglie: mai che gli venisse in mente di infilarcela lui, la sua ciotola dei cereali, invece di lasciarla nel lavandino. Anzi, Langton usciva sempre così di fretta, al mattino, che lei trovava spesso la tazza del caffè in camera da letto o in bagno, insieme a un'altra cosa che ormai faticava a tollerare: i mozziconi di sigaretta. Se Langton non aveva un posacenere a portata di mano, era capace di spegnerli nel piattino della tazza del caffè o addirittura nella ciotola dei cereali; per quel che le risultava, lui non aveva mai svuotato un portacenere da quando sta-
vano insieme. Mai era andato a buttare la spazzatura nei bidoni o aveva lavato e messo fuori dalla porta la bottiglia del latte. Anzi, usava l'appartamento di Anna a Maida Vale un po' come un albergo. Era lei che mandava il bucato in lavanderia e andava a ritirarlo; sempre e solo lei cambiava le lenzuola, per non parlare di pulire e stirare. La camera da letto, dopo il suo passaggio, sembrava una zona di guerra: calzini, mutande, camicie e pantaloni del pigiama sparsi per tutta la stanza, lasciati lì dove se li era tolti. E per finire, il macello di asciugamani in bagno dopo la doccia mattutina, il tubetto del dentifricio lasciato senza tappo... Anna gli aveva fatto notare un paio di questi particolari, e lui si era scusato, promettendo di non farlo più, e invece tutto era andato avanti come prima. Anna si versò un bicchiere di vino. La lista dei contro era lunga due pagine, ormai; i pro si riducevano a un paio di voci. E c'era da affrontare la questione delle bollette. Lui, se Anna glielo chiedeva, metteva mano al portafogli e le passava un paio di centinaia di sterline, ma poi, prima della fine della settimana, glieli richiedeva indietro sotto forma di prestito! Non era, concluse lei, un problema di avarizia. Tutt'altro. Il problema era che non ci pensava. Una cosa era certa: si lamentava spesso che nel suo appartamento gli avevano tagliato la luce o il gas, perché si era dimenticato di pagare le bollette. A casa di Anna si abbuffava come un disperato, ma non l'aveva mai accompagnata a fare la spesa. Il risvolto positivo, se così si poteva dire, era che, qualunque cosa gli si mettesse nel piatto, era sempre entusiasta, nonostante lei sapesse di avere enormi lacune in campo gastronomico. E poi Langton tracannava vino a damigiane e non andava mai a letto senza aver bevuto un whisky. E questo era un contro da sottolineare. Anna era da sempre preoccupata per come e quanto Langton beveva. A più riprese aveva passato periodi senza toccare alcolici, ma duravano una settimana o giù di lì e avevano perlopiù lo scopo di dimostrare che lui non era, come lei talvolta insinuava, sull'orlo dell'alcolismo. Anzi, poteva capitare che si inferocisse se sollevava la questione e lo invitava a controllarsi. Anna, tuttavia, andò avanti a scrivere. Bere a casa è un conto, ma lei sapeva che Langton andava regolarmente al pub anche con la sua squadra. Scolò il suo bicchiere di vino e se ne versò un altro; si sentiva sempre più intorpidita, ma era determinata a fare una lunga chiacchierata sul loro rapporto, non appena lui fosse rientrato. Che fosse poco soddisfacente lo si capiva subito, scorrendo l'elenco che aveva appena compilato. D'altra parte, ogni volta che aveva pensato di manifestargli quel che provava, l'aspetto positivo della loro relazione l'aveva sempre indotta a tacere. Langton la
prendeva tra le braccia, di notte, e stavano così, avvinghiati l'uno all'altra. Anna adorava il modo in cui le sue braccia le cingevano la curva dei fianchi e la nuca. Lui, di solito, aveva i capelli ancora umidi per la doccia, che profumavano dello shampoo di lei; spesso si faceva anche la barba prima di mettersi a letto, per non irritarle la pelle. Fare l'amore con lui la lasciava sempre senza fiato ed estasiata: Langton riusciva a essere così gentile e appassionato, disponibile e sensibile a ogni suo capriccio... a letto. Appena Langton arrivava, il piccolo appartamento si riempiva della sua presenza, e quando se ne andava calava uno spiacevole e desolato silenzio che a volte le piaceva, ma per poco... perché in breve cominciava a sentire la mancanza di lui, ed era felice quando capiva che stava tornando. Aprendo la porta, Langton spalancava le braccia e la stringeva a sé come se fosse stato via per settimane, invece che per una sola giornata. Abbandonava la borsa e il soprabito, si toglieva le scarpe e lasciava una scia di vestiti e biancheria, mentre passava dalla camera da letto alla doccia. Si faceva sempre la doccia prima di cena: odiava il puzzo delle celle, delle sale degli interrogatori, del fumo di sigaretta che gli impregnava i vestiti. Dopo la doccia, indossava un vecchio accappatoio blu e bianco a pois e, a piedi nudi, andava in soggiorno ad accendere la televisione. Non si fermava mai a guardare un programma preciso: preferiva passare da un canale all'altro, dedicando parole di disprezzo a ogni soap opera in cui si imbatteva. Mentre lei cucinava, lui gridava dal soggiorno che in TV c'erano solo schifezze, dopo di che la raggiungeva in cucina e apriva una bottiglia di vino. Appollaiato su uno sgabello, raccontava della sua giornata: delle cose belle, di quelle brutte e, a volte, anche di quelle raccapriccianti. Aveva sempre un'energia invidiabile e, a dirla tutta, quando attaccava a parlare dei casi di cui si stava occupando, Anna era sempre piuttosto interessata. L'ispettore capo Langton aveva un talento speciale: chiunque avesse lavorato con lui lo sapeva, e Anna, nelle due occasioni in cui avevano collaborato, aveva avuto modo di accertarsene. E da quando convivevano, la certezza che fosse un investigatore scrupolosissimo si era sempre più rafforzata. Teneva molto ai membri della sua squadra, e lei, più di chiunque altro, sapeva fino a che punto si fosse spinto per proteggerla, quando lei aveva violato le regole. Anche Langton, a volte, le infrangeva, ma era un poliziotto di grande intelligenza ed era estremamente intuitivo, anche se la sua tendenza all'ossessività lo spingeva spesso su sentieri pieni di pericoli. Vivevano insieme da un anno e mezzo, e molte volte Anna, anche nei giorni in cui lui aveva già lavorato come un forsennato, lo aveva visto im-
merso nello studio dei suoi casi fino a notte fonda. Non gli sfuggiva mai nulla, ed era famoso per la sua abilità negli interrogatori. Sospirò. All'improvviso, tutta la rabbia per la cena sfumata e l'urgenza di compilare liste svanirono; non desiderò altro che sentire il rumore dei suoi passi sulle scale e della chiave che girava nella serratura. In fondo, sapeva bene che stava chiudendo un'inchiesta su un omicidio; sicuramente, si era fermato a bere qualcosa con i colleghi per festeggiare. Anna scolò il bicchiere e, dopo la doccia, cominciò a prepararsi per andare a letto. Si domandò, vista l'ora tarda, se Langton non fosse andato al suo appartamento. Provò a telefonargli, ma non ottenne risposta. Stava quasi per chiamarlo di nuovo sul cellulare, quando sentì dei passi sulle scale. Corse alla porta ad attenderlo, ma quando si mise in ascolto restò come paralizzata. I passi erano lenti e pesanti; invece della chiave nella serratura, sentì suonare alla porta. Anna esitò. Il campanello trillò di nuovo. «Chi è?» domandò lei, tendendo l'orecchio. «Sono Mike, Anna... Mike Lewis.» Anna si affrettò ad aprire la porta. Capì all'istante che era accaduto qualcosa di brutto. «Posso entrare?» «Che cosa c'è?» gli domandò lei, spalancando la porta. L'ispettore Lewis aveva la faccia pallida e tirata. «Cattive notizie.» «Che cosa è successo?» Anna faticava persino a respirare. «Si tratta di Jimmy. È al St Stephen Hospital.» Langton e la sua squadra avevano appena ottenuto l'incriminazione di un tale per l'omicidio di una giovane donna. Quando l'uomo aveva tirato in ballo altri due membri della sua gang, Langton, accompagnato dagli investigatori Lewis e Barolli (ottimi amici, oltre che colleghi), era andato a cercarli. Uno dei due complici lo aveva accoltellato al petto, per poi ferirlo anche a una coscia, riducendolo in condizioni gravissime. Lungo il tragitto fino all'ospedale, Anna ebbe il tempo di calmarsi: non voleva assolutamente che lui la vedesse spaventata. Mentre percorreva in fretta i corridoi che conducevano al reparto di terapia intensiva, Barolli andò loro incontro. «Come sta?» domandò Lewis. «Tiene duro, ma va un po' a momenti.» Barolli posò una mano su un braccio di Anna. «Quel bastardo lo ha ferito con un cazzo di machete.» Anna deglutì a fatica. I tre si avviarono verso il reparto dov'era ricovera-
to Langton. Prima che le fosse concesso di vederlo, il cardiochirurgo spiegò che l'arma aveva mancato il cuore per un pelo, ma aveva danneggiato gravemente i tessuti; Langton aveva anche un polmone lacerato. Anna accusò il colpo: ansimava e si sentiva debole per via dello shock. Lewis e Barolli erano entrambi pallidi e taciturni. Fu Mike a domandare se Langton ce l'avrebbe fatta. Il chirurgo ripeté che le condizioni erano molto gravi e che, al momento, non era ancora possibile valutare appieno l'entità delle ferite. Era attaccato a una macchina che lo aiutava a respirare, e il suo ritmo cardiaco destava serie preoccupazioni. «Posso vederlo?» domandò Anna. «Sì, ma solo per un attimo. È sotto sedativo e non è in grado di parlare. Le chiederei, però, di non entrare in sala rianimazione. Potrà guardarlo attraverso un vetro. Per sicurezza, la sala deve rimanere perfettamente asettica: il paziente è in uno stato di estrema vulnerabilità, chiaramente.» Langton era visibile a malapena in mezzo a tutti i tubi a cui era attaccato. La macchina per la respirazione produceva cupi sibili ogni volta che pompava aria nei polmoni. Anna premette il viso contro il vetro divisorio. Le lacrime che aveva trattenuto fino a quel momento presero a sgorgare nel silenzio. Lewis le cinse affettuosamente le spalle, ma lei avrebbe preferito che non lo avesse fatto. Voleva stare da sola; voleva essere più vicina a Langton... Più di ogni altra cosa, avrebbe voluto abbracciarlo. Lei rimase all'ospedale tutta la notte; Lewis e Barolli tornarono a casa. Il mattino dopo Langton ebbe una nuova crisi. Ancora una volta, Anna poté soltanto assistere impotente ai tentativi dei medici di rianimarlo. Prosciugata dall'ansia, emotivamente e fisicamente esausta, tornò infine a casa quando le dissero che le condizioni di Jimmy erano stazionarie. Secondo giorno A metà mattina era di nuovo lì ad aspettare, nella speranza di poterlo almeno vedere da vicino. Le ore passavano con una lentezza esasperante: Anna stava dietro il vetro della sala rianimazione a guardare i medici e le infermiere che lo curavano. Aveva pianto solo il primo istante, appena l'aveva visto: ora si sentiva come sospesa in uno stato di panico. Le faceva male la testa e si sentiva prostrata. Lewis promise che sarebbe rimasto lui
di guardia, per convincerla ad andare a mangiare qualcosa. Il bar dell'ospedale era quasi deserto. Ordinò un caffè, della minestra e un panino, ma li assaggiò a malapena, dedicandosi perlopiù a staccare e appallottolare piccoli pezzi di pane. Non riusciva a mandar giù niente: Langton era in pericolo di vita. Era impossibile credere che una tale forza della natura potesse spegnersi così, di colpo. Chiuse gli occhi, congiunse le mani tremanti in grembo e prese a mormorare: «Vi prego, non lasciatelo morire. Vi prego, salvatelo». Quando Anna tornò da Lewis, lo trovò seduto su una sedia, intento a leggere il «Daily Mail». Il titolo diceva: ISPETTORE ACCOLTELLATO. Lewis aveva con sé molti altri giornali, tutti con quella stessa notizia in prima pagina. L'episodio aveva avuto una notevole risonanza: i casi di accoltellamento, a Londra, erano in piena escalation. Langton era uno dei primi funzionari di polizia feriti in questo modo, e da un immigrato illegale, per giunta: nell'elenco delle vittime, fino a quel momento, figuravano quasi soltanto giovanissimi studenti. I notiziari e le trasmissioni di approfondimento non parlavano d'altro che dell'indulgenza della polizia metropolitana nei confronti dei coltelli: la conclusione era che solo nelle scuole c'erano centinaia di migliaia di ragazzini armati. Lewis ripiegò il giornale, sospirando. «Sto male a leggere questi articoli. Nessuno dice che stiamo ancora dando la caccia a quei due bastardi, anche se ci vorrà fortuna a trovarli. Perlomeno abbiamo beccato l'altro stronzo...» «Il feritore di Langton?» «No, scusa... Alludevo a un altro caso a cui stavamo lavorando... L'omicidio di una prostituta, Carly Ann North. L'assassino è stato preso mentre cercava di staccarle la testa. Un poliziotto di quartiere l'ha sorpreso sul fatto e ha chiamato rinforzi. Quando i rinforzi sono arrivati, i suoi due soci se la sono filata.» «Ed è a quel punto che siete intervenuti voi, vero?» «Sì, Jimmy l'ha interrogato: è un somalo di venticinque anni, immigrato illegale, e si chiama Idris Krasinique. Si era già fatto sei mesi di galera per rapina, ma poi lo hanno liberato! Roba da non credere! Hanno rilasciato quel criminale! Adesso è alla stazione di polizia di Islington. Senza Jimmy, toccherà a me affrontare il processo.» «Di questi altri uomini che erano con il somalo... si sa qualcosa?» «No, Krasinique ci aveva dato due nomi, e noi siamo andati a indagare in un ostello per detenuti in libertà vigilata. Proprio lì è successo il disa-
stro.» Anna notò che Lewis era scosso: continuava a deglutire, come se avesse problemi a prendere fiato. «E allora? Questi nomi?» lo imbeccò. Lewis si alzò in piedi. «È stato lì che è successo tutto. Eravamo in questa topaia a Brixton, che salivamo le scale e...» Sospirò scuotendo la testa. «Quel bastardo, probabilmente, se n'è tornato da dov'era venuto. È incredibile. L'altro stronzo, quello che era già finito a Islington, doveva essere espulso, ma il ministero degli Interni sosteneva che se fosse stato rimpatriato avrebbe corso gravi pericoli... e allora l'hanno lasciato libero per le nostre strade! Il mondo sta veramente impazzendo!» Anna assentì. Sapeva bene quale fosse l'attenzione riservata dai media alla questione degli immigrati illegali, e non tanto al loro numero in assoluto quanto piuttosto al numero di quelli che, dopo essere stati arrestati e rilasciati, avevano fatto perdere le loro tracce... e non solo rapinatori, ma anche assassini e stupratori. Era davvero incredibile; e Langton, ora, ne stava pagando le conseguenze. Anche Lewis stava chiaramente soffrendo. Anna provò a cambiare discorso. «Perché non ci danno il permesso di vederlo?» domandò. «Be', l'hanno riportato giù in chirurgia, poco fa, perciò non so che cosa stia succedendo; di certo, non se la passa granché bene.» «Abbiamo operato e monitorato il vostro amico per tutto il giorno, e credo sia giunto il momento di darvi qualche ragguaglio. Per ora non siamo ancora in grado di accertare l'entità del danno, comunque... posso parlare chiaro?» Anna fece un cenno di assenso: il dottore era così calmo e disinvolto che anche lei si sentì più rilassata. Notò che anche Lewis e Barolli erano più tranquilli. «Bene. Abbiamo due gravi ferite di machete: una al petto, l'altra sulla parte anteriore della coscia sinistra. Quella al petto è andata a incidere tra due coste, appena sopra il capezzolo, evitando per miracolo il cuore.» Huntingdon prese una penna. «Okay», disse, tracciando un rapido schizzo su un foglio del suo blocco, «questo è il torace, nella zona polmonare: il polmone destro è stato inciso insieme ad alcuni vasi sanguigni, e questo ha causato un emopneumotorace, che complica la respirazione; perciò l'abbiamo attaccato al respiratore artificiale sin dal suo arrivo. Questo problema può risultare fatale. Una delle ragioni per cui lo teniamo in terapia intensiva è proprio quella di evitare ogni possibile contaminazione dall'e-
sterno; se gli venisse una polmonite, non credo che avrebbe la forza per combatterla.» Huntingdon guardò il suo cellulare privato della suoneria; premette il pulsante della segreteria telefonica e se lo rimise in tasca. «Scusatemi... Okay, non voglio fare il messaggero di sventura, ma voi mi avete autorizzato a parlare chiaro. Il paziente ha perso molto sangue e ha avuto bisogno di trasfusioni; abbiamo dovuto persino drenargli i polmoni. Se a tutto questo si aggiunge la ferita alla gamba... be', la situazione è molto seria. La ferita alla gamba ha interessato l'articolazione. Ci vorrà un intervento chirurgico, ma per il momento, a causa della ferita al petto, dobbiamo attendere. La cosa essenziale, per ora, è proteggerlo dalle infezioni. Le articolazioni del ginocchio sono una seccatura, e sentirà parecchio dolore... ma passiamo alle buone notizie: Langton è un guerriero e sta reagendo bene, perciò posso soltanto suggerirvi di tenere le dita incrociate.» Sorrise e risistemò le pagine del blocco a coprire il disegno. «È una fortuna che lo abbiate portato qui. Questo reparto è uno dei migliori che ci siano.» Huntingdon si alzò e strinse loro la mano. Il cellulare doveva aver ripreso a vibrare nella sua tasca; uscendo in corridoio, lo estrasse. Rimasero per qualche istante in silenzio. Poi anche Anna si alzò. «Ce la farà, ne sono certa. Quel dottore mi ha fatto un'ottima impressione.» «Anche a me», disse Lewis. Barolli rimase seduto, con gli occhi fissi a terra. «Sì, ma la sua carriera è finita. Non ce la farà mai a tornare al lavoro.» Anna gli si rivoltò contro con rabbia. «Ce la farà, invece, e non permetterti più di dire una cosa del genere. Tornerà al lavoro, e non ha certo bisogno di pessimismo: quando potremo vederlo, dovremo tenerlo su di morale. D'accordo?» Annuirono tutti, ma su di loro aleggiava una strana sensazione di disagio. Ognuno di loro aveva, a suo modo, un debole per Langton. Non potevano accettare l'idea che lui non ce la facesse. Sei settimane dopo Erano trascorse sei settimane, ma nulla era cambiato. Anna aveva ricevuto un permesso speciale e non aveva lasciato passare neppure un giorno senza andare all'ospedale da Langton. In certi momenti, era stato difficile
reggere la pressione emotiva, e non solo per via del suo rapporto con Langton: quella situazione l'aveva riportata ai tempi in cui andava a trovare il suo amato padre malato di cancro. Anche lui, come Langton, era un combattente, ma si era rassegnato a morire e, alla fine, non desiderava altro che andarsene tranquillamente, in punta di piedi. Si erano voluti un gran bene, Anna e suo padre: l'amore e l'incoraggiamento paterni non le erano mai mancati, e lei lo adorava. Non c'era mai stato bisogno di rimproveri. Le aveva chiesto di essere forte quando lui fosse morto. Temeva che potesse restare sola, ma lei lo aveva rassicurato che, per merito suo, non le sarebbe mancata la capacità di farcela. Le domandava spesso se era sola, e lei gli aveva garantito che aveva tantissimi amici e che tanti altri ne aveva conosciuti all'accademia. Non era esattamente la verità: non aveva poi tante amiche intime, e al tempo era anche senza fidanzato. Suo padre era morto in pace, ma la sua perdita era stata comunque un colpo durissimo. Era contenta che lui non l'avesse mai vista così in crisi, in balia di un lutto al limite del tollerabile. Per Langton, invece, niente lutto: sarebbe sopravvissuto. Quando finalmente le avevano permesso di vederlo da vicino, lui si era risvegliato invocando il suo nome. Lei, allora, gli aveva stretto la mano mormorandogli all'orecchio di stare tranquillo, che lei era al suo fianco. «È bello sapere che sei qui.» La sua voce era così roca e flebile che Anna, a volte, faticava a capire quel che le diceva. Gli aveva ripetuto all'infinito quanto lo amava, e lui non le aveva mai risposto. Le sarebbe piaciuto sentirglielo dire, ma si accontentava del sorriso che le rivolgeva ogni volta che gli si avvicinava. Langton si lamentava del cibo, perciò Anna gli aveva più volte portato i sandwich di Marks & Spencer e del pollo, anche se lui li assaggiava appena, ed era lei, in genere, a far man bassa dell'uva lasciata dai membri della squadra Omicidi che si presentavano in gran numero a trovarlo. L'orario di visita era molto elastico, e Anna aveva dovuto chiedere alle infermiere di badare che non si stancasse troppo. Quella sera, appena tornata a casa dall'ospedale, le telefonarono per chiederle di ritornare. Proprio quando sembrava che Langton fosse avviato sulla via del recupero, aveva avuto una grave ricaduta. Lo avevano operato con successo all'articolazione del ginocchio, ma si era buscato un'infezione al petto che era degenerata in setticemia. Quando glielo dissero, Anna si sentì mancare. Per due giorni e due notti, la vita di Langton restò appesa a un filo. L'attesa, in quella situazione di incertezza, fu terribile. Ancora una
volta, però, con grande sorpresa del personale medico e paramedico, Langton superò la crisi. Sei settimane e quattro giorni Langton, infine, si rimise abbastanza in forze da poter essere trasferito alla Glebe House, uno sperduto centro di riabilitazione della polizia nella campagna inglese più remota per garantire il massimo della riservatezza. L'ambiente era ordinato ed estremamente tranquillo. L'istituto era dotato di palestra attrezzata, terme e strutture cliniche, oltre a un bar e un ristorante. Nell'anno precedente erano passati di lì quasi tremila poliziotti, perlopiù per soggiorni assai brevi. I feriti avevano la precedenza, e il personale in servizio era ottimamente preparato per praticare la fisioterapia di cui Langton aveva bisogno. C'era anche un nutrito staff di competenti psicologi che fornivano consulenze sui numerosi casi di agenti che arrivavano con problemi di stress. Anna aveva provato un gran sollievo quando Langton aveva accettato il trasferimento: sapeva che nel proprio appartamentino non sarebbe stato possibile occuparsi di lui a dovere, almeno finché non si fosse pienamente ristabilito sul piano fisico. Langton era un paziente esasperante; persino le infermiere del St Stephen si erano mostrate felici di vederlo andar via. Con lui non avevano lasciato trapelare nulla; anzi, alcune gli avevano persino scritto dei bigliettini con gli auguri di pronta guarigione e gli avevano portato dei fiori, ma Anna - dal modo in cui l'avevano incoraggiata, e da come si erano raccomandate con lui perché si comportasse bene - aveva capito che Langton doveva aver creato più di un problema. Si era arrabbiato persino quando avevano cercato di aiutarlo ad accomodarsi sulla sedia a rotelle con cui avrebbe raggiunto l'auto di Anna: voleva camminare, ma era ancora troppo debole, e lei, mentre raccattava le sue poche cose, lo aveva costretto a sedersi sul letto. Alla fine, però, pur borbottando e sbuffando, aveva ringraziato il personale e consegnato la scatola di cioccolatini che Anna aveva portato. Per tutto il tragitto dalla sua stanza d'ospedale all'auto, non fece che lamentarsi del St Stephen e ripetere quant'era felice di andarsene. Poi, dopo che Anna lo ebbe sistemato nella Mini, lui riattaccò a borbottare, dicendo che era assurdo avere un'auto così piccola e che il passaggio dalla sedia a rotelle al sedile era una faticaccia. Lei vide chiaramente la sofferenza causata da quell'operazione, e alla fine dovette anche allacciargli la cintura di sicurezza, perché quel movimento gli risultava impossibile.
Il viaggio lungo l'autostrada si svolse sullo stesso tenore: lui non era per niente contento della sistemazione alla Glebe House, che considerava «un posto da sfigati all'ultimo stadio». Lì ce n'era poca, a suo parere, di gente ferita. I pazienti erano perlopiù perdigiorno, esauriti che non riuscivano a reggere la tensione, o alcolizzati. «Ti troverai bene con loro, vedrai», provò a ironizzare Anna, ma lui non rise. Rispose piccato che non beveva da settimane e che era stufo delle sue insinuazioni. Anna cambiò discorso e gli promise che, non appena si fosse sentito un po' più in forze, lo avrebbe portato con sé a casa e lo avrebbe curato lì. «Cristo, finirò per impazzire, in quel tuo appartamento minuscolo.» «Be', se sarà necessario, troveremo un posto più grande.» Lui la squadrò con una smorfia di derisione, domandandole, acido, dove avrebbero trovato i soldi. Aveva dimenticato che anche lui era in affitto? Nulla di ciò che Anna gli diceva sembrava in grado di calmare il suo pessimo umore; inoltre, non si era nemmeno sognato di ringraziarla per essersi fatta prolungare il permesso e per tutto il tempo che gli stava dedicando e che avrebbe dovuto dedicargli di lì in avanti. Fu scortese con il personale della Glebe House che lo accolse e con gli inservienti che lo aiutarono a spostarsi dal sedile dell'auto alla sedia a rotelle. Rispose con un silenzio di tomba ai loro tentativi di conversazione, mentre lo spingevano oltre la reception, verso l'ascensore, nell'ala dell'edificio in cui avrebbe soggiornato. La sua stanza si affacciava sui giardini; benché piccola, era luminosa e accogliente, ma lui si guardò intorno come se si trattasse della cella di un carcere. Alla fine del giro, Langton era chiaramente stanchissimo, cosicché lo riportarono in camera. Gli avevano chiesto di scegliere dal menù quello che avrebbe preferito per cena, e lui lasciò la scelta ad Anna. Si stese a letto e chiuse gli occhi. «Io ora devo andare», disse lei, piano. Lui non rispose. Era seduta su una poltrona accanto al letto e gli prese la mano. «Devo tornare a Londra.» Le dita di Langton si strinsero intorno alla mano di lei. «Quand'è che tornerai?» Lei si protese e lo baciò su una guancia. «Domani, e tutte le volte che potrò.» «A che ora, domani?» «A pranzo. Mangeremo insieme.» «Okay.»
Aveva ancora gli occhi chiusi, ma la sua stretta non si era allentata. Lei aspettò con pazienza e dopo un po' la presa si attenuò. Si avviò piano alla porta, per non svegliarlo. Prima di uscire, si voltò verso di lui. «Ti amo», sussurrò. Langton aprì gli occhi. Con la sua voce burbera, disse: «Vuoi un consiglio? Non tornare. Pensa alla tua vita. Io sarei solo una palla al piede, per te. Volevo dirtelo da un po'. Sono a pezzi, Anna, e non so se riuscirò a riprendermi. Forse non potrò neppure ricominciare a lavorare». Gli tornò accanto e si chinò su di lui, ma Langton chiuse le palpebre. «Guardami», gli disse. «Abbi il coraggio di guardarmi, ispettore capo James Langton!» Lui riaprì gli occhi. «Tu guarirai e uscirai di qui! Anche perché non ti sopporteranno per più di qualche settimana... E smettila di fare questi discorsi da piagnone. Sbrigati a rimetterti in sesto e a tornare a casa o sarò io a trasferirmi qui e a rovinarti la vita!» «Peggio di così non può andare», borbottò lui. «Oh, sì, invece. Se non ti dai una smossa, nessuno potrà fare nulla per te. Sarebbe bello, per cominciare, se tu la piantassi di vedere tutto nero e di trattare male le persone che ti stanno intorno e che cercano solo di aiutarti, che ti vogliono bene, ti rispettano... e sperano solo che tu ti rimetta al più presto!» «Sì, certo, ma tu non sai come sto io. Non sopporto l'idea di essere costretto a letto. Non ho neanche la forza per alzarmi e andare al gabinetto.» «Io me ne vado. Mi rifiuto di ascoltarti. Capito? Passo e chiudo.» «Va', va' pure...» rispose lui. «No, non me ne andrò finché tu...» «Finché io... che cosa, Anna? Finché non mi alzo dal letto e non mi metto a ballare il tango? Non riesco a camminare, non riesco neanche a respirare tanto bene e ho dolori dappertutto. Che cosa faresti tu in queste condizioni?» Anna gli tornò vicino. «Io combatterei senza tregua per rimettermi in forze, per tornare al lavoro e andare a beccare quel figlio di puttana che mi ha combinato così. Ecco che cosa farei.» Lui protese un braccio, la attirò a sé e le diede un bacio. «Tu, adesso, fa' attenzione, per strada. Superi il limite di velocità un po' troppo spesso, mi
pare.» Lei si sentì salire le lacrime agli occhi. «Ciao, a domani.» «Grazie, Anna. Meriteresti che io ti ringraziassi più spesso, lo so, ma... grazie.» «Farei qualunque cosa per te, lo sai.» «Sì, ma scommetto che non accetteresti di fare a cambio con me», disse lui, sorridendo. Il suo primo sorriso da quando aveva lasciato l'ospedale. Quel suo sorriso che non mancava mai di toccarle il cuore. Lo baciò di nuovo. «Ti amo.» Uscì alla svelta, questa volta: non voleva che lui la vedesse turbata. E non vide, perciò, che anche lui stava per piangere. Anna non aveva nessuno con cui confidarsi, e la tensione delle ultime settimane l'aveva decisamente provata: aveva un aspetto terribile e aveva perso diversi chili. Era andata anche due o tre volte al giorno all'ospedale e in molti casi era rimasta con Jimmy fino a notte fonda. Non aveva badato più a nient'altro. Non aveva più pulito la casa né fatto il bucato. Al ritorno dalla Glebe House, quel primo giorno, si gettò sul letto e rimase lì immobile per dieci minuti prima di riuscire a rialzarsi, sia pure a forza, e a darsi da fare. Spese le due ore successive a passare l'aspirapolvere, a fare bucati e a compilare la lista della spesa. Erano le undici quando poté finalmente farsi una doccia e mettersi a letto tra le lenzuola fresche. Si addormentò in pochi istanti. Fu la prima notte intera di sonno profondo da diverse settimane a quella parte. Il fatto che Jimmy fosse alla Glebe House le concedeva un po' più di respiro, e Anna sapeva che il lunedì successivo sarebbe dovuta tornare al lavoro, anche se ignorava quale caso di omicidio le avrebbero affidato. Strano, però... Da quando Langton era ricoverato, Anna non aveva più pensato neanche al lavoro. Sei settimane e cinque giorni Anna si svegliò ristorata e uscì di buon'ora per fare la spesa. Comprò grandi quantità di frutta e verdura da portare a Jimmy, e tutto quanto serviva per riempire frigorifero e freezer. Alle dieci aveva ormai sistemato tutto e fissato un appuntamento dalla parrucchiera. Avendo trascurato per settimane la cura di sé, decise di concedersi il lusso di manicure e pedicure. Di ritorno a casa, alle due del pomeriggio si sentiva molto meglio.
Provò un paio di tenute diverse, prima di ritenersi soddisfatta; i chili che aveva perduto erano l'unico risvolto positivo di tutta la vicenda. Era alta un metro e sessantacinque e aveva sempre provato a dimagrire un po'. Decise che avrebbe cominciato a frequentare una palestra, per bruciare un po' di calorie due o tre volte la settimana, o magari qualche piscina locale. Le era sempre piaciuto nuotare. Le venne in mente il giorno in cui sua madre le aveva suggerito di tagliare le lunghe trecce per non dover perdere ore ogni volta che si lavava i capelli. Aveva pianto: non voleva tagliarsi i capelli. Aveva undici anni, e dalla parrucchiera le si era spezzato il cuore alla vista dei suoi lunghi capelli rossi e ondulati recisi e ridotti a caschetto. Il risultato, però, non l'aveva affatto delusa, anzi! Il suo viso a cuoricino veniva valorizzato da quel taglio, e la frangetta metteva in risalto gli occhi azzurri. Nessun taglio di capelli sarebbe riuscito a nascondere le lentiggini, che tuttora le cospargevano il naso insolitamente piccolo, ma da allora il suo stile era rimasto pressoché immutato. Non aveva mai usato molto trucco, ma quel poco - un filo di ombretto scuro e di mascara, con rossetto color corallo chiaro - lo applicava con cura. Guardandosi allo specchio del bagno, non poté fare a meno di sorridere. Aveva dei bellissimi denti bianchi e regolari: l'uso prolungato dell'apparecchio in età infantile aveva dato i suoi frutti. Erano lontani i tempi in cui Anna era la classica ragazzina dai capelli rossi, paffutella, lentigginosa e con l'apparecchio ortodontico. Era una donna, ora. Alle tre era già in viaggio per la Glebe House, dove avrebbe rivisto Langton, ma decisamente più ristorata e lucida del giorno precedente. Jimmy non diede il minimo segno di essere contento di vederla. Era più imbronciato che mai e disse che aveva passato una notte d'inferno: non era praticamente riuscito a chiudere occhio. Invece di farle i complimenti per il suo aspetto, si dimostrò addirittura petulante. «Ti sei tagliata i capelli.» «Già... non credevo che te ne saresti accorto», disse lei, cercando di alleggerire l'atmosfera ed estraendo, intanto, uva, pomodorini e un po' di salmone affumicato. «Guarda che qui non mi tengono a digiuno. E poi avevi detto che saresti arrivata per pranzo o sbaglio?» «Avevi capito bene, ma ho avuto da fare, e comunque ho pensato che avresti gradito uno spuntino...» Langton staccò un chicco d'uva da un grappolo, e Anna vide che le mani gli tremavano. «Allora, quand'è che torni al lavoro?» le domandò.
«Non lo so. Forse lunedì prossimo.» «Hmm... scommetto che non vedi l'ora. Se non altro, è un'ottima scusa per non venire troppo spesso in questo posto dimenticato da Dio.» «Non è dimenticato da Dio. E io ci vengo solo perché ho voglia di vedere te, quindi non sarebbe male se ti mostrassi contento di vedermi.» Lui si strinse nelle spalle. «Dico solo che è un bel viaggetto, venire fin qui, e io non è che abbia granché da dire... per il momento, almeno. Sai, non ho ancora fatto la conoscenza dei miei compagni di prigionia, ma li ho sentiti: non immagini quanta gente si mette a strillare con gli occhi di fuori, qui. L'infermiera di notte dice che capita spesso. La chiamano sindrome da stress post-traumatico, adesso. In realtà sono semplici esauriti! Neanche fossero stati a combattere in Iraq!» Anna ascoltò paziente la tirata di Langton, che a un certo punto, forse affaticato, tacque. «Dopo certi eventi tragici», disse lei scegliendo con cura le parole, «o dopo inchieste particolarmente raccapriccianti, alcuni dei nostri ragazzi soffrono davvero. In realtà si chiama ipereccitazione o ipervigilanza.» «Ah, davvero? Scommetto che hai letto qualcosa, al riguardo.» «No, stavo aspettando una delle infermiere, per domandarle come stavi, e quando è arrivata mi è parsa piuttosto tesa. Le ho domandato quale fosse il problema, e lei mi ha spiegato che hanno un paziente un po' problematico che vuole sempre sedersi con le spalle al muro e che passa le notti nel terrore che accada qualcosa di incontrollabile.» «La prossima volta vedrà i marziani», commentò Langton, come un insopportabile vecchio barbogio. Anna provò a cambiare discorso offrendosi di passare dall'appartamento di lui per vedere se c'era posta o per prendergli qualcosa di cui magari aveva bisogno, e gli disse che gli avrebbe portato tutto alla visita successiva. «Ah, sei già pronta ad andartene, eh?» Lei avrebbe voluto rispondergli per le rime: si stava comportando come un bambino che cerchi in ogni modo di far perdere la pazienza all'interlocutore. «No. Stavo pensando che non ho la chiave di casa tua. Se ti serve qualcosa, comunque...» «No, non mi serve niente.» «Vuoi che telefoni a qualcuno? C'è qualcuno che vorresti sentire o vedere?» «No.» «E Kitty?»
Langton avvampò di rabbia. «Non voglio neanche che si avvicini a questo postaccio.» «Magari è in pensiero per te. Non la vedi da un pezzo...» «So esattamente da quanto tempo non la vedo... e comunque, no, non voglio vedere né lei né altri.» «Ah, capisco... Me compresa?» «Sì, non c'è nessun bisogno che tu venga fin qui; è un viaggio lungo.» «Non lo pensi veramente.» «Sì, invece.» Ci fu un silenzio imbarazzato. Langton era più petulante che mai. «Magari puoi venire quando proprio non hai di meglio da fare», aggiunse lui alla fine. «Oh, grazie.» «Scusami», borbottò, senza guardarla in faccia. «Ho fatto una lista di cose che potrebbero tornarti utili.» Aprì la borsetta e ne estrasse un bloc notes. «Cristo, che fissazione, queste tue liste!» disse, ma già pareva tornato un po' in sé. Anna gli consegnò i propri appunti: libri, pigiami, articoli da barba. «Sì, è tutta roba che mi serve.» «Ti viene in mente dell'altro?» Lui chiuse gli occhi. «Sì, un miracolo sarebbe l'ideale... per uscire di qui alla svelta e andare in cerca dello stronzo che mi ha ridotto così.» «Forse hai già esaurito il bonus», ribatté lei sorridendo, e anche lui accennò una risata: sapeva bene di essere stato a un passo dalla fine, e già era tanto, per lui, riuscire a cogliere l'aspetto ironico della propria pretesa. Anna gli fece compagnia per tutto il pomeriggio. Lui le parlò dell'intensa fisioterapia a cui si sarebbe dovuto sottoporre per la riabilitazione del ginocchio, che gli faceva un male del diavolo. Non riusciva ancora a camminare. L'unico risvolto positivo di quella disavventura era che non poteva fumare; in caso contrario, avrebbe avuto gravi problemi respiratori. Prima che Anna se ne andasse, Langton aveva aggiunto un certo numero di voci all'elenco, soprattutto libri, e le aveva affidato le chiavi di casa. Gran passo, quest'ultimo, dato che lui, pur avendo le chiavi di casa di Anna, non aveva mai neanche ipotizzato di concederle l'accesso al proprio appartamento. E lui teneva così tanto alla propria privacy, e ad avere il controllo delle situazioni, che Anna non aveva mai osato proporglielo. Alla fine, suscitando in lei la più viva sorpresa, Langton disse che, tempo una
settimana, forse Kitty sarebbe potuta passare a trovarlo, e anche la sua ex moglie, addirittura, ma solo se lui fosse riuscito a rimettersi in piedi e a camminare; non voleva che la figlia lo vedesse costretto sulla sedia a rotelle. Diede ad Anna il loro numero di telefono e l'indirizzo. E anche questa era una novità: lei non aveva mai saputo dove abitavano la figlia e l'ex moglie di Langton. Lui si rialzò a sedere per scrivere sul bloc notes che poi richiuse e restituì ad Anna. Solo quando arrivò a casa Anna lesse quel che lui aveva scritto - sotto l'elenco, sottolineato - e non poté trattenere le lacrime. Sono noioso e antipatico, lo so, ma migliorerò. Non portarci nessuno, in quella tua minuscola casetta: io torno subito. Il tutto siglato da un cuoricino trafitto da una freccia e da un faccino sorridente. Anna aveva sperato così tante volte di sentirselo dire - «Ti amo» e ora, finalmente, lo vedeva almeno tracciato nero su bianco. Così Langton aveva compensato ampiamente tutta la rabbia e il cattivo umore a cui aveva dato sfogo. Anna aveva evitato di chiedere un prolungamento del permesso speciale, perché sentiva di aver davvero bisogno del proprio spazio per poter poi gestire anche Langton. Non aveva idea di come si sarebbe organizzata quando lui fosse tornato a casa, tanto più se contemporaneamente avesse dovuto lavorare, come era ormai certo. Sperava solo che lui si rimettesse in piena salute, perché, se stando così le cose era un pessimo paziente, chissà come avrebbe reagito se si fosse trovato costretto a lasciare la polizia. 2. Anna era appena tornata al lavoro: avrebbe fatto parte di una nuova squadra che avrebbe indagato su un omicidio avvenuto a Brixton. Il responsabile delle indagini era l'ispettore capo John Sheldon, che lei non aveva mai incontrato né sentito nominare. La squadra aveva occupato il secondo piano del commissariato e vi aveva già fatto trasferire i computer d'ordinanza e il relativo personale impiegatizio. Sheldon collaborava spesso con altri due poliziotti, l'ispettore Frank Brandon e il sergente Harry Blunt; a questi si aggiungevano altri due ispettori, quattro sergenti e quindici agenti. Anna ricevette la consegna di presentarsi a casa della vittima, dove avrebbe trovato Sheldon.
Irene Phelps aveva trentanove anni e lavorava nella locale biblioteca pubblica. Era una donna tranquilla e studiosa dai lunghi capelli biondi. Molto bella, senza ombra di dubbio. Sulla scena del delitto erano all'opera gli uomini della Scientifica: il cadavere della donna era ancora nello studiolo in cui era stato rinvenuto. La stanza era stata messa a soqquadro, la mobilia rovesciata, i vasi e i soprammobili devastati. Il corpo giaceva a faccia in giù sul tappeto. La camicetta inzuppata di sangue era squarciata sul torso da diversi fendenti. Aveva la gonna rialzata, e le mutande strappate. Presentava ferite orribili anche al volto e alla gola. Irene aveva provato a lottare, ma l'aggressione doveva essere stata di una brutalità estrema. Era stata la figlia dodicenne di Irene a ritrovare il cadavere. Anna si trattenne sulla soglia, per ridurre al minimo la contaminazione della stanza. Mentre osservava gli agenti in camice bianco al lavoro, ebbe un sussulto sentendosi posare una mano su una spalla. «Tu devi essere l'ispettore Travis...» «Sì, signore.» «Io sono il responsabile di questa indagine, ispettore capo Sheldon.» Aveva un vago accento del Nord, capelli biondi piuttosto radi, pettinati all'indietro, e una gradevole faccia rosea. Indossava un completo semplice, da pochi soldi, con camicia bianca e cravatta ben annodata e poco vistosa. Anna abbozzò un sorriso e fece per stringergli la mano, ma lui si voltò verso un poliziotto grande e grosso. «Ti presento l'ispettore Brandon. Frank!» Brandon li raggiunse e, terminate le presentazioni, domandò: «Come sta il vecchio Langton?». Anna arrossì. «Ci vorrà tempo, prima che si rimetta del tutto, ma se la caverà.» «Bene. Ho sentito dire che molto probabilmente rimarrà invalido, e Langton - anche se io non lo conosco di persona - ha la fama di quello che non la prenderà tanto bene.» Prima che Anna potesse ribattere, dalla cucina giunse il richiamo del sergente Harry Blunt. Si voltarono tutti verso di lui. Blunt era basso e cicciottello, con capelli rossi a spazzola e la faccia rubizza. «Stiamo trovando una marea di impronte. A quanto pare, quello stronzo si è lavato le mani qui in casa e si è fatto anche un panino. Il coltello trovato accanto al cadavere potrebbe provenire dal servizio appeso sopra il ripiano della cucina.»
«Lei è Anna Travis», disse Sheldon, indicando Anna. Blunt le rivolse un freddo cenno del capo e tornò al suo lavoro. Sheldon serrò le labbra e consultò il suo orologio. «Be', sarà il caso di tornare al commissariato. Sei venuta con la tua auto?» domandò ad Anna. «Sì, signore.» «Okay, allora ci vediamo lì.» Si avviò per il corridoio verso la porta aperta. «Qualcosa in contrario se resto qui un po' per rendermi conto della situazione?» domandò Anna a Blunt. Il sergente si strinse nelle spalle e la lasciò lì senza risponderle. Ad Anna fece l'effetto di uno a cui non piaceva perdere tempo in chiacchiere. «Sai dov'è il commissariato?» le domandò Brandon. Anna disse che si era informata, prima di arrivare lì. «Bene... Ti spiace se ti do un consiglio? Il capo ha sempre fretta, perciò dato che presto convocherà una riunione - non mi tratterrei troppo a lungo.» «Chi si occuperà della figlia?» domandò Anna. Brandon rispose che la ragazzina era con i nonni; detto questo, come Sheldon, girò i tacchi e se ne andò, lasciandola presso la porta della cucina. La sala operativa era immersa nel silenzio. Anna fu indirizzata alle scrivanie degli ispettori, sistemati in un angolino; a causa delle ridotte dimensioni del commissariato, non disponevano di uffici separati. La bacheca dedicata a questo nuovo caso di omicidio era già stata approntata: vi campeggiavano il nome e l'indirizzo della vittima, e poco altro. Attraverso le veneziane, Anna vide Sheldon che parlava con Brandon. C'erano tre donne e due uomini presso una macchinetta del tè. Nessuno fece caso ad Anna o si curò di presentarsi. Il crocchio si sparpagliò quando Sheldon uscì dal suo ufficio e si diresse alla bacheca. Non ebbe neanche bisogno di richiamare l'attenzione; tutti tornarono immediatamente ai propri posti e si sedettero in attesa. «Okay, la vittima si chiama Irene Phelps, lavora alla biblioteca pubblica. È divorziata da cinque anni; l'ex marito vive nel Devon e fa l'agente immobiliare. È stato rintracciato e arriverà al più presto per incontrare la figlia, che ha solo dodici anni ed è molto scossa. Ora è dai nonni. Abitano a tre vie di distanza dalla casa della vittima. È tutto. A te la parola, Frank.» Sheldon fece un cenno a Brandon, il quale aprì il suo taccuino e con vo-
ce tonante - l'opposto di quella di Sheldon - disse: «Grazie, capo. Finora siamo riusciti a sapere che Irene usciva sempre dal lavoro alle tre, per poter essere a casa all'ora in cui sua figlia torna da scuola. Per tornare prendeva il metrò a Brixton per una sola fermata, dopo di che proseguiva a piedi. Il giorno dell'omicidio ha lasciato il lavoro alla solita ora, ma Natalie, sua figlia, prima di rientrare da scuola è passata a trovare la nonna, dove è arrivata intorno alle quattro e mezzo; di lì è uscita verso le sei meno un quarto e dovrebbe essere giunta a casa intorno alle sei. A quel punto ha aperto la porta e ha trovato il cadavere della madre. L'intervallo di tempo, perciò, è piuttosto ristretto. Irene Phelps potrebbe aver incontrato il suo assassino sul metrò ed essere tornata a casa con lui; l'omicidio potrebbe collocarsi tra le quattro e le cinque e mezzo. È tutto, capo». Sheldon si passò una mano tra i capelli non più foltissimi e riprese con il suo morbido accento del Nord, senza alzare la voce: «Dobbiamo appurare se la vittima conosceva l'assassino o se lo ha sorpreso in casa propria al rientro. Il posto è sottosopra, ma c'era ben poca roba di valore, e la vittima, in genere, non aveva mai troppo denaro contante; la casa era devastata, e lei ha opposto una resistenza furibonda. Non abbiamo trovato segni evidenti di scasso, ma per escluderlo dobbiamo attendere i risultati della Scientifica. Se stabiliremo che Irene conosceva l'assassino e lo ha accolto volontariamente in casa, dovremo coinvolgere nelle nostre indagini tutte le sue conoscenze e ogni eventuale partner; abbiamo ancora poche informazioni, al riguardo, perciò questa sarà la nostra priorità, al momento». Sheldon consegnò al coordinatore la lista degli aspetti su cui voleva che la squadra si attivasse. Nessuno aprì bocca. Sheldon inspirò a denti stretti e indicò le fotografie appese alla bacheca. «Ha subito dei colpi terribili. È stata un'aggressione feroce, e dobbiamo trovarlo alla svelta, questo stronzo, perché non si è minimamente curato di non lasciare tracce. Si è mangiato un sandwich e si è bevuto una tazza di tè, addirittura... a meno che non sia stata la vittima a prepararglieli, ma ne dubito; c'era troppo sangue in cucina. Chiunque sia, l'assassino doveva avere i vestiti zuppi di sangue, perciò dovrete sentire anche i vicini di casa: qualcuno deve pur averlo visto, quel bastardo. Su, andate e datevi da fare! Noi, intanto, aspettiamo i rapporti del patologo e della Scientifica. Per me, la seduta è tolta, se non ci sono osservazioni o domande.» Di nuovo, tutti tacquero. La riunione si sciolse, e ognuno si dedicò alle proprie incombenze. Frank Brandon si avvicinò alla scrivania di Anna. «Tu e io dobbiamo occuparci dei vicini e dei colleghi. Ci dividiamo i
compiti o lavoriamo insieme?» «Decidi tu», rispose Anna. «Okay. Io parlerò con i vicini. Tu andrai alla biblioteca.» «Chi interrogherà la figlia?» «Ci penserà Harry: ci sa fare con i ragazzi, ha anche lui la sua nidiata. Solo che la ragazzina non era proprio serena, perciò forse verrà sentita solo dopo che avrà ricevuto un po' di aiuto psicologico.» «È stata lei a chiamare la polizia?» «Sì... O meglio: è corsa da alcuni vicini che ci hanno chiamato.» «E ha dodici anni?» «Sì, è una bambina. Suo padre arriverà in serata. Lei resterà con i nonni. Perché ti interessa?» «Be', è stata lei a trovare il cadavere e magari, dato il breve intervallo di tempo, ha visto l'assassino... Forse, lo conosce persino.» «Mah... Lascia che se ne occupi Harry, okay?» «D'accordo. Io vado in biblioteca.» Brandon aveva un viso dai tratti fini, gli zigomi alti e, a giudicare dalle sue spalle quadrate, faceva palestra. Benché sul piano dell'aspetto fisico non gli mancasse nulla, aveva ugualmente un che di poco attraente... per Anna, almeno. Usava un'acqua di colonia un po' troppo forte - Aramis, forse - e sembrava convinto di essere un irresistibile oggetto del desiderio. E forse lo era... quando si guardava allo specchio. La biblioteca non era chiusa, ma all'entrata in molti avevano posato mazzi di fiori tristi e disordinati, alcuni corredati di biglietti scritti con grafia da bambini. Anna fu presentata a una donna dal bel viso che le strinse la mano con vigore. «Mi chiamo Deirdre Lane. Povera Irene... Lavoravamo fianco a fianco nella sezione bambini. Avrà visto che fuori ci sono dei fiori... Nel mio ufficio ne ho altri, e non so bene cosa farne. È terribile, non si riesce a capacitarsene.» Raggiunsero un piccolo ufficio. Anna accettò la tazza di tè che le fu offerta. Le pareti erano tappezzate di manifesti di iniziative e letture pubbliche per bambini. Deirdre aveva la scrivania a tal punto coperta di libri e cartellette che dovette creare spazio per appoggiarvi le tazze. Fatto questo, la donna prese una sedia e andò ad accomodarsi accanto ad Anna, dallo stesso lato del tavolo.
«È stato un ladro?» domandò. «Ci vorrà un po' di tempo per dirlo. Quel che vorrei sapere da lei è se qualcuno poteva avere del rancore nei confronti di Irene.» «Santo cielo, no! Lo escludo. Non c'è un'anima che possa dire male di lei.» «Potrebbe farmi un elenco delle persone che lavorano qui?» «È impossibile che qualcuno dei nostri colleghi sia implicato.» «Ho ugualmente bisogno del nome e dell'indirizzo di tutti, non foss'altro che per escluderli.» «Capisco. Be', d'accordo.» «Compresi gli addetti alle pulizie, i custodi e chiunque abbia lavorato qui: imbianchini, decoratori, muratori o altri che possano essere entrati in contatto anche di sfuggita con la signora Phelps.» Deirdre scartabellò in uno schedario e ne estrasse una specie di libro mastro. Si sedette di fronte ad Anna, questa volta, e cominciò a snocciolare l'organigramma della biblioteca, includendo nella lista un idraulico che aveva da poco riparato gli scarichi e due ragazzi che avevano aiutato a ripulire i vialetti intorno alla biblioteca. Risultò che tutti i colleghi lavoravano in quella biblioteca da molti anni. Armata di nomi e indirizzi, Anna passò a raccogliere altre informazioni sul conto di Irene. La vittima era una lavoratrice molto diligente e stimata, sempre puntuale al mattino e regolare negli orari d'uscita, per essere a casa ad accogliere la figlia di ritorno da scuola. «Aveva una vera e propria adorazione per la figlia, una bambina molto educata, sempre ben vestita. Si chiama Natalie, ma tutti la chiamano Natty: ci ha spesso aiutato nelle nostre iniziative del sabato mattina, che abbiamo sempre organizzato a titolo gratuito. E a essere sinceri non è che il nostro stipendio sia tanto alto... Però dopo il divorzio Irene riceveva gli alimenti dall'ex marito, che le pagava l'affitto, e quindi non le mancava nulla. Detto tra noi, credo che non sia stato un divorzio tranquillo: lui l'ha lasciata per un'altra ed è andato a vivere nel Devon, mi pare. Irene non amava parlare di lui, e io non l'ho mai conosciuto né sapevo granché di lei, quando stavano insieme.» Anna pose a Deirdre le solite domande - se Irene avesse degli amici o relazioni con qualcuno - ma senza risultati apprezzabili. «Non eravamo in confidenza», spiegò Deirdre. «Non sono mai stata a casa sua, ma lavorando per anni a stretto contatto abbiamo finito per diventare lo stesso buone conoscenti, e io non l'ho mai sentita dire che si ve-
deva o usciva con qualcuno. Credo che conducesse una vita tranquillissima, con la sua Natty. A volte mi raccontava che era stata al cinema, di solito con Natty, nei weekend. E la domenica, siccome i suoi genitori abitano poco lontano, andava da loro. Credo che facesse un po' di spesa e di pulizie per loro, dato che sono piuttosto vecchi. Prima di Natale, di solito, facciamo una festicciola, qui al lavoro, per dipendenti e relativi coniugi o partner, ma Irene ci è sempre venuta da sola. Anzi, io l'ho vista sempre e soltanto con sua figlia.» Anna impiegò un'altra ora per parlare con tutti i bibliotecari. Erano sgomenti per la brutalità dell'omicidio. Poi, rintracciò per telefono l'idraulico, con cui stabilì di incontrarsi nella tarda mattinata, e infine i due ragazzi che avevano spazzato i vialetti. Evidentemente, nessuno aveva mai incontrato Irene fuori dall'orario di lavoro o l'aveva vista con qualcuno che non fosse sua figlia. Irene Phelps ne usciva come una persona in gamba e serissima, rigorosa sul lavoro e affettuosa con gli anziani genitori e con la propria figlia. L'idraulico, un piccoletto rubicondo, non era neanche sicuro di aver mai visto Irene. Aveva lavorato per la biblioteca a titolo pressoché gratuito, per beneficenza, dato che erano sempre a corto di fondi. Passava di lì la domenica per vedere se c'era qualche riparazione da fare. Il giorno dell'omicidio l'aveva interamente trascorso a Clerkenwell, in un nuovo cantiere. Neanche i due giovani furono in grado di fornire particolari sul conto di Irene: erano stati pagati in contanti per la pulizia dei vialetti e subito dopo se n'erano andati in palestra. Non avevano notato presenze sospette nei dintorni. Alle tre del pomeriggio Anna era di nuovo nella sala operativa di Brixton. Digitò il proprio rapporto e andò dal coordinatore, per parlare con lui delle informazioni raccolte. Insieme aggiornarono la bacheca con gli elenchi dei colleghi della vittima e degli altri lavoratori con relativi alibi. Per le cinque era in programma una riunione. Anna sperava che non andasse troppo per le lunghe, perché aveva in mente di fare un salto alla Glebe House, da Langton. Alle cinque in punto Sheldon uscì dal suo ufficio, proprio mentre Harry Blunt e Frank Brandon facevano il loro ingresso nella sala. Nessuno di loro degnò Anna - o altri - del benché minimo cenno; si sedettero alle rispettive scrivanie e diedero un'occhiata ai loro appunti. Sheldon si alzò in piedi, guardò la bacheca con i risultati del lavoro di quel giorno e poi, allentata la cravatta, si voltò verso i collaboratori. «Gli esiti delle analisi di laboratorio dovrebbero arrivare domani. La
Scientifica è ancora sul luogo del delitto. Nel frattempo, ditemi un po' com'è andata oggi.» Dopo un breve silenzio, fu Harry Blunt ad alzarsi in piedi. «Dai nonni non abbiamo raccolto granché: sono piuttosto anziani e chiaramente molto scossi. Ho parlato con Natalie, la figlia: le hanno assegnato una consulente psicologica, ma neanche lei ha saputo fornire informazioni utili. Il giorno dell'omicidio è rientrata a casa un po' più tardi del solito, perché era andata a trovare la nonna, che aveva l'influenza. Dovevano essere all'incirca le sei meno un quarto quando è arrivata a casa. La porta d'ingresso era socchiusa, e lei ha chiamato...» Sheldon gli fece un cenno. «Questo già lo sappiamo. Ci sono novità?» «In poche parole, ha visto la madre ed è corsa dai vicini che hanno telefonato alla polizia. È rimasta con loro fino all'arrivo dei primi agenti e poi è stata accompagnata a casa dei nonni. Pare che non abbia visto nessuno. Né all'interno dell'edificio né nei dintorni. Ha detto pure che non conosce nessuno che potesse voler male a sua madre e non le risulta che lei avesse nuove amicizie. Da quel che ho capito, la vittima se ne stava molto per conto suo e praticamente non aveva una vita sociale, ma era rispettata e apprezzata da entrambe le famiglie che abitano nel suo stesso edificio. Nessuno ha mai sentito né visto alcunché di strano, ed erano tutti traumatizzati. Non sono passati operai, fattorini o sconosciuti di sorta, da quelle parti, e le telecamere a circuito chiuso non hanno offerto nulla d'interessante.» Sheldon ringraziò con un cenno e si allentò ulteriormente la cravatta, prima di volgersi verso Frank Brandon. «Ho scoperto più o meno le stesse cose, capo: lavoratrice stimata e scrupolosa, abitudinaria negli orari e nei movimenti da casa al lavoro e viceversa, sicché l'omicidio dev'essere avvenuto tra le quattro del pomeriggio e l'ora del ritorno della figlia a casa.» «Sì, sì, lo sappiamo», disse Sheldon, impaziente, dando la parola ad Anna. La sua relazione fu più particolareggiata delle precedenti. Sheldon la ascoltò sbadigliando e consultando l'orologio. Quando Anna ebbe finito, l'ispettore capo si alzò in piedi indicando la bacheca. «Si sa qualcosa dell'ex marito?» Frank, senza alzarsi, sfogliò il suo taccuino. «Fa l'agente immobiliare, è piuttosto ben messo a soldi e ha due figli piccoli avuti dalla seconda moglie. Era nel Devon, il giorno dell'omicidio. Verrà per incontrare la figlia, e
quando arriverà gli parleremo.» Sheldon si infilò le mani in tasca. «Be', speriamo che il patologo e la Scientifica ci forniscano qualche indizio, perché al momento non sappiamo dove sbattere la testa. Intanto, continuate il lavoro porta-a-porta.» Si rivolse ad Anna, che chiedeva la parola. «Si è saputo se l'arma del delitto è riconducibile all'appartamento della vittima?» «Non hanno ancora verificato, ma dal set di lame appeso in cucina mancava un coltello, che l'assassino ha usato per tagliare il panino. Contiamo di rilevare tracce di DNA e impronte digitali, che potrebbero appartenere a individui già noti alla polizia; al momento, però, possiamo solo aspettare. Voglio che passiate di nuovo al setaccio il materiale video delle telecamere a circuito chiuso disponibili. È tutto. Ci aggiorniamo alle nove di domani mattina.» Anna era stupita: non aveva mai lavorato a un caso limitandosi all'orario d'ufficio; e non aveva mai visto una sala operativa svuotarsi così alla svelta, lasciando in servizio qualche raro impiegato e il personale del turno di notte. Aveva calcolato di passare dall'appartamento di Langton per ritirare la posta e altro, ma era tornata a casa a farsi una doccia e a cambiarsi ed erano le sei e mezzo passate: l'ora di punta per il traffico in uscita da Londra. Sarebbe riuscita a incontrare Langton solo ben oltre le otto. Imbottigliata sull'autostrada, occupò il tempo riflettendo sulla nuova indagine. Che depressione! Il lavoro accanto a Langton era tutt'altra cosa: la sua energia e il suo impegno instancabili davano sempre i loro frutti. Anna aveva lavorato su un gran numero di casi, prima e dopo la collaborazione con Jimmy, e ancora non aveva trovato un ispettore capo paragonabile a lui per carisma ed efficienza. Langton la stava aspettando sulla sedia a rotelle nella sala comune deserta. Le rivolse un sorriso accigliato. «Mi ero quasi messo il cuore in pace, per oggi.» «Ho cominciato a lavorare su un nuovo caso... una donna assassinata nel suo appartamento. L'ha trovata la figlia.» «Chi guida le indagini?» domandò, di pessimo umore. Anna fece i nomi di Sheldon e compagnia, e Langton sbuffò, arricciando il naso. «Quel pallone gonfiato! Non lo reggo. E quel maciste del suo tirapiedi... si crede Burt Reynolds. Se passasse un po' meno tempo in palestra e un po'
di più a lavorare... Sono una manica di segaioli.» Langton era sempre piuttosto offensivo nei confronti dei suoi colleghi della Omicidi, ma Anna doveva riconoscergli il dono della sintesi. Langton indicò la sala deserta. «Sono andati tutti a vedere un film, a piagnucolare davanti a uno schermo al plasma.» «Che film danno?» «Che diavolo vuoi che ne sappia? So solo che non li reggo. Questo posto sembra una specie di muro del pianto.» Sospirò e le domandò se avesse trovato della posta per lui. Anna disse che gliel'avrebbe portata l'indomani. «Non dannarti, eh!?» «Oh, piantala! Stasera non ho avuto il tempo di passare da casa tua.» «Scommetto che Sheldon ha chiuso bottega alle cinque. È il classico poliziotto da orario d'ufficio.» Anna rise e confermò. D'altra parte, finché non avessero ricevuto gli esiti delle analisi di laboratorio, non c'era granché da fare. Langton si passò una mano tra i capelli. «Quando i test del DNA e gli esperti della Scientifica non esistevano, magari avevamo a disposizione meno materiale indiziario, ma nessuno se ne restava mai con le mani in mano; adesso, non si fa altro che aspettare i risultati delle analisi, e a volte si resta ugualmente con un pugno di mosche.» Anna non aveva voglia di discutere dell'indagine nei particolari, ma lui sì. Dopo averle strappato un breve riepilogo, restò per un po' in silenzio e poi suggerì di fare, limitatamente alla zona dell'omicidio, un controllo in tutti gli ostelli e le case-comunità per detenuti in semilibertà. «Sembrerebbe l'opera di un pazzo, di un qualche stronzo che è riuscito a controllare le abitudini della vittima.» «Sì, ci avevo pensato anch'io. La zona è di quelle problematiche...» Langton fece una smorfia di dolore e prese a strofinarsi il ginocchio. «Tutto bene?» «No. Il fisioterapista mi tratta il ginocchio come farebbe un rugbista: mi fa un male dell'accidente e ancora non riesco a mettere più di due passi di fila. Mi hanno persino portato un cazzo di deambulatore Zimmer. Gliene ho cantate quattro: amico, gli ho detto, il giorno che mi vedrai trascinarmi aggrappato a un affare del genere ti autorizzo a somministrarmi un'overdose di morfina.» Anna restò con Langton per quasi due ore, dopo di che lui cominciò a dare evidenti segni di stanchezza. Quando si alzò per andarsene, Jimmy le
prese una mano. «Ehi, non è il caso che ti sobbarchi questo viaggio avanti e indietro tutti i giorni. Sei hai da lavorare, lascia perdere... basterà che mi telefoni.» Lei lo baciò, e lui le strinse la mano ancora più forte. «Mi rimetterò. Ci vorrà solo un po' di più di quel che pensavo, ma te lo prometto: la prossima volta, mi troverai in piedi.» Anna gli diede un altro bacio e lo lasciò lì seduto da solo, circondato da attrezzi ginnici che non poteva usare. Tralasciò di dirgli che sarebbe passata dalla caposala per farsi aggiornare sulle sue condizioni. Dovette aspettare mezz'ora prima di poterle parlare. La caposala era una bella valchiria di due metri dal grande sorriso cordiale. «Be' non è un paziente facile... Ha un carattere terribile, ma è molto determinato. Il fatto è che ci vorrà molto più tempo di quel che lui pensa. L'articolazione del ginocchio è delicata e causa dolori atroci, e a volte dovrebbe riposare di più, ma finora ha sempre rifiutato gli antidolorifici. È caduto malamente perché ha provato a fare pesi in piedi... ma dopo una ferita al torace come la sua deve portare pazienza.» «Quanto tempo ancora resterà ricoverato qui?» «Di solito, noi teniamo i pazienti per un paio di settimane e poi li mandiamo a casa. Se hanno bisogno di ulteriori cure, tornano. Alcuni fanno avanti e indietro per diversi mesi. Io credo che James dovrà puntare a ridurre il viavai al minimo: sei mesi.» «Sei mesi?!» «Sì, e le posso garantire che tornerà a camminare senza supporto... ma ci sono altri problemi. Non riesce a scaricare la tensione, o non vuole: la sua impazienza di fare ginnastica e rimettersi in forma è tipica. Ci si accanisce con l'esercizio fisico per scacciare i pensieri e non curarsi delle proprie emozioni. Purtroppo, la rete di supporto che un tempo era attiva per ufficiali di polizia nelle condizioni di James ora è pressoché smantellata. Un tempo c'era molto più cameratismo e sostegno psicologico. Quel che mi preoccupa è il suo isolamento: si rifiuta di avere a che fare con gli altri pazienti e, se continua così, finirà sicuramente per cadere in depressione.» Ad Anna sembrò di essere lei a cadere in depressione, già lungo il tragitto verso casa. Era l'una passata quando riuscì a mettersi a letto, così stanca da crollare addormentata. Si dimenticò persino di puntare la sveglia, cosicché l'indomani mattina si alzò tardi e per raggiungere Brixton restò imbottigliata nell'ingorgo dell'ora di punta.
La riunione mattutina era già in corso quando lei entrò in silenzio nella sala operativa e andò a sedersi alla sua scrivania. Sheldon ordinò che andassero a verificare l'alibi di tutti i pregiudicati in semilibertà che alloggiavano nella zona. «Credo - vista la ferocia dell'agguato - che potremmo cercare, in particolare, gente già condannata per violenze e aggressioni. Datevi da fare, e speriamo di essere più fortunati di ieri.» Anna tacque. Blunt e Brandon si avvicinarono a Sheldon, e i tre confabularono un attimo prima di separarsi. Sheldon, quindi, fece cenno ad Anna di seguirlo nel suo ufficio. «Sei arrivata tardi», le disse, secco. «Sì, mi dispiace... sono rimasta bloccata nel traffico.» «Non è una buona scusa. Io dirigo una squadra molto coesa.» «Chiedo scusa.» Fu svelta, però, a cambiare discorso. «Il patologo si è fatto vivo?» «No. Anzi, sto proprio andando da lui. Ti va di accompagnarmi?» «Grazie.» Con un certo disagio, prese posto sul sedile posteriore della volante. Durante il viaggio, Sheldon fece una lunga telefonata; con il suo dentista, presumibilmente, dato che domandava di terapie canalari e relativi costi; imprecò e disse che avrebbe richiamato. «Come sta?» le chiese poi. «Prego? Chi?» «Langton... Ho sentito dire che è in una situazione disperata.» Anna si irrigidì. «Ma no, tutt'altro. Presto, anzi, verrà dimesso dalla Glebe House», mentì. «Be', è un combattente, glielo concedo, anche se non ci sono mai andato troppo d'accordo... forse è per questo che non l'hanno mai nominato sovrintendente. Ora, però, magari lo promuovono... se dovranno assegnargli un posto dietro una scrivania.» Anna si morse le labbra. «Io credo che non veda l'ora di tornare alla squadra Omicidi.» «Sì, dicono tutti così... ma non ti mandano fin laggiù se non sei messo male.» Anna avrebbe voluto dargli un pugno. «Credo che gli basterà un'intensa riabilitazione per il ginocchio.» Sheldon si voltò, posando il braccio sullo schienale del sedile. «Immagino che tu vada a trovarlo spesso, perciò portagli i miei saluti, quando lo
vedi.» «Non mancherò.» Fu infastidita dall'allusione alla sua relazione privata con Langton, che lei aveva cercato di tenere riservata. «Conoscevo la sua prima moglie», riprese l'ispettore capo. «Era indiana, mi pare. Una donna bellissima... le è venuto un tumore ed è morta in poco tempo.» «Sì, lo sapevo.» «È stata dura, per lui, superare il trauma... ma è normale, mi sa. Se non ricordo male, lo avevano spedito alla Glebe House anche quella volta... ma forse mi sbaglio.» «Infatti, è la prima volta che ci mette piede.» «Ah, be'... era una voce che girava, sai com'è?» «Sì, lo so.» Anna si appoggiò all'indietro e guardò fuori dal finestrino, nella speranza di dare un taglio a quella conversazione. «Io lavoravo con tuo padre», riattaccò Sheldon, imperterrito. Già le dava fastidio parlare di Langton, con lui; figurarsi di suo padre! «Io ero appena agli inizi, e lui era un personaggio... faceva a tutti una paura incredibile e aveva proprio un bel caratteraccio. Un po' come Langton, per molti versi. Non sopportava il lavoro d'ufficio, e ora lo sopporterebbe ancora meno... Basta che uno scoreggi, e si è costretti a fare un verbale...» La conversazione finalmente terminò quando entrarono nel parcheggio dell'obitorio. A differenza di Langton, Sheldon aveva dei modi da gentleman, di quelli che tengono aperta la porta alle donne per farle passare; le disse persino di mettersi il camice e le altre protezioni, come se lei non fosse mai stata in posti del genere. Irene Phelps aveva lottato disperatamente. Le ferite alle mani e alle braccia, con cui aveva cercato di difendersi, erano un tratteggio incrociato che si estendeva anche alle guance, al collo e agli occhi, uno dei quali - il destro - era stato praticamente affettato. Risultava uccisa da un singolo fendente al cuore: la lama, un coltello da scalco molto affilato, era stata affondata sino all'impugnatura. Dopo l'aggressione era stata violentata e sodomizzata. Erano stati trovati campioni del seme e del sangue dell'assalitore. Tornando alla base con Sheldon, Anna rimase in silenzio, così come aveva già fatto all'obitorio. Dopo circa cinque minuti, fu lui ad avviare la conversazione. «Be', che cosa ne pensi?» le domandò, senza voltarsi a guardarla.
«Si è trattato senz'altro di un'aggressione furibonda perpetrata da un uomo che ha lasciato tracce del proprio DNA e, probabilmente, una quantità di impronte digitali sull'arma e più in generale nell'appartamento.» «Sì, e dunque...?» «Non credo che il movente originario fosse il furto; potrebbe aver messo in disordine la casa in un secondo momento, ma secondo me era lì per uccidere. L'assassino...» Sheldon la interruppe. «Da che cosa lo deduci?» «Dalla gravità delle ferite. Credo che l'assassino però non abbia pianificato l'omicidio, ma solo atteso l'occasione giusta.» «Spiegati.» «Non ci sono segni di effrazione, sicché l'uomo aveva già preso in ostaggio la vittima, quando lei lo ha fatto entrare in casa. Dalle condizioni in cui ha lasciato l'appartamento, escluderei un ladro di professione. Doveva essere in preda a una violenta frenesia dopo l'omicidio e l'atto sessuale: ha buttato per aria cose a caso, alla ricerca di soldi o di oggetti di valore. Sappiamo che dev'essersi sporcato i vestiti di sangue; siccome nessuno è ancora venuto a raccontare di aver visto chicchessia in casa della vittima o nei dintorni, l'assassino doveva avere nelle vicinanze un luogo dove rifugiarsi senza dare nell'occhio.» Sheldon si girò verso di lei, questa volta. «Ottima osservazione.» «Be', è abbastanza ovvia. Scommetto pure che l'assassino ha precedenti di violenza e di instabilità mentale; potrebbe anche non avere ucciso, prima d'ora, ma ha sicuramente una certa esperienza in queste cose.» «Quali cose?» «L'atto sessuale compiuto quando la vittima era già morta o quasi. A ben vedere, non c'è alcun carattere di premeditazione, a parte l'ingresso nell'appartamento. Potrebbe anche darsi che la vittima conoscesse l'assassino, non necessariamente a fondo: magari si erano già visti, come accade tra persone che abitano a poca distanza tra loro. Lui potrebbe aver osservato i movimenti della donna, cogliendola di sorpresa e costringendola a farlo entrare in casa. Inoltre, come sappiamo, tutto dev'essere avvenuto in un tempo molto breve, forse anche meno di un'ora.» «E del panino che si è preparato che cosa mi dici?» Anna scrollò le spalle. «Evidentemente aveva fame.» Alla riunione, Sheldon ripeté pressoché testualmente quel che gli aveva detto Anna. Lei lo ascoltò basita: da come parlava, pareva che quel possi-
bile scenario fosse venuto in mente a lui. Intanto era arrivato anche il rapporto della Scientifica: l'assassino aveva lasciato alcune fibre, due capelli e impronte digitali in cucina, in corridoio e nello studio in cui aveva ucciso la vittima. Alle quattro e un quarto disponevano già del nome di un tale che aveva precedenti di violenza carnale. Arthur George Murphy aveva quarantasei anni e aveva scontato meno di tredici anni di una condanna all'ergastolo per una brutale aggressione a sfondo sessuale. In altre parole, era in libertà vigilata! Murphy aveva al suo attivo anche una serie di aggressioni ai danni di stranieri risalenti a più di trent'anni prima. Questo stupratore pregiudicato, mentre era in libertà vigilata e - teoricamente - sotto sorveglianza, aveva trovato il modo di uccidere Irene Phelps. Mentre le ricerche di Murphy erano in corso, emersero ulteriori particolari sul suo passato. I rapporti erano agghiaccianti. Malgrado la sua storia spaventosa, Murphy era stato classificato come soggetto poco pericoloso, quando invece era chiaramente un pericolo pubblico. Sarebbe bastata una rapida scorsa alla sua fedina penale per convincere chiunque dell'inopportunità di lasciarlo in libertà. I suoi guai con la giustizia erano cominciati nel 1975, quando aveva ricevuto la prima condanna per aver terrorizzato alcune donne. Nel 1990 gli erano stati comminati nove anni per violenza sessuale. Ne aveva scontati sei. Infine, per uno stupro che aveva commesso armato di un coltello, era stato condannato all'ergastolo. Nel giro di qualche ora, la squadra aveva l'indirizzo di Murphy: abitava a due vie di distanza da Irene Phelps. La stampa e la TV diedero ampio spazio alla vicenda, invitando tutti a non avvicinare il ricercato e a informare subito la polizia in caso di avvistamento. La roba di Murphy fu ritrovata nell'ostello in cui i servizi di sorveglianza lo avevano sistemato: vestiti sporchi di sangue, un paio di scarpe da tennis con chiazze ematiche sotto le suole e sulle stringhe, riviste pornografiche e alcuni oggetti insignificanti appartenuti alla vittima. C'era anche un'agendina con tutti i contatti dei servizi sociali e di sorveglianza, oltre a ventidue sterline infilate in una busta. Lui, però, non c'era: erano due giorni che non si faceva vedere all'ostello. Man mano che il quadro si delineava, Sheldon appariva sempre più infuriato. Scuoteva la testa, in piedi dietro la sua scrivania. Il fatto che nessuno dei servizi di sorveglianza o del sistema per la gestione dei criminali in libertà vigilata avesse segnalato alla polizia la scomparsa di Murphy era una vergogna. Era paonazzo per la rabbia.
«Cazzo, è incredibile: 'sto bastardo viene fatto uscire mentre sta scontando una condanna all'ergastolo per stupro e riesce a lasciare l'ostello e ad ammazzare un'altra donna senza che nessuno neanche se ne accorga! Quelli dei servizi di sorveglianza si lamentano della scarsità di fondi e di personale, soprattutto qui a Londra... Be', la cosa non ha la minima rilevanza: adesso quel figlio di puttana è uccel di bosco, e noi sappiamo che ucciderà ancora!» Anna lo lasciò sfogare. In fondo, anche lei pensava che tutto il sistema fosse una farsa. C'erano state evidenti mancanze nel modo in cui era stato gestito il caso Murphy. «Mi domandavo se si hanno notizie sui genitori o su altri parenti di Murphy. Sappiamo che ha lasciato l'ostello in fretta e furia, senza neanche prendere i soldi; è probabile, perciò, che sia fuggito da qualche parte. Forse c'è qualcuno che lo nasconde o lo protegge.» «Che razza di persone bisogna essere per nascondere un animale simile? E non venire a parlarmi di amore materno! Se davvero si sta nascondendo da sua madre, lei non dev'essere tanto migliore di lui.» «Si sa qualcosa, dunque?» «Sì, che c'è una puttana che lo ha messo al mondo.» Sheldon consultò un dossier. «Il padre è morto otto anni fa. La madre si chiama Beryl Dunn... e Dio solo sa dove si trova. Anche il fratello è morto, ma c'è una sorella più giovane, il cui indirizzo però è segreto. Possiamo andare a trovarla, ma voglio che tu vada ai servizi di sorveglianza per farti dare tutte le informazioni possibili.» La funzionaria assegnata a Murphy - parte di una squadra che si occupava di numerosi detenuti in libertà vigilata - era sorprendentemente giovane. Magra, ben curata, con grandi lenti senza montatura, si mise subito sulla difensiva. «Lo sa che abbiamo circa duecentomila detenuti da sorvegliare?» «Non tutti in questa zona», precisò Anna, cercando di non sembrare arrabbiata. «No, certo. Si tratta comunque di oltre un centinaio di persone. Insomma, si sa che di quelle duecentomila persone solo un centinaio finirà per commettere un altro reato grave. Molto meno dell'uno per cento.» Anna digrignò i denti. «Io sono qui per parlare di un caso specifico: Arthur George Murphy.» «Sì, sì, lo so, ma io sto cercando di spiegarle che subiamo una tale pressione - veniamo additati come responsabili, addirittura - quando la verità è
che non abbiamo le risorse per sorvegliare i detenuti che ci vengono affidati, neanche quelli considerati ad alto o altissimo rischio.» Anna inspirò a fondo. «Non mi interessa. Il fatto è che Arthur Murphy ha potuto abbandonare tranquillamente il suo ostello e ha massacrato una povera donna innocente. Io non sono qui per ascoltare i problemi dei servizi di sorveglianza, che a quanto pare sono preoccupanti, profondi e, per lei, decisamente stressanti. Io ho bisogno di un elenco di tutte le persone amici, parenti o altri conoscenti - da cui Murphy potrebbe essersi nascosto o aver trovato protezione.» «Non sono autorizzata a divulgare queste informazioni personali.» Fu la goccia che fece traboccare il vaso. Anna saltò su e batté con violenza il palmo della mano sulla scrivania della giovane funzionaria. «Irene Phelps è stata stuprata e sodomizzata; Murphy le ha squarciato il petto e l'ha tagliuzzata dappertutto, e il cadavere è stato ritrovato dalla figlia dodicenne della vittima. Questa bambina non dimenticherà mai più quella raccapricciante immagine della madre. Dobbiamo arrestare quell'uomo e sbatterlo dentro senza più sconti, perciò se possiede informazioni - qualsiasi cosa, intendo - che possa servire alla cattura, la pregherei di aiutarmi senza accampare scuse per la totale inettitudine del vostro ufficio!» Anna chiuse così forte la portiera della sua Mini da farla traballare tutta. Da non credersi quanto tempo ci aveva impiegato per estorcere i dati relativi a tre persone che forse l'assassino aveva contattato. La sorella di Murphy, Gail Dunn, aveva chiesto protezione e anonimato dopo l'ultimo stupro commesso dal fratello. Aveva lasciato Londra nella speranza di interrompere qualsiasi contatto con lui. Gli altri due nomi erano di ex detenuti rilasciati da poco, con cui Murphy aveva scontato parte della pena. Erano stati sistemati in diversi ostelli londinesi, e uno dei due aveva l'obbligo di rientro notturno, cosicché non sarebbe stato difficile rintracciarli. Anna si presentò a rapporto nella sala operativa. Blunt si incaricò di reperire i due ex detenuti, mentre lei e Frank Brandon sarebbero andati a trovare la sorella di Murphy. L'idea di farsi un viaggio in auto con Brandon e il suo odore di colonia fino al distretto di New Forest non era affatto allettante. Avrebbe preferito andarci da sola. Quando provò a proporlo, Sheldon ebbe una delle sue reazioni maligne e puntandole contro un dito berciò: «Non stai lavorando con quell'incosciente di Langton, ispettrice Travis: io, a quelli della mia squadra, ci tengo. Quest'uomo è pericoloso. Non ti permetterei mai di andare da sua sorella
da sola. Né tu né Brandon dovreste assumervi questo rischio. L'assassino potrebbe essere nascosto proprio lì. Ho già parlato con la polizia locale: vi accompagneranno sul posto e vi forniranno supporto. E adesso filate!». Anna non replicò. L'aveva fatta sentire un verme. Cominciava sinceramente a detestarlo, ma in fondo sapeva pure che aveva ragione. Murphy poteva essere dovunque, ed era sicuramente pericoloso. Gail Dunn, la sorella di Murphy, aveva adottato un nuovo cognome Summers - quando si era trasferita nel New Forest. Ora però si faceva chiamare Sickert. Abitava in un bungalow in affitto con diverse baracche annesse che ospitavano un piccolo vivaio e un allevamento di maiali. A giudicare dalle condizioni delle strutture, non doveva essere un commercio particolarmente redditizio. Il cancello era scardinato, e il vialetto che conduceva al bungalow era costellato di buche e pozzanghere. Il terreno circostante appariva ingombro di diversi relitti d'automobile arrugginiti e senza pneumatici. Su una chiazza d'erba spelacchiata c'erano biciclette per bambini e giocattoli sparpagliati. Brandon annusò l'aria e fece una smorfia di disgusto. «Cristo, cos'è 'sta puzza?» «Maiali. Ci sono dei porcili sul retro.» Frank si guardò intorno a disagio. «Il capo aveva ragione. Questo posto non mi piace. Chiamerò i rinforzi. Se Murphy è nascosto in una di queste baracche, potrebbe tentare la fuga.» «Forse sarebbe stato meglio incaricare di tutto la polizia locale. Avremmo evitato di perdere tempo.» Anna seguì lo sguardo di Brandon. Pareva di essere in un mare di fango. «O è solo che non vuoi sporcarti le scarpe?» Il collega la guardò male: non era per niente divertito, ma si allontanò ugualmente dalla porta per telefonare. Le fece cenno di andare avanti e di suonare. Anna premette il pulsante, ma non si udirono campanelli. Riprovò. Brandon la raggiunse. «Ci sono due auto in arrivo. Non aprono?» «Il campanello non funziona.» Anna provò a bussare. Brandon si accostò a una finestra e, facendosi schermo con le mani, sbirciò all'interno, per poi tornare da Anna all'ingresso. «Non mi piace: aspettiamo i rinforzi.» Anna assentì e consultò l'orologio. «Potrebbe essere andata a prendere i bambini a scuola... Si sa se abita con qualcuno? Di certo, cambia nome abbastanza spesso.» «Non si sa nulla.» Brandon andò a dare un'occhiata alle serre e alle ba-
racche alle spalle del bungalow. Tornando, disse: «Proprio un bel nascondiglio, eh? Come si fa a vivere qui con dei bambini?». Lei annuì: quel posto aveva davvero un'aria desolata. Anche Anna, come Brandon, si mise a sbirciare in casa. «Giriamo sul retro», propose. Frank scosse la testa. «No, meglio aspettare.» «Non ci sono cani.» «Cosa?» «Ho detto che non ci sono cani. Di solito in posti come questo tengono qualche cane malconcio, libero o alla catena. Questo silenzio è inquietante.» «Già», sospirò lui. «Vabbe', ci vado io a buttare un occhio sul retro. Tu resta qui davanti. I poliziotti locali dovrebbero essere qui a momenti.» Anna gli rivolse un cenno d'intesa e non poté fare a meno di sorridere quando lo vide arrotolarsi l'orlo dei pantaloni prima di imboccare il vialetto fangoso. Non appena lui ebbe girato l'angolo, Anna udì una specie di miagolio. All'inizio pensò che si trattasse di un gatto, ma presto si rese conto che il suono proveniva da un bambino. In quello stesso istante, due volanti della polizia si infilarono nel vialetto d'accesso della casa. Anna andò loro incontro e fece cenno a una pattuglia di raggiungere Brandon dietro la casa e all'altra di seguire lei alla porta d'ingresso. «Non rispondono, ma dentro c'è qualcuno. Mi sa che dovrete bussare con forza e qualificarvi. Se neanche così apriranno, sfonderemo la porta.» Brandon era contento di avere un agente accanto, mentre l'altro, affondando fino alle caviglie nel fango, si dirigeva verso le baracche. Quando fu più vicino, il fetore dei porci gli diede la nausea. Udì alcuni forti colpi sulla porta d'ingresso proprio mentre lui era in prossimità di quella posteriore. «Polizia! Aprite la porta!» Anche Brandon provò ad aprire la porta sul retro, ma era chiusa a chiave. Arretrò di un passo e diede un paio di spallate, ma solo quando anche l'agente si mise a spingere l'uscio cedette. Contemporaneamente, Anna e i due poliziotti che erano con lei sfondarono la porta principale e si ritrovarono nell'anticamera. «Polizia! Venite fuori e fatevi riconoscere!» Una bambina in pigiama, terrorizzata, uscì trotterellando dalla camera da letto in fondo. Anna si chinò e spalancò le braccia. «Va tutto bene, piccolina. Vieni qui...»
La bimba sembrava ormai inchiodata al pavimento, e fu Anna perciò ad avvicinarsi lentamente. Si voltò verso i poliziotti e disse loro, a bassa voce, di controllare nella stanza sul davanti, dove le era parso di vedere una tenda che si muoveva. Anna si chinò all'altezza della bambina. «Dov'è la mamma?» La piccola scoppiò a piangere. «Come ti chiami? Non voglio farti del male. Vieni qui, dimmi come ti chiami.» La bambina si mise a strillare proprio mentre i due agenti uscivano dalla stanza perlustrata. «Lì non c'è nessuno.» Intanto, Brandon stava dando un'occhiata in cucina, ingombra di piatti sporchi e di pentole come se qualcuno avesse preparato un pasto per poi lasciarlo lì sulla tavola. Brandon tornò in corridoio. «In cucina non c'è nessuno, ma qualcuno dev'essersene andato in tutta fretta.» Anna, nel frattempo, era riuscita a calmare la bambina e la teneva in braccio. «Non so neanche se sa parlare, ma è bagnata fradicia.» Brandon annuì e aprì la porta di una camera da letto: lenzuola sporche e tre letti sfatti, più un lettino da bambini. Giocattoli dappertutto. «Vuota: proviamo quest'altra.» Era l'unica stanza in cui non avessero ancora guardato. Brandon spinse lentamente la porta e si ritrasse per un attimo, prima di spalancarla di nuovo. Era la camera più grande: letto matrimoniale sfatto e roba in disordine. Anche lì, però, nessuno. «Dov'è la tua mamma?» domandò di nuovo Anna alla bambina che ora taceva; aveva addosso un forte odore di urina e, forse, anche di altro. «La tua mamma è uscita?» In quel momento l'agente che era andato a controllare le baracche comparve sulla porta. «Io non ho visto nessuno, ma ci vorrebbero più persone per fare una ricerca accurata. Questo posto è proprio scalcinato: ci sono quattro galline in un recinto, qualche maiale e una capra. Nient'altro.» Brandon si strinse nelle spalle. «Che cosa ne pensi?» Anna portò la piccola nella sua stanza e la fece sedere su una poltroncina da bambini. «Lo sai dov'è andata la mamma?» riprovò a domandare. Nessuna risposta. Anna sospirò. La bambina era completamente muta e
la fissava con gli occhi spalancati per il terrore. Brandon era sulla porta d'ingresso. Anna lo guardò. «Ascolta, io la cambierei, e le metterei dei vestiti asciutti. È fradicia e puzza.» «Io non lo farei, ma se ci tieni...» «Adesso ti prendo dei bei vestitini asciutti, eh?» La bambina si ritrasse. Fu a quel punto che sentirono arrivare una macchina - una vecchia Shogun - che faceva un rumore come se avesse perduto la marmitta. Brandon guardò fuori dalla finestra e vide scendere dalla jeep una donna che si mise a correre verso il bungalow urlando. «Che cosa succede? Che cosa è successo?» Era alta e magrissima, in jeans e stivali di gomma, con una giacca da uomo legata in vita e una maglietta piena di macchie. Brandon la fermò sulla porta. «Lei è Gail Sickert? Io sono l'ispettore Brandon.» «Mi volete dire che cazzo è successo?» Cercò di aggirare il poliziotto, e prese a gridare: «Tina! Tina!». «Si calmi, la prego. Questa bambina è sua figlia?» «Che cos'è successo? Fatemi entrare... Si tolga di mezzo!» Brandon le bloccò il passaggio. «Sua figlia sta bene. Si calmi. Vogliamo soltanto parlare.» Anna portò fuori la bambina. Brandon lasciò che Gail le andasse incontro. Prese tra le braccia la figlia e l'abbracciò forte. «Maledetti sbirri, mi avete sfondato la porta. Che cazzo significa?» Brandon disse agli agenti della polizia locale di andare ad aspettarli in auto. Gail, intanto, aveva cambiato Tina ed era andata a prendere l'altra figlia, Sharon, che era rimasta sulla Shogun. Sharon aveva sette anni e un'aria da trovatella smunta, i capelli biondi e lisci e gli occhi cerchiati di rosso. «Sono solo andata a prendere la bambina grande a scuola e a portare il mio Keith a casa di un amico a giocare. Cristo, sarò stata via meno di venti minuti! Non avrete intenzione di fare rapporto ai servizi sociali, spero.» Anna chiese a Brandon di lasciar fare a lei, dato che Gail era in uno stato pietoso: cullava tra le braccia la piccolina, che non aveva più aperto bocca, e teneva Sharon accanto a sé. «Gail, ci dispiace di averti spaventata.»
«Siete entrati in casa mia come dei ladri... non ne avete il diritto. Guardate! Tina è terrorizzata. Non potete fare irruzione in casa mia.» «Gail, abbiamo tutto il diritto di farlo, invece. Stiamo cercando tuo fratello.» «Mio fratello non è qui! Non gli farei mettere piede in questa cazzo di casa: è pazzo! Presenterò un reclamo ufficiale per questa violazione.» «Tuo fratello è ricercato per un omicidio.» «Io non ho niente a che fare con lui. Ha avuto più arresti lui di quanti pasti caldi ho consumato io in tutta la mia vita. È malato, malato nel cervello. Non lo vedo da anni, e se dovesse passare di qui il mio compagno gli sparerebbe.» Gail cominciò a piangere, e la piccola Tina, turbata, la imitò. Il che fece singhiozzare anche Sharon, che si aggrappò ancora più forte alla madre. Anna mise sul fuoco un bollitore. Era unto al tatto. Il lavandino era strapieno di piatti luridi. Quella cucina era disgustosa. «Dov'è tuo marito?» domandò Anna. Gail tirò su con il naso e si asciugò la faccia con il dorso di una mano. «Se n'è andato appena ci siamo trasferiti qui: lo stronzo ha preso e se n'è andato.» «Alludi al signor Summers?» «Sì. Ora ho cambiato nome perché abito con un altro uomo.» «E dov'è adesso?» «Doveva andare a comprare del mangime per i maiali: è uscito stamattina presto. Non avevo mai lasciato mia figlia da sola prima d'ora, ma ho dovuto, per andare a prendere l'altra.» Anna svuotò una teiera piena di bustine di tè usate nel bidone della spazzatura traboccante. Brandon e gli altri agenti passarono al setaccio la proprietà, ma di Murphy non trovarono traccia. Le volanti se ne andarono, e Brandon si affacciò alla porta di servizio, ma un'occhiata minacciosa di Anna lo convinse a restare fuori. Lei, nel frattempo, aveva preparato una tazza di tè per Gail e scaldato un biberon di latte per Tina. «È sorda», disse Gail, cullandola. Sharon sgranocchiava biscotti, sbattendo i piedi contro le gambe dell'alto sgabello su cui era seduta. Anna, di fronte a Gail, beveva da un'orribile tazza sbeccata. «Dobbiamo trovare tuo fratello», disse con voce dolce. «Be', io non so dove sia e non voglio saperlo. Se lo sapessi, lo direi, mi
creda. Secondo me, doveva restare in galera a vita - davvero! - per quello che aveva fatto alle sue povere vittime. E ora mi dite che l'ha fatto di nuovo.» Gail fece un sospiro profondo. «Mi molestava quando abitavo con mia madre... credo che avrebbe stuprato sua nonna, se solo avesse potuto. Bastava un bicchiere di troppo e diventava un mostro. Io lo odiavo, mia madre non sapeva come trattarlo... E adesso che ha ucciso un'altra poveraccia venite a cercarlo da me? Che cavolo vi è saltato in mente? Io lo ammazzerei volentieri con le mie mani!» Con voce calma e piana, Anna promise che avrebbe provveduto immediatamente a far riparare le porte. «Vi conviene. Il mio uomo andrà in bestia quando tornerà a casa. Sarà meglio che non vi facciate trovare.» «Non sapresti indicarci un posto dove tuo fratello potrebbe essersi nascosto o una persona che potrebbe avergli dato ospitalità e protezione?» «Che cosa vuole che ne sappia. Non lo vedo da Dio solo sa quando...» «Non ti viene in mente nessuno?» «No, ve l'ho detto. L'ultima volta che ho avuto contatti è stato...» Corrugò la fronte, posò la tazza del tè e raggiunse una credenza in pessimo stato. Aprì diversi cassetti e alla fine trovò quel che cercava: una piccola fotografia. «L'ultima volta che fu rilasciato, Arthur venne a trovarmi, insieme a un altro bruttissimo ceffo, e puzzava di alcol da far schifo. Volevano soldi, ma mio marito li cacciò. Avvertì Arthur che, se si fosse fatto rivedere, gliele avrebbe suonate di santa ragione. Con le donne si sfoga e fa il macho, ma per il resto è un vigliacco... Mio figlio Keith, quel giorno, aveva una macchina fotografica usa-e-getta... Insomma, c'era quest'altro tizio di cui non ricordo neppure il nome. So che si erano conosciuti in prigione. Facevano i gradassi, e io dovetti dire a Sharon di andarsene in camera sua.» Porse la foto ad Anna. «Ricordo che quest'altro si faceva bello perché era riuscito a sfuggire alla sorveglianza della polizia grazie a un cavillo legale... qualcosa che aveva a che fare con un registro... Avevano bevuto come spugne. A quel punto mio marito non volle più saperne e li cacciò di casa.» Anna osservò la foto. «E tutto questo a quando risale?» «Due anni... no, di più... Però, non so... Non avevo ancora Tina, per cui...» «Quindi, non è venuto qui al bungalow...» «No, abitavo da un'altra parte.» «È mai stato qui, tuo fratello?»
Gail si voltò da una parte e si soffiò il naso in una manica della maglietta. «No, grazie a Dio.» «E l'uomo che era con tuo fratello, non ricordi come si chiama?» «No, ma aveva l'accento di Newcastle.» Anna trascorse ancora qualche minuto con Gail, prima di essere sicura che la donna non sapeva altro. Brandon, in macchina, la aspettava con impazienza. La guardò male quando lei gli si sedette accanto. «Spero che tu abbia almeno ricavato qualcosa... Sì, te lo dico io cos'hai ricavato: un pugno di mosche. Che posto di merda! Dovremmo segnalare ai servizi sociali che quella donna lascia la figlia piccola da sola in casa.» Anna tacque, e Brandon mise in moto e ripartì. Non appena furono in strada, un camion dal cassone scoperto, carico di mangime per maiali, imboccò il vialetto del bungalow. Al commissariato, servendosi di computer e software vari, identificarono l'uomo fotografato dal figlio di Gail Sickert. Si chiamava Vernon Kramer. Nel 1976 era stato condannato per vari reati e aveva scontato dodici mesi in carcere. Nel 1980 gli erano stati comminati sei mesi per aggressione e furto. Nel 1984, accusato di tre stupri, era stato prosciolto. Condannato a sei anni nel 1986 per aver violentato e commesso altri atti di libidine contro una quattordicenne, era stato rilasciato nel 1990, dopo neanche quattro anni di prigione. Di lì a otto mesi, Kramer aveva subito una condanna a cinque anni per aver sequestrato una tredicenne sotto la minaccia di un coltello. In quest'ultimo periodo di detenzione aveva conosciuto Murphy, che stava scontando una pena nello stesso carcere. Anna sospirò e si voltò verso Brandon. «Poi è stato rilasciato di nuovo. Forse è ad allora che risale l'ultima visita a casa di Gail: Kramer, evidentemente, si rallegrava di essere uscito di galera abbastanza alla svelta da non risultare iscritto sul registro dei pregiudicati per reati sessuali.» «Sì, come migliaia di altri, che hanno commesso i loro reati prima della creazione del registro. Si temeva - figurati - che la loro iscrizione in questo registro potesse costituire una violazione dei loro stramaledetti diritti umani! Roba da vomitare.» Anna assentì e, dopo aver girato pagina, guardò Brandon. «Ultimo indirizzo conosciuto... Indovina? A Brixton, non lontano dalla casa della vittima.» Brandon si avvicinò e si chinò alle spalle di Anna. Fortunatamente, ave-
va rinnovato l'acqua di colonia. «Andiamo a dare un'occhiata», disse. «Se Murphy è da lui, dobbiamo sbrigarci.» Non volendo mettere in allarme Kramer, utilizzarono il vecchio trucco del «registro elettorale». Anna aveva acconsentito a fungere da esca: avrebbe bussato alla porta dell'ostello e domandato a chi si fosse presentato ad aprire i nomi esatti delle persone lì residenti, per aggiornare il registro. L'ostello era in una zona piuttosto scalcinata di Brixton e aveva otto posti letto. Ad aprire si presentò un nero molto muscoloso e completamente nudo, a eccezione di un paio di boxer. Aveva una faccia incredibilmente sconvolta, con un enorme sorriso, un dente mancante sul davanti e due denti d'oro. La guardò da capo a piedi e le sbatté la porta in faccia, non prima di averla mandata testualmente a fare in culo. Anna era rimasta senza fiato: quel tizio era il doppio di lei e puzzava di sudore da far paura. Doveva fare rapporto. Dato che la casa era già sorvegliata, decisero che lei sarebbe tornata alla base, mentre altri avrebbero aspettato. Per fortuna, prima che lei se ne andasse, la porta dell'ostello si riaprì: Kramer stava uscendo. Anna restò sul posto, a bordo dell'auto civetta. Lo seguirono fino a un negozio di liquori, dove acquistò dodici lattine di birra e una bottiglia di vodka. Kramer passò poi in una friggitoria da asporto dove si fece dare due porzioni di fish and chips. Senza accorgersi dei pedinatori, tornò ignaro verso la sua abitazione. Si fermò, a un certo punto, per accendersi una sigaretta con il mozzicone di quella appena fumata, che poi gettò a terra. Raggiunse la porta d'ingresso e si frugò le tasche in cerca delle chiavi. Proprio mentre si accingeva a entrare in casa, fu attorniato da Brandon e da altri due agenti. Non oppose resistenza. Confessò che Murphy era con lui e disse di aver avuto troppa paura per poterlo scacciare. Fu perquisito, ammanettato e sistemato sul sedile posteriore dell'auto su cui Anna era in attesa. Per tutto il tragitto fino al commissariato se ne restò con la testa appoggiata al finestrino e un'espressione cupa, senza dir nulla. Kramer occupava la stanza 4B. Brandon, insieme agli altri due agenti, entrò nell'edificio e andò a bussare a quella porta. Dopo un breve silenzio, la serratura scattò e l'uscio si aprì. «Gli hai detto di metterci l'aceto, sulla mia porzione?» domandò una voce. Brandon caricò di spalla. Per un istante Murphy meditò di provare a
fuggire, ma vi rinunciò subito. Ad Anna sarebbe piaciuto presenziare all'interrogatorio, ma non ci fu modo: era di competenza di Brandon e Sheldon. Dato che Murphy, al momento dell'arresto, era sotto l'effetto di stupefacenti, l'interrogatorio fu rimandato al mattino seguente. Nessuno fece parola del fatto che era stata Anna, interrogando con pazienza la sorella di Murphy, a recuperare la fotografia che li aveva infine condotti alla cattura. Rimase al commissariato fino alle nove, per stendere il suo rapporto, e poi tornò a casa. Era troppo stanca per andare a trovare Langton, sicché aveva telefonato alla Glebe House per avvertire che avrebbe lavorato fino a tardi. Parlò con l'infermiera di notte, la quale le disse che Langton aveva eseguito a dovere la fisioterapia prevista e che in quel momento stava guardando un film. Anna la pregò di non disturbarlo e di riferirgli che lei sarebbe passata a trovarlo la sera successiva. Si sentiva in colpa perché era sollevata all'idea di tornare a casa presto. L'indomani ci sarebbe stato l'interrogatorio, dopo di che Murphy sarebbe stato condotto dinanzi ai magistrati. Anna sapeva che non era previsto il rilascio su cauzione, in questi casi. Il processo si sarebbe celebrato in tempi brevi. Bisognava prepararsi, ma presto il caso sarebbe stato chiuso. Alle otto e un quarto del mattino successivo Anna era di nuovo al lavoro; Murphy, dalla sua cella, sarebbe stato portato su per l'interrogatorio alle nove. Alle nove e un quarto lei era seduta da sola nella stanzetta con vetrata da cui poteva osservare, non vista, la sala degli interrogatori. Murphy non era ancora arrivato, perché bisognava aspettare che finisse il colloquio con il suo avvocato. Solo dopo le dieci tutto fu pronto, e Anna poté vedere per la prima volta l'assassino. Murphy indossava una tuta bianca del carcere ed era decisamente accigliato. Aveva i capelli corti, enormi orecchie a sventola e il naso grosso. La bocca sottile piegava all'ingiù da entrambe le parti, conferendogli una vaga espressione da clown. Aveva gli occhi scuri e persi nel vuoto, pressoché inespressivi. Se ne stava con le mani posate davanti a sé, grandi mani nodose dalle unghie sporche. Anna fu disgustata dal suo aspetto, dalla sua impudenza, dall'assenza di qualsiasi rimorso quando gli furono mostrate le foto della sua vittima. Si sporse in avanti e subito tornò ad appoggiarsi all'indietro. «Sì, è lei.» Fu raccapricciante sentire il racconto di come avesse visto più volte Ire-
ne Phelps che se ne tornava a casa da sola. Spiegò senza particolari emozioni in che modo, nel giorno dell'omicidio, l'avesse seguita fin sulla porta di casa, per poi semplicemente spingerla dentro. A un certo punto, mentre Brandon parlava degli esiti degli esami del DNA effettuati sul cadavere, lui scrollò le spalle. «Voialtri credete che lo stupro abbia a che fare con il sesso, e in effetti una sua parte il sesso ce l'ha, ma volete sapere qual è il fine vero? Il potere.» La sottile bocca clownesca di Murphy si atteggiò a un sorriso nauseante. «Io ho esercitato il mio potere su di lei. Il sesso è solo una manifestazione di questo potere. Dopo mi è anche venuta fame e mi sono fatto un panino: pomodoro, lattuga, prosciutto... Buonissimo.» Anna serrò i pugni: era pazzesco! Quell'uomo non solo aveva massacrato una donna, ma riusciva anche a raccontare tranquillamente del panino che si era preparato con le mani ancora sporche di sangue. «Non ci posso fare niente.» Spalancò le braccia e riprese: «Ho questo impulso dentro di me, ed è irresistibile, non so se mi spiego. Il mio problema è sempre stato quello di sfogare questa mia rabbia. Come avete detto che si chiamava?». Brandon aveva una faccia tiratissima. «Irene Phelps.» «Giusto, Irene. Be', si è trovata nel posto sbagliato al momento sbagliato. La figlia ha avuto fortuna, perché avevo fatto un pensierino anche su di lei.» Anna uscì dalla stanza in cui si trovava. Non avrebbe tollerato un secondo di più l'indecente sceneggiata di quell'uomo schifoso, che aveva assassinato una brava e giovane donna e traumatizzato forse irreparabilmente sua figlia. Le valutazioni psichiatriche effettuate su di lui ai tempi della sua detenzione lo qualificavano come estremamente pericoloso. Il fatto che fosse stato rilasciato testimoniava la totale inefficienza dei sistemi previsti per questi casi, la terrificante fragilità degli apparati giudiziario e penitenziario. Quando si fu seduta al suo posto, Anna fu raggiunta da Harry Blunt che aveva due tazze di caffè tra le mani. Una era per lei. «Grazie», disse Anna, sorpresa. «Complimenti... Quella foto è stata davvero provvidenziale. Quell'animale poteva andarsene in giro per settimane, o anche mesi, e magari cominciare a uccidere insieme a quell'altro schifoso da cui era andato a stare.» Anna bevve il caffè. Harry non sembrava intenzionato a schiodarsi. «Ho
una figlia che ha la stessa età di quella di Irene Phelps», le disse. «Il padre è poi arrivato?» domandò Anna. «Sì, la bambina andrà ad abitare con lui. Non sarà facile: il padre ha avuto altri due figli da un'altra donna, e in quella fase della vita è dura cambiare scuola e ambiente... Poveretta...» Bevve un sorso di caffè e aggiunse: «Non ci sono proprio scusanti, per com'è andata con questo bastardo. Ma la cosa davvero vomitevole è che nessuno pagherà, per questo. Le persone che dovevano tenerlo d'occhio andrebbero cacciate. Quelli che lo hanno inserito tra i detenuti a basso rischio dovrebbero essere licenziati in tronco. Anzi, meglio: bisognerebbe fargli vedere il corpo martoriato della vittima, e domandare loro se credono ancora che sia poco pericoloso. Lo sai quanti omicidi sono stati commessi l'anno scorso da criminali "poco pericolosi" in libertà vigilata?» «No, così su due piedi...» Harry si sporse in avanti. «Poco meno di cinquanta. Non capisco come possano continuare a chiederci di fare il nostro lavoro... Non facciamo in tempo a processarli e a metterli sotto chiave che qualcuno li lascia di nuovo liberi! Cristo, è scoraggiante. Ti giuro che se quel bastardo avesse ucciso mia figlia, andrei io personalmente a strozzarlo. Perché no? Mi becco dodici anni... ma con la buona condotta ne sconterò sette, forse anche meno. Non sto scherzando. Il ministro degli Interni ha detto che c'è stata una crisi... ma quale cazzo di crisi? Questa è molto peggio di una semplice crisi. Ho un amico che lavora nella Penitenziaria e dice che loro hanno avvertito il sindacato: certi bracci sono sovraffollati, i detenuti si rivoltano e catturano ostaggi tutte le settimane... Eppure il ministero degli Interni spende quasi quattrocento sterline per ciascun prigioniero, se fai il calcolo; una bolletta, per il contribuente, da dieci milioni in totale. E credi che ci costruiscano altre prigioni? Col cavolo. Ed ecco perché certi stronzi come Murphy riescono a uscire prima del tempo. E adesso sai che affidano ai detenuti le chiavi delle loro celle, per aiutarli a migliorare la loro autostima? Cristo, non so proprio dove si andrà a finire!» Scolò il caffè e guardò Anna con un sorriso mesto. «Scusami, avevo bisogno di sfogarmi.» «Parli mai del lavoro con tua moglie?» «No, cerco di staccare la spina, quando esco di qui, ma questa volta, vista l'età di mia figlia... Continuo a guardarla e a guardare mia moglie e a pensare a quel che avrei fatto se fosse capitato a noi... L'idea che a casa mia possa entrare uno come quel Murphy, lasciato libero con troppa legge-
rezza... Pensa al povero Jimmy...» «Chi?» «Langton, che a momenti viene ammazzato da un immigrato clandestino del cazzo... e da quel che ho saputo, sarebbe quasi stato meglio se ci fosse riuscito, ad ammazzarlo.» «Che cosa intendi?» «Be', ho sentito dire che non camminerà mai più...» Anna avvampò. «Certo che camminerà. Non so chi ti abbia detto questa sciocchezza.... James sta recuperando alla svelta.» «Ho parlato con un amico che era nella stessa clinica. L'hanno dimesso qualche giorno fa... Forse, però, ho capito male...» «Infatti, hai capito male, Harry.» «Be', scusami di nuovo. So che tu e lui... come si dice? Vivete insieme?» Anna si alzò in piedi e si mise a radunare le sue carte. «Spero che spiegherai al tuo amico che si è sbagliato. James conta di tornare al lavoro al più presto.» «Be', sono contento per lui.» Harry se ne andò, lasciandola in preda alla tensione e alla rabbia. Se non altro, però, aveva smesso di pensare ad Arthur George Murphy. Non gli avrebbe permesso di invaderle la vita. Già ci aveva pensato Langton. Provava un forte istinto protettivo nei confronti di Jimmy, ed era profondamente turbata da quelle voci che circolavano sulle sue condizioni di salute. 3. Non appena Anna ebbe finito di lavorare, telefonò al centro di riabilitazione per far sapere a Langton che sarebbe passata a trovarlo. «Ehi, come va?» Langton aveva un tono diverso dal solito. «Be', abbiamo preso l'assassino. Ha confessato. Non aveva scelta: eravamo in possesso di troppe prove.» Tacque, in attesa di una risposta. «Pronto? Ci sei ancora?» «Sì, solo che sono davvero distrutto: ho lavorato sodo oggi in palestra. Mi sa che stasera vado a letto presto. Che ne diresti di venire domani?» «Decidi tu.» «Okay, allora a domani. Sono felice per la soluzione di quel tuo caso. Buonanotte.» Detto questo, Langton riagganciò. Anna rimase con la cornetta in mano,
mortificata. Non sembrava neanche lui... Peggio del solito. Attese un po' e richiamò la Glebe House, per parlare con l'infermiera di notte, questa volta. Al termine della conversazione, stava persino peggio di prima. Langton non era stato in palestra a fare fisioterapia: tutt'altro. Il giorno precedente aveva esagerato con l'esercizio e ora aveva un'infezione al ginocchio: non riusciva a camminare e sentiva dolori tremendi. La parte era gonfia come un pallone, e i medici erano preoccupati: avendo già sofferto di setticemia, c'era il rischio che Langton avesse una recidiva. Gli avevano dato la morfina per alleviare il dolore e, in quel momento, lo stavano portando nella sua stanza a dormire. Ad Anna veniva da piangere. Aveva ragione l'amico di Harry Blunt, dunque? Langton non sarebbe più riuscito a camminare? Ripensò a tutto quel che le aveva detto l'infermiera e concluse che, se Langton avesse riposato ed evitato sforzi eccessivi, l'infezione sarebbe guarita e lui avrebbe potuto riprendere la riabilitazione, con giudizio. Si cucinò un'omelette, ma la lasciò quasi tutta nel piatto. Proprio mentre stava per andare a casa di Langton per raccogliere la posta, sentì suonare il campanello. Era Mike Lewis: si scusò per quella visita senza preavviso, ma era stato a trovare Langton. Anna gli offrì un bicchiere di vino. Lewis si sedette sul divano, con un'espressione tetra in viso. «Non è in buone condizioni, Anna.» Lei disse che aveva parlato con l'infermiera di notte e già sapeva dell'infezione al ginocchio. «Sì, ma quella è solo una parte del problema.» «In che senso?» «Be', c'è tutto il resto, no?» «Quale resto? Non capisco.» «La testa... Ha la mente confusa ed è così pieno di rabbia...» «Non lo saresti anche tu?» ribatté Anna, con un riflesso protettivo. «Sì, sì, certo... ma io non posso aiutarlo. Non posso fare quel che mi chiede.» «E cioè che cosa?» «Rintracciare quel maledetto clandestino che l'ha rovinato.» «Ti ha chiesto esplicitamente di farlo?» «Cristo, mi telefona tutti i giorni, insiste, mi domanda se ho scoperto qualcosa, ma lo sai anche tu che c'è una squadra apposita per queste operazioni. Io mi sto già occupando di un altro caso e non ho il tempo di fare
quel che mi chiede.» «Che cosa hai scoperto, finora?» «Proprio questo è il punto: niente! Non c'è traccia di quell'uomo. Mi sa che ha già lasciato il paese, ma se glielo dicessi si infurierebbe ancora di più. Non potrebbe sopportare l'idea che quel bastardo se la sia filata così, ma noi di indizi non ne abbiamo.» «Hai qui del materiale?» Lewis sospirò e aprì la valigetta. «Ho fotocopiato il dossier originale, anche se sarebbe vietato. Il resto è quel che sono riuscito a recuperare io.» «Puoi lasciarmi tutto?» Lewis annuì. «Sì, ma non troverai nessuno disposto ad aiutarti. Io sono andato a sbattere contro un muro. Non so più che cosa tentare.» Anna gli preparò un panino e cambiò discorso, domandandogli di suo figlio e di Barolli. «Be', sentiamo molto la mancanza del nostro capo. Come lui non ce n'è, e mi sa che tu ne hai avuto l'esempio. So che hai lavorato con quel cretino di Sheldon.» Anna sorrise. «Anna, farei qualunque cosa per lui. E anche Barolli. Ma non c'è niente da fare.» Lewis esitò. «Adesso l'importante è che lui si preoccupi di guarire. Stando così le cose, non tornerà più a lavorare: dovrà passare l'esame di una commissione che non gli darà mai il permesso. Credo che lo congederanno.» Quando Lewis se ne fu andato erano ormai passate le undici, e Anna non se la sentiva di leggere i documenti che le aveva lasciato. Aveva troppe cose a cui pensare: alle condizioni fisiche di Langton, prima di tutto. Mise la sveglia alle cinque, per avere il tempo di leggere il dossier con calma. Non sapeva nulla del suo contenuto, ma se avesse scoperto di poter fare qualcosa, l'avrebbe fatto immediatamente. Il dossier conteneva copia di tutti i documenti relativi all'inchiesta sul ferimento di Langton: dichiarazioni dei testimoni, verbali d'arresto del sospetto e molte fotografie. Oltre a questo, c'erano alcuni appunti di Lewis e, in un taccuino nero, gli appunti personali di Langton sul caso. Langton diceva spesso: «È tutto scritto», poggiando una mano sulla tasca in cui teneva il taccuino. Era motivo di battute di spirito, quel suo quadernetto. Ripeteva quella frase ogni volta che qualcuno faceva un errore... magari anche solo dimenticandosi di portargli il primo caffè del mattino. Quando Anna
gli aveva domandato di quel taccuino, lui aveva sorriso e si era giustificato tirando in ballo la sua ben nota smemoratezza; aveva cominciato quand'era una matricola ad annotare certe cose per non dimenticarsele... a volte anche solo il ritiro del bucato in lavanderia. Con il passare degli anni era diventata un'abitudine e poi un punto fermo; infine, aveva notato che i suoi sottoposti si innervosivano molto quando lo vedevano scribacchiare. «Mi piace che i miei collaboratori stiano sul chi vive», aveva detto, ridendo. Lei aveva ribattuto che non lo aveva mai visto prendere appunti. «Be', perché quello che potrei scrivere su di te non ha niente a che fare con il lavoro di polizia.» «Vuoi dire che hai bisogno di un promemoria per ricordare se ti piaccio o meno?» E Jimmy aveva riso di nuovo, liquidando la questione con un cenno. «La data del tuo compleanno, magari... Oh, lascia perdere! È più che altro uno scherzo; e poi sei tu quella che è sempre lì alle prese con il registro ufficiale delle indagini... Non c'è nessuno che ti stia alla pari, in questo.» Era vero. Era stato suo padre a consigliarle di mettere tutto per iscritto, perché la memoria gioca brutti scherzi. Se si ha bisogno di ricordare un dettaglio da utilizzare in tribunale, un quaderno degli appunti può rivelarsi una vera e propria rete di sicurezza. Il quadernetto di Langton era tenuto chiuso da un elastico rosso. Era leggermente ricurvo, come se avesse preso la forma del petto. Anna rimosse l'elastico e se lo avvolse sul palmo di una mano, prima di aprire il taccuino. I fogli erano interamente coperti dalla fitta grafia di Jimmy fino a tre quarti del quaderno, poi più nulla. Le pagine sottili erano irrigidite, e due di esse Anna dovette separarle soffiando: evidentemente, nessuno le leggeva da diverso tempo. Forse Lewis non lo aveva sfogliato: se davvero quel taccuino era uno scherzo, non ne valeva la pena. La scrittura era meticolosa e pulita, ma non facilissima da leggere. Anna avvicinò gli occhi alla prima pagina. Alle nove era arrivata la telefonata che aveva avvertito dell'orribile omicidio di una adolescente, Carly Ann North. Il corpo era stato scoperto su un terreno incolto dietro la stazione di King's Cross. Benché avesse solo sedici anni, la vittima era già stata condannata per adescamento e rinchiusa in un carcere minorile. Proveniva da un ambiente sociale devastato, con entrambi i genitori eroinomani. L'assassino aveva fatto scempio di lei a colpi di lama e tentato di decapitarla. Aveva persino provato a mozzarle le
mani, per impedire il riconoscimento attraverso le impronte digitali. Un agente di polizia aveva interrotto l'opera, insospettito da quei tre uomini che si aggiravano per il campo incolto. Era riuscito a catturare l'assassino, ma gli altri due, che evidentemente fungevano da palo, erano fuggiti, lasciando il loro socio a vedersela con il poliziotto. L'assassino era un immigrato illegale. Il giudice, al processo, aveva ordinato che il colpevole, una volta scontata la pena, fosse espulso dal paese. Il nome era sottolineato: Idris Krasinique, venticinque anni. Anna posò il taccuino e tornò al dossier. Krasinique si era reso responsabile di una sequela di reati che andavano dal possesso di cannabis all'aggressione semplice: era già stato affidato a una comunità all'età di diciotto anni. L'ultima sua trasgressione era stata una rapina, a seguito della quale il giudice aveva decretato la sua espulsione; eppure, sei mesi dopo era ancora in circolazione e aveva ucciso Carly Ann North. Anna sospirò. Era incredibile, soprattutto se si considerava la coincidenza con il caso di Arthur Murphy. Perché quell'uomo non era stato espulso dopo l'ordine del giudice? Con la stessa scrittura meticolosa, Langton aveva buttato giù alcune impressioni personali: una riguardava Barolli, che era descritto come «sovrappeso»; un'altra trattava di Lewis, che stava perdendo dei colpi e spesso arrivava al lavoro stanco e in ritardo, dato che aveva un figlio piccolo, e sua moglie ne stava aspettando un altro. Anna si domandò quanti appunti di quel genere avesse preso su di lei, ma non aveva il tempo di continuare a studiare quelle carte. Era lei, ora, che doveva cercare di non arrivare al lavoro in ritardo. La giornata trascorse lenta. Murphy fu portato al cospetto del magistrato. La possibilità del rilascio su cauzione, come previsto, fu esclusa, e Murphy fu condotto alla prigione di Wandsworth in attesa di giudizio. Anna tornò a casa a cambiarsi per andare alla Glebe House, non senza passare da casa di Langton. Sullo zerbino si era ammucchiata molta posta, perlopiù inutile. La raccolse e la portò all'interno, sul tavolo del soggiorno, dove si dedicò a smistarla. Sullo stesso tavolo c'era già altra posta. L'appartamento era discretamente in ordine. Anna si domandò se non fosse passata di lì l'ex moglie di Jimmy che, come Anna sapeva, spesso utilizzava quella casa insieme a Kitty. In tal caso, aveva tralasciato di svuotare la cesta del bucato in bagno. Anna infilò la roba sporca in un sacchetto della spazzatura per portarsela a
casa e poi andò in camera da letto. Il letto era fatto, e la stanza appariva abbastanza in ordine. L'unica fotografia sul comodino era quella di Kitty che, in groppa a un pony, sorrideva verso l'obiettivo. Anna cercò sulla mensola in anticamera eventuali bollette non pagate, ma trovò solo qualche banconota e degli spiccioli. Aprì un cassetto per prendere alcuni pigiami puliti e, così facendo, trovò un album di fotografie. Anna si sentiva in colpa, ma non poté resistere alla tentazione. Era l'album del matrimonio con la sua prima moglie: una donna bellissima, come Anna già sapeva. Sembravano davvero innamorati. Sull'ultima pagina c'era un piccolo ricordo del funerale di lei. Rimise a posto l'album e chiuse il cassetto. Voltandosi, notò l'angolo di un ritaglio di giornale che spuntava da un altro cassetto. Lo aprì e lo trovò pieno di articoli ritagliati e tenuti insieme da una graffetta. Anna guardò l'orologio e si rese conto di doversi sbrigare, altrimenti sarebbe arrivata da Langton più tardi del solito. Radunò i ritagli di giornale e li infilò tutti nella propria valigetta. Langton, sulla sedia a rotelle, le andò incontro nell'atrio con un sorriso smagliante. «Stavo per mettermi il cuore in pace.» «Scusami. Sono passata da casa tua a prenderti un paio di pigiami puliti.» «Hai trovato posta per me?» «Sì, te l'ho portata. Possiamo andare a sederci da qualche parte?» «Io sono già seduto», rispose lui, ridendo. Langton ruotò sulla sua carrozzella e si avviò verso una sala comune, di cui aprì la porta a battenti semplicemente urtandola con la sedia. Anna gli rivolse un mesto sorriso. Anche in carrozzella, si dimenticava sempre che lei lo seguiva da vicino e ogni volta finiva per sbatterle le porte in faccia. «Come vedi, c'è un fermento incontenibile», disse, indicando la sala deserta. «Meglio così. Potremo godere di un po' di privacy.» «Saranno tutti di sopra a guardare qualche cagata in TV, o al bar. Vuoi qualcosa da bere?» «No, grazie. Hai mangiato?» «Sì, una roba che aveva un vago gusto di pesce, ma poteva essere qualunque cosa. Avrei potuto usarla come racchetta da ping-pong.» Anna si sedette in una comoda poltroncina e posò le varie borse sul tavolino basso. Langton manovrò con la carrozzella per sistemarsi di fronte a
lei. Quando Anna gli consegnò la posta, lui diede un'occhiata e la liquidò come schifezza. «Figurati che io avevo già fatto una bella scrematura», disse Anna. «E oltre a quella che ho trovato sullo zerbino, ce n'era dell'altra, di postaspazzatura, sul tavolo... Forse, è passata di lì la tua ex moglie... Ci sono alcune bollette che andrebbero pagate.» «Sì, sì, lasciale qui... Ci penso io.» «Hai con te il libretto degli assegni?» «Sì, e ho anche la carta di credito. Non c'è problema.» Anna tirò fuori la biancheria pulita che aveva portato. Lui continuava a girarsi e rigirarsi sulla sedia a rotelle. «Ti trovo bene», disse lei. Non era vero. Non si era rasato e odorava di alcol. «Sei stato al bar, eh!?» «Be', non c'è nient'altro da fare, ma non domandarmi di che cosa si è parlato... Scemenze! Impossibile fare due chiacchiere sensate, qui.» «Non ci credo.» «No... no, dicevo per dire.» Langton si fece improvvisamente taciturno. Anna si protese verso di lui. «Come va la fisioterapia?» Langton chinò il capo. «Non riesco ancora a camminare, e mi fa un male bestiale, ma gli stronzi non vogliono darmi gli antidolorifici. Me li contano come se fossi un bambino.» «Avranno i loro motivi. Probabilmente non vogliono che diventi dipendente.» «E tu che cosa ne sai?» «È davvero un piacere venire a trovarti, quando sei così di buon umore.» «Odio questa carrozzella del cazzo.» «Mi sembri molto abile a manovrarla...» Lui si strinse nelle spalle. «Potrei restarci per il resto dei miei giorni.» «Non ci resterai.» «La odio... Non sopporto di non essere autosufficiente. Non riesco neanche ad andare a pisciare da solo.» «Ti avevano detto che ci sarebbe voluto del tempo.» «Oh, smettila di parlarmi come se fossi un minorato mentale, oltre che fisico.» «Hai subito un'operazione serissima e poi...» «Lo so anch'io cos'ho subito. A volte rimpiango di essere sopravvissuto.» «Be', io invece ne sono contenta.»
«Ah, sì?» Inclinò la testa da un lato. «Ti piace essere la fidanzata di uno storpio?» Anna inspirò a fondo. «Se devo dire la verità, in questo momento sei davvero molto sgradevole, ma...» Langton la interruppe. «Sai, ci ho pensato su e ho deciso che non tornerò a casa tua. Anzi, forse è meglio che ci diamo un taglio subito.» «Dare un taglio a cosa?» «Tu e io, Anna... di che diavolo credi che stia parlando? Non voglio più che tu venga qui a trovarmi. Dico davvero. Parliamoci chiaro: non ti aspettavi di trovarti in una situazione del genere, e neanch'io. Cerchiamo di essere adulti!» «E tu credi di esserlo?» «Che cosa?» «Credi di aver ragionato da adulto?» «Direi di sì.» «Perché allora non tieni conto dei miei sentimenti?» «È proprio quello che sto facendo!» «No, invece. Non mi hai dato la possibilità di spiegare ciò che penso, ciò che provo...» «Sono tutt'orecchi.» Era frustrante vederlo così carico di rabbia. «Forse il fatto che io ti amo andrebbe preso in considerazione...» «Mi ami?» «Sì, e lo sai benissimo.» Jimmy distolse lo sguardo. «Non mi dimostri il minimo affetto; non mi hai nemmeno sfiorato né dato un bacio!» sbottò lei, esasperata. «È difficile, se uno è su questa carrozzella.» «Oh, piantala, ti prego!» Lui chinò la testa, e le lacrime presero a scorrergli sulle guance. Anna non se l'aspettava. Si alzò in piedi e gli si avvicinò per abbracciarlo. «E lasciami in pace, Cristo!» Lei strinse le mani sui braccioli della sedia a rotelle. «Guardami, ti prego! Guardami!» Lui non lo fece, e Anna si sentì invadere da un'angoscia tremenda. Gli era abbastanza vicina da poterlo toccare, ma lui glielo impediva. «Va bene. Vaffanculo, allora.» Anna si raddrizzò, prese la borsetta e cominciò a raccogliere le proprie cose. «Se è questo che vuoi...»
«Sì. Vattene, Anna. Lasciami in pace... davvero.» Lei mise platealmente da parte le cose che aveva portato per lui e prese dalla borsetta le chiavi dell'auto. Jimmy rimase in silenzio. Anna non sapeva più che cosa aggiungere. «Addio. Non c'è bisogno che mi accompagni.» «Scusami.» Anna non lo aveva mai sentito parlare con voce così dolce e sofferta. Gettò le chiavi sul tavolo e andò a stringerlo tra le braccia. «Ti prego, non mandarmi via.» «Scusami. Sei l'unica persona che ho al mondo.» «E allora smettila con queste scemenze e non farmi mai più una scena del genere. Mi fai star male e mi confondi... perché io ti amo così tanto che...» «Anch'io ti amo, Anna.» Lo aveva detto. Con un filo di voce, ma lo aveva detto. Si baciarono. Non fu un abbraccio travolgente, ma il bacio fu tenero e sentito. Lui le carezzò il viso. «Per tutto il giorno non faccio altro che aspettare il tuo arrivo e, quando sei con me, mi comporto da stronzo.» Anna prese una sedia e si accomodò il più vicino possibile a lui, tenendogli la mano. Langton ricambiò la stretta con una forza da far male, ma a lei non importava. Arrivò il momento di salutarsi, ma tra loro pareva essersi creata una nuova, tacita comunione d'intenti. Dandole l'ultimo bacio, Jimmy le sussurrò che avrebbe contato i minuti fino al suo ritorno. Aveva di nuovo gli occhi gonfi di lacrime, e per Anna fu straziante e commovente al tempo stesso. Langton la salutò di nuovo, agitando una mano, quando la vide attraversare il parcheggio. Solo dopo che si fu seduta al volante, però, Anna fu finalmente in grado di sciogliersi in lacrime. Langton non era mai stato tanto vulnerabile, tanto dipendente dall'aiuto altrui, tanto spaventato per il futuro. Guidò fino a casa in preda a un tumulto di emozioni contrastanti. Non aveva idea di come sarebbe riuscita a gestire la situazione, con lui a casa. Se fosse rimasto invalido, non sarebbe più riuscito a lavorare, e Anna avrebbe dovuto dimostrare di nutrire per lui un amore profondo: non sarebbe stato facile contenere le pulsioni distruttive di Jimmy. Giunta a casa, sempre in balia dei suoi pensieri, Anna si preparò una cioccolata calda e si sedette sul letto. Le vennero in mente i suoi genitori.
Sua madre, Isabella Travis, era rimasta una bambina, per molti versi. Da giovane, quando frequentava la scuola d'arte, aveva subito una violenza sessuale. Il padre di Anna, Jack, si era occupato del caso di Isabella e, infine, l'aveva sposata. L'infanzia di Anna era trascorsa nella più beata ignoranza di questo trauma; l'avevano tenuta a tal punto al riparo da quella vicenda che Anna ne era venuta a conoscenza solo dopo la loro morte. Non poteva anche lei, secondo l'esempio del padre, farsi carico della sofferenza di Langton e amarlo in qualsiasi caso? Anna proseguì nel suo lavoro in vista dell'imminente processo a Murphy. Parallelamente, andava tutti i giorni a trovare Langton. Era estenuante fare quel viaggio di andata e ritorno di sera e tornare al lavoro il mattino dopo. A volte, la prognosi pareva migliorare, e Langton era di buon umore; altre volte era imbronciato e sofferente. La ferita al ginocchio impiegava più del previsto a guarire, ma quello che più la preoccupava era l'ultimo colloquio avuto con la caposala. Le condizioni fisiche di Langton erano migliorate del cinquanta per cento; lui, però, non riusciva a elaborare mentalmente il trauma. Era troppo pieno di rabbia, e Anna lo sapeva; la brutta sorpresa, per lei, fu quando la caposala disse che Langton soffriva di una grave depressione. Oltretutto esagerava con l'alcol ed era motivo di disagio per gli altri pazienti. Non fu una gran consolazione sapere che molti poliziotti reagiscono in modo pressoché identico. Sono così abituati ad avere il controllo della situazione che la sua perdita provoca in loro un grave decadimento psichico, a cui il personale medico non riesce a porre rimedio se non in prossimità della dimissione. Anna non voleva neppure domandarsi se Langton ce l'avrebbe fatta a tornare al lavoro. A ogni nuova visita, questa prospettiva pareva sempre meno probabile. Solo nel weekend, comunque, quando ebbe modo di consultare la raccolta di ritagli di giornale che aveva prelevato a casa di Jimmy, Anna cominciò davvero a preoccuparsi. Caccia a un pedofilo violento in libertà vigilata: si è tolto il braccialetto elettronico ed è fuggito dall'ostello in cui era tenuto a soggiornare. La fotografia del soggetto era cerchiata a matita. Perché a questo stupratore che ha massacrato la nostra meravigliosa figliola è stato consentito di girare liberamente per le strade senza controllo? L'articolo era stato sottolineato due volte.
Questo cittadino lettone è arrivato in Gran Bretagna dopo aver violentato due donne. Ora è accusato di aver ucciso una scolaretta. La faccia dell'assassino, in fotografia, era stata barrata con un tratto nero. Cent'anni di lavoro arretrato per quel che riguarda le richieste d'asilo. Questo articolo era stato sottolineato così tante volte che la carta era bucata. Passaporto inglese per duecentomila stranieri. I richiedenti asilo hanno la precedenza. Questo era sottolineato in rosso. Ventitré stranieri rilasciati dopo la condanna. Delinquenti. Pluripregiudicati nuovamente condannati per reati di droga, resistenza violenta a pubblico ufficiale, aggressione violenta e due omicidi. Le facce schierate a corredo dell'articolo erano anche in questo caso cerchiate a matita una per una, con qualche data trascritta a margine. Qualcuno pagherà per questo disastro? Mille condannati dispersi nel sistema. Interi paragrafi sottolineati. In progetto una megacomunità per accogliere i pregiudicati per reati sessuali. Su questo articolo era stata tracciata una grossa croce a matita. A caccia degli assassini rilasciati. In Gran Bretagna arrivano immigrati al ritmo di uno al minuto. L'articolo descriveva alcuni migranti che nascondevano il volto e si preparavano a ritentare la traversata della Manica. Un immigrato illegale lavorava al tribunale di Londra anche se era stato espulso già due volte. Controindicazione nella lotta ai pedofili: il sito web che identifica i pregiudicati potrebbe indurre questi ultimi a nascondersi per paura di ronde punitive, ammonisce il responsabile dei servizi di vigilanza sui detenuti in semilibertà. Grottesco: un rifugiato politico violenta un minore e viene condannato a otto anni di carcere. Scontata la pena, decide di rimanere in carcere per evitare l'espulsione. Per il piccolo incomodo, gli verseremo cinquantamila sterline. I diritti dei violentatori di bambini prevalgono su quelli delle vittime. Un ergastolo in sei anni: negli ultimi due anni, quasi cento omicidi commessi da criminali in regime di libertà vigilata. Cifre agghiaccianti che svelano il colossale fallimento di istituzioni incapaci di proteggere i cittadini... Un dossier identifica cinquanta pericolosi criminali che alloggiano nelle nostre comunità di recupero aperte.
Ci saranno stati altri trenta articoli, forse anche di più, tutti sull'inettitudine del ministero degli Interni nel campo delle espulsioni di immigrati illegali e sulle sue conseguenze. Perché Langton li aveva raccolti? Anzi, meglio: perché li aveva letti, riletti e sottolineati in quel modo ossessivo, cerchiando le fotografie dei pregiudicati? Anna si domandò se avessero per caso a che fare con il suo ferimento, ma risalivano tutti a un periodo precedente. Li ripose in una cartelletta: gliel'avrebbe portata alla prima occasione. Poi, però, ebbe un ripensamento: forse non era il caso di parlargliene. Langton poteva credere che lei avesse curiosato in casa sua. Decise, perciò, che ne avrebbe prima parlato con Mike Lewis. Lewis accettò di passare da lei nel pomeriggio. Si presentò intorno alle tre e disse che non aveva molto tempo perché doveva tornare al lavoro. Sembrava parecchio a disagio. «Mi dispiace, ma non ce l'ho fatta ad andare a trovarlo. Sai com'è... il lavoro, mia moglie che sta per partorire...» Lasciò la frase in sospeso, con aria chiaramente colpevole. «Io lo vedo quasi tutte le sere», disse lei, servendogli una tazza di caffè. «Pare che non se la stia passando tanto bene...» riprese Lewis, sfuggendo allo sguardo di Anna. «Ci vorrà tempo.» «Già... così mi hanno detto.» «Barolli ci è andato?» «Non lo so. È da un po' che non abbiamo occasione di parlare. Lui sta lavorando a un altro caso. La vita va avanti!» Dopo una breve pausa, Lewis aggiunse: «Non tornerà più a lavorare, vero?». Anna gli si avvicinò con la sedia e sorrise. «Questo è quanto dicono tutti, ma tu lo conosci meglio di chiunque altro. Non credo che si arrenderà tanto facilmente.» «Forse, però, non è tanto questione di arrendersi o meno, vero? Se non riuscirà più a camminare da solo, non c'è speranza di riaverlo con noi. Di certo non accetterà di lavorare in un ufficio. Forse è per questo che non ce la faccio ad affrontarlo. Non sopporto di vederlo così.» Ci fu un lungo silenzio. Anna attese. Lewis, infine, chinò la testa. «Continuo a ripensare a quella sera... la sera del ferimento. Il dottore mi ha prescritto dei sonniferi. Rivedo la faccia di Jimmy dopo che quel bastardo lo ha squarciato e mi ripeto che forse avrei potuto fare qualcosa. È
accaduto tutto così in fretta. Credevo che sarebbe morto dissanguato. Barolli è nella mia stessa situazione. È rimasto a casa dal lavoro per intere settimane. Abbiamo lavorato con lui per così tanto tempo... Non riusciamo a capacitarcene. Lui era sempre così...» Lewis scosse la testa. «Scusa...» Prese un fazzoletto e si asciugò gli occhi. Anna andò a prendere la cartelletta. «Ho trovato questi ritagli di giornale, a casa sua. Hai voglia di darci un'occhiata?» «Certo.» Gli porse la cartelletta e uscì a comprare del caffè, lasciandolo per un po' da solo. Quando fu di ritorno, Lewis aveva sparpagliato i ritagli sul tavolino che aveva davanti. «Un altro po' di caffè?» «No, grazie.» Si rialzò e indicò gli articoli. «Hanno a che fare con il caso a cui stavamo lavorando: quella ragazza violentata e uccisa da un immigrato illegale, Idris Krasinique. Doveva essere espulso, e invece era riuscito a sfangarla.» «Sì, ho letto il dossier relativo.» «Credo che questi ritagli siano solo l'espressione della rabbia del capo per quel che era successo.» «Questi articoli, però, sono stati tutti pubblicati prima di quell'omicidio.» «Credo che il capo volesse piantare un gran casino, con questa storia. Come vedi, la stampa ci ha dato dentro, su questi stronzi che se ne andavano in giro liberamente, ma all'improvviso non se n'è più parlato. Il ministero degli Interni, cioè il servizio di controllo dei detenuti in libertà vigilata, si è arreso all'evidenza e ha ammesso le proprie responsabilità. Nessuno, però, pagherà per quel che è successo - e che continua a succedere - e intanto il sistema penitenziario non riesce a reggere il sovraffollamento.» Sospirò. «Il che, per noi poliziotti, è una vera sciagura. Noi i criminali li catturiamo, ma poi, come dice questo articolo, vengono rilasciati...» Raccolse il ritaglio. «Il tizio viene messo in una comunità, si toglie il braccialetto elettronico e va ad ammazzare una ragazzina di tredici anni! Non ci si può credere. Per questo Jimmy era al limite della sopportazione.» Anna assentì. «Mi sto appunto occupando di un tizio in libertà vigilata che ha ucciso una donna. Il cadavere è stato trovato dalla figlia dodicenne della vittima.» «Infatti... C'è un mucchio di gente, tra i nostri, che è sul punto di gettare la spugna. Se io fossi il capo, mollerei tutto, mi prenderei la mia pensione e me ne andrei a vivere il resto dei miei giorni lontano da questa città ma-
ledetta. La situazione è sfuggita di mano: senza soldi né uomini a sufficienza, si finisce per sentirsi degli idioti. Comunque, solo lui può dirti che cosa intendeva fare di questi ritagli.» «Ti ha più ritelefonato?» «Sì, mi telefona a casa, sul lavoro, di continuo. No, non ha smesso... ma come ho già detto non è che io possa fare granché.» «È incredibile che non si sia ancora riusciti a catturare l'aggressore.» «Non è più stato trovato. In realtà, avremmo dovuto organizzare un'operazione in piena regola, ma il capo era impaziente.» Lewis finì di bere il caffè e si alzò in piedi. «Devo andare.» «A che punto sono le indagini?» «Come puoi immaginare, il caso è aperto...» Lewis si stropicciò stancamente gli occhi. «Cristo, non posso mettermi a dare la caccia al colpevole nel mio tempo libero; e poi non saprei neanche da dove cominciare. Siamo convinti, anzi, che abbia lasciato il paese. L'indagine sull'omicidio, invece, si è conclusa con l'arresto dell'assassino. Gli hanno dato l'ergastolo.» «E se anche Langton finisce condannato all'ergastolo su quella sedia a rotelle?» sbottò Anna. «Ascoltami: lascia perdere. Non tocca a noi indagare. Langton è vivo.» «Intendi dire che ci sarebbe stata un'indagine più seria se lui fosse morto?» «No!» «E allora perché non si cerca di prendere il colpevole?» Lewis sospirò. «C'è un nuovo dipartimento che si occupa dei problemi legati all'immigrazione, agli immigrati illegali, a chi viola il regime di libertà vigilata eccetera. È coordinato direttamente dal ministero degli Interni e...» «Mi sembra un enorme cumulo di stronzate!» tagliò corto lei, furibonda. «Può darsi, ma ci stanno lavorando, e forse ti converrebbe parlare con loro. Però...» Lewis ebbe un'esitazione. «Però che cosa?» «Be', ti avverto. Tu fai parte della squadra Omicidi; quelli, invece, sono di un altro dipartimento e non saranno contenti delle tue ingerenze.» «Ingerenze?» «Sì. Se gli pesterai i piedi, reagiranno. Stanno cercando di mantenere un profilo basso per via della cattiva stampa.» «Ah, capisco. Langton non è che un problema di cattiva stampa? Non credo alle mie orecchie, Mike. Ci ha quasi lasciato la pelle!»
Lewis reagì con rabbia. «Lo so, Cristo! C'ero anch'io. Però devo pensare anche alla mia carriera. Ho un figlio piccolo, e un altro in arrivo. Non posso permettermi di infrangere le regole e rischiare di perdere il lavoro. Ho faticato per arrivare al punto in cui sono.» «Ci sei arrivato grazie a Langton, e lo sai benissimo.» Lewis dovette stringere i pugni per controllare la rabbia; sotto la rabbia, però, c'era il senso di colpa, perché sapeva che Anna aveva ragione. «Ascolta, Anna: dammi tregua. Mi sto tenendo aggiornato sugli sviluppi della situazione, ma non ho intenzione di trasformarmi in un giustiziere per beccare quel bastardo. Ci hanno già detto che molto probabilmente è in Somalia. Questa gente usa documenti falsi: potrebbe aver già cambiato nome una decina di volte, da allora!» «E gli altri? C'erano degli altri ricercati, o no?» «Sì», sospirò di nuovo Lewis, con un'espressione di stanchezza indescrivibile. «Che fine hanno fatto?» «Li stiamo cercando, ma Krasinique, l'assassino di Carly Ann, è in prigione ed è terrorizzato per aver fatto i nomi di quei due. Continua a straparlare di voodoo e hanno dovuto rinchiuderlo in isolamento perché ha paura di essere ucciso. Non credere che me ne sia lavato le mani. Ho provato, e anche Barolli. Ora dobbiamo anche pensare alla nostra vita.» Anna gli chiuse la porta alle spalle. Solo a fatica riuscì a salutarlo con cortesia e a ringraziarlo per la visita. Non poteva credere che, dopo quel che era successo a Langton, nessuno stesse organizzando un'operazione su vasta scala per scovare l'aggressore. Lanciò un'occhiata ai ritagli di giornale che Lewis aveva sparso sul tavolino. Naturale che Langton fosse depresso. A momenti moriva per le ferite e ora era inchiodato a una sedia a rotelle con poche speranze di tornare al lavoro. Di certo sapeva che le probabilità di catturare il suo feritore non erano di tanto più alte. Guardò l'orologio: erano quasi le quattro. Decise di andare a prendere un po' d'uva, del salmone affumicato e dei bagel da portare alla Glebe House. Rimise tutti i ritagli nella cartelletta e prese il faldone che Lewis le aveva lasciato in occasione dell'altra sua visita. Le fotografie di Carly Ann scattate all'obitorio erano orrore allo stato puro. Anna lesse più volte il verbale d'arresto del suo assassino. Un agente di pattuglia aveva visto tre uomini alle prese con il cadavere e aveva chiamato rinforzi via radio. Aveva arrestato Idris Krasinique, che pure aveva op-
posto resistenza, ma gli altri due alla vista della volante erano fuggiti. Interrogato da Langton, Krasinique aveva ammesso di aver ucciso la ragazza, aggiungendo però che anche gli altri due avevano collaborato, tenendola ferma. Aveva confessato lo stupro di gruppo, e gli esami del DNA ne avevano dato conferma. Gli avvocati di Krasinique speravano di ottenere una sentenza più mite in virtù della collaborazione offerta dal loro cliente, al quale era stato estorto anche un indirizzo. Accompagnato da Lewis e Barolli, Langton ci era andato per interrogare i complici ed era stato ferito sulle scale di quell'edificio. Entrambi i ricercati erano fuggiti. Anna si avvide all'improvviso dell'ora. Abbandonò la lettura, si cambiò d'abito e corse fuori per imboccare l'autostrada, non prima di aver fatto tappa in una rosticceria. Lungo il tragitto, continuò a rimuginare sulla conversazione avuta con Lewis e sul faldone che si era fatta consegnare. I ritagli di giornale aveva deciso di metterseli in borsa. All'arrivo parcheggiò la Mini e si chinò sul sedile posteriore per raccattare il cibo e i documenti. Quando si voltò, fece quasi cadere tutto a terra. Langton era in piedi sui gradini della Glebe House. In piedi, e con un sorriso da un orecchio all'altro. La salutò agitando una mano. Anna gli corse incontro sopraffatta dall'emozione. «Non ti aggrappare perché potrei crollare», le disse. «Non ci posso credere!» «Ti conviene crederci, invece. Sono arrivato qui da solo, dalla sala comune, e adesso torno indietro.» Anna osservò la sua lenta rotazione e poi lo vide avviarsi piano verso la porta, che aprì per farla entrare. Poi, sia pur con qualche incertezza, riprese a camminare verso la sala comune. Lo vide più di una volta contrarre il viso per il dolore, ma Jimmy era così determinato a reggersi da solo che non volle neppure appoggiarsi al muro. Trovata una grossa poltrona regolabile, poté finalmente tirare il fiato e riposarsi. Solo a quel punto la guardò in faccia. Era madido di sudore. «Sto guarendo, Anna! Dammi ancora qualche giorno, e al tuo arrivo ti correrò incontro a braccia aperte.» Anna posò il cibo e tutto il resto sul tavolo e lui le tese le braccia. «Vieni qui.» La attirò a sé, e lei si chinò per dargli un bacio, facendo uno sforzo per trattenere le lacrime. Lui ricambiò il bacio e poi tirò un lungo sospiro. «Se continuo con questo ritmo, sarò a casa la prossima settimana.» Anna prese una sedia e si accomodò accanto a lui che le domandò: «Che cosa ne dici?».
«Dico che sarebbe meraviglioso», rispose, tirando fuori l'uva, il salmone affumicato e i bagel. Langton si era rasato e indossava pantaloni e camicia, invece del pigiama, anche se ai piedi portava ancora le pantofole. «Allora», disse, sempre con quel suo grande sorriso stampato in faccia. «Com'è andata, oggi?» 4. Langton non era ancora esattamente quello di una volta, ma il notevole miglioramento delle condizioni fisiche gli aveva infuso nuova energia e fiducia. Anna sospettava che si aiutasse con gli antidolorifici, ma non aveva importanza. Lo aveva trovato così di buon umore che aveva deciso di non parlargli dell'indagine sul suo ferimento né della discussione avuta con Lewis. La domenica fu anche migliore del giorno precedente: Langton si sentiva in forze e pieno di entusiasmo, sicché Anna continuò a evitare quegli argomenti, anche perché si presentarono a trovarlo Barolli e consorte e, non appena questi se ne furono andati, arrivarono l'ex moglie e la figliastra di Langton. Kitty era una ragazzina dolcissima, e fu toccante vederla interagire con lui. Lorna, l'ex moglie, monopolizzò la conversazione, e Anna ebbe una ragione in più per starsene in silenzio. Lorna fu cordiale con lei, ma Anna si sentì vagamente esclusa, dato che parlò del proprio figlio piccolo, di cui mostrò le fotografie. Anna neppure sapeva che Lorna aveva avuto un altro figlio, e non si fece menzione del nuovo partner, ammesso che l'avesse. A un certo punto, Anna decise di togliere il disturbo. Si dispiacque per l'eccessiva timidezza con cui Langton le domandò se non volesse restare, ma lui le diede un bacio e la elogiò davanti a Lorna per tutto quel che aveva fatto. «Non so se domani riuscirò a passare di qui», gli disse Anna. «Presto comincerà il processo e...» Lui la tranquillizzò con un cenno della mano. «Nessun problema, fa' quel che devi. Fatti sentire, però, eh?» «Sì, ti telefono.» Gli diede un bacio, e Kitty si offrì gentilmente di accompagnarla fino all'auto: era una ragazzina davvero adorabile e sprizzava energia da tutti i pori. Parlò a mitraglia del pony che aveva montato e delle lezioni di piano che frequentava. Chiamava Langton talvolta «papà», talaltra semplicemen-
te Jimmy. «Gli vuoi tanto bene, vero?» disse Anna, sbloccando con il telecomando la serratura della sua Mini. «Sì, mi fa tanto ridere. Adesso che c'è Tommy, però, non lo vedo più tanto spesso.» Saltellava da un piede all'altro. «Quanti anni ha Tommy?» «Ha diciotto mesi e ancora non sa parlare. Piange sempre, perché gli stanno spuntando degli altri denti.» «Chi è l'amico della mamma?» le domandò Anna, timidamente. «Quale amico?» «Be', con chi vivi, tu, a parte la mamma e Tommy?» «Con nessuno. Siamo noi e basta.» «E chi si occupa di Tommy?» «La tata... abbiamo una tata. Sta quasi sempre con noi, ma nel weekend va a casa sua.» In quel preciso istante, Lorna si affacciò con aria preoccupata a chiamare Kitty. La ragazzina salutò Anna e tornò dalla madre. Anche Lorna salutò Anna, che a bordo della sua auto usciva dal parcheggio. Una volta a casa, Anna pensò a Langton con un vago disagio. A volte le pareva di non conoscerlo affatto. Non che lui fosse un tipo particolarmente riservato, ma non le aveva mai parlato del suo passato. Quando era ormai pronta per infilarsi a letto, squillò il telefono. Era Langton. Dalla voce, sembrava decisamente brillo. «Ehi, come va?» «Bene, ma l'importante è che adesso anche tu stia bene.» «Già, me la sto cavando davvero alla grande. Tutte queste visite un po' mi hanno stancato. Mi sa che andrò a dormire molto presto, stasera.» «Anch'io.» «Grazie per le cose buone che mi hai portato. L'uva se l'è mangiata quasi tutta Kitty...» «È adorabile.» «Sì, sta crescendo bene.» «Ed è bellissima.» «Già, ha preso dalla mamma.» «Sì.» «Be', chiamavo solo per accertarmi che fossi arrivata a casa sana e salva.» «Tutto a posto.»
«Bene. Domani, allora non ci vediamo...» «No, devo andare in tribunale.» «Okay, be', quando vuoi... Dormi bene. Ti amo.» «Ti amo anch'io.» Una breve pausa. «Sì, lo so», disse lui, con tenerezza. «Buonanotte, allora.» «Buonanotte.» Fu lui a riagganciare. Lei restò per un attimo con la cornetta in mano prima di rimetterla a posto. Anna, in realtà, non ebbe granché da fare. Era stata fissata una data per il processo, e la sala riservata all'indagine fu sgomberata da tutto il materiale e i documenti relativi che dovevano ora essere passati al vaglio. La squadra avrebbe dovuto esaminare alcune richieste presentate dalla difesa e dall'accusa, ma a parte questo era sciolta, a tutti gli effetti. Anna poteva essere assegnata a un altro caso o rimanere a lavorare con Sheldon. Cominciava a provare una certa simpatia per Harry Blunt, che era in piedi davanti a uno schedario, quando Brandon fece il suo ingresso diffondendo una zaffata di acqua di colonia. Harry lo apostrofò al volo. «Posso farti un'osservazione un po' personale?» «Dipende.» «Si tratta di quella maledetta acqua di colonia in cui fai il bagno. Mi dà la nausea, soprattutto a quest'ora di mattina.» «Costa un occhio della testa», rispose Brandon, a mo' di giustificazione. «Be', dovresti usarla con più parsimonia, allora.» «E tu hai mai usato niente del genere? La tua igiene personale lascia molto a desiderare... Preferisci la puzza di sudore, mi sa.» I due si guardarono in cagnesco. Poi Brandon si voltò verso Anna. «Tu che cosa ne dici?» Lei scrollò le spalle. «Dai, puoi parlare liberamente... che cosa ne pensi? Ci sono donne a cui piace. Anzi, è stata la mia fidanzata a regalarmela.» «Forse tu ci sei abituato... Visto che costa così tanto, però, è fatta per essere usata meno generosamente.» «Visto?» disse Brandon, voltandosi verso Harry. «Le piace.» Sheldon sbucò dal suo ufficio. «Anna...» Le fece cenno di avvicinarsi. «Sta per arrivare l'avvocato di Murphy. Vuole discutere alcune delle ri-
chieste della difesa: fotografie eccetera. Quando arriva, portatelo nella sala interrogatori numero 1.» «Che sciacallo!» disse Blunt, seduto alla sua scrivania. Anna lo guardò. «Mi fa schifo! Quell'avvocato, per la difesa d'ufficio in questo processo, incasserà più di quello che io prendo in un anno. Non dovremmo sobbarcarci anche le spese del processo: sappiamo che è stato lui: ha confessato! Sarebbe sufficiente portarlo davanti a un giudice e sbatterlo dentro. Anzi, meglio: bisognerebbe fargli un'iniezione letale, a quel bastardo. Io sarei favorevole, ma tra i nostri politici non ce n'è uno che prenda in considerazione la pena capitale, perché hanno paura di perdere la poltrona! Lo sai che abbiamo un controllore ogni trentasette delinquenti in libertà vigilata? Sono dati ufficiali, e non parlo di condannati per reati minori. Trentasette criminali, mi spiego? Stupratori, assassini che i nostri supervisori dovrebbero sorvegliare per evitare che tornino a delinquere. È una farsa! In una settimana lavorativa possono dedicare in media tre quarti d'ora a ciascuno di quei bastardi!» Harry sarebbe andato avanti sullo stesso tenore se Brandon, irritatissimo, non l'avesse interrotto dicendo che l'avvocato di Murphy era arrivato. Anna, come Sheldon le aveva ordinato, gli chiese di accompagnarlo nella sala interrogatori 1. Brandon le rispose seccamente. «Vacci tu, a prenderlo, Travis.» «Sì, sarà meglio», interloquì Blunt. «La colonia di Brandon rischierebbe di asfissiarlo prima ancora di arrivare in fondo al corridoio.» Brandon gli scagliò contro un libro, e Blunt sghignazzò. Anna si avviò alla porta. Si voltò per domandare il nome dell'avvocato. «Luke Griffith», rispose Brandon, schivando un proietto lanciato da Blunt. «Sta' attenta: è un volpone.» Anna lasciò i due colleghi alla loro guerra combattuta con pallottole di carta. Luke Griffith salutò Anna con una calorosa stretta di mano. Si spostarono dalla reception del commissariato alla poco arieggiata saletta indicata da Sheldon. Griffith porse la sedia ad Anna e si sedette di fronte a lei. Indossava un impeccabile gessato, con camicia azzurra dal colletto bianco e cravatta scura. Anche i polsini della camicia erano bianchi, e le mani erano affusolate e ben curate. Un tipo davvero niente male: viso scolpito, occhi scuri... Persino i capelli erano acconciati alla perfezione.
«Ci vorrà poco, vedrà.» Aveva una voce morbida, da uomo di classe. «Posso offrirle un caffè?» «No, grazie. L'ho già provato l'ultima volta che sono stato qui.» Griffith aprì la sua borsa e ne tolse un taccuino; quindi, da un taschino, prese una sottile penna d'oro. «Bene. Lei è l'ispettrice Anna Travis, giusto?» «Sì.» «Come saprà, Arthur George Murphy è mio cliente. Io sono qui soltanto per chiarire alcuni particolari, di cui poi informerò l'avvocato che discuterà la causa in tribunale.» Anna tacque. Griffith restò a fissare la pagina bianca su cui, infine, consultato l'orologio da polso, scrisse la data e l'ora. «Lei è stata a casa di Gail Dunn, alias Gail Sickert, sorella del signor Murphy?» «Sì.» «Gail Sickert le ha dato una fotografia?» «Sì.» «E questa fotografia è stata poi utilizzata per identificare Vernon Kramer, amico del signor Murphy.» «Sì.» «Grazie a questa foto siete risaliti alla residenza di Kramer, dove avete trovato il mio cliente.» «Sì.» «In quella occasione il mio cliente è stato arrestato e accusato dell'omicidio di Irene Phelps.» «Sì.» «Ha avuto modo di parlare con il signor Kramer?» «No.» «Era presente all'interrogatorio del signor Kramer?» «No.» Griffith annotò le risposte e poi prese a tamburellare sul taccuino. «Una scoperta fortunata, eh?» «Già.» «Senza questa fotografia, forse, non sareste riusciti ad arrivare al mio cliente...» «Forse.» «Inoltre, lei sa sicuramente che il mio cliente ha confessato lo stupro e l'omicidio della signora Phelps.» «Sì.»
Griffith prese a picchiettarsi la penna sui denti. «E sa anche che Vernon Kramer è accusato di favoreggiamento e di aver ostacolato il corso della giustizia...» «Sì.» «Bella coppia di delinquenti...» «Prego?» «Bella coppia di delinquenti, dico... ma io faccio soltanto il mio dovere.» Anna restò in silenzio. «Il signor Murphy sostiene, ora, che Vernon Kramer sarebbe implicato nell'omicidio di Irene Phelps.» Anna ebbe un moto di sorpresa. Nessuno gliene aveva parlato. «Non mi pare granché credibile», aggiunse Griffith, «ma sono tenuto a svolgere i miei approfondimenti, dato che la difesa affronterà senz'altro la questione, per approfittarne o per liquidarla come mera invenzione.» «Per quel che ne so io, il signor Murphy ha confessato l'omicidio, ma non ha mai parlato della presenza di un complice», disse Anna. «Inoltre, non mi risulta che la Scientifica abbia rilevato tracce di DNA o altro segno della presenza di Kramer sul luogo del delitto.» «Vuol dire che il mio cliente ha mentito?» «Direi di sì.» «Ed è stata Gail Sickert a fornirvi il nome di Kramer?» «No. Non ricordava come si chiamasse, ma ci ha detto che parlava con accento di Newcastle e che era già stato da lei alcuni anni prima.» «Lei, dunque, non sapeva che la signora Sickert, a un certo punto, ha avuto una relazione con il signor Kramer?» Anna scosse la testa, stupita. «No! Anzi, pareva infastidita dal fatto che Murphy l'avesse portato con sé. Non è in buoni rapporti con il fratello e non vuole avere contatti con lui. Ha fatto capire che l'aveva molestata quando lei era una ragazzina.» Griffith prese alcuni appunti e voltò pagina. «Lei, dunque, non ha trovato nulla di strano nel fatto che la signora Sickert tenesse una foto del fratello presunto molestatore. E poi perché conservare quella foto che lo ritrae insieme a un individuo semisconosciuto?» «Non ne ho idea.» «Il fatto è, ispettrice Travis, che a me è stata raccontata una versione leggermente diversa degli eventi, e cioè che lei si sarebbe impadronita della foto senza permesso, in un momento in cui la signora Sickert aveva lasciato la stanza in cui vi trovavate.»
Anna sbatté una mano sul tavolo. «Questa è una menzogna pura e semplice.» «Ha per caso qualcuno che possa testimoniarlo?» «No, ma è stata la signora Sickert a darmi la fotografia. Io non avevo chiesto nulla. È stata lei che si è messa a rovistare in un cassetto e me l'ha mostrata. Il suo cliente, il signor Murphy, dev'essere riuscito in qualche modo a intimidirla. Qualunque storia lei abbia in mente di imbastire sulla questione della fotografia, sappia che è totalmente priva di fondamento. Piuttosto, ha visto le foto del cadavere di Irene Phelps? Lo sa che è stata la figlia dodicenne a trovarla morta?» «Sì, so che la figlia...» «Dovrà convivere per sempre con il ricordo del corpo straziato della madre! Non potrà mai dimenticare la vista di tutto quel sangue e il pensiero che, mentre la madre giaceva morente, l'assassino - il suo cliente, signor Griffith - si preparava un panino con lo stesso coltello usato per uccidere.» Anna si alzò in piedi di scatto. «Non ho davvero tempo di discutere di questo, signor Griffith. Come lei diceva, un avvocato d'ufficio non può discriminare i clienti... Be', il suo cliente è una bestia. Spero che lei riesca a dormire sereno, nonostante i suoi sforzi per limitare la condanna di quell'uomo, che non dovrebbe mai più essere lasciato libero.» «Sergente Travis!» sbottò Griffith. «Ispettrice Travis, per la precisione... e se vuole farmi altre domande, ci vediamo in tribunale.» Anna lasciò la saletta sbattendosi la porta alle spalle. Entrò bruscamente nella sala riservata alle indagini spalancando la porta a battenti, per poi voltarsi di scatto e percuotere la parete. «Quel bastardo di Murphy!» gridò. «Sta cercando di coinvolgere Kramer nell'omicidio... Quanto a quello stronzo con cui ho appena parlato...» Blunt le si avvicinò. «Tranquilla, sono solo scemenze, piccoli espedienti per mettersi in mostra... Lo sanno anche loro che il verdetto è già scritto. Vogliono solo tirarla un po' in lungo.» Anna aveva le mani sui fianchi. «Cristo, quanto mi ha fatto arrabbiare!» Brandon si intromise. «Ti avevo avvertito... L'avevo detto che è un volpone. Che cosa ha cercato di inventarsi?» Blunt le diede uno dei disgustosi caffè della macchinetta, e Anna, sedutasi alla scrivania, raccontò com'era andata. Brandon sbuffò. «E se anche tu avessi preso la foto senza chiederla? Dov'è il problema?»
«Ma io non l'ho presa! Me l'ha data lei!» «Sia lei sia Murphy mentono, insomma... Dobbiamo semplicemente ignorarli. Abbiamo prove a sufficienza e la confessione di quello schifoso. Adesso cercheranno di arrampicarsi sugli specchi, ma fa parte del gioco di prolungare il processo... a spese del contribuente.» Anna trangugiò il caffè, infuriata. «Be', andrò a parlare con Gail Sickert. Voglio capire come mai ha deciso di mettersi a mentire così spudoratamente.» «Non è il caso», disse Blunt. «Sì, è meglio lasciar perdere», concordò Brandon. «Non posso. Mi sta accusando di furto!» «Ti accuseranno di ben altro, nella tua carriera di poliziotta, credimi», commentò cinicamente Brandon. Blunt tornò alla sua scrivania. «Impiccarlo, bisognerebbe», borbottò tra sé. Anna rifece la strada fino alla casa dei Sickert. Aveva piovuto molto, e la sua Mini non era certo il mezzo più adatto per quel terreno irregolare e fangoso. Sul prato antistante la casa c'era il solito caos di giocattoli: una bicicletta rotta, una slitta di plastica e un'automobilina a pedali rossa. Anna saltellò sui mattoni seminati qua e là a mo' di passaggio verso la porta, ma non l'aveva ancora raggiunta quando sulla soglia comparve Gail Sickert. Accanto a lei, un bambinetto lentigginoso che, alla vista di Anna, corse via stringendo in mano il suo pupazzo. «Gail, sono Anna Travis.» Le mostrò il tesserino. «Non parlo con lei, e le conviene andarsene prima che torni il mio uomo.» «Temi che mi scaricherà addosso il mangime dei maiali?» ironizzò Anna. «È andato a prendere delle assi per riparare il pollaio, e potrebbe distruggerle l'auto a bastonate. Se ne vada! Dico davvero!» Dall'interno della casa giungeva l'eco di una discussione accesa. Gail strillò all'indirizzo dei due bambini più grandi e poi, tornando a guardare Anna, disse: «Se ne vada, la prego! Ho già abbastanza guai: ho quei due a casa da scuola con l'influenza che mi stanno facendo impazzire!». «No, non me ne vado. Voglio sapere perché hai detto quelle bugie su di me.» «Vaffanculo!»
«Puoi alzare la voce quanto vuoi. Io non me ne andrò finché non mi avrai spiegato perché hai detto quelle bugie. Non costringermi a spiattellare in giro che hai lasciato a casa da sola la tua figlia più piccola. Credi che i servizi sociali la prenderebbero bene?» «Di quali bugie parli?» «La fotografia, Gail... quella che tu mi hai dato. Perché hai dichiarato che io l'ho presa a tua insaputa?» «Non so di cosa parli. Il mio uomo sarà qui a momenti.» «Sì, con le assi... l'hai già detto. Perché non mi fai entrare a vedere per quale motivo tua figlia sta urlando come un'ossessa?» Tina era nelle stesse condizioni in cui Anna l'aveva trovata la volta precedente: nuda, a parte un pannolino sporco e consunto. Unica novità: ora aveva tra i denti un biberon vuoto. Gail aprì il frigorifero, preparò del latte in polvere e riempì il biberon strappato dalle fauci della piccola. Tina smise di piangere e si adagiò sul tappeto lurido a trangugiare il latte con una fame da lupi. «Non la cambi mai?» domandò Anna. Gail le lanciò un'occhiata piena di odio e scomparve, tornando subito dopo con un pannolino pulito. La cambiò senza curarsi di usare salviette o altro, poi la sistemò su un seggiolino a dondolo, con il biberon ancora in bocca. «Non le verrà su tutto, se dondola dopo mangiato?» domandò Anna. «No, le piace. Cos'è? Sei per caso una spia dei servizi sociali? Be', sappi che i miei figli stanno bene. Li tengo sotto regolare controllo medico.» «Bene.» «Ecco.» «Allora, vuoi spiegarmi perché hai detto all'avvocato di tuo fratello che la fotografia che tu mi hai dato io l'avrei presa senza il tuo permesso?» Gail si strinse nelle spalle. «Potrebbe procurarmi un mucchio di guai.» «In che senso?» La donna si limitò a sospirare. «Se sei stata minacciata, me lo devi dire. Se hai bisogno di protezione, io posso provvedere.» «Tu non capisci! Ha i suoi amici e può farmi del male anche se è in galera.» «Tuo fratello?» «Sì! Mi ha telefonato. Ha detto che manderà qualcuno... e io non voglio
avere problemi.» «Ma hai mentito!» «Embe'? Non mi porteranno in tribunale, se è questo che ti preoccupa. E se lo faranno se ne pentiranno, perché dirò che è un bastardo e lo è sempre stato. Mi ha rovinato la vita e non ha mai pagato per quel che ha fatto. Io ho cercato in tutti i modi di scrollarmelo di dosso e adesso, con questa storia, siamo daccapo.» «Gail, tuo fratello ha ammazzato una persona. Non sarà in circolazione per un bel po'. Se ti ha minacciato...» La donna la interruppe con rabbia. «Te l'ho appena detto! Mi hanno chiamato, lui e Vernon. Parlano male di me, e io non voglio altri problemi. Dev'essersi fatto dare il mio numero da mia madre o l'ha trovato da qualche parte... Forse ha anche il mio indirizzo!» Anna inspirò a fondo per mantenere la calma. «Se qualcuno dovesse minacciarti, puoi chiamare la polizia locale.» «Ah, davvero? E credi che gliene freghi qualcosa di me? L'ultima volta che ho visto quel bastardo, si sono presentati perché era sbronzo e stava pisciando per strada; del fatto che mi aveva fatto un occhio nero non glien'è fregato un cazzo!» «Hai fatto denuncia contro tuo fratello?» «Oh, cazzo! Non sono mica scema. Mi avrebbe già ammazzato, a quest'ora.» «Ora però non può più farti del male, perché è in galera.» «L'avete già arrestato altre volte, ed è sempre uscito!» «Questa volta resterà dentro a vita.» «Lui dice di no, e dice di no anche il suo avvocato... E io - figurati te credo di più a loro che a voi maledetti sbirri.» Anna si sforzò di tenere sotto controllo il tono di voce. «Gail, posso far emanare un ordine perché lui non possa molestarti...» «Molestarmi? L'ha già fatto! Ne hanno già emanati, di ordini e di diffide! Sai che bell'effetto hanno avuto! Ho cambiato così tante volte il numero di telefono che ho perso il conto.» Si udì un rumore di motore in avvicinamento. Un camioncino lungo il vialetto d'accesso alla casa. Gail corse alla finestra. «Ti conviene scappare... è qui!» Anna non sapeva come comportarsi. Di certo non aveva intenzione di scontrarsi con il compagno di Gail né di mettere a repentaglio il parabrezza dell'auto. «Okay, me ne vado, ma tu devi dire la verità. Tu mi hai dato
quella fotografia spontaneamente.» «Sì, sì, va bene, ma ora vattene.» Anna prese la sua valigetta e si avviò in fretta alla porta. Il camioncino, carico di assi delle misure più disparate, aggirò la casa sobbalzando sul terreno accidentato. Quando Anna uscì, il veicolo si fermò. Lei corse alla sua auto e aprì la portiera. «Ehi, tu... che cosa ci fai qui?» Anna avviò il motore, mentre il compagno di Gail scendeva dal camion. «Ehi, tu! Sto parlando con te!» L'uomo, presumibilmente il signor Sickert, si avviò verso di lei. Era nero e alto poco meno di un metro e novanta, muscoloso e con dei lunghissimi dreadlock. Anna innestò la retromarcia e gli sfrecciò accanto, costringendolo a togliersi di mezzo per non essere travolto. Gail, sulla porta di casa, lo implorava di non fare scenate. Sickert provò a sferrare un calcio alla Mini, ma la mancò. Appena poté, Anna mise la prima e partì a razzo, con il cuore in gola e gli occhi fissi sullo specchietto retrovisore, sull'uomo che imprecava e sbraitava. Proseguì per un tratto, con il fiato corto. Quando ritenne di essere al sicuro, si fermò. Presa la valigetta che aveva portato con sé, la aprì e spense il registratore. Aveva ottenuto il suo scopo: l'ammissione di Gail. Anna sapeva che quella prova era illegale, tanto più che Sheldon non l'aveva neanche autorizzata all'incontro con la ragazza, ma se fosse saltata fuori la questione, il testo della registrazione avrebbe avuto il suo peso. Al suo arrivo a casa, Anna era ancora scossa dall'incontro con Sickert. Di certo, non era lui il padre della piccola Tina, dato che la bambina era di pelle bianca. Forse era figlia dell'ex marito, quel Summers a cui era intestato in origine il contratto d'affitto del bungalow. Si preparò del caffè forte e buttò giù alcuni appunti. Prese il registratore e stenografò l'intera conversazione avuta con Gail, per poi avere il testo a portata di mano al momento di scrivere il rapporto. Le pareva quasi di sentire la voce ammonitrice di Langton, che stigmatizzava il suo comportamento deontologicamente scorretto. Ci volle un po' per sbobinare la registrazione e accertarsi di averla resa nella sua integrità. Quando sul nastro si sentiva arrivare il camion, Anna si alzò per andare a riempire la tazza. Era quasi nell'altra stanza quando si fermò ad ascoltare le parole di Sickert.
«Ehi, tu... che cosa ci fai qui?» Si udiva l'accensione del motore della Mini e la portiera del camion che si richiudeva. «Ehi, tu! Sto parlando con te!» Le parole suonavano confuse, anche perché coperte in parte dal rumore del motore in retromarcia, ma Sickert aveva continuato a berciare qualcosa. Anna trafficò con le manopole dell'apparecchio e riascoltò quel segmento di registrazione. «Vuoi finire tagliuzzata come il tuo amico? Troia bianca, se ti rivedo qui, giuro che te ne faccio pentire. Stai alla larga, se non vuoi prenderti anche tu qualche coltellata. Mi hai sentito, troia?» Anna raggelò. Riascoltò il nastro diverse altre volte per essere certa di aver sentito bene. «Vuoi finire tagliuzzata come il tuo amico?» Anna si umettò le labbra. Come faceva a sapere di Langton? Mistero. Ogni volta che riascoltava quella frase, cresceva in lei la paura. Come spiegarsela? Sickert poteva forse avere a che fare con l'aggressione a Langton? Se sì, come sapeva della relazione tra lei e Jimmy? Anna si fece una doccia per calmarsi, ma poi tornò ad ascoltare il nastro dall'inizio alla fine. Telefonò a Lewis, ma trovò solo la segreteria telefonica. Gli disse di richiamarla, perché aveva urgente bisogno di parlargli. Quindi, provò con Barolli, ma anche in questo caso dovette lasciare un messaggio in segreteria. Identico. Era quasi mezzanotte quando Anna si infilò a letto. Lewis e Barolli non si erano fatti sentire. Dopo una notte inquieta, uscì di buon'ora e, al commissariato, digitò e stampò il rapporto sull'accaduto. Non riusciva a sbarazzarsi di quel nauseante groppo allo stomaco: se si trattava di una coincidenza, era di quelle davvero sbalorditive. Forse che Murphy poteva aver sentito parlare di lei e Langton nel tempo trascorso al commissariato? Non aveva senso. Anna sapeva di dover chiarire la questione... e il solo modo era di andare a parlare con Murphy dell'aggressione a Langton. 5. L'ispettore capo John Sheldon, seduto nel suo ufficio, continuava nervosamente ad avvolgere e svolgere un pezzo di carta intorno a un dito. Sotto gli occhi aveva il verbale di Anna. Lei aveva portato con sé anche il regi-
stratore e gli domandò se volesse sentire il nastro. «No.» Diede qualche secco colpetto sul documento redatto da Anna. «Prima di tutto, l'iniziativa che hai preso è illegittima. In secondo luogo, quell'avvocato... Griffith... è un verme: se anche dovesse ottenere l'inammissibilità di qualche prova, può fottersi. Murphy verrà condannato per omicidio. Abbiamo vagonate di prove contro di lui, oltre alla sua esplicita confessione. Che noi siamo arrivati a lui grazie a una foto tirata fuori, spontaneamente o controvoglia, da sua sorella, al giudice non interessa.» «Ma ora ha ammesso di avermela consegnata lei.» «Adesso ci arriviamo...» Si alzò in piedi e si tirò su in vita i pantaloni. «Non mi piace, Travis, che tu vada in giro a fare di testa tua, tipo interrogare quella cretina senza neppure un testimone, senza copertura né altro. Hai agito in maniera poco professionale e hai rischiato gravi conseguenze. Evidentemente, a causa della tua esperienza lavorativa con Langton, devi aver assorbito quel suo atteggiamento da giustiziere che per me è totalmente inaccettabile. Se lavoriamo in squadra, un motivo c'è: la sicurezza, Travis.» «Sì, è giusto. Mi dispiace.» «Bene. Io rispondo di te e di tutti gli elementi della mia squadra, e non ammetterò la più piccola...» «Chiedo scusa. Non accadrà più.» «Non interrompermi. Se questa tua alzata d'ingegno avesse avuto ripercussioni, l'intera indagine sarebbe stata seriamente a rischio. Io non tollererò più comportamenti del genere.» «Sì, ho capito», disse, «e posso garantire che non succederà mai più. Solo che quando ho saputo che aveva mentito, non ci ho visto più.» «Le tue emozioni sono irrilevanti! Io voglio che i miei agenti discutano e mettano in comune le informazioni. Poi, sarò io a decidere quali sono le iniziative da intraprendere.» «Sì, lo so, signore.» «Perciò, per il futuro, ci siamo intesi.» Anna serrò tra le mani il nastro. «Vorrei che lei ascoltasse l'ultima parte del nastro, signore. È una cosa molto importante, per me. Il convivente di Gail Sickert mi ha minacciato, dicendo che...» Fu Anna, questa volta, a essere interrotta. «Ho letto il tuo rapporto. Alla riunione ne discuteremo con la squadra al completo. È tutto, puoi andare.» Anna ascoltò in silenzio la riunione in cui Sheldon parlò della data del
processo e del tentativo dell'avvocato di Murphy di intorbidire le acque. L'ispettore capo era certo che l'indagine sarebbe stata seguita da un processo rapido, data l'abbondanza di prove irrefutabili contro Murphy. A ciò bisognava aggiungere la confessione del delitto registrata su nastro e i precedenti penali dell'accusato. Era assolutamente improbabile che la difesa riuscisse a creare problemi. Detto questo, passò a trattare del verbale di Anna. «Come sapete, sono contrario a qualsiasi iniziativa personale che non sia stata precedentemente discussa nei particolari. Tuttavia, l'ispettrice Travis ha alcuni importanti interrogativi da sottoporci riguardo all'ultimo brano della registrazione da lei effettuata a casa Sickert, quando il convivente di Gail ha trovato la nostra Anna a colloquio con lei. Sembra che Sickert abbia pronunciato alcune minacce personali.» Sheldon fece cenno ad Anna di far partire il nastro. Alla fine, Sheldon lo fece riascoltare. «All'inizio sembra una minaccia vaga, una semplice reazione impulsiva, ma poi dice chiaramente: "Vuoi finire tagliuzzata come il tuo amico?".» Si levò un cupo brusio. Sheldon guardò Anna. «Naturalmente, siamo tutti a conoscenza dell'aggressione subita dall'ispettore capo James Langton. Quel che in questa sede ci interessa è se Murphy o Kramer possano aver saputo qualcosa di quell'aggressione mentre erano tenuti in custodia da noi.» Sheldon proseguì. «Quella minaccia potrebbe essere una coincidenza, priva di collegamenti con il ferimento di Langton. D'altra parte, l'uso di quelle parole - "il tuo amico" - fanno supporre che Sickert sappia qualcosa della relazione tra Langton e l'ispettrice Travis.» I presenti si scambiarono sguardi perplessi e confusi: non erano in molti quelli informati del legame tra Anna e Langton. Brandon alzò la mano. «Del ferimento di Langton hanno parlato molto tutti i giornali e le televisioni.» «Sì, lo sappiamo», osservò seccamente Sheldon. «E allora non potrebbe darsi che Sickert o lo stesso Murphy, se è per questo, l'abbiano saputo dai media?» «No!» sbottò a quel punto Anna. «Nessuno ha mai fatto la minima allusione a me in relazione a Langton.» Sheldon sospirò. «Dobbiamo concludere che questo tizio avrebbe proferito una minaccia casuale e per coincidenza abbia alluso all'ispettore capo Langton? Che cosa si sa di questo Sickert, a parte il fatto che è il convivente della sorella di Murphy? Qual è il suo nome di battesimo?»
Nessuno lo sapeva. Non se n'era mai parlato, nelle riunioni tenute sul caso Murphy. «Okay, propongo di andare a trovare Sickert e, se necessario, di portarlo qui per un interrogatorio. Non possiamo fare altro.» La riunione si sciolse per dare inizio alle ricerche su Sickert. Nonostante Gail ne avesse adottato il cognome e avesse parlato più volte di quell'uomo come se fosse suo marito, nessuno riuscì a trovare il certificato di matrimonio. Provarono a risalire dall'indirizzo a cui abitavano e scoprirono che il contratto d'affitto del bungalow con i suoi annessi era intestato a Donald Summers, il precedente marito di Gail. Appurarono anche che, a causa delle molestie subite da Murphy, Gail aveva ottenuto protezione; i servizi sociali avevano collaborato al suo trasferimento nel bungalow da Londra, dove fino a diciotto mesi prima abitava in una casa popolare nella zona di Hackney. Gail aveva due figli in età scolare: un maschio di sei anni, Keith, e una femmina di sette, Sharon, avuti da due uomini diversi. La terza figlia - la piccola Tina - era di padre ignoto, almeno stando al certificato di nascita. Gail aveva una lunga storia di contatti con i servizi sociali, e i due figli più grandi erano indicati come soggetti a rischio, per via della denuncia per molestie presentata dalla madre contro Murphy. La scuola locale confermò che Sharon e Keith erano regolarmente iscritti. Gli insegnanti avevano registrato diverse assenze, riconducibili a episodiche malattie. Confermarono che i bambini erano spesso un po' sporchi e disordinati, ma non sembravano malnutriti. Venne fuori che Gail aveva chiesto di essere chiamata Sickert dopo che il marito, Donald Summers l'aveva abbandonata. Su Sickert, però, la polizia non trovò la benché minima informazione. L'unico elemento a disposizione era la sua descrizione fornita da Anna. A metà pomeriggio decisero di fermare l'uomo per interrogarlo sulle minacce pronunciate all'indirizzo di un pubblico ufficiale. Erano passate le cinque quando Brandon e Blunt arrivarono al bungalow. Si era deciso che Anna non li avrebbe accompagnati. Ad accoglierli, sul prato antistante la casa, la solita baraonda di giocattoli; erano in corso i lavori per la costruzione di un nuovo pollaio, e le galline razzolavano liberamente per il cortile. Il bungalow, all'interno, era nel solito stato di totale trascuratezza, con i letti sfatti e il bucato sporco che traboccava dalla lavatrice. Non c'era nessuno: né Gail né i bambini né Sickert.
C'erano mucchi di vestiti da bambino e giocattoli ficcati alla bell'e meglio dentro sacchetti della spazzatura. Scarpe spaiate, biberon, coperte e cuscini erano ammucchiati vicino alla porta d'ingresso, e i cassetti erano stati tutti estratti dalla loro sede e rovesciati, il loro contenuto abbandonato a terra. Evidentemente, la famiglia era fuggita in gran fretta. I due poliziotti raccolsero poche carte di un qualche interesse. Gail riceveva un sussidio per pagare il gas, l'elettricità, il cibo e l'affitto, anche se i pagamenti risultavano in arretrato. I libretti del sussidio per i bambini non furono trovati. Nulla che fosse intestato a Sickert. Nella casa, inoltre, non c'erano vestiti da uomo, ma vicino alla porta di servizio furono rinvenuti degli stivali che forse gli appartenevano. Sheldon contattò i poliziotti locali. Avevano ricevuto due telefonate dal bungalow, che erano però riconducibili a precedenti visite di Murphy e, forse, di Vernon Kramer, ubriachi come al solito. Tra la prima e la seconda chiamata erano trascorsi molti mesi, e poi nessuno si era più fatto vivo con richieste da casa Sickert. La polizia locale sapeva dell'ordinanza che assegnava a Gail una qualche forma di protezione contro le possibili iniziative del fratello. Di Sickert, però, non sapevano nulla. Il padrone del bungalow, tale Tom Adams, non riceveva l'affitto da sei settimane. Aveva visto Sickert un paio di volte, ma perlopiù aveva trattato con Gail e con i servizi sociali. Aveva inoltrato un reclamo al ministero del Welfare per gli arretrati sull'affitto, ma non aveva ricevuto risposta. Brandon tornò a rapporto al commissariato. Dato che l'identità di Sickert rimaneva un'incognita, non restava loro granché da fare. Gail e i suoi tre bambini, presto o tardi, avrebbero avuto bisogno di assistenza finanziaria e a quel punto, se si fosse messa in contatto con i servizi sociali, sarebbero probabilmente riusciti a rintracciarla. «E se fosse stata costretta ad andare via?» domandò Anna. Sheldon scosse la testa. «Da come hanno trovato il bungalow, si direbbe che abbia raccattato provviste e vestiti per i bambini. Quindi, non credo che sia stata obbligata a lasciare la casa. I traslochi e le partenze improvvise non sono vietati dalla legge, anche se non hanno pagato l'affitto. Non c'è ragione di credere che sia in pericolo.» «Gail, però, era terrorizzata da Sickert.» «Eppure non risultano abusi né denunce alla polizia; abbiamo fatto tutti i controlli possibili anche a scuola, con i servizi sociali eccetera. Tocca a loro trovarla: non è un problema nostro. Non abbiamo elementi per arrestar-
lo.» «Be', ci sono sempre le minacce che Sickert ha rivolto a me.» «Sì, lo so, Anna. Secondo me, abbiamo fatto tutto il possibile, per il momento. In assenza di ulteriori elementi, io propongo di tenere occhi e orecchie aperti e di rimanere in contatto con il ministero. Stiamo a vedere che cosa succede. Abbiamo raccolto le impronte digitali e le confronteremo con il nostro database. Se Sickert ha dei precedenti, scopriremo chi è. In questa fase, la nostra priorità è il processo ad Arthur Murphy.» Anna era a casa da pochi minuti quando Mike Lewis le telefonò domandandole se poteva passare a trovarla, dato che si trovava nei paraggi... Al suo arrivo si scusò per non essersi fatto vivo prima, ma aveva avuto pressanti impegni di lavoro. Anna gli versò un bicchiere di vino e gli raccontò della fotografia ricevuta da Gail Sickert e di come erano riusciti ad arrestare Murphy. E della sua successiva conversazione con Gail, registrata all'insaputa di quest'ultima. Lewis la interruppe. «Anna, potresti spiegarmi in sintesi perché mi hai chiamato con tanta urgenza?» Prese il nastro registrato. «Per questo ti ho chiamato: senti quello che mi grida dietro quest'uomo mentre me ne sto andando.» Lewis si protese in avanti e ascoltò con attenzione. Dopo un primo ascolto, Anna riavvolse il nastro e lo fece ripartire. «Hai sentito quello che ha detto?» «Sì, sì.» «Ha detto che potevo finire come il mio amico, giusto? "Tagliuzzata" come il mio amico. Ho capito bene? E allora: come fa questo tizio a sapere del ferimento di Langton?» Lewis sospirò, scuotendo la testa. «Magari l'ha detto così... in un momento di rabbia...» «E se invece quell'uomo fosse in qualche modo coinvolto nell'aggressione? Come può sapere della mia relazione con Langton?» Lewis sorseggiò del vino. «Che aspetto aveva?» Anna glielo descrisse. Lewis tacque. «Ti pare che possa essere uno di quei due che sono fuggiti dopo il ferimento di Jimmy?» «Non saprei. Erano entrambi neri, ma non ricordo se uno dei due aveva i dreadlock. Non ho un ricordo chiarissimo. È successo tutto così alla svel-
ta...» «Krasinique vi ha dato due nomi, giusto?» «Sì, ma non ha menzionato questo Sickert.» «E allora? Potrebbe essere un nome falso: non è registrato da nessuna parte, e non sappiamo neppure qual è il suo nome di battesimo. Abbiamo raccolto delle impronte digitali al bungalow, ma non abbiamo trovato corrispondenze nel database della polizia.» «Anna, non so... Ne parlerò con Barolli, per vedere se lui si ricorda di quei due meglio di me, ma eravamo entrambi scioccati...» «Vuoi dire che non sareste in grado di riconoscerli se li vedeste?» «Non so dirlo... Ripeto, è accaduto troppo velocemente.» «E le impronte che avete preso all'ostello in cui abitavano?» «Quelle le abbiamo.» «Perché non proviamo a vedere se combaciano con quelle di Sickert?» Lewis trasse un lungo respiro. «Be', puoi chiedere a Sheldon che faccia pressione in questo senso.» Anna si morse un labbro. «Veramente, si è già detto decisamente contrario alla continuazione delle ricerche su Gail, Sickert e i bambini... Non potresti far qualcosa tu?» «Anna, cerca di capire... Io sono impegnato nell'indagine su un altro caso di omicidio.» «Lasciamo perdere!» tagliò corto lei. «No, ascolta. Farò quel che mi chiedi, ma dobbiamo seguire le procedure regolari, e direi che le persone più indicate per verificare sono quelle impegnate nel tentativo di rintracciare...» Anna si alzò in piedi senza lasciargli finire la frase e lo guardò con aria severa. «Lo sai anche tu che stanno solo cazzeggiando. Langton è vivo: se fosse morto, certo, sarebbe un altro paio di maniche. Con tutte le migliaia di immigrati illegali a zonzo, per non parlare dei detenuti in libertà vigilata, la pratica verrà messa in fila dietro migliaia di altre analoghe.» Anche Lewis si alzò. «Langton lo sa?» «Non sa nulla. Deve risparmiare le forze per cercare di ristabilirsi. Metterlo in agitazione per una pista che potrebbe rivelarsi un vicolo cieco... non sarebbe una buona idea.» «Alimentare l'angoscia mia e di Barolli, invece, va bene, vero?» «Lascia perdere, Mike! Dimentica quel che ti ho chiesto.» «Non posso, okay? Non ce la faccio. Farò una verifica sulle impronte digitali, ma ti prego, Anna, non mi stressare!»
Lo accompagnò alla porta, e lui si congedò borbottando un augurio di buonanotte. Anna lo guardò scendere per le scale di pietra fino al portone e poi chiuse a chiave la porta. Telefonò alla Glebe House e fu messa in comunicazione con la stanza di Langton. Gli disse che per quella sera non ce l'avrebbe fatta. Diede la colpa al lavoro, ma concluse che non aveva voglia di parlarne. Lui non le parve deluso e anzi raccontò che la sua seduta di fisioterapia era andata benissimo: aveva passeggiato per il giardino. «Che progressi! Con o senza bastone?» «Senza... per quasi tutto il tragitto. Ci vediamo domani?» «Sì.» «Bene... sempre che tu non abbia troppo lavoro...» commentò lui sarcastico. Anna decise di non raccogliere la provocazione, ma Langton non era uno sprovveduto e sapeva che il caso di cui lei si stava occupando era sul punto di essere discusso in tribunale, sicché la scusa non gli era parsa troppo credibile. «Tutto bene?» le domandò, questa volta con dolcezza. «Non benissimo, ma preferirei parlarne a quattr'occhi.» «Vedrò di rendermi disponibile», scherzò lui. «A domani, allora.» «Sì, a domani.» Langton riagganciò prima che lei potesse aggiungere altro. Anna sospirò. Sapeva quanto fosse importante per Jimmy vederla, anche se non lo ammetteva mai apertamente. Rifece il numero e chiese di poter parlare di nuovo con lui, ma l'infermiera che le rispose disse che aveva chiesto di non essere disturbato. Il mattino dopo, mentre stava uscendo per andare al lavoro, le telefonò Barolli: aveva un raffreddore fortissimo. Dalla voce, in effetti, pareva a malapena in grado di respirare. «Mi ha telefonato Mike Lewis», le disse, tirando su rumorosamente con il naso. «Ti ha spiegato perché vi ho cercato?» «Sì, e ha detto che farà quei controlli sulle impronte digitali raccolte in quell'ostello, ma Dio solo sa quante ce ne sono...» «Ma se troviamo una corrispondenza...» «Sì, d'accordo... Al momento dell'aggressione io ero alle spalle di Mike
e non sono riuscito a vedere in faccia quei due bastardi. Non sono riuscito a vedere neanche quello grosso... se non per quei pochi secondi quando è corso via.» Anna gli fece una sommaria descrizione di Sickert, e Barolli disse che non ricordava se qualcuno di loro avesse i dreadlock, anche se di certo erano entrambi neri. Anna non riusciva a capire perché Lewis e Barolli non fossero ansiosi come lei di scoprire qualcosa. Sapeva quanto i due poliziotti fossero affezionati a Jimmy e quante volte avessero collaborato... La loro mancanza di entusiasmo la deprimeva. Nella sala operativa riservata al caso Murphy non si parlò più di Sickert, perché intanto il tribunale aveva cominciato a vagliare la posizione di Vernon Kramer. Questi, in aula, indossava un sobrio completo grigio, con camicia bianca e cravatta. Anna restava sempre sbalordita dal modo in cui gli avvocati riuscivano a ripulire i loro clienti. Kramer ammise di aver ospitato Arthur Murphy, ma sostenne di averlo fatto per paura, perché Murphy l'aveva minacciato. Questa bugia fu rapidamente confutata dal rapporto della polizia secondo cui Kramer era uscito tranquillamente a comprare fish and chips e birra e avrebbe avuto tutto il tempo di avvertire la polizia. Fu fatto notare che i giornali in quei giorni mostravano grandi foto di Murphy in prima pagina e pubblicavano appelli affinché tutti segnalassero alla polizia eventuali avvistamenti. In conclusione, Kramer fu dichiarato colpevole e, dato che si trovava in libertà vigilata, fu rispedito nel carcere di Wandsworth con altri diciotto mesi da scontare, oltre al resto della pena comminatagli con la precedente sentenza. In più avrebbe perso il diritto alla libertà vigilata. Sheldon guardò Anna e si strinse nelle spalle. «Non avrebbero neanche dovuto dargliela, la libertà vigilata, a questo schifoso.» «Non mi stupisce che Gail fosse spaventata: con un fratello assassino a spasso e il suo migliore amico, un pedofilo!» «Sono tutt'e due dei mostri schifosi, ma Murphy non uscirà più, mentre Kramer, tra un paio d'anni, sarà di nuovo in quell'ostello insieme ad altri suoi amici schifosi come lui. E probabilmente ne conoscerà altri anche in galera: i reclusi per certi reati vengono tenuti separati per questioni di sicurezza... E quando escono ricominciano daccapo. Si credeva furbo perché era sfuggito all'iscrizione nel registro dei condannati per reati a sfondo sessuale; questa volta mi accerterò personalmente che il suo nome venga segnalato a dovere.»
Langton era seduto nella sala comune e stava chiacchierando con altri due o tre degenti, quando Anna fece il suo ingresso. Le fece cenno con la mano, si alzò lentamente e le andò incontro a braccia aperte. «Ehi, mi vedi?» disse con un sogghigno. Lei lo abbracciò, quasi in lacrime. Lui era leggermente malcerto e sosteneva, scherzando, che era Anna a sbilanciarlo. Si avviarono a braccetto verso una zona con due poltrone vuote e un tavolino da caffè. Lui si sedette, e lei notò la smorfia di dolore che gli sfuggì al momento di adagiarsi sul sedile con le mani aggrappate ai braccioli. Quando si fu accomodato, espirò con forza. «Devo darti alcune brutte notizie», le disse sorridendo. «Sono tutt'orecchi.» «Domani avrò una visita in cui valuteranno le mie condizioni fisiche generali e, se tutto va bene, nel weekend torno a casa.» Anna restò scioccata: credeva che l'avrebbero tenuto alla Glebe House almeno per un'altra settimana. «Non ci tengono qui più di tanto, sai... "Cacciali via alla svelta!" è il loro motto... Allora, che cosa ne dici?» Anna si sforzò di sorridere. «Fantastico! Questo weekend?» «Se mi riammalo, dovrò tornare qui per un paio di settimane, magari - è così che funziona - ma credo che a quel punto, in ogni caso, sarò dimesso una volta per tutte.» Lei si sporse per dargli un bacio su una guancia. «Che cosa ne pensi?» le domandò. «Credi che dovrei tornare a casa mia o è meglio se vengo a stare da te?» «E tu che cosa ne pensi?» chiese lei di rimando, simulando sdegno. «Be', non ti sarò di grande aiuto... Non posso guidare, ma mi pagano il taxi per andare e tornare dalla palestra e dal fisioterapista. Dovrò lavorare duro per rimettere a posto il mio ginocchio. Sei sicura di volerti occupare di me, cara?» «Mai stata altrettanto sicura in vita mia. Per arrivare al tuo appartamento devi salire quattro rampe di scale; a casa mia ce ne sono solo due, più il pezzo in ascensore. Inoltre, casa mia è su un solo piano, e poi, ci sarò io a cucinare per te e a curarti.» «Non c'è bisogno che tu mi faccia da mamma, Anna.» «Non ti preoccupare. Ti voglio in forma e al lavoro al più presto, perché so che non sarà facile sopportarti.»
Lui sorrise, ma poi si incupì. «Non dirlo in giro, però. Non ho voglia di ricevere visite. Non voglio vedere nessuno della vecchia squadra, almeno finché non mi sentirò pronto.» «Come vuoi.» «Ti ho fatto una lista di cose di cui avrei bisogno per uscire di qui in condizioni decenti.» Le porse il foglietto che Anna ripose nella borsetta. Non aprì la valigetta, che ancora conteneva il faldone fornitole da Lewis e i ritagli di giornale trovati a casa di Langton. Il tempo trascorse in un lampo, e arrivò il momento di baciarsi e abbracciarsi. Anna si sciolse in lacrime, quando lui le sussurrò che l'amava. «Ti amo anch'io. Tornerai presto in piena forma, lo so.» Lui inclinò la testa di lato. «Devo assolutamente! Non ho intenzione di rassegnarmi a un lavoro d'ufficio. Ne verrò fuori. Ho un mucchio di questioni in sospeso da risolvere!» Anna si accigliò, ma lui le strinse forte la mano. «Non fare quella faccia preoccupata. Non ho in mente di fare sciocchezze, ma se mi conosci - e io credo che tu mi conosca - sai senz'altro che per me il conto non è chiuso.» Anna gli sorrise. «Sì, lo so.» 6. Langton, la mattina in cui doveva essere dimesso, telefonò ad Anna quattro volte. La sua smania era quasi palpabile: sembrava un bambino. A ogni chiamata si premurava di verificare con lei l'ora del suo arrivo e di ricordarle di non parlare con nessuno della sua dimissione. Anna partì alla volta della Glebe House all'ora prevista, per essere a destinazione alle quattordici e trenta. Quando arrivò, gli consegnò la valigia e disse che lo avrebbe aspettato nella sala comune. Jimmy non si fece vedere prima delle tre. Aveva un aspetto fantastico, era elegantissimo. Quando si avviarono verso la Mini di Anna, alcuni membri dello staff lo salutarono agitando la mano. Lei si occupò di portare la valigia piena di biancheria sporca e di tutte le altre cose di Langton. Gli aprì la porta dell'auto e andò a mettere la valigia nel bagagliaio. Quando ebbe finito, lui era ancora in piedi che agitava a sua volta la mano, reggendosi alla portiera aperta. Restò lì finché il personale della clinica non fu rientrato, dopo di che con qualche smorfia si accomodò sul sedile che lei aveva tirato indie-
tro il più possibile. Ci volle un po', dato che il ginocchio gli faceva molto male. Durante il viaggio verso casa, Langton sospirò a più riprese, come se stesse ancora soffrendo. Ogni volta che lei gli chiedeva come andava, lui rispondeva che stava bene, ma nell'ultimo tratto cominciò a massaggiarsi il ginocchio e a fare smorfie di dolore. «Sono anchilosato», disse. «Be', dammi il tempo di portare dentro la valigia, poi vengo ad aiutarti.» «Non ho bisogno di aiuto. Tu va' dentro. Ti raggiungo subito.» Anna portò la valigia in casa e tornò all'auto. Langton non era ancora riuscito ad alzarsi. Lei si chinò per suggerirgli di far uscire prima le gambe, e lui attaccò a imprecare. «Sto solo tirando un attimo il fiato! E non dirmi quello che devo fare!» Anna fece un passo indietro e restò a guardare. Langton, con dolore e fatica, fece prima ruotare la gamba sinistra fuori dall'auto e poi, aiutandosi con entrambe le braccia, si sollevò estraendo dall'abitacolo anche la destra. Fu costretto ad aggrapparsi a lei per restare in piedi. Lo sforzo di mettersi in piedi gli fece colare il sudore sulle guance. Ogni passo era una sofferenza atroce, e Langton, sia pur controvoglia, dovette avvalersi del sostegno di Anna. In salotto, quasi cadde sul divano e prese a strofinarsi il ginocchio imprecando e incolpando di tutto la posizione in cui era stato costretto sulla minuscola auto di lei. Anna disfece la valigia e lo lasciò sbollire. Gli domandò se aveva fame e se, eventualmente, preferiva uscire a mangiare o cenare a casa. «Dai, corriamo giù al ristorante italiano!» esclamò sarcastico. «Stavo scherzando! Abbiamo bistecche, insalata e una buona bottiglia di vino.» «Vieni qui.» Langton protese un braccio e la prese per mano, attirandola accanto a sé sul divano. «Sono una piaga, lo so, un maledetto ingrato, ma se mi dai qualcuna delle pastiglie che trovi nella boccetta con l'etichetta blu forse il male al ginocchio un po' mi passa.» Anna gli diede un bacio sulla guancia fredda e umida. Le pillole erano in un borsello di pelle nera. Restò sbalordita dalla quantità di farmaci diversi che gli avevano prescritto. Dopo aver preso due compresse con un bicchiere di vino (nonostante Anna dubitasse della salubrità della scelta) il dolore si attenuò visibilmente, e a tavola Langton consumò avidamente quello che lui definì il suo pasto migliore dal giorno del ferimento. Solo dopo il caffè
si fece taciturno e serio. «Non sarà facile, eh?» disse. «Non ho mai creduto che lo sarebbe stato, ma neppure avevo previsto di averti a casa così presto, perciò... Anzi, il fatto stesso che tu sia qui mi pare un miracolo.» Lui sorrise e sollevò il bicchiere. «Alla tua, mia carissima Anna!» Lei gli schioccò un bacio. «Okay, adesso metto un po' a posto e poi possiamo guardare la TV. Forse, però, preferisci andare a letto presto, e non sarebbe una cattiva idea: è stata una giornata intensa, ed è meglio che non tiri troppo la corda.» «Quando sono stanco, lo dico io.» «D'accordo. Accomodati, allora. Ci metto un attimo.» Aveva appena finito di pulire la cucina e di caricare e avviare la lavastoviglie, quando sentì Langton che la chiamava. Anna accorse. «Non riesco ad alzarmi», disse lui con un filo di voce. Non fu facile rimetterlo in piedi: era una specie di peso morto. Raggiunsero la camera da letto con cautela e lentezza estreme. Jimmy ansimava a ogni passo; dovettero fermarsi due volte perché lui, pur stringendo i denti e mettendocela tutta, pareva incapace di muoversi. Era imbarazzato perché non riusciva neanche ad andare in bagno da solo senza l'aiuto di Anna. Lei lo aiutò a svestirsi e a prepararsi per una doccia. Langton era sprofondato nel silenzio, anche se le sue smorfie erano decisamente eloquenti. Andò in cucina a mettere la roba sporca in lavatrice e gli concesse un po' di privacy, ma lui, quando Anna tornò in camera da letto, era ancora lì seduto, con il solo accappatoio sulle spalle. «Di nuovo, non riesco ad alzarmi», disse, con il capo chino. «Non è strano. Santo cielo, sei appena tornato a casa.» Anna provò ad aiutarlo prendendolo sotto le ascelle, ma era troppo pesante; alla fine, riuscì a sollevarlo chiedendogli di protendersi in avanti e di adagiare il suo peso su di lei. Langton fece alcuni passi verso il box doccia, appoggiandosi con un braccio alle spalle di Anna e con l'altro, tentoni, alla parete. Aveva perso molto peso e, alto com'era, appariva di una magrezza scheletrica. Anna aprì il rubinetto, e lui si appoggiò alle pareti piastrellate. Per metterlo in posizione sotto il getto dell'acqua, Anna finì per farsi la doccia anche lei. Era la prima volta che aveva occasione di vedere le terribili cicatrici di Langton: una partiva dalla scapola destra e, attraversando il torace, arriva-
va fin quasi all'altezza della vita. L'altra andava da metà della coscia sinistra fino alla rotula e proseguiva lungo un bel tratto della tibia. Dovevano avergli messo centinaia di punti. «Bei ricamini, eh?» scherzò lui, mentre lei gli insaponava la schiena e lo aiutava a lavarsi i capelli. Fu faticosissimo tornare in camera da letto e infilargli il pigiama, e a cose fatte lui si abbandonò sul letto esausto. Anna provava una compassione e un amore da mettersi a piangere, ma si sforzò di chiacchierare allegramente mentre puntava la sveglia e si toglieva il trucco. Quando fu pronta per coricarsi lui già dormiva sopra il piumino, e lei dovette infilarsi a letto con caute manovre. Dopo aver spento la luce, si rese conto di essere anche lei esausta. Due volte, durante la notte, Jimmy dovette prendere gli antidolorifici prima di potersi placare un po'. Non disse una sola parola, dato che anche parlare era una sofferenza. Lei gli restò distesa accanto per un bel pezzo a rimuginare sulle responsabilità che si era assunta. Non si era mai illusa che potesse essere facile, ma non immaginava che sarebbe stata così dura. «Questa situazione sarà un bel banco di prova, per noi, eh?» disse lui, sommessamente, quasi le avesse letto nel pensiero. Anna ne fu sorpresa: credeva che stesse dormendo. Jimmy sollevò un braccio per permetterle di avvicinarsi. «Immagino che una scopata sia fuori discussione, vero?» domandò, e Anna percepì il suo sorriso pur senza vederlo. «In questo momento sì, sono troppo stanca... ma non credere di potertela cavare così troppo a lungo...» Lui rise. «Sono impaziente, non vedo l'ora di verificare se tutto funziona ancora come si deve. Per fortuna, quel bastardo non mi ha affettato il pisello...» Il mattino dopo, prima di andare al lavoro, Anna lo aiutò a vestirsi. Lo lasciò seduto in salotto a guardare la TV, con un vassoio di uova e pancetta. Il suo umore pareva migliorato, e le sorrise quando lei lo baciò prima di uscire. «Non farò tardi. Hai qualche desiderio particolare per la cena?» «Un pompino sarebbe fantastico.» Lei lo guardò male e richiuse la porta. Al commissariato, come al solito, Harry Blunt stava litigando con Brandon. Questa volta, la discussione verteva su quale fosse l'intervallo minimo
mai trascorso tra un arresto e il corrispondente processo: Blunt diceva trentasei giorni; Brandon, inflessibile, scommetteva su quarantasette. Dopo alcune telefonate, Blunt protese la mano per incassare il biglietto da venti sterline che gli spettava. Murphy si era dichiarato colpevole davanti al giudice delle indagini preliminari. Era sempre detenuto a Wandsworth; la data del processo era stata fissata, così com'era stato nominato l'avvocato che avrebbe difeso l'imputato in tribunale. Harry, come al solito, andò su tutte le furie per lo spreco di denaro pubblico, ma lo spettacolo doveva svolgersi secondo i canoni della legge. Una legge che, secondo Harry, andava rivista: con tutte le prove e le ammissioni di colpevolezza di cui disponevano, Murphy sarebbe stato da portare immediatamente davanti a un giudice e da condannare su due piedi. «Anzi, meglio: bisognava fargli subito un'iniezione letale! Bisogna liberarsi di questa feccia dell'umanità, invece di stiparla nelle carceri.» Stava per lanciarsi nell'ennesima tirata su un altro dei suoi argomenti preferiti - il sistema penitenziario - ma Brandon gli ingiunse di tacere: l'avevano già sentita, quella solfa. «Come sta Langton? Ho saputo che ha lasciato la Glebe House. È vero?» domandò Brandon. Langton si sarebbe infuriato, pensò Anna, al pensiero che la notizia fosse già di dominio pubblico. «Sta migliorando a vista d'occhio», rispose. «È davvero un superuomo», interloquì Harry, per poi attaccare con un'altra menata. «Sai quanto ha avuto il mio amico, per essere stato preso a pugni e a calci? Poveraccio, era assunto a salario intero da soli sei mesi: poi gli hanno tagliato metà stipendio per i sei mesi successivi e alla fine gli stronzi gliel'hanno tolto del tutto! Non ha ottenuto altro che venti sterline a settimana dalla Police Federation. Venti sterline! Non riesci neanche a farci la spesa! È uno schifo! Poveraccio... Non ricordo neanche come si chiama...» Brandon annuì, concordando stranamente con Blunt. «Io, amico, mi sono fatto un'assicurazione sanitaria privata.» Harry serrò le labbra. «Be', io non ho neanche quella, ma ho due bambini e un mutuo da pagare.» Si voltò verso Anna. «Langton ce l'ha l'assicurazione privata?» «Non lo so.» «Be', spero per lui che ce l'abbia... Resterà a casa per un bel po' di mesi! Chiederà la pensione di invalidità?» «Langton non è invalido», rispose seccamente Anna.
Brandon andò a parcheggiare il fondoschiena sulla scrivania di lei. «Un mio amico, un triatleta, è caduto dalla moto ed è rimasto paralizzato dalla vita in giù. È andato a farsi visitare dal medico legale, anche se sopra - di testa, intendo - era a posto, solo che la gamba era rimasta schiacciata. Be', adesso prende dei bei soldi, forse persino più di prima, come impiegato con mansioni amministrative a Hammersmith.» Anna si morse le labbra: quei due la stavano facendo proprio arrabbiare. «Escludo che sia invalido e posso assicurarvi che non è neanche malato di mente, perciò chiudete il becco. Siete due vecchie pettegole.» Brandon scrollò le spalle e se ne tornò alla propria scrivania, ma Anna colse chiaramente lo sguardo scettico che lui e Harry si scambiarono. Langton era seduto all'angolo bar della cucina, avendo scoperto che l'alto sgabello era per lui più comodo delle sedie. Anna aveva comprato dei filetti di tonno e patatine da cuocere a microonde e stava condendo l'insalata. Lui aprì una bottiglia di vino. «Ce l'hai l'assicurazione sanitaria?» gli domandò Anna. «Perché me lo domandi?» «Harry Blunt, oggi, ci ha raccontato di un suo amico...» «Chi? Harry "Corda Saponata" Blunt?» indagò Langton, con un ghigno. «Oggi diceva che non bisognerebbe neanche fare il processo a quelli che si dichiarano colpevoli, se esistono elementi di prova sufficienti.» «Giusto... Anzi, perché non impiccarli su due piedi?» commentò Langton, stappando la bottiglia. Anna rise a denti stretti. «È un tale pettegolo... È andato avanti per un pezzo a menarla sulle pensioni di invalidità e sulla miseria degli indennizzi che vengono pagati ai poliziotti...» «Avete parlato di me, vero?» Anna posò la pinza da insalata. «Mi hanno domandato come stavi.» «Ah, sì? E tu che cosa gli hai detto?» «Che stai migliorando rapidamente e che non hai alcuna intenzione di chiedere la pensione di invalidità.» «Ci vorranno ancora alcuni mesi, però. Lo sai, vero?» disse lui, mescendo il vino. Anna andò a sederglisi accanto. «Allora, ce l'hai l'assicurazione sanitaria?» «Sì, l'ho sottoscritta dopo la morte della mia prima moglie, soprattutto perché ero disgustato dall'ospedale in cui l'avevano portata, anche se lei
non è sopravvissuta abbastanza da rendersene conto. Ho pensato che, se mi fosse capitato qualcosa, non mi sarebbe piaciuto finire in un ospedale pubblico, dove si rischia di morire se solo si raccatta qualcosa da terra.» «Hai fatto bene.» Jimmy la guardò in faccia. «Non parlare di me, Anna.» «Non ho parlato di te: mi hanno solo domandato come stavi.» «E te ne sei tornata a casa con tutte queste curiosità su assicurazioni sanitarie private e pensioni di invalidità!» «Io ho detto soltanto che stai recuperando!» «Non devi dire neanche questo, okay?» «Sì, okay! Vuoi dell'insalata?» Dopo cena andarono a sedersi in salotto, e Langton tirò fuori un bloc notes. «Ho a disposizione un autista e un'auto», esordì, «perciò non toccherà a te portarmi in giro.» «Non è un problema, per me, accompagnarti in giro.» «Be', quando sei al lavoro non potresti comunque, perciò... Ecco come mi sono organizzato, per ora.» Anna diede un'occhiata alla lista compilata da Jimmy. Aveva fissato una seduta con un personal trainer a giorni alterni. Nelle giornate di pausa, aveva stabilito di svolgere le sedute di fisioterapia, oltre a tre massaggi la settimana, piscina, sauna e bagni turchi. «Hai intenzione di fare tutte queste cose ogni settimana?» domandò lei, sbalordita. «Sì, ho passato la giornata al telefono per organizzare tutto.» «Be', complimenti», disse Anna, sinceramente colpita. Entrando in camera da letto, Anna dovette fare attenzione a non inciampare nei pesi e negli attrezzi da ginnastica. Evidentemente, a chi glieli aveva consegnati a domicilio Jimmy aveva chiesto di spostare i mobili, al punto che ora la stanza sembrava più una palestra che una camera da letto. Le dava un po' fastidio che lui non gliene avesse parlato, ma decise di non dire nulla. «Domani mi arriva il vogatore», disse, massaggiandosi il ginocchio con un unguento puzzolente. «E dove diavolo intendi metterlo?» «In corridoio... È l'unico posto possibile. Vogando rinvigorirò le spalle, e il movimento del ginocchio rafforzerà i legamenti. Scusami per questa
robaccia... Puzza da far schifo!» Anna arricciò il naso. «Anche mio padre usava qualcosa del genere sulla sua spalla ferita.» «Sì, è una comune pomata riscaldante. Le ferite si sono richiuse bene, ma la pelle intorno alle cicatrici è tesissima e mi fa male ai muscoli del ginocchio.» «Vuoi che te la spalmi io?» propose Anna. «Meglio di no... la mia soglia di tolleranza del dolore è bassissima», scherzò Langton. Anna gli diede un bacio su una guancia: non si era ancora rasato e sembrava una grattugia. «Vuoi che ti faccia la barba?» «No, ho deciso di farmela crescere. Quando mi vedrai rasato, sarà il segno del mio ritorno in piena forma.» «Ah...» «Ti dispiace?» «No, sembrerai una specie di Rasputin...» Lui sorrise. «Già. Hai presente quanti colpi hanno dovuto sparargli per ucciderlo, quel bastardo? E avevano anche cercato di affogarlo e di avvelenarlo...» «Io vado a fare una doccia.» «Va' pure tranquilla.» Lui stava avvolgendo il ginocchio malandato con una fascia elastica. Anna aveva la spiacevole sensazione che Langton le avesse un po' invaso la casa e anche la vita. Aprì la porta del bagno e fu colta alla sprovvista dal deambulatore che vi trovò. Sulle mensole del bagno c'erano schiere di boccette e scatole di vitamine, pomate e pastiglie. Per prendere lo spazzolino da denti, dovette farsi largo in una selva di prodotti farmaceutici di ogni tipo. «Non durerà tanto. È una sistemazione provvisoria. Mantieni la calma», disse Anna a sé stessa, ma aveva l'impressione che le pareti del bagno le si stessero stringendo intorno. Anna non aveva ancora parlato con Langton della questione di Sickert, anche se continuava ugualmente a pensarci. Non pareva mai il momento giusto: erano troppo impegnati a gestire meglio che potevano quella convivenza. Il fatto che lei facesse ruotare la propria vita attorno lui, e che gli fosse di costante aiuto, cucinando, lavando eccetera, lo rese sempre meno esigente. Langton dava continue dimostrazioni di dedizione assoluta alla
causa del completo recupero. Ricominciarono anche a fare l'amore, e si dimostrò come sempre un amante generoso ed eccitante. Non è che facessero acrobazie, ma non diede mai l'impressione di soffrire o di essere a disagio. Langton, per quel che ne sapeva lei, non aveva contatti con nessuno, a parte il suo trainer. I capelli e la barba cominciavano a essere piuttosto lunghi: pur non assomigliando ancora a Rasputin, il suo aspetto era completamente cambiato. Indossava, perlopiù, tute e scarpe da ginnastica che, in caso di uscita, avrebbero contribuito a renderlo irriconoscibile. Non sembrava desideroso di andare a cena fuori o al cinema, ma una spesa, almeno, andò a farla, e Anna, tornando a casa una sera dal lavoro, trovò parcheggiata in corridoio una bicicletta. Lei sapeva che Jimmy, un tempo, aveva l'abitudine di tenersi in forma andando a pedalare sulla pista di Maida Vale, ma non capiva come avesse fatto a portare fin lì la bicicletta. Tra il vogatore e il velocipede, il passaggio era diventato davvero strettissimo. Ogni volta Anna andava a urtare con la caviglia contro i pedali, ed era inciampata nel vogatore così tante volte che ormai aveva un livido permanente sulla gamba. Un mucchio di posta ancora da smistare, che lui doveva aver recuperato a casa sua, occupava quasi per intero il tavolino da caffè. Questo era un altro motivo di leggera insofferenza, per Anna: dovunque andasse, lasciava la scia di scarpe e giacche della tuta. Lui comprava i giornali tutte le mattine, e in cucina se n'era già formato un discreto ammasso. Lei provò a disfarsene, ma Langton pretese di conservarli, perché c'erano degli articoli che gli interessavano. Sarebbe stata l'occasione ideale per parlare dei ritagli che lei aveva trovato a casa di lui alcune settimane prima, ma furono interrotti dal campanello. Era il fisioterapista di Jimmy, in orario per la seduta mattutina. A volte, quando Anna sentiva di essere al limite della sopportazione, lui si inventava qualcosa che la faceva sciogliere: tornava dalle sue sedute in palestra con un mazzo di fiori; in alcuni casi, le aveva fatto trovare la cena pronta al suo rientro dal lavoro, con uno sforzo che, unito all'ansia un po' infantile di essere lodato, finiva sempre per commuoverla. Raramente le chiedeva notizie sul lavoro; di Lewis e Barolli pareva essersi dimenticato (e se Anna li nominava, lui liquidava l'argomento con un cenno sprezzante della mano); non parlava d'altro che di vitamine, di minerali, di fisioterapia... Langton era ossessionato dal pensiero di ristabilirsi: era il suo chiodo
fisso, e non ammetteva strappi alla regola che si era prefisso. Anna sapeva che quel programma, alla fine, sarebbe costato una fortuna: già soltanto la tariffa del personal trainer era di cento sterline all'ora. I risultati, però, erano stupefacenti: aveva chiaramente riacquistato peso e una muscolatura invidiabile. Era molto orgoglioso dei suoi addominali e spesso si soffermava davanti allo specchio dell'armadio a rimirarseli. Al mattino, usciva in bicicletta quando lei ancora doveva farsi la doccia. Raggiungeva la pista di Maida Vale e percorreva all'incirca otto chilometri, dopo di che, sempre pedalando, se ne tornava a casa, dove si sbafava il suo porridge e la solita montagna di vitamine. Aveva ancora i suoi dolori, e tutti lo avevano avvertito di non esagerare con gli sforzi e con gli allenamenti, ma lui non sembrava intenzionato ad ascoltare nessuno. Al processo Murphy mancava una settimana. Vernon Kramer era già stato condannato e rispedito a Wandsworth, perché aveva chiesto di scontare la pena vicino alla famiglia e agli amici. Da qui, Harry Blunt aveva tratto il pretesto per un'altra delle sue invettive sulle carceri e la giustizia. «A quello schifoso hanno affibbiato la Rule 43, perché è un molestatore di bambini; e adesso se ne torna con i suoi vecchi compari a scambiarsi fotografie! Ora non la chiamano neanche più Rule 43, perché dicono che quei maledetti potrebbero offendersi. Tra un po' gli daranno anche le chiavi della cella, vedrete!» Brandon guardò Anna e abbozzò un sorriso. Cominciava a esserle simpatico, soprattutto da quando aveva deciso di rinunciare alla sua orribile acqua di colonia. Si avvicinò e le passò un appunto. «È arrivato ieri pomeriggio sul tardi, e tu eri già andata via», le disse. «Questa donna vuole assolutamente parlare con te, ma non ha voluto dire a che proposito. Quello è il suo numero di cellulare.» «Grazie.» Anna diede un'occhiata al post-it. «Beryl Dunn...?» Guardò quel nome, ci pensò su e alla fine capì che doveva essere la madre di Arthur Murphy. Compose il numero. «Parlo con la signora Dunn?» domandò Anna. «Sì.» «Sono l'ispettrice Anna Travis.» «Ah, sì.» «Mi hanno detto che mi aveva cercato...» «Sì, infatti.» «Vuol dirmi di che cosa si tratta?» «Non al telefono.»
«Be', allora mi pare complicato.» «È una cosa importante, ma io non ho intenzione di venire al commissariato.» Aveva un forte accento di Newcastle. «Se mi dice la ragione per cui vuole incontrarmi, possiamo fissare un appuntamento.» Ci fu un breve silenzio. «Pronto, Beryl? È ancora lì?» «Devo parlare con qualcuno di una cosa. È importante: lei è quella che ha arrestato mio figlio...» Anna attese in silenzio, mentre dall'altro capo del filo le giungeva il respiro affannoso di Beryl. «Sto parlando di Arthur Murphy», disse Beryl. Anna esitò, ma alla fine accettò di incontrarla l'indomani al caffè accanto al vecchio Peabody Estate, in Lillie Road. Subito dopo aver riagganciato andò a bussare alla porta dell'ufficio di Sheldon per informarlo di questi ultimi sviluppi. «Qualunque cosa abbia da dirti, non avrà effetto sulla sorte di suo figlio. Vacci con Brandon, all'appuntamento, così avrà qualcosa da fare», berciò Sheldon. Anna era perplessa. «Forse, sarà meglio che se ne resti in disparte. Quella donna mi pareva molto agitata e arriverà da Newcastle: non vorrei che si spaventasse e se la filasse.» «Può darsi, ma portalo ugualmente con te. Avete appuntamento in un bar... Mandalo dentro a prendere un tè. Meglio premunirsi. Se è pazza come il figlio, potresti aver bisogno di aiuto.» Brandon arrivò sul luogo dell'incontro tra Anna e Beryl Dunn quindici minuti prima dell'ora stabilita. Era seduto in un angolo e aveva davanti una portata di uova, pancetta, salsiccia e patatine impregnate di olio, non senza pane bianco e burro, con una tazza di tè al latte ad accompagnare il tutto. Alzò gli occhi quando Anna fece il suo ingresso nel locale. Lei si guardò intorno; a parte Brandon, c'erano due soli altri avventori, entrambi in tenuta da imbianchini e intenti a consumare lo stesso cibo disgustoso. Al vecchio dietro il bancone Anna chiese una tazza di caffè. Con poche cerimonie, il vecchio posò sul bancone una tazza dal bordo spesso con piattino. Lei versò i settanta pence, si guardò nuovamente intorno e scelse un tavolino per due a una distanza non eccessiva da Brandon. Poco dopo, entrò una donna che si diresse al banco e ordinò un espresso;
solo a quel punto guardò in giro e si avviò con prudenza verso il tavolo a cui era seduta Anna. Era alta sì e no un metro e sessanta ed era notevolmente sovrappeso, con le caviglie gonfie e pesanti strette dai cinturini dei sandali. Indossava un soprabito di un rosso vivace e aveva in mano una grossa busta di plastica. I capelli erano tinti di un biondo giallastro e le pendevano sulle spalle, con appena un principio di ricrescita grigio-nera alla radice. Sfoggiava un trucco pesante: matita nera molto marcata intorno agli occhi e ciglia appuntite dal denso mascara, fard sulle guance e un rossetto rosso scuro che si insinuava a rivoli nelle rughe che le circondavano la bocca. «Lei è l'ispettrice Travis?» disse sottovoce. «Sì.» «Io sono Beryl Dunn.» Si sedette diffondendo intorno a sé una densa zaffata di profumo dolciastro. Si fece scivolare il soprabito dalle spalle sullo schienale della sedia, mostrando una camicetta bianca tutta pizzi e svolazzi, con scollatura profonda che lasciava ampiamente scoperto il solco tra i grandi seni e una parte consistente di questi ultimi. Le mani piccole e grassocce dalle unghie smaltate di rosso erano ornate da numerosi anelli. Al polso aveva un orologio da uomo. Non disse altro finché non le fu servito l'espresso che aveva chiesto. Quindi, prese un tovagliolo di carta e lo sistemò a protezione della camicetta. «Non vorrei sbrodolarmi», disse. Sollevò la tazza e, dopo aver bevuto un sorso di caffè, tornò a posarla sul piattino. «Le ho detto che è mio figlio, ma in realtà l'ho disconosciuto da anni. È sempre stato un maledetto bastardo, sono felice di essermi sbarazzata di lui. Mi scoccia dover ammettere di essere stata io a metterlo al mondo. Anche suo padre era un maledetto bastardo, sono felice di non averlo più tra i piedi: se l'è portato via un cancro, ma avrei dovuto sparargli io, a quello stronzo. Qualunque pena gli daranno, Arthur se la sarà meritata. È un pervertito schifoso.» Prese un altro sorso dalla tazza, lasciando la traccia di rossetto sul bordo. «Io lavoravo nello spettacolo.» «Davvero?» Anna sorrise, sorpresa. «Facevo cabaret, giravo per i locali del Nord... Be', già è difficile reggersi in piedi; figurarsi far ridere quel pubblico di merda.» Si abbandonò a una risata rauca e sguaiata. Aveva tracce di rossetto anche sui denti, tutti falsi. «Lei ha chiesto se potevamo incontrarci...» suggerì Anna.
«Sì, volevo parlarle di Gail.» «Gail... Sua figlia?» «Sì.» Beryl Dunn si appoggiò all'indietro. «Mi ha creato anche lei un mucchio di guai, ma è una brava ragazza, davvero... Solo un po' stupida, mi spiego? Prima si è messa con un uomo che l'ha lasciata quand'era incinta della prima figlia, Sharon, ma almeno ha ricavato una casa popolare. Poi ha avuto il secondo figlio, Keith - un vero terremoto - più o meno un anno dopo, sennonché poi si è cacciata in una storia di droga ed è stata sfrattata, nonostante i due bambini, e allora è tornata a vivere con me.» Fece un'altra pausa per sorseggiare il caffè. «Non ho potuto tenerla lì a lungo. Io ho la mia vita privata, mi spiego? Comunque, questo risale a diversi anni fa. Di acqua sotto i ponti ne è passata.» Si umettò le labbra con la lingua. «L'ho sempre perdonata, per via di quello che le ha fatto Arthur: è andata dallo psicologo per anni. Per un certo periodo, quando stava a Londra - Hackney, per la precisione - ha avuto un po' di tranquillità, perché lui era in galera, ma quello stronzo, appena è uscito, è andato a cercarla. Gail, allora, è andata alla polizia... a chiedere protezione, perché glielo tenessero lontano.» Anna assentì. Queste cose le sapeva, ma non aveva ancora capito perché Beryl avesse chiesto di vederla. «Poi, ha cominciato a uscire con un poco di buono, un certo Vernon, che subito l'ha messa incinta! Si poteva sperare che avesse imparato la lezione, e invece no... Come le dicevo, non è esattamente la ragazza più sveglia del mondo...» «L'ho vista, la figlia più piccola», disse Anna. Si domandò se Tina potesse davvero essere figlia di Vernon Kramer. «Sì, Tina è un angioletto, ma Gail non voleva più avere niente a che fare con Vernon, che intanto sembrava avere delle mire sulla figlia maggiore di Gail, quel porco schifoso. Lei, allora, l'ha cacciato di casa dicendo che se si fosse riavvicinato a lei o ai bambini lo avrebbe fatto arrestare.» «Di cognome si chiama Kramer?» Beryl fece tintinnare il cucchiaino contro la parte esterna della tazza. «Non so come faccia di cognome, ma so che era amico di quell'altro stronzo di Arthur. Senta, ispettrice, la mia Gail sarà anche stupida, ma ha sempre avuto un cuore d'oro ed è stata una brava madre per i suoi bambini. Mi telefona, mi scrive, mi manda le fotografie, e ci siamo sempre tenute in contatto. Io le mando dei soldi, quando posso, e a Natale ci vediamo quasi sempre.»
Prese un tovagliolo e si pulì la bocca. «Qualche mese fa ho ricevuto una sua cartolina in cui diceva che si stava trasferendo nel New Forest con il suo ultimo fidanzato: aveva preso in affitto un posto e mi ha pregato di non farlo sapere ad Arthur, che intanto era stato diffidato dall'avvicinarla... E figurarsi se io glielo andavo a dire! Le ho regalato un telefonino per Natale, così potevamo riprendere a sentirci regolarmente, dato che lei aveva avuto dei problemi con il telefono fisso per via di alcune bollette non pagate. Comunque, ho saputo da poco che è stata mollata anche dal tizio con cui era andata a vivere nel New Forest, e adesso vive con un altro uomo...» Anna assentì di nuovo. «Quando sono andata a trovarla sono rimasta scioccata», riprese Beryl. «Io non sono razzista, ma con un nero non ci sono mai andata. Credo sia un tipo a posto... Stava pulendo il cortile e doveva decorare il bungalow, ma Gail diceva che la puzza dei maiali le dava la nausea.» «Dunque, lei è andata a trovarla...» «Sì, è stato allora che l'ho visto... Joseph Sickert. Gail aveva deciso di usare il suo cognome... Che scemenza...» Beryl si tamponò delicatamente gli angoli degli occhi. «Poi mi ha telefonato e mi ha detto che anche lei, ispettrice, era andata a trovarla, che le aveva dato la foto di Vernon, e che Arthur era stato arrestato. Diceva che lei è stata molto gentile.» «Lei, dunque, crede che Vernon Kramer sia il padre di Tina?» «Credo di sì. Come dicevo, non so come si chiami di cognome... Era un amico di Arthur... Lei continua a restare incinta perché non vuole usare contraccettivi. Vorrei tanto averli usati io, ma siamo dei bravi cattolici...» «Gail mi è sembrata simpatica», disse Anna a bassa voce. Intanto, però, aveva capito che la ragazza le aveva mentito sulla vera natura del suo rapporto con Kramer. Evidentemente, se lui era il padre della bambina più piccola, Gail doveva averlo visto più di quell'unica volta in cui lui si era presentato a casa sua insieme ad Arthur Murphy. Anna si rese conto, intanto, che la signora Dunn era andata avanti a parlare. «Mi scusi... come dice?» «Dico che ho paura che le sia successo qualcosa di male. Il telefonino è spento; al bungalow non c'è nessuno; non so dove sia. Sono molto preoccupata.» «A quando risale l'ultimo vostro contatto telefonico?» Beryl si sforzò di ricordare la data esatta. Più o meno nel periodo in cui anche Anna era andata a trovare Gail. «In genere, non resta mai così a lungo senza farsi viva, anche perché, da-
to che lei non ha un recapito fisso, spediscono le sue cose a me e io poi gliele faccio avere: gli assegni del sussidio per i bambini, cose così... Ormai, però, è un po' che non la sento. Non sapevo con chi parlarne, se presentare denuncia o altro... Sarò sincera: non voglio aver nulla a che fare con la polizia. Senza offesa, ho già fatto un paio di esperienze che bastano e avanzano.» «Che cosa vuole che io faccia?» domandò Anna. «Be', potrebbe rintracciarla e dirle di chiamarmi, così la smetto di stare in ansia e le mando i suoi soldi.» «Va bene. Vedrò di fare il possibile.» La mano grassoccia di Beryl strinse quella di Anna. «Grazie, cara.» Beryl Dunn aveva tre matrimoni alle spalle e una storia di prostituzione che risaliva agli anni Sessanta. Aveva anche scontato sei mesi di carcere per sfruttamento della prostituzione e per aver gestito un bordello. Anna e Brandon avevano parlato con Sheldon sul da farsi riguardo alle richieste di Beryl Dunn e avevano accennato al fatto che la piccola Tina poteva essere figlia di Vernon Kramer. «Passate la pratica ai servizi sociali e alla polizia della località in cui risulta residente. Non possiamo fare altro», disse Sheldon. «Potrebbe essere dovunque. Forse saranno loro a denunciare la scomparsa... Se no, ci penserà la madre.» Anna guardò Brandon. «I figli di Gail erano nell'elenco dei bambini a rischio, nell'ultimo luogo in cui risiedeva... e questo non mi stupisce, se davvero uno di loro è figlio di quello schifoso di Kramer. Sono preoccupata, soprattutto perché Gail non ha incassato i soldi del sussidio.» Sheldon sospirò. «Anna, non siamo i servizi sociali, e Gail non è in libertà vigilata. Ripeto: passare la pratica alla polizia locale. Se è sparita dalla circolazione, avrà probabilmente avuto le sue ragioni.» Anna tornò alla sua scrivania, compilò il rapporto per gli archivi e si mise in contatto con la stazione di polizia della località in cui Gail abitava. Alzò gli occhi e vide Harry Blunt appoggiato alla scrivania. «Sei preoccupata per lei?» «Sì. Non è facile darsi alla fuga con tre bambini... Tanto più che sembrano andati via in tutta fretta.» «Si farà viva quando avrà bisogno di soldi, come al solito... a meno che tu non sia preoccupata per il rasta con cui viveva...» «Mi inquieta di più il legame con Vernon Kramer, dal quale tra l'altro
Gail ha detto di essere stata minacciata.» «Adesso, però, lui - come Murphy, del resto - è in galera: non è in condizioni di nuocerle. Certo, se fosse in libertà, sarebbe un problema... ma così no.» Tornando a casa, Anna decise che ne avrebbe parlato con Langton: aveva già aspettato fin troppo. Con sua grande sorpresa, però, non lo trovò. Langton non aveva neanche lasciato un biglietto per spiegare dove fosse. Nell'armadio c'erano due completi e altre camicie. Anna si fece la doccia e indossò una vestaglia, dopo di che cominciò a interrogarsi sulla cena: erano le otto passate. Andò in cucina e si mise a svuotare la lavastoviglie, dato che Langton non si degnava mai di farlo. Proprio in quel momento, la porta d'ingresso si spalancò rumorosamente. «Sei in casa?» gridò Jimmy. «Sono in cucina!» rispose lei. Lui fece la sua comparsa in tuta e scarpe da ginnastica, ma senza barba e con i capelli corti. «Eccomi qui», disse, sorridendo. «Santo cielo! A che cosa dobbiamo questa metamorfosi?» Langton uscì dalla cucina dicendo: «Ho fissato la data del mio esame davanti alla commissione di controllo della polizia». Lei lo seguì. «Per quando?» «Domani mattina.» «Domani?!» «Sì, avevo presentato domanda la settimana scorsa.» «Perché non me ne hai parlato?» «La data precisa l'ho saputa solo oggi. Non aveva senso parlarne, dato che potevano anche passare settimane o mesi.» «Ti senti pronto?» Langton piantò le mani sui fianchi. «Non avrei inoltrato la domanda, se non mi fossi sentito pronto. E poi: non ti sembro abbastanza in forma?» «Sei in forma smagliante, ma non è che stai accelerando un po' troppo i tempi?» «Ho accelerato, ma non troppo. Ho voglia di tornare al lavoro. La mia assicurazione non mi coprirà ancora a lungo...» Anna sorrise. «Be', se tu credi che sia il momento giusto... Nessuno meglio di te può saperlo.» Lui le prese il viso tra le mani e la baciò. «Non essere così preoccupata.
So quel che faccio.» La baciò di nuovo e andò in camera da letto. «Devo solo decidere quale vestito mettermi, e mi interesserebbe avere una tua opinione.» Anna tornò in cucina. «Preparo della pasta», gli gridò, ma poi, tendendo l'orecchio, sentì il rumore della doccia. Scosse la testa. Non poteva credere che lui, senza mai fargliene parola, avesse presentato domanda per sottoporsi a quell'esame di controllo attitudinale. Anna sapeva che si trattava di una prova rigorosa. Sarebbe stato valutato approfonditamente sia sul piano delle facoltà intellettuali e psicologiche sia su quello della forza e dell'abilità fisiche. Il medico legale avrebbe dovuto decidere della sua idoneità a riprendere il lavoro. Riempì una pentola d'acqua e la mise sul fuoco a bollire; aprì un pacco di spaghetti; prese alcuni barattoli di pomodori pelati. Cominciò ad affettare la cipolla per il soffritto, a cui aggiunse dell'aglio e altre spezie. Quando Langton si unì a lei, fresco di doccia, il sugo stava sobbollendo, e la pasta era pronta per essere scolata. Le diede un bacio sul collo. «Che buon profumino!» Lei si voltò e gli sorrise. «E tu stai benissimo!» «Mi sento benissimo, infatti.» Lui aprì una bottiglia di vino. Anna si era quasi dimenticata di quant'era attraente. Aveva avuto quell'aspetto rude per così tanto tempo, con i capelli scarmigliati e la barba lunga... ma ora era tornato a essere il Jimmy che lei conosceva. Anzi, era migliorato, dato che intanto aveva smesso di bere. Lui posò due bicchieri sulla tavola e li riempì. Porse un bicchiere ad Anna e disse: «Alla mia, e all'esito dell'esame di domani!». «Alla tua», disse Anna. Brindarono e bevvero. Neanche quella era l'occasione giusta per parlare di Sickert o dell'aggressione subita da Langton. 7. Anna attese finché lui non si fu vestito. Aveva messo in conto di arrivare in ritardo al lavoro: quel giorno c'erano cose più importanti a cui pensare. Lui aveva cambiato idea sull'abito, la camicia e la cravatta almeno tre volte. Dato che l'esame prevedeva tutta una parte prettamente fisica, Langton mise in una borsa anche una tuta da ginnastica pulita e una maglietta. Anna si offrì di accompagnarlo, ma lui aveva già chiamato un'auto e pretese che lei se ne andasse, per dargli il tempo di calmarsi. Langton aspettò che si fosse richiusa la porta alle spalle, prima di pren-
dersi una dose doppia di antidolorifici. Aveva cominciato da un pezzo ad aumentare gradualmente il dosaggio: con i dolori lancinanti che ancora provava, soprattutto al mattino, era assolutamente indispensabile. Anna aspettò tutta la mattina la telefonata di Langton. Non aveva idea di quanto potesse durare l'esame. Provò a fargli uno squillo sul cellulare, ma lo trovò spento. Passò l'intero pomeriggio, e Anna non aveva ancora avuto notizie; considerò l'opportunità di telefonare a Lewis, per chiedergli se sapesse qualcosa, ma poi rinunciò. Alla fine, chiese a Harry Blunt del collega invalido di cui lui aveva parlato. Provò ad assumere un contegno indifferente, quando domandò a quali test Langton si sarebbe dovuto sottoporre quando avesse deciso di affrontare il giudizio della commissione di idoneità. Harry si strinse nelle spalle. Non lo sapeva con precisione. «L'aspetto principale dell'esame credo consista nella verifica delle facoltà intellettuali e del controllo dei nervi: se si resta feriti gravemente in servizio, ci sono sempre pesanti ripercussioni a livello psichico. Ti fanno anche un po' correre e saltare, devi sollevare dei pesi e dimostrare di essere valido fisicamente... Sinceramente, però, non saprei dire. Langton ha già recuperato?» «No, era una semplice curiosità», tagliò corto Anna, scrollando le spalle. «Vuoi che mi informi?» le domandò Harry. «No, no, è ancora presto.» Non avrebbe voluto mentirgli, ma ricordò di aver promesso a Jimmy che non avrebbe parlato di lui con i colleghi di lavoro. «Come va con lui?» «Abbastanza bene da trasformare la mia vita in un disastro», scherzò lei. «Mia moglie fa della mia vita un disastro tutte le sere. Uno dei miei figli soffre di asma e a volte deve superare certi terribili attacchi da solo. Siamo stati più spesso al pronto soccorso che al ristorante.» Harry andò avanti a parlare dell'asma del figlio, di quanto il ragazzino fosse coraggioso e, d'altra parte, di una testardaggine esasperante. Anna sorrise e scrollò il capo. Anche Langton era testardo, ma Anna sperava che si decidesse a telefonarle. Chi più di lei sapeva quant'era importante per lui passare quell'esame? La giornata di lavoro si concluse, e Anna tornò a casa: non sapeva neanche lei come avrebbe reagito a un'eventuale bocciatura di Langton. L'enorme mazzo di fiori era posato sul vogatore. C'era attaccato un bi-
gliettino con su scritto il nome di Anna. Aprì la busta. Era una cartolina d'auguri di compleanno, ma lui aveva coperto la scritta stampata con il suo messaggio: «Per la mia infermierina dai capelli rossi». Si morse le labbra; era un gesto così semplice, ma così inaspettato, da parte sua... Nel lavandino della cucina c'era una bottiglia di champagne dentro un secchiello pieno di ghiaccio. Lui si stava facendo la doccia. Anna aprì la porta del bagno. «Perché non mi hai telefonato?» Lui si voltò, con i capelli pieni di schiuma, e la afferrò, trascinandola sotto il getto d'acqua. Lei provò a divincolarsi, ma lui non mollò la presa e la baciò con passione finché anche lei non si rilassò e lo abbracciò a sua volta. Sapeva che il vestito le si sarebbe ristretto e che le scarpe erano rovinate, ma non aveva importanza. Langton aveva superato il test fisico e aveva trascorso il pomeriggio con il medico legale, che, come aveva scoperto, era una sua vecchia conoscenza. Dopo l'esame erano andati in un bar a bere un paio di bicchieri. «Sono di nuovo in pista, Anna! Rientro al lavoro la settimana prossima!» Era così pieno di energia ed entusiasmo che Anna non se la sentì di rimproverarlo per non averla chiamata nel pomeriggio. Lui le raccontò tutto più volte: le domande, le prove psicologiche e la disinvoltura con cui le aveva superate. «Non avevano speranze di scoprirmi», le disse. Anna colse l'occhiata fulminea che lui le rivolse dopo aver parlato. «In che senso?» domandò Anna. «No... niente.» Evidentemente rimpiangeva di essersi lasciato sfuggire quella frase. «"Scoprirti"? Ho capito bene? Hai detto che non avevano speranze di scoprirti?» «Oh, Cristo! Intendevo dire soltanto che non hanno capito che il mio ginocchio non è così in forma come dovrebbe.» «Che cosa ti hanno fatto fare?» Lui sospirò spazientito. «Mi hanno fatto correre su un tapis roulant; poi ho vogato per un po' mentre mi monitoravano il cuore eccetera...» «E ti faceva male?» «Altroché! Ma quante volte mi capiterà di dover remare per inseguire un criminale?» Scoppiò a ridere. Anna inspirò ed espirò a fondo. «Devo parlarti.» «Lasciamo perdere, Anna, ti prego. Finiamo lo champagne e andiamo a
letto.» «Non si tratta del tuo esame. Avrei dovuto parlartene già da qualche settimana, ma ho sempre rimandato... Non mi sembrava mai il momento giusto, e così...» «Vuoi che me ne vada?» L'espressione di Jimmy le fece venir voglia di abbracciarlo. «No. Certo che no.» «Di che cosa si tratta, allora? Di qualcosa che ho fatto?» «No. Se mi lasci parlare un attimo, te lo spiego. Ha a che fare con il caso a cui ho lavorato di recente. Si tratta di un certo Sickert.» «E chi diavolo sarebbe?» «Ti prego, non interrompermi, e ascolta.» Langton versò dell'altro champagne e si sedette tenendo mollemente il bicchiere tra le mani, mentre Anna gli illustrò in breve la questione: gli disse dell'interrogatorio di Gail Sickert, della fotografia che questa aveva dato ad Anna e della seconda visita di Anna al bungalow. A questo punto della ricostruzione, si alzò e aprì un cassetto, da cui prese il suo piccolo registratore audio. Tornò a sedersi di fronte a lui, che aveva i piedi appoggiati al tavolino e sorseggiava beatamente champagne. Ascoltava... tra uno sbadiglio e l'altro. Anna continuò a parlare sommessamente, senza guardarlo. Gli raccontò di come, all'arrivo di Sickert, lei fosse praticamente fuggita dal bungalow. «E adesso ascolta quel che mi ha urlato dietro. Si fa un po' fatica a capire, ma ascolta bene.» Premette il tasto PLAY. Langton si sporse in avanti. Lei lo guardò quando la registrazione giunse al punto in cui Sickert pronunciava le sue minacce. Anna fermò il nastro. Lui si riappoggiò all'indietro e le fece cenno di farglielo riascoltare. Anna riavvolse, e riavviò. Langton scolò lo champagne e posò il bicchiere sul tavolino. «Descrivimelo», disse, tranquillo. Anna lo fece, e Langton cominciò ad annuire. «Può essere che qualcuno della tua squadra abbia parlato di noi? O di me?» «No, ho domandato, ma è impossibile che Arthur Murphy e Vernon Kramer sapessero della nostra relazione.» «Questo Sickert ha dei precedenti?» «No, ho solo scoperto, per caso, il suo nome di battesimo - Joseph - ma nei database non risulta nulla.»
«Tu come le spieghi quelle parole?» Anna si strinse nelle spalle. «Poteva essere una minaccia generica che per coincidenza ha colto nel segno, e io me n'ero quasi convinta, ma poi...» «Poi che cosa?» «Poi sono scomparsi in tutta fretta... Gail, i suoi tre figli e Sickert. Ieri la madre di Gail mi ha telefonato per chiedermi di incontrarla. Ci siamo date appuntamento in un bar. È preoccupata per la figlia e per i nipoti, perché non si sono più fatti sentire. Abbiamo avvertito la polizia locale, ma non sappiamo se i servizi sociali si daranno da fare per trovarla. Sua madre voleva che denunciassi la scomparsa, ma le ho detto che non posso farlo. Dice che è lei, da Newcastle, che si occupa di inoltrare a Gail gli assegni dei sussidi, e che adesso non sa dove mandarle i soldi.» Langton restò in silenzio. «Non aveva soldi, abitava in una topaia ed era in arretrato con l'affitto. I figli sono segnalati negli elenchi dei bambini a rischio di tutti gli enti di assistenza sociale tra Newcastle e Londra. Gail era riuscita a ottenere una diffida a carico di suo fratello Arthur Murphy, che l'aveva molestata quando era una bambina.» «Ora, però, il fratello è in gabbia...» «Sì. Il processo è imminente, ed è difficile che sconti meno di dodici anni, questa volta. Vernon, da parte sua, si è beccato diciotto mesi per aver nascosto Murphy e per aver violato il regime di libertà vigilata, sicché starà in galera per un paio di anni. La situazione è intricatissima. Vernon è il padre della figlia minore di Gail, la quale ha scoperto che lui aveva delle mire sulla figlia maggiore e l'ha cacciato di casa. Deve averlo conosciuto tramite il fratello: ha anche lui precedenti per reati sessuali ed è un essere nauseante... Comunque, a un certo punto, suo marito l'ha mollata, e lei si è messa con Sickert. Tutto questo risale al massimo a un anno fa: la figlia minore di Gail porta ancora il pannolino e avrà all'incirca diciotto mesi. Naturalmente, la polizia locale ci avvertirà se emergeranno elementi di contatto con la nostra indagine.» Langton rimase in silenzio, nonostante Anna si fosse interrotta. Lei protese un braccio per sfiorargli il braccio, ma lui lo ritrasse. «Sono stata così tante volte sul punto di dirtelo, ma poi... Comunque, quella frase potrebbe essere una semplice coincidenza. Che cosa ne dici?» «Non saprei...» si limitò a rispondere Langton. Anna si alzò e aprì la sua valigetta, estraendone i ritagli di giornale che aveva prelevato nell'appartamento di lui.
«Volevo parlarti anche di questi.» Posò la cartelletta sul tavolino davanti a lui, ma non la aprì; gli parlò, invece, dei suoi incontri con Lewis e Barolli. «Ho cercato di farmi spiegare alcune cose, e loro ci hanno messo una vita per farsi risentire, dicendo che erano impegnatissimi sul lavoro, ma io ho avuto la sensazione che non ne volessero sapere nulla: sostenevano che tu stavi facendo pressione perché rintracciassero il tuo aggressore e... Insomma, mi hanno detto che non potevano comportarsi da giustizieri... Io ero sbalordita: con tutto quello che ti era successo, mi pareva incredibile che nessuno si stesse dando da fare per rintracciare i colpevoli. Lewis dice che hanno di certo già lasciato il paese.» Avrebbe voluto sentire l'opinione di Jimmy, ma lui continuò a tacere, e allora riprese. «Quando sono andata a casa tua a prendere la biancheria pulita per te, ho trovato questi ritagli. So che ne hai raccolti altri, da quando sei tornato a casa.» Lui la guardò storto. «Non stavo curiosando: li ho trovati nel cassetto da cui ho preso il tuo pigiama.» Tacque per alcuni istanti, ma poi scattò in piedi. «Oh, Cristo! Perché non dici niente?» Lui, per tutta risposta, scaraventò contro il muro il bicchiere di champagne, rompendolo e spargendone il contenuto sulla carta da parati. «Bravo! Proprio una bella reazione!» sbottò lei, sdegnata. «Che cazzo vuoi che dica?» grugnì lui, sollevandosi in piedi di scatto con una smorfia di dolore. «Mi tieni all'oscuro di cose importanti come se io fossi un ritardato mentale, incapace di fare i conti con certe storie... E questi...» aggiunse prendendo la cartelletta dei ritagli dal tavolo, «sono solo una mia ricerca personale, nulla di strano, nulla di particolare, semplici informazioni da conservare per fronteggiare la situazione disastrosa in cui versa la polizia metropolitana di Londra. Quegli stronzi di Lewis e Barolli possono stare tranquilli: neanch'io ho voglia di mettermi a fare il giustiziere per catturare quei figli di puttana e non ho mai preteso che agissero contro la legge. Gli ho chiesto soltanto di tenermi aggiornato, perché la questione non è chiusa... almeno per me. Io non farò finta che nulla sia accaduto. Perché, altrimenti, mi sarei dannato per rientrare al lavoro al più presto? Voglio il bastardo che mi ha ferito e lo troverò, ma - Cristo! - non ho intenzione di affittare la maschera e il mantello.» «Non ho mai detto...»
«Ecco, proprio questo è il punto: non me l'hai detto. Hai tenuto il becco chiuso.» Fece un cenno verso la cartelletta. «Perché diavolo non me ne hai mai parlato?» «Perché non ce ne sono mai state le condizioni! Tu a momenti morivi!» «Credi che non lo sappia?» «Forse, però, non sai quale effetto ha avuto il tuo ferimento su di me e su tutte le persone che ti conoscono. Avevo paura per te.» «Paura?» «Sì, non volevo che questi problemi potessero turbarti.» «Turbarmi?» «Sì! Io volevo soltanto che ti rimettessi in salute. Non ho mai pensato ad altro, e se ho sbagliato... be', scusami, okay? Scusa se ho cercato di proteggerti.» «Proteggermi da che cosa?» Anna scoppiò in lacrime. «E adesso perché diavolo piangi?» «Perché tu mi fai sentire come se io avessi fatto qualcosa di male, mentre io ho solo provato a fare di tutto perché tu stessi bene e tornassi in piena forma.» Lui la squadrò con una rabbia tale da fargli pulsare il muscolo della guancia. «Non sarò mai più in piena forma. Dovrò fare i conti con queste ferite per il resto dei miei giorni.» Si aprì la camicia a mostrare la cicatrice. «Dovrò vedere questi segni per sempre. E poi ci sarà comunque il dolore al ginocchio a mantener vivo il ricordo. Il cervello, però, non me l'hanno affettato, Anna: questa mia testa di legno non ha riportato danni, e il fatto che tu vada in giro in punta di piedi, temendo che io sia incapace di affrontare...» Anna si voltò e, sbattendo la porta, si ritirò in camera, buttandosi sul letto a faccia in giù. Lui spalancò la porta con un calcio. «Non ho ancora finito. Non puoi andartene così mentre sto parlando!» «Io ho finito!» gridò Anna. «Ah, davvero? Nel senso che non c'è altro che, secondo te, io non sono in grado di affrontare?» Anna si voltò di scatto. «Ti dirò quel che io non sono più in grado di affrontare: sei uno stronzo egoista e ingrato e pensi sempre e solo a te stesso. Mi sono presa le tue secchiate di merda per... quante settimane? Non posso neanche muovermi in casa mia, ma mi sono mai lamentata? Eh? E davvero
mi sono sforzata di prendermi cura di te, di proteggerti. Non volevo parlarti delle cose che ho tirato fuori stasera per un'unica ragione: non volevo farti preoccupare.» Lui stava per interromperla, ma lei gli tirò addosso un cuscino. «Prova per un secondo a pensare a me; pensa a quello che ho passato io. Dubito che tu ne sia capace, perché tu pensi unicamente a te stesso!» «Be', adesso sto pensando a te! Prima sparisco dalla tua vita, meglio sarà per entrambi!» «Benissimo... va' pure. Fa' sino in fondo quel ti pare, come hai sempre fatto.» Langton gettò i propri vestiti in una valigia. Lei restò a guardarlo per alcuni minuti, dopo di che se ne andò in cucina. Si preparò una tazza di caffè e si sedette nell'angolo bar, ad ascoltare i rumori che provenivano dalla stanza da letto. Dopo un quarto d'ora circa, lui comparve sulla soglia. «Il resto vengo a prenderlo domani.» «Come vuoi.» Langton chiamò un taxi e gettò sul tavolino da caffè le chiavi della casa di Anna che aveva usato fino a quella sera. «Non ti serviranno per entrare e far portar via questi catafalchi? La bicicletta, il vogatore...» «Ti farò sapere quando potrò trasferirli da me.» Detto questo, se ne andò. Le mensole del bagno dove lui teneva le medicine erano deserte. Anna era scioccata, non tanto per il vuoto improvviso, quanto per l'attenzione con cui lui, nonostante l'accesso di rabbia, si era ricordato di portarle via tutte. Aveva lasciato dei calzini e un paio di scarpe, la sua roba sporca nella cesta del bucato, alcune camicie e un completo. Anna ebbe l'impulso di prendere un paio di forbici e fare tutto a brandelli, ma si limitò a sbattere con violenza l'anta dell'armadio e andò a ripulire i resti del bicchiere di champagne infranto da Langton contro il muro. Versando le schegge raccolte nel bidone della spazzatura in cucina, vide un certo numero di boccette di medicinali vuote. Le recuperò per esaminarle: antidolorifici di tutti i dosaggi e le varietà possibili, acquistati da farmacisti diversi. Ributtò tutto nel bidone, chiuse il sacchetto e lo posò davanti alla porta d'ingresso per andare a gettarlo nel cassonetto la mattina dopo. Anna trascorse una nottata terribile. Non riuscì a dormire, ma non perché le venisse da piangere: più si girava e si rigirava, più cresceva in lei la furia
per come si era comportato Jimmy. Non lo avrebbe chiamato di certo; era sicura che si sarebbe fatto sentire lui, non appena avesse avuto modo di riflettere su quella situazione, e si sarebbe scusato. Lei avrebbe aspettato, perché non riteneva di essersi comportata male: l'unica sua colpa era di aver messo la guarigione di Langton davanti a qualsiasi altra cosa. Lui, invece, da egoista, non aveva pensato a nient'altro che a sé stesso. Be', aveva ottenuto quel che si era prefisso: era stato reintegrato a capo della squadra Omicidi. La notizia sarebbe sicuramente comparsa sulla «Police Gazette» e la settimana successiva gli avrebbero affidato una nuova indagine. Il processo ad Arthur Murphy si sarebbe concluso entro breve, e anche lei avrebbe avuto un nuovo caso di cui occuparsi, diverso da quello di Langton. Se anche lui si fosse inginocchiato ai suoi piedi implorandola di collaborare con la sua squadra, avrebbe rifiutato: non voleva più lavorare con Langton. Anzi, alle quattro del mattino era in preda a una tale furia che decise di prendere una valigia e di sbatterci dentro tutta la roba che lui aveva lasciato. Dopo di che andò in corridoio e la scaraventò sul vogatore. Quando fu di nuovo a letto, decise di chiedere aiuto a Harry per portar via di lì quella roba e scaricarla a casa di Langton. Prese un po' a pugni il cuscino e si rannicchiò sotto il piumino. Fu la sveglia a riscuoterla di soprassalto. Allungò una mano per zittirla e restò un momento lì distesa con il cuore che le batteva forte. Era quel silenzio a metterla in agitazione... Anna si arrese e scoppiò in lacrime. Era finita. Jimmy se n'era andato, e lei già sentiva la sua mancanza. Arthur George Murphy si era preso l'ergastolo, con un minimo di quindici anni da scontare a Parkhurst, per l'omicidio di Irene Phelps. La madre di Murphy, Beryl Dunn, sia pur seminascosta in fondo all'aula, aveva presenziato alla lettura del verdetto. In tribunale erano giunte anche tre colleghe di Irene, per vedere in faccia lo spudorato assassino dell'amica. I genitori di Irene avevano pianto, tenendosi per mano. Murphy non aveva dato il minimo segno di pentimento e aveva scrollato le spalle, all'interno della gabbia, come se la sentenza, per lui, non avesse significato. Mentre Anna lasciava il tribunale, Beryl Dunn si affrettò a raggiungerla. «Mi scusi... Salve.» Anna l'aveva notata, in precedenza, ma non se l'era sentita di andare a salutarla. «Ancora non ho avuto notizie di Gail», disse a voce alta. Aveva gli stessi abiti che indossava in occasione del loro incontro al bar, e il trucco sem-
brava semplicemente ridipinto sopra quello vecchio. «Lei è riuscita a sapere qualcosa?» Anna vide Brandon che usciva dal tribunale ed ebbe un'esitazione. La signora Dunn riprese. «Sa, non si è proprio più fatta sentire... Niente di niente... Dev'essere successo qualcosa.» «Ho passato tutte le informazioni del caso alla polizia della località in cui Gail abita e sono certa che avranno già avvertito i servizi sociali.» «Lei ha denunciato la sua scomparsa?» «No, le ho già detto che tocca a lei presentarla.» «C'è qualcosa che non va! Si è sempre fatta viva, e io ho i suoi soldi e i suoi assegni. Perché non dovrebbe farsi sentire per farseli mandare?» «Signora Dunn, se davvero crede che possa essere successo qualcosa di male, allora...» «Sì, ne sono sicura.» «Allora deve presentare denuncia.» «Oh, al diavolo!» disse, e se ne andò. A quel punto, Anna fu avvicinata dall'ex marito di Irene, che si presentò e la ringraziò. Era alto e decisamente magro, con i capelli biondastri e non foltissimi, e indossava un completo blu scuro. «Mi chiamo Kenneth Phelps», disse, titubante, come se il suo nome potesse essere motivo d'imbarazzo. «Come sta sua figlia?» domandò Anna. «Poco alla volta, Natalie si sta abituando alla nostra casa nel Devon, ma la situazione, come può immaginare, non è delle migliori: la madre le manca tanto, ovviamente. C'è una psicologa che l'aiuta, ma ha gli incubi tutte le notti. I nonni vengono a trovarla appena possono. Alla fine, farà nuove amicizie a scuola, ma al momento viviamo alla giornata.» Anna lo guardò allontanarsi in direzione dei genitori di Irene: perlomeno, non era da solo. All'esterno del tribunale, Harry Blunt fece sobbalzare Anna posandole inaspettatamente una mano su una spalla. «Vuoi un passaggio?» «Sì, grazie. Quello è l'ex marito di Irene Phelps, con i genitori di lei», disse, guardando la loro auto che si allontanava. «Lo so», disse lui, e subito riattaccò: «Quel bastardo si è preso un minimo di quindici anni, ma probabilmente ne sconterà di meno. In ogni caso, sarà fuori al più tardi quando la figlia di Irene Phelps avrà ventisette anni. È lei la vera condannata all'ergastolo».
«Ho cambiato idea, Harry. Sarà meglio che io faccia due passi. Grazie comunque.» «Come vuoi.» Fece per andarsene, ma poi si fermò. «Ah! Ho saputo che Langton è di nuovo in pista... Incredibile! Pensavamo tutti che fosse spacciato... È un duro, eh?» Lei annuì e si allontanò. Le era passata la voglia di chiedere a Harry di aiutarla a portar via gli attrezzi da ginnastica. «È stato un piacere lavorare con te, Anna!» le gridò dietro quando fu a una certa distanza. Lei si voltò e si sforzò di sorridere. «Grazie, Harry.» Anna sapeva che sarebbero passati alcuni giorni prima che le venisse assegnata una nuova indagine. Decise di farne un uso proficuo: magari avrebbe trascorso il weekend in uno stabilimento termale per prendersi un po' cura di sé. Cercò di non pensare a Langton, ma era difficile con l'appartamento ancora invaso dalla sua roba. A casa trovò la segreteria telefonica che lampeggiava: con il cuore in tumulto andò ad ascoltare il messaggio, sperando che fosse lui. Era Brandon, invece, che le domandava dove fosse finita dopo il processo. C'era un secondo messaggio: Mike Lewis, che voleva congratularsi con Langton; aveva appena saputo la notizia, che si stava spargendo come un incendio nella prateria! Anna cancellò i messaggi e sussultò, sentendo il trillo del campanello. A suonare era stato un piccoletto indiano, con un orribile maglione a strisce. Mostrò ad Anna l'ordine di ritiro e di consegna. Lei guardò quel poveraccio che, a rischio di un'ernia, portò via bicicletta e vogatore. Disse che non poteva portar via anche la valigia, perché non era scritto sull'ordine di ritiro. Anna prese una banconota da dieci sterline dalla borsetta e gliela porse. «Le dispiacerebbe lasciarla allo stesso indirizzo?» Il fattorino accettò. Quando se ne fu andato, spalancò le finestre della cucina per far entrare un po' d'aria e accese una candela profumata, per riprendere ufficialmente possesso del proprio spazio. Doveva ammettere che Langton non era tipo da lasciare le cose a metà: se n'era andato e aveva mandato a ritirare le sue cose senza neppure telefonarle. Be', lei sarebbe stata altrettanto fredda. Avrebbe ripreso la propria vita e avrebbe riletto la lista dei contro nella convivenza con Langton. Ecco, loro due non stavano più insieme... e lei sperava che anche questa notizia si diffondesse tra i ranghi della polizia di Londra come un incendio nella prateria.
8. Tom Adams, il proprietario del terreno e del bungalow preso in affitto da Gail Sickert, aveva fatto ben poche migliorie da quando lei se n'era andata con la sua famiglia. Il pollaio su cui Sickert stava lavorando era rimasto incompiuto, e una serie di assi di legno giacevano abbandonate nei dintorni. I polli erano stati venduti, ma Adams veniva regolarmente per dar da mangiare ai maiali e alla capra. Trovare un nuovo inquilino non sarebbe stato facile: il bungalow aveva bisogno di una radicale ristrutturazione. Mentre arrivava sulla sua vecchia jeep per nutrire gli animali, Adams dovette scalare di marcia per via delle buche e, imprecando, proseguì verso le porcilaie. Riempiendo i trogoli, si consolò al pensiero che almeno gli avevano lasciato i maiali; dar loro da mangiare e tenere pulito l'interno delle porcilaie erano compiti che rientravano nel contratto d'affitto. Al momento giusto, avrebbe venduto anche quelli. Pochi minuti dopo, una volante imboccò lo stesso vialetto pieno di pozze fangose. Due agenti della polizia locale si avvicinarono ai recinti maleodoranti, facendo attenzione al pantano. «Avete trovato i miei inquilini?» domandò Adams a mo' di benvenuto. Chiuse l'acqua e posò la pompa. «Stavo appunto pensando che almeno mi hanno lasciato i maiali... La casa, in compenso, è peggio di un porcile. Non credo che quella donna abbia mai pulito, da quando è entrata.» Raggiunse una piccola escavatrice e vi salì a bordo. «Signor Adams, stiamo indagando proprio sui suoi inquilini. Ha per caso loro notizie?» «Non è molto probabile, o sbaglio? Se ne sono andati senza pagarmi due mesi d'affitto.» Uno dei due agenti si portò una mano davanti alla bocca. «C'è una puzza terribile», disse, faticando a respirare. «È peggio del solito, perché è da un po' che nessuno pulisce. Stavo appunto buttando un po' d'acqua quando siete arrivati.» Adams si voltò a indicare il cumulo di letame. «Dovrò portare quella roba sul retro; me l'hanno scaricata qui e se ne sono andati! Avete visto il pollaio? Mi hanno fatto comprare il legno per ricostruirlo... e adesso guardate!» Avviò il motore dell'escavatrice e si mise al lavoro sul letame. I due agenti rimasero ad assistere per qualche minuto, ma poi decisero di andarsene e risalirono a bordo della loro volante. Erano ormai quasi allo
sbocco del vialetto d'accesso alla casa, quando videro Adams che li inseguiva agitando le braccia, strillando come un forsennato. I poliziotti si fermarono, e uno dei due abbassò il finestrino. «Cristo! Dovete assolutamente tornare a vedere cos'ho trovato!» disse. Quindi, appoggiatosi alla fiancata della volante, cominciò a vomitare. Il corpo parzialmente decomposto era privo degli arti. Nonostante le orribili mutilazioni, il cadavere rimasto impigliato nei denti dell'escavatrice era chiaramente quello di una donna. Anna era a letto, intenta a leggere, quando il telefono squillò. Era Brandon. Non perse tempo a scusarsi per la telefonata a ora tarda. «Ho una notizia che forse ti interessa: dei poliziotti sono andati a fare un controllo al bungalow dove abitava Gail Sickert e dicono di avere trovato il suo cadavere.» «Cosa?!» «Sì, e non è tutto. Credono che alcune parti del corpo siano state date in pasto ai maiali: il cadavere è privo degli arti. Ancora, però, non sono sicuri al cento per cento che sia lei.» «Santo Dio!» «Già. Finora, non è stata trovata traccia dei figli. La polizia locale ha chiesto di avvertire te.» «E perché mai?» «Eri stata tu a chiamare per chiedere notizie, giusto?» «Sì... è vero.» «Be', vogliono incontrarti. E intendono convocare anche la madre per l'identificazione dei resti. Tu hai già il loro numero di telefono, vero?» «Sì.» «Non è il caso di mettersi al lavoro a quest'ora. Telefonerai domani. L'inchiesta sull'omicidio non rientra nella nostra giurisdizione, perciò non ci riguarda.» «D'accordo, grazie.» Anna riagganciò e tornò a adagiare la testa sul cuscino. Non se la sentiva proprio di telefonare personalmente a Beryl Dunn: sperava di potersela cavare affidando il compito a qualcun altro, al commissariato. Allo stesso tempo, però, si sentiva in colpa: era difficile valutare appieno la piega raccapricciante che quella storia sembrava aver preso. Anna non riusciva a togliersi dalla mente l'immagine della bambinetta sudicia sul suo seggiolino a dondolo.
Non riuscendo a dormire, si preparò una tazza di tè e telefonò alla polizia del New Forest. Le dissero che a quell'ora di notte non potevano farla parlare con nessuno. Le consigliarono di chiamare l'indomani mattina e di chiedere dell'ispettore Mallory. Lei diede il proprio nome e disse che era un'investigatrice impegnata in un caso di omicidio commesso dal fratello di Gail, Arthur Murphy. «Riferirò senz'altro.» «La vittima è stata identificata?» «Non sono in grado di fornire ulteriori dettagli, ispettrice Travis.» Anna ebbe la sensazione che l'interlocutore stesse per riagganciare. «Un'ultima cosa... Vorrei lasciarle un numero di telefono da chiamare nel caso in cui la vittima debba essere identificata: è quello di Beryl Dunn, la madre di Gail Sickert.» L'agente di servizio ci mise un'eternità a prendere nota di tutto. Anna gli lasciò anche il proprio numero di cellulare. Alle sette e mezzo del mattino seguente, proprio mentre usciva da sotto la doccia, Anna sentì squillare il telefonino. Era Mallory: dalla voce sembrava piuttosto nervoso. «Ispettrice Travis, le sarei sinceramente grato se potesse venire qui questa mattina stessa, al più presto. Mi risulta che lei abbia telefonato ieri sera... Non vedo l'ora di scambiare due chiacchiere con lei.» «Siete riusciti a rintracciare Beryl Dunn?» «Non ancora.» «La vittima è stata identificata?» «No, e non abbiamo ancora ritrovato altri resti.» «Speriamo in bene...» Ci fu una pausa. «Ispettrice Travis, il cadavere è ancora sul luogo del ritrovamento. Potremmo vederci lì?» «È proprio necessario?» «Sì. Abbiamo organizzato una squadra per gestire questo caso. Quando prevede di poter essere sul posto? Vorrei tutte le informazioni disponibili, prima che subentri la squadra Omicidi vera e propria.» Anna gli diede appuntamento alle dieci, per concedersi tutto il tempo di arrivare a destinazione con comodo. Non era una sprovveduta: sapeva che quelli della polizia locale non erano in grado di dire se il cadavere appartenesse o meno a Gail Sickert e perciò chiedevano a lei di intervenire; solo in seguito avrebbero convocato un parente per l'identificazione formale.
Da qualche tempo le cose funzionavano diversamente da come avveniva in passato: la polizia locale, ormai, si occupava perlopiù di traffico, di furti con scasso e della criminalità soggetta alla loro giurisdizione. Gli omicidi venivano trattati unicamente da squadre qualificate ed esperte formate da investigatori appositamente addestrati. Nei commissariati locali si riservava alle indagini una saletta che diventava la base operativa della nuova squadra, e venivano convocati anatomopatologi e analisti della polizia scientifica. Anna sperava, al suo arrivo al bungalow, di trovare la squadra Omicidi già in azione, per potersene andare alla svelta. Pioveva a catinelle, e il vialetto d'accesso al bungalow era allagato. Ai lati del vialetto c'erano diverse volanti della polizia parcheggiate. Anna avanzò più che poté tra le pozze e le buche, finché non fu fermata da un agente in uniforme e mantello. Lei si qualificò e disse che aveva appuntamento con l'ispettore Brian Mallory. Fu indirizzata sul retro della costruzione, con l'invito a lasciare l'auto nell'area designata. Anna si fece strada nell'insidioso pantano e raggiunse il nastro giallo che delimitava il luogo del ritrovamento. Vide un gran numero di addetti della Scientifica in tuta bianca intenti al loro lavoro. Non lontano, il loro furgone. L'escavatrice era stata spostata, e alcuni uomini stavano montando una grande tenda bianca per coprire il mucchio di letame semiscavato. «C'è l'ispettore Mallory, qui?» domandò Anna a una poliziotta che era lì in piedi sotto un grande ombrello nero. «Dietro il porcile, sotto la cerata», fu la risposta. Costeggiando il nastro giallo raggiunse il riparo improvvisato. Gli agenti erano tutti radunati lì sotto, dato che ora la pioggia si era ulteriormente intensificata. Anna si infilò sotto il tendone e scosse l'ombrello. «Salve, è lei l'ispettrice Travis?» Anna gli sorrise a denti stretti. «Sì, è lei è l'ispettore Mallory?» «Sì.» Mallory era un uomo corpulento dai capelli grigio-argentei tagliati corti, con una faccia rubizza e le guance cicciotte. Protese la manona dalle dita grassocce. «La ringrazio di essere venuta: vuole del caffè o del tè?» «No, grazie.» Si guardò intorno. «Che postaccio...» «Sotto la tenda della Scientifica troverà le mascherine, ma la puzza è spaventosa. Il porcile è stato chiuso, per ora, ma i maiali verranno portati via stamattina stessa dal padrone.» Il fetore cominciava a darle la nausea. Con una smorfia di disgusto, disse: «Si fa fatica a respirare, eh?».
Mallory annuì. «Se vuole possiamo andare a parlare su una delle volanti.» «No, non ce n'è bisogno, ma una mascherina la indosserei volentieri.» «Bene, vado a prendergliene una.» Gli altri uomini presenti sotto il tendone erano tutti in uniforme: al ritorno di Mallory con la mascherina in un sacchetto di plastica, lei li salutò con un cenno. «Sono stati rinvenuti altri resti?» domandò Anna. «No, ma potremo fare ricerche approfondite solo quando la Scientifica avrà finito il suo lavoro. Non sapevamo che cosa fare... Le squadre Omicidi chiedono sempre di lasciare tutto com'è, e io ho esaudito la loro richiesta. E poi, a essere sinceri, non abbiamo i mezzi per affrontare un problema di questo genere.» Anna lacerò la busta di plastica e indossò la mascherina. «A chi è stata affidata l'indagine?» domandò con voce smorzata. «Non mi hanno informato. Essendo impegnato qui, non sono aggiornatissimo sugli ultimi sviluppi.» «Be', perché mi ha convocato?» «Lei era venuta qui per interrogare Gail Sickert... o Summers, per meglio dire. Ho saputo che poi è tornata una seconda volta...» «Sì.» «Be', abbiamo preso molto sul serio il rapporto da lei inoltrato. Ho mandato qui due miei uomini, che però non sono entrati; poi, quando lei ci ha nuovamente contattato, li ho rimandati qui e...» Accennò con il capo verso la tenda bianca, ormai quasi definitivamente fissata, sotto la quale gli esperti della Scientifica si apprestavano a esaminare il cadavere. «Dovremo abbattere il pollaio e controllare intorno al porcile, ma non possiamo far nulla finché gli animali non saranno stati portati via.» Anna fece cenno di aver capito e, senza bisogno che Mallory glielo chiedesse, spiegò nel dettaglio la ragione per cui era tornata al bungalow e il suo successivo incontro con la madre di Gail Sickert. «L'avevo già riferito alla vostra stazione di polizia ieri sera.» «Sì, lo so, ma la linea di Beryl Dunn è stata tagliata - bollette non pagate - e quindi stiamo aspettando che qualcuno della polizia di Newcastle vada a trovarla di persona. Avremo bisogno di identificare la vittima, se possibile.» «Aveva tre figli», disse Anna a mezza voce. «Lo so. Come ho detto, non abbiamo ancora avuto modo di effettuare ri-
cerche accurate. Speriamo di non ritrovarli!» Distolse lo sguardo, sbuffando sconsolato. «La peggiore delle ipotesi è che siano stati fatti a pezzi e...» Scosse la testa. «Fa orrore anche solo a pensarci, ma non sarebbe la prima volta. I maiali mangiano qualunque cosa.» Anna si premette sul viso la mascherina e guardò verso la tenda bianca. «Be', cerchiamo almeno di sbrigarci. Il padrone di casa non è riuscito a identificare il corpo?» «No... I resti sono in decomposizione avanzata, corrosi dal letame.» Anna uscì allo scoperto e aprì l'ombrello, seguita da Mallory, che la accompagnò alla tenda bianca. Sotto la tenda, l'unica cosa positiva era che non pioveva. Il fetore era impressionante, e la mascherina non serviva a molto. Fu condotta verso la zona dove il terreno era coperto da teli di plastica, sui quali erano disposti il tronco e la testa della vittima. Anna aveva ormai una certa esperienza di scene raccapriccianti, ma questa era senz'altro una delle peggiori cui avesse mai assistito. La donna era nuda, a parte un reggiseno rosa che lasciava scoperti i seni. Le braccia e le gambe erano state mozzate, e quel che restava del corpo era imbrattato di letame e coperto da milioni di vermi. I fini capelli biondi nascondevano una parte del viso sfigurato. Anna riusciva a vederne solo il profilo. «Potrebbe scostarle i capelli dal viso, per cortesia?» domandò Anna a un tizio della Scientifica. Questi si chinò e, servendosi di una sottile spatola di legno, spostò le ciocche impastate di fango. Anna dovette avvicinarsi e girare intorno a quella misera cosa per poterla osservare meglio. «Se vuole, posso ripulire un po' la faccia...» propose l'analista. Anna gli fece cenno di procedere. Con un fazzolettino, l'addetto della Scientifica asportò una parte dello sporco e girò delicatamente la testa. Anna si chinò, e ogni dubbio svanì. Guardò Mallory. «Sì, è Gail Sickert.» «Ah», ribatté il collega, in tono neutro. «Speravo che non fosse lei... per via dei bambini...» Anna ringraziò il tecnico che le rivolse un sorriso mesto. «Sarà un lavoraccio. L'area da setacciare in cerca di altri resti è piuttosto vasta. Dovremo chiedere rinforzi.» Anna tornò alla stazione di polizia con Mallory, che diede finalmente ordine di convocare Beryl Dunn all'obitorio per il riconoscimento formale.
Se non altro, non avrebbe dovuto vedere in che situazione era stata ritrovata la figlia. Anna seguì Mallory nel parcheggio della stazione di polizia locale. Lui stava parlando al suo cellulare e fece cenno ad Anna di precederlo all'interno; quando la raggiunse, aveva la faccia ancora più rossa di prima. Anna immaginò che avesse ricevuto notizie sui bambini. «Hanno trovato altro?» domandò. «No, no, era la divisione Omicidi di Scotland Yard: manderanno un ispettore capo a occuparsi del caso.» «Hanno detto come si chiama?» «Macché... Però è strano, no? Mandare qualcuno fin qui... Comunque, a essere sinceri, un caso del genere è fuori dalla nostra portata», proseguì, introducendo Anna nel proprio ufficio. «Di cadaveri, nel corso degli anni, ne abbiamo trovati diversi, abbandonati nella foresta, ma in queste condizioni mai. Non mi dispiace l'idea di passare la mano.» Mallory abbandonò il suo corpaccione su una poltroncina girevole e, frugando in un cassetto in cerca del blocchetto per i verbali, disse: «Mi servono tutte le informazioni possibili». Anna era seduta di fronte a lui. «Forse l'interesse di Scotland Yard deriva dal legame tra la vittima e Arthur Murphy...» «Può darsi.» Mallory stava cercando una penna. «L'ispettore capo responsabile delle indagini su Murphy si chiama Sheldon.» Mallory scosse la testa e si tastò le tasche. «Ecco, trovata! Bene, ricominciamo daccapo. La prima volta che lei l'ha incontrata, Gail si faceva chiamare Sickert, di cognome; prima, però, si chiamava Summers, mentre da nubile di cognome faceva Dunn... giusto?» Si procedeva a una lentezza esasperante: Mallory scriveva tutto per esteso, continuando a farle segno di aspettare, e ogni volta rileggeva quel che lei aveva appena detto, prima di permetterle di continuare. «Nelle due circostanze in cui lei ha incontrato la vittima è successo qualcosa di particolare?» Anna raccontò dell'incontro con Sickert, ma tralasciò di riferire le minacce che lui le aveva rivolto. Disse soltanto che lui era stato molto aggressivo. «Può descrivermelo? Sickert... Joseph, diceva che si chiama?» Anna assentì e si sforzò di ricordare che faccia avesse: riuscì a malapena a dire che era nero, che aveva i dreadlock e che era piuttosto massiccio, sul
metro e ottanta abbondante. «Le è parso che la donna avesse paura di lui?» «Sì, era preoccupata per la presenza della polizia.» «Capisco. Finora non siamo riusciti a rintracciarlo. Abbiamo raccolto delle impronte in casa, ma non ci sono riscontri precedenti.» «Sì, ho saputo.» Anna consultò l'orologio, ansiosa di andarsene. «Può descrivermi i bambini?» «Be', la più piccola, Tina, cammina a malapena. C'era un'altra bambina più grande, Sharon, bionda e magrissima, di circa sette anni. Il maschietto, Keith, l'ho visto una volta sola. La scuola che frequentavano saprà senz'altro darvi maggiori particolari, così come i servizi sociali.» Anna si alzò in piedi, proprio quando il telefono sulla scrivania di Mallory si mise a squillare. «Qui è l'ispettore Mallory.» Posò la mano sul microfono della cornetta. «Chiamano da Newcastle. Hanno trovato la madre della vittima.» «Io allora posso andare...» Lui annuì e riprese a parlare al telefono. Da come sbuffava, si capiva che all'altro capo della linea c'era un suo superiore. Lei se la svignò richiudendosi piano la porta alle spalle. Vide che lì alla stazione stavano attrezzando con scrivanie e computer una sala operativa per chi si sarebbe occupato del caso. Si appoggiò di spalle al muro per far passare due agenti e raggiunse il parcheggio. Restò per alcuni minuti seduta in auto. Si sentiva ancora addosso quella puzza. Chiuse gli occhi, per cercare di scacciare quelle immagini agghiaccianti, che tuttavia rimasero ad aleggiare come l'odore della morte e del letame. Sperava solo di non dover vedere anche i resti dei bambini... La prima cosa che fece, appena a casa, fu di infilarsi sotto la doccia per lavar via quell'odore disgustoso. Uscendo dal box doccia sentì suonare il telefono fisso. «Anna?» La voce di Langton si propagò dentro di lei come un'onda d'urto. «Sì», rispose lei, con voce quasi impercettibile. «Sono io l'incaricato dell'indagine sull'omicidio di Gail Sickert.» Lei tacque. «Eri là, stamattina?» «Sì.» Stava tremando. «Ho chiesto che tu venga assegnata alla mia squadra. Non c'è bisogno
che te ne spieghi il motivo.» Lei deglutì. «No.» «La polizia dello Hampshire sta allestendo la sala operativa: ho chiamato anche Mike Lewis e...» Lei lo interruppe. «Perché chiami proprio me?» «Perché, che ti piaccia o no, farai parte della mia squadra.» «No!» «Che cosa?» «Ho detto di no. Mi dispiace, ma non credo che, date le condizioni, sarebbe...» «Stronzate! Le nostre divergenze, quali che siano, resteranno fuori. Ti voglio con me.» «Non posso, mi spiace.» «Sì che puoi.» «No, non posso.» «Ascoltami! Non hai scelta.» «Io non intendo lavorare con te!» «Sei l'unica persona in grado di identificare quel bastardo di Sickert! E poi ti sentirai almeno un po' in colpa per quello che è successo!» «No, per niente.» «Balle! Ti conosco e so che conoscevi la vittima: se trovassero sepolti con lei anche i bambini, vorrai partecipare all'indagine. Quel bastardo l'ha fatta a pezzi, Anna.» «Sei una merda!» Lui ignorò quest'ultimo commento e proseguì. «Sto andando sul posto, perciò prima riesci a raggiungermi meglio sarà. Ah, ho coinvolto anche Harry Blunt, perché Barolli non era disponibile. Inoltre, ho chiesto un particolare impegno anche alla Scientifica, perché sarà un lavoraccio, e la polizia locale non è attrezzata.» Anna inspirò a fondo. «Non ho nessuna voglia di lavorare con te, perciò te lo ripeto: trovati qualcun altro.» «Ci vediamo lì appena possibile», disse lui e riagganciò. Anna restò lì con la cornetta in mano, ancora grondante per la doccia. "D'accordo", pensò. "Se è quello che vuole, lo avrà! Non mi farò costringere a un comportamento poco professionale. Ci sarò, maledetto Langton, e ti dimostrerò che posso comportarmi come se tra noi non ci fosse mai stato nulla!"
Erano passate le tre del pomeriggio quando Anna fu di nuovo al bungalow. Questa volta era preparata alla pioggia e alla sporcizia. Non si portò l'ombrello, preferendo utilizzare il cappuccio, e si diresse subito verso il nastro giallo. La prima persona che vide fu Harry Blunt, che aveva la faccia di un colore verdastro. «Ciao, Harry», disse Anna. Lui si voltò. «Santo Dio, sotto quella tenda c'è un fetore intollerabile. A momenti vomitavo.» «L'ispettore capo Langton è già arrivato?» «Sì, insieme al suo socio, Mike Lewis. Hai per caso una mentina?» «No, mi spiace.» «Allora, di nuovo insieme prima del previsto, eh?» «Che cosa?» Credeva stesse alludendo a lei e Langton. «Tu e io.» «Ah, sì.» Anna indossò la tuta bianca e le soprascarpe, mentre Harry si liberò delle sue. «Io vado alla sala operativa che ci hanno riservato», disse. «La porteranno all'obitorio da un momento all'altro, perciò mi sono scusato e... Qualunque cosa, pur di andarmene di lì.» «Hanno trovato altri resti?» «No, grazie a Dio, ma al porcile non ci sono ancora arrivati. I maiali sono stati portati via. Pare che il padrone abbia già annaffiato tutto, all'interno, perciò forse non troveremo niente. Spero, almeno.» Anna si sistemò la mascherina davanti alla faccia e scostò il lembo della tenda bianca per entrare. Langton era inginocchiato presso il cadavere. Quando si rialzò, la vide e le fece cenno di avvicinarsi. Anna si sentì il cuore esplodere nel petto e avvampò in viso. Strinse i denti per mantenere il controllo della situazione, ringraziando tra sé la mascherina che almeno in parte la nascondeva. Aveva l'impressione che gli ultimi diciotto mesi di convivenza tra loro non ci fossero stati, così come il ferimento e la lunga convalescenza. Lui non lasciò trasparire la minima emozione, quando la vide; al contrario, era gelido e professionale, fin nel tono di voce. «L'hai identificata tu, vero?» «Sì, signore.» «Vuoi darle un'ultima occhiata, per verificare?» «Hanno già contattato la madre.»
«Lo so, ma ci vorrà del tempo prima che arrivi da Newcastle, e io vorrei avere la certezza.» Anna si chinò per osservare il volto chiazzato e tumefatto di Gail Sickert. «Sì, è lei.» «Bene. Ora possiamo senz'altro farla portare all'obitorio e andarcene nella nostra sala operativa alla stazione della polizia locale.» Langton fece un cenno agli uomini della Scientifica. «Dovranno passare al setaccio tutto quel maledetto letame e perlustrare il posto palmo a palmo. Potrebbe aver dato i bambini in pasto ai porci, ma il padrone di casa...» Lei lo interruppe. «Lo so... ha già annaffiato i porcili.» «Esatto.» Langton le passò davanti e sollevò il lembo della tenda per uscire. Anna lo seguì e cominciò a togliersi la tuta bianca. Lui la stava già appallottolando per gettarla nell'apposito bidone. «Ti ricordi del caso di Fred West?» grugnì lui. «Ovvio.» «Per setacciare il suo giardino puzzolente non si poté far altro che spalarne la terra e passarla attraverso calze da donna. Adesso siamo meglio attrezzati, ma non tanto, e il lavoro che attende questi poveracci è davvero schifoso. Dovranno cercare frammenti di ossa... qualunque traccia da cui concludere che qui sono morti anche i bambini.» Anna lo seguì per il cortile fangoso. Aveva smesso di piovere, ma le pozzanghere erano ancora profonde. Lui portava degli stivali di gomma neri e il suo vecchio impermeabile. Quando giunsero nella zona adibita a parcheggio, Anna lo vide accendersi una sigaretta. Langton si voltò e scorse la Mini di Anna parcheggiata accanto al vialetto tempestato di buche. «Ci vediamo là.» Lui salì sulla volante e fu portato via. Non aveva manifestato il benché minimo barlume di emotività né aveva fatto riferimenti alla situazione tra loro. Era difficile per lei mantenersi calma, ma Anna sentiva che fino a quel momento si era controllata a sufficienza. Il problema era: quanto sarebbe riuscita a resistere? La sala operativa alla stazione di polizia dello Hampshire era ancora piuttosto spoglia, ma avevano sistemato qualche computer e c'erano già ben otto scrivanie. Anna posò la sua valigetta sul tavolo che le era stato assegnato, accanto a quello di Harry Blunt, intento a succhiare mentine.
«Cristo, quella puzza ti si appiccica addosso, eh?» «Già», rispose lei, togliendosi la giacca e appendendola allo schienale della sedia. «Credi che quel bastardo abbia dato i bambini in pasto ai porci?» «Harry, come faccio a saperlo? Anch'io, però, spero di no.» Langton entrò nella stanza e fece cenno ad Anna di raggiungerlo. «Voglio che tu aiuti lo specialista che abbiamo fatto arrivare da Londra a tracciare un identikit di questo Sickert. Ne abbiamo bisogno al più presto. Non ha lasciato tracce e non risulta avere precedenti, perciò immagino che si tratti di un nome falso, che pure lui sia un immigrato illegale o altro del genere. Dovunque sia, se ha ancora i bambini con sé sarà più facile rintracciarlo.» Langton si voltò verso Mike Lewis che, sorridendo ad Anna, consegnò alcune fotografie. «Alla scuola di qui le hanno scattate alla fine della prima sessione, perciò sono recentissime: un maschio di sei anni, una femmina di sette, entrambi bianchi...» Anna si intromise. «Anche la figlia più piccola, quella che ho visto io, è bianca e ha all'incirca un anno e mezzo.» «Ha due anni», disse Langton. Avevano avuto informazioni dalla clinica locale. Indicò la bacheca che era ancora vuota. «Speriamo che la madre di Gail porti delle fotografie della vittima; intanto, le facce di quei bambini le mettiamo bene in mostra sulla bacheca e le facciamo diffondere dalla stampa. Allora, Anna... mettiti al lavoro con il disegnatore, prima su carta e poi al computer. Ci serve al più presto.» La sala era un brulicare di attività. Langton impartiva ordini e istruzioni a un ritmo tale che quei poliziotti finivano letteralmente per urtarsi e inciampare l'uno nell'altro. Anna restò per più di un'ora al lavoro con il disegnatore. Dopo di che, però, avevano un abbozzo di identikit... ciò che di quel volto lei era riuscita a ricordare. Si dedicarono, quindi, all'elaborazione dell'immagine con il computer, per vedere se si potesse migliorare l'effetto. Langton entrò nella stanza e si appoggiò allo schienale della sedia di Anna. «Quanto ci vorrà ancora?» «Stiamo cercando di fare più in fretta che possiamo», disse il disegnatore. Anna rimase in silenzio, concentrata sull'immagine computerizzata. Sentiva la vicinanza di Langton: erano quasi a contatto. Si scostò leggermente. «Okay. Anna, appena avete finito, ti aspetto in sala operativa per una ri-
unione.» Stava per ribattere, ma lui se ne andò. Anna stava stampando le immagini di Joseph Sickert, quando fu convocata nel minuscolo e ingombro ufficio di Langton, comunicante con la sala operativa. «Ha a che vedere con la riunione?» domandò Anna. «Quella registrazione con la voce di Sickert... ce l'hai ancora?» «Sì, l'ho portata.» «Bene. Puoi lasciarmela?» Lei annuì. «Vado a prenderla.» Uscì e tornò alla propria scrivania. Aveva appena prelevato il nastro dalla valigetta, quando Langton comparve sulla porta e radunò tutti per una riunione. Si fece largo per piazzarsi di fronte agli altri, e Anna notò che zoppicava leggermente. Forse era colpa della pioggia e dell'umidità del porcile... Pensò a quanto le sarebbe piaciuto rovesciargli addosso una camionata di letame. «Okay, ascoltatemi tutti.» I presenti si strinsero ulteriormente intorno a lui, con i poliziotti locali dietro a tutti. A quel punto, la sala operativa cominciava a prendere una sua fisionomia. Sulla bacheca campeggiavano le foto dei due bambini più grandi e un approssimativo ritratto di Sickert. C'erano anche molte altre fotografie e notizie che Anna non poté esaminare, perché l'attenzione sua e di tutti gli altri era concentrata su Langton. «La vittima è già stata riconosciuta con grande convinzione dall'ispettrice Travis, ma servirà un'identificazione ufficiale da parte della madre, che dovrebbe essere qui intorno alle sei. Gli addetti dell'obitorio, a quel punto, avranno già pulito e coperto la vittima. Abbiamo le fotografie dei bambini, come vedete, ma per il momento non sono stati recuperati altri resti. Abbiamo anche un primo identikit del nostro sospetto, noto al momento con il nome di Joseph Sickert.» Langton proseguì nella sua disamina, affrontando le questioni generalmente associate a quella fase delle indagini. I referti e le analisi sarebbero stati disponibili solo in seguito; si sapeva soltanto che il corpo era stato mutilato: le braccia e le gambe non erano state ritrovate. Disse a tutti che l'essenziale era ottenere la massima collaborazione dalla gente del luogo, dai servizi sociali, dai negozianti. «Hanno abitato lì per più di un anno, perciò avranno conosciuto e incon-
trato un mucchio di gente. Ora, dunque, andate e raccogliete tutte le informazioni possibili, prima di tutto su Sickert. Dobbiamo trovarlo!» Langton proseguì chiedendo che anche il padrone di casa, Tom Adams, fosse torchiato per cavarne ulteriori elementi. I maiali erano stati portati altrove: la polizia avrebbe effettuato dei test e forse ne avrebbe ordinato la macellazione per verificare se vi fossero resti umani nei loro intestini. Fece ridere tutti quando disse che Adams si era opposto fermamente a quest'ultima ipotesi e si era messo a sbraitare che non erano ancora pronti. Aveva calcolato di ingrassarli ancora un po' per venderli... e pretendeva che la polizia glieli pagasse! Langton passò rapidamente in rassegna anche quel che erano riusciti a ricavare da Adams: l'uomo si ricordava bene di Joseph Sickert e aveva avuto a che fare più volte con lui, così come con il precedente marito di Gail. Adams aveva accettato di dare dei soldi a Sickert per tenere puliti i porcili e costruire un pollaio. «L'unica altra persona che Adams dice di aver visto al bungalow, a parte i bambini di Gail è...» Langton sorrise e prese un foglio. «Citerò testualmente la sua dichiarazione, per evitare che qualcuno mi accusi di razzismo. Il signor Adams ha detto: "C'era un altro negro, a volte, in cucina, ma se non fosse stato per i capelli più corti di quelli di Sickert che in testa ha una specie di tappeto - avrei creduto che fosse proprio lui... a me 'sta gente mi sembra tutta uguale!".» Anna doveva ammetterlo: Langton era un vero istrione. Aveva imitato la voce di Adams alla perfezione. I presenti sorrisero. Langton fece una lunga pausa prima di continuare. «Un'ultima cosa... Non so che voci vi siano giunte a proposito della mia situazione fisica; in ogni caso, per dissipare eventuali pettegolezzi, sono perfettamente a posto, nel corpo e nello spirito. Intendo dedicare a questa indagine il cento per cento delle mie energie e pretendo altrettanto da voi. Dobbiamo assolutamente catturare questo Sickert. È la nostra priorità.» Fece un'altra delle sue famose pause e prese a tamburellare sulla scrivania con la matita. «Anna Travis e Frank Brandon hanno trovato la soluzione al caso dell'omicidio di Irene Phelps grazie a una fotografia fornita da Gail Sickert: Arthur Murphy si nascondeva presso un pedofilo pregiudicato, tale Vernon Kramer. Sono riusciti a catturare Murphy per via del suo legame con Kramer, il quale, tra l'altro, potrebbe essere il padre della figlia più piccola di Gail. È probabile, quindi, che Kramer conosca il nostro ricercato
numero uno. Per questo, voglio interrogare Kramer al più presto...» Langton fu interrotto da Mike Lewis, che aveva appena risposto a una telefonata. «Capo, puoi parlare al telefono? Chiamano dal luogo del delitto.» La sala piombò nel silenzio più assoluto. Langton prese la cornetta. Disse ben poco. Restò ad ascoltare, perlopiù. Solo dopo un tempo apparentemente interminabile, riagganciò con un sospiro e si rivolse ai presenti. «Signore e signori, mi dispiace... ci sono cattive notizie: è stato appena ritrovato il cranio di un bambino piccolo.» 9. Vernon Kramer non era un uomo felice. Si trovava nella prigione di Wandsworth per aver nascosto Arthur Murphy. Aveva violato il regolamento della libertà vigilata, e perciò gli sarebbe toccato scontare sino alla fine anche la condanna precedente. Lo aspettavano tre anni e mezzo di reclusione. Fu portato al cospetto di Langton e Anna da due guardie penitenziarie, che rimasero all'esterno della sala dell'interrogatorio. Kramer stava già sudando e, dopo che Langton si fu presentato, parve ancora più agitato di prima. «Okay, Vernon, raccontami di quella volta che sei andato a trovare Gail e Joseph Sickert, laggiù alle porcilaie, dove è stato trovato il cadavere di Gail...» Vernon restò a bocca aperta e si appoggiò all'indietro. Anna guardò Langton: lui stava solo adombrando l'ipotesi che Kramer avesse incontrato Sickert, ma non ne era certo, e Anna lo sapeva. «No, io non li ho mai visti laggiù. Lo giuro davanti a Dio, non li ho incontrati.» Langton si sporse al di sopra del tavolo. «Non provare a prenderci per il culo! Tu sei andato a trovarli. Quando è stato?» «Oh, merda...» «Quando?» «Appena prima del mio processo. State a sentire, quel Rashid mi ha tirato giù la porta di casa e mi ha pure menato.» «Rashid? Chi è?» «Era nel mio stesso ostello.» «Come fa di cognome?» «Non lo so. Giuro.»
Langton lo guardò di traverso. «Burry, forse, o qualcosa del genere. Io lo conosco come Rashid, e basta. All'ostello andava e veniva: non so neanche se fosse autorizzato... Quando lei», disse, accennando ad Anna, «si è presentata all'ostello, Rashid è andato in ansia.» «Questo Rashid sarebbe quello che mi ha sbattuto la porta in faccia?» domandò Anna. «Non lo so. Lui però sapeva che c'erano gli sbirri, e la cosa non gli piaceva.» «Rashid conosce anche Arthur Murphy?» «Sì, credo di sì.» «Descrivimelo», sibilò Langton. Vernon si contorse un po' sulla sedia. «Un nero enorme... Gli manca un dente sul davanti.» «Allora, perché sei andato a trovare Sickert? Dai, Vernon, lo sappiamo che c'eravate tu e Murphy... Ripeto: perché?» «Perché Rashid mi ha detto che stava male.» Langton sospirò. Cominciò a tamburellare nervosamente con le dita sulla scrivania. Vernon, sulla sua sedia, era sempre più a disagio. «Statemi a sentire: è la sacrosanta verità. Rashid era di pessimo umore per via degli sbirri che gironzolavano intorno all'ostello e, quando io sono tornato, mi ha preso di petto: voleva sapere che cosa stava succedendo. Io gli ho detto che era per via di Murphy, che era stato preso per omicidio, e che anch'io c'ero andato di mezzo per averlo ospitato.» Vernon raccontò di una conversazione telefonica: Sickert aveva chiamato Rashid per dire che gli sbirri erano stati al suo bungalow. Rashid era nervosissimo. Diceva che qualcuno doveva «aver cantato con gli sbirri». Anna, senza farsi notare, osservò Langton: era evidente la tensione che lo pervadeva, e lei stessa sentiva di avere i nervi a fior di pelle. L'interrogatorio era a un punto di svolta decisivo. «Credeva che gli sbirri li avesse imbeccati qualcuno...» Vernon era letteralmente scosso dai tremiti. «Imbeccati a che riguardo?» domandò Langton. «Rashid mi ha fatto cacare sotto, lo sapete? Voleva sapere se quella storia di Murphy era vera o solo un pretesto per intrufolarsi nell'ostello e vedere chi c'era. Io gli ho detto che era vera. Sapevo di quel tizio che era stato accoltellato: era sul giornale che c'era appoggiato sul sedile dell'auto
della polizia. Insomma, gli ho detto che poteva essere una specie di controllo per tutt'e due i motivi, dato che su quell'auto c'era lei» Vernon indicò Anna. «Dai, racconta bene com'è andata. Tu eri sulla volante e...?» «Allora... me ne stavo tornando a casa con un po' di fish and chips, okay? Dalla friggitoria, e mi hanno fermato. Mi ammanettano e mi sbattono sull'auto della polizia... era dietro l'angolo dell'ostello, okay? Sull'auto c'era uno sbirro in divisa, al volante, e un altro fuori, in piedi. Ero lì seduto, no? E sapevo anche il motivo, perciò non è che avessi intenzione di creare chissà quali problemi... Be', c'era 'sto giornale, sul sedile accanto a me, e in prima pagina un titolone sullo sbirro che era stato accoltellato. Vi giuro davanti a Dio che non ne so proprio niente di niente. E a quel punto, sull'auto, è salita lei.» Di nuovo Kramer indicò Anna. «Va' avanti», ringhiò Langton. «Lo sbirro al volante si volta e mi strappa il giornale dalle mani e le dice», riprese Kramer, sempre alludendo ad Anna, «qualcosa sul fatto che quella storia era ancora sotto i riflettori... Cioè, non ricordo le parole esatte, ma le diceva, tipo, se lo conosceva, e che grand'uomo era; e lei gli ha risposto che erano molto amici, qualcosa del genere.» «Dai, continua», disse Langton con gesti impazienti. «Ho raccontato a Rashid quello che avevo sentito, tutto qui, e lui a quel punto mi ha tirato un calcio e se n'è andato nella sua stanza, dove forse sbrigava i suoi affari, ma io, giuro, non ne so niente. Non so neanche se avesse il permesso di stare lì... Comunque, il giorno dopo arriva e mi dice che devo portare delle medicine a Sickert. Io non mi sono certo messo a discutere: mi ha dato 'sta scatola di pillole, e io sono andato da Gail. Non ho mai visto Sickert, se non per quei pochi momenti in cui gli ho dato le pillole. Giuro su Dio che quella è stata l'unica volta che ci sono andato, dopo la visita che avevo fatto con Murphy.» «Sickert ti ha domandato di me?» domandò Anna. «A Sickert ho ripetuto quel che avevo già detto a Rashid: che il tizio di una certa poliziotta era stato accoltellato, e che lei era stata all'ostello, ma per altri motivi; che era stata una semplice coincidenza.» «Che altro gli hai detto?» riprese Langton. «Che aveva i capelli rossi, nient'altro. Al che lui ha preso la roba che gli avevo portato ed è sparito.» Kramer guardò prima Anna e poi Langton: aveva la faccia madida di sudore. «Non so altro, ve lo giuro su Dio, non è successo altro. Cioè, io non ho niente a che fare con l'omicidio di Gail. Lo
giuro su quel che ho di più caro.» «Cos'è che hai portato di preciso, a Sickert? Farmaci? Medicine?» «Non lo so. Rashid mi aveva detto che Sickert ne aveva bisogno, perché aveva una malattia del sangue o roba del genere. Non so altro.» «Malattia del sangue? Tipo anemia?» «Non lo so.» «Sei tu il padre della figlia più piccola di Gail?» gli domandò Anna. Vernon si voltò verso di lei. «Io?» «Sì, tu.» «Nient'affatto! State a sentire: non voglio parlar male dei morti, ma è lei che ha messo in giro questa voce. Cioè, i figli li ha avuti tutti da uomini diversi, ma non da me.» «Che lavoro faceva questo Rashid?» «Che cosa?» Langton sospirò e riprese a tamburellare sul tavolo. «Ripeto: che lavoro faceva questo Rashid?» «Non lo so. Giuro che non lo conosco bene. Quel che sapevo ve l'ho detto.» «Descrivilo», tagliò corto Langton. «Chi?» Langton spinse con violenza il tavolo contro Kramer, che si rannicchiò sulla sua sedia. «Cristo, ve l'ho già descritto! È un tizio molto muscoloso... nero. Che altro posso dirvi?» «Pensaci su: che altro?» «Merda, non lo so! Qui dentro sto già ricevendo minacce, perché pensano che io sia una spia.» Langton lo fissò, in atteggiamento di attesa. «Vi ho già detto che gli manca un dente davanti... Ne ha anche uno o due ricoperti d'oro, sempre davanti.» E a quel punto Vernon Kramer sorrise nervosamente, mostrando i propri denti storti e macchiati dal tabacco. Anna era provata quando lasciarono Wandsworth. Langton era di umore pessimo. Le chiese più volte di ripetergli la descrizione di Rashid. Conclusero che poteva essere Rashid l'uomo che Tom Adams aveva visto al bungalow, quando era andato per accordarsi con Sickert sulla costruzione del nuovo
pollaio. Quando erano stati all'ostello, il giorno dell'arresto di Arthur Murphy, Anna era riuscita a dare solo un'occhiata fugace al tizio che le aveva sbattuto la porta in faccia. Aveva addosso dei boxer, era alto e muscoloso e, se Anna non ricordava male, tra i suoi denti anteriori alcuni erano d'oro. «Non può essere una coincidenza», borbottò Langton. Si profilava la possibilità che Rashid fosse coinvolto nell'omicidio di Gail e, oltretutto, che fosse uno dei due neri che avevano ferito Langton. «Be', l'avevo detto che avrei catturato quei bastardi e, a quanto pare, ci sono vicino», disse lui, quasi tra sé. «Come dici?» domandò Anna. «No, niente.» «Però hai detto qualcosa.» «Dicevo che sento di essere vicino... Pensavo all'omicidio di Gail e dei suoi figli, okay?» Evitò di spiegare a che cosa si sentiva vicino. Prima che Anna potesse incalzarlo, il cellulare di Langton si mise a squillare. Era Mike Lewis. Langton ascoltò e poi, coprendo il microfono con una mano, si voltò verso Anna. «La Scientifica ha appena confermato che il cranio ritrovato alla porcilaia è di un consanguineo di Gail Sickert, probabilmente della figlia più piccola. Per il momento non hanno rinvenuto altri resti, ma sono ancora al lavoro.» Langton riprese a parlare con Lewis. «Voglio tutte le informazioni possibili su un certo Rashid Burry, maschio, nero.» Scandì nome e cognome lettera per lettera. «Era all'ostello, e ora siamo sicuri che è stato anche alla porcilaia. Inoltre, il nostro ricercato numero uno - Sickert - potrebbe essere affetto da anemia, perché risulta che avesse bisogno di farmaci, perciò sarà il caso che qualcuno faccia un controllo negli ospedali della zona.» Anna osservò Langton e provò un intenso disagio quando lui ridacchiò sommessamente e disse: «Okay, Mike, dacci dentro. Il quadro comincia a prendere forma, eh?». Interrotta la comunicazione, Langton si appoggiò all'indietro e chiuse gli occhi. Erano venuti in possesso di nuove informazioni su cui avrebbero potuto chiedere chiarimenti a Murphy. Una macchina della polizia li accompagnò sull'isola di Wight, al carcere di Parkhurst, e Langton, durante il viaggio, se ne restò perlopiù in silenzio, sfoggiando un umore nero.
Anna era mortificata per non aver capito in che modo Vernon Kramer avesse scoperto del suo legame con Langton. Era troppo impegnata a cercare colpevoli per accorgersi che la responsabilità era di un semplice giornale abbandonato sul sedile di una volante della polizia. «Non ci ho proprio pensato», disse Anna ad alta voce. «Al giornale, intendo.» Langton, con un borbottio, la invitò a non preoccuparsi, ma lei non poteva farne a meno: era molto arrabbiata con sé stessa. Si sporse in avanti e, dal sedile posteriore, richiamò la sua attenzione toccandogli la spalla. «Volevo dirti che mi dispiace, ma continuavo a rimandare. Adesso, però, almeno sappiamo com'è andata.» «A che cosa ti riferisci?» «Alle minacce di Sickert... Ora sappiamo che è in qualche modo legato al tuo ferimento o, perlomeno, conosce i responsabili.» «Sì, ma secondo me è questo Rashid Burry l'uomo da tenere d'occhio. Sickert lo cerchiamo in relazione agli omicidi, ma voglio che venga arrestato anche questo Rashid.» Si voltò verso Anna. «Non far parola del mio ferimento. È troppo presto per tirare le somme, e non voglio che qualche pezzo grosso della polizia possa credermi spinto da moventi personali, nelle mie indagini. Anna... mi hai sentito?» «Sì.» «Bene.» Lewis richiamò quand'erano sul traghetto, per dire che le ricerche sul conto di Rashid Burry non avevano dato esito. Il dipartimento responsabile dei detenuti in libertà vigilata, però, era ancora al lavoro. Si fece viva anche l'agente Grace Ballagio, che stava eseguendo controlli negli ospedali intorno al New Forest: non risultavano pazienti affetti da anemia o simili. Avrebbe ampliato il raggio delle ricerche, fino a trenta chilometri dal bungalow. Langton le disse di allargare la sua indagine anche a Rashid Burry. Erano le quattro passate quando arrivarono a Parkhurst. Il direttore del carcere aveva chiesto che si presentassero direttamente nel suo ufficio. Era un uomo cortese e occhialuto, nonché tendente alla calvizie. Offrì loro del caffè o del tè, ma Langton e Anna rifiutarono. «Temo di dovervi dare brutte notizie», disse. «Quando avete chiesto di interrogare Arthur Murphy, non sussistevano impedimenti.» «E ora sì?» «Sì.»
Langton si accigliò. «Si rifiuta di parlare con noi?» «No, è stato accoltellato durante l'ora d'aria. È morto questa notte.» «Cristo! Non era in un raggio protetto?» «Sì, ma i due assassini sono pedofili reclusi nel suo stesso raggio.» Langton si coprì la faccia con le mani. «L'aggressione è opera di detenuti bianchi?» «No, neri. Uno era compagno di cella di Murphy. In questo periodo abbiamo un problema di sovraffollamento. Non intendo certo accampare scuse per quel che è successo ad Arthur Murphy: verrà svolta un'indagine con tutti i crismi, ma al momento ci sono diecimila stranieri nelle carceri britanniche, e qui da noi mandano spesso i peggiori criminali. Uno degli assassini era in attesa dell'ordine di espulsione. I detenuti di nazionalità britannica sono all'incirca il dodici per cento del totale. Avremmo un disperato bisogno di fondi per ampliare i bracci di massima sicurezza.» Langton lo ascoltava, ma le cifre non gli interessavano. Il direttore stava evidentemente cercando di giustificarsi. «Vorrei interrogare i due uomini implicati nell'omicidio di Arthur Murphy.» «Temo che non sia possibile.» «Perché no?» «Per ragioni legali.» «Io ho bisogno di informazioni. Quei due uomini potrebbero essere legati al brutale assassinio di una giovane donna e della sua figlia di due anni. Se non mi è permesso di interrogarli ora, quando potrò farlo?» «Quando avremo concluso le nostre indagini. Li teniamo in isolamento e, finché non avremo raccolto tutti gli elementi del caso, non possiamo consentire che siano interrogati da altri. Non abbiamo bisogno di altra pubblicità negativa...» Langton lo interruppe bruscamente. «Io non sono un giornalista, ma stia pur certo che, se lei non mi fa parlare con quei due uomini, farò una dichiarazione pubblica.» Anna notò che aveva i muscoli del collo tesi e vibranti per lo sforzo di contenere la rabbia. «La sorella di Arthur Murphy è stata orrendamente massacrata e il corpicino della figlia dato in pasto ai maiali... Be', se lei si rifiuta di farmi interrogare quei due...» «Mi dispiace, ispettore capo Langton, ma...» «Niente ma!» «Sono stato informato della sua indagine: ho sottomano il rapporto in cui lei chiedeva di poter parlare con Arthur Murphy, ma i due uomini im-
plicati nel suo omicidio sono in carcere uno da più di tre anni e l'altro da quasi sei mesi, perciò non credo che possano offrirle spunti interessanti per la sua indagine.» Da quando aveva conosciuto Langton, Anna non lo aveva mai visto così infuriato: aveva i pugni serrati e pareva sul punto di prendere a botte il direttore del carcere. Gli puntò l'indice della mano destra in faccia fin quasi a toccarlo. «Lei mi ha elencato un mucchio di fatti e di cifre... Be' i miei fatti sono questi: Arthur Murphy era una canaglia, uno stupratore e un assassino. Non me ne frega un cazzo di lui: io voglio solo sapere perché quei due lo hanno ammazzato. I colpevoli di reati sessuali, in genere, si proteggono a vicenda, come lei mi insegna. Perché allora lo hanno accoltellato? Sono stupratori, pedofili! Al momento c'è un ricercato in libertà e due minori a rischio, un ricercato che...» Langton impallidì all'improvviso e dovette appoggiarsi all'indietro sulla sua sedia. Aveva la faccia imperlata di sudore. Prese delle pillole e chiese un bicchiere d'acqua. Anna gli si avvicinò. «Stai bene?» Langton annuì, ingoiando pastiglie a raffica e trangugiando l'acqua. Il direttore della prigione rimase in silenzio e, dopo un attimo, chiedendo permesso, li lasciò soli. «Vuoi stenderti?» gli domandò Anna. Lui fece cenno di no e si protese in avanti, chinando la testa. Lei lo guardò boccheggiare, bisognoso di ossigeno. Ci volle un po' prima che si rialzasse da quella posizione per tornare ad appoggiarsi allo schienale, con gli occhi chiusi. Il direttore, quando ricomparve, era sudato quasi quanto Langton. «Mi dispiace. Ho ricevuto ordini tassativi dal ministero dell'Interno. Comunque, vista l'importanza della sua indagine, le darò modo di parlare per dieci minuti con ciascuno dei due detenuti.» «Grazie», disse Langton con un filo di voce. Il direttore tornò a sedersi dietro la sua scrivania. «Il detenuto 3457, braccio D, si chiama Courtney Ransford. Era evaso dal carcere di Ford Open nel 2001; è stato ripreso nel 2003, dopo che aveva commesso un omicidio. Questa è la sua fedina penale.» Langton si protese per prendere i fogli che gli venivano porti. Anna si alzò per andare a sbirciare alle sue spalle. «Il secondo uomo coinvolto è un immigrato illegale in attesa di espulsione. Si chiama Eamon Krasinique.»
Langton lo guardò sbalordito. «Come dice?» Anche il colpevole dell'omicidio di Carly Ann North si chiamava Krasinique. Gli fu passato il dossier relativo, e lui lo sfogliò. Si voltò verso Anna e le indicò il nome. Non si faceva menzione di fratelli né di altri familiari. «Può verificare se quest'uomo è imparentato con un certo Idris Krasinique, condannato per omicidio? In questo dossier non si parla di eventuali parenti.» La coincidenza era strabiliante: Langton non riusciva a crederci. «Non abbiamo elementi anagrafici certi. È entrato in Gran Bretagna con un passaporto falso, perciò non sappiamo neppure se il nome sia vero; può darsi che lo stesso nome venga usato da più persone. È stato condannato per spaccio di droga e per il sequestro di una quattordicenne.» «Gesù Cristo...» borbottò Langton. «Ovviamente, abbiamo perquisito le loro celle e non abbiamo trovato nulla di utile per comprendere le motivazioni del loro gesto. C'è un ulteriore particolare che devo riferirvi. Una delle ragioni per cui abbiamo avuto discussioni con il ministero degli Interni riguardo a questa vicenda... la stessa che ci impedisce di dare pubblicità alla questione... Come ho già detto, è la quantità di detenuti stranieri, oltre a quelli britannici appartenenti a minoranze etniche...» «Sì, sì...» sospirò Langton, sperando di non doversi sorbire un'altra sequela di «cifre e fatti». «Due giorni fa, durante l'orario ricreativo, Krasinique ha chiesto di fare una telefonata. Aveva pochi spiccioli a disposizione e quindi ha chiesto di chiamare a carico del destinatario. Gli è stato negato. Il giorno dopo aveva recuperato abbastanza denaro per fare la telefonata. Ha dovuto aspettare un po', perché il telefono del suo raggio era occupato. Krasinique ha cominciato a dare in escandescenze, dicendo che aveva urgenza. L'agente in servizio, allora, ha dato ordine ai prigionieri che lo precedevano di darsi una mossa, altrimenti sarebbe scaduto l'orario. Solo per questo siamo a conoscenza della chiamata. Alla fine, è riuscito a parlare e subito dopo, secondo l'agente, ha cominciato a comportarsi stranamente.» «In che senso?» «Pareva abbattuto e, quando gli è stato detto di tornare nella sua cella, è sembrato disorientato. L'hanno accompagnato e rinchiuso dentro, ma durante la notte pare che non si sia messo a letto e sia rimasto in piedi tutto il tempo. Per ben tre volte è stato invitato a coricarsi, ma lui non ha nemmeno risposto. Il mattino dopo era ancora stralunato e non ha voluto mangiare.»
«La telefonata... Voi registrate le chiamate in uscita, giusto?» «Be', sì, ma ce ne sono centinaia ogni giorno. Abbiamo trovato un numero di telefono su un pacchetto di sigarette: potrebbe essere quello composto da Krasinique. È un numero di cellulare, senza nome.» Il direttore passò a Langton il rapporto relativo alla perquisizione delle celle, e Langton ricopiò il numero di telefono. Gli furono mostrate le fotografie del corpo senza vita di Arthur Murphy: aveva un unico taglio profondo all'altezza della gola. Il direttore radunò i documenti e le foto. «Krasinique non ha praticamente aperto bocca dopo l'aggressione omicida. È depresso e apatico e pare incapace di ricordare alcunché dell'attacco.» Langton bevve un po' d'acqua. Il direttore proseguì. «L'altro accusato, Courtney Ransford ha dichiarato di essere stato costretto a tenere fermo Murphy per consentire a Krasinique di tagliargli la gola.» Si umettò le labbra, radunando i rapporti e rimettendoli poi nelle cartellette. «Diceva che Krasinique era diventato uno zombi e che se lui non lo aiutava avrebbe subito la stessa sorte. Sa che cosa significa "zombi"?» Langton guardò Anna, prima di rivolgersi nuovamente al direttore. «È un termine voodoo», spiegò il direttore del carcere. «C'è gente che è ritenuta capace di trasformare le altre persone in zombi, riducendole cioè in uno stato di letargia simile alla morte. Sembra assurdo, lo so, ma se uno ci crede davvero... La mente umana è capace di tutto. Ora capirà anche la mia reticenza: se questa notizia si diffondesse, sarebbe un disastro.» Anna e Langton furono introdotti in una saletta riservata agli interrogatori. Fuori, fu messo di piantone un agente in divisa. C'erano solo due sedie, sicché Anna sarebbe dovuta rimanere in piedi. Courtney Ransford fu condotto nella saletta con le manette ai polsi, in tenuta da carcerato. Era massiccio e ossuto, con capelli arricciati a ciocche sparate in aria e mani grandi come badili. Langton parlò a voce molto bassa, costringendo Ransford a sporgersi in avanti. Joseph Sickert, Gail Sickert e Rashid Burry non li aveva mai sentiti nominare. Gli occhi cerchiati di rosso e sporgenti dalle orbite erano persi nel vuoto; quando gli fu domandato che cosa fosse accaduto nel cortile del carcere, ebbe un'esitazione, dopo di che, con una voce rauca come quella di un animale, disse che non ricordava nulla. «Hai tenuto fermo un uomo mentre gli tagliavano la gola e pretendi di non ricordartene?»
«Sì, infatti.» «Questo gesto aggiungerà altri dieci anni alla pena che già dovevi scontare. Che cosa ne dici?» «È brutto.» «Se mi aiuti, magari poi io posso aiutare te.» «Ah, sì?» «Sì.» «E che cosa potresti fare per me?» «Posso fare in modo che ti diano una condanna più mite. Dipende da quanto tu sarai disposto a...» Courtney si avvicinò ulteriormente a Langton. «Amico, tu non puoi aiutarmi, e sta' pur certo che per me sarebbe un guaio se anche solo si sapesse che ho parlato con te, perciò vaffanculo e lasciami in pace.» «Sei così spaventato?» «Sì, si può dire così.» «Spaventato al punto da beccarti l'ergastolo?» Courtney si appoggiò all'indietro, guardò il soffitto e cominciò a rumoreggiare con la bocca, risucchiando aria tra i denti. «Potrei anche farti trasferire in un altro carcere.» Courtney scosse la testa. «Ascolta, amico, non c'è un solo posto dove quelli non siano capaci di trovarmi. Quel verme ha avuto ciò che si meritava.» «Chi sarebbero "quelli"?» Courtney lo guardò storto. «Se mi dai i nomi, vedrò se posso...» «Non puoi fare niente, amico, mi hai sentito? Per me non puoi fare nulla, e io non farò nulla che possa farmi fare la fine di quel poveraccio. È un morto che cammina.» «E tu no?» «No, no! Agente! Agente, voglio andarmene di qui!» gridò Ransford al secondino che aspettava fuori. Questa sì che era una manifestazione di paura autentica. Langton si sforzò di mantenere la calma. «Cos'è che ti spaventa così tanto?» Non ottenne risultati. Courtney voleva essere portato via, e alla fine Langton dovette accontentarlo. Dopo un quarto d'ora circa, udirono un rumore di passi: Eamon Krasinique aveva ventidue anni, ma entrò nella saletta come un povero, fragile
vecchio. Aveva gli occhi vitrei, e le braccia gli penzolavano inerti lungo i fianchi. Dovettero aiutarlo per farlo sedere. Pareva completamente assente, ignaro di tutto. Langton provò a interrogarlo, ma Krasinique non diede risposta. Aveva le labbra bagnate dalla saliva che gli colava sul mento, gli occhi enormi e totalmente inespressivi, simili a buie caverne, che non guardavano Langton né Anna, bensì fissavano un punto nel vuoto. «Perché hai ucciso Arthur Murphy?» domandò Langton. Krasinique sollevò lentamente la mano destra e puntò l'indice nello spazio tra Langton e Anna, per poi rotearlo lentamente a tracciare un cerchio. Si voltarono entrambi a guardare e videro che appeso alla parete c'era un orologio. Non capivano che cosa significasse quel gesto... Forse intendeva dire che i dieci minuti destinati all'interrogatorio erano passati. Non ne cavarono nulla, neppure una parola, e lo guardarono andar via, diretto alla sua cella d'isolamento. Quando lasciarono la saletta, furono presi in consegna da un agente del penitenziario che li accompagnò all'uscita dell'istituto di pena. Era un tizio cordiale e con le spalle grosse, sulla trentina. Langton camminava davanti ad Anna e domandò all'agente che cosa gli risultava che fosse accaduto. Lui rispose che l'aggressione aveva colto tutti alla sprovvista: non c'erano mai stati screzi o problemi, in precedenza. Murphy sembrava andare piuttosto d'accordo con Ransford e giocavano spesso a ping-pong insieme. Ransford conosceva bene anche Krasinique e, siccome quest'ultimo è molto giovane, lo aveva preso sotto la sua ala protettrice. Nessuno aveva mai visto quei tre litigare. Era successo tutto rapidissimamente. Nel giro di un istante Murphy era lì a terra, mentre Krasinique era rimasto in piedi, immobile, con la lama in mano, senza neppure tentare di nasconderla. Ransford aveva provato a discolparsi dall'omicidio, ma aveva la casacca spruzzata di sangue. Langton gli riferì che l'unica reazione mostrata da Krasinique era consistita in quel gesto con cui forse aveva voluto alludere al giro dell'orologio. «Sì, lo fa sempre. Punta il dito indice davanti a sé e lo fa girare. Non ho idea di che cosa significhi, ma del resto non abbiamo idea neanche di che cosa gli sia successo. I medici che lo hanno visitato dicono che le droghe non c'entrano. Girano voci su riti voodoo... ma noi abbiamo avuto ordine di non lasciar trapelare nulla, per evitare che la situazione possa sfuggire di mano.»
Mentre salivano sul traghetto per tornare alla base, Langton ricevette la prima buona notizia della giornata. L'agente Grace Ballagio aveva cercato notizie su Rashid Burry in numerosi ospedali e aveva scoperto che un uomo con quel nome era stato curato nel reparto d'emergenza di un nosocomio a una trentina di chilometri dal New Forest, per un'infezione ai reni. L'indirizzo che aveva dato era quello dell'ostello di Brixton. Le date del ricovero e del trattamento coincidevano con i giorni successivi alla visita di Anna al bungalow di Gail, lo stesso periodo in cui anche Vernon Kramer aveva ammesso di esserci stato. Poco dopo, Gail era scomparsa. C'era da notare che la descrizione del paziente non si attagliava a Rashid Burry... bensì a Joseph Sickert. Quando ebbero raggiunto il commissariato dello Hampshire, erano ormai passate le otto. Langton aveva un'aria stanchissima e disse che avrebbero fatto il punto della situazione il mattino seguente. Quando tutti se ne andarono, pronti a ripresentarsi l'indomani di buon'ora, Langton rimase in ufficio. Anna raggiunse il parcheggio insieme a Mike Lewis, che aveva avuto una giornata scoraggiante, trascorsa in viaggio tra ostelli e uffici di sorveglianza dei detenuti in libertà vigilata, nel tentativo di rintracciare Rashid Burry e per dare, intanto, un'occhiata agli altri residenti: era rimasto stupito dall'incompetenza degli impiegati. Gli ostelli della zona di loro interesse erano sommersi dai detenuti in permesso e in libertà vigilata e dagli ex detenuti in attesa di espulsione. La quantità di delinquenti che ne avevano approfittato per dileguarsi era inquietante, per l'apparato della giustizia in generale e per l'indagine in corso in particolare. Anna arrivò a casa che erano le dieci passate. Data la distanza della loro base operativa da Londra, si sarebbe dovuta sobbarcare un bell'andirivieni. Non appena ebbe appoggiato la testa sul cuscino, cadde addormentata. Langton, invece, rimase al commissariato fino a molto tardi. Aveva prenotato un posto in un bed & breakfast nei paraggi. Passò al vaglio tutte le informazioni acquisite: nonostante le questioni ancora irrisolte, aveva la sensazione di essere sulla strada giusta per catturare l'uomo che lo aveva ferito. Questi, chiunque fosse, era certamente collegato all'omicidio di Arthur Murphy, che era stato ucciso per via di qualcosa che sapeva, e l'ordine di ucciderlo doveva essere giunto dal proprietario del cellulare chiamato da Krasinique. Langton scarabocchiò un appunto sull'importanza di rintracciare questa persona. Quindi, si sedette di fronte alla bacheca che illustrava i progressi dell'indagine, con una gamba distesa. Aveva dei forti dolori, e il ginocchio era molto gonfio. Anche Grace era rimasta per un po' a lavorare
alla sua scrivania e a un certo punto andò in mensa a prendere da mangiare. Al suo ritorno, Langton era ancora seduto nello stesso posto e stava massaggiandosi lentamente la gamba sinistra, così assorto nei suoi pensieri che neppure si accorse della buonanotte sommessamente auguratagli da Grace. 10. Anna si era fermata a prendere un cappuccino durante il viaggio per andare al lavoro, ma fu comunque tra i primi ad arrivare, seguita da Mike Lewis che aveva una crêpe all'uovo e pancetta in una mano e un bicchiere di caffè da asporto nell'altra. Harry Blunt entrò e si diresse immediatamente verso il buffet. Ammonticchiò una serie di krapfen su un piatto di carta e si fermò a fissare la bacheca. «Cristo!» Lewis abbozzò un sorriso, ma restò anche lui sorpreso dalla quantità di informazioni che vi erano state annotate: la bacheca era interamente coperta di nomi e fatti, di appunti e diagrammi. «Il capo si è dato da fare, eh?» disse Lewis rivolto ad Anna. «Mi sa di sì. Ieri sera, quando me ne sono andata, era ancora qui.» «Alloggia in un bed & breakfast in fondo alla via», disse Harry, con la bocca piena. Si radunarono a guardare con una certa perplessità il lavoro, naturalmente incompiuto, avviato da Langton. C'erano liste di nomi, alcuni dei quali cerchiati o sormontati da grossi punti di domanda o collegati tra loro da vistose frecce tracciate a pennarello. Ancora più in evidenza, a caratteri cubitali, in pennarello verde, c'era la parola VOODOO. Erano tutti così intenti a raccapezzarsi che il chiacchiericcio si smorzò. Langton fu l'ultimo ad arrivare. Era vestito di tutto punto, ma aveva la faccia pallida. Chiese cinque minuti di tempo, prima di dare inizio alla riunione, e si ritirò nel suo ufficio. Lewis si voltò verso Anna. «Va a farsi un'altra dose di antidolorifici.» «Che cosa?» «Dai, non te ne sei accorta? Ne ingurgita di continuo.» «No, non me ne sono accorta», rispose lei seccamente. «Be', te lo dico io. Prende anche qualcosa per tenersi su... e non si tratta di vitamine!» Anna non replicò.
«Ascolta, non ti sto raccontando balle. Sono preoccupato per lui. Se continua così, finirà per scoppiare, e adesso che non ci sei più tu a raccogliere i cocci...» «Mike, non ho voglia di parlarne, okay?» Lewis si strinse nelle spalle e se ne andò alla propria scrivania. Harry stava parlando con Grace, quando Langton uscì dal suo ufficio. «Okay, prendiamo posto. Si comincia.» Avvicinandosi alla bacheca prelevò un righello e indicò una fotografia di Carly Ann North. «Questa è la vittima nell'ultimo caso di omicidio di cui mi sono occupato. Il sospetto, Idris Krasinique, è stato arrestato e incriminato per l'omicidio. Lo chiameremo caso numero uno.» Indicò la foto segnaletica di Krasinique. «Lui ci ha fornito i nomi e l'indirizzo di altri due uomini che erano presenti sul luogo dell'omicidio ed erano riusciti a fuggire.» Indicò i due nomi e l'indirizzo dell'ostello di Brixton in cui lui, Lewis e Barolli erano andati a verificare le informazioni così ottenute. «Uno dei due era un nero giamaicano; il suo amico pareva piuttosto un somalo. Sono riusciti entrambi a fuggire, e non disponiamo di identikit o descrizioni.» Langton non fece menzione delle ferite quasi fatali che aveva riportato quella sera. «In un secondo momento, però, Idris Krasinique ha dichiarato di esserseli inventati, quei nomi, e al processo ha insistito in questa affermazione.» Langton si spostò davanti alla bacheca e vi picchiettò sopra con il righello. «Caso numero due: l'omicidio di Irene Phelps. Cercavamo, come responsabile, Arthur Murphy. L'ispettrice Travis è andata in un altro ostello, sempre a Brixton, per vedere se Murphy non avesse trovato rifugio da Vernon Kramer. Questo ostello, tra l'altro, era a pochi minuti di strada dalla casa di Irene Phelps e a quattro vie di distanza dal primo ostello, dove io sono stato aggredito. Quando l'ispettrice Travis si è avvicinata alla casa, usando il finto pretesto del registro elettorale, le è stato impedito l'ingresso da un giamaicano nero con due denti d'oro sul lato destro della bocca. Siamo ormai praticamente certi che quest'uomo sia Rashid Burry e riteniamo che abbia sbattuto la porta in faccia all'ispettrice Travis perché temeva che lei volesse arrestarlo in relazione al caso numero uno.» Langton raccontò del successivo arresto di Murphy e di Vernon Kramer, rispettivamente per l'omicidio di Irene e per favoreggiamento, oltre che per aver ostacolato il corso della giustizia. Kramer, però, era stato rilasciato su cauzione.
«Quando Kramer è stato rilasciato su cauzione, Rashid Burry ha fatto pressione su di lui per capire quanto noi fossimo vicini a scoprire del suo coinvolgimento nel caso numero uno, senza sapere che l'ispettrice Travis era in realtà interessata al caso numero due. Burry, però, è riuscito a sapere che l'ispettrice Travis e io ci conoscevamo.» «Caso numero tre: l'omicidio di Gail Sickert e della sua figlia più piccola. Gail era la sorella di Arthur Murphy. Viveva con quest'uomo, Joseph Sickert.» Langton indicò l'identikit elaborato con l'aiuto di Anna. «Sickert soffre di una malattia del sangue e ha bisogno di farmaci, che in genere riceve da Rashid Burry. Questi chiede a Vernon Kramer di andare a recapitare le medicine a Sickert. Quando Kramer va da Sickert, gli racconta che l'ispettrice Travis, che aveva avuto un ruolo nell'arresto di Arthur Murphy, conosceva il poliziotto che era stato "tagliato". Quando Anna Travis si è rifatta viva con Gail, Sickert è andato nel panico: l'ispettrice era lì solo per parlare con Gail della foto di Murphy e Kramer che questa le aveva dato, ma Sickert crede che si tratti di ben altro.» Nella sala si diffuse un mormorio quando Langton attirò l'attenzione dei presenti sulle fotografie e le descrizioni delle vittime della porcilaia. «Alla porcilaia sono tuttora in corso le ricerche di altri resti. Nonostante l'ampio risalto dato dai media alla vicenda, abbiamo perso le tracce di Sickert, di Rashid Burry e degli altri due figli di Gail.» Langton indicò una seconda foto di Murphy. «Passiamo al caso numero quattro: l'assassinio di Arthur Murphy nel carcere di Parkhurst. Il suo compagno di cella è un giovane, forse somalo, privo di documenti. Non si sa esattamente da dove venga né se il nome che ha fornito - Eamon Krasinique - sia quello vero. Il suo cognome ci riporta al caso uno: in quel caso il colpevole si chiamava Idris Krasinique. Non sappiamo se questi due siano imparentati o se abbiano adottato per caso lo stesso cognome falso, anche se quest'ultima ipotesi mi pare sinceramente poco probabile.» Langton bevve un bicchiere d'acqua prima di riprendere a parlare. «L'ispettrice Travis e io abbiamo interrogato entrambi i detenuti coinvolti nell'omicidio di Arthur Murphy. Il primo, questo Courtney Ransford, non ci ha detto niente dei motivi per cui Murphy è stato ucciso. Il secondo, Eamon Krasinique è in uno stato di shock e non parla. Anzi, nessuno in quel carcere sembra aver voglia di parlare.» Langton tirò a sé una sedia e si accomodò davanti alla propria opera. Prese a massaggiarsi il ginocchio e chiese un caffè. Dalla sedia indicò la bacheca. «Dobbiamo scoprire che cosa sapeva Murphy di tanto importante
da meritarsi una rasoiata alla gola. Dobbiamo rintracciare Sickert e Rashid: questi due o altri a loro legati hanno un potere tale da spingere dei detenuti ad ammazzare per non incorrere nelle conseguenze di un rifiuto.» Sospirò. «Ovviamente, anche i due figli di Gail Sickert tuttora irreperibili, ammettendo che non siano morti, si trovano in una situazione di estremo pericolo. La stampa e la TV ne hanno trattato a profusione, ma ancora non si hanno notizie.» Si rialzò, come se da seduto soffrisse più che in piedi. Si rivolse ai collaboratori e domandò se vi fossero nuovi sviluppi. Grace riferì dell'ospedale in cui Joseph Sickert era stato curato. Era passato dal pronto soccorso e si era qualificato come Rashid Burry. Aveva dichiarato di essersi ammalato mentre era temporaneamente ospite di alcuni amici e aveva detto di risiedere all'ostello di Brixton. «Aveva la febbre alta ed era chiaramente molto malato. Il medico gli aveva consigliato di fare un ecodoppler cardiaco, ma Sickert non aveva voluto trattenersi. Gli erano stati dati dei farmaci contro la pressione alta...» Grace fu interrotta da Langton. «Scusa, Grace, ma tutti questi dettagli non ci interessano. Hai domandato se per caso c'erano con lui dei bambini?» «Sì, ho domandato. Pare che sia arrivato da solo. Era in uno stato di grave agitazione ed è stato visitato quasi immediatamente. Urlava e insultava tutti. A un certo punto si è persino disteso a terra dicendo che non riusciva a respirare.» «Per quanto tempo è rimasto all'ospedale?» «Dodici ore. Stava per essere trasferito, ma si è fatto dimettere e se n'è andato.» «I due figli maggiori e Sickert sono ormai scomparsi da tre settimane! Qualcuno, da qualche parte, dovrà pur sapere dove si trovano, perciò riproveremo a diffondere appelli tramite i media.» «Il dottore aveva avvertito Sickert che sarebbe andato incontro a una grave crisi, dato che stava vomitando e, come ho detto, aveva una febbre molto alta. In questo stato è estremamente esposto al rischio di infezioni. Direi, anzi, che dovunque si trovi, avrà senz'altro bisogno di ulteriori cure.» Poi venne il turno di Mike Lewis. «Abbiamo verificato in tutti gli ostelli delle zone di Harlesden, Hackney, Brixton e Tottenham. Ad alcuni dei residenti il tribunale ha imposto di soggiornare lì come condizione per godere della libertà vigilata o su cauzione. Altre persone ci abitano perché il
tribunale le ha affidate ai servizi sociali e ha ritenuto di dover esercitare su di loro una qualche forma di controllo. Ci hanno detto ripetutamente che i pregiudicati residenti in queste strutture non sono liberi di andare e venire, bensì sono tenuti a osservare rigorosamente una serie di regole, tra cui l'obbligo di pernottamento, in genere tra le ventitré e le sette. Gli ostelli sono quasi tutti presidiati ventiquattr'ore su ventiquattro dal personale che non perde occasione per ricordare ai residenti la linea diretta che mantiene con la polizia e le autorità locali. Se non si adeguano alle regole, gli ospiti rischiano di ritornare in carcere o di vedersi revocata la libertà vigilata. Non possono introdurre bevande alcoliche, farmaci che non siano stati prescritti da un medico o da un'infermiera, solventi e così via. Le stanze, mi hanno detto, vengono perquisite regolarmente.» Lewis alzò gli occhi e vide Langton seduto a capo chino, con un'aria molto annoiata. Ciononostante proseguì. «Okay, questo dovrebbe essere il funzionamento di questi ostelli o case-comunità. In realtà, questi posti sono un casino indescrivibile, ma trovare qualcuno che sia disposto ad ammetterlo è un'impresa. Sono tutti a corto di personale e sottoposti a una pressione che non riescono a gestire. Qui abbiamo un elenco di delinquenti che si sono tolti i braccialetti elettronici e se ne sono andati. Uno dei funzionari ha confessato che non sanno più che pesci prendere.» Langton sbadigliò. Lewis sfogliò alcune pagine del suo taccuino. «Un addetto con cui ho parlato mi ha spiegato che ormai si fa fatica a controllare chi ci abita, in questi ostelli, dato che molti non parlano nemmeno inglese. Avete letto sui giornali, qualche tempo fa, di quell'immigrato illegale che lavorava come guardia di sicurezza all'Old Bailey, il tribunale di Londra, nonostante fosse già stato in carcere ed espulso per ben due volte? Si era procurato dei falsi certificati di nascita ed era spesso in servizio a guardia dell'ingresso principale della Central Criminal Court, dove si celebrano di continuo processi per terrorismo...» «Cristo, Lewis! Va' avanti, con questo tuo maledetto rapporto!» «Scusa, capo. Be', sappiamo che Vernon Kramer nascondeva Arthur Murphy nell'ostello in cui risiedeva. Siamo andati nello stesso ostello a cercare Rashid Burry e abbiamo scoperto che era amico di uno dei residenti. C'è un Rashid Burry anche all'ostello di Hounslow: uno dei suoi amici, anche lui residente in loco, è noto per essere un pericoloso psicopatico. Quattro settimane fa, si è staccato il braccialetto e non è più stato rintracciato. Al momento non risultano precedenti penali a carico di alcun Rashid
Burry, perciò possiamo solo supporre che fosse ospite non registrato; pare che andasse e venisse come gli pareva. Può essere che spacciasse droga.» Mike Lewis si sedette. Langton osservò in silenzio un agente che stava annotando altri nomi e fatti sulla bacheca. A quel punto fu la volta di Harry Blunt. «Ero con Mike all'ostello di Hounslow, ma sono rimasto bloccato per via del tempo che mi ci è voluto a cavare da quei funzionari anche le informazioni più banali. Poi ho parlato con un ragazzino assegnato a quella comunità e credo di aver trovato un aggancio prezioso.» Langton restò seduto con le mani sulla faccia. Anna intuì le sue smorfie di dolore e lo vide massaggiarsi di nuovo il ginocchio. Harry indicò la bacheca. «Il ragazzino mi ha parlato di un residente che aveva alloggiato lì per un breve periodo, dicendo che era un vero pazzo e che, mentre era lì, si era vantato di avere accesso a tutti i documenti falsi possibili, dai passaporti ai permessi di lavoro e di soggiorno. Si chiamava Clinton Amadou, e io credo che si tratti dello psicopatico di cui parlava prima Mike Lewis.» Langton alzò gli occhi e ascoltò con grande attenzione. Harry proseguì. «Clinton Amadou era stato arrestato nel 2000 per aver fatto entrare nel Regno Unito centinaia di immigrati illegali, molti dei quali bambini, ma a causa del collasso del sistema delle espulsioni è ancora in circolazione. È stato condannato a quattro anni di galera ed è stato anche interrogato a proposito di un omicidio rituale ai danni di un bambino di sei o sette anni, trovato cadavere in un sacchetto della spazzatura nel Regent's Canal. Rilasciato prima della scadenza della pena, fu sistemato dalle autorità nello stesso ostello in cui alloggiava Vernon Kramer e dove, come sappiamo, Rashid Burry passava spesso. Il ragazzino dice che Amadou abitava dalle parti di Peckham. Quando ho verificato i suoi dati, ho scoperto che è arrivato per la prima volta nel Regno Unito nel 1997, usando il nome di Rashid Amadou.» Langton scosse la testa. «C'è da diventar matti... Quanti Rashid ci sono?» «Probabilmente era un nome falso. Al processo, Amadou è stato condannato a quattro anni e ha ricevuto il foglio di via per la Nigeria!» Harry prese un pennarello nero e scrisse ben chiaro sulla bacheca il nome di Clinton Amadou, sottolineandolo; poi, tra parentesi: «alias Rashid Amadou». «Al suo arrivo in Europa ha dichiarato di essere fuggito dalla Sierra Le-
one e ha ottenuto asilo. Dopo una serie di controlli si è saputo che in realtà è originario di Benin City, in Nigeria.» Guardò Langton e giustificò la lunghezza del proprio intervento con l'importanza dei dettagli forniti. «Spero che adesso tu venga al sodo, però», sospirò Langton. Harry lo ignorò. «Se lasciamo perdere il nome "Rashid" e torniamo a quello che più probabilmente è il suo vero nome, cioè Clinton... be', sembra che tutti lo conoscano come un entusiasta seguace del voodoo. Non un semplice appassionato: pare che abbia terrorizzato dei prigionieri e che all'ostello minacciasse chiunque lo ostacolasse.» Ora l'attenzione di Langton era al massimo. Harry fece circolare le foto segnaletiche scattate ad Amadou dopo il suo arresto, affinché qualcuno le appuntasse alla bacheca: aveva la pelle abbastanza chiara e una faccia interessante, le labbra schiuse in un vago sorriso e gli occhi - scuri e incavati molto separati tra loro. «Quand'era in carcere, gli uomini della squadra che stava indagando sull'uccisione del bambino trovato nel sacchetto della spazzatura lo hanno interrogato. Alla fine del colloquio, erano convinti che fosse in qualche modo coinvolto: sospettavano che il bambino fosse entrato illegalmente nel nostro paese per poi essere usato in una specie di cerimonia voodoo. Non erano riusciti a cavare nulla da Amadou, ma la sua reputazione all'interno del carcere aveva fatto registrare un'impennata. Viveva come un principe, e chiunque non si piegasse al suo volere veniva minacciato.» Langton guardò la bacheca e si voltò verso Harry. Era tesissimo. «Ottimo lavoro. Abbiamo una vaga idea di dove possa essere questo Amadou al momento?» «Secondo il ragazzino dell'ostello dovrebbe essere da qualche parte a Peckham, con un mucchio di soldi.» La squadra cominciò a discutere dei nuovi sviluppi, mentre Langton, Blunt, Lewis e Anna si radunarono presso la bacheca. Langton scrutò la faccia di Amadou. C'era qualcosa in quel sogghigno che gli dava i brividi. Parlò a bassa voce, picchiettando sulla fotografia. «Se è stato Amadou a far entrare illegalmente Sickert nel Regno Unito, ha sicuramente una certa influenza su di lui. E se è vero che si trovava nello stesso ostello in cui Vernon Kramer aveva nascosto Arthur Murphy, ecco che abbiamo trovato un nesso: forse Murphy è venuto a conoscenza di qualcosa di compromettente ed è per questo che è stato ucciso.» Anna concordò e fece notare che, in conseguenza di ciò, la situazione dei bambini diventava ancora più pericolosa... se possibile.
Langton ribadì l'importanza di verificare se il destinatario della telefonata effettuata dal carcere di Parkhurst non fosse, per caso, proprio Amadou. Diede anche ordine di localizzare Amadou e Rashid Burry e di insistere con l'aiuto dei media nella caccia a Sickert, che, in quanto malato, forse sarebbe stato più facilmente rintracciabile... benché i ricercati, posto che fossero davvero in grado di procurarsi facilmente dei documenti falsi, potessero essere dovunque... sotto chissà quale nome. Se non altro, però, la squadra stava finalmente facendo progressi. Il coordinatore delle indagini stava suddividendo mansioni e compiti tra i membri della squadra, e Anna era seduta alla sua scrivania in attesa della sua missione quotidiana. Langton era tornato nel suo ufficio. Aveva un aspetto terribile: barba da radere e occhi infossati. Le venne il sospetto che Mike Lewis avesse ragione sul fatto che Langton andasse avanti a forza di antidolorifici. La sua sofferenza era evidente, e la zoppia appariva sempre più pronunciata. Poiché il coordinatore non le affidò alcun compito, Anna bussò alla porta dell'ufficio di Langton. Non sapeva se fosse davvero il caso di disturbarlo, perciò attese qualche istante prima di bussare di nuovo. «Avanti», disse lui, con voce irritata. «Scusa, ma non mi hanno assegnato compiti e...» «Torneremo da Vernon Kramer dopo le interviste con le TV.» «Okay. Con i media parleremo a Wandsworth?» «Sì.» «Okay, quando vuoi...» «Ti raggiungo tra un quarto d'ora.» Lei assentì e richiuse piano la porta. Era molto preoccupata. Lui prendeva qualcosa, non c'era dubbio: aveva le pupille come punte di spillo ed era scosso da tremiti, come dimostrava la sigaretta tra le sue dita. Proprio mentre Anna tornava alla sua scrivania, passò di lì Harry, e lei lo salutò. «Buon lavoro, Harry.» «Grazie, pensavo di andare a bere qualcosa con il capo.» «Io eviterei. Credo sia impegnato con i comunicati stampa.» «Ah, okay.» Esitò e si guardò intorno. «Ti dispiace se ti faccio una domanda?» «No, prego.» «È solo una mia impressione o Langton sta davvero minimizzando il fatto che questi due - Amadou e Rashid Burry - potrebbero essere i due uo-
mini implicati nel suo ferimento?» Anna si morse le labbra e si strinse nelle spalle. «Se davvero li ritenesse implicati, il capo non minimizzerebbe... Al contrario!» «Vabbe', era un'idea che mi era venuta. Ci vediamo dopo. Si va a Peckham! Vediamo se riusciamo a scovare questo stronzo di Amadou.» Anna lo guardò uscire e sospirò a disagio. Era sicura che Langton stesse minimizzando l'importanza di Amadou in relazione al suo ferimento, e sapeva anche perché, ma non per questo la situazione le pareva meno preoccupante. Langton sperava, fumando ininterrottamente, che i tremiti gli passassero. La testa gli pulsava, il ginocchio gli faceva un male atroce, per non parlare delle fitte al torace. Aveva dovuto fare appello a un'enorme forza di volontà per resistere tanto a lungo nella sala operativa, ma ancora di più ce n'era voluta a causa di quella foto di Amadou affissa alla bacheca. Langton aveva fatto fatica a dominare le proprie emozioni. Ne era sempre più sicuro: era Amadou l'uomo che lo aveva assalito riuscendo quasi ad aprirlo in due. Lo shock fisico di quella scoperta lo aveva colpito come un tremendo attacco di panico. Ci mise mezz'ora a calmarsi. Si fece la barba con il rasoio elettrico e dovette bere una bottiglia di acqua prima di sentirsi nuovamente in grado di riemergere dal suo ufficio. «Okay, Travis, andiamo!» Anna si affrettò a seguirlo. Langton non smetteva mai di stupirla. Era rimasta sconvolta nel vederlo così provato, poco prima, e invece adesso pareva decisamente più fresco e rinvigorito. Se prendeva delle pastiglie, evidentemente ne aveva bisogno. Il punto era: quante? Con quale frequenza? Anna non aveva idea di quanto lui dipendesse da quelle pillole né sapeva quale fosse la vera emergenza che esse dovevano sedare. Langton aveva dovuto mettercela tutta per lasciare che andassero Harry e Mike Lewis a cercare Amadou; una volta che l'avessero trovato, però, sarebbe subentrato lui. 11. Vernon Kramer fu portato nella sala degli interrogatori in manette. Langton disse all'agente di scorta che gliele poteva togliere. «Ci hai mentito, vero, Vernon?» domandò. «Non avete il diritto di continuare a venire qui a tormentarmi. Io non ho
fatto niente, e voi lo sapete benissimo.» Langton aspettò l'uscita dell'agente che sarebbe rimasto di piantone fuori dalla porta per qualsiasi evenienza. «Puoi chiedere la presenza di un avvocato difensore, se vuoi», disse Langton. «A che pro?» «Potresti averne bisogno.» «Ascoltatemi, io non voglio guai. Sono stato preso perché ho violato le regole della libertà vigilata. Ho sempre cercato di aiutarvi, ma se voi continuate a venire qui mi mettete in pericolo. Non sono un infame.» «E il tuo amico Murphy lo era?» Vernon deglutì, e la fronte cominciò a imperlarglisi di sudore. «Non so che cosa abbia fatto. Io voglio solo scontare la mia pena e uscire.» «Be', caro Vernon, in fin dei conti potresti restare in gabbia più a lungo di quel che prevedi.» Kramer restò di sasso. «E perché mai?» «Hai saputo del prigioniero che ha tagliato la gola a Murphy?» Vernon scosse la testa. «Non sai niente?» «So soltanto che Arthur è stato affettato.» «Chi te l'ha detto?» «In gabbia c'è un mucchio di gente che è al corrente di quel che succede. Il fatto di essere reclusi non significa che non si possano avere contatti con il mondo esterno. Se mi date duecento sterline, lo so io come fare a procurarmi un cellulare.» «Dimmi quel che sai dell'omicidio del tuo amico Arthur Murphy.» «Io ho saputo soltanto che qualcuno l'ha ucciso, tutto qui. Anzi, a esser sinceri, non voglio neanche sapere altro. Magari c'entra il fatto che continuate a venire qui a farmi domande... e all'improvviso, eccolo lì con la gola tagliata.» «È per questo che hai puntato i piedi quando ti hanno detto che ero tornato?» Langton si sporse in avanti, posando i gomiti sul tavolo di formica. «Sai, Vernon, non credo che tu sia stato sincero con me.» «Oh, Cristo! Per piacere... Vi ho detto tutto quel che sapevo.» «No, Vernon. Non è vero.» Langton si alzò in piedi e andò ad appoggiarsi al muro, le mani affondate nelle tasche. «Secondo me, tu sei informatissimo sulla morte del tuo socio... Che cos'altro puoi dirmi?» Kramer ruotò il capo verso Langton. «Basta, okay?»
«No, non basta. Sai qualcosa dei due che l'hanno ammazzato? Uno lo teneva fermo, e l'altro l'ha sgozzato.» «No, non ne so niente.» «Il ragazzino... Eamon Krasinique...» «Mai sentito nominare.» Langton fece un giro largo e andò ad appostarsi esattamente alle spalle di Vernon. «Non sta tanto bene...» Vernon ruotò nuovamente la testa. «Non ho niente a che fare con lui. Non l'ho mai sentito, questo nome.» «Rashid Burry lo conosci, però. Vero?» Vernon Kramer sospirò. «Sì, ve l'ho già detto... Stava nello stesso ostello in cui alloggiavo io nel periodo in cui ospitavo Arthur... e vi assicuro che vorrei tanto averlo mandato a fare in culo.» «Dimmi di Rashid...» «Oh, merda! Ve l'ho già detto. All'ostello veniva e se ne andava come gli pareva, e adesso non so dove sia.» «Io dico che tu sai più di quel che vuoi far credere.» «No!» Langton tornò a sedersi. «Arthur Murphy lo conosceva bene?» «Non lo so. Murphy, da me, aveva soltanto trovato un rifugio, e siccome non avevamo una cucina sono uscito a prendergli della roba da mangiare.» «Capisco... E quando la tua stanza fu perquisita Murphy dove andò?» «Si era nascosto nei cessi.» «Perciò, nessun altro, lì all'ostello, sapeva della sua presenza. Giusto?» «Sì, ovvio.» «Rashid, però, lo sapeva. Vero?» «Credo di sì. Può darsi.» «Murphy, allora, non potrebbe aver parlato con Rashid?» «Sì, è possibile, ma con quello è meglio non averci a che fare: è un po' pazzo.» «Tu, insomma, non ci andavi tanto d'accordo...» «Non ho mai detto questo.» «E Murphy ci andava d'accordo?» «Che cazzo volete che ne sappia, io?» «Okay. Che cosa mi dici di Clinton Amadou?» Vernon restò visibilmente scosso dalla domanda. «Lo conosci, eh?» «No.»
«Un tempo si faceva chiamare Rashid Amadou.» Vernon deglutì a fatica. «Mai sentito nominare.» Langton oscillò all'indietro sulla sedia per poi slanciarsi di scatto in avanti. «Ne ho fin sopra i capelli delle tue cazzo di bugie, Vernon. Sono stufo marcio delle tue stronzate. Ti ho dato mille occasioni di dirmi la verità, o no?» Guardò Anna. «Sarà meglio che facciamo arrivare un avvocato difensore per il signor Kramer, perché si ostina a non voler collaborare sul caso del bambino assassinato.» Vernon piombò nel panico. «Che cosa? Che cazzo volete dire?» Langton sorrise. «Sono venuto qui, Vernon, perché crediamo che tu abbia qualcosa a che fare con la morte di un bambino trovato in un sacchetto della spazzatura nel canale a Islington.» «No, no! Non è giusto!» «Speravo che ti decidessi a dirmi la verità, ma la tua reticenza mi ha stancato.» «No, no... aspettate! Non potete coinvolgermi in quella storia. Io non ne so nulla. Lo giuro davanti a Dio!» Anna fece finta di accingersi a rimettere documenti e materiale vario nella valigetta. «Ascoltatemi, io...» «No, sei tu che devi ascoltare me, Vernon! Stiamo indagando su una serie di omicidi - tra cui quello di Gail Sickert e della sua bambina di due anni - e riteniamo che ci sia un legame tra te, Murphy e...» «No, non esiste!» «Cos'è che ti fa così paura, Vernon?» «Io non ho paura!» «Temi di poter subire lo stesso trattamento riservato a Murphy? È questo che ti fa paura? O quello che hai saputo del bambino ucciso? Te ne hanno parlato?» Vernon aveva gli occhi sbarrati. «Un morto che cammina... Hai paura che ti riducano a uno zombi?» Vernon si coprì la faccia con le mani. «Non è giusto.» «Che cosa c'è di tanto ingiusto?» Vernon si inumidì le labbra e si stropicciò gli occhi. «Voi non capite...» disse, con voce quasi impercettibile. «Non ho sentito. Come dici?» Vernon si appoggiò all'indietro e tirò su con il naso: era sul punto di
piangere. «Cristo, non avrei mai dovuto permettere ad Arthur di stare da me.» «Be', un po' ti capisco: sei stato sbattuto dentro per averlo nascosto, e per giunta ti farai gli altri due anni della sentenza precedente, ma ci sono altre ragioni, vero?» Vernon annuì. Ci vollero due brocche d'acqua e molta pazienza, perché Vernon si decidesse infine a parlare. E raccontò una storia completamente diversa. Tempo prima, Arthur Murphy, per fare un favore a Rushid Burry, era andato da sua sorella Gail a chiederle di ospitare Joseph Sickert. Quando Arthur era ricercato per l'omicidio di Irene Phelps, aveva scoperto che Gail e Sickert si erano messi insieme. Questa cosa l'aveva mandato su tutte le furie. Lui e Vernon si erano sbronzati, erano andati da Gail e avevano piantato una grana, al punto che lei aveva chiamato la polizia locale. Vernon, all'inizio, si era rifiutato di nascondere Murphy all'ostello, ma poi aveva dovuto accettare su pressione di Rashid Burry e dello stesso Murphy: dicevano che nessuno sarebbe andato a controllare lì, proprio sotto il naso delle autorità. Murphy aveva conosciuto Rashid Burry in un altro ostello e sapeva che Burry era in contatto con una persona capace di farlo uscire dal paese. Questa persona era Clinton Amadou. Secondo Vernon, il nigeriano disponeva di un'estesa rete di persone in grado di fornire passaporti, visti e permessi di lavoro. Rashid Burry conosceva bene Amadou perché lui stesso era entrato nel Regno Unito grazie a lui. Murphy doveva trovare dei soldi per pagarsi i documenti falsi e aveva garantito ad Amadou che gli avrebbe versato duemila sterline. Rashid aveva i documenti falsi per Murphy già pronti all'ostello, ma voleva i soldi da portare al suo capo. Proprio in quel momento Anna e la squadra di poliziotti erano arrivati a Brixton per arrestare Murphy. Rashid si era molto innervosito e, benché Vernon gli avesse assicurato che la polizia non cercava lui, aveva deciso di avvertire Amadou, il quale si era a sua volta infuriato. Se Murphy avesse parlato del nigeriano, l'intera rete sarebbe stata sgominata. Amadou se l'era presa con Rashid e aveva minacciato conseguenze se Rashid non avesse sistemato la questione... e alla svelta. Vernon si umettò le labbra. «Questo Amadou è molto ricco, ha gente che lavora per lui... ed era incazzato di brutto.» Langton sollevò una mano. «Fu Amadou a organizzare l'arrivo di Sickert nel Regno Unito?» «Sì, di Sickert e di un paio di centinaia di altri. Introduce nel paese frotte
di migranti ogni qualche mese. I giornali dicono che nel Regno Unito entrano immigrati al ritmo di uno al minuto. Molti ci riescono grazie all'aiuto di Amadou. È stato così che ha fatto i soldi.» Di nuovo, Vernon si umettò le labbra. Langton guardò Anna e poi di nuovo Vernon. Esalò un sospiro. «È un bel po' di gente, Vernon. So che tra questi ci sono anche dei bambini... Di' un po', come fa questo Amadou a restare a galla? Come mai nessuno lo tradisce?» «Hanno tutti... cioè avrebbero troppa paura di toccarlo... Per prima cosa questa gente è nel Regno Unito con documenti falsi, giusto? E poi...» Scrollò le spalle. «E poi... che cosa?» «Non so se voi ci credete, ma i negri ci credono, perciò credo che li tenga in pugno in entrambi i modi... mi spiego?» «No.» Vernon chinò la testa. Seguì un lungo silenzio. Alla fine, rialzò il capo e si rivolse verso la parete, senza guardare Langton né Anna. «Voodoo.» «Voodoo», ripeté Langton in tono neutro. «Sì... Intendiamoci, secondo me sono tutte stronzate, ma loro ci credono, e così lui li tiene completamente in pugno. Ecco come riesce a sfangarla, e vive come un principe.» «Tu dunque lo hai conosciuto...» Vernon sbatté le palpebre. «Dai, Vernon... Sei stato sincero, finora... continua così.» «Io voglio andarmene di qui. Voglio andare a Ford o in qualche altro carcere. Qui i detenuti hanno antenne che captano tutto, e sanno che mi avete convocato per interrogarmi.» «Credi che Murphy abbia parlato?» Langton voleva cambiare discorso per dargli modo di calmarsi. Kramer si stava agitando sulla sedia come se l'avesse morso una tarantola. «Sì, credo che abbia parlato di Amadou e forse l'ha fatto con la persona sbagliata... Non lo so.» Kramer si sporse in avanti. «Ho sentito dire che il giovane che lo ha sgozzato è in uno stato di trance causato dal voodoo, perciò... è chiaro, ora? Amadou aveva la sua manodopera anche in quella galera. Capito? Ora mi dovete proteggere.» Langton annuì. «Okay, ascoltami, Vernon, ti offro un patto e ti do la mia parola. Ti assicuro che la manterrò. Parlerò con il direttore del carcere e ti
farò trasferire a Ford, ma a una condizione.» Vernon sospirò. «Non c'è altro. Giuro: vi ho detto tutto. Lo giuro sulla vita di mia madre.» «Okay, siamo d'accordo, allora... se tu ci dici dove sta Amadou.» Vernon giurò: non lo sapeva. Langton ribatté che in tal caso il patto sfumava. Vernon aveva i nervi scossi, ma alla fine disse che ignorava l'indirizzo preciso, ma sapeva che Amadou viveva a Peckham. «E tu sei stato a casa sua?» Vernon ammise: ce l'aveva portato Rashid, con un'auto dai vetri oscurati. Era bendato e aveva le mani legate. Gli avevano tolto la benda solo dopo l'ingresso in casa. Descrisse l'edificio come una grossa costruzione isolata, ma non aveva idea di dove fosse. La casa doveva essere grande perché aveva un doppio box auto e un corridoio interminabile. Vernon non aveva visto la faccia di Amadou, perché questi indossava un cappuccio con due buchi per gli occhi. Amadou lo aveva interrogato sull'arresto di Arthur Murphy, per cercare di capire se ci fosse qualcosa da temere. Vernon aveva spiegato che Murphy era accusato dell'omicidio di Irene Phelps e aveva bisogno di uscire dal paese alla svelta. «Mi ha minacciato: ha detto che se Murphy lo avesse tirato in ballo anche solo di sfuggita, sarei stato io a pagarla. Mi ha ordinato di dire a Murphy di tenere la bocca chiusa e di avvertire Sickert affinché facesse lo stesso.» «E tu lo hai avvertito, Sickert?» «Sì. Credo che anche Rashid sia andato a dirgli due parole.» «Pensi che Amadou sia coinvolto nell'omicidio di Gail e della figlia?» «Non lo so.» Vernon, a quel punto, scoppiò a piangere e prese a biascicare che ora, dopo aver parlato con loro, aveva paura a tornare nel suo braccio. Langton aprì la porta della saletta e pregò l'agente di piantone di riaccompagnarlo. Quindi, tornò al tavolo e prese i propri appunti e la valigetta. Anna si alzò in piedi quando Vernon, terrorizzato, fu condotto in corridoio. «Manterrete la promessa?» domandò Vernon. Langton non rispose, ma consultò l'orologio. Sentirono la voce di Vernon che imprecava e lo insultava finché non fu molto lontano. «Chiederai che venga trasferito?» domandò Anna. Langton si strinse nelle spalle. «Ci penserò.» Prese dalla sua valigetta una bottiglia d'acqua e una boccetta di pillole. «Stai tenendo il conto di quante ne prendi al giorno?» gli domandò An-
na. Langton alzò gli occhi, la fissò per un attimo e poi distolse lo sguardo. A volte, era capace di farle venire davvero i brividi lungo la schiena: gelido, durissimo, ferito. Anna aveva detto a malapena due parole durante l'interrogatorio di Vernon: non gliene era mai stata data l'occasione. Mentre venivano accompagnati alla reception della prigione, dove dovevano firmare il registro prima di uscire, Langton non parlò. «Allora, questo Vernon...?» provò lei. «Che cosa?» «Be', ha vuotato il sacco. Potrebbero fargliela pagare.» «Mi si spezza il cuore. È un lurido e piagnucoloso bugiardo: ha approfittato dei bambini per tutta la vita. Ancora qualche anno, e sarà di nuovo libero di dare sfogo alle sue fantasie malate. Questo sì che mi preoccupa. Se gli affettano il pisello mi può far solo piacere.» Langton si accomodò sul sedile anteriore della volante, accanto al guidatore, mentre Anna, come al solito, salì dietro. Lui, all'improvviso, si voltò e le sorrise malizioso. «È andata bene: abbiamo scardinato le sue difese. Questo Amadou, a quanto pare, è un pesce grosso.» Tornò a guardare davanti per dare indicazioni al guidatore che doveva riportarli alla loro sala operativa. «Speriamo che i ragazzi siano riusciti a rintracciarlo: sulla carta, non era un compito proibitivo.» Anna si appoggiò allo schienale e continuò a rimuginare sull'interrogatorio di Vernon Kramer. La loro indagine aveva preso le mosse dall'omicidio di Gail Sickert e della sua figlia più piccola, ma Langton non l'aveva mai considerato come il problema principale. Tornò a sporgersi in avanti. «Sono terminate le ricerche della Scientifica intorno al bungalow dei Sickert?» «Sì, non è stato trovato nient'altro.» «Nessun altro cadavere, vuoi dire?» «Esatto.» «Dunque, gli altri due bambini e Sickert...» Langton si voltò e la interruppe. «Sono da qualche parte, Dio solo sa dove.» «Questo è chiaro, ma io ho l'impressione che l'indagine stia un po'...» Lasciò la frase in sospeso come se stesse cercando le parole giuste. «Un po'... che cosa?» la incalzò lui.
«Be', ci stiamo concentrando su questo Amadou, perciò immagino che tu ritenga ci sia più di un semplice nesso. Il fatto, però, è che stiamo procedendo in così tante direzioni diverse...» Lui sospirò. «Infatti.» «Magari è stato Amadou a far entrare Sickert; sappiamo che potrebbe essere implicato nell'omicidio di Murphy. Questo Rashid Burry sembra essere una specie di tramite che collega Amadou a Murphy, Vernon e Sickert, ma ancora mancano all'appello i due bambini, e di Sickert non c'è traccia.» «Tu, allora, che cosa suggerisci?» domandò lui sommessamente. «Io non suggerisco nulla. Dico solo che siamo stati un po' sviati, che il tempo impiegato per rintracciare Rashid Burry e Amadou dovrebbe essere dedicato a una più capillare caccia all'uomo per trovare i bambini.» «Perché non provi tu, Anna, a comporre i pezzi del puzzle?» «Quale puzzle? I fatti sono che Sickert e i due bambini più grandi sono scomparsi, mentre Gail e la piccola sono morte! Sarebbe giusto accelerare e approfondire le ricerche.» «Che cosa credi che stia facendo?» domandò Langton. «Che stia tralasciando la scomparsa dei bambini? È questo che pensi?» «No, non ho detto questo. Penso soltanto che l'impegno profuso nelle ricerche di Rashid e Amadou stia distogliendoci un po' da...» Sapeva che lui l'avrebbe nuovamente interrotta. «Ah, davvero? Be', pensaci: vedrai anche tu come tutto si collega. Amadou è in cima al mucchio; favorisce l'ingresso di Sickert nel Regno Unito; Rashid procura i farmaci e i documenti falsi.» «Credi che Sickert e i bambini abbiano lasciato il paese?» «Dimmi tu: dove potrebbe essere andato, ricercato com'è, senza soldi?» «E se Rashid, oltre ai documenti e ai farmaci, gli avesse dato anche dei soldi?» «Sì, e Sickert se ne va all'aeroporto con due bambini bianchi... Credi che Amadou abbia procurato i passaporti anche per loro? Impossibile. Il tramite più probabile per arrivare ai bambini è Amadou: Sickert non può che essere andato da lui. Amadou è un trafficante di bambini, Anna; se ancora sono vivi, si trovano certamente tra le sue grinfie.» A quel punto, Langton si interruppe, si sporse in avanti e fu colto da un violentissimo accesso di tosse: pareva incapace di respirare. Il poliziotto alla guida domandò se non fosse il caso di accostare. Langton scosse la testa, ma aveva il viso congestionato, stava sudando copiosamente e boccheggiava.
«Accosta davanti a quella schiera di negozi», ordinò Anna. L'autista rallentò e mise la freccia per indicare la sua intenzione di fermarsi. Anna gli disse di entrare nella piccola edicola lì accanto a chiedere un po' d'acqua, mentre lei scese dal sedile posteriore per andare ad aprire la portiera di Langton. Era curvo in avanti: non tossiva più, ma era a malapena in condizioni di respirare. Anna gli disse di provare a rialzarsi, ma lui rimase chino in avanti, sempre ansimante. L'autista tornò di corsa con una bottiglia d'acqua. Ne svitò il tappo e la porse ad Anna. «Tieni, James, bevi dell'acqua. Appoggiati allo schienale, se riesci.» Langton, lentamente, si raddrizzò e si appoggiò all'indietro, la nuca posata sul poggiatesta. Lei gli porse la bottiglia e lui, a canna, ne svuotò quasi metà, prima di restituirgliela. «Te la senti di scendere dall'auto per fare due passi?» gli domandò lei, preoccupata. «No.» La voce di Langton era quasi impercettibile. Si tastò le tasche in cerca delle pillole, e Anna si sporse su di lui per prendergliele. «No, non quelle», disse lui, con voce rauca. «Guarda nella valigetta.» Anna si allungò per prendere la valigetta, la aprì e trovò quattro boccette di pillole infilate nella tasca interna. Ne prese una e gliela mostrò, ma lui scosse la testa. Lei gliene mostrò una seconda. «Sì, due di quelle.» Anna prese due pastiglie e gliele porse insieme alla bottiglia d'acqua. Lui le ingerì, e il suo petto, poco alla volta, smise di sobbalzare. «A che cosa servono?» «Per i dolori al torace; tra un minuto starò bene.» Anna riavvitò il tappo e rimise le medicine nella valigetta. Gli mise una mano sulla fronte. «Hai la febbre.» «No, sono solo i sudori. Tra un minuto sarò come nuovo. Chiudi la portiera e risali in macchina.» L'autista era in piedi appoggiato al tettuccio e non sapeva come regolarsi: Anna, dopo aver richiuso la portiera di Langton, gli fece cenno di mettersi al volante. Restarono seduti per qualche istante ancora, dopo di che Langton disse che stava meglio e che potevano andare. Ripartirono, e Langton restò con la testa appoggiata all'indietro e gli occhi chiusi. Anna rimase a guardarlo in silenzio, sempre più preoccupata; poi notò che si era addormentato e poté finalmente rilassarsi. Incrociò lo sguardo dell'autista nello specchietto retrovisore.
«È sovraffaticato», disse lei, sottovoce. Lui annuì e continuò a guidare. Anche Anna chiuse gli occhi, ma non dormì. Continuò a ragionare sui tasselli del puzzle descritto da Langton, per verificare se effettivamente tutto conducesse ad Amadou. Davvero quest'uomo da incubo aveva tra le mani i due figli della povera Gail Sickert? Pensò anche al cadavere non identificato del bambino ritrovato nel canale. Le indagini sulla sua morte avevano portato a concludere che il piccolo poteva benissimo essere stato utilizzato in un qualche rituale voodoo. Era stato probabilmente introdotto nel paese clandestinamente, e Anna si domandò se anche in questo caso potesse esserci lo zampino di Amadou. Decise che, in sala operativa, si sarebbe messa in contatto con i poliziotti che ci avevano lavorato. Quando arrivarono alla stazione di polizia, Langton stava ancora dormendo. A bassa voce, Anna disse all'autista di andare a prendersi qualcosa da mangiare e di socchiudere piano la portiera. Lei, con movenze da contorsionista, passò sul sedile di guida per sistemarglisi accanto. Il respiro di Langton era tranquillo, ora, e lei non aveva voglia di svegliarlo. Controllò l'orologio. Erano le quattro passate. Anna si domandò se gli altri membri della squadra avessero scoperto qualcosa. Dalla fila di auto parcheggiate erano evidentemente tutti tornati alla base e stavano sicuramente aspettando Langton. Anna aprì piano la portiera, per non svegliarlo, ma lui cominciò a riscuotersi. Raddrizzò la testa e guardò fuori dal finestrino. Con voce impastata domandò: «Siamo arrivati?». «Sì.» Si voltò verso di lei, sorpreso di vederla accanto a sé. «Che fai?» «Ho mandato l'autista a prendersi qualcosa da mangiare. Sono le quattro passate. Stavo per svegliarti.» «Ah.» Inspirò a fondo e aprì la portiera. Quindi, ebbe un'esitazione e, tornando a voltarsi, le disse: «Potrei aver bisogno di un po' d'aiuto. Il mio ginocchio è completamente atrofizzato». Lei scese e aggirò la parte anteriore dell'auto. Lui protese la mano per aggrapparsi al suo braccio, cercando lentamente e con grande fatica di sollevarsi. «Scusami», disse lui, con voce sommessa. «Non c'è problema.»
Langton non era in condizioni di lasciare la presa: il suo equilibrio era troppo precario. «Perché non vai al tuo bed & breakfast a riposarti un po'?» suggerì lei. «Tra poco andrà meglio: ho solo le ginocchia anchilosate perché sono stato troppo a lungo incastrato in macchina.» A stargli così vicino, al punto di doverlo letteralmente reggere, Anna era quasi sopraffatta dall'emozione. Ma se si fosse staccata, lui sarebbe caduto. «Come ai vecchi tempi», bisbigliò lui. Anna lo guardò. La barba appena spuntata che gli ombreggiava le guance lo faceva apparire ancora più smunto e tirato, e gli occhi erano cerchiati da profonde occhiaie scure. «Sono preoccupata per te», disse. «Non è il caso... e di' all'autista di non andare in giro a spettegolare. Sai come vanno le cose, nei commissariati. Capito? Adesso sto bene.» Langton si staccò da Anna e si chinò per recuperare la valigetta; sorrise, facendola oscillare. «Meglio rimettersi al lavoro», disse, richiudendo con forza la portiera dell'auto. Lei fece tintinnare le chiavi. «Lascio queste alla reception e ti raggiungo.» «Okay», disse Langton, passando oltre. La forza di volontà che gli ci volle per camminare senza aiuto e senza dar mostra di soffrire le toccò il cuore. Si voltò per prendere la propria valigetta e per chiudere a chiave l'auto, perciò non lo vide appoggiarsi al muro, boccheggiante, mentre digitava il codice d'accesso al commissariato; né lo vide trascinarsi su per le scale, costretto a fare un gradino alla volta. Non poté assistere neppure al suo ingresso in sala operativa: entrò bruscamente e disse, con voce allegra: «Ci siamo tutti? Datemi qualche minuto, e poi si comincia». Si infilò nel suo ufficio, senza che nessuno potesse rendersi conto del suo stato di sofferenza: sbatté la porta e chiuse le veneziane che davano sulla sala. Quindi, aprì la valigetta e prese una boccetta di pastiglie. Ne buttò giù alcune con una tazza di caffè freddo rimasta sulla sua scrivania. Anna era appena entrata, quando la porta dell'ufficio di Langton si aprì e lui comparve nella sala. Era pieno di energia e non mostrava il minimo segno di affaticamento o sofferenza. Batté le mani. «Okay, mettiamoci al lavoro. Ho avuto un'interessante conversazione con Vernon Kramer.» Mentre Anna mangiava un sandwich, Langton aggiunse molti altri ap-
punti sulla bacheca, tracciando nuove frecce in modo da rendere evidente la centralità di Amadou in tutta la vicenda. Quand'ebbe finito, posò il pennarello e, con le mani sui fianchi, si voltò verso Harry Blunt e Mike Lewis. «Bene... sentiamo un po' com'è andata la vostra giornata!» Blunt e Lewis spiegarono nel dettaglio le loro ricerche della residenza di Amadou. Avevano battuto le strade di Peckham e consultato i registri elettorali, ma non avevano avuto fortuna. Avevano interrogato tutti gli agenti immobiliari della zona ed effettuato sopralluoghi in tutte le residenze che potevano appartenere ad Amadou, ma alla fine della giornata si erano ritrovati con un pugno di mosche. Gli appelli diffusi dalla stampa e dai media non avevano dato frutto, a parte le solite chiamate dei mitomani. Langton era nervoso e impaziente: erano tornati tutti a mani vuote. Neppure sull'omicidio di Murphy si erano registrati progressi. I due responsabili erano ancora detenuti a Parkhurst, e Krasinique continuava a comportarsi come uno zombi e aveva perduto la capacità di alimentarsi da solo. Erano quasi le sei di sera. Erano tutti stanchi e pronti a staccare e a tornarsene a casa. Fu Grace a restituire loro un po' di brio. Aveva letto sull'«Evening Standard» che un'azienda della nettezza urbana aveva avvertito la polizia del ritrovamento di un arto umano in un cassonetto. Langton si coprì la faccia con le mani e scosse la testa. «Santo cielo, Grace, che cosa c'entra questo con il nostro caso?» «Il cassonetto era situato nella zona di Peckham; per il momento, la Scientifica è riuscita ad accertare che l'arto, una gamba destra con relativo piede dotato di calzino e scarpa...» Langton si avvicinò a Grace. «Sì... e allora? Dai, Grace, sono le sei di sera! Cos'ha a che fare questo ritrovamento con la nostra indagine?» «La gamba, signore, apparteneva a un nero adulto di circa venticinque anni.» «Sì... e allora?» «Stanno ancora eseguendo le analisi sull'arto ritrovato, e i risultati li avremo solo domani, ma credevo potesse essere comunque interessante. Dagli esami potremo probabilmente stabilire se la gamba apparteneva a una persona che soffriva di una malattia del sangue.» «Be', se questo fatto è collegato al nostro caso, è un gran passo avanti!» ironizzò Langton, sciogliendo la tensione. La riunione fu tolta, con l'impegno di tutti a ripresentarsi l'indomani mattina di buon'ora.
Anna guidò fino a casa in uno stato di tensione e irritazione. Si preparò una cioccolata calda e delle crocchette di Dunn, che era preoccupata per la sorte della figlia. Gail non avrebbe più dato segno di sé fino al rinvenimento del suo cadavere mutilato intorno al bungalow. La squadra Omicidi aveva poi scoperto anche i resti della figlia più piccola di Gail... o, per meglio dire, il suo cranio. Sickert e gli altri due figli di Gail non erano ancora stati ritrovati. Il caso numero due era quello di Carly Ann North. Idris Krasinique aveva cercato di limitare i danni fornendo i nomi di altri due complici. Dopo di che, c'era stato il ferimento di Langton nell'ostello in cui lui era andato a cercarli. A seguito di questa aggressione, Idris aveva ritrattato e negato di aver mai dato quei nomi alla polizia. Langton era stato ricoverato e ci aveva quasi lasciato la pelle, ma al momento nessuno era ancora stato incriminato per questo episodio. Idris, al processo, aveva cercato attenuanti, ma il giudice gli aveva inflitto una condanna a quindici anni. Successivamente, si era sempre rifiutato di parlare dell'aggressione e dei suoi complici, dicendo che quei nomi se li era inventati; aveva dichiarato di avere paura che gli facessero un rito voodoo, se si fosse scoperto che aveva fornito informazioni alla polizia. Anna sottolineò quest'ultimo aspetto, dato che Langton l'aveva lasciato in secondo piano nella sua inchiesta. Mentre era impegnata nell'indagine sull'omicidio di Irene Phelps, Anna grazie alla foto di Arthur Murphy e Vernon Kramer datale da Gail Sickert si era venuta a trovare faccia a faccia con l'uomo che in seguito sarebbe stato identificato come Rashid Burry. Quest'ultimo era legato a Joseph Sickert e lo aveva aiutato a procurarsi i farmaci per curare la sua malattia. Burry, poi, era legato anche ad Amadou - noto trafficante di immigrati clandestini - con il quale, per un certo periodo, aveva coabitato nello stesso ostello. Amadou era anche legato a Sickert, come probabile artefice dell'ingresso di quest'ultimo nel Regno Unito. Terzo caso: l'omicidio di Arthur Murphy in carcere. Il suo assassino, Eamon Krasinique, non risultava essere parente di Idris Krasinique, benché entrambi fossero immigrati illegali. Eamon era in carcere, ridotto a uno zombi, in uno stato di alterazione psicofisica causato da un rito voodoo. Anna sottolineò i due riferimenti al voodoo. Erano solo le dieci e un quarto, ma lei era già prostrata dallo sforzo di comporre i tasselli di quel rompicapo. La sgradevole, ma ovvia spiegazione che continuava a presentarlesi alla mente era che Langton voleva credere che i casi fossero legati: in tal modo, continuando apparentemente a occuparsi dell'omicidio di Gail
Sickert, avrebbe potuto indagare sull'aggressione da lui subita. Alle dieci e mezzo, Anna dovette smettere di arrovellarsi per andare al commissariato di Hounslow, dove aveva appuntamento con l'ispettore capo che gestiva l'inchiesta sulla gamba ritrovata nel cassonetto. Alla reception, però, le dissero che l'ispettore non era disponibile ma, quando Anna vide entrare Barolli, capì di non aver fatto un viaggio a vuoto. «Eh, mi avevano detto che saresti venuta», disse lui, a mo' di saluto. «Non dirmi che stai indagando su questo caso...» «Purtroppo...» «Mi faresti un gran piacere se mi raccontassi tutto quello che sai», disse Anna, affabile, sinceramente contenta di vederlo. Barolli la portò in una saletta vuota e mise sul tavolo un bricco di caffè. «Ascolta, non mi interessa se si viene a saperlo in giro, ma quando sono stato assegnato a questa inchiesta... be', mi è sembrato un passo indietro, ah-ah-ah... No, davvero, ho la nausea delle battute su piedi e gambe... Comunque, mi ha sorpreso che Jimmy non mi abbia chiesto di far parte della sua squadra.» «Io sapevo che tu eri impegnato in un'altra indagine.» «Infatti, ma eravamo in dirittura d'arrivo... Mi avrebbero dato senz'altro il permesso... anche se immagino che fare avanti e indietro dal New Forest tutti i giorni dev'essere uno strazio.» «Già...» Barolli addentò uno strudel. Anna notò, in effetti, che aveva messo su un bel po' di chili, come Langton aveva scritto sul proprio taccuino. «Ci sono novità sul proprietario della gamba ritrovata?» «Sì, si è capito che era un tossicomane... Crack... Riteniamo che possa trattarsi di uno spacciatore, ma sui motivi della sua eliminazione non abbiamo il più pallido indizio. Abbiamo inserito il DNA nel database, ma non risultano corrispondenze. Un bambino era andato a buttare le bottiglie e ha visto la gamba. Erano le otto e mezzo, e il cassonetto viene svuotato sempre alle otto e quarantacinque, perciò è stato un caso assolutamente fortuito. Il resto del corpo non è stato ritrovato. Abbiamo deciso di sondare l'ambiente degli spacciatori, ma a un certo punto abbiamo ricevuto la telefonata di una donna che denunciava la scomparsa del suo partner. Quella poveraccia è dovuta venire all'obitorio per vedere se riconosceva il calzino!» sghignazzò Barolli. «Il riconoscimento è avvenuto grazie a una cicatrice sul ginocchio: l'uomo aveva avuto di recente un'operazione in artroscopia.»
«Dunque, sapete come si chiama.» «Sì, Murray White. Stiamo ancora controllando, ma nessuno lo vede da almeno un paio di giorni... e credo che lo avrebbero notato, se lo avessero incontrato, visto che saltellerebbe su una sola zampa.» «E le ricerche tra gli spacciatori?» «Che dire? Non siamo riusciti a cavarne granché. Quanto al resto del cadavere, potrebbe essere stato fatto a pezzi e seminato in chissà quanti cassonetti della zona e triturato.» Barolli tacque di colpo. «Come sta Langton?» Anna esitò. «Be', soffre ancora molto.» Barolli scosse la testa. «Credevo sinceramente che non ce l'avrebbe fatta. Io ho chiesto un paio di settimane di permesso, dopo il fattaccio. Ero davvero provato. È accaduto tutto così alla svelta... E vederlo così, coperto di sangue...» Tirò su con il naso. «Continuo a tormentarmi con il pensiero che, forse, avrei potuto fare di più, ma io ero alle sue spalle, e lui, quand'è stato ferito, mi è caduto addosso e a momenti mi faceva rotolare giù dalle scale.» «So che anche Mike Lewis ci è passato», disse lei. «Sì, ma Langton probabilmente crede che io avrei potuto fare di più... Forse è per questo che non mi ha voluto nella sua squadra.» «Ne dubito.» «Quando gli ho parlato, mi è parso... Be', non sembrava lui.» «Quand'è stato?» «Ieri sera. Gli ho fornito tutti i particolari di cui disponevamo al momento.» Inclinò la testa di lato. «È per questo che sei venuta?» «Sì, per verificare tutto a dovere.» «Be', non credo che il nostro caso sia legato al vostro.» «Langton ti è parso convinto del contrario?» «Direi di sì... Per questo ha chiamato.» «Tu, però, non credi che possa esserci un aggancio con il suo ferimento, vero?» Barolli scosse la testa. «No... a parte il fatto che anche qui c'è di mezzo un nero. Comunque, per quel che ne sappiamo, non ci sono connessioni con l'omicidio di Carly Ann North.» Anna sorseggiò il caffè, conscia di dover procedere con cautela nella conversazione. Doveva assolutamente evitare che Barolli si insospettisse e telefonasse a Langton. «Che cosa mi dici del tizio condannato per l'omicidio di Carly Ann
North?» attaccò lei. «Idris Krasinique? Vuoi sapere se ha qualcosa a che fare con la nostra gamba amputata? Non mi pare: di immigrati illegali, qui, non c'è traccia. Il nostro uomo - ammesso che sia lui, e noi ne siamo pressoché certi - è nato a Bradford.» «Che tipo era?» «Chi?» «Krasinique.» Barolli inspirò a fondo. «Completamente pazzo. Non sappiamo neanche se quello sia il suo vero nome, dato che i documenti erano falsi... Però ha confessato l'omicidio. Del resto, non poteva fare altrimenti: è stato trovato con l'accetta in mano mentre tentava di staccare la testa alla vittima. Ti giuro che questo mondo comincia davvero a nausearmi.» «È nel carcere di Wakefield, vero?» «Sì, condannato a quindici anni, dopo di che proveranno a espellerlo, ma chi legge i giornali sa che è una barzelletta. Di lui sappiamo soltanto che probabilmente è somalo... ma anche questo non è certo. Si è assunto tutte le responsabilità, ma con lui c'erano altri due uomini; Krasinique prima ha dato i loro nomi, poi ha ritrattato e ha dichiarato di aver mentito, ma noi abbiamo seguito lo stesso la sua imbeccata... e tu sai bene qual è stato il risultato. I nomi, comunque, saranno anche stati falsi, ma l'indirizzo era quello giusto, altrimenti Jimmy non sarebbe stato ferito, dopo di che qualcuno deve aver minacciato Krasinique in carcere. All'improvviso non sapeva più niente, lo stronzo.» «Hai saputo di quel detenuto assassinato?» «Sì, è stato ucciso da un altro Krasinique... Forse, si impadroniscono del nome vero di qualcuno e lo usano più volte.» «E di Amadou... che cosa mi dici?» Barolli scosse la testa. «Anche Jimmy mi ha chiesto di lui, ma io non ne ho mai sentito parlare.» Sospirò. «Dev'essere uno strazio, per lui. A momenti ci lascia le penne, e questi stronzi sembrano in grado di scomparire nelle fogne come ratti. Io ho provato a rintracciarli, ma sono finito in un vicolo cieco.» Anna guardò la sua faccia grassa e tonda, la sua fronte umida di sudore. «Ci stai male, eh?» «Mai come lui. Però - te l'ho detto - me ne sono dovuto restare per due settimane a casa, perché quest'esperienza mi ha davvero piegato. Lui è un grande. È unico. Mi è dispiaciuto che non mi abbia chiamato a far parte
della sua nuova squadra.» Esalò un altro profondo sospiro e cambiò discorso. «Quei due bambini... avete trovato il compagno della madre?» «No.» «La stampa ne ha parlato molto, ma dev'esserci una sorta di rete che li aiuta a scomparire.» «Difficile, con due bambini.» Barolli annuì. «Le ricerche alla porcilaia sono ancora in corso?» «Credo di sì. I recinti sono stati passati al setaccio, ma c'erano costruzioni di ogni tipo, perciò non so se siano ancora al lavoro.» «I maiali mangiano qualunque cosa.» Anna prese la valigetta. La situazione era già abbastanza deprimente. Barolli poteva risparmiarsi quest'ultima notazione. «Grazie.» «È stato un piacere... Ah, puoi farmi un favore? Metti una buona parola per me, okay? L'indagine a cui sto collaborando si concluderà presto, e se... Be', vedi tu.» Lei gli diede un buffetto su un braccio. «Contaci, ma non dire che ci siamo incontrati... sai com'è? Sarebbe capace di credere che io sia venuta a fare le pulci al suo lavoro...» Barolli inclinò la testa. «È per questo che sei venuta?» «No, ordinaria amministrazione.» Gli occhi scuri di Barolli la scrutarono. «Sta bene?» «Sì, te l'ho detto, se la cava benissimo... Ha solo un po' di dolori.» «Come tutti...» commentò lui sconsolato. La tappa successiva, per Anna, fu la prigione di Wakefield, dov'era recluso Idris Krasinique. Per risparmiare tempo, decise di prendere il treno, invece dell'auto. Trovandosi da sola a un tavolino del vagone ristorante, decise di chiamare la sala operativa per dire che stava andando dal dottore per farsi dare degli antibiotici. Fu Harry Blunt a risponderle. Lei domandò se ci fossero sviluppi, e lui disse che le ricerche di Sickert e dei bambini non avevano ancora dato esito. Neanche Amadou era stato localizzato, ma ci stavano lavorando. All'improvviso si interruppe. «Scusami un attimo.» Anna dovette aspettare un bel po' prima che Harry tornasse da lei. «Gesù Cristo! Proprio mentre stavano per chiudere baracca e burattini, gli uomini della Scientifica hanno trovato altri resti.» «I bambini?» domandò d'impeto Anna. Harry stava parlando con qualcuno e aveva coperto il microfono con la mano.
«Pronto? Ci sei?» Anna restò in attesa. «Anna...» Era Langton. «Sì, chiamavo appunto per dire che non vengo.» «Stai male?» «Solo un po' di mal di gola. Domani dovrei esserci.» «Be', prenditela con comodo», disse. «Che cos'è successo?» Langton le spiegò che sotto il pollaio avevano trovato parte di uno scheletro. «La zona era già stata battuta, ma era in uno stato disastroso. Quel rompiballe del padrone continuava ad aggirarsi nei paraggi e a esigere che gli lasciassimo il posto in condizioni migliori di quelle originarie... Praticamente pretendeva che la polizia gli ricostruisse il pollaio! Comunque, spostando alcune assi che coprivano un mucchio di letame, è saltato fuori lo scheletro. Sembra un adulto, non un bambino, grazie a Dio.» «Sickert?» domandò lei. «Non lo so. Ne sapremo di più quando l'avranno portato in laboratorio... Comunque, è un incubo allucinante.» «Sarò lì appena possibile.» «Bene.» Langton riagganciò. Anna si appoggiò allo schienale e guardò fuori dal finestrino. Arrivò un addetto alla ristorazione. «Desidera pranzare?» le domandò, togliendo dal tavolino la tovaglietta di carta sporca. «No, ma prenderei volentieri un caffè.» «Questo è il vagone ristorante di prima classe. La caffetteria è qualche vagone più avanti», disse, asportando un'altra tovaglietta dal tavolino accanto. Anna raggiunse la caffetteria e fece la fila per una tazza di caffè disgustoso e un sandwich. Quindi, raggiunse uno scompartimento di seconda classe e si sedette di fronte a due donne che, fortunatamente, dormivano. Posò la valigetta sul ripiano tra sé e loro e si mise a consultare i suoi vecchi appunti, ma poco dopo anche lei si appoggiò all'indietro e chiuse gli occhi. Durante le operazioni di ricomposizione dello scheletro, Langton restò accanto al tavolo operatorio. Il corpo era in fase di putrefazione ed era stato seppellito senza vestiti. Sul teschio restavano alcuni ciuffi di una peluria bionda increspata. Non poteva essere Sickert.
Langton sospirò. «Incredibile! E chi cazzo sarebbe, costui? E poi: quanta altra gente ci sarà sottoterra, non dico nella porcilaia, ma nei campi circostanti?» Sarebbe passato un bel po' di tempo prima dell'arrivo degli esiti delle analisi scientifiche sullo scheletro: bisognava estrarre il DNA dalle ossa e dai capelli, verificare le arcate dentali. A giudicare dai denti non sembrava il cadavere di un giovanissimo, bensì di un uomo sui trentacinquequarant'anni: alcuni mancavano del tutto, mentre altri erano otturati. Langton tornò con Harry Blunt alla volante. Durante il viaggio di ritorno alla sala operativa, l'ispettore capo diede sfogo al proprio malumore. «Ci mancava solo questo...» Il cellulare di Harry si mise a trillare. «Sono di nuovo io», disse Anna. «Come stai?» «Molto meglio. Ho dato un'occhiata ai miei vecchi appunti sul caso di Arthur Murphy, quando ancora lo stavamo cercando.» «Sì... e allora?» «Noi sappiamo che Gail usava il cognome di Sickert, ma prima che questi entrasse in scena lei era sposata con un certo Summers. Avevano affittato quel bungalow insieme... la porcilaia, come la chiami tu. Non lo abbiamo mai neanche interrogato, perché quando siamo andati la prima volta da Gail, lei stava già con Sickert. Secondo me, dovreste mettervi in contatto con Beryl Dunn, la madre di Gail, per sapere qualcosa di Summers. Quanti anni potrebbe avere quello scheletro?» «Non lo sappiamo con precisione: fra i trenta e i quaranta, a giudicare dai denti. Aveva dei capelli biondastri.» «Be, sarà meglio chiedere a Beryl Dunn di fornirci una descrizione di Summers. È solo un'idea, ma se Sickert è il principale indiziato dell'omicidio di Gail, allora potrebbe aver ucciso anche suo marito, Donald Summers.» «Okay, grazie... Daremo un'occhiata.» Anna raggiunse il posteggio dei taxi e chiese di essere portata al carcere di Wakefield. Langton ascoltò da Harry il resoconto della conversazione telefonica con Anna. Lui non voleva avere altri contatti con Beryl Dunn, perché quando l'aveva incontrata gli aveva fatto un'impressione sgradevolissima. Se quei resti appartenevano davvero a Donald Summers, c'era da temere il peggio.
Quello stillicidio di macabre scoperte non faceva che accrescere la tensione: Langton riceveva continue e pressanti telefonate da Scotland Yard con richieste di aggiornamenti. Harry Blunt impiegò almeno mezz'ora a rintracciare Beryl Dunn. Il telefono fisso le era stato tagliato e il suo cellulare non dava segni di vita. Blunt aveva finito per telefonare alla polizia di Newcastle, dove qualcuno si era incaricato di reperirla e di fare in modo che telefonasse a Blunt. Anna, nell'ufficio del direttore del carcere, stava aspettando di poter parlare con Idris Krasinique. Aveva detto che quel colloquio sarebbe servito alle indagini sull'omicidio di un detenuto a Parkhurst: Idris portava lo stesso cognome dell'omicida, e loro volevano stabilire se i due fossero imparentati. Le fu preannunciato che difficilmente sarebbe riuscita a cavargli qualcosa, perché l'atteggiamento del prigioniero era di totale chiusura verso chiunque. Al suo arrivo in carcere era stato messo sotto sorveglianza perché si temeva che potesse suicidarsi: era spaesato e continuava a sbattere la testa contro il muro. Raramente aveva scambiato qualche parola con qualcuno, lì dentro, e non aveva stretto nessuna «amicizia». Si rifiutava di prendere parte a qualsivoglia attività e non aveva mai ricevuto visite. Era stato in seguito spostato dal raggio principale per aver scaraventato più volte il cibo addosso agli agenti e devastato la sua cella. Non appena avessero richiuso le celle per il pomeriggio, lo avrebbero condotto da Anna. Beryl Dunn si era rifiutata di salire sulla volante della polizia, urlando che lei non aveva fatto niente. Ci era voluto un bel po' prima di farle capire che non intendevano arrestarla, bensì solo parlare con lei per l'indagine sull'omicidio della figlia. Alla fine, si era calmata e aveva accettato di andare alla stazione di polizia, da dove telefonò alla sala operativa del New Forest. Non appena Harry Blunt sollevò la cornetta, Beryl Dunn cominciò a inveire e a sproloquiare sulla loro incompetenza, e passò del tempo prima che la donna cominciasse a rispondere con un minimo di coerenza alle domande che le venivano poste. «Signora Dunn, potrebbe darmi qualche informazione sul marito di sua figlia?» «Quale? Gail diceva sempre di essere sposata con uno squattrinato, ma era lei che se li cercava. Non faceva altro che passare da uno sfigato all'altro... Io, comunque, quel nero non l'ho mai incontrato, l'ho già detto, e non
ho idea di che faccia abbia!» «A noi interessa l'uomo con cui sua figlia stava prima di mettersi con Joseph Sickert.» «Cristo, non lo so. Come ho già detto a quella poliziotta, mia figlia ha avuto tre bambini da tre uomini diversi.» A quel punto, però, Beryl esplose: «È tutta colpa di mio figlio! Arthur non la lasciava mai in pace, quand'era bambina e anche dopo. Ora lui è morto, lei anche... e i miei nipotini...». Beryl cominciò a piangere al telefono. Harry alzò gli occhi al cielo e aspettò che lei si calmasse. Andò avanti a singhiozzare per un pezzo, prima di riprendere a parlare. «C'era un tizio che una volta l'ha accompagnata qui, a prendere i soldi.» «Saprebbe descrivermelo?» «Faceva il lavavetri, lavorava a due vie da casa mia. Gail se n'era andata con lui, credo. Comunque, lui non lo vedo da diversi mesi.» «Sa come si chiama?» «Ken, forse, ma il cognome non me lo ricordo.» «Me lo può descrivere?» «In che senso?» «Era alto o basso? E i capelli com'erano? Scuri, rossi...» «Ah, biondastro, direi. Un omone, sul metro e ottanta... E gli mancavano i due dentoni davanti. Lavava i vetri in braghe larghe e camicia a scacchi. Aveva un furgone con una specie di scala mobile.» Harry insistette e alla fine riuscì a cavarle il cognome. «Summers... ecco! Mi è venuto in mente come si chiamava: Donald Summers!» «Non Ken?» domandò Harry. «No, no, mi sbagliavo. Si chiamava Donald Summers e vi spiego anche perché me ne ricordo: sua madre gioca al bingo ed è una maledetta bagascia.» Mentre Beryl snocciolava una sequela di insulti all'indirizzo della signora Summers, Harry annotò tutti gli elementi che la squadra avrebbe dovuto verificare. Non appena riuscì a scrollarsela di dosso, Blunt chiese alla polizia di Newcastle di provare a rintracciare la famiglia di Donald Summers, facendosi dare, se possibile, il nome del suo dentista. Anna aspettò per più di mezz'ora nella piccola sala riservata agli interrogatori. Passò il tempo leggiucchiando i verbali dell'arresto e del processo
di Idris Krasinique. Il corpo senza vita di Carly Ann North era stato ritrovato quattro giorni dopo la denuncia della sua scomparsa. La ragazza aveva una serie di precedenti incriminazioni e arresti per adescamento. Aveva avuto una vita disgraziata, ma la fine che aveva fatto - stuprata e macellata - era stata persino peggio. Idris aveva ammesso di averla uccisa e anche di aver tentato di farla a pezzi. Si era dichiarato colpevole, ma aveva negato di aver mai fatto i nomi degli altri due uomini che erano stati sorpresi con lui: dichiarò che erano solo due passanti e che lui non li conosceva. Ciononostante, la polizia aveva rilevato sul corpo della vittima due campioni di sperma diversi: uno era riconducibile a Idris; l'altro non aveva trovato corrispondenze negli archivi. In sede di interrogatorio, Idris aveva detto che Carly Ann era una puttana e che, prima dello stupro, era stata sicuramente con una quantità di altri uomini. Secondo un'amica della ragazza, però, Carly Ann stava cercando di rimettersi un po' in carreggiata: aveva smesso di prendere droghe e aveva cominciato di sua iniziativa a frequentare un centro per disintossicarsi. Al momento dell'arresto di Idris, nei paraggi era stata avvistata una Range Rover bianca, che era filata via all'arrivo del poliziotto in divisa. Non era stata ancora rintracciata. Anna sottolineò questo dato: non ricordava di averne mai sentito parlare. Sentì un rumore di passi e alzò gli occhi. Un rumore di chiavi nella toppa. Richiuse la valigetta e la posò a terra accanto alla sedia. L'agente in divisa fece capolino nella saletta e sorrise. «È qui, ma abbiamo dovuto ammanettarlo. Glielo porto dentro?» «Sì, grazie.» «Vuole che rimanga qualcuno per sicurezza?» «Fuori dalla porta, grazie.» «Allora gli lascio addosso le manette.» «Sì, certo.» L'agente tenne aperta la porta e un secondo poliziotto fece segno di introdurre Idris nella saletta. Anna fu colpita dalla sua giovanissima età. Era di una bellezza straordinaria. Aveva una carnagione olivastro-dorata e degli occhi azzurri assai penetranti. Era alto all'incirca un metro e ottanta ed era magrissimo. Indossava una tuta da galeotto con cerniera chiusa fin sotto il mento. «Accomodati, Idris», disse lei cortesemente. Lui rimase in piedi, rigidissimo. L'agente lo prese per le spalle e lo fece sedere a forza. Ci volle un po' prima che lui cedesse, piegando le ginocchia. I polsi gli erano stati ammanettati sul davanti.
«Potremmo avere del caffè?» domandò Anna. Poi guardò Idris: «O preferisci del tè?». Scosse la testa, gli occhi fissi a terra. Anna disse che allora anche lei ne avrebbe fatto a meno, poi chiese agli agenti di andarsene. Idris si voltò verso la porta che si richiudeva e poi guardò Anna. «Mi chiamo Anna Travis», disse lei. Lui chinò la testa. «Volevo vederti perché mi sto occupando di un prigioniero custodito nel carcere di Parkhurst. Si chiama Eamon Krasinique.» Nessuna reazione. «Siamo molto preoccupati per lui.» Nessuna reazione. «Sta molto male.» Nessuna reazione. «Ha anche commesso un omicidio in carcere. Conosci o hai mai incontrato un certo Arthur Murphy?» Nessuna reazione. Harry Blunt riagganciò e raggiunse l'ufficio di Langton. Bussò ed entrò. Langton stava dormendo alla scrivania, con la testa appoggiata sulle braccia conserte. Si risvegliò di soprassalto quando Harry diede un colpetto sul tavolo. «A quanto pare, Anna ha ragione», disse Harry. «Abbiamo appena inviato i dati odontoiatrici al laboratorio. A questo Donald Summers mancavano tre denti nell'arcata superiore. Ha lasciato Newcastle presumibilmente in compagnia di Gail Dunn e - secondo la madre di lui - si è trasferito da qualche parte nel New Forest. La madre non lo vede da otto o dieci mesi. Una volta le avrebbe telefonato per dire che stava lavorando in una fattoria. Ha quarantadue anni, biondastro, sul metro e ottantacinque d'altezza.» Langton sbadigliò. «I laboratori hanno scoperto qualcosa sulle cause della sua morte?» «Be', c'è una frattura al cranio compatibile con il colpo di una mannaia, ma non ci sono conferme, per ora. Il letame sotto cui è stato nascosto li ha fatti fermentare per bene, quei poveri resti...» «Okay, ricomincia a interrogare la gente del luogo e convoca il proprietario: vediamo se ha mai incontrato Summers.» «D'accordo.»
Langton si accomodò all'indietro sulla sua poltroncina. «Ancora niente su Amadou?» «Forse ha lasciato Peckham. Potrebbe essere dovunque.» «La gamba non era di Sickert», disse Langton. «Infatti, abbiamo identificato lo spacciatore a cui appartiene. Allucinante, eh? Già nel caso di Carly Ann North, su cui tu stavi indagando, quegli schifosi stavano cercando di farla a pezzi.» Harry ebbe un moto di disperazione. «Ci sono delle belve feroci, in giro. Io ho due figli e continuo a pensare a quei due poveretti... Che altro potremmo fare? Abbiamo diffuso fotografie dappertutto, per settimane, e ancora non abbiamo cavato un ragno dal buco. Capo...» Langton aveva di nuovo posato la testa sulle braccia conserte. Harry restò lì in attesa per qualche istante e poi si ritirò. In sala operativa trovò Mike Lewis. «Sta bene?» domandò Harry, indicando con il pollice l'ufficio di Langton. «Perché me lo domandi?» «Quando sono entrato stava dormendo. L'ho svegliato e poi, mentre gli stavo parlando, si è riaddormentato.» «Magari è l'effetto della tua voce.» «Spiritoso... Non è che ci sia tanto da dormire. O sbaglio? Il conto dei morti aumenta ogni cinque minuti!» Furono interrotti da Grace, la quale confermò che lo scheletro ritrovato era proprio quello di Donald Summers. «Oh, fantastico!» borbottò Harry, alzando le mani. «Adesso bisogna soltanto trovare lo stronzo che gli ha aperto la testa con una mannaia!» Anna era andata avanti a parlare. Aveva spiegato in che modo fosse riuscita ad arrestare Murphy, aveva raccontato nei dettagli la morte di Gail, aveva fatto il nome di Sickert... senza ricavare la benché minima risposta da Idris, che si era limitato ora a tenere gli occhi bassi ora a guardare fisso in quelli di Anna. Cominciava a convincersi di aver fatto un buco nell'acqua. «Idris, ho cercato di spiegarti perché sono qui. Se tu non sei imparentato con Eamon Krasinique, allora non puoi aiutarmi, ma è una cosa tristissima... È un ragazzo così giovane...» Giocò la carta che si era tenuta di riserva. «Ho ricevuto un grande aiuto dal dottor Black: non so se sai chi è... Ha
una clinica nell'East End.» Anna stava bluffando: aveva letto qualcosa su un certo dottor Black, ma non lo conosceva. «Mi ha detto, però, che gli serve qualche informazione sulla storia di Eamon, altrimenti non potrà far niente... Se tu non ci aiuterai, Eamon non potrà essere guarito dalla maledizione voodoo di cui è vittima e morirà.» Finalmente, Idris mostrò una minima reazione: gli occhi azzurri si allargarono, e le labbra carnose si ritrassero. «So bene quanto siano terribili certe maledizioni voodoo... C'è gente che subisce gravi conseguenze, ma il dottor Black...» «Voodoo», sussurrò Idris. Anna scrollò le spalle, ma il suo battito cardiaco accelerò: lo aveva stanato, ne era certa. «Magari tu non ci credi, ma Eamon sì. Se non riusciamo a capire perché soffre così tanto... Povero ragazzo, è ridotto a uno zombi. Lo sai cosa vuol dire? È un morto che cammina.» Idris ebbe come un improvviso risveglio. Si raddrizzò sulla sedia, giungendo le mani ammanettate. Anna attese per un attimo, ma lui non proferì parola. Rifletté sul da farsi e le venne un'idea. Anna sollevò la mano destra e puntando il dito indice appena sopra la testa di Idris cominciò a farlo ruotare come seguendo il moto delle lancette di un orologio immaginario, come aveva fatto Eamon. Gli occhi di Idris guizzavano da una parte all'altra; si voltò a guardare il muro e poi tornò a fissare Anna. «Tempo», bisbigliò Idris, con voce così fioca da risultare appena percettibile. Anna si sporse in avanti e abbassando a sua volta la voce, disse: «Idris, lui non ne ha, di tempo... sta morendo. Dimmi qualcosa che possa essergli utile». Idris abbassò la testa e guardò verso la porta. Anna seguì il suo sguardo. Al di là della porta a vetri videro entrambi la sagoma degli agenti di piantone e, facendo silenzio, colsero persino il brusio della loro conversazione. Forse perché non sentiva giungere voci dall'interno, uno dei due agenti sbirciò attraverso il vetro, proteggendo gli occhi con le mani per vedere meglio. Anna alzò leggermente la voce. «Naturalmente, qualunque cosa mi dirai, resterà tra noi.» Quindi, si avvicinò ulteriormente al suo interlocutore. «Non possono sentirci, Idris.» Lui sollevò lentamente le mani a indicare il taccuino di Anna.
Lei lo prese. «Vuoi questo?» Idris annuì. Lei gli porse il taccuino e la matita. Lui restò per alcuni minuti a fissare la pagina bianca, dopo di che, come un bambino, scrisse qualcosa con estrema lentezza. Quand'ebbe finito si appoggiò all'indietro e girò il taccuino in modo che lei potesse leggere. Con una grafia tondeggiante e infantile aveva scritto: «È mio fratello». «Allora devi parlare con me», disse lei concitata. Idris riprese il taccuino e, questa volta, scrisse con rapidità, ma con la stessa espressione concentrata di prima. Tornò a porgere il blocchetto ad Anna: «Se lo salvate, parlo». «Idris, devi dirmi di più... Così non basta, non mi serve a nulla. Se sei suo fratello, allora - per carità - dimmi quel che sai.» Idris scosse la testa con un'aria cocciuta. «Okay, ascoltami. Io ti dirò i nomi delle persone sulle quali sto cercando informazioni. Se sai qualcosa, devi solo annuire.» Idris si morsicò le labbra. «Non devi neanche scrivere.» Lui fece un cenno quasi impercettibile con il capo. Anna attaccò a elencare i nomi degli individui sospetti: cominciò con Sickert, e Idris, questa volta, assentì. Anna fece un paio di altri nomi e non ottenne nulla; poi, al nome di Rashid Burry, Idris annuì di nuovo. Non batté ciglio alla menzione di Gail e dei suoi figli. Né reagì in alcun modo quando Anna pronunciò il nome dell'ispettore capo Langton. La sola reazione significativa la ebbe al nome di Amadou: a quel punto, Idris fece una smorfia, si umettò le labbra, e i suoi occhi azzurri ripresero a guizzare da ogni parte. Gli chiese se avesse mentito a proposito dei due uomini che erano con lui la sera in cui aveva ucciso Carly Ann North, e lui fece un minimo cenno di diniego con il capo. Anna aveva l'impressione che Idris stesse richiudendosi a riccio. Si protese per riprendersi la matita, anche per evitare che Idris la portasse con sé in cella. «Devi darmi un altro piccolo aiuto», disse lei. Lui scosse la testa e richiamò l'attenzione degli agenti. Quindi, piegandosi in avanti, con le mani giunte in grembo, disse sottovoce: «Aiuta mio fratello. Poi parlerò». Appena rientrata a casa, Anna mise per iscritto tutte le nuove informazioni che aveva acquisito. Non pareva granché. La parentela tra Idris e
Eamon Krasinique poteva rivelarsi importante, così come il collegamento con Amadou; in ogni caso, nulla di apparentemente utile a identificare l'assassino di Gail Sickert e della sua figlia più piccola; nulla che potesse gettare luce sulla morte del marito di Gail, Donald Summers... a meno che a mettere in relazione tutti gli omicidi non ci fosse proprio quel fantomatico Amadou. In tal caso, Langton non stava, come lei invece aveva sospettato, orientando l'inchiesta in base ai suoi fini personali. Non appena ebbe elaborato questo pensiero, sentì suonare il campanello. Andò ad aprire e si trovò di fronte Langton. «Stavo per portarti un brodino di pollo, ma poi ho scoperto che stavi mentendo. E adesso sarà meglio che trovi una spiegazione convincente.» Anna, avvampando in viso, lo condusse in salotto. «Mettiti comodo», gli disse. «Grazie.» Si sedette sul divano e adocchiò il tavolino coperto di appunti e documenti. Anna gli si sedette di fronte. «Come l'hai scoperto?» Alzò gli occhi: aveva pensato di andare a trovare Krasinique, ma quando aveva telefonato al carcere gli avevano detto che l'ispettrice Travis l'aveva già interrogato. Langton la fissò con uno sguardo durissimo. «Che cazzo ti salta in mente?» Anna esitò. «Mi pareva che non si stesse facendo abbastanza...» Lui scosse la testa. «Ah, davvero?» «Sì, e mi dispiace... è stato deontologicamente scorretto, da parte mia.» «Puoi dirlo forte.» Langton si massaggiò il ginocchio e poi si appoggiò all'indietro, chiudendo gli occhi. «Lo sai che potrei denunciarti?» «Lo so.» «Sai dirmi una ragione per cui non dovrei farlo?» Anna aspettò un attimo prima di rispondere. «Ero in pensiero per te.» Langton aprì gli occhi. «Ti stai affaticando troppo. L'altro giorno mi è sembrato evidente e quindi ho pensato di risparmiarti qualche corvée...» «Se avessi voluto, te l'avrei chiesto. Hai fatto una cosa stupida e, come dici tu, deontologicamente scorretta: ti sei arrogata il diritto di svolgere indagini per conto tuo, senza supervisione, senza permesso, mentre avevi detto di essere a casa ammalata; hai continuato a telefonare alla sala operativa per avere eventuali aggiornamenti e, intanto, lavoravi per conto tuo. Vuoi subentrarmi alla guida delle indagini, vero? Mi credi un incapace o che cosa? Che cosa ti prende, Anna? È già successo, tra l'altro. Te la sei
cavata a buon mercato, l'altra volta, ma non so se mi accontenterò della scusa che...» «Tu sei malato», lo interruppe lei. «Non abbastanza da permettere a qualcuno di sfilarmi dalle mani un'indagine!» Calò il silenzio. Anna era seduta a capo chino. «Valuterò il da farsi, per quel che ti riguarda, ma ti annuncio che potrei sospenderti dalla squadra.» «Speravo che nessuno venisse a saperlo.» Langton sospirò. «A volte, Anna, la tua grossolana ingenuità mi sbalordisce. Tu credi, in virtù del legame che hai con me, di poterti permettere di fare tutto quello che ti pare.» «Non è vero.» «E allora qual è la verità?» Anna si alzò in piedi. «Temevo che tu potessi lasciar deragliare l'inchiesta orientandola a fini tuoi personali. Credevo che tu stessi allargando lo spettro delle indagini fino a includervi il tuo ferimento. Dopo di che, quando hai avuto quella crisi, ho pensato seriamente che non fossi ancora in condizioni di lavorare.» Lui scosse la testa e sorrise, meravigliato delle sue parole; quindi, cancellato il sorriso, digrignò i denti. «E allora, ispettrice Travis, come pensavi di regolarti?» Anna non riusciva praticamente a respirare. Dovette deglutire più volte, dopo di che si alzò e, scusandosi, andò in cucina a prendere un bicchiere d'acqua. Quando tornò, vide che Langton stava leggendo gli appunti che lei aveva preso. «Dicevo: come pensavi di regolarti?» Anna si sedette. «Ero decisa a tutto pur di salvaguardare la tua salute.» Lui scoppiò in una breve e rauca risata. «È la verità.» «Stronzate: tu avevi intenzione di presentare un rapporto, giusto? Per farmi rimuovere. Perché non mi dici la verità?» «Perché io... perché non è questa la verità.» Langton sospirò nuovamente e riprese a massaggiarsi il ginocchio. «Be', non ho voglia di perdere tempo in battibecchi. Hai scoperto qualcosa con le tue iniziative al di fuori delle regole?» Lei gli consegnò il proprio taccuino. «Eamon e Idris sono fratelli: Idris si è deciso ad aprirsi e a scrivere sul mio taccuino solo dopo che io avevo
nominato la maledizione voodoo. È stata l'unica cosa che è riuscita a smuoverlo. Gli ho raccontato che avevo incontrato un dottore in grado di aiutare Eamon. Idris l'ha bevuta e ha scritto queste cose.» Langton lesse quelle parole scarabocchiate e posò il taccuino. «Idris ha paura che possano lanciargli una maledizione voodoo: in galera non parla con nessuno e teme addirittura che in carcere qualcuno scopra che ha parlato con me. Non riceve visite e durante l'ora d'aria se ne rimane in cella. Gli ho elencato una serie di nomi chiedendogli di farmi un cenno se ne riconosceva qualcuno. Gli unici segnali sono giunti alla menzione di Sickert, Rashid e Amadou. Credo che se riuscissimo ad aiutare in qualche modo suo fratello, lui manterrà fede alla sua parola e ci dirà altre cose.» Langton annuì. «E come credi si possa fare?» «Ci sono molti specialisti di pratiche voodoo: ne cerchiamo un po' e vediamo se qualcuno riesce a riscuotere Eamon. Se è ancora vivo, dovremmo tentare di tutto... magari organizzare un incontro, per poter portare Idris fuori dal carcere.» Langton si strinse il setto nasale tra due dita. «Se è possibile», aggiunse Anna, sommessamente. «Eamon è vivo... a malapena», disse Langton. «Stanno cercando di alimentarlo per endovena, ma lui si oppone. Ha persino cercato di staccarsi la lingua mordendosela.» Anna lo guardò. «Che cosa intendi fare?» «Con te?» domandò lui, pacatamente, senza batter ciglio. «No... con Idris. Sono sicura che sa qualcosa, e se vogliamo usare questo espediente dobbiamo sbrigarci.» Langton si appoggiò al bordo del divano e, stringendo i denti, si alzò in piedi. Era chiaramente in preda ai dolori. «Cercherò di organizzare qualcosa.» «Fantastico! Vuoi qualcosa da mangiare?» «No, ho bisogno di dormire. Torno a casa mia.» Anna lo accompagnò alla porta. «E con me cosa intendi fare?» gli domandò. Lui si voltò e le posò una mano sulla spalla. «Be', Travis, vedremo... Non ho ancora deciso, ma bisognerà stilare un rapporto. Lo sai, vero?» Lei indietreggiò. «E nel rapporto ci scriviamo pure che tu stai ancora male?» Lui le strinse la spalla con forza. «Non cercare di contrattare con me, capito? Hai commesso una grave infrazione, ed è già tanto che non ti abbia
radiato dalla squadra su due piedi. Ho preferito evitare, diciamo, in nome dei nostri trascorsi, ma d'ora in avanti ti conviene rigare diritto; in caso contrario, non ci penserò due volte a cacciarti... Mi sono spiegato?» Le dita di lui serrate intorno alla spalla le facevano male. «Sì, signore.» Langton lasciò la presa, e lei gli aprì la porta. «Prima di tutto, devi andare al commissariato di Clerkenwell: c'è un tuo amico - l'ispettore Frank Brandon - che collabora alle indagini sul ragazzino ritrovato morto nel canale. Prova a far due chiacchiere con lui e vedi se hanno scoperto qualcosa. Ci vediamo subito dopo al centro operativo per un paio di riunioni.» Langton uscì senza più voltarsi e raggiunse l'ascensore. Non lo usava mai, ma Anna sapeva che ultimamente gli era impossibile scendere e salire le scale, se non a costo di sofferenze tremende. «Buonanotte», disse lei, sottovoce. Lui si girò a guardarla con un'espressione indecifrabile. «Sei una ragazza intelligente, Anna. Mi stai molto a cuore. Non rovinarti la carriera... Questa volta, ci sei andata vicino.» L'ascensore si aprì, e Langton salì prima che Anna potesse replicare. Lei richiuse la porta e andò in cucina. Dalla finestra, guardò Langton che attraversava zoppicando la strada. C'era un'auto civetta ad attenderlo; Anna non lo aveva più visto guidare da quando era rimasto ferito. Lo vide provare con estrema fatica a sistemarsi sul sedile anteriore; alla fine, il poliziotto al volante uscì ad aiutarlo. Anna tornò in salotto. Riordinò i documenti e preparò la valigetta per l'indomani. Le pareva di procedere con il pilota automatico innestato. Neanche durante i preparativi per coricarsi riuscì a rimettere in funzione il cervello. Dopo un po', visto che non riusciva a dormire, andò a prendere la valigetta, si accomodò sul letto con dei cuscini dietro la schiena e si sforzò di leggere i documenti sul caso del bambino mutilato e ancora non identificato che era stato rinvenuto nel canale. Erano passate diverse settimane dal macabro ritrovamento. Al momento, la polizia non aveva ricevuto denunce sulla scomparsa di bambini con le caratteristiche della vittima. Si stimava che avesse sei o sette anni: era stato decapitato e gli mancavano entrambe le mani. Aveva dei segni sul petto riconducibili, forse, a qualche rituale sadico. Si calcolava che i bambini introdotti illegalmente nel Regno Unito e scomparsi senza lasciare traccia fossero svariate centinaia. Anche i figli di Gail Sickert - che avevano all'incirca l'età della vittima - erano tuttora irreperibili. Anna riteneva improbabile che li avessero portati all'estero, ma non poteva escluderlo; era
più facile che fossero ancora nel Regno Unito, in mano a una banda di sadici maniaci sessuali che magari li usavano per dei loro rituali voodoo. Richiuse la cartelletta: posto che Amadou fosse davvero implicato, più o meno direttamente, nel caso su cui stavano indagando, lo avrebbero scovato. D'altra parte, se davvero aveva favorito l'ingresso nel paese di Sickert, Rashid Burry e chissà quanti altri, Amadou aveva probabilmente a disposizione una specie di esercito personale. Doveva avere anche un bel po' di soldi: quei disperati pagavano sicuramente migliaia di sterline per ottenere documenti falsi ed entrare illegalmente nel Regno Unito. E Amadou manteneva su di loro un certo potere ricattandoli. Anna guardò l'orologio: erano quasi le due. Rimise tutti i documenti nella valigetta e spense la lampada del comodino, restando con gli occhi sbarrati nel buio. Langton aveva ragione: Anna ne era sempre più convinta. Come lui amava ripetere, le coincidenze non esistono: esistono solo i fatti. Rientrato nel suo appartamento, Langton aveva preso una dose doppia di sonniferi per cercare di lenire il dolore al ginocchio. Non era servito a nulla; anzi, il dolore sembrava peggiorare. Dovette tracannare mezza bottiglia di whisky prima di sprofondare in un sonno profondo, ma inquieto. L'indagine si stava allargando, e la mancanza di risultati lo turbava. Adesso sapeva anche di doversi guardare le spalle: l'unica persona per cui provava un profondo affetto aveva cercato di pugnalarlo a tradimento. Questo fatto lo aveva sconvolto e addolorato. Il vecchio Jack Travis aveva messo al mondo una detective indomabile e maniacale come lui. Anche Langton, da giovane investigatore inesperto, aveva provato a dimostrarsi migliore di tutti gli uomini della squadra di Jack. Il vecchio lo aveva portato al pub e gli aveva offerto una pinta di birra. «Jimmy, era da un pezzo che dal centro d'addestramento non usciva un poliziotto bravo come te. Hai davanti a te una carriera luminosa, ma io, se a te non piace il gioco di squadra, ti escludo da questa indagine.» A Langton era quasi andata per traverso la birra: credeva che il vecchio Jack volesse congratularsi con lui per il lavoro svolto... «Tutte le persone impegnate in questa indagine devono rendere conto a me, e io mi occupo di proteggerle. Per il futuro dovrai imparare a costruire legami d'amicizia e a non farti troppi nemici nel tuo campo.» Jack aveva posato un braccio sulla spalla del mortificato Langton. «Ne guadagni in lealtà, Jimmy... Te lo assicuro.»
Risolto quel caso, Langton era stato promosso, anche grazie alle referenze positive di Jack Travis. In parte, era per questo che Langton aveva cooptato Anna nella propria squadra per il primo caso di omicidio di cui lei si era occupata. Ed era sempre per questo che le aveva salvato la carriera nel caso della Dalia Rossa: Langton aveva un debito di lealtà nei confronti di Jack Travis. Ora avrebbe ripetuto alla figlia di Jack la stessa lezione che lui gli aveva impartito. E non sarebbe stato facile. 13. Anna e Frank Brandon erano seduti l'uno di fronte all'altra nella mensa della stazione di polizia. Lui aveva ricominciato a usare quell'orribile acqua di colonia, ma con lei era sempre cordiale e gentile. «Cristo, ho saputo che sei dentro fino al collo in un'indagine da incubo!» le disse. «Puoi ben dirlo. È per questo che sono qui.» «Sì, lo so. Il tuo boss ha parlato con il mio. Se vuoi, ti accompagno giù in sala operativa, se così si può chiamare: il caso sta per essere archiviato. Non siamo riusciti a scoprire nulla: niente identificazione. Abbiamo battuto tutte le strade. Mi sa che presto seppelliremo i resti.» «Vorrei vederlo.» «Certo, puoi andare, ma non ne ricaverai granché, a parte una nottataccia di incubi. Poveraccio...» «È vero che ha dei segni sul corpo, come se avessero praticato su di lui qualche strano rituale?» Brandon annuì. «Sì, ma non sappiamo di che rituale si tratti. Abbiamo parlato con un esperto di voodoo della London University. Sembrava ferratissimo... È stato a lungo in Louisiana e a New Orleans. Siamo addirittura andati a trovare una specie di ciarlatano nell'East End...» «Posso avere i numeri di telefono e gli indirizzi?» «Certo. Secondo il ciarlatano, poteva trattarsi di segni tribali, ma non abbiamo trovato conferme al riguardo. Sappiamo solo che il bambino aveva sei o sette anni e che è morto di asfissia, ma per il resto l'autopsia non ha chiarito granché. Il suo ultimo pasto è consistito in riso e pesce, ma era decisamente denutrito.» Sospirò. «Nessuno ha denunciato la sua scomparsa, per cui è molto probabile che sia stato introdotto illegalmente nel paese.» Brandon a quel punto cambiò discorso, perché voleva sapere di Arthur
Murphy. Anna gli spiegò tutto quel che sapeva della sua morte, e Brandon si fece una risatina. «Be', ha avuto quel che meritava, e lo stato ci risparmia anche un po' di soldi.» Anna finì di bere il caffè e chiese a Brandon di fare in fretta, perché la aspettavano alla sala operativa del New Forest per le due del pomeriggio. Le fu dato accesso a tutti i verbali e i documenti del caso, e lei restò sorpresa dalla quantità di materiale cartaceo accumulatosi senza esito. Il sacchetto della spazzatura era stato prodotto da una ditta che lo aveva riconosciuto come appartenente a un lotto distribuito circa sei mesi prima della scoperta del cadavere. Gli interrogatori si erano concentrati intorno al luogo del ritrovamento, ma tutte le piste seguite per spiegare come avesse fatto quel bambino a finire in quel canale si erano concluse nel nulla. Era nudo, sicché non avevano avuto neanche qualche indumento a disposizione da cui trarre elementi utili. Inoltre, mancando le mani e la testa, non avevano impronte digitali o arcate dentali da esaminare per risalire all'identità della vittima. Il suo DNA sarebbe stato archiviato, insieme a un corposo dossier di fotografie e rapporti autoptici. Come aveva detto Brandon, non restava che seppellirlo. Frank non accompagnò Anna nella cella frigorifera: quel cadavere l'aveva già visto troppe volte. Anna, a posteriori, non poté certo biasimarlo: quel corpicino decapitato e senza mani non lo avrebbe dimenticato tanto facilmente. Sul petto c'erano profonde ferite e, tra esse, una croce incisa nella carne. I tessuti avevano avuto il tempo di cicatrizzarsi, dal che si era dedotto che le ferite dovevano essere state inflitte diversi mesi prima della morte. Il pensiero che il bambino fosse stato torturato quand'era ancora in vita non faceva che aggiungere orrore a orrore. Il professor John Starling accettò di incontrarla alle undici. Quando fu introdotta nello studio del docente presso il campus della London University ai margini di Bloomsbury, Anna restò molto colpita dall'aspetto del suo interlocutore: alto, magro, in tuta da ginnastica. I capelli biondi tendenti un po' al grigio erano lunghi e raccolti in una coda di cavallo. Aveva un viso lungo e bello, ulteriormente impreziosito dagli occhi azzurri. Nella stanza era stato bruciato dell'incenso, il cui aroma dolce e muschiato aleggiava lieve nell'aria. «Prego, si accomodi», disse lui, con cortesia, indicando un divanetto basso. Le offrì dell'acqua, e non tè o caffè. Le pareti dello studio erano ornate da schiere di diplomi incorniciati: le specialità di Starling andavano dall'e-
gittologia all'analisi dei geroglifici, dall'antropologia alla criminologia. Vide che Anna li stava guardando e sorrise. «Coltivo interessi molto vari: ho un cassetto pieno di pergamene. Colleziono anche tappeti persiani, ma come vede», disse, battendo con un piede a terra, «questo non rientra nella categoria.» Si scusò per la tuta da ginnastica dicendo che doveva fare una lezione di yoga ad alcuni suoi studenti. Detto questo, si sedette di fronte a lei a gambe incrociate su un tappetino giapponese. Anna lo trovò molto affascinante: totalmente diverso dai docenti in cui si era imbattuta a Oxford. Pensò con divertimento a un ipotetico incontro tra Starling e Frank Brandon: incenso contro acqua di colonia. Starling aspettò in silenzio che gli mostrasse le foto del cadavere del bambino. «Le ho già viste», disse quando lei gliele porse; quindi, si protese per prendere una grossa lente d'ingrandimento posata su un tavolo stracarico di cartellette e faldoni. «Volevo sapere se i segni praticati sul corpo di questo bambino hanno per caso a che fare con un rito voodoo», disse Anna. «No... Be', non nelle cerimonie di cui ho notizia, perlomeno, anche se potrebbe trattarsi di qualche dilettante che millanta di conoscere il voodoo. Il voodoo, in origine, era utilizzato solo per guarire: era un fenomeno positivo. Veniva praticato da gente buona e saggia e arrivò in America con gli schiavi. Questi conoscevano certe erbe con proprietà terapeutiche. Gli schiavi erano persone sradicate dal loro ambiente e soffrivano di gravi forme di spaesamento: erano disposti a tutto pur di alleviare il dolore di quella separazione. I sacerdoti e le sacerdotesse voodoo, perciò, divennero un po' come i terapeuti odierni che offrono ai pazienti conforto psicologico e fisico. Danzare sino allo sfinimento portava la guarigione; piangere era una liberazione. Solo dopo molti anni i poteri detenuti da questi sacerdoti portarono a una corruzione delle finalità originarie.» Continuò a scrutare con la lente d'ingrandimento le fotografie dell'ignoto bambino senza testa. «A Haiti e in molti altri paesi vennero elaborate nuove cerimonie, perché ci si rese conto della loro capacità di generare ricchezza. Si scoprì il potere di manipolare i pazienti servendosi di droghe e di inganni: la minaccia del voodoo è un espediente semplicissimo utilizzato per esercitare il controllo, ma solo quelli che credono nei suoi poteri vi sono esposti.» All'improvviso alzò la testa e la inclinò di lato.
«Ricordo che una volta, quando avevo sedici anni, io e alcuni amici ci mettemmo intorno a un tavolino a tre piedi. Ce ne stavamo nella stanza buia, tenendoci per mano. Un ragazzo aveva sistemato al centro del tavolo un bicchiere e cominciò a formulare domande con una voce strana e acutissima. C'era con noi una ragazza, Christina, nostra coetanea, che veniva da una famiglia piuttosto disastrata. Comunque, cominciammo a spostare il bicchiere avanti e indietro, finché all'improvviso non lo vedemmo muoversi verso di lei. Io non lo stavo toccando, ma immagino che qualcuno lo stesse muovendo apposta.» Starling si accigliò, e il suo sguardo vagò per un attimo, assente. «Sto cercando di ricordare quale fu esattamente la domanda formulata da Christina. Qualcosa tipo: "Mi sposerò?". Nulla di strano. Il bicchiere rispose di no, e a quel punto fu tutto un sussurrare e ridacchiare. Christina domandò: "Perché?". E il bicchiere prese a comporre la parola MORTE.» Chiuse gli occhi. «La mente può fare strani scherzi. Non so chi fosse stato a spingere il bicchiere verso di lei, ma sei settimane dopo Christina fu trovata impiccata a una ringhiera a casa dei suoi genitori.» «È per questo che si è dedicato allo studio di...?» domandò Anna indicando i diplomi incorniciati. «Mio Dio, no! Io sono innanzitutto un egittologo; tutto il resto dipende più che altro da curiosità e interessi personali.» Ci fu un lungo silenzio, durante il quale il professor Starling tornò a esaminare le fotografie. «Non sono stati rilevati abusi sessuali sul bambino, giusto?» domandò. «Esatto.» Il professore riordinò le fotografie prima di restituirle ad Anna. «Era senza testa né mani, e il corpo era stato chiuso in un sacco della spazzatura, come una cosa ormai inutile, vero?» «Sì.» Starling riuscì con un unico movimento fluidissimo ad alzarsi in piedi partendo dalla posizione a gambe incrociate. «Direi che il bambino è finito nelle mani di una banda di fanatici; se non hanno abusato di lui sessualmente, devono averlo usato in una cerimonia di qualche tipo. Non saprei dire, comunque, se si tratti di voodoo o di satanismo.» Si avvicinò a una libreria e, aiutandosi con un dito, passò in rassegna la schiera di libri, per poi estrarne uno. Anna guardò la pagina che lui le mostrò: c'era la foto di una testa rattrappita, appesa per i capelli a una croce infuocata, mentre al collo di un uomo, che indossava una tonaca bianca e
reggeva la croce, pendeva una collana. Alla collana erano infilati alcuni pendagli che parevano artigli di uccello anneriti. «Questa è una fotografia di un sacerdote haitiano scattata intorno al 1940. Come vede, dalla croce pende un teschio, e intorno al collo di quell'uomo ci sono due mani rinsecchite.» Anna distolse lo sguardo. «Mio Dio, crede che sia questa la ragione per cui quel bambino è stato mutilato?» «È possibile. Può darsi che i segni sul corpo siano stati inflitti a scopo dimostrativo. Chi ha organizzato questo scempio è una persona che ambisce a controllare e terrorizzare altra gente per i propri fini personali.» Anna pensò ad Amadou. Parlò al professore dell'omicidio di Arthur Murphy e di come Eamon Krasinique fosse in quello stato di totale alterazione, sul punto di morire d'inedia. Era possibile che una persona riuscisse a suggestionare qualcuno per telefono al punto da indurlo a credersi un morto vivente? Il professor Starling fece spallucce. «Il detenuto, evidentemente, riteneva che il suo interlocutore fosse dotato di questo potere. Come dicevo, sta tutto nella mente.» Chiuse gli occhi e, con voce sommessa, recitò: «"La mente è un luogo che la mente stessa crea, e dell'inferno può far un paradiso, del paradiso un inferno"». Anna esitò. «Milton?» «Già. Paradiso perduto.» «Può prestarmi questo libro?» Benché chiaramente restio, il professore acconsentì. «Esistono delle cure per le persone affette da questa maledizione voodoo?» «Sì, ma bisogna riuscire ad arrivare alla mente del malato.» Starling tornò alla libreria. «So che non hanno trovato tracce di medicinali sul cadavere del bambino, ma ci sono stati diversi casi analoghi negli Stati Uniti: c'è un farmaco di veterinaria che viene utilizzato per immobilizzare i cavalli bisognosi di cure. Dà luogo a una vera e propria paralisi dei muscoli, ma non ha effetti sul cuore. Se iniettato, provoca uno stato molto simile a quello degli zombi.» Anna prese nota del nome del farmaco, mentre il professore cominciò a disquisire sui rituali di sepoltura nell'antico Egitto. Anna diede un'occhiata all'orologio, ma restò ad ascoltare per altri dieci minuti, prima di decidere di congedarsi. Dovette interromperlo, e lui ci restò male. «Devo proprio andare, professor Starling. Non so davvero come ringra-
ziarla per il tempo che mi ha dedicato.» «Ehm... be', è stato un piacere.» Non le tese la mano. Chinò invece la testa e, tenendole aperta la porta dello studio, aggiunse: «Se ha bisogno, sa dove trovarmi». La squadra era al completo, anche se qualcuno stava ancora finendo di mangiare. Anna cercò di dare nell'occhio il meno possibile, ma Langton si voltò verso di lei. «Passato il raffreddore, ispettrice Travis?» «Sì, signore... Grazie.» Langton si rivolse agli altri. «L'ispettrice Travis non ha avuto il raffreddore. Si è presa una giornata di malattia per andare al carcere di Wakefield a interrogare Idris Krasinique. D'ora in poi, chiunque deciderà di condurre indagini in proprio verrà espulso dalla squadra. Intesi? Lavoriamo in gruppo e dobbiamo essere leali gli uni con gli altri: se si scopre qualcosa, lo si mette in comune. Non tollererò collaboratori che si sentano in diritto di prendere decisioni senza consultarmi.» Tutti si voltarono verso Anna, che arrossì vistosamente. Si sentiva umiliata - proprio come Langton, evidentemente, aveva calcolato - ma la lavata di capo non era ancora finita. «Per cominciare, Travis, ti va di spiegare alla squadra perché hai deciso, senza il mio consenso e senza nemmeno avvertire il coordinatore delle indagini, di andare al carcere di Wakefield?» Anna si inumidì le labbra. «Stiamo aspettando», disse Langton, fissandola. «Io... ehm... avevo l'impressione che l'indagine sull'omicidio di Gail Sickert stesse intrecciandosi un po' troppo con altre indagini. Stiamo accumulando troppi sospetti, e sentivo il bisogno di un po' di tempo per chiarirmi le idee su tutte le diverse questioni in campo. Chiedo scusa a te, al coordinatore delle indagini e a tutti quanti, per aver agito al di fuori delle regole. Certamente, non accadrà più.» «Ah, davvero?» domandò Langton, infilandosi le mani in tasca. «La verità è che l'ispettrice Travis era preoccupata per la mia salute. A questo riguardo, vorrei rassicurare tutti: malgrado le premure della nostra collega, io sono - come potete ben vedere - perfettamente in condizione, sul piano mentale e fisico, di condurre questa indagine e non credo affatto che la nostra inchiesta si stia intrecciando troppo con questioni irrilevanti. Siamo sul binario giusto, ne sono sicuro. E di un'altra cosa sono certo: per quanto
possa suonare incredibile, gli autori di questi crimini sono gli stessi che hanno causato la morte di Gail Sickert e della sua bambina.» Langton prese un pennarello. «Credo che l'omicidio di questo Summers si inserisca nella nostra indagine nel modo seguente: come sappiamo, Joseph Sickert aveva bisogno di un posto sicuro dove stare; con l'aiuto di Rashid Burry, Gail fu convinta ad accoglierlo. Era passato pochissimo da quando Gail si era trasferita nel New Forest con Donald Summers. Tra Gail e Sickert nacque una relazione a cui seguì l'omicidio di Summers. Quindi, riepilogando: Sickert convive con Gail. L'ispettrice Travis va a trovarla nel tentativo di rintracciare Arthur Murphy, accusato dell'omicidio di Irene Phelps.» Langton cominciò a tracciare linee di collegamento tra i vari nomi. «Nell'ostello in cui si nascondeva Murphy, c'era anche Rashid Burry, colui che aveva organizzato il trasferimento di Sickert al bungalow dove abitava Gail. Mentre sta per arrestare Murphy, l'ispettrice Travis si imbatte in Rashid Burry.» Si voltò verso i collaboratori. «Mi seguite?» Si levò un brusio di assenso; molte di quelle cose erano già ben chiare a tutti. «Bene. Burry manda Vernon Kramer a trovare Sickert per aiutarlo, perché Sickert è malato; Kramer gli racconta dell'incontro fortuito con la nostra ispettrice. Sickert va nel panico. L'ispettrice Travis, a quel punto, torna da Gail per capire come mai quest'ultima ha dichiarato che la fotografia le era stata sottratta.» Langton guardò Anna. «Evidentemente, la nostra ispettrice Travis agisce sempre senza copertura! Sickert, inferocito, la minaccia. Murphy viene condannato per omicidio e rinchiuso nel carcere di Parkhurst. Gail Sickert scompare, insieme ai suoi figli.» Tutti sembravano molto concentrati. «Ora torniamo alle sempre più numerose coincidenze. Come sappiamo, Idris Krasinique era stato arrestato per l'omicidio di Carly Ann North, su cui io stavo indagando. Durante un interrogatorio, Idris fornisce i nomi di due complici. Lewis, Barolli e io cerchiamo di rintracciare questi due... Indovinate dove? In un ostello di Brixton, a poche vie di distanza da quello in cui alloggiavano Vernon Kramer, Arthur Murphy e Rashid Burry. Sapete tutti quel che mi è successo; sapete anche che Idris Krasinique ha poi ritrattato la sua dichiarazione e ha ripetutamente affermato di aver agito da solo. Tuttavia, sul luogo del delitto è stata vista una Range Rover bianca. Non siamo riusciti a rintracciarla, ma l'uomo che la guidava potrebbe esse-
re quello che ha portato sul posto Carly Ann North e, forse, persino Idris, anche se questi ha sempre negato di aver visto quell'auto.» Langton tracciò una linea con il pennarello per tornare ad Arthur Murphy. «Murphy è stato assassinato nel carcere di Parkhurst da un altro detenuto, tale Eamon Krasinique, anche lui immigrato illegale, come del resto lo sono Sickert e Rashid Burry, e così arriviamo al nostro ricercato numero uno. Di lui conosciamo solo il cognome: Amadou. È noto come trafficante di immigrati e praticante di voodoo, ed è già stato in carcere. Quest'uomo è l'anello che collega i vari omicidi.» Si voltò verso Anna che si alzò dal suo posto e andò a mettersi di fronte ai colleghi. Aprì il taccuino, irritata dalla ramanzina subita, ma decisa a non dar mostra della propria mortificazione. «Idris Krasinique, al momento del suo arresto per l'omicidio di Carly Ann North, aveva dichiarato di non avere parenti nel Regno Unito. Possedeva documenti e passaporto contraffatti. Ora ci ha confermato che Eamon Krasinique è suo fratello. Dopo aver commesso l'omicidio, Eamon è sprofondato in uno stato di catatonia. Sembra incapace di parlare e di muoversi e rifiuta il cibo. È terrorizzato e crede di avere addosso una maledizione voodoo, che lo ha trasformato in uno zombi. Anche Idris si rifiuta di uscire dalla sua cella, a Wakefield, perché teme di poter restare vittima di una maledizione analoga. Ho ottenuto da lui una certa attenzione quando gli ho nominato Rashid Burry e Joseph Sickert, ma la reazione più evidente l'ha avuta quando ho fatto il nome di Amadou.» Langton la osservava attentamente, e lei continuò la sua relazione esaurendo la questione dell'interrogatorio di Idris, per poi passare all'incontro con il professor Starling. Ripeté quel che lui le aveva detto a proposito del voodoo e dei farmaci in grado di immobilizzare i muscoli della vittima. Mostrò la fotografia del sacerdote voodoo con il teschio e con le mani rinsecchite usate a mo' di collana. Tutti prestavano la massima attenzione. «Ammesso che il corpo del bambino ritrovato nel canale sia stato usato da Amadou per incutere terrore negli uomini del suo giro, io credo che, se noi riuscissimo a far trasferire Eamon Krasinique da Parkhurst e a curarlo, suo fratello Idris ci darebbe le informazioni di cui abbiamo bisogno.» Anna sorseggiò dell'acqua, prima di riprendere. «È difficile credere che Sickert, a tre settimane dalla sua scomparsa, sia ancora vivo; quanto ai bambini, o sono morti pure loro o - Dio non voglia! - sono nelle mani di
Amadou.» Anna si interruppe per consultare i propri appunti. Langton stava per sciogliere la riunione, quando lei alzò una mano per fermarlo. «Ho l'impressione che manchi ancora un anello alla catena... Qualcosa che potrebbe esserci sfuggito nell'omicidio di Carly Ann North.» Langton si accigliò. «Perché il suo cadavere non è stato semplicemente abbandonato? Perché Idris stava tentando di decapitarla e di mozzarle le mani? Forse perché poteva essere identificata mediante impronte digitali o altro? Era una nota prostituta ed eroinomane; eppure, qualche settimana prima della sua morte aveva cominciato a rimettere ordine nella sua vita. Sapeva forse qualcosa? Aveva visto qualcosa? Secondo me, dovremmo riesaminare quel caso per vedere se non ci sono altri nessi ancora oscuri.» «Secondo te dovremmo riesaminare il caso?» Langton era furibondo e continuava a percuotere il tavolo con il palmo della mano. «Non capisco perché ti arrabbi tanto.» «Ah, non capisci? Che cosa vuoi insinuare? Che non ho condotto il caso come si doveva? Non contenta di farmi fare la figura del coglione in questo caso, hai pensato bene di attaccarmi anche sulle indagini da me svolte in precedenza!» Lei lo interruppe, rivolgendosi a lui con uguale rabbia. «Durante la fase finale dell'inchiesta tu eri in ospedale e non sei riuscito neppure ad andare al processo. Lo sapevi che dopo il tuo ferimento Barolli si è dovuto prendere due settimane di permesso per lo shock subito? Mike Lewis si è ritrovato a doversi occupare da solo del processo e magari, come Barolli, era anche lui un po' traumatizzato. E poi io ho detto soltanto che qualcosa potrebbe essere sfuggito all'attenzione. Krasinique si è dichiarato colpevole, e l'accusa di omicidio si è imposta definitivamente prima ancora dell'inizio del processo.» Langton inspirò più volte a fondo. «Volevo solo controllare un po' i retroscena», riprese Anna, calmandosi a sua volta. «Sappiamo che la vittima era una prostituta, sappiamo che era cresciuta in una serie di centri d'accoglienza per minori. Ma sappiamo anche che poco prima di morire aveva smesso di usare eroina e di prostituirsi. Quali erano i suoi rapporti con Idris Krasinique? Chi altro conosceva o cos'altro conosceva la ragazza? Su questo non abbiamo potuto scavare, perché l'indagine è stata chiusa.»
Langton si sedette alla sua scrivania. «Va' a chiamare Mike Lewis e lasciami parlare con lui.» Anna assentì e lasciò l'ufficio. Circa mezz'ora dopo, Mike Lewis si presentò alla scrivania di Anna. «Che cazzo sta succedendo? Mi ha praticamente scorticato vivo! Cos'è 'sta storia che vuoi riaprire il caso sull'omicidio di Carly Ann North? Mi hai tirato in ballo, ma io ho fatto il mio lavoro, Anna, e non mi piace che tu vada in giro a insinuare che io avrei trascurato qualcosa, capito?» «Io non ho insinuato niente, Mike.» «Be', Langton sì, invece.» «Mi dispiace. Barolli non era in servizio, e tu hai dovuto sostenere da solo tutto il lavoro di preparazione del processo.» «Cristo, Krasinique aveva confessato!» «Sì, lo so... ma perché amputarle le mani e tentare di decapitarla? Non ha senso.» «Ah, no? Stammi a sentire: questi cazzo di immigrati clandestini arrivano da regioni devastate dalla guerra e sono pronti a fare a pezzi chiunque li ostacoli. Può darsi che la ragazza avesse rifiutato le sue avance, che lei...» «Tu, però, non sai perché lui l'ha ammazzata. Idris ha venticinque anni; suo fratello solo ventidue...» «È stata stuprata», sibilò Lewis. «Lo so, ma tu non sai dove fosse e con chi prima di essere uccisa.» Mike Lewis sospirò. «Era nel giro sin da bambina, aveva abbandonato da anni il centro d'accoglienza per minori in cui viveva, ha avuto una vita durissima... che altro c'è da sapere di lei?» «Be', ad esempio: è mai entrata in contatto con Amadou? Abbiamo informazioni al riguardo?» «No, io non ne so un accidenti. Fino a poco tempo fa, non lo avevo mai sentito nemmeno nominare.» «Appunto. I fratelli Krasinique, forse, lavoravano per lui; forse anche Carly Ann lo conosceva; e forse - dico, forse - quando lei ha deciso di smettere con la prostituzione e con l'eroina, Amadou...» Lewis si voltò di scatto e se ne andò. «Andrò a spulciare il materiale che abbiamo raccolto sul conto della ragazza.» Mike Lewis era chiaramente inviperito. E dalle occhiate che gli altri membri della squadra si lanciavano di nascosto, Anna capì di essersi messa contro tutti i colleghi. Fu un sollievo, per lei, quando Langton la convocò nel suo ufficio.
«Ho chiesto a Mike di recuperare tutte le informazioni disponibili sul conto di Carly Ann North, ma voglio che tu gli dia una mano. Se ci sarà da interrogare di nuovo qualcuna delle persone implicate in quel caso, tu andrai con lui.» «Non ne sarà molto contento.» «Chissenefrega. Dai, datevi da fare.» «Okay. Bisognerà ricontrollare anche i nomi dei due tizi coinvolti da Idris Krasinique. Sappiamo tutti quel che è accaduto quando siete andati a cercarli. Non sappiamo, invece, se quei nomi fossero veri o se la vicenda sia in qualche modo riconducibile ad Amadou.» «Quei due nomi erano falsi», disse Langton. «E quelli, a quest'ora, potrebbero già essere tranquillamente fuori dal paese o chissà dove.» «Però avevano a che fare con Rashid Burry.» «Sì, ma anche quest'altro stronzo sembra scomparso senza lasciare tracce.» Langton si concesse un'amara risata. «C'è da impazzire. Non riusciamo a trovare Sickert né i bambini né il bastardo che mi ha fatto a brandelli...» Aprì una cartelletta e la rigirò in modo da mostrarne il contenuto ad Anna. «Qui c'è la descrizione: uno di quei due aveva un paio di denti d'oro sul davanti... Continuo a sognarmeli. Forse era Rashid Burry, ma quanta gente ha i denti ricoperti d'oro? Dell'altro, quello con il machete, ho un'immagine confusa. Non saprei dire che età avesse o quanto fosse alto. È accaduto tutto troppo rapidamente. Stavo salendo le scale e un attimo dopo...» Langton fece un gesto di rassegnazione, e Anna gli domandò se poteva lasciarle il dossier da consultare. «Sì, prendilo.» Anna lo sfogliò sul posto: vi era allegata anche una foto di Carly Ann che lei non aveva mai visto. Ad Anna erano capitate tra le mani solo le foto raccapriccianti scattate sulla scena del delitto e sul tavolo autoptico. Il telefono sulla scrivania di Langton prese a squillare. Lui afferrò la cornetta e restò in ascolto, per poi riagganciare. «Mike Lewis ti aspetta; si è messo in contatto con la donna che abitava con Carly Ann.» Anna alzò gli occhi dalla cartelletta. «Era bella», mormorò. «Come?» «Dicevo che era bella.» Anna fissò la fotografia. Carly Ann aveva la pelle ambrata, dei lineamenti perfetti e occhi azzurri un po' a mandorla. Era magra e alta almeno un metro e settantacinque. In quella foto, le labbra erano schiuse in un seducente e indecifrabile sorriso. Al collo aveva una
grossa collana d'oro con una croce. Mike Lewis era alla guida dell'auto priva di contrassegni. Anna gli era seduta accanto. «Non sapevo che fosse così bella», disse Anna, guardando fuori dal finestrino. «Sul tavolo autoptico non sembrava tanto bella», grugnì Lewis. «Aveva gli occhi fuori dalla testa, e la gola era completamente squarciata. Credo che abbia lottato duramente per tentare di salvarsi.» «Quando è stata trovata aveva al collo una collana d'oro?» «No. Le hanno praticamente staccato la testa. C'era una marea di sangue.» «Krasinique ha tentato la fuga?» «Sì, ma il poliziotto è riuscito a bloccarlo, ha aspettato i rinforzi e poi lo hanno portato dentro. Ci hanno telefonato la mattina successiva.» «Ha confessato subito?» «Be', non ce n'era neanche bisogno. Era imbrattato del sangue della vittima e aveva la lama ancora grondante tra le mani.» «Sembrava sotto l'effetto di qualche droga?» «Non lo so. Quando l'abbiamo visto noi, era rannicchiato in un angolo della sua cella. Se era drogato, io non me ne sono accorto... a meno che l'effetto non fosse svanito durante la notte.» Anna prelevò dalla cartelletta la dichiarazione di Krasinique. Era breve. Affermava che era stato lui a uccidere Carly Ann North dopo averla stuprata. Anna domandò se si sapeva dove fosse avvenuto lo stupro. «Krasinique era senza fissa dimora e viveva per strada. È così che ha conosciuto la vittima.» «Insomma, non si sa...» Mike Lewis sospirò, irritatissimo. «Due giorni dopo, Langton è stato fatto a fette, Anna. Avevamo tra le mani un uomo che aveva confessato l'omicidio...» «Sì, sì, lo so. Ti prego, Mike, non c'è bisogno che ti giustifichi. Io sto solo cercando di ricomporre il quadro. Se ammettiamo che uno dei due complici di Idris Krasinique fosse Amadou, è strano che Langton non lo abbia identificato.» «È successo tutto così alla svelta che nessuno di noi ha avuto il tempo di fissarsi in mente la faccia di quei bastardi.» Anna decise di cambiare argomento.
«E la Range Rover bianca che quel poliziotto dice di aver visto sul luogo del delitto?» Lei voltò pagina e lesse. Un testimone aveva visto un veicolo parcheggiato nei pressi del luogo del delitto: finestrini oscurati, motore acceso. «Quando questi due tizi che erano con Krasinique sono fuggiti, si sono diretti verso la Range Rover? Sono fuggiti a bordo di quell'auto?» «No, l'auto si è allontanata all'arrivo dell'agente in divisa. Abbiamo provato a rintracciarla, ma senza fortuna.» Anna si strinse nelle spalle. Non dissero praticamente più nulla finché non furono all'edificio di Chalk Farm. C'erano graffiti dappertutto, e la zona, nonostante i tentativi della municipalità di ripulirla, era piuttosto problematica. Sui ballatoi antistanti le case pendevano i fili con il bucato steso. Anna e Mike dovettero chinarsi per raggiungere il portone del numero civico 41. «Okay, l'appartamento risulta affittato a Dora Rhodes... o, meglio, il suo nome figura nella lista degli occupanti, ma Dio solo sa quanta gente ci è passata, di qui.» «L'avete interrogata, vero?» «Sì, è venuta al commissariato per l'identificazione di Carly Ann, dato che questa non aveva famiglia. Gestisce una comunità.» «Non corrisponde al tipo della compagna di stanza di una prostituta...» «È una donna davvero insolita, credimi. Carly Ann abitava qui da poco, e questa Dora la stava aiutando a disintossicarsi.» Superarono un'altra cortina di panni stesi e si trovarono di fronte a una porta dipinta di blu. Suonarono il campanello e aspettarono. Anna notò che la cassetta delle lettere era distrutta, ma l'ottone era lucidato. La porta fu aperta da una giovane e corpulenta donna nera, con un foulard a fiori avvolto intorno alla testa. «Salve, entrate. Vi aspettavo.» Dora indossava una coloratissima tunica africana sopra una maglietta rossa; i piedini Cicciotti erano calzati con ciabattine di gomma. «Okay, sedetevi. Vi porto del caffè.» Anna si accomodò su uno sgargiante divano arancione pieno di macchie, come il tappeto; la stanza, però, era pulita e luminosa, con disegni infantili appesi alle pareti. Dora tornò con un vassoio carico di tazze da caffè e di biscotti che posò su un tavolino bianco dipinto a mano. «Prego, servitevi», disse, accomodandosi su una specie di puff informe. Dora pesava sicuramente più di un quintale, aveva braccia grosse e musco-
lose e la pancia un po' flaccida, ma le mani, come i piedi, erano di dimensioni minute. Indossava una serie di braccialetti d'argento che continuava a rigirarsi intorno al polso con la mano libera. «Siete venuti per la mia piccola Carly Ann, vero?» «Sì.» Anna prese la sua tazza di caffè, mentre Mike stava già mangiucchiando un biscotto e pareva contento di lasciare la parola alle donne. «Io non mi sono occupata della precedente inchiesta, perciò le chiederei di raccontarmi tutto quello che può su Carly Ann.» Dora annuì. «Nove mesi prima di morire si era trasferita qui da me. Non accolgo minorenni, di solito: appena cominci, ti ritrovi la casa piena, e il comune ti sbatte fuori. Comunque, quando la conobbi, c'era in lei qualcosa di particolare: arrivò qui al centro e disse che aveva bisogno di aiuto. Era eroinomane da un bel po' di anni e si prostituiva per tirar su i soldi che le servivano. Credo che avesse fatto una vitaccia: era una ragazzina fuggita da una serie di centri d'accoglienza per minori. Cercano tutti di venire a Londra, perché credono che qui le strade siano lastricate d'oro, e quando ci arrivano è già troppo tardi per tornare indietro. Carly Ann, inoltre, era così vistosa che gli sfruttatori avevano fatto presto a notarla e ad accaparrarsela.» Dora inspirò profondamente. «La mia piccola Carly Ann era una delle creature più incredibilmente perfette che io abbia mai visto. Era per metà giamaicana e per metà bianca, e la sua pelle era di un'immacolata sfumatura ambrata. Aveva dei capelli neri e ricci, lucenti come seta. Pensando alla vita che faceva e alla robaccia che si iniettava, è un miracolo che fosse sempre così stupenda...» Dora scosse la testa. Anna scrollò il capo in segno d'assenso e le disse dell'unica fotografia di Carly Ann da viva che aveva visto. Dora si alzò in piedi e andò ad aprire un cassetto da cui trasse un mazzetto di fotografie. «Eccola. Stava cercando in ogni modo di cambiar vita, e io le davo qualche sterlina perché mi aiutasse qui al centro. In genere ho a che fare con ragazzi molto giovani, perciò la indirizzai in una comunità di disintossicazione: ci andava al mattino, e al pomeriggio lavorava qui con me. Aveva smesso. Non era drogata, quando la trovarono morta, e questo rende la cosa ancora più insopportabile. Non credo che avesse ricominciato a prostituirsi. Mi aveva giurato che non avrebbe mai più fatto marchette in vita sua; era una cosa che odiava, e quanto più tempo passava qui con me e con i ragazzi, tanto più si rendeva conto di quel che aveva fatto a sé stessa. La tenevo tra le braccia quando le veniva da piangere, e lei mi diceva che io
ero un angelo, che non aveva mai ricevuto amore, che non aveva genitori; fino al nostro incontro, Carly Ann non aveva mai avuto una casa decente, e avreste dovuto vedere com'era rifiorita... Non voglio dire che non ci fossero problemi... A volte passava periodi cupi, ma quando rideva... tornava a splendere il sole.» Anna osservò le fotografie: si vedeva Carly Ann con alcuni ragazzini, che spegneva le candeline di una torta di compleanno; e poi lei, ilare, in un parco di divertimenti, su una slitta che sfrecciava velocissima. «In una foto che abbiamo alla stazione di polizia, Carly Ann indossa una pesante collana d'oro. Sa dove l'aveva presa?» Dora scosse la testa. «Conserva altri effetti personali di Carly Ann?» «Sì... Nessuno è venuto a reclamarli. La sua morte, per me, è un fatto così doloroso che non ho ancora avuto il coraggio di mettere in ordine le sue cose e di distribuirle a chi potrebbe averne bisogno. Prima o poi lo farò.» «Non aveva dei fidanzati?» «In tutto il periodo in cui è stata qui, rientrò tardi pochissime volte. In un paio di casi stette via tutto il weekend... Spariva senza dir nulla, e io, quando tornava, la rimproveravo e la ammonivo. L'ultima volta, le dissi che se fosse ricapitato l'avrei cacciata. Lei si mise a piangere e mi chiese scusa, sicché tutto si appianò. All'incirca un mese dopo scomparve, e fu ritrovata morta due mesi dopo. Io ero così preoccupata che avevo cominciato a cercarla per strada. Poi si seppe che era morta.» Dora si asciugò gli occhi con un fazzoletto. «Lei, insomma, non ha mai conosciuto amici di Carly Ann...» «No.» «Ha mai visto nessuno a bordo di una Range Rover bianca?» Dora annuì. «Non ho mai visto chi la guidava, perché i finestrini erano oscurati, ma un'auto del genere, qui sotto, l'ho vista più di una volta. Carly Ann non usciva mai quando c'era quell'auto. Credo che fosse il suo protettore o qualcuno che lei conosceva. Le avevo anche chiesto se voleva che chiamassi la polizia, ma lei mi aveva pregato di non farlo. A un certo punto quell'auto non si era più vista, e così la polizia non l'abbiamo avvertita.» «Carly Ann le ha mai fatto il nome del suo assassino, Idris Krasinique?» «No.» Anna si alzò in piedi. «Posso vedere le cose di Carly Ann?» Dora acconsentì e trascinò le sue ciabattine fino alla porta. «Ci vorrà
meno di un minuto. Ho raccolto tutto in una valigia.» Anna seguì Dora lungo uno stretto corridoio, seguita a sua volta da Mike. La stanza in cui entrarono era minuscola: ci stavano a malapena un lettino e un piccolo armadio. «Come dicevo, non è che avessi granché da offrirle, ma lei adorava la sua stanza e la considerava casa sua.» Dora prese una dozzinale valigia di broccato. «Questa era sua. Ci ho messo dentro tutte le sue cose. Anzi, l'ho fatto fare a una mia amica: io ero troppo triste... Lì dentro, comunque, c'è tutto. Ho chiesto a Esther di fare anche un elenco, così, se decidete di portarvela via, saprò che cosa conteneva.» Anna sorrise. «Non ci sarà bisogno di portarla via, ma sarei curiosa di dare un'occhiata.» «Prego, fate pure.» Anna aprì la valigia e cominciò a frugare tra gli abiti ben ripiegati. Alcuni erano capi da mercato rionale, ma altri erano decisamente più pregiati. Anna estrasse il proprio taccuino e cominciò a prender nota di quel che c'era, fino all'ultimo capo di biancheria sexy. La valigia aveva un odore di muschio un po' stantio, forse un residuo del profumo usato dalla ragazza. C'erano anche una pochette di satin rosa, piena di accessori per il trucco, e un cofanetto scolpito di forma squadrata. Anna lo aprì e vi trovò un ammasso di braccialetti, anelli e collane. Come nel caso dell'abbigliamento, anche tra i gioielli c'erano pezzi di nessun valore economico. A un certo punto, però, Anna scovò una parure formata da una grossa e pesante catena d'oro a 18 carati, da un braccialetto e da due anelli con diamante. E non mancava neppure una serie di braccialetti africani d'oro. «Che cosa hai trovato?» domandò Mike Lewis, appoggiato allo stipite della porta. «Ci sono molti gioielli costosissimi: oro puro e due grossi diamanti. A occhio e croce, tra le diecimila e le quindicimila sterline.» Mike emise un fischio di stupore. «Per essere una puttana eroinomane da due soldi, aveva dei clienti piuttosto ben piazzati! Si tratta di una bella cifra.» «Come diceva Dora, Carly Ann era di una bellezza straordinaria. Magari ha cercato di sottrarsi a un protettore a cui faceva guadagnare molti soldi... Si sa come sono quegli schifosi...» Mentre riponeva le cose nella valigia, Anna si guardò intorno alla ricerca di qualcosa che potesse esserle sfuggito. Non c'erano borse o zainetti né lettere o diari.
Mike e Anna tornarono da Dora, che nel frattempo aveva preparato altro caffè. «Non aveva borsette o lettere?» domandò Anna. «No, lì c'è tutto quel che aveva quando è arrivata. Non so neanche dove vivesse, prima, ma credo che se ne sia andata alla svelta... Di nascosto.» «Magari fuggiva da uno sfruttatore...» «Può darsi. Non voleva parlarne, diceva che si vergognava della sua vita passata. Non so, avere sedici anni e già un passato da dimenticare... Che tristezza.» «Aveva dei gioielli preziosi...» Dora alzò gli occhi sorpresa. «Ci sono braccialetti e collane d'oro, anelli con diamanti.» Dora scosse la testa. «Forse, proprio questo cercavano.» Anna si sporse in avanti, improvvisamente all'erta. «Chi?» «Mi sono entrati in casa già un paio di volte, dopo la morte di Carly Ann. Hanno messo tutto a soqquadro, ma non hanno portato via niente. Le sue cose erano tutte chiuse in valigia... e la valigia era sotto il mio letto. La mia vicina di casa li ha sentiti e ha chiamato la polizia. All'arrivo degli agenti, però, quelli se n'erano già andati.» «Lei, Dora, ha mai parlato con la polizia?» «Sissignori, e gli ho anche dato il numero di targa di quell'auto, nel caso quel tizio si rifacesse vivo.» «Mi scusi, quale auto?» «Quella bianca... Quella di cui si parlava poco fa... La Range Rover. Ho preso il numero di targa, quando ronzava intorno a Carly Ann.» Anna guardò Mike Lewis e poi di nuovo Dora. «Potrebbe rivelarsi un bel colpo di fortuna», mormorò. 14. Anna stava per entrare nella sala operativa della sua squadra nella stazione di polizia dello Hampshire, ma si bloccò, sentendo la voce di Harry Blunt che pareva nel bel mezzo di una delle sue sfuriate. «Non ci credo! Com'è che voi, a partire da una gamba ritrovata, nel giro di poche settimane, siete venuti in possesso di un nominativo e avete già sbattuto dentro un indiziato, mentre noi siamo andati in giro come dannati alla ricerca di questo Sickert e dei due bambini, e non abbiamo trovato un accidenti?»
Frank Brandon era seduto su una scrivania e volgeva la schiena ad Anna. «Be', si può parlare di un eccezionale, raffinatissimo lavoro di indagine, amico mio.» «Ciao, Frank», disse Anna. Frank si voltò e le sorrise. «Ehi, come va? Stavo appunto raccontando a Harry della fortuna che abbiamo avuto...» «Be', oggi abbiamo davvero dato una svolta alle indagini», confermò lei, dirigendosi verso la propria scrivania. «Allora, come mai da queste parti?» «Faccio parte anch'io della squadra, ovvio. Se non ho capito male, avete bisogno di tutto l'aiuto possibile.» Al capo opposto della stanza, Harry sollevò un sopracciglio. «In che cosa consisterebbe questa svolta?» domandò ad Anna. Lei gli disse del numero di targa della Range Rover bianca vista sul luogo dell'omicidio di Carly Ann North: Mike Lewis stava facendo ricerche nel database della motorizzazione civile per capire chi ne fosse il proprietario. Prima di cominciare a stilare il rapporto, Anna domandò dove fosse Langton. «È andato nell'East End da un guaritore voodoo; lo ha accompagnato Grace.» Harry si avvicinò ad Anna e si appoggiò allo schienale della sua poltroncina. «Che altro avete scoperto, stamattina?» «Be', intanto, Carly Ann North era una sventola pazzesca; aveva smesso con l'eroina e la prostituzione; e viveva con la direttrice di una comunità che si chiama Dora. La Range Rover bianca era spesso parcheggiata nei dintorni di questa casa-comunità. Secondo Dora, poteva trattarsi di un ex sfruttatore della ragazza.» Anna smise di digitare. «Possedeva anche un gran numero di gioielli costosissimi. Se è stato il suo sfruttatore a darglieli, vuol dire che pagava bene o che aveva una predilezione per lei.» «Questa Dora sapeva per chi lavorava Carly Ann?» «No, la ragazza non ha mai voluto parlargliene. Comunque, secondo me, un protettore che abbia a disposizione una ragazza del genere difficilmente accetta che lei lasci il mestiere: doveva essere una vera e propria miniera d'oro.» «Credi che il tizio alla guida della Range Rover fosse il protettore di Carly Ann?» «Posto che lo fosse, stava assistendo al tentativo di decapitarla.» In quel preciso istante, Mike Lewis fece il suo ingresso nella sala con le braccia alzate al cielo. «Abbiamo il nome del proprietario originario della Range Rover: risiede a Kensington. Ho parlato con sua moglie: dice che
l'hanno venduta un anno fa.» Si sedette con aria mesta sul bordo della scrivania di Anna. «Il nostro uomo l'ha comprata in contanti e, a quanto pare, ha fornito nome e indirizzo falsi.» «Non abbiamo una descrizione del compratore?» Lewis prese il suo taccuino. «Alto, nero, vestito elegante, parlava un buon inglese, sì è presentato con estrema cortesia eccetera. Visto che ha pagato in contanti, gli hanno fatto uno sconto.» «Be', abbiamo il numero di targa e possiamo divulgarlo: magari qualcuno la vede in giro.» «Già fatto.» Harry si passò una mano tra i capelli. «Non mi pare esattamente la classica auto da pappone, o sbaglio? Troppo vistosa... Range Rover bianca, con i finestrini oscurati.» «A giudicare dalla quantità di gioielli accumulata dalla ragazza, quell'uomo non era un pappone da due soldi...» «Se lavorava per lui, magari non gli andava giù il fatto che lei avesse deciso di cambiare vita.» Anna aggrottò le sopracciglia. «A meno che...» Mike e Harry la guardarono. «Forse, Carly Ann non era solo una sua prostituta... Magari, lui le voleva bene... Dobbiamo assolutamente trovare qualcuno che la frequentasse prima che lei andasse a rifugiarsi da Dora: potrebbe darci un'idea sull'identità di quell'uomo.» Si voltò verso Mike. «Non c'è qualche nome tra il materiale della tua indagine?» «Andrò a verificare. Se non ricordo male, un paio di ragazze le abbiamo interrogate.» Mike si avviò verso la sua scrivania, e Harry, ad alta voce, disse: «Di nuovo ad arrampicarsi sugli specchi! E questo sarebbe un nuovo filone di indagine? Non sappiamo che pesci pigliare e stiamo qui a rimirarci l'ombelico nella speranza che succeda qualcosa». «Non si sa mai, Harry. Potrebbe rivelarsi una buona pista. Ci sono novità su Amadou? Se davvero abita a Peckham, qualcuno dovrà pur sapere dov'è.» «Può darsi, ma di soffiate, ancora, non ne abbiamo avute. La polizia della zona sta ancora cercando.» Sempre rivolto ad Anna, indicò Frank Brandon. «E lui perché è stato coinvolto nell'indagine?» «È ovvio!» disse Anna. «Per arrampicarsi sugli specchi!» «Da quando è arrivato, questo posto puzza come il letto di una puttana.»
«E tu ne sai qualcosa, vero?» ironizzò Anna. «No, però lui si è messo addosso abbastanza colonia da stenderti a due metri di distanza.» Mike Lewis si ripresentò con un foglio in mano. «Ho trovato i nomi di due ragazze. Le avevamo interrogate entrambe, e Carly Ann non la vedevano da mesi. In precedenza, però, si erano frequentate.» «Carly Ann viveva con loro?» «Be', la seconda volta che è stata arrestata per adescamento dalle parti di Shaftesbury Avenue, ha dato il loro indirizzo...» Anna gli domandò quale fosse, per andare a interrogarle, ma Mike, scrollando le spalle, le disse che difficilmente quelle due ragazze abitavano ancora lì: si trattava di una casa occupata regolarizzata, a Kilburn. Langton non era presente, ma Anna si curò, questa volta, di seguire tutte le regole e procedure. Comunicò al coordinatore delle indagini la propria intenzione di interrogare le ragazze, specificando che si sarebbe fatta accompagnare da Brandon. Inoltrò il verbale sull'incontro con Dora e, dopo un veloce tramezzino con caffè, uscì dal commissariato in compagnia di Frank Brandon. Il viaggio in auto trascorse, per la prima parte, in silenzio; poi, Brandon chiese ad Anna di aggiornarlo sull'indagine. Lei gli raccontò dei fratelli Krasinique e della speranza di trovare un rimedio per Eamon, detenuto a Parkhurst. Se Eamon Krasinique si fosse ripreso, suo fratello Idris, in carcere a Wakefield, forse avrebbe fornito loro qualche informazione preziosa. «Che schifo...» commentò Frank. «Se davvero questo stronzo sa qualcosa e non parla...» «È terrorizzato dal voodoo», spiegò Anna. «Stronzate.» «Può darsi, ma se avessi visto Eamon Krasinique non la penseresti così: era completamente partito, un vero zombi. Hanno dovuto cercare di alimentarlo a forza, per tenerlo in vita.» «E perché? È l'assassino di Murphy, no?» «Sì, ma se aiutandolo riusciamo a cavare qualche informazione dal fratello, dobbiamo provarci. «Sono tutt'e due immigrati illegali?» «Sì.» «Pazzesco, eh? A leggere i giornali, pare che, nonostante si sia già sommersi dagli immigrati illegali, sia in arrivo un'altra ondata di gente dall'Eu-
ropa orientale. Per colpa di certe leggi del cazzo, dovremo far posto ad altre seicentomila persone in arrivo da Polonia e dintorni. Giuro, sto meditando di emigrare in Australia. Lì sì che ragionano bene: si chiudono le porte, e basta! E il nostro governo del cazzo stimava che ne sarebbero arrivati solo tredicimila! Un piccolo errore di calcolo... In realtà, il governo e le istituzioni provano continuamente, e senza vergogna, a nascondere la verità: hanno sbagliato tutto, sul fronte del controllo dell'immigrazione, e noi ne paghiamo le conseguenze. Lo sai che cosa significa? Scuole, ospedali, case, previdenza sociale e salari non reggeranno l'urto di questa marea di approfittatori! Mio fratello abita a Peterborough, dove arriveranno duemila polacchi, e la disoccupazione è già alta... Che diavolo ci faranno quei duemila polacchi a Peterborough?» Anna fermò l'auto davanti a una grande casa cadente con la facciata coperta di graffiti. «Eccoci a destinazione.» Brandon guardò fuori dal finestrino. «Che porcile! Le case occupate legalizzate non le sopporto... La compreresti, tu, una casa da queste parti?» Anna scese dall'auto. Brandon cominciava a seccarla: assomigliava sempre di più a quel fanatico di Harry Blunt. La porta d'ingresso era scardinata. Sui gradini c'erano seduti due tizi che, quando Anna domandò se abitasse lì una certa Barbara Early, si limitarono a guardarla e a stringersi nelle spalle. Brandon li aggirò, e Anna lo seguì. Il corridoio lurido era pieno di sacchi della spazzatura. Anna bussò a una porta, senza ottenere risposta, e Brandon ebbe lo stesso esito bussando ad altre due. Dalle scale stava scendendo una ragazza nera che indossava un giubbotto di pelle di due taglie troppo grande, delle culotte di satin aderenti e scarpe con tacchi alti. «Sto cercando Barbara Early», disse Anna con cortesia, ostruendo il passaggio. «Non abita più qui», rispose la ragazza. «Okay. Sto cercando anche Jinny Moorcroft.» La ragazza ebbe un'esitazione. «Per che cosa?» «Niente di preoccupante. Vogliamo solo fare due chiacchiere con lei a proposito di una certa persona.» «Secondo piano, in fondo al corridoio.» «Grazie.» Anna si scostò per lasciar passare la ragazza, proprio mentre un ragazzo bianco con i dreadlock, dall'alto, attaccò a gridare: «Ehi, Jinny! Prendi del
latte!». Brandon ebbe uno scatto e afferrò la ragazza per le braccia. «Non è stato per niente carino da parte tua, Jinny.» Lei cominciò a dimenarsi per cercare di divincolarsi. «Okay, Jinny. Possiamo chiacchierare qui, ma se preferisci ti portiamo alla stazione di polizia. Non vogliamo arrestarti. Niente del genere. Ci servono solo alcune informazioni su una tua amica.» «Se si tratta di Barbara, nessuno qui sa dove sia. Si è fatta un'overdose la settimana scorsa, e l'hanno portata via.» «Non si tratta di Barbara, ma di Carly Ann North.» Jinny parve letteralmente sgonfiarsi, al punto che quasi cadde dai tacchi. «C'è un posto dove sia possibile parlare in privato?» domandò Anna, con voce tranquilla e sicura. Jinny esitò e, dopo aver guardato in alto nella tromba delle scale, disse: «Il posto migliore è questo». Anna si sedette sulle scale sudicie accanto alla ragazza, mentre Brandon rimase nei paraggi. «Conoscevi Carly Ann, vero?» «Sì.» «Ha abitato qui per un periodo. Ha fornito questo indirizzo, una volta che è stata fermata dalla polizia.» «Sì, stava nella stanza più in alto, con me e Barbara, ma Barbara adesso non c'è più.» «Per quanto tempo Carly Ann ha abitato qui?» «Non lo so. Era già qui quando io sono arrivata. Si parla di più di un anno fa.» «Condividevate la stanza?» «Sì.» Jinny si grattò le mani e si strofinò le braccia attraverso il giubbotto. Aveva gli occhi vitrei e una crosta rossa di sangue intorno al naso. Le unghie erano rosicchiate fino alla carne viva. Probabilmente un'eroinomane, pensò Anna. «Lavoravi con Carly Ann?» «A volte.» «Lei aveva qualcuno di speciale? Un cliente speciale, magari...» «Be', no... Almeno, all'inizio era come noi.» «Lavoravate per strada insieme?» «A volte.» Jinny guardò di nuovo verso l'alto e poi chinò la testa. «Lui, Mark, ci protegge», disse, alludendo al tizio che si era affacciato dall'alto. «Mark proteggeva anche Carly Ann?»
«Sì, per un periodo, ma poi hanno litigato.» «Per questioni di soldi?» «Sì.» «L'ha cacciata a calci?» «No, lui è stato preso a calci!» «Chi? Mark?!» «Sì. È arrivato uno dicendo che voleva prendersi Carly Ann. Be', Mark lo ha mandato a fare in culo e allora quello stronzo l'ha pestato.» «Sapresti descrivermelo?» «No, io non c'ero.» «E così Carly Ann se n'è andata?» «Sì, be', dopo quello che era successo, a Mark non andava di avere di nuovo a che fare con quelli.» «Quelli?» «Sì, ce n'erano diversi... Non so chi fossero, ma sono arrivati, e uno di loro è salito a prendere le cose di Carly Ann.» «Tu, però, non c'eri.» «No, c'era Mark. Sono saliti nella nostra stanza e si sono portati via la roba di Carly Ann. Lei era fuori, non è neanche entrata.» «Sai con che auto giravano?» «Sì, una bianca, grossa, con i finestrini oscurati: l'ho vista qua fuori più di una volta. A volte Carly Ann veniva riaccompagnata a casa, con quell'auto.» «Hai mai notato chi c'era a bordo?» «No, i finestrini erano neri.» «Hai mai notato qualcuno di quelli che accompagnavano Carly Ann?» «No, lei era molto riservata, perché quello la pagava benissimo; a un certo punto ha detto che smetteva con le droghe e tutto il resto e che andava a vivere da questo tipo. Noi credevamo che fossero balle, perché lei ne raccontava di enormi... Diceva che lui si sarebbe preso cura di lei.» Brandon domandò sottovoce: «Era questa l'auto bianca che hai visto qui fuori?». Le mostrò una foto di una Range Rover bianca. «Sì, era come questa.» Anna guardò Brandon e si accostò ulteriormente a Jinny. «Mi sa che dovremo parlare con Mark», disse, a bassa voce. «Oh, Cristo, no! Se la prenderà con me.» «Noi vogliamo solo parlargli.» Brandon si avviò su per le scale, e Jinny lo osservò preoccupata.
«Carly Ann riceveva gioielli in regalo da quell'uomo che frequentava?» domandò Anna. «Non lo so. Se aveva oggetti di valore, li teneva nascosti, perché io non li ho mai visti. Mark glieli avrebbe portati via.» Anna guardò quella ragazza imbottita di droga, non più che diciassettenne, e strappò una pagina dal proprio taccuino. «Jinny, se mai dovessi decidere di mollare questa vita, chiama questa donna. Si chiama Dora. Ti aiuterà a smettere con la roba... a rimetterti in carreggiata.» Jinny guardò il foglietto e lo ripiegò fino a ridurlo a un quadratino. «È morta, vero?» «CarlyAnn?» «Sì, l'ho letto sui giornali. Vengono tutti qui a chiedere di lei, ma noi non sappiamo nulla. Immagino che anche Barbara sia morta: si sparava dei cocktail di metamfetamma con Dio solo sa cosa... Era una brava ragazza.» Jinny chiuse gli occhi. «Carly Ann è stata barbaramente assassinata, Jinny, perciò se sai qualcosa che potrebbe tornarci utile... Qualsiasi cosa.» «Il colpevole è stato preso, vero?» «Sì, ma crediamo che altre persone coinvolte nell'omicidio siano riuscite a cavarsela, per ora.» Jinny protese una gamba per mostrare un piede calzato. «Ha lasciato queste scarpe e un po' di altra roba: diceva che non ne avrebbe più avuto bisogno, perché aveva trovato chi si sarebbe curato di lei. Be', era un'altra delle sue bugie, vero? Nessuno si è preso cura di lei. L'hanno fregata.» «Ti era simpatica, eh?» Jinny annuì. Gli occhi le si riempirono di lacrime. «So che raccontava balle e tutto il resto, ma era diversa da tutte noi... Precisa, sempre pulitissima, timorosa di potersi beccare qualche malattia.» All'improvviso udirono un gran trambusto dal piano superiore. Jinny alzò gli occhi piena di paura. «Io devo andare a prendere del latte.» «Ti ringrazio per aver parlato con me, Jinny. Ti prego, se vuoi cambiare vita, chiama questo numero. Dora mi è sembrata una brava donna: sono sicura che ti aiuterebbe.» Jinny si alzò malcerta sui tacchi. «Sì, le telefonerò. Posso andare, adesso?» Anna si alzò in piedi e guardò quella fragile figura, con le scarpe della
ragazza morta, uscire barcollando dalla porta d'ingresso dell'edificio. I due tizi seduti sui gradini all'esterno risero; uno le infilò la mano sotto la gonna, ma lei gliela tolse. Brandon, intanto, stava scendendo le scale, massaggiandosi la mano destra. «Pezzo di merda! Mi ha tirato un pugno, e io allora gliel'ho restituito. A quel punto ha provato a darmi un calcio nei coglioni, ma mi ha mancato. Io, invece, l'ho preso in pieno.» Anna uscì dalla porta dell'edificio, superando i due perdigiorno seduti sulla soglia: li fissò, quasi sfidandoli a toccarla, ma quelli se ne guardarono bene. A bordo dell'auto, con Anna al volante, percorsero la via di case fatiscenti. «Mark ha descritto il proprietario della Range Rover bianca: poco meno di due metri, nero, due denti d'oro e uno mancante sul davanti.» «Sembra il ritratto di Rashid Burry», disse Anna. «Ordinò a Mark di infilare tutta la roba di Carly Ann in una borsa e disse che lei non sarebbe più tornata, minacciandolo di tagliargli la gola se si fosse azzardato a cercarla. Questo, se ho capito bene, successe all'incirca un anno prima della morte della ragazza. Mark dice di aver avuto una paura da cacarsi sotto. Quando il tipo dai denti d'oro se ne andò, Mark si affacciò alla finestra. Gli parve che su quell'auto ci fossero altri due uomini, ma dice di non essere riuscito a vedere bene. Carly Ann, però, non era con loro. C'era qualcuno che poteva avere addosso una tuta da ginnastica bianca - la portiera era rimasta aperta - e i vestiti, con tutto il resto, furono buttati dentro alla rinfusa, come se non meritassero particolare cura. Mark pensò che Carly Ann avesse trovato qualche cliente molto ricco, perché il nero dai denti d'oro, dopo averlo pestato, gli aveva dato duecento sterline. Gliele aveva tirate in faccia, ripetendogli di non provare a cercare la ragazza.» «Mark, dunque, non l'ha più rivista?» «No.» Anna sospirò, cercando di calcolare per quanto tempo la ragazza fosse rimasta con il ricco cliente, prima di rivolgersi a Dora: questione di mesi, al massimo. In quel poco tempo, lei aveva ricevuto in dono una tale quantità di gioielli e di abiti costosi da far dubitare che quell'uomo la trattasse alla stregua di una puttana... a meno che i clienti che lui riusciva a procurarle non pagassero fior di soldi. Era logico che a questa persona non an-
dasse a genio la prospettiva che Carly Ann lo piantasse in asso. Langton non solo aveva cooptato Frank Brandon nella squadra per rinfoltire i ranghi, ma aveva anche ottenuto un certo numero di impiegati e di agenti in uniforme. Quando raggiunse il resto della squadra, aveva un'aria sfinita. Mentre tutti si radunavano, lui restò in piedi a fissare la bacheca, vagando con gli occhi per immagazzinare e fissare nella memoria la massa delle informazioni. I suoi sottoposti attesero in silenzio seduti a semicerchio intorno a lui. Dopo un lungo sospiro, attaccò a parlare. «Okay. Anna, ho provato a mettermi in contatto con il professor Starling per chiedergli lumi sulla questione del voodoo, ma è a Luxor per qualche scavo o roba del genere. Allora, Grace e io siamo andati a trovare una serie di ciarlatani, in cerca di elementi utili. Mi pare che l'unica nostra chance consista nel far parlare questo Idris Krasinique, per vedere se quel che sa può servire a qualcosa. Come vedete, è indispensabile. Sembra incredibile che, dopo tutto questo tempo, siamo ancora al punto di partenza. Non sto accusando nessuno: abbiamo tutti dato il massimo, ma senza ottenere il benché minimo risultato. Inoltre, le ultime notizie su Eamon Krasinique parlano di un rapido deterioramento delle sue condizioni, perciò siamo in corsa contro il tempo.» In quel momento, irruppe nella stanza Harry Blunt. Langton si voltò verso di lui, irritato. «Ha appena chiamato lo sfasciacarrozze: hanno la Range Rover. Nessuno ha toccato nulla, a parte il sedile di guida e il volante.» Harry dovette prendere fiato. «Ho detto a quelli di Scotland Yard di consegnarla subito ai loro specialisti e di cominciare subito a lavorarci sopra.» Langton gli fece cenno di calmarsi. «Come ci è arrivata, lì?» «L'ha portata un tizio che ha pagato più del dovuto e ha detto che gli avevano messo della sabbia nell'accensione e che non si poteva più fare niente. Ha preteso di assistere alla demolizione per assicurarsi che nessuno la toccasse. Si sono accordati e hanno staccato le targhe... per far le cose in regola. A quel punto l'uomo della Range Rover ha cominciato a dar segni di nervosismo e, quando ha visto l'auto salire sulla rampa della demolizione, si è stufato e ha mollato lì le targhe e tutto quanto. Lo sfasciacarrozze, allora, ha subodorato che c'era qualcosa di strano, ha fermato tutto e ha chiamato la polizia locale. Be', è la Range Rover che cercavamo. Carrozze-
ria bianca, finestrini oscurati, e la targa coincide!» L'euforia si propagò per la sala: proprio quando credevano di essere in un vicolo cieco, ecco finalmente la svolta! Harry ripeté la descrizione dell'uomo della Range Rover raccolta presso lo sfasciacarrozze: alto, nero, ben vestito. C'era qualcuno che lo aspettava, all'esterno, su una Mercedes rossa a quattro porte, ma nessuno era riuscito a vederlo. L'emozione si era appena placata, quando giunse una nuova telefonata. Fu Brandon a rispondere. «È Scotland Yard. Hanno aperto la Range Rover. C'è qualcosa nel bagagliaio.» Il corpo nudo era avvolto da sacchi di plastica neri: la vittima era un nero, alto poco meno di due metri, con i capelli crespi, due denti d'oro e uno mancante sul davanti. Il corpo era stato praticamente piegato in due per farlo entrare nel vano posteriore dell'auto. La volante con Langton e Anna a bordo raggiunse Londra a tutta velocità, seguita da Harry Blunt e Brandon. Al loro arrivo, il cortile dello sfasciacarrozze era ormai illuminato a giorno dai riflettori, e una squadra di esperti stava accingendosi a passare l'auto al vaglio. Il bagagliaio era aperto: il corpo non era ancora stato rimosso. Langton prese Anna sottobraccio e la condusse alla Range Rover. La plastica nera era stata squarciata per consentire loro di vedere in faccia il morto. Un addetto della Scientifica con mascherina davanti alla bocca girò la testa del cadavere per permettere ad Anna di osservarlo meglio. Lei si avvicinò e, con la voce attutita dalla mascherina, chiese di sollevare le labbra con una spatola, per esporre la dentatura. «Sì, è Rashid Burry», confermò. Langton lasciò che gli analisti della Scientifica si rimettessero al lavoro: la polizia avrebbe poi risolto ogni dubbio residuo confrontando le impronte digitali del cadavere con quelle già in archivio. Restava ben poco da fare finché gli uomini della Scientifica e gli anatomopatologi non avessero concluso la loro opera. Mentre Langton parlava con il responsabile, arrivò il furgoncino dell'obitorio che doveva portar via il corpo. Langton confidò al suo interlocutore il loro disperato bisogno di indizi e lo pregò di prestare attenzione anche all'elemento più insignificante. Gli fu garantito che il veicolo sarebbe stato rivoltato come un guanto. Mike e Brandon rimasero sul posto, mentre Langton decise di tornare in sala operativa. Nel tragitto fino all'automobile pareva scontento.
Anna abbozzò un sorriso. «Be', è stato un colpo di fortuna. Sono certa che ne verrà fuori qualcosa di molto utile.» Langton non ne era altrettanto sicuro. Si sedette accanto al posto di guida e chiuse gli occhi, mentre Anna telefonava al commissariato per informare che Langton esigeva il silenzio stampa su questo nuovo sviluppo. Erano le nove passate, ormai. Anna era stanca, ma doveva andare a prendere la sua auto al commissariato dello Hampshire. Non le venne in mente nient'altro da dire e, vedendo che lui non riapriva gli occhi, gli sfiorò la spalla. «Tutto bene?» «Sì.» Langton si stropicciò gli occhi. «Vuoi dell'acqua? Ne ho una bottiglia.» «No.» Anna rivolse uno sguardo distratto al traffico serale. Avrebbe voluto chiedergli dei colloqui con i guaritori voodoo - o ciarlatani, come lui preferiva chiamarli - ma Langton non pareva tanto disposto alla conversazione. L'autista continuò a guidare senza proferir parola e senza mai lanciare neppure un'occhiata ad Anna nello specchietto retrovisore. Chiuse anche lei gli occhi, ma li riaprì di scatto udendo un vago gemito. Si sporse in avanti, per controllare che Langton stesse bene, e vide che stava dormendo. Langton sentiva la lama squarciargli la carne, il dolore folgorante che si propagava per tutto il corpo. Pencolò in avanti, con il sangue che sgorgava a fiotti: un fendente aveva lacerato il tessuto dei pantaloni come fosse aria e soprattutto gli aveva aperto una voragine nella coscia. Quindi, cadde all'indietro giù per le scale. Il cuore pompava con furia al punto che lui credette gliel'avessero fatto a pezzi con una mannaia. Il cervello gli pareva sul punto di disintegrarsi per effetto della sofferenza lancinante. Non stava dormendo: era sveglissimo. L'uomo che aveva riso quando Langton aveva cominciato a schizzargli il sangue addosso era lo stesso di cui aveva visto il volto attraverso lo squarcio nel sacchetto di plastica nero: un volto che fino a quel momento non era più riuscito a ricostruire. Non era stato Rashid, però, a ferirlo: lui era rimasto un passo indietro. Certo, Rashid Burry era presente al momento dell'aggressione... e aveva riso. Langton continuò a tenere gli occhi chiusi. Non ne avrebbe parlato con nessuno. Era essenziale che nessuno lo sapesse. Se la notizia fosse divenuta di dominio pubblico, lui sarebbe stato rimosso... e quell'inchiesta, inve-
ce, era l'unica cosa che gli faceva sopportare quel dolore tremendo che lo tormentava giorno e notte. Langton sapeva di essere sempre più vicino a stanare l'uomo che aveva brandito il machete contro di lui. Langton voleva trovare Amadou vivo, non morto. 15. La fotografia di Rashid Burry, affissa alla bacheca, aveva ora una croce rossa sulla faccia. Era stato garrotato, e il sottile filo gli pendeva ancora dal collo. Era morto da quarantotto ore. Avrebbero dovuto attendere ancora per gli esiti delle analisi scientifiche sul cadavere e sulla Range Rover, ma l'atmosfera, nella sala operativa che andava riempiendosi, era decisamente positiva. Langton, al momento di riferire i dettagli del ritrovamento, apparve a tutti ristorato e pieno di energia. Raccontò dei colloqui avuti con i guaritori voodoo e fece ridere tutti con le sue battute sull'argomento. Quindi, passò a illustrare l'unico incontro che, secondo lui, poteva rivelarsi di una qualche utilità. «Uno di questi guaritori, tale Elmore Salaam - e chissà se è il suo vero nome - ha uno studio piuttosto ben avviato nell'East End, con la sala d'attesa tappezzata di diplomi e certificati. Ha lavorato a Haiti e in Giamaica ed è originario di New Orleans. Ha una moglie che si chiama Esme, che gli fa da segretaria e da assistente: è lei che accompagna i pazienti nello studio del dottore. Lui sembra prediligere i pagamenti in contanti, ma risulta tutto in regola: mi ha assicurato che paga le tasse, e io gli credo. Ha proprio l'aria di uno del mestiere: lunga tunica bianca, crocifisso enorme e un mucchio di anelli d'oro... Ai piedi, però, aveva dei mocassini piuttosto costosi! Si è rivelato un tipo loquace e mi ha propinato una lunga tirata sul suo lavoro di guaritore. I suoi pazienti soffrono spesso di ansie e affezioni banalissime, per le quali lui prescrive rimedi a base di erbe.» Langton fece una pausa per bere un sorso di caffè. «Per farlo parlare del voodoo mi ci è voluto del tempo, dato che lui insisteva a dire che non era il suo campo di specializzazione; in realtà, è una vera e propria autorità in materia di rituali voodoo e ha pubblicato diversi libri sull'argomento.» Langton mostrò alcuni volumi che parevano stampati con un computer. «Si è fatto serissimo quando ha cominciato a raccontarmi di certi suoi pazienti terrorizzati. Le persone che si rivolgono a lui sono in genere estremamente ignoranti, e servono diverse sedute - in cui il medico fa ricor-
so a tutte le sue conoscenze psicologiche - solo per riuscire a tranquillizzarle e a spiegar loro che la maledizione di cui sono vittime può essere neutralizzata.» Harry Blunt soffocò uno sbadiglio. Anna sapeva che il collega non credeva affatto a tutte quelle storie sul voodoo e che era impaziente di capire dove Langton stesse andando a parare. In quel momento, però, Grace Ballagio affiancò Langton. «Allora, mentre il capo raccoglieva informazioni dal dottore, io mi sono intrattenuta con Esme. Non era particolarmente incline a chiacchierare, all'inizio, ma si è aperta dopo che io, mentendo, le ho detto che mia zia viveva a New Orleans e che io, diversamente dal mio capo, al voodoo ci credevo.» Grace proseguì spiegando che di tanto in tanto venivano interrotte da pazienti che si presentavano con le loro prescrizioni, perciò Esme era spesso impegnata a trafficare con polveri e pillole in una stanzetta adiacente. Grace, così, aveva avuto tempo e modo di dare un'occhiata in giro. C'era una scrivania con un'agenda e una tabella con una lista di nomi. Al ritorno di Esme, Grace le aveva domandato spiegazioni dicendo che era molto interessata al lavoro di suo marito, ma quella le aveva detto che bisognava parlarne con il dottore, perché il loro era uno studio privato. «Ho cercato di farla parlare, di farmi spiegare di che tipo di studio si trattava, ma lei si è improvvisamente agitata e diceva che lei non condivideva, ma che tenere in piedi quell'attività costava molto, e siccome molti pazienti di soldi non ne avevano... alla fine facevano quel che dovevano fare.» Langton posò una mano sulla spalla di Grace. «Il dottor Salaam pratica i riti voodoo e li insegna, soprattutto ad allievi selezionati e - come ha tenuto più volte a ribadire - non si avventura nelle "tenebre". Ha usato questa espressione.» Grace riprese il discorso. «Gli allievi, naturalmente, pagano un mucchio di soldi. Ho chiesto a Esme di fornirmi i nomi, ma lei si è rifiutata. A quel punto ho cambiato discorso e le ho domandato se aveva qualcosa contro il mal di testa. È andata nella stanzetta adiacente, e io ne ho approfittato per dare un'altra sbirciatina all'agenda... ma Esme mi ha beccato e me l'ha tolta di mano.» Toccò a Langton, questa volta, interloquire. «Proprio in quel momento io uscivo dall'ufficio di Elmore. La moglie gli ha detto qualcosa in non so quale lingua, e allora il cordiale sacerdote-guaritore-psichiatra si è imbe-
stialito. Ci ha accusato di averlo ingannato. Ho dovuto mostrargli di nuovo il mio tesserino, per calmarlo, ma è stato molto sgradevole. Io, perciò, sono andato giù un po' pesante sul modo in cui lui gestisce il suo studio, ma gli ho assicurato che non gli avrei creato problemi e che noi eravamo lì solo perché avevamo bisogno di aiuto.» All'improvviso, Harry Blunt si alzò in piedi e attraversò la sala. Langton lo guardò in tralice. «Dove vai?» «Devo fare una pisciata... ma, a dire il vero, capo, l'avete tirata in lungo e ancora non ho capito dove volete andare a parare.» «Rimettiti a sedere!» sibilò Langton. Guardò duramente i presenti. «C'è qualcun altro che pensa che ci stiamo perdendo in scemenze? Se ho deciso di scendere nei particolari, ci sarà pure un cazzo di motivo, o no? Ti interessa? Se sei sempre dell'idea di andare a pisciare, comunque, va' pure... ma non tornare.» «Cristo, capo, sono le undici. Sono pieno di caffè fin sopra la testa.» Langton lo ignorò. Raggiunse la bacheca e con la mano aperta diede un gran colpo sul nome di Amadou. «Questo stronzo tiene Elmore a libro paga da anni. È ossessionato dal voodoo, al punto che persino il dottore ha cominciato a provare disagio. Quel maledetto è interessato esclusivamente alle "tenebre", per intenderci.» Anna era seduta con la schiena insolitamente rigida. Non poteva crederci: Langton non gliene aveva fatto parola. Brandon e Lewis si lanciavano segrete occhiate d'intesa: anche loro erano stati lasciati nelle «tenebre»! La sala sprofondò nel silenzio. «Amadou ha dato loro un indirizzo falso e una serie di numeri di telefonino: li cambia con frequenza pressoché settimanale. Si incontrava regolarmente con Elmore, e a un certo punto la moglie di quest'ultimo l'ha invitato a non ripresentarsi. Amadou li ha spaventati a morte, arrivando a mostrar loro una testa raggrinzita e due artigli. Mani di bambino! Allora, Harry, vuoi ancora andare a pisciare?» Harry tornò a sedersi con aria afflitta. «Ci serve il dottor Salaam perché l'unica nostra speranza è Eamon Krasinique, che si sta lasciando morire perché si crede colpito da una maledizione voodoo. Posso continuare, Harry?» «Scusami, capo.» Langton spiegò che aveva fissato un appuntamento con il dottor Salaam per vedere se si riusciva ad aiutare Eamon Krasinique. C'era pochissimo tempo a disposizione. Elmore li avrebbe raggiunti quello stesso pomerig-
gio, e insieme sarebbero andati a Parkhurst. La riunione terminò alle dodici passate. Langton si chiuse nel suo ufficio, lasciando tutti sbalorditi. C'era un forte e diffuso risentimento nella squadra. Anna, in particolare, riteneva che sarebbe stato giusto informarla. Era un po' gelosa di Grace, che sembrava averle tolto il posto accanto a Langton: lui evidentemente non voleva più Anna come sua più stretta collaboratrice. All'una arrivarono gli esiti delle analisi compiute sul cadavere di Rashid Burry. Gli avevano iniettato un tranquillante da cavalli, sicché lui, quando l'avevano ucciso con la garrota, non era riuscito a muovere neppure uno dei suoi poderosi muscoli per salvarsi. Benché a spizzichi e bocconi, stavano arrivando anche i risultati dei riscontri effettuati sulla Range Rover. Fino a quel momento era stata rilevata, sul sedile posteriore, la presenza di un gran numero di peli di cane, probabilmente un pastore tedesco. I peli erano stati inviati in un altro laboratorio. Nei sacchi neri che avevano accolto il corpo della vittima erano stati prelevati campioni di saliva e di sangue che sarebbero stati confrontati con il DNA di Rashid Burry. I sacchi, a loro volta, andavano raffrontati con quello al cui interno era stato rinvenuto il corpo del bambino abbandonato nel canale, dato che ogni stock di sacchi ha un suo numero di serie. Avevano anche trovato sangue e capelli sul sedile posteriore di destra. Si stava verificando se non fossero appartenuti, per caso, a Carly Ann North. Il volante e il parabrezza erano stati puliti, ma erano state rilevate impronte digitali sul portellone posteriore e su quello del sedile accanto al guidatore, dove erano stati recuperati altri capelli oltre ad alcune tracce di fango sul tappetino. Si stava analizzando anche il fango raschiato dalle gomme e dal fondo dell'auto. Gli addetti della Scientifica stavano lavorando sodo, ma ancora non avevano estratto i sedili e i tappetini. Langton lesse l'elenco contenuto nel rapporto della Scientifica. Finalmente, si aveva la sensazione che qualcosa si stesse muovendo, anche se non in una direzione ben definita. Questi sviluppi avevano su di lui un effetto tonificante e lo inducevano a sperare che il dottor Salaam li aiutasse a fare ulteriori progressi: le ultime notizie su Amadou lo avevano spronato, e ora Langton cominciava davvero a sentirsi quello di una volta, vibrante di adrenalina. Ancora non erano riusciti a localizzare l'immobile di Peckham di cui Amadou era il presunto proprietario: Langton stimava che se ne fosse andato da un pezzo e che avesse trovato alloggio altrove.
In precedenza, quel pomeriggio, c'erano state altre conferenze stampa e interviste, e la polizia aveva lanciato appelli affinché chiunque avesse visto la Range Rover parcheggiata o avesse informazioni su Joseph Sickert e i figli di Gail scomparsi si facesse vivo. La squadra aveva diversi compiti da svolgere, ma l'evento più atteso della giornata era l'arrivo di Elmore Salaam per discutere di come provare a risolvere il problema di Eamon Krasinique. Le autorità carcerarie inviavano notizie con regolarità: il giovane si stava spegnendo. Secondo il medico di Parkhurst, riusciva ancora ad alzare la mano destra per indicare il muro di fronte e compiere quel lento movimento circolare della mano, ma anche questi gesti erano diventati via via meno frequenti. Krasinique giaceva con aria inespressiva e gli occhi spalancati a fissare il soffitto. Anna aveva ricevuto l'incarico di mettersi in contatto con l'ufficio persone scomparse, nel caso disponessero di informazioni sui bambini. Fu un lavoro lungo e deprimente: il numero dei bambini scomparsi era agghiacciante. Molti erano stati rapiti da uno dei genitori e portati all'estero; altri erano semplicemente svaniti nel nulla. Il settanta per cento di questi bambini apparteneva a minoranze etniche e si collocava nella fascia di età tra i due e gli otto anni. Si era già avuto il raccapricciante caso di una bambina, trasferita presso due sedicenti zii, marito e moglie, che subiva violenze da entrambi. La bambina era morta, e i due adulti erano in carcere. Anna sfogliò i rapporti per vedere se qualche assistente sociale aveva avuto a che fare con Amadou. Questi era un noto trafficante di immigrati; sussisteva, perciò, la possibilità, per quanto remota, che qualcuno dei bambini scomparsi fosse finito tra le sue grinfie. Langton uscì dal suo ufficio e fece un cenno ad Anna e Grace. «Il dottore e sua moglie stanno arrivando. Non voglio che li portiate nella sala operativa: useremo la sala degli interrogatori. Mi serviranno le fotografie dei fratelli Krasinique, i bollettini medici diramati dal carcere e così via.» Grace si allontanò, mentre Langton rimase presso la scrivania di Anna e guardò il mucchio di documenti con cui lei era alle prese. «Trovato qualcosa?» «No, non ancora. È una lettura molto deprimente.» Lui annuì e raggiunse Harry Blunt, che era appena arrivato con informazioni fresche su Rashid Burry. Blunt agitò il proprio sandwich sotto il naso di Langton. «Lo stronzo prendeva anche il sussidio. Aveva dato lo stesso indirizzo che anche noi avevamo, quello della casa-comunità... Incredibile! La sua faccia è in pri-
ma pagina su tutti i giornali, in tutte le stazioni di polizia, e lui si presenta a ritirare il suo sussidio!» Langton sospirò. A volte le tirate di Harry avevano il potere di irritarlo, ma su questo punto era impossibile dargli torto. «Che cos'hai trovato?» Harry aprì il suo taccuino. «Ultimo avvistamento: mercoledì scorso, all'ostello. Un'assistente sociale - che dev'essere completamente rincoglionita, visto che non ha pensato di avvertirci - dice che le ha raccontato di aver forse trovato lavoro in un cantiere. Lei gli ha dato i moduli per il sussidio e gli ha chiesto un indirizzo; per legge, lui non era più in libertà vigilata, ma nella mente intorpidita dell'assistente dev'essere balenato, a un certo punto, il ricordo di tutte le volte che eravamo stati lì a chiedere di lui. Comunque, lui le racconta un mucchio di balle e se ne va. Lei, allora, allerta la polizia locale, e questi dicono che stavano quasi per avvertirci! L'assistente ha aggiunto - e non faccio fatica a crederle - che l'ha spaventata. Lui era grande e grosso come una casa, e lei non ha avuto il coraggio di contraddirlo.» Harry sfogliò il suo taccuino e addentò il sandwich. «C'era un ragazzo, lì, in libertà vigilata, con un braccialetto elettronico. Questo ragazzo...» «Quanti anni ha?» domandò Langton. «Sedici. L'hanno condannato per furto con scasso aggravato, violazione di domicilio, minacce e resistenza a pubblico ufficiale; si è fatto due anni dentro e poi lo hanno messo in libertà vigilata per sei mesi.» Langton sollecitò Harry a proseguire. «Rashid ha chiesto al ragazzo se voleva tirar su qualche soldino extra; il ragazzo gli ha detto che per lui andava bene, e Rashid gli ha dato questo numero di telefonino.» Harry porse a Langton un bigliettino. «Abbiamo provato a rintracciarlo, ma è uno di quelli prepagati usa-e-getta, perciò non è detto che sia ancora attivo. Tutto questo risale a più di due settimane fa.» Langton domandò se insieme al cadavere di Rashid fosse stato trovato anche un telefono. «No, aveva le tasche vuote; è già un miracolo se gli hanno lasciato i denti d'oro.» Langton sospirò. «Okay, insisti.» Si congedò da Harry, e Grace lo informò dell'imminente arrivo del dottor Salaam e consorte. «Mi piacerebbe assistere a questo colloquio», disse Harry, masticando l'ultimo boccone del sandwich. Langton sorrise e lasciò la sala operativa, facendo cenno ad Anna di seguirlo.
Lei era al telefono e gli fece segno di aspettare. «C'è una cosa importante», disse, senza emettere suoni. «Non puoi rimandare a dopo?» rispose lui, secco. «No.» Anna dovette inspirare a fondo. «Due bambini sono appena stati abbandonati nel campo giochi di un asilo a Tooting. Secondo un insegnante, c'era un uomo, un nero, che li teneva per mano, davanti al cancello, e che poi se n'è andato. I bambini sono bianchi... e la loro età è compatibile con quella dei due figli scomparsi di Gail Sickert.» «Cristo, vacci immediatamente!» Poi, però, Langton ebbe un ripensamento. «No, ho bisogno di te qui.» Annuì in direzione di Harry. «Spiegagli tutto e poi raggiungimi nella sala degli interrogatori.» Anna riprese a parlare al telefono. «Sono riusciti a dire come si chiamano?» Restò in ascolto e poi disse: «Vi mando immediatamente qualcuno». Anna raccolse ulteriori particolari e poi mandò Harry all'asilo di Tooting. «Incrociamo le dita, Harry. Forse abbiamo trovato i figli di Gail Sickert, ma i due bambini non parlano e sembrano pesantemente traumatizzati. Va' a prenderli e organizza un colloquio con un consulente psicologico. Sai già come fare.» Harry annuì e si sedette per accertarsi di avere a disposizione tutto il necessario, mentre Anna si affrettò a raggiungere Langton, il dottor Elmore e sua moglie Esme. Anna restò molto colpita dalla statura e dall'aspetto del dottore. Era sicuramente più alto di un metro e ottanta e indossava un impeccabile completo grigio antracite. La moglie portava una gonna tradizionale africana e una blusa molto larga, con un turbante di cotone coordinato. Era una coppia tranquilla e insospettabile, dai modi perfettamente urbani. Il dottore attese che Anna si sedesse e l'aiutò ad avvicinarsi con la sedia al tavolo, prima di sedersi a sua volta di fronte a lei. Esme evitò di incrociare lo sguardo di Anna, tenne la testa china e le mani giunte in grembo. Langton aveva già spiegato tutti i dettagli relativi all'omicidio di Arthur Murphy e alle condizioni di salute di Eamon Krasinique. Anna aprì il proprio taccuino e senza dir nulla si mise ad ascoltare Langton. Questi raccontò di come Anna avesse successivamente interrogato Idris Krasinique, il fratello del giovane ammalato. Il dottor Salaam le chiese di fornirgli tutte le informazioni possibili sul conto di Idris, sul suo comportamento nel corso del loro incontro e sul passato dei due fratelli. Erano en-
trambi immigrati illegali, disse lei; la polizia non aveva neppure la certezza che i nomi da loro usati fossero veri, dato che erano entrati nel Regno Unito con passaporti falsi. «Sono gemelli?» domandò il dottore. Anna guardò Langton; si strinsero entrambi nelle spalle: no, almeno stando ai loro passaporti. Langton riprese la parola e illustrò il caso dell'omicidio di Carly Ann North. Il dottor Salaam non fece ulteriori interruzioni. Ogni tanto volgeva lo sguardo verso la moglie, ma lei non alzò gli occhi neppure per un istante. Langton passò, quindi, a parlare della morte di Gail Sickert e della sua figlia più piccola; benché esistesse la possibilità che i due bambini appena ritrovati fossero gli altri due figli di Gail, Langton ne parlò come se fossero stati uccisi o trasformati in oggetti sessuali. Esme alzò per un attimo gli occhi, a quel punto, ma subito tornò ad abbassarli, scuotendo la testa. Langton parlava a voce bassa; quando taceva, il silenzio aleggiava grave nella stanza spoglia. Anna notò che stava cercando di far leva sulle emozioni, soprattutto su quelle di Esme. Langton mostrò le fotografie dei bambini, posandole lentamente, una alla volta, sul tavolo. Elmore Salaam estrasse un astuccio e ne tolse un paio di occhiali dalla montatura dorata. Quindi, Langton esibì le agghiaccianti foto, scattate all'obitorio, del cadavere di Gail Sickert e del cranio della sua figlioletta, seguite dalle immagini di Carly Ann. Infine, Langton aprì la busta contenente le foto del torso del bambino morto ritrovato nel canale. «Crediamo che tutti questi omicidi siano in qualche modo riconducibili ad Amadou. Abbiamo appena trovato anche quest'uomo: Rashid Burry. Il suo cadavere era stato abbandonato nel bagagliaio di una Range Rover bianca. Qualcuno l'ha garrotato e infilato in alcuni sacchi neri di plastica; l'automobile stava per essere demolita.» Elmore osservò con molta attenzione la fotografia di Rashid Burry. Sua moglie, invece, era appoggiata all'indietro, con la testa girata, per non dover vedere quella raccapricciante varietà di morti sul tavolo. Langton rivolse ad Anna un piccolo cenno d'intesa. «Dottor Salaam, signora Salaam», esordì lei, «abbiamo un bisogno estremo di qualcuno che ci aiuti a salvare il giovane Eamon Krasinique. Se lo salveremo, suo fratello Idris ha promesso di fornirci informazioni utili. Secondo noi, i due fratelli sono entrambi legati a questo Amadou, ma Idris ha paura di parlare con noi. È in carcere per l'omicidio di Carly Ann North. Ha confessato il delitto e al momento dell'arresto...»
Langton la interruppe. «...Ha fatto i nomi di due uomini che secondo lui erano implicati nell'omicidio, ma che noi non siamo riusciti a trovare.» Anna lo guardò. Aveva evitato qualsiasi allusione al suo ferimento e, interrompendola, aveva impedito anche a lei di parlare. «Idris si è dichiarato colpevole dell'omicidio, ma ha ritrattato la dichiarazione», riprese lei. «Ha detto che non c'erano altre persone sul luogo del delitto e che a stuprare e mutilare il cadavere della ragazza era stato lui solo. Sul corpo della ragazza, però, abbiamo trovato tracce di DNA di due persone diverse, perciò sappiamo che Idris non è stato l'unico a violentare Carly Ann o ad aver fatto sesso con lei prima della sua morte.» Anna si volse esitante verso Langton: lui, magari, voleva tenere riservati anche questi dettagli. Tra le immagini mortuarie e le foto dei bambini di Gail Sickert, c'era l'identikit di Joseph Sickert. Il dottor Salaam, che a differenza della moglie non aveva mostrato, fino a quel punto, il minimo segno di turbamento, indicò quell'immagine, e Langton gliela porse. La esaminò con cura e si voltò verso Esme. I due coniugi, l'uno accanto all'altra, osservarono la foto con particolare interesse, dopo di che lui tornò a posarla sul tavolo. «Vi pare di riconoscerlo?» domandò Langton. Il dottore fece un lento cenno di assenso, e la moglie diede l'impressione di concordare. «Sì, credo sia lui», disse il dottore. «Venne da noi una decina di mesi fa. Soffriva di una grave malattia del sangue, in uno stadio molto avanzato: aveva gli occhi gialli per via di un'infezione epatica. Esme sosteneva che si trattasse di anemia, ma per averne la certezza serviva un'analisi del sangue. Avevamo fissato un nuovo appuntamento e gli avevo prescritto alcuni rimedi a base di erbe per alleviare la sua sofferenza.» Intervenne Esme. «Non abbiamo i mezzi per svolgere esami del sangue; ci saremmo dovuti rivolgere all'ospedale di zona, come per tutti i servizi del genere. Con l'anemia, se non si prescrive la terapia adeguata, gli organi vitali ne risentono. Quell'uomo era molto malato.» «E com'è andata, alla fine?» Esme guardò il marito. «Non si presentò all'appuntamento previsto. Non era in grado di pagarsi le cure. Non lo abbiamo più rivisto.» Il dottor Salaam spostò l'identikit di Joseph Sickert fin quasi sull'orlo del tavolo, separandolo dalle altre fotografie. Quindi, avvicinò a sé la foto di Rashid Burry. «Questo, invece, è l'uomo che accompagnò Sickert nel nostro studio... Si comportava come un bruto e minacciò mia moglie. Aveva
detto che avrebbe pagato lui la visita, dico bene?» Si voltò verso Esme, che annuì. «Lo avevate già conosciuto? Aveva portato altri pazienti nel vostro studio, in precedenza?» domandò Langton, frenando a stento la propria impazienza. La fotografia di Rashid Burry era stata pubblicata su tutte le prime pagine dei giornali e mostrata in TV da tutti i notiziari e i programmi di genere, accanto a quella di Joseph Sickert, e ora i due coniugi ammettevano candidamente di riconoscerli! «No. Come le ho detto, fu molto sgradevole e brutale. Gli dissi che non era il benvenuto nel mio studio e che, se si fosse fatto rivedere, avrei chiamato la polizia.» «E alla fine pagarono?» domandò Anna a Esme. La donna guardò il marito con gli occhi socchiusi e un vago sorriso sulle sue labbra piene. «Sì, sì... pagarono. Certi pazienti li curiamo gratis; altri soprattutto quelli che si comportano come quest'uomo - finiscono per pagare molto più di quello che noi gli avremmo chiesto.» Il dottor Salaam posò con dolcezza le dita su una mano della moglie, come per invitarla a tenere a freno la lingua, e prelevò la foto di Gail Sickert. «Questa povera donna non la conosco.» Posò la foto davanti a sé e prese quella che ritraeva il corpo decapitato del bambino, sistemandola su quella di Rashid Burry. La foto del cranio della bambina di Gail la mise da parte, come se non gli interessasse. Prese le foto segnaletiche di Eamon e Idris Krasinique, sovrapponendo anch'esse a quella di Burry. Infine, porse la foto di Carly Ann North alla moglie, che la scrutò intensamente e poi annuì, aggiungendola al mazzo. Il dottore posò delicatamente le mani giunte sopra il mazzo di fotografie e chinò il capo. Langton e Anna rimasero a guardare affascinati, senza sapere che cosa stesse facendo né a quale scopo. La sua voce risuonò ancora più cupa di prima. «Sono collegati», disse. Langton aspettò e guardò Anna, che aveva gli occhi fissi sulle belle mani di quell'omone, posate sulle fotografie. Grace, che fino a quel momento era rimasta ad ascoltare senza aprir bocca, era altrettanto sbalordita. Nessuno dei tre sapeva come rompere il silenzio. «Avremo bisogno di protezione», disse Elmore Salaam. All'improvviso, però, balzò in piedi, prese la foto segnaletica di Clinton Amadou e la mise da parte.
«È quest'uomo il trait d'union tra tutte queste povere anime. Credo che il suo vero nome sia Emmerick Amadou. Io, perlomeno, lo conosco sotto questo nome, ma lui usa molte identità diverse. Se vi aiutassi a guarire questo giovane sofferente e la cosa si venisse a sapere, Amadou si vendicherebbe su di noi. Dispone di un vero e proprio esercito di pazzi, totalmente dipendenti da lui. Fanno qualunque cosa lui chieda: se lui ordinerà di venire a tagliarmi la gola e a violentare mia moglie, lo faranno. Accetteremo di visitare questo Krasinique, solo se l'incontro avverrà nella massima segretezza; in caso contrario, non possiamo aiutarvi. Portatelo fuori dal carcere, mettete suo fratello al sicuro, e noi proveremo ad aiutarvi. Non intendiamo correre rischi.» Langton era senza parole. Fece per alzarsi, ma poi si rimise a sedere. «Dottor Salaam, le assicuro che provvederò a organizzare un servizio di scorta ventiquattr'ore su ventiquattro per lei e per sua moglie. Noi non siamo riusciti a rintracciare questo Amadou, ma se voi poteste aiutarci...» Elmore Salaam si sporse in avanti. La sua voce si fece tonante. «Non credo che lei abbia un'idea precisa di quanto sia pericoloso quest'uomo. Io, invece, lo so bene, perché sono stato il suo maestro. A un certo punto, ha perso il controllo e ha abbracciato il demonio: venera Satana e usa il terrore e le minacce per tenere in pugno dei poveri innocenti che lo considerano un grande sacerdote.» Salaam si alzò in piedi e si avvicinò alla parete più lontana. Puntò l'indice come avevano visto fare a Krasinique. «Questo segno lo fa qualcuno che cerca di controllare il tempo: quando smette, muore. Il giovane vuole continuare a vivere. Quando non sarà più in grado di sollevare la mano, il dito della morte gli avrà fermato il cuore.» Esme si alzò a sua volta e andò a mettersi accanto al marito. Langton e Anna notarono che il dottore era sull'orlo delle lacrime. Lei gli prese la mano, e questo gesto parve lenire il suo dolore. «Ora dobbiamo andare», disse Esme. Langton rimase seduto, lo sguardo fisso sul tavolo coperto di fotografie, mentre Grace accompagnò fuori il dottore e la moglie. Non vollero essere scortati, neanche con un'auto senza contrassegni: per tornare a casa avevano deciso di seguire un percorso molto tortuoso, con uso di treni, autobus e taxi, per evitare che qualcuno potesse venire a sapere della loro visita alla polizia. Anna cominciò a raccogliere le fotografie. Era davvero scossa. «Che cosa ne pensi?» domandò a Langton.
Lui sbadigliò e incrociò le mani dietro la nuca. «Perché cazzo non si sono fatti vivi prima? Ecco cosa penso. Quest'indagine è in corso da mesi. Non li leggono i maledetti giornali?» Fece l'imitazione del dottore. «Ah, questo è Joseph Sickert, è stato mio paziente.» Batté con violenza una mano sul tavolo. «Stiamo dando la caccia a questo stronzo da settimane, cazzo! La sua faccia è comparsa sulle prime pagine di tutti i giornali, nei notiziari, dappertutto... E poi di Amadou avevamo il nome sbagliato: si chiama Emmerick, non Clinton.» Langton prese dal mucchio la sua foto. «E conoscono anche lui! Anzi, è stato proprio il dottore a insegnargli tutte quelle cagate malefiche del voodoo! Ci manca solo che sappiano dov'è. Mi verrebbe voglia di strozzarli con le mie mani. Questo maledetto Amadou mi farà perdere il lume della ragione. Questo penso.» «Be', forse hanno avuto paura.» Langton prese la foto del bambino senza testa. «Va' a raccontarlo a questo bambino, che non ha più testa né mani. Non voglio neanche sentirle, queste stronzate. Quello schifoso ha introdotto nel paese chissà quanti poveri bambini, e quelli fanno i soldi con le loro pseudoterapie per creduloni, con tutte quelle credenziali fasulle.» «Che ne diresti di offrire loro protezione?» domandò Anna. «Oh, l'avranno...» Nel bel mezzo della sfuriata si aprì la porta. Era Grace. «Ha appena chiamato Harry. Abbiamo trovato i figli di Gail Sickert.» La reazione di Langton lasciò Arma a bocca aperta: si mise una mano davanti alla faccia e trattenne a stento le lacrime. «Grazie a Dio!» 16. Harry Blunt era seduto alla sua scrivania, con il telefono all'orecchio. «Dai un bacio della buonanotte a ciascuno e digli che gli voglio bene. Tornerò tardi, dolcezza: non è il caso che mi aspetti sveglia.» Anna gli posò una tazza di caffè sul tavolo proprio mentre lui riagganciava. Gli diede una consolatoria pacca sulla spalla. «Forse non faremo così tardi, stasera.» «Grazie, scusami se... Perlomeno li hanno fatti mangiare, ed erano anche abbastanza puliti... La bambina, almeno. Il bambino se l'era fatta addosso.» «Credi sia stato Sickert ad abbandonarli all'asilo?» «Forse, chissà... Le testimonianze sono piuttosto scarse, ma potrebbe essere stato lui.»
Anna sospirò. «Be', ora sono in buone mani, e gli assistenti li aiuteranno. Staranno con loro ininterrottamente.» «In buone mani? La madre è morta, la sorellina pure... e Dio solo sa che cosa hanno dovuto subire loro. Inoltre, i posti in cui li mettono sono un po' troppo asettici. Sai una cosa, Anna? Avrei voluto prenderli tutt'e due e portarmeli a casa. Roba da spezzare il cuore... La bambina, soprattutto. Si aggrappava al fratello in un modo...» Harry si voltò verso Anna. «Mi sono chinato per parlarle, sai, per mettermi al suo livello, e lei si è ritratta con un'aria terrorizzata, mentre il bambino, piccolo com'è, ha alzato i pugni come se volesse proteggerla.» «È meglio non pensarci», disse Anna, sommessamente. Lui scosse la testa. «Un giorno, forse, avrai dei figli, e ti assicuro che la prospettiva cambia completamente: diventano la parte più importante di te. Se dovesse accadere qualcosa, sarei pronto a uccidere per i miei figli.» «Hai avvertito la nonna? Beryl Dunn...» Harry si strinse nelle spalle. «Non affiderei neanche un gatto randagio a quella donna, però sì, l'ho avvertita; forse con lei parleranno. Nel frattempo, stanno cercando di farli parlare gli psicologi, ma ancora non gli hanno cavato una sola parola. Sembrano muti.» Furono raggiunti da Mike Lewis, che aveva un'espressione piuttosto depressa. Come tutti i presenti nella sala operativa, aveva saputo dei bambini. Avendo anche lui due figli piccoli, era naturale che fosse turbato. Langton decise che per quella sera poteva bastare. L'indomani avrebbero ricevuto ulteriori informazioni dalla polizia scientifica, e lui, a quel punto, avrebbe provveduto a trovare un alloggio sicuro e una scorta ventiquattr'ore su ventiquattro per il dottore e la moglie. Le trattative con l'amministrazione penitenziaria si stavano rivelando difficoltose. Langton voleva che i due fratelli fossero portati fuori dalle rispettive prigioni. Ci sarebbe voluta una stanza d'ospedale isolata, con degli agenti di sorveglianza. Eamon Krasinique sarebbe stato prelevato dal carcere di Parkhurst da un mezzo dell'elisoccorso con staff medico a bordo e personale paramedico ad attenderlo per portarlo nella stanza d'ospedale prescelta. Anche il trasferimento di Idris Krasinique dalla prigione di Wakefield comportava l'impiego di molti agenti e veicoli. Le autorità carcerarie si erano dette contrarie al trasferimento, ma Langton si era sgolato per convincerle dell'importanza di quella misura. Dopo lunghe discussioni, si era deciso che il posto migliore per il ricovero era il reparto malattie infettive di Farmworth. Il prezzo da pagare sarebbe stato un ulteriore sforamen-
to dei tetti di spesa. Le ore passate al telefono per organizzare tutto cominciavano a farsi sentire. Langton si guardò intorno e batté le mani. «Domani sarà una giornata faticosa, perciò andate a farvi una notte di buon sonno, e speriamo che il nostro sforzo venga ripagato.» Anna stava risistemando la sua scrivania, quando Langton le passò accanto rivolgendole un mezzo sorriso. «Che cosa dici? Andrà tutto bene?» «Non lo so.» «Fantastico», disse lui. «Tu non lo sai, e io ne so meno di te... ma le stiamo provando tutte. Quei due esperti di voodoo potrebbero rivelarsi dei ciarlatani, ma non sappiamo a chi altri rivolgerci. Sei stata tu a insistere sulla pista dei fratelli Krasinique.» «Io mi sono limitata a riferire quel che mi aveva detto Idris. Magari anche lui mentiva», rispose lei, sulla difensiva. «Andiamo bene!» «Ascolta: io ho solo ripetuto quel che mi ha rivelato quel ragazzo, ma se vuoi che mi assuma la responsabilità per quel che accadrà domani, non c'è problema.» Lui rispose di scatto. «Questo è il mio lavoro, e io non scaricherò mai le mie responsabilità su chicchessia. Dico soltanto che mi ci sono volute ore e ore di telefonate per organizzare tutto.» Fece un gesto sconsolato. «Magari avevo bisogno soltanto di qualche rassicurazione, ma evidentemente mi sono rivolto alla persona sbagliata.» «Non dire così, ti prego. Lo sai che io... anzi, noi tutti siamo con te al cento per cento. Non hai bisogno di rassicurazioni, perché ogni cosa che fai ha una ragione precisa: la soluzione di questo caso.» Lui inclinò la testa di lato e si avvicinò. «No, la ragione è prendere Amadou. Questo voglio.» E se ne andò prima che lei potesse rispondergli. Langton invitò tutti al pub per una bevuta. Il suo umore era improvvisamente cambiato: rideva e strillava, con il suo cappotto sulle spalle. «Non so voi, ma io ho bisogno di bere qualcosa. Offro io.» Anna vide Grace sgattaiolargli al fianco e Langton che le cingeva le spalle con un braccio. Lewis, Brandon e Harry Blunt si accodarono e lasciarono la sala operativa. Anna rimase a riordinare la sua scrivania. Era paranoicamente certa che Langton l'avesse esclusa di proposito. A volte non sapeva neanche come fare per rivolgergli la parola. Se non altro, le era passata la voglia di piangere per causa sua; stava, semmai, imparando a trattare con lui. Prese il cappotto, si guardò intorno, nella sala operativa ormai deserta ed ebbe
un'esitazione: doveva andarci, al pub? Langton le aveva fatto tutto quel bel discorso sul gioco di squadra, ed ecco che lei era lì incerta sul da farsi. Alla fine, salì sulla sua Mini e decise di raggiungere i colleghi al loro solito ritrovo. L'Anchor era un locale ampio, moderno e abbastanza kitsch, con una marea di macchinette mangiasoldi e musica in sottofondo, ma il padrone era una persona estremamente aperta e cordiale: scherzava sempre, dicendo che la presenza fissa dei poliziotti nel suo pub gli aveva fatto perdere alcuni clienti... di cui non sentiva affatto la mancanza! Anna era decisamente a disagio quando arrivò al bar. Langton si voltò con un'espressione sorpresa. «Ah, Travis! Vieni, accomodati! Questa è una prima assoluta! Che cosa prendi?» «Un bicchiere di vino bianco, grazie.» Langton ordinò, e Brandon procurò uno sgabello alto per Anna. Lei gli si appollaiò accanto, proprio mentre il barista le serviva un bianco dolciastro e tiepido. Sollevò il bicchiere guardando Langton, come per ringraziarlo, ma lui stava ascoltando un'altra delle lunghe e noiose storie di Harry Blunt. Pareva quasi che Langton stesse facendo di tutto per ignorarla. Anna tirò a sé una ciotola di noccioline. «Stavo pensando di prendermi una porzione di fish and chips», disse Brandon, pescando a piene mani dalla ciotola. «Ne vuoi anche tu?» «No, grazie. Bevo questo bicchiere e poi vado.» «Ci sarebbe un ristorante italiano, se preferisci», proseguì Brandon. «Fanno degli spaghetti al ragù niente male.» Anna sorrise. «Ti ringrazio, ma non ho tanta fame.» Harry concluse la sua storia; Langton scoppiò a ridere e attaccò a raccontarne una lui, facendo contemporaneamente segno al barista di versare un altro giro. Anna vide che stava bevendo birra, alternata a bicchierini di whisky; davanti a sé aveva dei sacchetti di patatine appallottolati. Brandon, mentre lei era assorta nei suoi pensieri, aveva continuato a parlarle. «Scusa... Dicevi?» «Dicevo che c'è anche un cinese da asporto.» «Davvero, non ho voglia di mangiare.» «E una scopata è fuori discussione, giusto?» «Che cosa!?» «Era una battuta! A occhio, mi sa che il capo starà qui tutta la sera. Come al solito. Del resto, alloggia a pochi passi da qui. Noi altri, invece, dobbiamo sorbirci tutta la strada fino a Londra.»
Anna sorseggiò il vino tiepido, mentre sul banco le avevano già posato il secondo bicchiere. «Che ne diresti di uscire insieme, una sera, a Londra? Conosco dei ristoranti davvero speciali.» «Sì, magari... potrebbe essere un'idea.» «Quando?» «Come, scusa?» «Dico: quand'è che saresti disponibile?» Solo a quel punto Anna capì che Brandon le stava proponendo una cenetta intima e arrossì. «Be', non so, dipende... Per ora, non credo che avremo molte serate libere.» Lui le cinse la vita, avvicinandosi in cerca di affetto. «Sarà meglio rimandare ogni decisione», aggiunse lei, a disagio per la mano di lui poggiata sul proprio fianco. Perlomeno, aveva imparato a non esagerare con l'acqua di colonia. Anna lasciò intatto il secondo calice e si congedò, perché la strada da fare era lunga. Era il segnale che tutti aspettavano. Anna uscì con Brandon e Lewis, mentre Harry passò dalla toilette. Lei salutò tutti e si avviò verso la sua Mini. Frugò nelle tasche, poi nella borsa, e si lasciò sfuggire un'imprecazione: era sicura di avere le chiavi in mano, quand'era nel pub... Doveva averle lasciate sul banco. Rientrò nel locale, mentre tutti gli altri partirono a bordo delle rispettive auto. Langton era ancora seduto al banco, con la testa tra le mani. Anna cercò intorno allo sgabello su cui si era seduta e vide le chiavi a terra. Le raccolse e guardò verso Langton, che pareva non essersi accorto della sua presenza. Anna stava per andarsene, ma all'ultimo istante cambiò idea. Gli si avvicinò e gli sfiorò la schiena. «Mi erano cadute le chiavi», disse. Lui sollevò la testa e si voltò verso di lei: aveva la faccia stravolta. «Ti senti bene?» «No. Mi si è irrigidita la gamba.» Sospirò. «Non riesco a scendere da questo maledetto sgabello.» «Lascia che ti aiuti. Appoggiati a me.» Lui le posò un braccio sulle spalle e, con una smorfia di dolore, cercò di rimettersi in piedi. Lei reggeva il peso a fatica e rischiava di cadere, trascinandoselo addosso. Guardò disperata il barista e ansimando gli chiese aiuto. «Sta diventando una specie di rituale quotidiano», osservò scherzoso il
padrone del pub, aiutando Anna e Langton a raggiungere il parcheggio. Riuscirono a sistemare Langton sul sedile anteriore della Mini, poi lui la indirizzò verso una via di case con giardino. L'ultima della fila era il piccolo bed & breakfast in cui alloggiava. Anna dovette faticare per aiutarlo a scendere dall'auto; di nuovo, Jimmy dovette appoggiarsi con tutto il peso ad Anna per percorrere il vialetto d'ingresso. Prese le chiavi e le porse ad Anna, che aprì la porta, mentre lui si reggeva allo stipite. «Okay, ora posso farcela da solo. Sto al pianterreno.» Anna ignorò le sue rassicurazioni e continuò a sostenerlo finché non fu nella camera da letto. Lui le sorrise e fece cenno di fare piano. «Evitiamo di farci sentire dalla vecchia gallina: non è permesso portare gente in camera!» La stanza era un po' «vecchio stile», con un grande tavolo da toeletta, un grosso armadio in legno di quercia e un orribile tappeto a fiori. Il letto era singolo, con un copriletto di ciniglia. Abiti e scarpe erano sparsi per tutta la stanza, e accanto al letto c'erano cartellette e vecchi giornali. Lo aiutò a sedersi sul letto e gli tolse le scarpe e le calze; lui si levò la giacca e la lanciò su una sedia di vimini, si allentò la cravatta e cercò con uno sforzo evidente di sbottonarsi la camicia. Anna cercò un pigiama, ma non lo trovò. Lui si abbandonò sui cuscini. Sul comodino c'erano alcune bottiglie di whisky vuote e una varietà di boccette e confezioni di medicinali. «Devi prendere qualcosa?» gli domandò, accennando ai farmaci. «No, adesso dormo.» Le tese la mano, e lei gliela prese. «Scusami, per il disturbo... Ehm, non parlarne con gli altri, magari.» «Figurati...» disse lei. Lui, però, non le lasciò la mano. «Te la senti di guidare fino a casa?» domandò. Lei scosse la testa e sorrise. Le pareva ridicolo che si preoccupasse di lei. «Ho bevuto solo un bicchiere di vino!» Alla fine, lui mollò la presa. Lei si offrì di aiutarlo a farsi una doccia e a infilarsi a letto, ma lui declinò l'offerta ridendo: le spiegò che c'era un solo bagno in comune e che comunque ad alzarsi non ci pensava neanche. «Va' pure. Dormendo, mi passerà.» Lei si chinò per baciarlo. Nutriva ancora un sentimento forte per Jimmy, e le dispiaceva vederlo così sofferente. «Ci vediamo domattina.»
Lui abbozzò un sorriso. «Starò bene, vedrai. Mi basta una buona dormita.» Quando Anna ebbe finito di ripiegare i vestiti e di sistemare la stanza, Langton era già addormentato. Accese il piccolo abat-jour sul comodino e si soffermò a lungo a guardarlo. Nella penombra, quel viso che lei aveva tanto amato pareva ingrigito: malgrado il sonno, era segnato dal dolore. Era una scena molto triste: magro e smunto com'era, ad Anna pareva il mero involucro della persona di un tempo. Le venne il sospetto che non mangiasse abbastanza, e i portacenere traboccanti che lei aveva svuotato nella spazzatura dimostravano che non aveva neanche smesso di fumare, contrariamente ai consigli ricevuti. Era molto tardi quando Anna arrivò a casa. Non aveva mangiato, ma era troppo stanca e si infilò tra le lenzuola fresche; dormire, però, non fu facile: non riusciva a smettere di pensare a Langton. In teoria, sapeva che sarebbe stato giusto rendere note le sue condizioni di salute, ma non aveva il coraggio di presentare rapporto per chiedere che all'ispettore capo James Langton fosse imposto un periodo di congedo forzato perché per arrivare alla fine della giornata dipendeva dall'alcol e dagli antidolorifici. Fu sorpresa dal trillo della sveglia: era caduta in un sonno profondo e senza sogni, e aveva lasciato l'abat-jour acceso. L'inizio dell'Operazione Aquila era previsto per la metà del pomeriggio. La squadra, in tal modo, avrebbe avuto la mattinata a disposizione per tirare le fila dei diversi casi in esame. Anna arrivò alle otto e mezzo, e la sala operativa, a quell'ora, era già in pieno fermento. Aveva appena raggiunto la sua scrivania, quando la porta dell'ufficio di Langton si spalancò all'improvviso. Anna fece fatica a credere ai propri occhi. Si presentò con un vestito elegantissimo, la camicia stirata di fresco e un'energia incredibile. Batté le mani. «Joseph Sickert è stato rintracciato. È al Westminster Hospital. Si è presentato al pronto soccorso ed è crollato a terra. È tenuto in vita artificialmente.» Fece cenno ad Anna e a Mike Lewis di seguirlo. Non si sapeva quanto avrebbe resistito Joseph Sickert: la sua malattia aveva raggiunto un punto critico, e gli organi interni cominciavano a perdere colpi. Lungo il tragitto, con le sirene in funzione, Langton si voltò verso Anna e Mike, seduti sul sedile posteriore. «Cristo, è incredibile! Ci stanno por-
tando in elicottero un detenuto moribondo, ed ecco che ci ritroviamo con un altro stronzo in fin di vita.» «Quali sono le sue condizioni?» domandò Lewis. «Sta morendo: insufficienza renale ed epatica. L'hanno attaccato alla macchina per la dialisi, ma pare che sia solo questione di tempo: anche il cuore sta cedendo.» Langton non sembrava soffrire di dolori alla gamba, a giudicare dal piglio con cui percorse i corridoi dell'ospedale. Furono affrontati da una squadra di medici e infermiere che cercarono di opporsi all'interrogatorio del paziente. Langton perse le staffe. Fece capire in termini inequivocabili le ragioni per cui, invece, era indispensabile che fosse interrogato. Parlò della bambina morta, del cranio ritrovato alla porcilaia. Loro avevano urgenza di sentirlo e lo avrebbero fatto, nonostante fosse in punto di morte. «Vi chiedo soltanto di tenerlo in vita finché non avrò terminato di parlare con lui.» Langton guardò il primario negli occhi, con aria di sfida. Il giovane dottore tremava: disse che lui aveva la responsabilità di proteggere il paziente. Langton fu sul punto di appenderlo al muro. «Quell'animale che lei vuole proteggere con tanto zelo ha macellato una bambina di due anni... Le ha mozzato la testa, capito? Non me ne frega un cazzo se questo stronzo vive o muore: io voglio solo chiacchierare con lui per dieci minuti.» Parlò senza alzare la voce, ma la tensione si tagliava con il coltello: era arrabbiato da far davvero paura. Langton insistette per parlare con chi poteva concedergli il permesso di interrogare Sickert. Lewis guardò Anna perplesso, ma lei sfuggì all'occhiata: non intendeva esprimersi sui modi di Langton né in un senso né nell'altro. Quindici minuti dopo ottennero l'accesso al reparto di terapia intensiva. Il reparto era presidiato da personale paramedico specializzato che si aggirava intorno al letto del paziente. I macchinari erano così ingombranti che Sickert era a malapena visibile. L'ossigeno veniva pompato con sibili sinistri. Anna guardò all'interno della stanza attraverso un vetro. Langton le era accanto. «Lo vedi?» domandò lui. «Non tanto chiaramente.» «Oh, Cristo! È lui? Lo riconosci?» «Non so dire. Non riesco a vederlo», rispose lei stizzita. Langton invitò un'infermiera a dotare Anna di un camice e ad accompa-
gnarla nella stanza. Lui avrebbe atteso il momento buono per interrogare Sickert, che a giudicare dall'agitazione che c'era in quella stanza non sarebbe giunto tanto presto. Anna fu accompagnata accanto al letto. Scosse la testa: le era impossibile dire se fosse l'uomo da lei incrociato per quel breve momento al bungalow di Gail. L'individuo che lei ricordava era muscoloso e aveva i dreadlock. Quello che aveva davanti era una creatura rinsecchita, ridotta a uno scheletro, con il viso nascosto da una maschera a ossigeno. Anna tornò da Langton. «Non sono sicura che sia lui.» «Merda! Vabbe', comunque ha un'anemia che lo sta uccidendo. Ha detto lui di chiamarsi Joseph Sickert. Dev'essere rimasto senza farmaci e quando non ce l'ha fatta più si è presentato all'ospedale. Vuoi dare un'ulteriore occhiata?» «Te l'ho detto: quest'uomo è calvo e magro come un chiodo. Quello che ho visto io al bungalow era grande e grosso e aveva i dreadlock.» «L'anemia devasta i muscoli. Può colpire anche il cuore, i polmoni e i reni; i suoi globuli rossi sono quasi a zero, e il suo cuore tiene a malapena, perciò - che tu lo identifichi o meno - io entro a interrogarlo. Se è sopravvissuto senza medicine da quando abbiamo cominciato a cercarlo, è normale che abbia perso un po' di peso.» Langton si allontanò per tornare a parlare con lo stesso giovane medico di prima, che era ancora in preda a una grande agitazione. A Lewis e Anna fu consegnato un sacchetto di plastica contenente gli abiti del paziente. Seduti su scomode sedie esaminarono tutto alla ricerca del più piccolo indizio utile a identificarlo. Nella tasca di un liso giubbotto di jeans c'era un piccolo orsacchiotto di peluche azzurro, logoro e consunto, quasi completamente spelacchiato. Trovarono anche una malconcia banconota da cinque sterline, qualche spicciolo, biglietti del bus, una matita spezzata e una fotografia - ripiegata un'infinità di volte su sé stessa, al punto che a dispiegarla cadde quasi a pezzi - che ritraeva due bambini neri e una donna che indossava un pareo africano di cotone coloratissimo. Sul retro della foto non c'era scritto nulla. Né Lewis né Anna riconobbero le persone ritratte. «Poca roba, se è tutto quel che aveva», disse Lewis, infilando i singoli oggetti in una busta di plastica trasparente. Anna continuò a frugare tra i vestiti; tastò le tasche dei jeans, rivoltandole, Lewis fece altrettanto con una camicia a fiori puzzolente di sudore e ridotta praticamente a brandelli. C'erano anche dei calzini, ugualmente fetidi, e un paio di scarpe da tennis
in condizioni pietose. Come misura erano perlomeno un 45; Anna si accigliò e tornò a esaminare il giubbotto di jeans. «La taglia del giubbotto è grande, come quella dei pantaloni... Si sa quant'è alto il paziente? Sickert era sicuramente sul metro e novanta... Se fosse davvero rimasto per settimane e settimane senza cure...» A quel punto Langton si avvicinò per dire che gli avevano concesso l'autorizzazione richiesta. Anna gli mostrò la fotografia. «Questi, però, non sappiamo chi siano.» Nella tasca di Lewis, il telefonino si mise a vibrare: il corridoio era pieno di cartelli che ne proibivano l'uso. Si alzò e si allontanò di qualche passo. Langton prese la fotografia e si avvicinò a un'infermiera, che lo aspettava con un camice e una mascherina sterili. Lewis si piazzò in un angolo, al telefono con Harry Blunt. La polizia scientifica aveva estratto nuove informazioni dalla Range Rover bianca. Le analisi condotte sulle ruote dell'automezzo avevano dato importanti risultati: c'erano piccole tracce di letame e di fango. I diversi campioni erano stati inviati a un laboratorio specializzato per ulteriori analisi; si era così avuta conferma del fatto che la Range Rover era stata, in un momento imprecisato, al bungalow di Gail Sickert. Altri esami erano in corso sui peli e le fibre rinvenuti a bordo dell'auto, i cui esiti erano attesi per il pomeriggio. Anna era rimasta seduta dov'era, fuori dall'unità di terapia intensiva; Lewis la mise al corrente delle ultime novità e guardò al di là del vetro. «Ha già parlato?» «Non mi pare; Langton sarà entrato da cinque minuti.» «E se, alla fine, scoprissimo che non è lui?» Gli indumenti del paziente erano stati suddivisi in buste di plastica e posati sulla sedia accanto ad Anna. Lei li tolse di lì per consentire a Lewis di sedersi. In cima al mucchio c'era la busta con il piccolo orsacchiotto macilento. Anna lo fissò cercando di rievocare l'immagine della bambina che aveva visto sul suo dondolo. Era passato tanto tempo, ma ci provò ugualmente, assumendo un'espressione concentrata. «Ti senti bene?» le domandò Mike, dato che lei si era bloccata e aveva chiuso gli occhi. Anna si riscosse. «Non ne sono sicura al cento per cento, ma credo di aver già visto questo orsacchiotto al bungalow. La piccola Tina lo mordicchiava... Credo sia lo stesso peluche, ma non ne sono certa.» «Be', se è lo stesso pupazzo, ci troveranno tracce di DNA.»
All'interno del reparto, Langton stava scrutando in viso il paziente per cercare di capire se l'avesse per caso già visto all'ostello dove era stato ferito. Agli angoli della bocca del malato si erano formati grumi e filamenti di saliva. Gli occhi purpurei parevano fiori morti; le dita erano gonfie, le unghie di uno strano bianco lattiginoso. Dispiegò con delicatezza la fotografia e la avvicinò al viso del paziente. «Dov'è questo posto?» Nessuna risposta. «Posso cercare di mettermi in contatto con loro... Farli venire qui a trovarti», disse con voce sommessa. Nessuna risposta. «I due bambini... sono tuoi? E questa graziosissima donna... è tua moglie?» Nessuna risposta. Mentre Langton ripiegava la fotografia, però, un dito tumefatto del paziente si sollevò, come per chiedergli di non metterla via. «La vuoi tu?» Nessuna risposta. Langton tornò a spiegare la foto: vide gli occhi spenti del malato riempirsi di lacrime. «Ho bisogno di parlare con te. Sei Joseph Sickert?» Lui annuì. Fu un movimento quasi impercettibile, ma sufficiente a dare a Langton la conferma che cercava. «I figli di Gail sono al sicuro, ora», disse piano Langton, aggiungendo di aver saputo che Sickert aveva cercato di aiutarli. Anche questa osservazione suscitò un lieve cenno del capo. «Erano con te? Sei stato tu a portare via i figli di Gail?» Nessuna risposta. Il monitor della frequenza cardiaca segnalava una certa agitazione: Langton riusciva quasi a sentire il rumore del fluido che riempiva i polmoni di Sickert. Il personale del reparto cominciava a mostrarsi impaziente; Langton sapeva che da un momento all'altro l'avrebbero mandato via. Si alzò in piedi e si chinò su quell'uomo morente e, con una voce simile al sibilo dei macchinari circostanti, disse: «Gail è stata trovata semisepolta fuori dal bungalow, mutilata: se la stavano divorando i maiali. Vuoi morire con questo peso sulla coscienza? Non avrai pace, finirai all'inferno! Parla, stronzo!». Il medico fece il suo ingresso nella stanza; le infermiere, paralizzate dal
panico, lo osservarono. Stava per chiedere a Langton di andarsene, ma Sickert sollevò la mano gonfia e si protese come per cercare di fermarlo. Si udì chiaramente la sua voce: «No...». Langton si chinò su Sickert sforzandosi di registrare le sue parole, tra il biascichio e i terribili rantoli causati dal transito del catarro nelle vie aeree. Anna e Lewis erano sbalorditi: Sickert stava parlando, anche se loro non sentivano quel che diceva. Dopo un paio di minuti, che parvero interminabili, Langton fu accompagnato fuori dalla stanza. Non pareva affatto turbato dall'accaduto: si strappò semplicemente di dosso la mascherina e il camice, gettandoli a terra. «Andiamo», ringhiò, avviandosi per il corridoio, con Anna e Lewis alle calcagna, carichi di buste di plastica trasparenti. Mentre uscivano dall'ospedale, Mike disse a Langton che la Range Rover era passata per la porcilaia. Langton si limitò ad assentire e consultò l'orologio; erano in corsa contro il tempo, e li aspettava un pomeriggio d'inferno. Anna si disse certa di aver già visto l'orsacchiotto di peluche al bungalow di Gail, tra le mani della sua figlia più piccola. Langton sbatté la portiera, si voltò a guardare Anna con espressione torva, per poi nuovamente girarsi in avanti. «Secondo me, sarebbe il caso di portare gli abiti di Sickert in laboratorio», aggiunse Anna. Langton rispose secco di far venire una volante a ritirarli, perché loro dovevano sbrigarsi. Mike Lewis si incaricò della telefonata, e Anna si morse le labbra per non sbottare. Lewis terminò la chiamata e, guardando Anna, fece spallucce. Langton non aveva ancora detto una sola parola a proposito del colloquio con Sickert. «Allora, capo, si è saputo qualcosa?» domandò infine Lewis. Langton annuì e guardò di nuovo l'orologio. «Faremo un pranzo di lavoro, dopo di che ci dedicheremo all'interrogatorio dei due Krasinique e ai seguaci del voodoo.» Lungo il tragitto verso il New Forest, vennero informati del fatto che l'Operazione Aquila era in pieno svolgimento. Erano stati distaccati altri cinquanta agenti, e Langton sapeva di non poter chiedere di più. Langton fece il suo ingresso nella sala con un'energia e una freschezza fisica che sorpresero per l'ennesima volta Anna. Si fermò soltanto per dire
a Grace di ordinare dei sandwich e del caffè da consumare nel corso della riunione. Proprio mentre lui stava entrando nel suo ufficio, Grace ricevette una chiamata dal Westminster Hospital: gli domandò se volesse parlare di persona, ma lui scosse la testa. Joseph Sickert era morto quindici minuti dopo che loro se n'erano andati. Langton non ebbe alcuna reazione: si limitò a un breve cenno del capo e diede ordine che il corpo fosse portato all'obitorio per un'autopsia. Quindi, entrò nel suo ufficio e chiuse la porta. In sala operativa esplose la curiosità: tutti volevano sapere che cos'era successo. Anna e Lewis dissero tutto il poco che sapevano. «Bene. Uno di meno. Ce n'è ancora un bel po' da prendere», commentò Harry Blunt. Langton chiuse le veneziane del suo ufficio, prese tre pastiglie di antidolorifico e svitò il tappo di una fiaschetta, per ingerirle con un sorso di vodka. Quindi, aprì il suo taccuino e cominciò, con una certa foga, a prendere appunti. Ripose la fiaschetta nel cassetto della scrivania e si soffermò sui dati riguardanti Amadou, facendo scorrere lievemente un dito sulla pagina. «Fuoco, fuochino...» sussurrò. Si tolse la cravatta, ripiegò con cura la giacca a formare un cuscino e si distese a terra, chiudendo gli occhi. Doveva recuperare un po' di energia in vista del pomeriggio. Sperava solo di riuscire a rialzarsi. Sapeva bene che quell'andazzo stava minando la sua salute. Alle tre l'Operazione Aquila sarebbe ripartita: la quantità di agenti richiesta comportava un costo elevato, e la spesa doveva portare a un risultato positivo. Se così non fosse avvenuto, ci sarebbero state gravi conseguenze e, soprattutto, la polizia metropolitana avrebbe assegnato l'indagine a un'altra squadra. Langton non aveva fatto parola con i propri collaboratori di quel che andava preparandosi. Per lui, però, l'unica cosa importante era mettere le mani su Amadou, l'uomo che lo aveva quasi ucciso... e Langton voleva essere il primo a farlo, fisicamente. Disteso a terra, la testa sulla giacca ripiegata, fu cullato dal continuo squillare dei telefoni e dal brusio proveniente dalla sala operativa e scivolò in un sonno profondo. Anna guardò l'orologio. In sala operativa, erano tutti piuttosto tesi: come lei, aspettavano che Langton uscisse dal suo ufficio. I minuti passavano, e a quel punto - posto che l'Operazione Aquila stesse procedendo come pre-
visto - i due fratelli Krasinique dovevano essere in viaggio. Lei pregò tra sé che ogni cosa andasse nel migliore dei modi: se tutto il denaro speso per quella operazione fosse andato sprecato, lei avrebbe passato dei guai. Guardò le veneziane chiuse dell'ufficio di Langton e non fu neppure sfiorata dall'idea che lui, nonostante la crescente tensione, potesse essersi addormentato. 17. Langton non era ancora ricomparso. Harry Blunt, che si era occupato di raccogliere informazioni sul passato di Sickert, era nel suo solito stato di agitazione. «Il governo è ridotto all'impotenza! Si pensava che dovessero mettere il problema della criminalità in cima alla lista delle priorità e, dopo nove anni, quattro ministri e quarantatré leggi, la situazione è ancora nel caos più assoluto.» Frank Brandon alzò gli occhi al soffitto. «Dacci tregua, Harry.» «Vorrei che qualcuno la desse a noi, la tregua! Sickert non figura su nessun cazzo di documento! Entra nel nostro paese, fa a pezzi dei bambini, scompare insieme ad altri due minori, e Dio solo sa che cosa gli ha fatto.» Si rivolse a Grace. «Il centro di accoglienza per l'infanzia ha richiamato? Si sa come se la passano quei due bambini?» Grace scosse la testa. Harry si mise a camminare avanti e indietro, senza smettere di stringere nel pugno una pallina di gomma. «In ogni caso, sono rovinati, poveretti. Se solo avessi potuto mettergli le mani al collo...» Si accasciò sulla sua poltroncina. La tensione dell'attesa stava facendosi insopportabile. Fu introdotto un carrello con sandwich e caffè, e tutti i presenti vi si radunarono intorno. Anna prese la sua razione e andò a posarla sulla scrivania. Quindi, decise di andare nell'ufficio di Langton. Proprio mentre stava per bussare, però, la porta si spalancò di colpo. «Okay, ci siamo tutti?» domandò lui, passandole davanti. Si fermò alla scrivania di Harry e si chinò per parlargli. «Ascolta, Harry: tu puoi pensare o provare i sentimenti che vuoi, ma devi imparare a tenere chiusa quella cazzo di bocca, capito? Non hai speranza di fare carriera, se non ti dai una regolata. Magari noi la pensiamo come te, ma non andiamo in giro con il megafono, okay?»
«Hai ragione, capo. Scusa.» Langton gli diede una pacca sulle spalle e, raggiunta la bacheca, si voltò verso i collaboratori. «Okay, l'Operazione Aquila è in corso. Il dottor Salaam si trova in un reparto isolato in ospedale, insieme a sua moglie e ai due fratelli Krasinique.» Anna e Lewis avrebbero accompagnato Langton all'ospedale. Agli altri sarebbe toccato spartirsi il resto delle incombenze. Quando Harry gli disse che ancora non si avevano informazioni su Sickert, Langton scrollò le spalle: se lo aspettava. «Sei riuscito a cavargli qualcosa?» gli domandò Harry. Anna guardò Mike Lewis: erano anche loro curiosi di sapere. «Non molto. Quando gli ho mostrato la foto che gli abbiamo trovato nelle tasche, ha avuto una reazione, ma probabilmente non sapremo mai chi sono quella donna e quei bambini. Travis è sicura che l'orsacchiotto di peluche che Sickert si portava dietro era, in origine, della figlia più piccola di Gail, perciò lo stiamo analizzando in cerca di tracce di DNA.» Langton mise una mano in tasca ed estrasse il suo taccuino. «Non ho avuto molto tempo a disposizione, e alle mie domande lui ha risposto perlopiù con dei gesti e reazioni fisiche.» Langton riferì che Sickert, alla domanda su Gail, aveva bofonchiato qualcosa come a dire che lei era stata buona con lui. «Gli ho domandato anche se fosse stato lui a uccidere Gail e la figlia, e lui ha negato.» Langton raccontò il resto della conversazione. Sickert comunicava con estrema difficoltà, in modo spesso incomprensibile. Una sua frase, però, a proposito dei due figli maggiori di Gail, Langton l'aveva colta con chiarezza. La lesse dal taccuino degli appuntì. «"Mi sono preso cura di loro; li ho portati via io. Sapevo che erano venuti a cercarmi."» Langton sospirò. Aveva insistito e chiesto chiarimenti - chi era venuto a cercarlo? - ma non aveva ottenuto risposta. Una reazione netta, però, l'aveva avuta quando Langton gli aveva domandato se alla porcilaia si fosse mai presentato qualcuno a bordo di una Range Rover bianca. Sickert aveva annuito. Brandon intervenne per dire che la Scientifica aveva confermato la presenza di tracce riconducibili al terreno circostante il bungalow. I risultati degli esami sugli interni della Range Rover non erano ancora arrivati. Erano state rilevate delle impronte su cui si stavano eseguendo tutte le verifi-
che del caso. Fino a quel momento, però, non c'erano novità al riguardo. «Un passo avanti, due indietro», borbottò Langton, richiudendo il taccuino. Si voltò verso la bacheca. «Un nome ha fatto quasi sobbalzare Sickert sul letto: gli ho domandato se fosse stato Amadou a farlo entrare nel Regno Unito.» Sickert aveva cominciato a boccheggiare e cercato di aggrapparsi alla manica di Langton. «Uomo cattivo, cattivissimo... molto potente. Mi vuole morto.» Langton afferrò un pennarello rosso e fece una croce sulla fotografia di Sickert appesa alla bacheca. «Be', adesso sarà contento...» Fece una pausa. «Ecco un ulteriore legame con quello schifoso di Amadou. Ho cercato di farmi dire da Sickert dove si nasconde, ma a quel punto si stava proprio spegnendo. Gli abbiamo trovato in tasca un paio di biglietti del bus: voglio che qualcuno vada a dare un'occhiata nelle zone di percorrenza, perché noi finora abbiamo concentrato le nostre ricerche a Peckham: uno dei biglietti ci manda a Tooting, l'altro a Clapham... anche se Amadou, ormai, potrebbe essersi trasferito dovunque. Gli indizi che abbiamo sono minimi, ma conviene comunque mettersi in contatto con l'azienda dei trasporti - pensaci tu, Harry - per vedere se, sulla base dei biglietti, sanno indirizzarci con più precisione.» Langton consultò l'orologio; il tempo volava. A Grace affidò il contatto con il centro di accoglienza per l'infanzia, per sapere se i bambini avevano fornito qualche elemento per capire dov'erano stati tenuti. Grace disse che aveva già telefonato molte volte, ma aveva saputo solo che nessuno dei due era in condizioni di essere interrogato: erano ancora sotto shock. «Lascia perdere il telefono, Grace. È meglio che tu vada sul posto. Parlaci di persona, con i bambini, se puoi. Sono traumatizzati, ma noi abbiamo bisogno della loro testimonianza. Sono scomparsi per settimane.» Grace non era tanto contenta di dover fare pressione sui due bambini. Il maschio aveva subito violenze sessuali, mentre la femmina era stata, chissà come, risparmiata. Però erano entrambi ben nutriti, nonostante avessero i pidocchi. Ovviamente erano psicologicamente devastati. «A volte si è costretti a fare cose che ci paiono ingiuste», disse Langton, stancamente, interpretando l'espressione della collaboratrice. «Potremmo ricavare qualche notizia sul luogo in cui sono stati segregati, che magari è il posto in cui si trova anche Amadou. Quindi, esegui gli ordini.» «Sissignore.» Langton sospirò. «Okay, ci siamo. Usciremo di qui tra mezz'ora. Frank,
tieni il fiato sul collo della Scientifica per ottenere altre informazioni sulla Range Rover. Praticamente, non abbiamo ancora in mano niente: speriamo che questo pomeriggio qualcosa cambi.» Il convoglio di auto senza contrassegni lasciò la stazione di polizia alle due in punto e arrivò all'ospedale poco prima delle tre. Era una struttura moderna, ben lontana dalla strada, circondata da un alto muro con cancelli in ferro battuto. I diversi reparti per le malattie infettive erano contraddistinti da lettere. Loro dovevano servirsi dell'ingresso D e raggiungere il padiglione C, riservato alle malattie molto contagiose e separato dal resto della struttura ospedaliera. All'ingresso del padiglione c'erano due guardie armate. Davanti al padiglione c'erano parcheggiati un cellulare della polizia penitenziaria e un'auto di scorta con agenti in divisa, che avevano condotto lì Idris Krasinique. C'era anche l'ambulanza della polizia che aveva prelevato dal locale aeroporto Eamon Krasinique, lì depositato dal mezzo dell'elisoccorso. Nei paraggi era parcheggiata anche la vettura senza contrassegni che aveva accompagnato in loco il dottor Salaam e sua moglie Esme. A questi era stato assegnato un alloggio segreto, dove sarebbero rimasti finché il dottore non avesse ritenuto opportuno rientrare a casa propria. Langton, Lewis e Anna furono guidati per un labirinto di corridoi asettici. Le pareti erano completamente spoglie: né un avviso, né un cartello, né un'indicazione. Giunsero davanti a una porta scorrevole di vetro spesso. Ad attenderli lì c'era un medico in camice bianco che aveva accompagnato Eamon nel trasferimento dal carcere di Parkhurst. Di lì proseguirono lungo altri corridoi bianchissimi: l'unica cosa visibile era, di tanto in tanto, un estintore, oltre alle telecamere e agli altoparlanti montati sul soffitto. Giunsero a un'anticamera che aveva le pareti di vetro ed era arredata con una gran quantità di apparecchiature sanitarie e bombole d'ossigeno. Al centro della stanza c'era una lettiga a rotelle su cui era steso un lenzuolo bianco. La vetrata che si affacciava sulla stanza adiacente era oscurata da una veneziana verde. Il dottor Salaam era in piedi davanti a un tavolo d'acciaio, su cui era aperta una valigetta da medico piena di boccette e pacchetti di erbe e altri preparati. Accanto a lui, la moglie verificava con attenzione il contenuto della borsa. Indossavano entrambi un camice bianco. Si voltarono, all'ingresso di Langton e soci. Il silenzio era carico di tensione.
Salaam non perse tempo. Parlò con voce così lieve che, a volte, si faceva fatica a capire quel che diceva. «I medici che hanno accompagnato qui Krasinique sono molto preoccupati: ha la pressione molto bassa ed è gravemente denutrito.» Langton annuì: ci mancava solo questo. Non sarebbe stato di grande aiuto se fosse morto. «Perlomeno è vivo?» «Sì, è vivo, ma non mi è stato ancora consentito di visitarlo.» «Be', converrà sbrigarsi», borbottò Langton. Salaam alzò una mano. «Un momento. Prima devo farle alcune domande.» «Prego.» «Sono in possesso di una storia clinica del paziente. Ho domandato se l'uomo che ha aiutato Eamon Krasinique nell'aggressione...» «Non si tratta di semplice aggressione: Krasinique ha tagliato la gola a un uomo.» Salaam annuì. «Qualcuno ha visitato fisicamente il complice dell'omicidio?» Langton si strinse nelle spalle e disse che, se questa informazione non compariva sui documenti clinici, lui non ne sapeva niente. «In particolare, sarebbe interessante verificare la presenza di segni di punture.» «Tipo iniezioni?» «Sì.» Langton sospirò. Guardò Mike Lewis e gli fece segno di andare a telefonare. Lewis annuì e uscì dalla stanza. Esme posò sul tavolo una grossa scatola squadrata rivestita di pelle. La aprì, e Anna vide che conteneva degli elettrodi di foggia un po' antiquata e un paradenti di gomma. Le venne il sospetto che intendessero fare un elettroshock a Krasinique. «Bene», disse Salaam, scuotendo un paio di guanti di lattice. «Fatemelo visitare.» Eamon Krasinique giaceva su un lettino stretto. La stanza in cui si trovava, per il resto, era completamente vuota, se si eccettuava una piccola sedia di acciaio. Sopra il letto c'era un lampadario a cupola che poteva essere alzato o abbassato. Langton, Travis ed Esme furono introdotti in una stanzetta con vetrata da cui avrebbero potuto seguire la visita. Si avvicinarono al vetro proprio mentre il dottor Salaam accendeva la luce sopra il let-
tino e la avvicinava al viso del malato. Questi rimase completamente immobile. Solo dal movimento del respiro si capiva che era ancora vivo. Il corpo pareva rigido; le mani, lungo i fianchi erano aperte e le dita tese. Il dottore prese una spatola di legno e abbassò la lampada in prossimità della testa del malato, di cui cominciò a esaminare con estrema cura la folta e riccia capigliatura nera. Quindi, controllò la parte posteriore e l'interno degli orecchi, gli occhi e il naso. Fu una scena inquietante: quando il dottore sollevò le palpebre di Krasinique, si ebbe l'impressione che questi stesse fissando direttamente la lampadina vicinissima. Il dottore, infine, gli posò la spatola sulla lingua ed esaminò con la stessa concentrazione anche la bocca, orientando la luce in modo da poter vedere la gola. Langton si voltò verso Anna. Salaam stava senz'altro facendo le cose con calma, scrutando il corpo del malato millimetro per millimetro: torace, braccia, dita, pancia. Quindi, gli divaricò leggermente le gambe e si chinò a osservare minuziosamente anche i genitali. Dopo di che, estratta una sottile torcia elettrica si concentrò su una zona in particolare. Dopo un po', il dottore si rialzò e passò a studiare le gambe. Proprio mentre Salaam stava rigirando il malato inerte, Mike Lewis rientrò nella stanza e disse, a bassa voce, che l'altro uomo implicato nell'omicidio di Arthur Murphy non era mai stato sottoposto a visite di sorta, bensì solo al test antidroga. Erano state trovate alcune tracce di marijuana, ma non di eroina né di cocaina. Langton, con un cenno, lo invitò a fare silenzio: Salaam stava spegnendo la lampada posta sopra il lettino. Si ritrovarono nell'anticamera. Salaam sorseggiava un bicchiere d'acqua. «C'è una droga che può far sprofondare chi l'assume in una condizione simile a quella degli zombi. Ha molti nomi, in gergo, ma è nota comunemente come stramonio, e scientificamente come Datura stramonium. È una pianta velenosa, come la belladonna, ed è spesso utilizzata nelle pratiche voodoo da certi sedicenti stregoni. L'assunzione ripetuta può addirittura inibire l'eloquio e il movimento, oltre a causare delirio e allucinazioni. Gli effetti possono durare per diversi giorni o addirittura per settimane, a seconda del dosaggio. Può anche causare attacchi cardiaci, stati comatosi e morte. Non ci sono antidoti.» Langton restò a guardare il dottore e attese, ma quello non aggiunse altro. «Tutto qui?» Il dottor Salaam lo placò con un cenno. «Dovete capire che, su chi crede
al voodoo, la minaccia di una maledizione funziona soprattutto per la potenza della suggestione. Immaginiamo che una persona si sia rifiutata di eseguire un certo ordine e, per punizione, venga costretta a ingerire dello stramonio. Questa persona comincerà ad accusare sintomi spaventosi. Tutte le parti della pianta sono tossiche. Il veleno causa il prosciugamento delle fauci, la dilatazione delle pupille e febbre alta. Sul piano psichico, inizialmente, si cade in uno stato di confusione, di euforia e di delirio. Secondo la cartella clinica, Eamon ha manifestato tutti questi sintomi.» Langton cominciava a scalpitare. «È questo il motivo per cui è ridotto così?» Salaam prese un grosso blocco per appunti su cui era disegnata la sagoma di un corpo maschile. Con una penna, il dottore segnò alcuni punti sulla figura. «Eamon Krasinique presenta alcuni piccoli segni di puntura: uno sulla sommità della testa, uno sul lobo dell'orecchio destro e altri quattro nella zona dei genitali; ne ha un'altra anche in prossimità dell'ano. Questi segni sono ancora visibili, ma è facile che siano sfuggiti a un esame non particolarmente accurato. Ovviamente, avrò bisogno di campioni di sangue e di urina da analizzare, ma a giudicare dai sintomi direi che a questo ragazzo è stata somministrata una notevole quantità di quel veleno in un arco di tempo piuttosto prolungato.» «Può guarirlo?» «No. Bisognava intervenire prima. Forse ha ancora un po' di tempo, ma presto avrà un arresto cardiaco. Sta morendo, un po' per il veleno, un po' per la convinzione di essere uno zombi, colpito da una maledizione voodoo.» Anna si schiarì la gola. Tutti si voltarono verso di lei. «Non si potrebbe provare con l'elettroshock? Magari servirà a guadagnare tempo...» «Può darsi. Quest'uomo è vittima della sua stessa mente. È stato punito per qualche ragione che non conosciamo. Lui non sa di essere stato avvelenato e si crede vittima di una maledizione voodoo.» Langton guardò l'orologio. Chiese di portare qualcosa da bere e mangiare per il dottore e sua moglie. Lui avrebbe avuto bisogno di un po' di tempo per discutere della prognosi con la sua squadra. Langton si accasciò su una poltroncina in pelle; Mike Lewis si sedette sul bracciolo di un'altra. Anna si sedette di fronte a loro. «Dobbiamo chiedere al fratello l'autorizzazione per sottoporre Eamon all'elettroshock. Se sa anche lui le cose che
ci ha appena raccontato il dottore, potrebbe acconsentire; altrimenti, dubito che avremo il permesso di procedere.» Langton disse bruscamente: «Sentite, se l'elettroshock può essere utile, freghiamocene dell'autorizzazione: si fa e basta. Quel ragazzo sta morendo». Anna sospirò. «Lo so, ma abbiamo bisogno anche dell'aiuto di Idris, che parlerà solo se vedrà qualche miglioramento nelle condizioni del fratello. In caso contrario - e a giudicare da quel che abbiamo visto è difficile che Eamon si ristabilisca - abbiamo buttato via un mucchio di soldi e di tempo.» «Credi che non lo sappia?» sbottò Langton. «No, al contrario; io sto solo chiedendo di poter parlare un po' con Idris. Se necessario, poi, lo faremo parlare anche con il dottor Salaam. Se evitassimo di dire che difficilmente si riuscirà a salvarlo, se gli dessimo un po' di speranza... Che cosa ha fatto quel ragazzo per meritare di essere avvelenato in quel modo? Dev'esserci sotto qualcosa di grosso, in cui, magari, è coinvolto anche Amadou.» Langton si voltò verso Mike Lewis. «Voglio i nomi di tutte le persone che sono andate a trovare Eamon Krasinique in cella, alla stazione di polizia, in tribunale. Dobbiamo capire chi può averlo avvicinato.» «Non ha mai ricevuto visite in carcere», disse Anna. «Lui, magari, no, ma potrebbe averle ricevute il tizio che ha aiutato Eamon Krasinique a uccidere Arthur Murphy. Vediamo se qualcuno è andato a trovare lui. Un collegamento, da qualche parte, deve pur esserci. Se c'è uno stronzo che controlla la mente di Eamon per mezzo di quel veleno, qualcuno deve averglielo somministrato. L'ha detto il dottore: ha addosso i segni di Dio solo sa quante punture, perciò c'è qualcuno che ha continuato a fargliele, giusto?» Anna assentì. Langton si stava innervosendo. Lei provò a placarlo. «Nel frattempo, posso parlare con Idris? In presenza del dottore, se necessario.» Langton annuì. «Per quanto tempo lo abbiamo a disposizione?» volle sapere lei. «Il dottore?» domandò. «Sì.» «Per tutto il tempo necessario. Possiamo riaccompagnarlo nel suo alloggio di sicurezza e riportarlo qui quando vogliamo.» Anna assentì e abbozzò un sorriso. «Andrò a parlargli.» «D'accordo. Va' pure. Io voglio scambiare due chiacchiere con Mike.»
Anna uscì. Dopo un lungo silenzio, Langton esalò un sospiro. «Questa indagine mi costerà cara, e non mi riferisco solo alle spese che hanno superato qualsiasi previsione.» Si appoggiò all'indietro sulla sua poltroncina. «A volte ho l'impressione di aver smarrito la strada, di essermi fatto sfuggire di mano la situazione...» «Se risolviamo il caso, però...» «Dai, l'hai visto anche tu com'è ridotto quel ragazzo: sta per tirare le cuoia, e le nostre speranze dipendono dallo stronzo che ha assassinato Carly Ann North. Non ha senso. Vorrei andar lì e massacrarlo di botte... così magari parlerebbe.» «Magari, no. Si è beccato quindici anni per omicidio: non mi sembra un grande incentivo a sciogliere la lingua.» «Lei, forse, sa qualcosa che noi ignoriamo.» «Anna?» «Sì, Anna. Gran parte di questa operazione è nata a seguito del suo colloquio con Idris Krasinique.» «Sì, ci avevo pensato. Ha fatto tutto di testa sua, vero?» «Puoi ben dirlo.» «Tu, insomma, non le avevi detto di andare a parlare con Idris Krasinique.» «Lasciamo stare, Mike.» Lewis tacque per un istante. «Posso domandarti che cosa è successo tra di voi?» Langton chiuse gli occhi. Mike ebbe un'esitazione, ma poi riattaccò. «Fino a poco tempo fa sembravate piuttosto affiatati; abitavate insieme a casa sua, e lei si è sicuramente presa molta cura di te.» Langton annuì. «Allora, che cosa è successo?» Langton si strinse nelle spalle. «Non è facile vivere con me.» «Questo lo immagino, ma... lei è un'ottima ragazza.» Langton inspirò a fondo. «Ascolta, è meglio che torniamo alla nostra sala operativa per vedere se c'è qualche novità e per fare, se possibile, qualcosa di costruttivo. Inoltre, avrei bisogno di un caffè: prova a vedere se riesci a trovarne un po'...» «Okay. Tu resti qui o torni dallo stregone voodoo?» «Resto qui. Devo fare delle telefonate.»
Mike annuì e uscì, lasciando Langton accasciato sulla sedia, di pessimo umore. Mike era preoccupato per il suo capo: da quando lavoravano insieme ed erano anni, ormai - non lo aveva mai visto così poco lucido, e sentirgli dire che credeva di essersi fatto sfuggire di mano la situazione... era stato un brutto colpo. Langton aveva sempre condotto le sue indagini con una determinazione e una sicurezza totali. Certe volte, semmai, il problema era la sua mania accentratrice, ma in questo caso... Mike guardò il corridoio deserto: non sapeva da che parte dirigersi. Alla fine, imprecando, decise di tornare sui suoi passi. Imboccando un altro corridoio, vide Anna che gli veniva incontro. «Mi sono perso», disse Mike, alzando le braccia al cielo. «Dove devi andare?» «A prendere del caffè per il capo; mi sembra un po' depresso.» «Dov'è?» «Nella stessa stanza in cui l'hai lasciato.» «Ho chiesto al dottore il permesso di incontrare Idris.» «Ci hai parlato?» «Gli ho detto che volevo assolutamente discutere di quel che abbiamo scoperto e che l'avrei raggiunto presto.» Mike annuì e si allontanò, lasciando Anna in mezzo al corridoio. Lei tornò verso l'anticamera della stanza in cui si trovava Eamon Krasinique. Avvicinandosi, sentì Langton che parlava al suo cellulare. Aprì piano la porta. «Non ho più molte speranze riguardo a questo stregone voodoo, ma dobbiamo assolutamente controllare tutte le persone che hanno visitato i fratelli Krasinique in carcere, e controlliamo anche il tizio che condivideva la cella con Eamon, tanto per confondere un po' le acque. Potrebbero aver usato un ago ipodermico o della polvere, perciò bisognerà analizzare ogni briciola di cibo e qualunque cosa sia stata consegnata al nostro zombi. Vedi anche chi ha avuto contatti con lui durante il processo, perché qualcuno gliel'ha pur pompata questa roba nel corpo: è tutto bucherellato!» Langton si voltò e fece cenno ad Anna di avvicinarsi, prima di riprendere la conversazione telefonica. «Se Grace trova qualcosa, chiamami; idem, se ci sono novità dalla Scientifica.» Continuò a impartire ordini a raffica e poi domandò se Harry Blunt o Frank Brandon avessero scoperto qualcosa a proposito dei biglietti del bus. Dal sospiro di Langton fu evidente che di novità non ce n'erano. Interruppe la telefonata e si rivolse ad Anna.
«Ho parlato con Idris», disse lei. «L'ho lasciato con il dottore, gli ho detto di raccontargli tutto quello che ha detto a noi.» «Be', ci metterà una vita, se userà la stessa lena con cui ha parlato a noi. E intanto Eamon Krasinique si sta spegnendo.» «C'è un vetro a specchio, se vuoi ascoltare.» Langton annuì e si sedette, massaggiandosi il ginocchio. «Ho bisogno di un caffè.» «Mike è andato a prendertelo», disse lei. Dopo qualche minuto, Langton si aggrappò ai braccioli della poltroncina e provò ad alzarsi con una smorfia di dolore, ma dovette rinunciare. Si rimise seduto imprecando. «Vuoi che chieda a Esme se ha qualcosa di utile per calmare il dolore?» «Oh, sì, fantastico. Somministrami un po' di veleno e facciamola finita.» «Che cosa vuoi che faccia?» «Mollami per due minuti, Cristo!» sbottò lui. Poi la guardò e si pentì di quella reazione. «Scusami, Anna... per tante cose. È solo che questo ginocchio mi esaspera. Si blocca e mi fa un male pazzesco.» «Lo so. Io suggerirei di chiedere un deambulatore... Qui dovrebbero averlo.» Lui la guardò male. «Stavo scherzando! Lo so che non lo useresti mai.» «Sì, certo... Scusami, di nuovo.» Tacque per un istante. «So di essermi comportato malissimo con te già molte volte... Vorrei che tu sapessi, però, che io... non penso neanche la metà delle cose che dico in certi momenti. Forse, con te, sapendo che mi conosci così bene, penso di potermi permettere di esagerare.» «Be', io mi sforzo di portare pazienza, ma in alcuni casi è stato davvero difficile.» «Vieni qui.» Protese una mano verso di lei. Anna si avvicinò e lui la strinse forte a sé. «Tu sei una persona speciale. Apprezzo enormemente tutto quello che hai fatto per me.» «Grazie.» «Okay. Adesso dammi una mano ad alzarmi e muoviamoci.» Lei gli lesse in faccia il dolore che provava quando lo aiutò a rimettersi in piedi. Anna dubitava che potesse arrivare anche solo in fondo al corridoio, ma non appena uscirono dalla stanza lui prese la posizione di testa. Zoppicava, ma come sempre riusciva a dare l'impressione di essere lui il
capo. Il dottor Salaam stava indicando a Idris i punti in cui sul corpo del fratello erano stati trovati i segni delle iniezioni. Idris ascoltava con aria assorta. Anna accese un altoparlante per poter seguire la conversazione. «Ce n'erano anche nella zona genitale e anale», diceva il dottore. Idris scosse la testa. «Allora, sopravvivrà?» La sua voce era fioca, appena percettibile. Il dottor Salaam esitò a rispondere. Idris si sporse verso il dottore. «Devo assolutamente saperlo: sopravvivrà o no?» Langton serrò le labbra, imprecando a mezza voce: ci mancava solo che il dottore svelasse le vere condizioni di Eamon Krasinique. Anna gli sfiorò un braccio. «Sa di non doverlo rivelare.» Il dottor Salaam prese una sedia e si avvicinò a Idris. «Il suo cuore è molto debole.» «Non potete operarlo?» domandò Idris, con voce ben chiara, questa volta. «È troppo tardi, ma speriamo di riportarlo alla coscienza con un elettroshock.» «Oh, merda... Quegli affari che ti danno la scossa elettrica...» «Mi servirà la tua autorizzazione per qualsiasi intervento di rianimazione.» «Io accetterei, ma voglio sapere che cosa succede se non funziona.» «Idris, tuo fratello è in condizioni critiche», disse il dottore in tono grave. «Ha rifiutato tutti i trattamenti che avrebbero potuto salvarlo. Devi capire che è molto malato. Non c'è un antidoto per quel veleno.» «Perché allora volete fargli l'elettroshock?» «Potrebbe riscuoterlo dal terrore che si è impossessato della sua mente e donargli un po' di pace. Lui è un credente, vero?» «Cristiano, intende?» «No, voodoo.» Idris distolse lo sguardo. «Ha mai avuto a che fare con il voodoo o con gente dotata di poteri voodoo?» Idris annuì lentamente. «Vuoi riflettere per qualche minuto da solo su quel che ti ho appena detto?»
Idris annuì di nuovo. Langton imprecò: non gli andava affatto a genio l'idea di concedere altro tempo a Idris. Il dottore bussò alla porta che gli fu aperta. Langton uscì in tutta fretta dalla stanzetta con vetrata, cogliendo Anna di sorpresa. In corridoio, conferì con il dottor Salaam. Gli disse che non si sarebbe fatto fregare da Idris. Se esisteva la possibilità di riscuotere Eamon dal suo coma, il dottore era tenuto a intervenire anche senza autorizzazione: avevano già perso fin troppo tempo. Salaam pretese di consultarsi con la moglie, e così entrarono nell'anticamera. Anna guardò Idris. Era rimasto seduto e fissava la parete bianca che aveva di fronte. A un certo punto, chinò la testa e cominciò a piangere. Anna spense l'altoparlante dell'interfono e uscì dalla stanzetta da cui si poteva osservare non visti. Avvicinò la guardia che piantonava la stanza in cui si trovava Idris e gli chiese il permesso di entrare. Al suo ingresso, Idris alzò la testa e si asciugò gli occhi con una manica. «Come va?» gli domandò lei, dolcemente. Idris deglutì, sforzandosi di soffocare le lacrime. «Avremmo potuto mentirti, ma sentivamo di dover essere onesti fino in fondo, con te. L'hai capito, ora, che qualcuno ha cercato di uccidere lentamente tuo fratello? Ha sofferto e soffre tuttora in modo atroce. Se sai chi può essere stato a ridurlo così, devi dircelo! Non vuoi che sia punito?» Idris si asciugò gli occhi e bisbigliò: «Ho paura!». Anna protese un braccio e gli prese la mano. «Parla con me, Idris... Puoi fidarti.» Anna uscì in tutta fretta in corridoio ed entrò nell'anticamera, dove il dottor Salaam stava porgendo a Langton alcune compresse. «Faremo l'elettroshock anche senza l'autorizzazione del fratello», disse Langton, ingoiando le pastiglie. Si voltò verso Esme e le sorrise. «Siamo sicuri che non sto ingerendo belladonna?» Lei ricambiò il sorriso e scosse la testa. «Sto facendo un elenco di pastiglie e di preparati che le faranno bene.» Anna fremeva di impazienza. «Ascolta, credo che Idris si sia quasi deciso a parlare, ma prima vuole che il dottor Salaam lo visiti. È terrorizzato all'idea che qualcuno possa avergli somministrato quel veleno. Si è autosegregato per settimane, non è mai andato in sala giochi e pagava una persona in cucina che gli preparava il cibo da lui consumato rigorosamente nella sua cella. In ogni caso, ha una paura folle.»
Langton alzò gli occhi al soffitto. «Ha detto che si chiama Jimson weed», aggiunse Anna. Il dottor Salaam spiegò che si trattava di uno dei tanti nomi dati in gergo alla Datura stramonium. «Jimson» era una corruzione del nome della città americana di Jamestown, dove lo stramonio era stato usato come arma contro i soldati britannici, mescolato all'insalata e alle bevande. «Grazie per la lezione di storia, dottore. Ora, però, sarà meglio visitarlo alla svelta.» Langton tenne aperta la porta per far passare il dottore e, dopo aver consultato l'orologio, lo seguì. Quando fu certo che nessuno potesse udirlo, Langton a voce bassa gli disse: «Mi ascolti bene, dottore: io voglio che lei "trovi" qualche traccia di stramonio nel suo organismo, ma in quantità non letali. Gli dia delle pastiglie, se serve a rendere credibile la messinscena, d'accordo? Dobbiamo mettergli addosso un po' di paura anche noi». Il dottor Salaam assentì e si allontanò proprio mentre sopraggiungeva Lewis con il caffè e con dei sandwich un po' rinsecchiti. Mentre rientravano nella stanzetta con vetrata, Langton lo mise al corrente delle ultimissime novità. «Ogni minuto che perdiamo potrebbe essere l'ultimo per quel ragazzo; e adesso suo fratello ha paura di essere stato a sua volta avvelenato.» Lewis aveva ottenuto l'elenco delle persone che avevano visitato Eamon Krasinique in carcere. Il primo era stato Rashid Burry, ormai defunto. Gli altri non erano ancora stati interrogati; Frank Brandon stava verificando gli indirizzi, per vedere se qualcuno aveva dato quello autentico. Stavano anche interrogando il collegio di avvocati che aveva difeso Eamon in tribunale. Langton ebbe un segreto sussulto di ansia: queste altre incombenze per la squadra ampliavano ulteriormente il raggio delle indagini, e la situazione sembrava sfuggire sempre di più al controllo. Lewis sorrise. «Sono arrivate buone notizie dalla Scientifica, però. I capelli e un frammento di impronta digitale appartengono a Carly Ann North. C'erano anche delle fibre che potrebbero provenire dal luogo in cui il cadavere è stato tenuto prima di essere trasportato nel luogo dello smembramento.» L'interno della Range Rover era stato ripulito con cura, ma sotto il vano portaoggetti erano state rilevate due chiare impronte riconducibili a Rashid Burry; una terza impronta apparteneva a una persona non ancora identificata.
Langton pareva più rilassato, ora, forse perché la situazione era in movimento o forse perché le pastiglie a base di erbe cominciavano a fare effetto, se non sul ginocchio, almeno sull'umore. Addentò uno dei sandwich stantii e si versò del caffè tiepido dalla brocca. Esme stava silenziosamente estraendo dalla scatola il necessario per l'elettroshock: il paradenti per la bocca di Eamon, i cavi degli elettrodi e le ventose. Dispose tutto ordinatamente su una salvietta bianca di cotone e ripulì ogni cosa con il disinfettante. Guardò l'orologio alla parete e fece quello strano movimento circolare con il dito indice puntato. «Il tempo scorre. Sarà meglio andare a vedere come sta Eamon Krasinique.» Anna ripensò a quando il giovane in fin di vita aveva compiuto quello stesso movimento in carcere. «Questo gesto lo faceva anche Eamon», disse. Esme si strinse con discrezione nelle spalle. «Sì, me ne ha già parlato, ma è solo un modo di alludere al tempo che passa. Alcuni dei nostri pazienti sono analfabeti e non sanno leggere l'ora, e questo gesto ha una funzione esplicativa.» Lo ripeté. «Quando la lancetta lunga ritorna sul dodici, dovrai tornare a farti visitare.» Sorrise con dolcezza. «Quando si mette avanti o indietro l'orologio, queste persone si confondono e credono che la perdita di un'ora sia una sorta di punizione!» «Amadou può avervi visto compiere questo gesto?» «Può darsi.» «Avevate mai visto i fratelli Krasinique?» «Dovrei consultare la mia agenda, ma molti nostri pazienti usano nomi e indirizzi falsi.» «Venga a dargli un'occhiata», disse Anna; poi, però, guardò Langton, come in attesa di un suo assenso. Lui annuì. Guardò le due donne che lasciavano l'anticamera. «Avrei dovuto pensarci io», disse, allungando una mano per prendere un altro sandwich. Mentre il dottor Salaam visitava Idris, Anna condusse Esme nella stanza in cui giaceva Eamon. Il ragazzo era immobile, con gli occhi sbarrati, il corpo rigido, il respiro flebile. Anna si fermò sulla soglia, mentre Esme si avvicinò al lettino. Si chinò sul giovane e con una mano gli accarezzò piano la testa. Eamon non ebbe reazioni. Esme gli posò il dorso di una mano su una guancia.
«Povero, caro ragazzo...» Gli prese la mano, continuando a sussurrare come si fa con i neonati. «Lo ha già visto?» «No, non mi pare... ma abbiamo così tanti pazienti e lavoriamo da così tanti anni... Potrebbe anche essere stato nel nostro studio, ma io sinceramente non me ne ricordo. Mi dispiace.» Uscirono dalla stanza e tornarono dove avevano lasciato Langton. Esme pareva turbata; domandò ad Anna la ragione per cui, con tutti i macchinari a disposizione nell'ospedale, non stessero facendo nulla per quel ragazzo. Anna restò sorpresa: non credeva che Esme, con tutti i suoi rimedi a base di erbe, potesse vedere di buon occhio l'alimentazione forzata o l'uso di apparecchiature sofisticate. «La prima volta che l'hanno ricoverato nell'ospedale della prigione, hanno provato ad aiutarlo, ma lui ha rifiutato ogni cura. Ha persino firmato dei documenti.» Esme scosse la testa. «Non sapeva quel che faceva.» «Noi non potevamo agire contro quella che, a tutti gli effetti, era la sua volontà. Quando i prigionieri dell'IRA facevano lo sciopero della fame, gli agenti penitenziari non potevano nutrirli per via endovenosa né rianimarli in caso di collasso.» Esme posò una mano sul braccio di Anna. «Quella gente usava il corpo come arma contro le autorità; questo povero ragazzo probabilmente non sapeva neppure che cosa stava firmando.» Anna cominciava a irritarsi: Esme sembrava intenzionata ad accusarla. «Allora, non avete scuse per non fargli l'elettroshock.» Esme serrò le labbra. «Questa non è una decisione che spetta a me.» No, infatti, pensò Anna. Sarebbe toccato a Langton che, nel frattempo, si era addormentato su un lettino. 18. Idris Krasinique stava tirandosi su la cerniera dei jeans. Se li era calati all'altezza delle ginocchia per permettere al dottor Salaam di esaminargli i genitali in cerca di eventuali segni di puntura. Non ce n'erano. Il dottore domandò a Idris se gli capitava mai di sentirsi la bocca secca, e il ragazzo disse che accadeva spesso: i secondini si arrabbiavano sempre per il fatto che lui continuava a chiedere da bere. Il dottor Salaam si chinò e vide un piccolo tatuaggio sul polso destro del
giovane. «Aspetta un attimo... Da quanto tempo hai questo tatuaggio?» Il ragazzo si guardò il polso e si strinse nelle spalle. «Da quando sono arrivato a Wakefield, mesi fa. Il tizio con cui condividevo la cella faceva tatuaggi a tutti. Da quando Eamon si è ammalato me ne sto sempre da solo, non mi faccio avvicinare da nessuno.» Il dottor Salaam osservò con attenzione il tatuaggio. «Quando hai cominciato a sentirti la bocca secca?» Idris esitò, cercando di ricostruire la data esatta. «Qualche mese fa, credo.» Il dottor Salaam usò la sua sottile torcia elettrica per esaminare minuziosamente la piccola e rozza stella disegnata sotto la sua pelle: non era neppure una linea continua, bensì un semplice susseguirsi di puntini. «Volevo farmene uno più grosso, ma fa un male pazzesco. È come quello che ha Eamon, solo che lui si è fatto fare una luna... Almeno, così mi ha detto.» «Tuo fratello non ha tatuaggi, Idris. L'avrei visto, dato che l'ho visitato palmo a palmo... Forse, però, hanno usato il colore per iniettare il veleno a te.» Idris ebbe un sobbalzo. «Oh, cazzo! Dottore, mi aiuti, la prego! Può aiutarmi?» Langton si lasciò andare a un sommesso applauso. «Fantastico! Più è impaurito, meglio è.» «Ora sarebbe bene che lui capisse in quali condizioni versa suo fratello, prima che io gli somministri un rimedio», disse Salaam. «Ha intenzione di praticargli l'elettroshock?» domandò Lewis. «Mia moglie dubita che l'elettroshock possa avere effetti in uno stadio così avanzato.» «Me ne fotto. Suo fratello deve vedere: ora che ci ha dato il permesso, possiamo attaccare Eamon a un respiratore e metterlo sotto una tenda a ossigeno... Qualunque cosa possa metterci in una buona luce. Se muore, pazienza; Idris sarà ulteriormente incentivato a parlare. Se non parlerà, noi non lo sottoporremo ad alcun trattamento.» La veemenza di Langton fu tale che nessuno se la sentì di obiettare. Aveva riacquistato tutte le sue energie e ordinò che Idris fosse condotto al capezzale del fratello. Anna suggerì che Esme gli rimanesse accanto, vista la sua grande capacità di diffondere calma intorno a sé: se fosse andato
Langton a prendere Idris, lo avrebbe spaventato a morte. Il monitor emetteva segnali acustici irregolari che indicavano l'affaticamento del cuore di Eamon. Il ragazzo aveva sul viso una maschera a ossigeno: il respiratore lavorava al posto dei deboli polmoni. Era stato convocato un medico dell'ospedale, che sedeva tranquillo in disparte e parlava a bassa voce con il dottor Salaam. Anna, Langton e Lewis osservavano da dietro il vetro a specchi. «Dove l'hai pescato quel medico?» domandò Anna a Langton. «Lavora nel privato, ma ogni tanto viene a fare qualche visita qui. È stata una fortuna. È capitato al momento giusto, ma ci verrà a costare. In più è africano, e questo ha aiutato.» Quando la porta della stanza in cui si trovava Eamon si aprì per far entrare Idris, accompagnato da Esme, i tre poliziotti tacquero. Gli agenti in uniforme che avevano scortato Idris ed Esme fin lì richiusero la porta alle loro spalle. Il somalo era chiaramente scosso: la vista del fratello in quelle condizioni, dopo tanto tempo, lo fece piangere. Esme prese a parlargli con dolcezza, prendendogli la mano e portandolo accanto al letto. Idris si lasciò guidare e poi, come la donna, cominciò ad accarezzare la testa di Eamon, piangendo. «Ehi, fratello, sono io, volevo vedere come stavi. Mi senti?» Non ci fu reazione. Idris si avvicinò ulteriormente e ripeté quel che aveva detto, baciando la fronte del fratello. Il monitor emise un bip, e Idris si voltò, per poi tornare a guardare Eamon, che rimaneva immobile. «Ti voglio bene, fratello... Ti voglio bene.» Il monitor fece un altro bip, più forte, e la linea rossa zigzagante si appiattì. «Oh, cazzo, è morto», disse Langton. «Fa' qualcosa, amico! Fate qualcosa per aiutarlo!» gridò Idris. Gli elettrodi furono collegati alla corrente, e un tubo di gomma fu sistemato nella bocca del giovane, mentre sul petto gli furono appoggiate le ventose. Anna dovette distogliere lo sguardo. Era soprattutto l'espressione terrorizzata di Idris, il suo gesticolare folle, le sue lacrime ad angosciarla. Esme fece del suo meglio per tranquillizzarlo, quando la prima scarica si propagò nel fisico inerte di Eamon. Il corpo inanimato sobbalzò, ma ricadde immobile; la stessa scena si ri-
peté altre tre volte, ma alla fine si levò dai presenti un sospiro di incredulità: il monitor segnalava una ripresa dell'attività cardiaca. Il battito era forte, benché irregolare. «È vivo! È vivo!» si mise a strillare Idris, cercando di avvicinarsi al fratello. «Ora devi uscire», gli disse Salaam con voce ferma. Idris lo guardò con gli occhi di un bambino disperato. «Si rimetterà, adesso, vero?» «Possiamo solo pregare, ragazzo.» Esme dovette praticamente trascinarlo fuori dalla stanza. Il dottor Salaam si avvicinò al vetro a specchio. Non riusciva a vedere al di là e rimase lì un po' incerto, non sapendo dove fissare lo sguardo. «La reazione a cui avete assistito è illusoria. È stata la scossa elettrica a far ripartire la macchina e, forse, a far battere il cuore per qualche istante, ma quel ragazzo è morto. Ho pensato che forse conveniva creare qualche falsa speranza nel prigioniero, ma in realtà non c'è più niente da fare. È morto.» Langton si alzò in piedi e chiuse la veneziana. Anna e Mike rimasero in silenzio: non sapevano come valutare la situazione. «Il dottor Salaam non è un ciarlatano qualsiasi, vero?» disse Langton. Si voltò all'ingresso di Esme, che aveva un'aria molto stanca. «Idris vuole vedere l'ispettrice Travis da sola. Sarà meglio che lo raggiunga al più presto.» Anna guardò Langton. «Vai.» Non mostrò il minimo segno di irritazione per il fatto che fosse lei a parlare con Idris. Prese la cuccuma del caffè e la porse a Mike Lewis. «Ti va di andare a riempirla?» Lewis la prese e uscì. Langton attese che la porta si richiudesse, prima di parlare. «Suo marito... indipendentemente da quel che penso delle vostre pratiche, di quel che fate, credo che suo marito sia una persona assolutamente speciale.» «Lo è, infatti», confermò Esme. «Ha dei poteri straordinari e opera solo a fin di bene. Se volesse, saprebbe anche fare del male, ma non ha mai neppure preso in considerazione l'ipotesi.» «Lo ammiro molto», ribadì Langton. «Ha mostrato una disponibilità e un tatto di cui gli sono enormemente grato.» «Grazie. Spero che le vostre indagini abbiano successo.» Ebbe un attimo di titubanza. «Posso parlare da amica, ma con franchezza?»
Langton fu colto leggermente in contropiede. «Certo, anzi... avevo proprio intenzione di chiederle qualche informazione su quegli antidolorifici a base di erbe...» «Lei ha bisogno di ben altro», disse Esme, dolcemente. «Lei ha un'enorme ferita aperta.» «Sì, è vero. Mi hanno ferito al petto e all'addome, sfiorandomi il cuore.» Esme contò quattro pastiglie. «Ah, non lo sapevo, ma io alludevo a qualcosa di più astratto. Tutti noi ci portiamo dietro delle cicatrici.» «Davvero?» Non era interessato. «Sì. La mia è il figlio che ho perso.» Langton annuì, non voleva addentrarsi in confessioni intime né sapere della vita privata di quella donna. «Qualcuno le ha causato un dolore enorme», mormorò Esme. «Signora, mi hanno praticamente fatto a fette. Non c'è niente di astratto in un bruto che cerca di ammazzarti.» Esme gli posò una mano sul cuore. «Qui», insistette. Da quella mano posata sul suo cuore, Langton sentì emanare un grande calore. Ebbe un singulto, desiderando con forza che lei non la togliesse. Non si capacitava: quel palmo sul petto gli faceva venir voglia di piangere, ma il suo corpo si irrigidì. «È l'articolazione del ginocchio», disse, a mo' di scusante. «Lei non si è mai liberato del dolore.» «Non capisco a che cosa si riferisca. Io prendo tutte le pillole che mi capitano a tiro, per calmare il dolore. La smetta, per favore.» Quando Esme tolse la mano, lui provò una sensazione di vuoto indescrivibile. «Mia moglie è morta.» La sua voce giunse come da una grande distanza. «Era giovane, bella, intelligente, e io l'amavo. Volevamo avere una famiglia, dei figli... È morta di un tumore al cervello. Era così piena di energia e di vitalità e in pochissimo tempo se n'è andata. Non riuscivo ad accettarlo, non potevo credere di dover vivere senza di lei.» «Lei, però, ha seppellito questo dolore; non ha mai lasciato che la luce di sua moglie si liberasse.» «Non c'era luce, dopo che lei è morta.» Esme gli toccò una mano. «Deve lasciarla andare. Lei, ispettore, ha bisogno di luce immediatamente. Ne ha bisogno, perché sta sprofondando.» «Be', così magari mi ricongiungerò con lei. Crede che io stia per morire?»
«No, no. Sua moglie è la luce, e lo sarà sempre. La sento e so che possiede una forza vibrante che lei, ispettore, deve abbracciare. Non c'è colpa, e non dev'esserci rimorso: non si poteva far nulla per salvarla. La lasci andare, altrimenti lei non si ristabilirà più.» «Sto abbastanza bene», borbottò Langton, furioso con sé stesso. Nessuno sapeva dell'angoscia con cui aveva vissuto dalla morte di sua moglie: non capiva perché proprio in quel momento si fosse lasciato indurre a parlarne. «Non mi sento di parlarne, ora», disse, a bassa voce. «La capisco, ma presto dovrà farlo, perché altrimenti sarà troppo tardi. Venga a trovarmi quando il caso sarà chiuso», disse, rimettendo in borsa i pacchetti e le boccette. «D'accordo. Ci verrò.» Non aveva intenzione di mantenere i contatti e si pentì di aver parlato. Le era accanto, mentre lei riordinava le sue cose. «Che aspetto ha lo stramonio?» le domandò per curiosità. Esme indicò una boccetta con una croce rossa sull'etichetta. «Questa è la tintura di Datura stramonium, e queste sono le pastiglie, che possono essere ridotte in polvere. Mio marito le ha portate per mostrargliele. Di solito, per ovvi motivi, vengono tenute sotto chiave.» Si voltò verso Mike Lewis che rientrava con una cuccuma di caffè appena fatto. «A titolo di cronaca, le forze speciali, fuori, si stanno innervosendo e vogliono sapere quando la finiremo.» «Quando lo dirò io», replicò secco Langton. Fece segno a Mike di andare a vedere a che punto era Anna. Non vedeva l'ora di liberarsi di Esme. La moglie del dottore aprì la veneziana. Suo marito aveva staccato i tubi dal corpo di Eamon. Esme chiuse gli occhi e si mise a pregare. Quindi, richiuse la sua borsa da lavoro e la posò a terra accanto alla sedia. Si sedette con le mani giunte in grembo e guardò Elmore che stendeva pietosamente un lenzuolo sul corpo senza vita del giovane. Anna se l'era presa comoda con Idris. Lui era in stato di shock e disperazione. Da un lato, credeva che il fratello fosse vivo e che ci fossero ancora speranze di salvarlo; dall'altro, aveva il terrore di essere stato a sua volta avvelenato. Continuava a bere acqua, perché si sentiva la bocca secca, e a domandare se il dottore fosse davvero in grado di aiutare lui e suo fratello. Anna lo aveva ripetutamente rassicurato. Solo per calmarlo le ci erano voluti più di dieci minuti; ora sapeva di dovergli mettere un po' di fretta.
«Registrerò il nostro colloquio», gli disse. «Okay, ma non potete rimandarmi a Wakefield. Se si viene a sapere che ho parlato con voi... Insomma, quello stronzo che mi ha fatto il tatuaggio... chi se ne preoccupa?» «Verrai sicuramente trasferito in un altro carcere.» Di questo non era tanto sicura, ma la priorità era che lui parlasse. Anna aveva appena acceso il registratore, quando Idris disse, con foga: «Lui la amava». Anna lo guardò: non era certa di aver capito bene. «Scusa, come dici?» «Mio fratello... la amava. Era pazzo di lei. Lui doveva soltanto tenerla d'occhio... come una guardia del corpo.» «Vuoi dirmi di chi...?» Lui la interruppe. «Carly Ann... e mio fratello. Lui era innamorato di lei.» Anna si appoggiò all'indietro. Era assurdo. «Non capisco. Se tu lo sapevi, com'è che sei stato trovato mentre decapitavi il cadavere della ragazza?» «Era una trappola.» «Una trappola per chi?» Idris si accasciò con un sospiro e serrò i pugni. «Lui è venuto a saperlo ha saputo che stavano per fuggire insieme - e ha punito Eamon. Diceva che chiunque avesse provato a intralciarlo sarebbe vissuto nel rimpianto di averlo fatto. Si comportava come un pazzo, con questa tunica bianca addosso, le croci e tutto il resto. Dei tizi tenevano fermo Eamon, mentre lui inveiva contro mio fratello e lo malediceva. Dev'essere stato a quel punto che gli ha fatto le iniezioni.» «Chi è stato?» Idris la guardò come se fosse tonta. «Amadou! Di chi cazzo credi che si stia parlando?» Anna deglutì. «Carly Ann era proprietà di Amadou. L'aveva vista per strada, gli era piaciuta e aveva mandato due tizi a prelevarla. L'aveva fatta lavare - non scherzo - nel latte, e le aveva comprato di tutto: vestiti, gioielli... Diceva che era la sua donna. Lei aveva questi occhi azzurri limpidi come il mare... però era nera. Lui la considerava speciale. A un certo punto, le ha messo alle costole mio fratello, a mo' di custode, per assicurarsi che lei non tornasse a strafarsi. Eamon aveva il compito di accompagnarla quando lei andava in giro a fare shopping o altro. Con i soldi che le dava Amadou com-
prava braccialetti e collane d'oro, e mio fratello stava con lei ventiquattr'ore su ventiquattro: Amadou aveva da badare ai propri affari, e loro due erano spesso da soli.» Idris chinò la testa. «Se la scopava.» Idris si asciugò gli occhi. Disse che suo fratello era uno scemo: non sapeva che quel posto era pieno di telecamere nascoste. Li avevano filmati, e Amadou aveva scoperto la tresca. «Dov'è accaduto?» «Aveva una casa enorme a Peckham, ma ne ha un po' dappertutto, a Londra. Quell'uomo ha un mucchio di soldi, tutti in contanti.» «Possedeva una Range Rover bianca?» «Sì, ha un'infinità di auto... BMW, Mercedes, Ferrari...» «E dove le tiene, queste auto?» «Non lo so. In vari posti, credo.» «Conosci qualche altro suo domicilio?» Idris sospirò spazientito. «No, ma quel che è successo a Carly Ann... è successo tutto nella casa di Peckham.» «Continua.» «Lei era scappata con Eamon, e Amadou aveva sguinzagliato i suoi scagnozzi per ritrovarli. Carly Ann aveva conosciuto una donna, in un centro di aiuto, che si prendeva cura di lei. Non so se ci tenesse davvero a mio fratello, ma si stava nascondendo. Io avevo paura di aiutare Eamon, anche se una volta ci siamo incontrati, e io gli ho dato dei soldi. Diceva che forse sarebbero andati a Manchester. Non aveva passaporto, perciò non poteva lasciare il paese.» Idris aprì una bottiglia di acqua e trangugiò alcuni sorsi. Disse che due tirapiedi di Amadou avevano scovato Carly Ann e l'avevano riportata nella casa di Peckham. Lei aveva rivelato dov'era suo fratello, e Amadou aveva mandato i suoi uomini a prenderlo. «L'ha legata a una specie di altare che aveva fatto costruire in cantina, e ha fatto entrare Eamon.» Idris cominciò a piangere. Anna non lo incalzò. Lui bevve altra acqua e riprese. «L'ha stuprata. Poi ha costretto me a fare lo stesso. E mio fratello ha dovuto assistere. Amadou continuava a ripetere che nessuno l'aveva mai intralciato e che, come ci aveva fatto entrare nel Regno Unito, così ci avrebbe fatto espellere... Ma io sapevo che mentiva. Sapevo che ci avrebbe ammazzato se non avessimo fatto quel che voleva lui.» «E tu che cosa hai fatto?» Idris cominciò a scuotere la testa. «Non l'ho uccisa io; è stato Amadou.
L'ha uccisa lui. Io ho portato via il cadavere e l'ho caricato in macchina.» «La Range Rover?» «Sì. Amadou mi ordinò di tagliarle le mani e la testa, in modo che nessuno potesse identificarla.» Idris scoppiò a piangere disperatamente e non fu più in grado di articolare verbo. Rimase seduto lì con i gomiti sulle ginocchia, la testa china in avanti, a singhiozzare. Fu convocato il dottor Salaam, che si limitò a dargli alcune pastiglie di calmante, anche se il ragazzo era convinto che si trattasse della cura contro l'avvelenamento. La mente gli giocava strani scherzi: la bocca secca era dovuta alla tensione nervosa, non allo stramonio. Aveva parlato con Anna per un'ora e mezzo, e ora era esausto. Fu riportato alla prigione di Wakefield, dove sarebbe stato tenuto in isolamento finché le autorità non avessero deciso di trasferirlo altrove. Gli fu detto che anche Eamon era stato riportato in carcere. Tralasciarono di dirgli che suo fratello era morto. Ci volle tempo per compilare e firmare tutte le carte necessarie per trasferire Eamon Krasinique all'obitorio. Ci voleva un'autopsia, per confermare le cause della morte. Quindi, si sarebbe dovuto decidere che cosa fare delle sue spoglie. Erano le sette di sera quando il dottor Salaam e sua moglie Esme furono condotti all'alloggio segreto che era stato assegnato loro. Viste le informazioni appena fornite da Idris, la squadra aveva deciso che i due coniugi dovessero essere protetti. Langton e Lewis lasciarono l'ospedale alle otto; Anna li seguiva a bordo di un'altra auto con autista. Ne approfittò per appoggiare la testa all'indietro e chiudere gli occhi. Quel rompicapo da incubo cominciava a prendere forma, ma ancora mancava l'ultima parte, la più importante. Dov'era Amadou? La caccia all'uomo sarebbe stata intensificata. Facendo leva sulle nuove informazioni acquisite, Langton sarebbe riuscito a ottenere tutti gli agenti necessari. La preoccupazione era che Amadou potesse scoprire che Idris aveva parlato e lasciasse perciò il paese. Quando arrivarono alla stazione di polizia dello Hampshire erano le nove passate. Alcuni elementi della squadra erano ancora al lavoro. Harry Blunt stava cercando di ricavare indizi utili dai biglietti del bus usati da Joseph Sickert, ma senza successo. Frank Brandon tentava di rintracciare le persone che erano andate a trovare Eamon Krasinique in carcere a Par-
khurst: tra queste poteva esserci l'avvelenatore. Il ragazzo non aveva ricevuto visite, ma il suo compagno di cella - Courtney Ransford - sì. Il visitatore doveva aver usato documenti falsi e un falso nome. Frank sarebbe andato l'indomani a interrogare Ransford in carcere. Langton mandò tutti a casa e, per quanto stanco, si mise ad aggiornare la bacheca in vista della riunione della squadra fissata per la mattina successiva. Anna iniziò a trascrivere la registrazione del colloquio con Idris, mentre Lewis organizzò il lavoro che li attendeva per il giorno dopo. Langton osservò la bacheca. Anche la foto di Eamon Krasinique, ora, era coperta da una croce tracciata a pennarello, come quelle di Rashid Burry, di Gail Sickert e della sua figlia minore, di Joseph Sickert e di Arthur Murphy. Alcune zone del contorno di quell'enorme puzzle mancavano ancora, così come la parte centrale. Perché, ad esempio, Eamon Krasinique aveva ucciso Arthur Murphy? Langton si soffermò sulla fotografia di Vernon Kramer. Non poteva darsi che questo stronzo, attualmente in libertà vigilata, sapesse qualcosa? Kramer aveva legami con tutte le persone implicate nella loro indagine. Langton sospirò: era troppo stanco per pensare. Guardò Mike Lewis - cravatta slacciata, occhiaie scure e profonde - e disse: «Chiudiamola qui, per stasera, Mike. Va' a riposare un po'». Mike accolse con sollievo la proposta e non sollevò obiezioni. Langton guardò Anna. Stava lavorando al suo rapporto. Sobbalzò quando lui le posò una mano sulla spalla. «Può bastare, per questa sera», le disse. «Hai fatto un ottimo lavoro. Molti dei progressi che stiamo facendo sono merito tuo.» «Grazie.» «È stato difficile lavorare con me, eh?» «Non tanto. Ormai sono abbastanza abituata al tuo modo di fare», rispose Anna, spegnendo il computer. «Per me è stato difficile, in certi momenti.» «Davvero?» «Sì. Poco fa, Mike mi domandava... sì, insomma, di te e di me. All'interno di una squadra non esistono questioni private. Mi ha fatto notare quanto ti sei prodigata per me nel periodo della mia riabilitazione. Non ce n'era bisogno, perché lo so già, ovviamente, ma credo di non averti ringraziato abbastanza. Non so come avrei fatto senza di te, senza il tuo aiuto...» «Volevo che tu stessi bene, e poi mi hai già ringraziato, perciò non mi devi nulla», disse lei, sorridendo.
«Be', se lo dici tu...» Lui la guardò. Aveva gli occhi infossati per la stanchezza, e la barba che ricominciava a spuntare sugli zigomi prominenti gli conferiva un'aria un po' malandata. «Che cosa c'è?» gli domandò lei, con dolcezza. «Io, be'... ho avuto una chiacchierata con Esme, la moglie del dottor Salaam.» «Ah, sì?» «Sì.» Lei aspettò. Lui le voltò le spalle ed entrò nel suo ufficio. Anna tolse la giacca dallo schienale della sedia e si alzò in piedi, stiracchiandosi. In quel momento Jimmy ricomparve con il portafogli in una mano. Lo aprì e ne estrasse una fotografia. «Questa era mia moglie.» Lei guardò la foto e poi tornò a guardare lui, non sapendo come spiegarsi la sua decisione di mostrargliela. Restò sorpresa quando gli vide gli occhi lucidi e gonfi di lacrime. «L'amavo.» Fu una fatica pronunciare quelle parole. Anna non sapeva che cosa dire. Lui richiuse il portafogli e si voltò verso la bacheca. «Ad avere a che fare con la morte tutti i giorni si impara presto a non farsi coinvolgere a livello personale... È indispensabile, se si vuol fare il nostro lavoro.» «Sì», ammise lei, incapace di guardarlo negli occhi, mentre lui si sforzava di spiegarsi. Langton si arrese. «Be', buonanotte, Anna. Ci vediamo domani mattina.» «Sì, a domani.» Lui tornò nel suo ufficio. Lei prese la borsa e uscì dalla sala operativa. Dal parcheggio vide la luce ancora accesa nell'ufficio di Langton e l'ombra della sua sagoma dietro la veneziana, come se la stesse osservando. Era riuscita, a costo di notevoli sforzi, a soffocare il sentimento che provava per lui, ma certe volte, come quella sera, quel sentimento riaffiorava. Se lui, poco prima, l'avesse abbracciata, lei non avrebbe saputo come reagire. Avrebbe voluto stargli vicino: le sarebbe piaciuto che lui fosse ancora lo stesso uomo che l'attirava a sé quando erano a letto insieme. Sentì una fitta allo stomaco: è impossibile smettere di colpo di amare una persona. Anna capì che, prima di poter mettere la parola «fine» a quella storia, sarebbe dovuto passare ancora molto tempo.
19. L'adrenalina era al massimo, quando Langton diede inizio alla riunione. Entrambi i fratelli Krasinique erano entrati illegalmente nel Regno Unito, quando erano ancora adolescenti. Finiti entrambi nel giro di Amadou, erano stati usati e brutalizzati da lui, totalmente soggiogati dalle sue perversioni, dalle minacce e dai suoi presunti poteri voodoo. Ora si sapeva anche qual era stato il ruolo dei due fratelli - e di Amadou - nell'omicidio di Carly Ann North. Stavano cercando di tenere a freno la stampa e i media, per evitare che il nigeriano, messo sull'avviso, potesse lasciare il paese. Potevano contare su un nuovo gruppo di agenti da assegnare alle ricerche di Amadou; Idris, inoltre, aveva fornito un'accurata descrizione della casa di Peckham che Amadou aveva usato come residenza. Ascoltarono Langton che faceva l'elenco dei tasselli ancora mancanti. Bisognava interrogare il compagno di cella di Eamon Krasinique, sospettato di essere la persona che gli aveva iniettato il veleno. E chi era, poi, il visitatore che aveva fornito documenti e nome falsi? Chi aveva decretato la morte di Arthur Murphy? Langton, infine, parlò della sua intenzione di fermare e interrogare nuovamente Vernon Kramer, questa volta alla stazione di polizia. Langton disse che, probabilmente, tutti quegli omicidi collegati tra loro erano il tentativo di Amadou di cancellare le prove ed eliminare i testimoni. Rashid Burry era stato trovato nella stessa Range Rover utilizzata per trasportare il cadavere di Carly Ann. Joseph Sickert, a un certo punto, aveva avuto bisogno di un porto sicuro e, con l'aiuto di Arthur Murphy, era finito alla porcilaia con Gail, dove a un certo punto era passata anche la Range Rover. Langton era un fiume in piena. «Amadou aveva forse delle mire sui figli di Gail? È un maniaco schifoso. Forse Sickert ha visto arrivare Rashid al bungalow e ha temuto che potesse accadere qualcosa di brutto. Rashid e i suoi compari si sono portati via Sickert e i due bambini più grandi; e Sickert forse immaginava che anche Gail e la figlia più piccola avrebbero presto seguito la stessa sorte. La reazione più forte, durante il nostro breve incontro, Sickert l'ha avuta quando ho accennato all'omicidio di Gail e Tina. Probabilmente, lo sapeva - anche perché ne hanno parlato tutti i media - e forse proprio per questo ha preso i due bambini ed è scappato. Al momento, la nostra priorità è scoprire dov'è stato tenuto, insieme ai bambini,
prima della fuga.» Langton si passò una mano tra i capelli: non era facile riuscire a tenere presenti tutti i vari tasselli di quel caso da incubo. «Sappiamo che l'ufficio Immigrazione è nel caos più totale; ignoriamo, perciò, il numero di persone che Amadou ha introdotto illegalmente nel Regno Unito. Tutti dicono che è ricchissimo, che dispone di grandi quantità di contanti, di una vera e propria flotta di auto di lusso, di case... Deve tenere i soldi nascosti da qualche parte. Non può metterli in banca, a meno che non utilizzi quei poveri immigrati come prestanome a cui intestare i conti correnti. Si calcola che paghino ognuno cinquemila dollari solo per il viaggio, senza calcolare i visti e i passaporti. Magari questi conti sono ben nascosti, ma la questione va assolutamente approfondita.» Anna aveva l'impressione che questa potesse essere una delle chiavi del caso di cui si stavano occupando, ma era come una fune penzolante a cui nessuno sembrava volersi aggrappare. In quel momento, arrivò la notizia del ritrovamento della casa di Peckham. Era deserta e, secondo i vicini, non era frequentata da diverse settimane. Una squadra della Scientifica era pronta a farvi irruzione alla ricerca di prove. Frank Brandon e Harry Blunt lasciarono la stazione per andare sul posto. Grace ebbe da aggiungere ben poco: non era riuscita a cavare ulteriori informazioni dai figli di Gail Sickert custoditi al centro di accoglienza per l'infanzia. Langton chiese ad Anna di fare un nuovo tentativo e, in caso di novità, di andare alla residenza di Amadou a Peckham, dove anche lui si sarebbe recato dopo aver interrogato Vernon Kramer. Ci fu un gran movimento di agenti e di auto in partenza; dopo di che nella sala operativa tornò a regnare il silenzio. Langton attese che Vernon Kramer fosse condotto alla stazione di polizia. Avevano avuto da ridire con il responsabile della casa-comunità in cui alloggiava Kramer, perché secondo lui l'interrogatorio sarebbe potuto avvenire sul posto, ma Langton aveva fatto valere la propria autorità. Non voleva che all'interrogatorio presenziassero funzionari o agenti della polizia penitenziaria. Mike Lewis aveva ricevuto ordine di fare il duro: di usare, cioè, non una volante, bensì un cellulare della Penitenziaria. Kramer, inoltre, doveva essere ammanettato. La fotografia di Vernon Kramer era stata tra le prime a prendere posto sulla bacheca della sala operativa, accanto a quella di Arthur Murphy. Alcune frecce rosse la collegavano a Gail e a Joseph Sickert; un'altra la con-
giungeva a Rashid Burry, mentre non si sapeva quale fosse il rapporto che lo legava ad Amadou. Si era limitato a fornire una vaga descrizione della casa di quest'ultimo, ma - sia pur con un punto di domanda - una linea rossa lo metteva in relazione con il ricercato numero uno. Alla casa di Peckham c'erano gli agenti della Scientifica, due anatomopatologi e tre assistenti pronti a entrare nella proprietà. Fu dato il consueto avvertimento, nel caso all'interno ci fosse qualcuno, dopo di che fu sfondata la porta. Ci vollero svariati tentativi, per via della quantità di serrature e chiavistelli: benché avesse l'aspetto di una normale porta di legno, era in realtà superblindata. C'era una porta identica sul retro, che doveva essere servita per la fuga del padrone di casa, dato che i chiavistelli non erano chiusi. Brandon invitò tutti alla prudenza, nell'eventualità che la casa fosse minata. Quando fu appurato che non c'erano rischi del genere, anche Blunt e Brandon entrarono. Dall'esterno pareva una casa come tante altre - tre piani, doppio garage e giardino rigoglioso - ma l'interno smentiva l'impressione iniziale. Harry si lasciò sfuggire un fischio. «È una specie di enorme bordello dei vecchi tempi! Guarda che specchi e che tendaggi!» «Vedo, vedo», borbottò Frank. C'erano dovunque specchi dalle cornici dorate e mobilia altrettanto ornata, anche se di finto antiquariato. «Di' un po', quand'è stata l'ultima volta che sei entrato in un bordello come questo?» Harry puntò un piede su una moquette che in origine era bianca, ma che ormai era lercia e piena di chiazze. Frank osservò il pesante lampadario a gocce di cristallo e le applique assortite appese al muro. La sontuosa scala aveva ai piedi la statua di un giovane nero che reggeva una torcia dalla fiamma di vetro. «Questa robaccia la trovi a Marble Arch. Gli arabi la adorano.» «C'è marmo dappertutto... e il marmo non costa poco», commentò Harry, sfiorando con una mano un tavolo del salone: era coperto da uno spesso strato di polvere. «Be', gli piace ostentare la sua ricchezza.» Frank guardò al di là di una doppia porta a vetri che dava su una sala da pranzo, occupata da un grande tavolo ovale con le gambe dorate e da quattordici sedie imbottite. Anche lì sulle pareti campeggiavano specchi dalle cornici elaborate, sopra armadietti strapieni di statuette di Capodimonte. Al di là della sala da pranzo c'era un salotto con divanetti bianco sporco e
un enorme schermo TV al plasma. La cucina era provvista di ogni genere di accessorio, ma era tutto sporchissimo. Il pavimento, in origine bianco e nero, era unto, e i fornelli parevano non essere mai stati puliti. C'era una puzza fortissima. Cestì di verdura marcia. Cibo nella spazzatura. I frigoriferi e i freezer traboccavano di altre vagonate di cibo. Sul pavimento giaceva un rotolo industriale di sacchi neri di plastica; alcuni di questi erano stati riempiti, ma poi erano stati abbandonati. Le camere da letto del primo piano erano altrettanto ingombre di specchi e tendaggi e non meno sudicie. Gli armadi erano vuoti, ma sui letti c'erano ancora le lenzuola sfatte, che furono portate via per essere sottoposte ad analisi. Fino a quel momento non avevano trovato traccia di crimini: pareva semplicemente la casa di una persona piena di soldi, totalmente priva di gusto e incapace di trovare qualcuno che gli facesse delle pulizie decenti! Solo quando raggiunsero il secondo piano furono colti dall'inequivocabile sensazione che fosse accaduto qualcosa di brutto. Anche lì a terra c'era la moquette, ma di un rosso molto scuro; era lisa e, in alcuni punti, addirittura bucata. L'unico bagno presente su quel piano era antiquato e lurido, le stanze spoglie, a parte i letti singoli con le lenzuola sporche. Le porte delle tre camere erano dotate di chiavistelli e catene all'esterno. All'ultimo piano c'erano altre due stanze con lucchetti e catene alle porte. All'interno giocattoli e brandine da bambini, anch'esse sporchissime, con un odore fortissimo di urina e di escrementi che avevano ormai fatto la muffa. Non c'era un bagno, su quel piano, solo dei lavandini; in uno di questi furono trovati dei pannolini sporchi e alcuni pigiami da bambini. Brandon e Harry tornarono al pianterreno per cercare documenti eventualmente dimenticati nella fretta. In uno stanzino nei pressi della cucina c'era una macchina tipografica: vi era stato versato sopra dell'acido che aveva impregnato anche due cassetti pieni di copertine di passaporti. Brandon frugò in giro, mentre Harry esaminò la macchina tipografica. «Dunque, era qui che si producevano i passaporti falsi.» Nel caminetto e dentro alcuni sacchi neri all'esterno della casa trovarono resti di carta bruciata. «Merda!» Harry rigirò un brandello di carta. Era scritto a mano, e praticamente carbonizzato. Alcune delle parole erano sbarrate, ma si capiva che lo scrivente dava notizia della disponibilità di un bambino bianco di otto anni. Si voltarono quando nello stanzino fece il suo ingresso un agente della
Scientifica. «Abbiamo forzato la porta della cantina.» Dietro la porta della cantina c'era una rampa di scalini in pietra. Il locale era molto più grande di quel che si sarebbe potuto immaginare, vasto quanto l'intera pianta dell'edificio. C'erano candelabri in ferro battuto sistemati a intervalli di circa un metro; a quel punto, gli addetti della Scientifica illuminarono la scena e si misero al lavoro nelle loro tute bianche: c'erano dei segni sui gradini a indicare i punti da non calpestare. «Gesù Cristo!» esclamò Harry. Appesa a un muro campeggiava una enorme croce; davanti a essa, una specie di altare in pietra. Maschere grottesche, teschi e teste orribilmente raggrinzite erano in esposizione alle pareti, mentre da alcuni attaccapanni pendevano tuniche in varie sfumature di rosso. «Mio Dio», sospirò Brandon. Sull'altare di pietra erano ben visibili svariate chiazze di un rosso scurissimo. Gli uomini della Scientifica ne prelevarono dei campioni. Il fetore che si respirava faceva fremere le narici. Sapevano entrambi che quello era l'odore della carne in decomposizione. Anna fu accompagnata nella sezione «residenziale» del centro di accoglienza per l'infanzia dall'assistente di turno quella mattina, Alison Dutton. La struttura era organizzata come una casa confortevole e accogliente. L'asilo nido era decorato con grandi dipinti e poster coloratissimi. A ridosso di una parete c'erano una casa di bambole e alcune casse di giocattoli. La sala era luminosa e allegra, con poltrone a sacco, tavoli e sedie di dimensioni ridotte. Non c'era nulla in grado di evocare le sofferenze che avevano portato lì quei bambini: tutto era concepito in modo da aiutare i piccoli a tornare alla normalità, ma ad Anna, per certi versi, quell'ambiente parve artificioso. Le donne che incontrò si mostrarono tutte gentili e disponibili, ma altrettanto pronte a difendere il loro ruolo facendosi scudo di una serie di leggi e regolamenti governativi. I bambini erano in attesa che i servizi sociali trovassero loro una famiglia idonea a adottarli: fino a quel momento, i piccoli avrebbero alloggiato al centro d'accoglienza. Anna venne a sapere che Sharon, la figlia di Gail, stava facendo notevoli progressi: ancora non aveva ripreso a parlare, ma aveva stretto un legame molto intenso con un'assistente. All'inizio rifiutava il cibo e non dormiva mai: c'era voluto tempo, oltre alla pazienza, per convincerla a farsi imboccare e a usare i giocattoli. Gli esami avevano escluso, nel suo caso, qualunque violenza sessuale, ma era in uno stato di grande angoscia. Non riu-
sciva a controllare la vescica e si metteva spesso a strillare, in preda a crisi isteriche. «E il maschietto?» Con lui stavano incontrando problemi: a differenza della sorella, non rispondeva alle sollecitazioni. Benché a volte parlasse, reagiva con violenza se qualcuno provava a toccarlo. La visita medica si era rivelata un'operazione molto difficoltosa, a causa dei traumi subiti dal bambino. Alla fine, avevano dovuto sedarlo. Era stato chiaramente vittima di violenza sessuale: aveva l'ano ulcerato, ferite ai genitali e segni all'altezza dei polsi, come se fosse stato legato. I medici erano preoccupati perché aveva un'infezione alla vescica che non sembrava regredire nonostante gli antibiotici. Anna aveva le lacrime agli occhi, ma era lì per una ragione precisa che spiegò con pazienza: doveva almeno tentare di parlare con il piccolo Keith. Di fronte al netto e gelido rifiuto dell'assistente, Anna cambiò approccio. «Alison, crede che io sia contenta di fare questa cosa? La madre di quel bambino è stata trovata mutilata, e la sorellina decapitata. Io voglio soltanto capire se sa qualcosa che possa esserci di aiuto.» «Ispettrice Travis, quel che faccio - che mi hanno insegnato a fare - consiste appunto nel tentare di aiutare questi bambini sventurati. Ieri Keith mi ha preso la mano - per un attimo solo - ed è stato il mio primo contatto con lui. Vuole forse andare a parlargli della madre e della sorellina morte? Io sto cercando di guarirlo dalle violenze che ha subito.» «La prego, mi conceda di vederlo, anche per poco. Non chiedo di essere lasciata da sola con lui: lei presenzierà all'incontro e vigilerà su tutto. Le do la mia parola: appena lei me lo chiederà, io smetterò. Quel che sto cercando di scoprire potrebbe, alla fine, rivelarsi utile anche per Keith.» Mike Lewis bussò alla porta di Langton e fece capolino all'interno dell'ufficio. «Kramer è in cella e non è per nulla felice.» «Bene.» «Vuoi che lo faccia portare qui?» «No, può restare dov'è... Ah, Mike, tienimi alla larga gli uomini in divisa, okay?» Lewis ebbe un attimo di incertezza, ma poi abbozzò e richiuse la porta. Langton guardò l'orologio rigirandosi una matita tra le mani. Passarono cinque minuti prima che si decidesse ad alzarsi e a lasciare l'ufficio. La stazione di polizia dello Hampshire aveva solo quattro celle per la detenzione di chi veniva fermato dalla polizia. Si trovavano in cantina e ser-
vivano, perlopiù, a custodire di tanto in tanto ladruncoli o ubriaconi. Puzzavano di muffa, vomito stantio, urina e disinfettante. Le porte erano pesanti, d'acciaio, punteggiate di borchie, con uno sportello centrale utilizzato dagli agenti per sorvegliare i prigionieri. All'altezza delle caviglie c'era un altro sportello impiegato per far passare il vassoio del cibo. Le pareti erano di un verdino opaco, mentre il pavimento di pietra era rosso scuro. Celle ben poco ospitali. Langton aveva con sé dei fogli su cui erano trascritte le dichiarazioni rilasciate in precedenza da Vernon Kramer. Accanto alla porta della cella di Vernon era segnato a gesso il nome del prigioniero, insieme all'ora del suo arrivo. Langton spalancò con fragore lo sportello, curandosi di far scattare con violenza il catenaccio. Guardò all'interno mostrando appena una metà della faccia. «Dobbiamo parlare», disse. «Altroché! Si può sapere che cazzo succede? Voglio un avvocato, perché questo arresto è illegale. Non avete il diritto di tenermi chiuso qui dentro!» «Ti hanno offerto una tazza di tè?» «Non lo voglio il vostro tè schifoso! Voglio sapere che cazzo sta succedendo! Perché mi avete portato qui?» «Per parlare.» «Col cazzo! Io ho già parlato fin troppo con voi. Non dico più neanche mezza parola se non mi date un avvocato.» «Ho bisogno di informazioni.» «Per che cosa? Che cazzo state architettando?» Langton richiuse brutalmente lo sportello e chiuse il catenaccio. Si rivolse a Lewis. «Lascialo un po' lì a rosolare», disse ad alta voce. «Tornerò domani mattina.» «Non potete lasciarmi in questa latrina vittoriana!» Langton continuò a parlare con Lewis a voce alta, in modo che Kramer potesse udirlo. «Prova a vedere se riesci a trovare un avvocato... anche se come minimo bisognerà aspettare domani mattina. Potremmo chiamare quello che l'ha già difeso.» Vernon attaccò a strillare e a percuotere la porta della cella. «Non potete farmi questo! Non potete tenermi qui! Conosco i miei diritti!» Langton guardò Mike e sorrise, ma restarono entrambi in silenzio. «Ehi, stronzo! Mi sentì? Sei ancora lì?» Kramer continuava a colpire la porta con calci e pugni; si udì il rumore
sordo del materasso scaraventato contro la porta. Provò, a giudicare dal rumore, a sollevare la branda, ma la trovò inchiodata al pavimento. In un accesso di furia, prese a scagliarsi di spalla contro la porta, una, due, tre volte, e poi di nuovo a scalciare. Ci fu una pausa, quasi che Kramer stesse cercando di capire quel che stava accadendo fuori dalla cella. «Sei ancora lì?» gridò. Langton lasciò passare ancora alcuni minuti, prima di far scorrere improvvisamente il catenaccio spalancando lo sportello. Vernon era molto più calmo di prima, forse provato dal suo stesso sfogo. Alzò gli occhi verso Langton. «Perché mi state facendo questo?» domandò, sull'orlo delle lacrime. «Voglio solo parlare con te, Vernon, perché mi servono alcune informazioni.» «Ancora? Cristo, non ne abbiamo già parlato abbastanza?» Bang. Lo sportello si richiuse e il catenaccio tornò a scorrere. Langton cominciava a spazientirsi. Controllò l'orologio e sospirò. Lewis non era sicuro di aver capito quel che stava succedendo. Sapeva solo che quel giochetto avrebbe potuto creare a entrambi un bel mucchio di guai. Di certo Langton voleva far saltare i nervi a Kramer per farlo parlare, ma a che scopo, Lewis non riusciva proprio a immaginarlo. Kramer aveva già dichiarato di essere stato al bungalow di Gail. Aveva fornito anche una descrizione della casa di Amadou, magari un po' lacunosa... ma Lewis non capiva che altro gli si potesse cavare. Langton, evidentemente, la pensava in modo diverso. Il trucchetto di aprire e chiudere lo sportello della cella andò avanti, e Kramer proseguì nelle sue vigorose lamentele, passando dalla minaccia di denuncia alle urla inarticolate, fino ad avventarsi di peso contro la porta e a prenderla a calci. Alla fine, si rannicchiò a terra, sul materasso, in lacrime. Langton fece segno che la cella poteva essere finalmente aperta. «Posso lasciarti qui tutta la notte, ma se parli ti faccio riportare subito dov'eri. Dipende da te, Vernon.» «Posso avere una tazza di tè?» Kramer aveva una strana espressione, completamente priva di conflittualità. Si alzò e con voce appena percettibile disse: «Sapevo che non era finita». Anna costruì un garage con i mattoncini di legno e vi parcheggiò un paio di automobiline. Keith, il figlio di Gail, nell'ora trascorsa in sua compagnia, non aveva ancora detto una sola parola. Rimase in piedi con la schiena
al muro, anche quando Anna, con il materiale a disposizione, si mise a costruire una caserma dei pompieri e una casa. Alison, l'assistente del centro di accoglienza, la osservava, al limite della pazienza. Anna distrusse il garage e costruì un recinto per animali. Con dei buffi grugniti, vi sistemò due maiali di plastica. Keith si staccò dalla parete e andò a sedersi accanto ad Anna. Fu un momento elettrizzante. Fino ad allora era rimasto così chiuso nel suo silenzio da sembrare inavvicinabile. Senza dire una parola, cominciò a costruire con i mattoncini altri recinti squadrati. Quindi, indicò i due maiali di plastica. Lei glieli porse, e lui li collocò nei recinti appena creati. «Oink, oink», fece Anna. Non avrebbe mai dimenticato l'espressione con cui lui la guardò, tenendo nella mano lentigginosa uno dei maialini. Keith aveva i capelli rapati a zero per via dei pidocchi e pareva più grande e forte della sua età. Dallo sguardo, però, traspariva chiaramente la sofferenza. «Mamma», disse. «Ti ricordi questo posto? Non davi mai da mangiare agli animali? C'erano anche le galline e un pollaio.» Keith annuì e si mise a costruire qualcosa. Era molto concentrato e sceglieva i mattoncini con cura, sempre senza aprir bocca. Un'altra assistente, più giovane e meno esperta di Alison, porse alla collega alcuni appunti. Si appartarono per qualche istante a confabulare, mentre il bambino stava cercando tra le varie automobiline di cui era cosparsa la sala giochi quella che forse più gli interessava. Sembrava molto attento, e scartava una macchina dopo l'altra, finché non ne trovò una bianca e rossa che sistemò accanto alla casa da lui costruita. Fu un'operazione lunghissima. «È casa tua?» gli domandò Anna. Lui la fissò e andò a prendere un bus rosso e, tenendolo tra le mani, restò lì in piedi, immobile. «Ah, un bus. Sei stato su un bus?» «Sì.» «Sai dove si trova questa casa?» Il bambino guardò la casa che aveva costruito e all'improvviso, con rabbia, la distrusse a calci, calpestando poi i mattoncini. Si inginocchiò sulla moquette e, posatovi il bus, cominciò a farlo andare avanti e indietro. «Sei andato con Joseph? Sei scappato da questa casa con Joseph?» Era una situazione frustrante, ma anche emotivamente molto faticosa: il bambino era tesissimo, irraggiungibile, eppure sul punto di dire qualcosa,
forse. Le sue labbra si mossero come se stesse per parlare, ma all'improvviso il piccolo si ritirò con il bus in un angolo della stanza, rifiutandosi addirittura di guardare verso Anna, che a quel punto si alzò in piedi e guardò le assistenti. «Grazie», disse. E poi aggiunse: «Forse è meglio che vada». Alison la seguì: aveva capito che Anna era turbata. «Ci vorrà molto tempo. Se darà altri segnali, la chiameremo senz'altro. Lei, almeno, è riuscita a smuoverlo, a farlo interagire.» «È straziante», disse Anna, voltandosi verso il bambino rannicchiato nell'angolo con il bus. «Sì. Abbiamo cercato di portar qui la nonna: per due volte ha promesso che sarebbe venuta e poi non si è fatta vedere. Il peggiore dei comportamenti. Non credo che voglia essere coinvolta. Noi, ovviamente, non avevamo detto ai bambini che sarebbe venuta a trovarli. Abbiamo imparato che è meglio non fare promesse.» «Che ne sarà di questo ragazzino e di sua sorella?» «Stiamo aspettando di trovare una famiglia adottiva adeguata, ma dovrà essere proprio una famiglia speciale.» «Verranno tenuti insieme?» «Non so dirglielo. Assumere la tutela di un bambino come Keith è una scelta molto difficile; sua sorella sta dando segnali incoraggianti, anche se per il momento non ha ancora detto una parola.» Si avviarono alla porta, parlando a bassa voce, per evitare che il bambino le udisse. «La bambina non ha subito violenza sessuale, vero?» «Non ha subito penetrazioni, ma è stata costretta a rapporti orali. Usiamo delle bambole, in questi casi... ma lei sa già come lavoriamo.» «Mio Dio...» Anna chiuse gli occhi, prossima alle lacrime. Avrebbe voluto gridare di affidarlo a lei. Dal punto di vista pratico era assolutamente improponibile, eppure lei era così angosciata e sconvolta: sentiva l'esigenza di prendersi cura di quei due piccoli indifesi. Sapeva che molte famiglie adottive provavano gli stessi suoi sentimenti, ma ben poche erano preparate ad accogliere bambini così traumatizzati; ancora più triste era il fatto che i fratelli, a volte, venivano separati. Anna stava stringendo la mano di Alison quando l'altra assistente sociale, che era in precedenza entrata nella sala giochi, comparve all'improvviso, concitata. «Alison, vieni, presto!» disse. «Che cosa succede?»
«Stava usando le matite colorate e ha cominciato a scarabocchiare sul muro. Gli ho detto di ridarmi la matita, e lui si è messo a fare pipì nell'angolo della stanza. Io mi sono avvicinata - non per rimproverarlo, solo per portarlo al bagno - e lui...» Alison si voltò di scatto e corse via. Anna, dopo una breve incertezza, la seguì. La porta era socchiusa. Il bambino stava strillando, scalciando e agitandosi; poi, come se tutta la sua energia si fosse esaurita, corse tra le braccia di Alison, piangendo. Lei si sedette e lo cullò dolcemente. «Va tutto bene. Nessuno ti farà male. Sei al sicuro, ora. Sei un bravo ragazzo.» Anna sussultò. La giovane assistente sociale le era arrivata alle spalle all'improvviso. «Grazie a Dio... Finalmente.» Richiuse piano la porta. «Non capisco. In che senso?» «Sta piangendo e lascia che Alison lo coccoli: significa che siamo riusciti a rompere il ghiaccio.» «Vuol dire che forse riuscirete a parlare con lui?» «Può darsi.» La porta si riaprì. Alison chiese del succo d'arancia e dei biscotti, oltre a un paio di mutande pulite. Guardò Anna quasi con irritazione. «Ora lei non può parlargli», disse. «Non me lo chieda neppure.» Vernon Kramer era seduto con la testa fra le mani e i gomiti posati sul tavolo. Pareva in pessima forma. Langton era seduto di fronte a lui. Lewis alla sua destra. Kramer aveva parlato per più di un'ora e adesso era scosso da tremiti. Langton consultò l'orologio. Erano quasi le quattro. Prese i propri fogli e scarabocchiò un appunto. Lewis guardò il foglio e lesse: «"Non ha ancora detto tutto"». «Che cosa mi succederà, adesso?» Langton spiegò che gli avrebbero assegnato un difensore d'ufficio, ma lui sarebbe rimasto alla stazione di polizia finché non avessero formalizzato le accuse. «Ma io non ho fatto niente.» «Tu stai nascondendo informazioni di vitale importanza, Vernon. Se avessi rivelato per tempo quel che sai...» «Io non c'entravo niente, lo giuro davanti a Dio. Io stavo solo cercando di non inguaiarmi. Non è giusto. Io avrei potuto dirvi dov'era la casa, ma a quest'ora sarei morto.»
«All'inizio di questo interrogatorio hai rifiutato di avvalerti di un avvocato, dico bene?» Kramer guardò prima il registratore e poi Langton. «Voi, però, mi avevate proposto un patto.» «So bene quel che ti ho proposto, Vernon, e il patto prevede che tu sottoscriva una testimonianza formale.» «Non voglio avvocati del cazzo.» «L'hai voluto tu.» Langton si alzò in piedi. «Se c'è qualcos'altro di cui hai voglia di parlare, questo è il momento. Se pensi di avere anche solo una speranza di restartene tranquillo in libertà vigilata, ti ricrederai presto.» «Non potete farmi questo.» Langton sorrise e, con gentilezza, propose una scommessa. Quindi, voltandosi verso Mike Lewis, disse: «Fa' in modo che lo riportino giù in cella». «No, non ributtatemi in quel buco», belò Kramer. «Sarà comunque molto più comodo di dove stai rischiando di andare a finire.» «In una bara! Ecco dove finirò per colpa di voialtri stronzi!» Lewis non sapeva come regolarsi, ma si alzò in piedi. Non capiva se il suo capo avesse parlato sul serio e attese un segnale, ma Langton gli rivolgeva le spalle e consultava i propri appunti. Lewis uscì. Langton guardò il registratore. «Perché resti agli atti, l'ispettore Mike Lewis ha appena lasciato la sala dell'interrogatorio: sono le sedici e quindici.» Spense l'apparecchio. A sorpresa, afferrò la tavoletta di compensato che teneva insieme i fogli dei suoi appunti e con essa, di piatto, colpì Kramer al volto, per poi tornare a posarla sul tavolo, come se nulla fosse successo. «Ti concedo due minuti, Vernon.» Mentre Kramer era ancora sbalordito, Langton gli sferrò un calcio tra le gambe che fece quasi cadere all'indietro il malcapitato con tutta la sedia. Vernon si portò le mani ai testicoli con un'espressione di atroce sofferenza. «Un minuto», disse Langton, senza mai distogliere lo sguardo da quell'uomo terrorizzato e madido di sudore. «Parla, stronzo! Dimmi quel che sai di Clinton Amadou!» Kramer serrò gli occhi. «È tutta colpa di quel bastardo di Murphy: ha cercato di ricattarlo.»
Langton entrò furibondo in sala operativa. Anna era appena rientrata ed era seduta alla sua scrivania. «Si va alla casa di Peckham tra cinque minuti», sibilò lui, prima di richiudersi con violenza alle spalle la porta del suo ufficio. In sala operativa arrivò Lewis. Anna gli domandò che cosa fosse accaduto. «Vernon è giù in cella: quello stronzo ci aveva mentito su tutta la linea. Ci sono volute ore, ma...» Prima che potesse finire la frase, Langton, dal suo ufficio, gli urlò di raggiungerlo. Lewis non lo aveva mai visto così infuriato. «Ce l'avevamo sotto gli occhi fin dall'inizio delle indagini, e noi, invece, ci siamo fissati sulla questione degli immigrati clandestini che Amadou usava per importare droga. Usava anche donne e bambini. E questi poveracci non solo pagavano fior di soldi per lasciare il loro paese, bensì erano costretti a ingoiare preservativi pieni di eroina. Li sceglieva tra i profughi più disgraziati - nel Nord dell'Uganda, in Somalia, in Giamaica... - promettendo loro che si sarebbe preso cura delle loro famiglie. Joseph Sickert era uno di questi, arrivato nel Regno Unito cinque anni fa. Lavorava per Amadou, ed era stato mandato al bungalow di Gail per tenere a bada Arthur Murphy, perché quest'ultimo, latitante dopo l'omicidio di Irene Phelps, aveva minacciato di parlare con la polizia, se Amadou non lo avesse fatto espatriare.» A bordo della volante, Langton proseguì nella ricostruzione del puzzle. «Amadou ha a disposizione una specie di esercito, persone che hanno paura di lui. Ne ha usate diverse come prestanome per aprire chissà quanti conti in banca, ma il grosso del suo patrimonio è in contanti. È un maniaco del controllo, ma dopo aver assassinato Carly Ann North ha perso la testa: sappiamo come ha manovrato i due fratelli Krasinique e Rashid Burry... Qualcuno, però, gli ha messo i bastoni tra le ruote: Sickert. Mandato al bungalow di Gail per rintracciare Arthur Murphy, instaura con lei una relazione e, quando Murphy viene arrestato, si rifiuta di tornare alla base. Rashid Burry, allora, va al bungalow per ammonirlo, vede i bambini di Gail e dice a Sickert che Amadou lo avrebbe ricompensato se lui glieli avesse portati.» Langton si massaggiò il ginocchio, con un'espressione di intensa sofferenza. «Bambini bianchi... Molto apprezzati... Sickert, però, si è ormai innamorato di Gail e decide di proteggere i bambini. Non dimentichiamo che
era malato. Non sappiamo se sia stato lui a uccidere il marito di Gail; di certo, però, commette il grave errore di chiedere a Rashid Burry i farmaci di cui ha bisogno.» Langton scosse la testa. «La mia è una supposizione, ma forse Sickert voleva uscire dal giro... Chissà... In ogni caso, comunque siano andate le cose alla porcilaia, non credo che Sickert sia coinvolto negli omicidi. Di sicuro se n'è andato con i due bambini più grandi.» Si voltò verso Anna. «Hai saputo qualcosa da loro?» «No. Il bambino è ancora in uno stato di grave shock; la bambina non spiccica una parola. Hanno entrambi subito abusi sessuali.» Langton sospirò. «Magari, mi sbaglio: può anche darsi che Sickert abbia consegnato i bambini ad Amadou. Sappiamo, infatti, che la Range Rover è stata alla porcilaia.» L'auto su cui viaggiavano accostò al marciapiede davanti alla casa di Peckham, dove ancora sostavano altre volanti, furgoni della Scientifica e addetti vari. «Quella merda di Kramer conosceva bene questo posto. Ci saremmo arrivati molto prima, se ci avesse aiutato.» Langton sbatté la portiera e si avviò verso la casa. Anna e Lewis lo seguirono. Brandon li guidò all'interno, illustrando loro le prove e gli elementi raccolti; quindi, scesero in cantina. Langton si guardò intorno. Nessuno aprì bocca. Restarono lì per circa mezz'ora, dopo di che tornarono alla stazione di polizia sempre senza dir nulla. Le atrocità accadute in quella casa pesavano su di loro come macigni. Langton sospirò e chiuse gli occhi. «Amadou ha avuto tutto il tempo di fare con comodo. Ora potrebbe essere dovunque, sotto chissà quale falso nome. Si è sbarazzato di tutti i potenziali accusatori e, con i soldi che ha accumulato, sarà forse definitivamente fuori dalla nostra portata.» 20. Il laboratorio della polizia scientifica stava lavorando a pieno ritmo da più di una settimana. C'erano da analizzare sei diversi campioni di DNA prelevati dall'altare insanguinato; se ne sarebbero trovati altri, probabilmente, se la pietra non fosse stata strofinata con il disinfettante. Al rotolo di sacchi neri di plastica ritrovato nella casa di Peckham erano stati ricondotti sia quelli con cui era stato avvolto il cadavere di Rashid Burry sia
quello che aveva contenuto il bambino trovato morto nel canale: l'ennesimo omicidio attribuibile ad Amadou. Furono analizzate le tracce organiche rinvenute tra le lenzuola, nelle camere da letto: due di questi campioni corrispondevano al DNA di Carly Ann North; uno a Idris Krasinique; un altro non compariva nei database della polizia, così come la terza impronta digitale rilevata sulla Range Rover bianca. La squadra era in possesso di una gran mole di prove inequivocabili sul conto di Amadou, ma non avevano idea di dove potesse essersi nascosto. I fogli semicarbonizzati erano pieni di cifre, ma di conti bancari intestati ad Amadou non ne esistevano, e la banca di zona, a Peckham, non aveva clienti che corrispondessero alla sua descrizione. Fu messa sull'avviso anche la squadra Narcotici, perché ogni giorno, negli aeroporti, venivano arrestati trafficanti di droga e presunti immigrati illegali che potevano essere, in qualche modo, legati a Amadou. Siccome gli aeroporti, però, da qualche tempo erano molto ben sorvegliati, sussisteva ancora la possibilità che il ricercato numero uno fosse nel Regno Unito. Langton era in uno stato d'animo di gelida rabbia. Spesso, la sua frustrazione tracimava, e a subire i suoi scatti di nervi e di aggressività erano i suoi sottoposti. Gli esiti dell'autopsia di Sickert confermarono che il decesso era stato causato dall'insufficiente funzionalità di svariati organi vitali e da una malattia cardiaca cronica. L'anemia aveva a poco a poco minato il suo fisico. Anna osservò la fotografia di Sickert appuntata sulla bacheca. Poi, il suo sguardo fu attratto dall'immagine del bambino ritrovato nel canale. Quasi soprappensiero, andò a prendere il dossier relativo a Sickert. La piccola fotografia della donna e dei due bambini, troppe volte spiegata e ripiegata, era custodita in una busta di plastica trasparente. La estrasse dalla cartelletta e andò nell'ufficio di Langton. «Magari non ha importanza, ma questi bambini... Uno è maschio e potrebbe essere coetaneo del bambino ritrovato nel canale.» Langton alzò gli occhi e la guardò. «Ora abbiamo il DNA di Sickert», proseguì Anna. «Se stiamo cercando un movente per la decisione di Sickert di aiutare i due figli di Gail...» «Non è che li abbia tanto aiutati, o no?» «Alla fine li ha portati all'asilo... Se Amadou ha fatto del male ai figli di Sickert, questi avrebbe avuto ragione di...» «Sì, verifica pure, ma non credo che ne caveremo elementi utili alla cattura di Amadou. Sarà solo l'ennesimo anello della catena!» Anna uscì e, nonostante riconoscesse la correttezza dell'osservazione di
Langton, decise di far eseguire queste analisi. Non appena ebbe riagganciato, le squillò di nuovo il telefono. Era Alison, dal centro d'accoglienza per l'infanzia. «Volevo dirle che stiamo facendo grandi progressi con Keith», disse. «Abbiamo anche trovato una persona disposta a adottare sia lui sia la sorella. È qui con i bambini, adesso, per familiarizzare un po'. Li porterà a casa alla fine della settimana.» «Posso venire lì a parlare con Keith?» «Sì, chiamavo appunto per questo. Inutile ribadire che la situazione del bambino è molto precaria. Non posso permetterle di interrogarlo troppo a lungo, e se Keith darà segni di stress le toccherà aspettare.» Anna aveva la pelle d'oca quando posò la cornetta. Tornò nell'ufficio di Langton per aggiornarlo. Lui sospirò. «D'accordo. Vuoi che qualcuno ti accompagni?» «Sarà meglio che vada da sola; il bambino mi conosce.» «Buona fortuna, allora», le augurò, tornando a occuparsi delle proprie carte. Langton stava consultando le dichiarazioni rilasciate da Courtney Ransford, il compagno di cella di Eamon Krasinique. Ancora non si conosceva l'identità dell'uomo che era andato a trovarlo in carcere. Ransford si era rifiutato di collaborare, limitandosi a dire che non conosceva il visitatore, e la morte di Eamon non era servita a sciogliergli la lingua. Langton convocò Harry e gli disse di fare un ultimo tentativo, insieme a Brandon. «Ha confermato di non conoscere l'uomo che è andato a trovarlo e si è detto sorpreso della visita. Ha anche negato di aver fatto da tramite per il veleno. Non potremmo mettergli addosso un po' di pressione? È in attesa di processo come individuo pericoloso per aver aiutato Krasinique a uccidere Murphy: rischia da dodici a vent'anni, diciamo. Se si aggiungono quelli che gli toccherebbero in caso di incriminazione per avvelenamento, potrebbe restare dietro le sbarre a lungo.» Harry scosse la testa. «Non so... a questi stronzi sembra non fregare un cazzo di niente. D'altronde, perché dovrebbero preoccuparsi? Hanno tre pasti garantiti, palestra, TV, lezioni di computer...» «Basta, Harry. Va' pure», tagliò corto Langton. Alison andò incontro ad Anna nell'atrio del centro d'accoglienza e le disse che Keith era in una sala giochi, che Anna trovò più grande di quella da
lei già vista: un vasto open space con molti giocattoli in un angolo e una console per i videogiochi. Keith pareva trasfigurato: era in piedi davanti alla macchina e giocava con un altro bambino. Stavano strillando entusiasti. «Keith, hai voglia di venire a parlare un po' con Anna?» Keith continuò a giocare. Poco dopo, prese a fare salti di esultanza, battendo le mani. Evidentemente, aveva vinto! Si voltò verso Anna con gli occhi che gli brillavano e le guance rosate per la concitazione. «Questa signora è un'ispettrice della polizia», disse Alison. «Ti ha portato qualcosa di davvero speciale.» «Che cosa?» domandò lui, come avrebbe fatto qualunque bambino curioso. Anna si sedette a un tavolino. Alison prese una sedia per Keith, ma lui rimase in piedi. «Che cos'hai portato?» ripeté. Anna prese un portafogli di plastica nera dall'aspetto perfettamente autentico. «È un distintivo da ispettore, Keith, come quello dei veri poliziotti. Di quelli in borghese, però, non in divisa. Ho anche un vero bloc notes e una matita, così potrai prendere appunti.» Keith si sedette. Passò un dito sul distintivo e poi aprì il blocchetto. «Ti servirà quando dovrai interrogare qualche individuo sospetto. Devi sempre prendere appunti, per non dimenticare nulla.» «E le manette le hai?» «Be', posso procurartele, ma prima dobbiamo metterti alla prova, per vedere sei puoi davvero diventare un investigatore. Devo capire se sei capace di arrestare qualcuno.» Keith annuì. «Lo sai che cosa significa arrestare qualcuno?» «Sì, mettere in prigione i cattivi.» «Esatto... proprio così. Tu li interroghi e tutte le informazioni che raccogli le scrivi sul blocchetto. Dopo di che, se sono cattivi, li arresti.» «E gli metto le manette?» «Sì, esatto! Credi di poter diventare un bravo investigatore?» «Sì, ho il distintivo!» «Sì, il distintivo è tuo.» «Posso salire su un'auto della polizia?» «Be', dipende. Dovrò farti alcune domande, e se risponderai avrai le manette e potrai fare un giro sull'auto della polizia.» «E la pistola posso averla?»
«No, gli investigatori non portano la pistola: le armi le usano solo le squadre speciali.» Anna stava improvvisando, ma le cose procedevano come meglio non si poteva. Gli disse di aprire il blocchetto e di tenersi pronto a prendere appunti. «Conosci degli uomini cattivi?» gli domandò. Lui le rivolse una strana occhiata, e Anna ebbe il dubbio di aver accelerato un po' troppo. «Altrimenti, puoi parlarmi dell'ultima casa in cui sei stato? O di una casa in cui, secondo te, ci sono degli uomini cattivi?» Il bambino cominciò ad agitarsi e a rigirarsi la matita tra le mani. «Come si scrive "investigatore"?» «Oh, non preoccuparti se c'è qualche errore. Sarà il tuo codice segreto. Noi scriviamo spesso le parole in modi strani.» Keith si mise a scrivere, con la punta della lingua che gli spuntava tra le labbra serrate, tracciando con estrema cura ogni singola parola. Harry e Frank Brandon erano in attesa nell'area riservata alle visite, in una stanzetta con tre sedie e un tavolino utilizzata dai difensori per conferire con i loro clienti. La porta era dotata di una finestra, in modo che gli agenti potessero sorvegliare i colloqui, senza ascoltare le conversazioni. In un angolo della stanza, all'altezza del soffitto c'era un altoparlante; e anche l'unica finestrella era alta e dotata di sbarre. «Come procediamo?» domandò Brandon, a bassa voce. «Come d'accordo: parlagli chiaramente. Hai cambiato idea?» «No, volevo accertarmi che ci fossimo suddivisi i ruoli nel migliore dei modi.» «Non riattaccare, ti prego», disse Harry, cogliendo un rumore di passi. Courtney Ransford era massiccio, con le spalle quadrate e un torace da culturista. Quando si fu seduto, l'agente che l'aveva scortato gli tolse le manette. «Grazie per aver accettato di parlare con noi», disse Brandon, con cortesia. Ransford si strinse nelle spalle, quando l'agente uscì dalla stanza. «Qualunque cosa, pur di spezzare la monotonia... Di che cosa si tratta?» Poi, però, quando Brandon aprì il taccuino, aggiunse: «Se ha a che fare con quello stronzo di Arthur Murphy, però, non intendo rispondere. Mi avete interrogato così tante volte che ho perso il conto. Perché non riconoscete anche voi che è stato un lavoro ben fatto? Murphy era un maniaco sessuale». «Non sai come sono d'accordo...» disse Harry, e non mentiva.
«Dovrò andare in tribunale per colpa sua... Stronzi.» Courtney fletté i muscoli. «Lo sai che Eamon Krasinique è morto?» «Sì... In ogni caso, era completamente pazzo.» Brandon tossicchiò e si sporse in avanti. «Tu rischi dai dodici ai vent'anni di galera per concorso nell'omicidio di Arthur Murphy, e io sono qui per avvertirti di un'altra possibile incriminazione che ti costerebbe altri anni di galera.» «E per che cosa!?» «Per l'omicidio di Eamon Krasinique.» «Ehi, un attimo! Come sarebbe a dire?» «Sono qui appunto per parlare...» disse Brandon. «Di che cazzo volete parlare?» «...di come hai avvelenato Eamon Krasinique.» Harry prese a tamburellare sul tavolo. «Io ero con lui quando è morto. Mi ha detto che gli avevi dato una roba che si chiama... Jimson weed o stramonio. È un veleno... molto potente.» «Col cazzo! Non è vero! Se ne stava tutto il tempo a fissare la parete, ma io non c'entro nulla!» «Abbiamo la sua dichiarazione e gli esiti dell'autopsia. Gli hanno somministrato questo veleno in carcere, e tu eri il suo compagno di cella; abbiamo anche accertato che è venuta a trovarti una persona che, secondo noi, ti ha passato...» «Che cazzo! Questa ve la siete inventata! Non ci posso credere...» Harry protese il dito indice. «Be', ti conviene crederci, perché avrai un mucchio di guai per la storia di Arthur Murphy... e a quelli rischi di dover aggiungere altri dieci anni! Io, comunque, sono qui per aiutarti. Mi serve soltanto la verità. Chi era la persona che è venuta a trovarti? E che cosa ti ha dato?» «Oh, Cristo! Io quel tizio neanche lo conoscevo! La guardia mi ha fatto segno che avevo visite. Non ti dicono mai chi è. Io avevo pensato che fosse un avvocato e, come dicevo, ogni occasione è buona, pur di uscire dal braccio...» «Sì, ma Eamon Krasinique è morto, e tu sarai accusato del suo omicidio.» «Col cazzo!» «Mi spiace, ma sei fottuto.» Courtney scuoteva la testa. Prese a tendere i muscoli che parevano di e-
bano e si scrocchiò le nocche. Stava chiaramente cedendo: aveva la fronte madida di sudore. «Noi crediamo che ti abbiano offerto dei soldi o altro perché tu somministrassi la dose letale a Krasinique. Ora siamo sul punto di arrestare un certo Amadou... L'hai mai sentito nominare?» Courtney lo guardò con gli occhi sbarrati. Harry continuò su quella linea. «È un trafficante di droga e di immigrati. Ha un mucchio di soldi e di agganci. Voleva che Murphy fosse eliminato perché lo aveva ricattato.» Courtney deglutì a fatica e scosse la testa. «Io non ne so niente, giuro.» «Conosci questo Amadou? Clinton Amadou.» Courtney, all'improvviso, si coprì il volto con le mani. «Oh, merda! Merda!» «Hai ancora dei parenti in Uganda?» Courtney si afferrò il setto nasale con due dita; era sull'orlo del pianto. Annuì. «Spero solo che non siano dei bambini», disse Harry. «Lo sai che cosa fa questo Amadou ai bambini? Hai letto di quel ragazzino ritrovato senza testa in un sacco della spazzatura nelle acque del Regent's Canal? Amadou fornisce bambini ai maniaci. Quindi, Courtney, spero vivamente che tu non faccia venire qui i tuoi figli tramite quel lurido bastardo. Allora, vuoi dirci qualcosa?» Courtney sbatté la mano aperta sul tavolo. «Sì, sì, parlo.» Langton, al telefono, ascoltò Anna con un'espressione quasi incredula. «Te ne do un'intera squadra, di volanti della polizia, se è quel che serve per smuovere il ragazzino, dolcezza!» disse, per poi rimettersi in ascolto, massaggiandosi il mento. «Tutto quello che vuoi. Fa' con calma: potrebbe essere una svolta decisiva.» Langton tornò in sala operativa di ottimo umore, proprio mentre rientravano Brandon e Harry. Quest'ultimo agitò in aria un foglio. «Ebbene?» domandò Langton ansioso. Harry e Brandon, sorridendo come due bambinetti, gli passarono la dichiarazione di Ransford. L'ex compagno di cella di Eamon Krasinique aveva detto la verità sul fatto che non conosceva la persona che era andata a trovarlo in carcere. Ransford però non aveva mai ammesso, in precedenza, che il visitatore gli
aveva offerto un patto: siccome lavorava per gente importante, il misterioso visitatore gli aveva promesso di portare in Inghilterra la moglie e i suoi due figli... in cambio di qualcosa. Harry sollevò due dita. «Ha dovuto far mangiare a Krasinique due tortine di cocco.» «Che cosa?» «Sì, il visitatore gli aveva detto che avrebbero fatto sballare Krasinique. Courtney doveva dire che gliele aveva mandate il fratello. Dopo di che avrebbe dovuto aiutare Krasinique a regolare i conti con Arthur Murphy, cercando di farla sembrare una normale lite tra detenuti. Alla fine, però, Eamon aveva ingerito così tanto stramonio da non riuscire più a controllarsi, e gli ha tagliato la gola in cortile.» Langton guardò i due compari sogghignanti e scrollò le spalle. «Fantastico... ma che cosa ce ne viene, a parte la storia delle tortine di cocco? Sapevamo già che quello stronzo era in qualche modo implicato; questa non è che la conferma.» Brandon sollevò di nuovo la mano. «C'è dell'altro. Ransford sta aspettando notizie sui suoi figli. Cioè quando arrivano...» «Ci abbiamo ricamato un po' sopra», disse Harry. «Gli abbiamo rifilato la storia secondo cui noi staremmo per arrestare Amadou... e lui ci ha dato questo: è un numero di telefonino. Ci ha detto che lui l'ha chiamato due volte e ha parlato con questo tizio. Per questo lui ha accettato di aiutare Krasinique a uccidere Murphy e ha taciuto fino a oggi: per la moglie e i figli.» «Cristo! Quel numero è ancora attivo?» «Crediamo di sì, perché Ransford non aveva ancora detto nulla dell'avvelenamento con le tortine di cocco. Gli ho imposto di non richiamare finché non avessimo catturato il tizio.» «Vi ha fornito una descrizione?» «Sì. Nero, vestito bene, sopra il metro e ottantacinque, ricco sfondato. Indossava un completo grigio, camicia bianca. Ransford dice che all'inizio l'aveva preso per un avvocato, perché ne aveva tutto l'aspetto.» Langton si fregò le mani: a quanto pareva, i nodi cominciavano a sciogliersi. Il cellulare era ancora in funzione, ma non potevano sapere a chi apparteneva perché era uno di quegli apparecchi con carta prepagata. Si misero in contatto con la squadra di Scotland Yard specializzata nella localizzazione degli apparecchi telefonici in funzione: bisognava sperare solo che la
telefonata durasse abbastanza a lungo. Anna si sentiva esausta: era in compagnia di Keith da un'ora e mezzo. Sia pur con una lentezza esasperante, era riuscita ad acquisire da lui informazioni più dettagliate. Aveva evitato con cura di parlare della madre del bambino o di Joseph Sickert, attenendosi rigorosamente ai «cattivi» che lui poteva arrestare se si fosse ricordato dove abitavano. Anna aveva provato a nominare le zone percorse dall'autobus di cui Sickert aveva conservato i biglietti - Tooting, Clapham - ma senza esito. Aveva tralasciato Peckham per timore che Keith potesse reagire male. Gli aveva fatto semplici domande sulla «casa dei cattivi», sulle sue dimensioni, sulle automobili, sul giardino. Keith ricordava un grosso cane legato alla catena, di cui non aveva saputo specificare la razza; avevano parlato per un po' di cani, dopo di che lei aveva di nuovo cercato di farlo parlare della casa. Non corrispondeva alla villa di Peckham. Keith era stato portato altrove. Regent's Park, Hampstead, Croydon, Maida Vale, Kilburn e Chalk Farm non avevano suscitato in Keith la minima reazione, e Anna aveva cominciato poco per volta ad allargare il cerchio intorno a Londra. A un certo punto il bambino chiese se con la volante potevano portarlo al parco a tema. Descrisse la giostra sull'acqua e un poligono di tiro dove, quando sparavi, il fucile ti spruzzava l'acqua in faccia. Anna gli domandò se in quella casa ci fosse arrivato in treno o in autobus. «In auto», disse, ma cominciava a dare segni di impazienza e volle sapere quando gli avrebbero dato le manette. La giovane assistente sociale, che aveva ascoltato tutto il colloquio, decise di dire la sua. «Non era Chessington? Lì c'è un parco a tema.» «E c'è anche lo zoo», disse Keith. Disse che aveva dato da mangiare ai pinguini. Descrisse le scimmie, gli scimpanzé e due tigri. Langton stava ascoltando. Anna era sicura che la seconda residenza di Amadou sorgesse nei dintorni di Chessington. Langton le domandò se avesse fatto il nome di Amadou al bambino, e lei rispose di no: temeva che qualsiasi accenno, anche indiretto, agli abusi subiti potesse bloccare il piccolo Keith. Langton, a sua volta, la mise al corrente del numero di cellulare fornito da Ransford, forse riconducibile in qualche modo ad Amadou. Avevano già selezionato un agente dall'accento identico a quello dell'ex compagno
di cella di Eamon Krasinique e stavano attendendo il momento più opportuno per effettuare la chiamata... nella speranza di trattenere l'interlocutore misterioso al telefono per il tempo necessario a localizzarlo. Anna era emozionatissima: il viso del bambino si illuminò, quando fu condotto alla volante. L'agente in divisa che fungeva da autista si tolse il berretto e lo salutò. «Buongiorno, signore.» Keith si sedette sul sedile davanti, dato che era un investigatore, mentre Anna e Alison si accomodarono dietro. Gli fu consentito di usare la radio della polizia, perché dalla centrale continuavano a chiamarlo. «Investigatore Keith! Investigatore Keith!» Anna vide nello specchietto retrovisore l'auto di scorta senza contrassegni che li seguiva da vicino. Il telefono suonò per un tempo che parve interminabile. «Sì?» L'agente prescelto attaccò a parlare con un tono basso e ruvido, con lo stesso accento di Courtney Ransford. «Sono in gabbia, amico. Mi restano solo dieci minuti di credito sulla carta telefonica. Ci sono novità? Devo saperlo, perché oggi è successa una cosa assurda, amico. Io sto aspettando il processo per l'omicidio Murphy, giusto? Be', arrivano 'sti due stronzi che cominciano ad accusarmi, dicendo che sono stato io a passare la roba... quelle cazzo di tortine che ho dato a Eamon! Mi senti?» «Ti ho detto che andrà tutto bene. Certi problemi organizzativi richiedono tempo. Ci sono molti controlli negli aeroporti, bisogna stare attenti. Qual è il problema?» La voce era gentile, educata, con un piccolo strascichio nella pronuncia. «Vogliono sapere di quella cazzo di erba... Dicono che Eamon Krasinique ha parlato e mi ha accusato.» «Non può averlo fatto.» «Ti sto solo dicendo quello che è successo.» Il cellulare a cui avevano telefonato era in movimento; forse, l'interlocutore era a bordo di un'auto. Risultava essere a Epsom. L'agente continuò a parlare, e i tecnici di Scotland Yard dissero che il segnale arrivava dalle immediate vicinanze dell'ippodromo. Epsom non era lontana da Chessington, ma la zona da perlustrare era comunque piuttosto estesa. In entrambe le località c'erano moltissime case isolate, alcune addirittura dotate di ac-
cessi nascosti e sistemi di sicurezza sofisticati. La descrizione di Keith non era chiarissima, ma cinque minuti dopo, quando la chiamata si interruppe, diventò l'unico elemento a loro disposizione. Langton convocò anche gli agenti della polizia locale oltre a tutti gli elementi della propria squadra. Passare la zona al setaccio sarebbe stato un lavoro da incubo. La descrizione della casa fornita da Keith fu diramata alle stazioni di polizia di Chessington, Epsom e Leatherhead. Langton coordinava le ricerche. Chiese di non far uso di sirene - solo auto civili - e di fare attenzione alle comunicazioni via radio. Amadou era senz'altro in possesso di apparecchiature capaci di sintonizzarsi sulle frequenze della polizia. Furono consultati anche gli agenti immobiliari delle zone interessate. Langton era in piena azione. Keith continuava a chiacchierare: riconobbe le indicazioni per Chessington sulla A3, ma non ricordava quando avessero lasciato l'autostrada o quale direzione avessero preso. Proseguirono verso il parco a tema, mentre le altre auto si sparpagliarono sul territorio circostante. Anna cominciava a essere preoccupata. Keith era stanco: sembrava aver perso interesse per quel che c'era fuori dal finestrino e trafficava con la radio. Alison gli domandò se non volesse sedersi sul sedile posteriore, ma lui rispose che voleva una Coca-Cola. Accostarono al marciapiede davanti a una breve fila di negozietti, e Alison scese per comprare la bibita. Ci vollero pochi minuti, ma Anna era in tensione: erano a bordo di una volante della polizia. Si allontanò di alcuni passi per telefonare a Langton e gli disse che sarebbero rientrati. «Dobbiamo insistere», rispose lui. «Ha descritto due auto: una grossa quattro porte e una bassa, sportiva e rossa... forse una Ferrari.» «Sì, sì, la sbarra all'ingresso, il recinto del cane, le alte recinzioni, le grandi siepi...» Gli venne il sospetto che forse sarebbe stato meglio aspettare. Anna tornò all'auto e chiese al guidatore di invertire la marcia e di tornare sull'autostrada. Alison si sporse in avanti. «Keith, caro, tieni diritta la lattina: stai sbrodolando.» «C'è un cattivo. Voglio le manette», disse il bambino, con grande serietà. A quel punto la volante aveva già girato. Videro un uomo che usciva dal
negozietto con un sacchetto della spesa. Prese la copia dell'«Evening Standard» che teneva sotto il braccio e la dispiegò. «È un cattivo!» strillò Keith. «Lascia che vada io a controllare», disse Anna, mentre la volante rallentava per farla scendere. Chiese ad Alison di calmare Keith e al guidatore di proseguire. Anna sapeva come comportarsi: aprì il telefonino e cominciò a parlare mentre era ancora in attesa che le passassero Langton. «Tu avevi detto che saresti andato a prenderla a scuola, James! Io sono ai negozi... Sì, posso, ma adesso è lì che aspetta fuori dai cancelli.» Il presunto cattivo continuò a leggere il giornale e svoltò a sinistra dopo l'ultimo dei negozi. Aveva dato un'occhiata ad Anna, ma l'aveva classificata come una madre preoccupata qualunque. «Pronto, che cosa c'è?» disse Langton, giunto finalmente al telefono. «Forse abbiamo trovato: il bambino si è agitato tantissimo. L'obiettivo è a tre metri da me e sta svoltando in un vicolo cieco: Edge Lane. È basso, scuro di pelle, completo elegante, occhialini senza montatura.» Anna riprese a gesticolare come una pazza, come se ancora stesse litigando al telefono, e intanto l'individuo sospetto sbucò in auto dal vicolo cieco, si fermò per lasciar passare un ciclista e poi girò a sinistra, allontanandosi. Anna fornì una descrizione dell'auto: Mitsubishi nera, targata 345-A. Anna attraversò la strada, mentre la volante invertiva nuovamente la marcia per andare a prelevarla, e risalì a bordo. Keith era in preda a una fortissima angoscia, mostrava le manette e continuava a ripetere che voleva prendere il cattivo e portarlo in prigione. Anna prese la radio e la protese per fargli sentire, questa volta sul serio, il messaggio in arrivo. «Ora ci divertiamo, vedrai.» E la comunicazione arrivò. «Obiettivo avvistato, sta passando ora davanti al Chessington Garden Centre. Passo e chiudo.» Langton guardò Mike che era intento a studiare la mappa; la Mitsubishi era stata individuata sulla A23 mentre procedeva verso Redhill. Si trattava di non perdere di vista l'obiettivo, mentre le varie pattuglie prendevano posizione. L'auto di Anna imboccò un'ampia rotatoria e puntò verso Redhill Lane. Ignaro del pedinamento in corso, l'individuo sospetto proseguì per alcuni chilometri finché non svoltò in un vialetto di accesso a una grande casa con cancellata. Il cancello elettronico si aprì, e si sentì chiaramente
abbaiare. Langton chiamò Anna via radio: lei, Keith e Alison dovevano trasbordare su un'auto senza contrassegni e, poi, passare davanti all'ingresso dell'abitazione sospetta per fermarsi solo al successivo vialetto, dove lo avrebbero trovato in attesa. Keith pareva rinfrancato: gli piacque l'idea di cambiare auto e, come gli disse Anna, di viaggiare in incognito. Alison si sedette con lui sul sedile posteriore. Anna si voltò verso il bambino. «Ora passeremo davanti alla casa che crediamo sia quella che tu ci hai descritto. Dovremo passare senza fermarci, perché il cattivo potrebbe provare a scappare. Mi hai capito?» «Sì.» Il bambino stringeva in pugno le manette. Dieci minuti dopo, anche loro stavano dirigendosi verso Redhill Lane. Passarono davanti ai cancelli elettrici e alle grandi sbarre descritte da Keith. L'auto rallentò; non poterono fermarsi per non svelare l'operazione in corso, ma non ce ne fu neppure bisogno. Il bambino cominciò a singhiozzare, con il torace che gli sobbalzava, e farfugliò in modo appena comprensibile. «I cattivi, lì dentro, mi hanno fatto del male.» Langton era in attesa nel luogo previsto; quando si avvicinò l'auto su cui viaggiava il bambino, gli aprì la portiera. Alison stringeva Keith tra le braccia. «Sei tu l'investigatore che dirige questo arresto?» domandò Langton al bambino. Keith lo guardò: gli era tornata la paura e non aveva più voglia di fare quel gioco. Langton si chinò per mettersi al suo livello. «Keith, ascoltami: andrà tutto bene, sei stato bravissimo, e io chiederò che ti venga dato un riconoscimento speciale per il coraggio con cui ci hai aiutato.» Quando il bambino distolse lo sguardo, Langton non poté trattenere le lacrime e con voce rotta dal pianto disse: «Grazie». Alison e Keith furono riaccompagnati a Londra da un agente su un'auto senza contrassegni. Alison era rimasta impressionata dalla delicatezza con cui tutti avevano affrontato la situazione. Il piccolo, che aveva le guance rigate dalle lacrime, guardava fisso davanti a sé; tra le mani stringeva le manette che avrebbe voluto mettere ai polsi del cattivo. Quando la zona fu circondata, Langton convocò una riunione alla stazione di polizia più vicina per cercare di stabilire quante persone potessero
trovarsi all'interno della casa e quale fosse la strategia migliore per entrare. Presto sarebbe calata la sera. Langton chiese l'invio di un elicottero che, sorvolando la casa con una telecamera a infrarossi, avrebbe fornito un'idea più precisa delle difficoltà dell'impresa. La casa era delimitata, su entrambi i lati principali, da estesi terreni, con circa mezzo ettaro di fitta boscaglia e un laghetto artificiale. Sapevano della presenza di cani, ma ignoravano se fossero liberi o alla catena. C'era una Ferrari rossa, parcheggiata davanti a un doppio garage; subito dietro, la Mitsubishi. Langton stava accendendosi una sigaretta in un corridoio. Anna gli andò incontro. «L'unico posto in cui si possa fumare senza far scattare l'allarme», borbottò lui. «Vogliamo ordinare da mangiare per tutti», disse lei. «Prendi qualcosa?» Lui scosse la testa e la appoggiò al vetro della finestra, aspirando intensamente dalla sigaretta. «Abbiamo chiesto di poter schierare dei tiratori scelti. Appena arrivano, entriamo. Ho aspettato fin troppo.» Lei gli posò una mano sulla schiena, ma non disse nulla. Tornò dagli altri agenti in attesa, con la segreta speranza che Amadou fosse in quella casa. 21. La stazione di polizia di Leatherhead non era mai stata così in subbuglio. C'erano scatole di pizza e cuccume di caffè che giravano vorticosamente. La squadra di Langton aveva preso possesso di una grande sala al pianterreno, che in caso di necessità veniva usata come sala operativa. Si erano procurati una carta della zona, e un'importante agenzia immobiliare locale aveva fornito loro una pianta dettagliata della tenuta sospetta. Questa era stata venduta due anni prima per circa tre milioni di sterline a un certo Emmerick Corso. I precedenti proprietari, i signori Powell, erano rimasti ad abitare nella tenuta, conservando per sé quello che un tempo doveva essere il cottage riservato al personale. Il signor Corso aveva di recente contattato l'agenzia per discutere della linea di confine che attraversava il laghetto. Non avevano ancora avvertito i signori Powell, ma lo avrebbero fatto molto presto. Tutti erano pronti, con l'adrenalina a mille, in attesa delle decisioni di Langton, che li raggiunse e mangiò con loro una fetta di pizza, sia pur sen-
za dir nulla e con un'aria assorta. Alla fine, chiamò Mike Lewis e gli disse di radunare gli elementi chiave della squadra. Aveva bisogno di parlare con loro, e alla svelta. La squadra si riunì in una piccola anticamera della sala operativa principale. Langton si sedette sul bordo di un tavolo. «Ho detto ai tiratori di non muoversi», disse a bassa voce. Anna guardò Mike: pareva sorpreso quanto lei. Langton proseguì. «Dalle riprese effettuate dall'elicottero risultano esserci quattro adulti; i sensori termici segnalano anche la probabile presenza di due bambini. Corso è sposato con un figlio, stando al registro elettorale. Possiede una società che importa manufatti dall'Africa e una serie di proprietà immobiliari, tra cui un magazzino nei pressi dell'aeroporto di Heathrow. Non ha precedenti penali, e il suo profilo non corrisponde a quello del nostro principale indiziato, Amadou. Sappiamo, però, che Amadou, a un certo punto, si faceva chiamare Emmerick. Finché non approfondiremo la questione, questo è quanto si sa.» «Intendi dire che potremmo aver sbagliato persona?» disse Frank, che stava sorseggiando un caffè. «C'è qualcosa che non quadra. Tra questo posto e il girone infernale di Peckham ci sono elementi inconciliabili. Questo tizio, Corso, ha un figlio che frequenta la scuola locale e abita qui da due anni.» «Stiamo parlando dell'individuo riconosciuto dal bambino?» domandò Harry. «L'agente immobiliare ha descritto Corso come alto, elegante, colto e molto gradevole, e questa descrizione non combacia né con quella di Amadou né con quella dell'uomo riconosciuto dal bambino. Amadou è un pazzo che si crede uno stregone voodoo e si circonda di gentaglia e guardaspalle, mentre questo Corso ha l'aria di essere un rispettabile uomo d'affari. Finora non abbiamo elementi contro di lui né contro il nero riconosciuto dal bambino fuori da quel negozietto.» Anna stava bevendo il caffè. Erano già stati al negozio e avevano interrogato il personale, e quell'uomo era risultato essere un cliente quasi regolare. Nessuno, tra i commessi, sapeva come si chiamava. Dissero che abitava nei paraggi. Comprava sempre ottimi vini e liquori e pagava in contanti. Non erano previste consegne di latte o giornali. Per il momento, non c'era stato il tempo di interrogare anche gli altri negozianti della zona o gli abitanti delle case vicine. Langton si accese una sigaretta, ma subito la spense, imprecando, quan-
do vide sopra di sé il sensore dell'allarme antincendio. «La mia sensazione è che questo Emmerick vada tenuto d'occhio con molta attenzione. Finora abbiamo sempre creduto che il capo fosse Amadou, ma più ci penso, meno ne sono convinto. Sappiamo che Amadou ricava centinaia di migliaia di sterline dalla tratta degli immigrati e dal traffico di droga, ma non abbiamo ancora scoperto come muove i suoi soldi né dove li tiene: per questo genere di esigenze servono esperti di economia e finanza molto competenti. Non sto dicendo che Amadou non sia scaltro, ma è anche completamente pazzo. L'istinto mi dice che non può aver concepito i suoi crimini da solo. Quindi, direi che serve un cambio di tattica: niente irruzioni a sorpresa. Ci servono altre informazioni. Okay?» Brandon, scusandosi per l'interruzione, disse che gli era parso di capire che il fattore tempo fosse cruciale. Più aspettavano, più aumentavano le possibilità che Amadou lasciasse il paese... ammesso che non l'avesse già fatto. Harry si disse d'accordo con lui. Langton scosse la testa. «Credete che non ci abbia pensato? Se Amadou è all'interno della casa, lo prenderemo. Se prova a uscire, anche. Io dico che potrebbe essersi nascosto da Corso, ammesso che questi sia davvero il capo. Inoltre, non sappiamo ancora dove Sickert ha trascorso i suoi ultimi giorni: è andato alla casa di Peckham con i figli di Gail, dove è accaduto qualcosa che l'ha indotto a portare i bambini alla casa di Corso? «Appronteremo una sorveglianza ininterrotta della tenuta: scopriremo esattamente quante persone ci sono e che cosa stanno facendo. Proveremo anche con le intercettazioni telefoniche e ambientali. Faremo il possibile per scoprire quel che accade lì dentro. Se uscirà qualcuno, lo pedineremo. Nel frattempo, andiamo a vedere questo magazzino vicino a Heathrow e facciamo tutti i controlli del caso sul conto di Emmerick Corso. Voglio sapere tutto, anche quel che mangia a colazione.» Partirono le operazioni. I quattro agenti di guardia intorno alla casa riferirono che l'unico movimento rilevato era stato quello di una persona che, verso le undici di sera, era andata a buttare la spazzatura. Per il resto, a parte le luci d'emergenza, la casa era immersa nel buio. Anna aveva riempito una piccola valigia da weekend e stava tornando alla propria auto quando ricevette una telefonata da Grace. Il DNA e il gruppo sanguigno del bambino ritrovato nel canale combaciavano con quelli di Joseph Sickert. Anche il piccolo aveva ereditato la predisposizione all'anemia. Dalla sua stanza d'albergo, Anna comunicò la notizia a Langton che era
ancora alla stazione di Leatherhead. Gli disse pure che, l'indomani mattina, di buon'ora, si sarebbe messa in contatto con Alison, per cercare di ricavare qualche altra informazione da Keith. Il bambino non aveva avuto reazioni particolarmente negative all'esperienza del pomeriggio. L'assistente sociale le aveva assicurato che avrebbe provato lei stessa a parlare con lui se avesse dato segni di progresso. Anna le chiese di indagare in particolare su quello che il cattivo gli aveva fatto e di parlargli di Joseph Sickert. Qualcuno lo aveva portato allo zoo e al parco a tema di Chessington, e loro dovevano scoprire di chi si trattava. Ci furono alcune ore di stallo, durante le quali Langton si adoperò per ottenere il permesso di entrare nel magazzino di Corso. Chiese che per il sopralluogo i suoi uomini fossero affiancati da un funzionario delle dogane. Harry e Brandon furono accompagnati al magazzino di Corso, un capannone nuovo e piuttosto esteso a quindici chilometri dall'aeroporto. C'erano poco meno di quattromila metri quadrati di gabbie metalliche piene di merci provenienti dall'Africa Occidentale e già sdoganate. Molti di questi container a griglia erano impilati insieme a ceste di vimini delle dimensioni e delle forme più disparate. Harry osservò le ceste, le cui etichette garantivano l'origine artigianale del prodotto e informavano sui tempi necessari alla loro produzione; c'era persino il nome dell'artigiano a garanzia dell'autenticità dei manufatti. «Ehi, guarda quella maschera: dove l'hai già vista?» disse Brandon. Harry guardò. Lì ammassate, avvolte nella plastica pneumatica, c'erano enormi maschere intagliate in un legno scuro. A quella in cima al mucchio era stato tolto l'involucro: era identica a una delle maschere trovate nella cantina della casa di Peckham. Proprio mentre stavano per dare un'occhiata più approfondita, furono raggiunti dal funzionario della dogana. «Vi presento Job Franklin», disse, indicando un africano piuttosto alto in completo marrone. «È il responsabile del magazzino.» Harry gli tese la mano. «Harry Blunt, piacere, e grazie per la collaborazione. Le hanno già spiegato la ragione di questa nostra visita?» «La dogana ha controllato questa merce la scorsa settimana», rispose Franklin, vagamente seccato. «Tutta roba sdoganata e pronta per essere distribuita.» «Sì, lo sappiamo, e non le ruberemo più tempo del necessario, ma vor-
remmo controllare i documenti relativi.» «Perché?» domandò Franklin. Brandon abbassò la voce. «Il funzionario che ha dato l'autorizzazione per questa merce è stato appena arrestato per aver preso delle tangenti.» «Non da noi!» «Ne siamo sicuri, non si preoccupi. Dobbiamo semplicemente fare i nostri controlli.» «Seguitemi in ufficio, prego.» Aggirarono il muro di gabbie e ceste ed entrarono nell'ufficio di Franklin, che prese un grosso faldone e lo posò sul tavolo. «Qui ci sono tutti i dettagli relativi all'ultima consegna.» «Il proprietario è il signor Emmerick Corso, vero?» Franklin assentì. «Si fa vedere spesso?» «No.» «Lei, però, lo conosce?» domandò Harry, prendendo una sedia. «Certo.» «Che tipo di persona è?» «Io sono un suo dipendente.» Job Franklin non sembrava in vena di confidenze sul suo datore di lavoro, ma non pareva nervoso, bensì piuttosto irritato per l'intrusione imprevista. «Quanta gente lavora, qui?» «Quindici magazzinieri e cinque trasportatori.» «Ha sottomano i loro dati?» domandò Brandon. «Certo.» Franklin si avvicinò a uno schedario e ne estrasse una cartelletta. «Grazie», disse Brandon, sedendosi a sua volta. «Devo restare qui o posso andare?» «No, prego, faccia pure quel che deve. Non ci metteremo molto.» Brandon guardò uscire Franklin. «Be', mi sembra un tipo a posto.» Harry gli diede di gomito. «Scommetto quel che vuoi che sta chiamando il suo capo: guarda.» Attraverso il pannello di vetro della porta, videro Franklin che si allontanava componendo un numero sul suo cellulare. Harry estrasse una piccola macchina fotografica e cominciò a fotografare i fogli relativi ai dipendenti, mentre Brandon faceva lo stesso con le merci. Lavorarono alla svelta, e senza parlare. Alle otto e quaranta, la Mitsubishi nera uscì dalla casa: alla guida, lo
stesso uomo di prima. Al suo fianco una donna elegante in abiti occidentali e con vistosi orecchini d'oro. Sul sedile posteriore, con la cintura di sicurezza allacciata, c'era una bambina in uniforme scolastica: cappottino grigio e cappello di feltro dello stesso colore. Quando furono alla locale scuola privata, la donna scese e accompagnò la bambina all'interno tenendola per mano. Cinque minuti dopo la donna risalì sull'auto, e i due raggiunsero un grande magazzino Sainsbury. Entrarono e fecero la spesa, poi lui caricò le borse in macchina, e i due tornarono a casa. A mezzogiorno e un quarto l'autista dell'auto e quella che presumibilmente era la madre della bambina tornarono a scuola a prelevare la piccola, per poi rientrare subito a casa. Langton aveva fatto i salti mortali per ottenere il permesso di intercettare le comunicazioni in arrivo e in partenza da quella casa, ma fino a quel momento nessuno aveva usato il telefono. Si sapeva che la casa era dotata di una cucina a gas che fungeva anche da scaldabagno per una parte della casa. A mezzogiorno e quaranta, il condotto principale che riforniva di gas l'abitazione fu chiuso. Alle dodici e cinquanta partì la prima telefonata dall'apparecchio fisso della residenza. Una donna, che si presentò come «signora Corso» avvertì la società del gas che la loro cucina aveva smesso di funzionare. Le dissero che avrebbero senz'altro mandato qualcuno in giornata, ma non potevano precisare l'ora. Lei protestò, dicendo che avevano bisogno dell'acqua calda e del gas. Le confermarono, con le classiche formule di circostanza, che avrebbero inviato un tecnico al più presto. I coniugi Powell erano a colloquio con Langton e Anna. All'inizio si erano mostrati piuttosto nervosi, ma Langton li aveva rassicurati dicendo che stavano indagando su una frode fiscale e che non c'era da preoccuparsi. Il signor Powell, ex membro dell'esercito, confessò di essersi sempre interrogato sull'origine dei soldi di quei loro vicini. Fornì una descrizione molto accurata dell'uomo noto come Emmerick Corso, peraltro coincidente con quella data dagli agenti immobiliari. La casa, tuttavia, era così appartata e protetta grazie alla vegetazione e al laghetto che i due coniugi non sapevano nulla di chi andava e veniva. «Si sentono delle voci, ogni tanto», disse la signora Powell. «Sì, il suono non incontra ostacoli sull'acqua», confermò il marito. «Avete mai visto individui sospetti?» «No, non direi. Ci siamo lamentati dei cani lasciati liberi. All'inizio,
quand'erano appena arrivati, abbaiavano tutta la notte.» «Quand'è che sono arrivati?» «Di recente. Un giorno ho notato un tizio piuttosto alto, vicino alla rimessa della barca, e gli ho detto che eravamo un po' disturbati dai cani. Lui è stato gentilissimo e ha risposto che li avrebbero tenuti da un'altra parte.» «Era il signor Corso?» «No, credo che fosse il suo autista. Comunque, da quel giorno non abbiamo più avuto grossi problemi... Abbaiano ancora, ma non danno più tanto fastidio.» «Avete notato qualcos'altro? Altre persone che abitano qui...» «C'è stato un solo episodio, piuttosto strano...» disse la signora Powell. Il marito la guardò. «Sì, è vero: stranissimo. Quand'è stato?» «Qualche settimana fa, più o meno.» Langton aspettò. Erano entrambi impegnati a determinare con più precisione la data dell'evento. Alla fine, con un tono preoccupato, il signor Powell disse: «Sembrava che ci fossero degli intrusi». «Nonostante il boschetto, gli echi dei rumori arrivano fortissimi», osservò la signora Powell, meditabonda. «Vi è parso che ci fossero degli intrusi... nell'edificio principale, vuol dire?» «Non lo so. Cercavano qualcosa con le torce elettriche, in riva al laghetto e nella rimessa della barca.» «E poco prima avevamo sentito delle voci di bambini. Hanno una figlia, vero?» domandò il signor Powell. Langton stava perdendo la pazienza, perciò Anna gli subentrò nel compito di condurre l'interrogatorio: riuscì a capire che i due coniugi, oltre alle voci infantili, avevano udito una sorta di litigio. Le grida erano state tali che il signor Powell si era svegliato. Aveva preso una torcia elettrica e aveva attraversato il boschetto fino alla riva del lago, ma a quel punto tutto ormai taceva. La moglie interloquì per dire che avevano trovato la barchetta a remi sul loro lato del laghetto. C'era una vecchia fune attaccata a un piccolo molo, con cui ci si poteva letteralmente trascinare da una riva all'altra. Langton tossicchiò. «Dunque, voi credete che qualcuno abbia preso la barca e si sia trascinato fino alla vostra riva?» «Be', ci abbiamo pensato, ma tra le frasche non abbiamo trovato nessuno.» Il signor Powell gonfiò un po' il petto. «Lo so perché ho cercato bene.
Avevo la mia torcia elettrica e un randello. Se qualcuno avesse provato a introdursi in casa nostra...» Langton sospirò. Quella conversazione aveva messo a dura prova i suoi nervi, ma almeno avevano ottenuto il permesso di utilizzare i terreni dei Powell per gli appostamenti. Temeva solo che il «Generale» - questo il nomignolo che aveva appioppato al signor Powell - potesse mandare in fumo i loro piani con la sua torcia elettrica e il suo manganello. Anna telefonò ad Alison per chiederle di parlare con Keith e di domandargli se fosse mai stato su una barca a remi con Sickert. «I conti tornano», disse a Langton. «Prima i cani, che potrebbero essere quelli della casa di Peckham. Poi, le voci dei bambini in riva al lago e il litigio... Forse Sickert era riuscito a portare fuori i bambini, e così si spiega anche la richiesta di informazioni, da parte di Corso, sulla linea di demarcazione tra le due proprietà.» Langton si protese verso di lei e le scompigliò i capelli. «La tua testolina non si riposa mai, eh?!» Anna non sopportava che le si scompigliassero i capelli. Lui, però, non si accorse della stizza di Anna, perché stava già guardando l'orologio. «Mike dovrebbe già essere dentro, a quest'ora.» Mike Lewis, in tuta da addetto della società del gas, accompagnato da un vero tecnico dell'azienda, fu indirizzato verso la porta d'ingresso della cucina, sul retro della casa, dall'uomo che avevano visto alla guida della Mitsubishi. Una bella donna nera sulla trentina aprì loro la porta. Nervosa, fece loro cenno di entrare. La cucina era enorme, con un pavimento di marmo e un piano di lavoro centrale dello stesso materiale, al di sopra del quale pendevano pentole di rame e altri utensili. Nel bovindo affacciato sul lago c'era un grande tavolo rotondo in legno di pino. Il tavolo era apparecchiato per quattro. «Non funziona», disse, indicando la cucina. Mike Lewis e il suo accompagnatore vi si inginocchiarono davanti, mentre la donna rimase in piedi a guardare. A un certo punto, Mike si alzò in piedi e si rivolse alla donna. «Potrebbe essere un problema di tubature; questa cucina funge anche da scaldabagno?» Lei parve a disagio. «Devo solo controllare i serbatoi dell'acqua.» «Scusatemi.» La donna uscì. Mike, in un attimo, sistemò un minuscolo
microfono sotto il tavolo. «Qual è il problema?» Era la donna elegante che poco prima era stata accompagnata in auto a prendere la bambina. «Crediamo che il guasto dipenda dai condotti del gas, ma siccome questa Aga fa anche da scaldabagno, sarà meglio guardare anche i serbatoi. Avete chiuso il rubinetto principale del gas?» Mostrò le proprie false credenziali. «Lei è la proprietaria?» «Sono la signora Corso. Ti prego, Ella, torna in cucina», sibilò, per poi far cenno a Mike di seguirla. Secondo Lewis, in confronto alla casa di Peckham, quella abitazione pareva Buckingham Palace. Una residenza sontuosa: piena di pezzi d'antiquariato e pulita a specchio. Non gli era riuscito di piazzare i microfoni nella sala da pranzo, in salotto o nella stanza da letto degli ospiti, ma ne aveva messi in cucina, sulla scala vicino all'ingresso, sul pianerottolo al primo piano e per finire uno nella camera da letto principale. «È un posto enorme, faraonico; dalle planimetrie non ci si rende conto di quant'è grande. Sul davanti, accanto al garage, ci sono due pastori alsaziani alla catena in un recinto. La parte posteriore è sgombra - la si potrebbe raggiungere con facilità dal laghetto, approfittando anche della copertura offerta dalla vegetazione - ma il davanti è munito come Fort Knox. Ci sono i cancelli, l'alta recinzione e un muro delimitato da una fitta siepe tutt'intorno. Hanno montato luci d'emergenza dappertutto lungo la stradina che aggira la casa e i giardini.» In quell'istante sopraggiunsero Harry e Brandon che riferirono sull'andamento della loro missione. Avevano controllato i furgoni delle consegne utilizzati al magazzino e avrebbero eseguito le verifiche del caso su tutti i dipendenti noti. Avevano scoperto che Corso aveva inviato lo stesso carico anche negli Stati Uniti. «Chi se le compra tutte queste cazzo di ceste?» domandò Harry, schifato. «C'erano le stesse maschere che abbiamo trovato nella casa di Peckham», disse Brandon, voltandosi poi verso Mike Lewis. «Com'è andata la riparazione del gas?» «Abbastanza bene. Abbiamo sistemato diverse microspie, ma non nel salone principale. Non abbiamo visto nessuno, a parte una cameriera decisamente nervosa e la signora Corso, che è davvero degna di nota.» Langton sospirò. «Anche noi abbiamo visto solo l'autista. Nessuna trac-
cia di Emmerick o di altri.» «La casa, all'interno è enorme. All'ultimo piano non ci sono arrivato, però», disse Mike. Langton esalò un nuovo sospiro, ma subito la sua attenzione fu attratta dal tecnico del suono che aprì la portiera del furgone parcheggiato all'esterno della casa e gli fece cenno di raggiungerlo. A bordo c'erano quattro uomini impegnati a turno ventiquattr'ore su ventiquattro finché ce ne fosse stato bisogno. Langton salì, e uno degli addetti gli porse delle cuffie. «Telefono?» domandò Langton. «No, la microspia della cucina.» Era la signora Corso che sbraitava. «Come si fa a rovinare così una bistecca? Come si fa? Questo è filetto! Lo sai quanto costa? Lo sai quanto costa una bistecca come questa? Va' via, sparisci!» Si udì un rumore di padelle. «È stata un problema fin dal primo giorno. Voglio che ti sbarazzi di lei! Mi sta facendo impazzire! Ancora non ha imparato a usare il ferro da stiro! Ho dovuto spiegarle come si fa a caricare e mettere in moto la lavastoviglie! Devi trovarmene un'altra.» Le rispose una voce maschile suadente e raffinata. «Sforzati di sopportarla finché non partiremo.» «Quanto ci vorrà? Non possiamo continuare a far cambiare scuola a Rose: finirà per risentirne. La mangi questa? È l'unica che si è salvata. Sai che cosa stava facendo? Le stava bollendo. Stava bollendo le bistecche di filetto!» «Sì, be', al suo paese si mangiano i cani.» Un'altra voce maschile: più rozza e di tonalità più bassa. Langton prestò ascolto con maggiore attenzione. Si sentì un rumore di posate e stoviglie; poi di nuovo la voce della signora Corso. «C'è dell'insalata, ma solo Dio sa che cosa ci ha messo quella ragazza... Non sa neanche fare un semplice condimento con olio e aceto!» «Passami la Hellmann's», disse la voce rozza. «Cara, va' a vedere dov'è Rose, e chiama David: a lui magari piacciono le suole delle scarpe.» Ci fu una risata rauca del secondo uomo. «Se fosse fica, si leccherebbe anche le dita.» «Piantala! Non usare certe espressioni in presenza di mia moglie!» Langton si rese conto del sudore che gli bagnava le ascelle. «Quest'ultimo dev'essere Emmerick; se la moglie è andata a chiamare David, che
probabilmente è l'autista, a chi appartiene quel vocione?» Sentirono di nuovo rumore di posate e stoviglie; quindi eco di passi e, infine, una terza voce. «Ha telefonato Franklin. Al magazzino sono arrivati dei funzionari delle dogane, dicendo che un tale è stato pizzicato a prendere mazzette.» «Non è un nostro uomo», disse Emmerick. «Sono stati lì un mucchio di tempo, e Franklin è andato nel panico.» «Sono arrivati tardi. Il carico è stato controllato e non ci sono stati problemi, perciò sta' tranquillo.» «Io sono tranquillissimo. Pensavo solo che potesse interessare. La cosa che mi ha messo agitazione è stata la telefonata di quel tizio in galera a Parkhurst.» «Allora, liberati del telefono!» ribatté Emmerick. «Cristo, che schifo! Non ce la faccio a mangiare sta' robaccia», disse la voce rozza. Si udì un rumore come di piatto infranto a terra. «Cominci davvero a darmi sui nervi. Se non riesci a mangiarla, puoi darla ai cani; prova a far volare un altro piatto e ti giuro che...» «Scusa, scusa... Però era davvero disgustosa. Dammi la Hellmann's: mi faccio un po' di insalata. Non mangio da stamattina a colazione e ho una fame bestiale. A furia di stare chiuso lassù comincio a dare i numeri. Potresti almeno mandarmi quella troia di Ella a rifarmi il letto.» «A volte la tua impudenza mi fa davvero accapponare la pelle. Hai idea di quali problemi mi hai causato mandandola a lavorare a casa mia?» «Non immaginavo che quello stronzo sarebbe arrivato qui.» «Già, però è venuto.» «La mia bistecca è buonissima», interloquì David. Altro acciottolio di stoviglie e il rumore di una bottiglia stappata. «Quanto ci mette Milton a recuperare quei cazzo di documenti? Io li ho stampati per anni senza problemi; non vorrà mica prendermi per il culo eh? Quand'è che viene?» domandò la voce rozza. «Quando sarà pronto. Se tu non avessi fatto quelle cazzate in quella casa, adesso non avremmo problemi. Anzi, avevi già cominciato a sgarrare con quella ragazza... Da quel momento hai continuato a combinare disastri, e noi dietro a cercare di rimediare, perciò smettila di tirare la corda. Non mi piace come ti comporti.» Emmerick era chiaramente tesissimo. «Ehi, amico, lo sappiamo tutti qual è la ragione per cui mi hai ingaggiato: per guardarti le spalle! E non solo per questo posto: tu hai bisogno di
me, perciò devi trattarmi bene, con rispetto.» «Ti ho procurato degli altri video», disse David. «Ho bisogno di fare qualcosa, cazzo! Sto impazzendo lassù.» «Li ho messi sul tavolo del corridoio», disse David. Si udì un rumore di sedia trascinata e di passi che si allontanavano. «Quell'uomo è un vero problema», disse David. «Lo so», rispose Emmerick. «Quant'è profondo il lago?» Si sentì una risata sommessa; poi, altro rumore di passi: la signora Corso era di ritorno in cucina. «Volete del caffè? C'è anche una crostata di prugne.» Un addetto alle intercettazioni sollevò una mano. Langton lo vide trafficare con le apparecchiature e sentì in cuffia voci provenienti da un'altra microspia, quella nascosta in corridoio. «Ciao, dolcezza, com'è andata a scuola, oggi?» Di nuovo quella greve voce maschile. «Rose, fila in salotto! Subito!» La voce della signora Corso. Altri passi: la donna rientrò in cucina. «Ti avevo chiesto di non farlo venire qui. Non voglio che quell'animale si avvicini a lei.» Nessuno aveva fatto nomi, ma Langton era ormai sicuro che l'animale dalla voce rozza fosse Amadou. Era il momento di eseguire i controlli sui dipendenti della società di Corso. Brandon e Harry avevano raccolto tutte le informazioni necessarie, non solo sui dipendenti in servizio, bensì su tutti quelli che avevano lavorato lì nei due anni precedenti. L'elenco dei nomi era infinito, e le persone risultavano, l'una dopo l'altra, incensurate. Mike Lewis era perplesso e chiese la consulenza di una squadra specializzata in reati fiscali e finanziari: avevano scoperto un giro di assegni per centinaia di migliaia di sterline. Fu accertato che gli impiegati erano tutti immigrati illegali. La società aveva aperto conti bancari a loro nome. Il denaro tornava poi nelle casse della società di Corso attraverso atti di compravendita fasulli. All'esterno della casa, ancora nessun movimento; nessuna telefonata in ingresso o in uscita; niente visite. Le squadre di sorveglianza si diedero il cambio: era cominciato il turno di notte, e gli agenti presero posizione al riparo tra gli alberi, dietro la rimessa della barca e un'altra struttura presente sulla proprietà.
Sapevano che Emmerick Corso aveva in programma di partire con la sua famiglia e con l'uomo dalla voce rozza che Langton aveva identificato con Amadou. Il punto era: quando? Era evidente, in ogni caso, che la partenza era imminente. Si informarono su quale fosse il giorno della raccolta rifiuti, e la fortuna, per una volta, li aiutò: il camion sarebbe passato il giorno successivo. Il mattino dopo, sul presto, il mezzo della nettezza urbana fu fatto entrare nella tenuta. Langton aveva chiesto, in particolare, di recuperare i cocci del piatto infranto dall'uomo burbero. Di certo vi aveva lasciato sopra le impronte. Anna ricevette una telefonata da Alison che le disse di aver ottenuto delle informazioni da Keith. Il bambino aveva confermato di essere stato su una barca con sua sorella, aggiungendo che il cattivo aveva colpito Joseph e gli aveva fatto uscire il sangue. Keith aveva anche detto che prima di andare nella grande casa con il cattivo, Joseph lo aveva portato allo zoo. Solo quando Alison gli aveva domandato della casa di Peckham, il bambino si era chiuso in sé stesso. Non c'era più alcun dubbio: quello era il luogo in cui aveva subito gli abusi. Anna stava cercando di ricostruire la cronologia dei fatti: a un certo punto, mentre erano a Peckham, Joseph Sickert doveva aver scoperto qualcosa - forse che suo figlio era stato assassinato - e, quindi, aveva deciso di portare i bambini a casa di Emmerick. Di lì era fuggito a bordo della barca. Ancora non era chiaro quanto fosse durata la loro fuga; Anna sapeva soltanto che si era conclusa quando Sickert aveva lasciato i bambini all'asilo... almeno finché non ricevettero una telefonata dal signor Powell. Langton aveva nicchiato all'idea che i poliziotti in incognito utilizzassero la casa dei Powell come base dove andare a pisciare o a prendere una tazza di tè, ed era molto nervoso quando giunse la chiamata. Decise perciò di dirottarla su Anna. Il signor Powell si stava letteralmente godendo l'operazione in incognito e la prendeva molto sul serio. Aveva continuato a riflettere sulla notte della presunta effrazione e si era ripromesso di determinare con precisione la data esatta. La data - ne era sicuro ormai - era il venerdì di otto settimane prima. Anna riuscì a precisare il giorno in cui Sickert aveva lasciato il bungalow con i bambini, era arrivato alla casa di Peckham e si era poi presentato alla dimora di Corso. Lui e i piccoli dovevano aver vissuto alla macchia
per circa una settimana. Illustrò le proprie deduzioni a Langton. Lui la ascoltò, ma poi disse: «Fantastico, ma che cosa ce ne viene?». «Dev'essere successo qualcosa che ha indotto Amadou a chiudere baracca; a parte questo, non saprei...» Il cellulare di Langton si mise a squillare: finalmente venivano segnalati movimenti insoliti davanti alla casa di Corso. Era appena arrivata una berlina BMW. Avevano preso la targa: l'auto apparteneva a un certo Milton Andrews, residente a Coventry, incensurato. Gli addetti alle intercettazioni stavano incontrando dei problemi con la microspia piazzata in corridoio. Sembrava che qualcuno ci avesse posato sopra un cappotto. In cucina le conversazioni erano finite: si sentiva soltanto la signora Corso che inveiva contro la cameriera. Intanto, giunse il risultato delle analisi delle impronte rilevate sul piatto infranto: corrispondevano a quelle trovate sulla Range Rover bianca. La BMW rimase parcheggiata davanti alla casa fino alle ventitré e trenta. Quando se ne andò, fu seguita fino al termine di Redhill Lane e, quindi, fermata da due volanti della polizia. Milton Andrews fu accompagnato alla stazione di polizia in preda a un accesso di furia cieca. A bordo della BMW, all'interno di una valigetta, furono trovate ventimila sterline in contanti. Nello stesso momento, la polizia di Coventry stava facendo irruzione nel suo appartamento. Trovarono apparecchiature per la stampa, timbri per passaporti e copertine ancora da utilizzare. Milton, in principio, si rifiutò di parlare, ma Langton non intendeva perdere tempo: gli piazzò sotto il naso le foto dei cadaveri di Gail Sickert e della sua figlia più piccola e gli disse che a casa sua avevano trovato il materiale usato per stampare passaporti falsi. Milton cedette e ribatté che la sua unica colpa era di aver fornito un passaporto e una patente falsi intestati a un certo Stanley Monkton, sesso maschile, di pelle nera. Quando gli fu mostrata la foto scattata di nascosto all'autista, Milton disse che era l'uomo che gli aveva fornito la fotografia del suddetto Monkton. La situazione si stava evolvendo con grande rapidità. Avevano elementi sufficienti all'incriminazione di tutte le persone presenti nella casa di Corso, con l'eccezione della cameriera e della bambina. Dal carcere di Parkhurst giunse un'ulteriore conferma: a Courtney Ransford era stata mostrata la fotografia di David, l'autista di Corso, e lui l'aveva riconosciuto come l'uomo che era andato a trovarlo e gli aveva portato le tortine di cocco da dare a Eamon Krasinique.
Le microspie, intanto, continuavano a funzionare: il presunto Amadou tornò in cucina. «Oh, cazzo! Stanley Monkton! Non poteva trovarmi un nome un po' più bello, quello stronzo? Stanley Monkton...» «Dai un'occhiata, però», disse David. «È perfetto... Ottimo lavoro. Vale abbondantemente i soldi spesi», disse Corso. «Non sto dicendo che non va bene... Solo che il nome fa schifo, e sarò io a dovermelo sopportare...» «Va' a fare le valigie e chiudi il becco. Il volo te lo prenoto io.» «Il primo disponibile, mi raccomando», disse allontanandosi. Seguì un breve silenzio. «Più ci penso, più sono attratto dall'idea di buttare quel verme in fondo al laghetto», disse Corso. David scoppiò a ridere. A quel punto Langton decise di organizzare un'irruzione. La tempistica era ideale. La signora Corso sarebbe andata a prendere la bambina a scuola e disse che avrebbe pranzato con Rose nella stanza dei giochi. Non aveva intenzione di sedersi alla stessa tavola con quell'animale disgustoso. «È l'ultima volta che mangia qui, te lo prometto», disse Corso. Non appena gli addetti alle intercettazioni avessero dato il segnale, la polizia avrebbe fatto irruzione nella casa. Gli agenti della squadra d'assalto erano in attesa. Due sarebbero arrivati dalla boscaglia, coperti alle spalle da quattro colleghi fino a quel momento impiegati in mansioni di sorveglianza. Sul davanti, altri due gruppi di uomini armati erano pronti a scavalcare l'alta recinzione; un automezzo avrebbe sfondato il cancello principale. Dopo aver abbattuto anche la porta d'ingresso, avrebbero dato ai colleghi sul retro il segnale di entrare a loro volta. Altri quattro elementi - Langton, Lewis, Blunt e Anna -avrebbero atteso il segnale della conclusione dell'assalto e a quel punto sarebbero entrati in casa per mostrare i vari mandati. Langton fumava senza interruzione. La lunga attesa, durata mesi, stava per concludersi. Presto si sarebbe trovato faccia a faccia con Amadou. «Stiamo entrando», comunicò la voce sommessa ma decisa del responsabile della squadra d'assalto. Nessun conto alla rovescia: una breve pausa e, subito dopo, il segnale d'attacco. L'operazione fu condotta a termine alla perfezione. La notizia che i ri-
cercati erano stati tutti catturati raggiunse Langton prima del previsto. Quando entrò nella cucina di casa Corso, i tre uomini erano già con la faccia al muro, ammanettati, con le gambe divaricate. Dai piani superiori arrivavano, invece, le urla della signora Corso, di sua figlia e di Ella, la cameriera. La signora era stata colta da una crisi isterica e per farla calmare si era dovuto far ricorso alle manette; la figlia le stava aggrappata, mentre la domestica, terrorizzata, era in ginocchio con le mani sulla testa. Furono accompagnate all'esterno, presso un furgone cellulare della polizia in attesa. La padrona di casa continuava a strillare come un'aquila, mentre la cameriera era improvvisamente ammutolita. Anna cercò di calmare la signora, ma senza successo. Le urla avevano un effetto deleterio soprattutto sulla bambina; Anna la separò dalla madre, la fece sedere su uno strapuntino laterale e le allacciò la cintura di sicurezza. La signora Corso, mentre la facevano sedere, scoppiò in singhiozzi. Ella prese posto senza bisogno di aiuto e cominciò anche lei a piangere. Emmerick Corso superava il metro e novanta di altezza e indossava un completo grigio di ottima fattura con camicia bianca, ma aveva la cravatta allentata. Non proferì parola dopo che gli fu presentato il mandato d'arresto per concorso in omicidio, falso e favoreggiamento, e Lewis gli ebbe letto i suoi diritti. Il suo viso intenso era teso in un'espressione di rabbia, ma per il resto non diede segni di aggressività e assunse un'aria sdegnata quando Harry Blunt e Mike Lewis lo condussero al cellulare in attesa. Toccò poi all'autista di Corso ascoltare la lettura delle prerogative concessegli dalla legge: anche lui era accusato di concorso in omicidio. Digrignò i denti e sputò contro gli uomini della squadra d'assalto che per portarlo fuori gli sollevarono verso l'alto i polsi ammanettati dietro la schiena, costringendolo a chinarsi in avanti. Infine, Langton si ritrovò alle spalle dell'uomo a cui aveva per tanto tempo dato la caccia: Amadou. Questi aveva la faccia premuta contro il muro e indossava una tuta da ginnastica blu con scarpe da tennis. Non ebbe reazioni alla lettura delle accuse e dei suoi diritti. L'agente della squadra speciale lo fece girare, e Langton poté finalmente vederlo in faccia: gli usciva del sangue dal naso; era stato l'unico a opporre resistenza. Era più piccolo di Langton, ma le foto segnaletiche non gli rendevano giustizia: era un bell'uomo dal viso intensamente espressivo, con due occhi scurissimi e profondi. Era magro, ma in perfetta forma. Era l'uomo che aveva ferito Langton, l'uomo il cui viso era rimasto offuscato, nella sua mente, da un velo di dolore e sangue. All'improvviso, però,
come per un lampo di lucidità, l'ispettore capo ebbe la certezza che si trattasse del criminale che lo aveva ferito a colpi di machete. «Portatelo fuori», disse con voce rude. Mentre veniva condotto all'esterno, Amadou si voltò, ma non diede l'impressione di aver riconosciuto Langton. I cellulari portarono i prigionieri alla stazione di polizia del New Forest, dove Langton cominciò a organizzare gli interrogatori. Potevano trattenerli per sole trentasei ore, e lui non voleva perdere neppure un secondo. La signora Corso, nel frattempo, si era placata; la figlia era stata affidata alla sorella della madre; Ella era ancora in stato di shock e non aveva aperto bocca. Emmerick Corso chiedeva di poter parlare con un avvocato. Sarebbe stata una lunga nottata. Per cominciare avrebbero interrogato la padrona di casa, poi Ella e, quindi, l'autista che, come avevano assodato, si chiamava David Johnson. A quel punto toccava a Emmerick Corso, mentre Amadou sarebbe stato tenuto per ultimo. La signora Corso, tra i singhiozzi, disse di non sapere nulla. Continuava a ripetere che la sua era una famiglia rispettabile, che i suoi genitori erano medici, responsabili di un ospedale in Uganda. Si proclamò innocente: non sapeva chi fosse quell'Amadou né quel che aveva fatto. Affermò di ignorare tutto del lavoro di Emmerick: lei era solo la moglie, la madre della loro figlia. Non riusciva a smettere di piangere. Il tempo, intanto, passava, e cresceva l'irritazione, ma visto che non riuscivano a cavarle informazioni di alcun tipo poteva darsi che stesse dicendo la verità. D'accordo con il suo avvocato, fu deciso, fatte salve eventuali convocazioni successive, di rilasciarla e di permetterle di andare a stare dalla sorella, dove già si trovava sua figlia. Non le fu concesso di vedere il marito in stato di fermo perché erano entrambi sotto accusa nella medesima indagine. Anna si era mostrata scettica riguardo all'opportunità di rilasciare la donna, perché la sua detenzione poteva fungere da leva per far parlare il marito. Langton, però, era dell'idea che quel tipo di pressioni non potessero sortire alcun effetto su una persona come Emmerick Corso. Nel frattempo, la polizia scientifica stava passando al setaccio la casa: furono sequestrati documenti e materiale informatico in gran quantità. La stanza occupata da Amadou venne attentamente analizzata alla ricerca di impronte digitali; fu trovata una valigia che aprirono ed esaminarono con estrema cura. Ai due pastori alsaziani, portati al canile della polizia, venne-
ro prelevati campioni del pelo per confrontarli con quelli trovati nel bagagliaio della Range Rover. Emmerick Corso era seduto nella sua cella fetida e fredda, senza cintura né stringhe delle scarpe. L'unica telefonata a disposizione l'aveva sfruttata per procurare un avvocato a sé e alla moglie, dopo di che era stato ricondotto lì. Il suo autista, rinchiuso nella cella adiacente, camminava nervoso avanti e indietro. David Johnson aveva una fifa blu: era stato accusato di tentato omicidio ai danni di Eamon Krasinique. Non riusciva a rassegnarsi all'idea e stava cercando di comunicare a Corso, gridando, che aveva bisogno di parlare con un avvocato. Corso chiese all'agente di piantone fuori dalla sua cella di rassicurare il signor Johnson e di dirgli che lui aveva già provveduto all'assistenza legale per tutti. Amadou, invece, era seduto con un'espressione di furia repressa. Non intendeva dare a nessuno la soddisfazione di vederlo in balia delle sue emozioni. Era rimasto frastornato alla lettura dei capi d'accusa: il nome di quella ragazza aveva offuscato tutto il resto. Carly Ann era stata l'unica donna di cui gli fosse mai importato qualcosa. Le altre non erano state che pezzi di carne, e quell'unica si era messa in testa di tradirlo. Questo pensiero continuava a tormentarlo. L'aveva amata; quella troia avrebbe potuto vivere come una principessa, ma lei lo aveva tradito e si era fatta scopare da uno dei suoi uomini. Era stata tutta sua la colpa: se non lo avesse ingannato, lui sarebbe stato ancora nella sua casa di Peckham a fare la sua vita da re. Anna chiese a Langton di affiancarla nel tentativo di aiutare Ella a ricomporre la sua parte di puzzle, anche se alcuni tasselli li aveva già sistemati da sé. Anna le aveva chiesto quale fosse il suo nome, e la cameriera aveva detto di chiamarsi Ella Corso, ma quando questa risposta era stata messa in dubbio lei aveva avuto una crisi di nervi: aveva cominciato a piangere e non aveva più smesso, accartocciando tra le mani i fazzoletti che le erano stati porti. Sembrava distrutta: le spalle afflosciate, la voce appena percettibile. Dopo aver bevuto un po' di tè, convinta dalla gentilezza con cui veniva trattata, ammise infine di chiamarsi Ella Sickert. Disse che Joseph Sickert era suo marito ed era arrivato in Inghilterra cinque anni prima di lei. Quando le fu mostrata la fotografia trovata addosso a Joseph Sickert, Ella prese a singhiozzare senza requie. Non vedeva i figli da quando erano stati portati in Inghilterra: le avevano detto che vive-
vano con una buona famiglia e frequentavano la scuola con profitto. «Sei riuscita a rivedere tuo marito?» Ella abbassò lo sguardo. Anna la incalzò, domandandole se Joseph Sickert avesse cercato di mettersi in contatto con lei. La donna non pareva in grado di continuare, ma all'improvviso si riscosse e si raddrizzò sulla sedia. «Al mio arrivo in Inghilterra sono stata accolta dalla signora Corso. Mi assicurarono che Joseph sarebbe venuto a trovarmi, ma che era impegnato con il lavoro. Mi dicevano sempre che dovevo avere pazienza. Ero in ansia per i miei figli, ma la signora Corso diceva che dovevo smetterla di far domande e che, essendo un'immigrata illegale, dovevo ringraziare Dio di avere un tetto sopra la testa.» «La signora, dunque, sapeva che tu eri entrata illegalmente nel paese?» domandò per sicurezza Langton. «Sissignore... e sapeva anche di Joseph e dei miei figli.» «Non li hai proprio più rivisti?» La donna scoppiò a piangere. Spiegò che una sera, all'incirca due mesi prima, le era stato ordinato di rimanere nella sua stanza; dalla finestra, però, aveva visto il marito insieme a due bambini bianchi. Il signor Corso era molto arrabbiato e c'era stata una lite in corridoio. Ella era uscita dalla sua stanza ed era scesa al pianterreno. Joseph aveva cercato di raggiungerla, ma lei era stata portata via. Ella disse che il marito le era parso malato, quasi irriconoscibile. Non aveva più visto né lui né i bambini, ma sapeva che gli altri si erano messi a cercarli nella boscaglia. L'autista aveva anche dato un pugno a Joseph Sickert, facendo piangere i bambini. Ella dopo un breve silenzio rialzò la testa. «Ho sentito Joseph che chiedeva del signor Amadou: minacciava, era infuriato. Continuava a domandare dei nostri figli... Hanno solo sette e nove anni... "Dove sono i miei figli?" continuava a ripetere.» Anna chiese che le fosse fatto un esame del sangue. Ella piangeva straziata. Fu difficile per l'ispettrice mostrarle la foto del torso del bambino. «Crediamo che uno dei tuoi figli sia stato ucciso», disse mestamente Langton. Ella restò come paralizzata. «Non sappiamo ancora dove sia l'altro tuo bambino, ma speriamo sinceramente di rintracciarlo.» Ella assentì, ma il suo sguardo era perso nel vuoto; aveva una mano posata sulla fotografia chiusa nella busta di plastica, e lungo le guance le co-
lavano rivoli ininterrotti di lacrime. Un agente si presentò con un tampone per prelevarle un campione organico utile all'esame del DNA. Ella rimase nella sala dell'interrogatorio. Il sergente di turno alla reception non aveva mai visto tanto movimento in tutta la sua carriera. Il parcheggio, dopo l'arrivo del collegio di difesa di Emmerick Corso, era pieno di auto di tutti i tipi. Prima dell'interrogatorio, ai fermati fu consentito di conferire in privato con i rispettivi legali, dopo di che sarebbero stati condotti davanti ai magistrati: Langton voleva che il fermo fosse prolungato almeno fino allo scadere del terzo giorno, perché i preparativi per gli interrogatori avrebbero richiesto tempo. Quella sera, alle dieci, Langton mandò a casa i suoi collaboratori, tutti bisognosi di ricaricare le batterie: era stata una giornata lunga e faticosa. Gli avvocati con i loro clienti potevano intrattenersi anche per tutta la notte, se lo desideravano. Quelli della squadra Omicidi dovevano recuperare. Nessuno si aspettava di poter davvero dormire, e invece persino Langton sprofondò nel sonno senza bisogno delle sue solite pasticche di sonnifero. Il mattino seguente i prigionieri furono ammanettati da un agente e condotti davanti al magistrato locale. C'era voluto un gran lavoro per organizzare le cose a dovere, ma la gravità delle accuse aveva garantito a Langton altro tempo per condurre gli interrogatori. Harry Blunt e Frank Brandon si occuparono di elencare i capi d'accusa contro Amadou. Mike Lewis, con l'aiuto di un agente della squadra Antifrode, cominciò a passare in rassegna la gran massa di documenti raccolta sul conto di Emmerick Corso e delle sue attività. I meccanismi erano così intricati che solo per accertare chi fosse il vero proprietario della casa di Peckham c'era voluta mezz'ora. Intendevano scoprire fino a che punto Emmerick fosse complice di Amadou: se era lui il padrone della casa di Peckham, non poteva essere all'oscuro dei traffici e delle violenze che vi si verificavano. Amadou rifiutò il cibo e rivendicò il diritto di farsi portare la prima colazione dall'esterno. Non sembrava turbato dalla mole delle accuse che gli venivano rivolte; anzi, si mostrava spavaldo e continuava a lanciare richiami a Corso, che invece se ne stava in silenzio, deciso a prendere il più possibile le distanze da Amadou. Langton aveva stabilito che avrebbero attaccato l'anello più debole della catena, quello dei tre che dava segni di maggiore agitazione: David Johnson, l'autista.
Si sedette, in un bagno di sudore, e cominciò a torcersi le mani. Il suo avvocato provò a calmarlo. Langton disse che Johnson era stato identificato come colui che era andato a trovare Courtney Ransford nel carcere di Parkhurst, fornendogli le tortine che avevano avvelenato Eamon Krasinique. Johnson, quindi, sarebbe stato rinviato a giudizio per omicidio. Johnson provò a replicare. «Senta, io lavoro per il signor Corso e obbedisco ai suoi ordini. Mi è stato chiesto di consegnare quei dolcetti, e io l'ho fatto. Se mi fossi rifiutato...» «Mi stai dicendo che è stato il signor Emmerick Corso a darti quelle tortine avvelenate?» «No, sono dovuto andare a prenderle a Peckham, da Amadou. Io non sapevo che cosa contenessero, lo giuro davanti a Dio. Non potete mettermi dentro per questo. Io ho solo eseguito gli ordini.» Langton sospirò. «Sì, ma chi è stato a dirti di andare a Parkhurst?» «Amadou... Però è stato il mio capo a mandarmi da Amadou. Mi aveva detto che c'era un problema da risolvere. Sapevo solo che aveva a che fare con un certo Arthur Murphy. Non immaginavo che quella roba avrebbe fatto impazzire il ragazzo.» «Conoscevi Arthur Murphy?» «No.» «Ci andavi spesso alla casa di Peckham?» Johnson si irrigidì e sbarrò gli occhi, cominciando a respirare con un certo affanno. Langton prese a tamburellare sul tavolo con una matita. «Allora, ci andavi spesso?» «No, no. Quella casa era di Eugene Amadou.» Langton si voltò verso Anna. «Eugene Amadou? Ne sei sicuro?» «Sì, quell'uomo usa molti nomi diversi, ma credo che Eugene sia il suo vero nome.» «Lo sai a che cosa serviva quella casa?» «No.» «Comunque, la frequentavi. Quand'è che ci sei stato l'ultima volta?» «Non di recente... È da tanto tempo che non vado.» «Quanto tempo?» «Qualche anno...» «Quanti? Uno? Due? Tre?» «Senta, Eugene ci faceva delle cose, lì dentro. È completamente pazzo. Io, be', ci andavo... per fare sesso... ma non di recente.»
«Per fare sesso?» «Sì, aveva delle ragazze che lavoravano per lui.» «Quali ragazze?» Johnson stava sudando freddo. «Cristo, ogni volta che apro bocca ho la sensazione di incasinarmi sempre di più, ma io non ho fatto niente!» «Queste ragazze... C'erano delle minorenni?» domandò seccamente Langton. «Come?» «Voglio sapere se tra quelle ragazze c'erano delle minorenni.» «Io non ci sono mai andato, però... sì, alcune erano minorenni.» «Conosci questa ragazza? Si chiama Carly Ann North.» Langton gli mise davanti la foto ricevuta da Dora. Johnson restò a fissarla per un attimo e poi prese a scuotere la testa. «No, non la conosco. Non ho mai avuto niente a che fare con lei.» «In che senso?» «Oh, merda! Voi mi confondete. Non è giusto. Io non la conoscevo.» Langton gli mostrò le foto della ragazza scattate sul tavolo dell'autopsia. Johnson ebbe un moto di ripulsa. Poi vennero le immagini del corpo mutilato del bambino ritrovato nel canale. Johnson, a quel punto, pareva totalmente svuotato: il sudore, sgocciolandogli copioso dalla faccia, gli chiazzava la giacca. Langton posò sul tavolo altre fotografie, come se stesse distribuendo carte a un tavolo da poker: Arthur Murphy, Eamon Krasinique, Rashid Burry, Gail Sickert, la sua figlia piccola. Johnson era sempre più sconvolto. L'ultima immagine fu l'elaborazione elettronica del volto di Joseph Sickert. «No, no, non lo conoscevo», disse, ansimando. «Ricominciamo daccapo. Dimmi quel che sai di Carly Ann North.» Johnson si alzò in piedi. Tremava. «No, non potete... Io non c'entro nulla con questa gente, lo giuro davanti a Dio.» «Siediti!» Johnson si accasciò. Il suo avvocato si protese per sussurrargli qualcosa all'orecchio, e lui lo ascoltò con la testa china. Continuò a ripetere di non avere nulla a che fare con gli altri crimini. «Però ne sei al corrente, vero?» disse Anna. «Rashid Burry lo conosci di certo, se frequentavi quella casa di Peckham.» L'avvocato di Johnson alzò una mano per chiedere una pausa. «Posso parlare in privato per qualche istante con il mio cliente?»
Langton disse ad alta voce che stavano per lasciare la stanza e spense il registratore. Anna seguì Langton in corridoio. «Sta già sudando freddo e ancora non abbiamo fatto il nome del suo capo.» Furono raggiunti da Mike Lewis. «C'è una cosa che forse vi interessa: abbiamo perso la testa con tutti i documenti di Emmerick Corso, ma abbiamo scoperto che ha acquistato la casa di Peckham otto anni fa. Figura come acquisto della società, a disposizione dei dipendenti. Le bollette dell'acqua, del gas e dell'elettricità sono intestate a una casella postale di Clapham. Finora siamo risaliti a più di centocinquanta caselle postali diverse! I pagamenti delle altre spese rimandano ad altri due indirizzi, uno a Clapham e l'altro a Tooting. Di certo, esistono molte altre proprietà immobiliari, ma abbiamo dato la priorità alla casa di Peckham e a quelle che si ricollegano ai biglietti del bus trovati addosso a Joseph Sickert.» Langton annuì e si voltò verso l'avvocato che stava uscendo in quel momento dalla sala degli interrogatori: il suo cliente aveva deciso di rilasciare una dichiarazione. In cambio del contributo dato alle indagini, chiedeva che fosse riconsiderata la sua posizione in merito alla morte di Eamon Krasinique. «Ritengo, onestamente, che questo sia l'unico caso in cui il mio cliente è implicato in modo diretto; forse, però, è in possesso di informazioni riguardo agli altri omicidi su cui state indagando.» «Non posso scendere a patti se prima non so che cosa posso ottenere», rispose Langton. «Posso garantire che l'accordo sarà conveniente, signor ispettore capo.» «Per lui o per noi?» «Per voi, ovviamente: il mio cliente intende fornire informazioni sul conto di Eugene Amadou.» Anna e gli altri membri della squadra non immaginavano che Langton già sapesse che Amadou era l'uomo da cui era stato ferito e quasi ucciso. «Be', allora se ne può discutere, no?» 22. Quel caso che sembrava dover sfuggire loro di mano era sul punto di essere risolto. L'impiego come guardia del corpo e autista per conto di Emmerick Corso era stato piuttosto redditizio per David Johnson. Aveva tenuto la bocca chiusa, e questa scelta aveva pagato: ora la sua famiglia era proprietaria di una casa a Esher. Aveva cominciato a lavorare al magazzi-
no e si era comportato da dipendente fidato, ma dichiarò di sapere ben poco degli affari attualmente in corso: agli inizi si era occupato di organizzare le consegne e i turni dei trasportatori. Aveva intuito, però, che la merce importata spesso consisteva non di manufatti africani, bensì di migranti clandestini. Disse di aver conosciuto Joseph Sickert al magazzino: era uno degli immigrati illegali, lavorava come scaricatore e sembrava un uomo molto forte. Non mostrava alcun sintomo dell'anemia che poi l'avrebbe ucciso. Dato che Sickert non aveva la patente, era stato trasferito nella casa di Peckham, dove faceva il guardaspalle di Amadou. Lì, Sickert aveva fatto la conoscenza di Arthur Murphy e Vernon Kramer. Rashid Burry spacciava droga e spesso si serviva delle ragazze che frequentavano la casa di Peckham. Il capo della situazione era Amadou, che metteva a disposizione bambini e donne, quasi sempre tossicodipendenti. «Sickert era un omone e sapeva usare le mani: in più di un caso, si è dimostrato un vero bastardo. Non aveva paura di nessuno: era sempre pronto alla rissa.» Johnson non fu chiarissimo sulla causa del dissidio tra Amadou e Sickert: sapeva soltanto che a Sickert venivano dati pochi soldi. Dai suoi guadagni venivano detratti i soldi necessari a pagare il viaggio della moglie e dei due figli dall'Africa all'Inghilterra, e lui continuava a chiedere quando sarebbero arrivati. Johnson non seppe dire quando la situazione aveva cominciato a degenerare. Sickert, a un certo punto, si era stancato di quel che succedeva a Peckham e aveva cercato di mettersi in contatto con Corso, presentandosi al magazzino e creando problemi. Amadou era un fanatico del voodoo ed esagerava con le droghe. Un giorno aveva organizzato un rito raccapricciante con un bambino che era appena arrivato nel Regno Unito. Carly Ann North, che a quei tempi stava con lui, era inorridita e aveva cercato di fuggire. Aveva iniziato una relazione con un uomo della banda di Amadou: Eamon Krasinique. E Amadou, quando lo aveva scoperto, aveva perso la testa. Rintracciata Carly Ann, l'aveva riportata alla casa di Peckham dove l'aveva stuprata, costringendo poi Idris, il fratello di Eamon, a fare lo stesso. Quindi, l'aveva uccisa. Rashid Burry aveva ordinato a Idris Krasinique di sbarazzarsi del cadavere della ragazza e di tagliarle la testa e le mani. Arrestato e accusato dell'omicidio di Carly Ann, Idris Krasinique aveva
fatto i nomi dei due uomini che erano con lui e che, per un certo periodo, erano stati entrambi alle dipendenze di Amadou. Quest'ultimo, insieme a Rashid Burry, era andato a cercarli all'ostello, proprio quando Arthur Murphy aveva appena assassinato Irene Phelps ed era andato a cercare rifugio da Vernon Kramer. E Amadou, a quel punto, aveva erroneamente concluso che la polizia fosse sulle sue tracce. Secondo Johnson, più o meno in quello stesso periodo Corso aveva cominciato a preoccuparsi di Sickert e aveva chiesto che qualcuno provvedesse a lui. Corso sapeva che i due figli di Sickert erano già in Gran Bretagna; anzi, aveva addirittura assunto la moglie, Ella, come cameriera! Corso aveva ordinato a Johnson di sbarazzarsi di lui, e Sickert era stato mandato a stare al bungalow della sorella di Murphy. A quel punto era intervenuto Murphy, che si era messo a minacciare Amadou. Aveva ucciso Irene Phelps e gli servivano documenti falsi e denaro per lasciare il paese. Se Amadou non glieli avesse dati, lui avrebbe parlato con la polizia della casa di Peckham. Poi, però, Murphy era stato arrestato e rinchiuso nel carcere di Parkhurst, dove già era detenuto Eamon Krasinique. Questi era stato costretto a lavorare per Amadou come una bestia, a causa della relazione avuta con Carly Ann. I guai combinati da Amadou, insomma, cominciavano ad avvicinarsi pericolosamente all'impero economico di Corso. Quest'ultimo, informato delle minacce di Murphy, aveva ordinato ad Amadou di eliminarlo in qualunque modo. Corso aveva chiesto al proprio autista di andare a consegnare una cosa a Krasinique, il quale si sarebbe poi occupato di Murphy e avrebbe messo fine a tutti i problemi. Johnson aveva cercato di sottrarsi, ma Corso aveva insistito. «Lo giuro davanti a Dio, sulla testa dei miei figli: io non ho fatto nient'altro. Corso mi aveva detto di andare a prelevare un pacchetto e di portarlo a un certo Courtney Ransford. Io dovevo solo consegnarlo, e questo ho fatto. Nient'altro.» Langton lo incalzò domandandogli di Gail e dei suoi figli. Johnson chiuse gli occhi. «Risolta la questione di Carly Ann, è saltato fuori un altro problema. Sickert si stava innervosendo: la polizia era in cerca di Murphy, e Sickert pensava che stessero cercando lui. Era malato e si scopava la sorella di Murphy, ma io non so che cos'è successo laggiù; so solo che il signor Corso si è infuriato e si è presentato da Amadou a Pe-
ckham. L'ho accompagnato io. Non so che cosa si siano detti, perché io sono rimasto fuori a bordo dell'auto. Si sarà trattenuto sì e no un quarto d'ora. E all'improvviso la situazione è sfuggita di mano: su tutti i giornali c'era la foto di Sickert e dei due figli più grandi della sorella di Murphy e si era saputo del ritrovamento dei cadaveri vicino a quel bungalow. Il signor Corso mi disse che avrebbe chiuso la casa di Peckham, perché Amadou non era più affidabile. Il problema, però, era che Amadou conosceva tutti i suoi affari. Corso disse che se lo sarebbe portato in casa e l'avrebbe tenuto rinchiuso lì finché non si fosse riusciti a organizzare il suo espatrio. Aggiunse, comunque, che prima di tutto doveva risolvere il problema rappresentato da Sickert.» Johnson proseguì spiegando che Corso, con la moglie e la figlia, erano andati all'estero per una vacanza, mentre i suoi tirapiedi - Amadou e Rashid Burry - avevano riportato Sickert e i due figli maggiori della sorella di Murphy nella casa di Peckham. Langton si sporse in avanti. «Vuoi dire che sono stati Amadou e Burry a portar via Sickert dal bungalow?» «Sì, credo sia andata così.» «Gail Sickert è stata assassinata insieme alla figlia più piccola.» «Giuro su Dio, io non so che cosa hanno fatto. Io dovevo solo tenere d'occhio la casa di Redhill.» Johnson disse che Corso, di ritorno dalle vacanze con la sua famiglia, si aspettava di trovare tutto a posto. E invece aveva trovato Amadou ancora a casa sua. Dopo di che Sickert si era presentato con i due bambini e, avendo visto sua moglie, Ella, si era messo a sbraitare e a chiedere dove fossero i suoi figli. Johnson era prostrato. Aveva la testa china e respirava affannosamente. «Sickert ha provato a fuggire con i bambini dalla porta posteriore. Non sono più riuscito a trovarlo. Non so dove sia sparito.» «Avete avuto una colluttazione?» «Io ho cercato di calmarlo, ma lui era completamente fuori di senno. Abbiamo fatto a pugni. Uno dei bambini - il maschio - tentava di trattenermi.» «E in quel momento a casa di Corso c'era anche Amadou?» «Sì, io ero andato a prenderlo mentre Corso e i suoi erano in vacanza.» Impiegarono un'altra ora a rileggere e far sottoscrivere a David Johnson il verbale del suo interrogatorio. Al momento del processo, la sua testimonianza sarebbe stata di importanza cruciale per l'accusa, ma le sue dichia-
razioni andavano verificate, e Johnson, nel frattempo, sarebbe rimasto in custodia cautelare, finché Langton non avesse deciso altrimenti. In possesso delle informazioni ottenute da Johnson, Langton si accinse all'interrogatorio di Emmerick Corso. Su consiglio del suo avvocato, però, l'uomo si rifiutò di rispondere e si trincerò dietro un irrevocabile «no comment». Il suo volto bello e sprezzante non mostrò il minimo segno di rimorso, quando gli furono letti i capi d'accusa, e continuò a guardare impassibile davanti a sé. Langton decise di non perdere altro tempo e lo fece riportare in cella. La squadra Omicidi era riunita nella sala operativa e stava concedendosi una pausa, quando uno degli agenti in divisa domandò a Langton se Amadou avesse il diritto di ricevere cibo dall'esterno. Langton, scherzando, disse che voleva controllare il cibo personalmente: visto che Amadou l'aveva sfangata già tante volte, non ci sarebbe stato da sorprendersi se nella tartare ci avessero trovato la chiave della sua cella! Mentre loro si sfamavano a sandwich e caffè, Amadou avrebbe avuto un pasto con tre portate. Harry Blunt attaccò a lagnarsi perché non gli pareva giusto: l'avvocato di Amadou aveva fatto richiesta di questo speciale permesso con la scusa che il suo cliente soffriva di disturbi alimentari! Langton pareva non aver fretta di iniziare l'ultimo interrogatorio. Il tempo giocava a suo favore. Amadou fu introdotto nella sala degli interrogatori insieme al suo avvocato. Aveva un'aria spavalda e richiese con insistenza un cambio di abiti, protestando per la tuta malconcia che gli avevano fatto indossare. Gli erano stati tolti i lacci delle scarpe e non portava calzini. Gli fu chiesto di dire nome e indirizzo e di chiarire se avesse compreso quali erano i reati di cui lo si accusava. Anna era curiosa: si sarebbe avvalso anche lui della facoltà di non rispondere? La sua curiosità fu presto soddisfatta. L'imputato si accomodò sulla sedia e, con un sorriso impudente, disse di chiamarsi Eugene Amadou e di risiedere a Redhill, nella casa di Corso. «Conosceva Carly Ann North?» «Sì, benissimo: era la mia ragazza.» «Sa dirci dov'era, signor Amadou, il 15 novembre dello scorso anno?» «Sì, sono stato a casa per quasi tutto il giorno; di sera, ho giocato a carte con quattro amici. Se volete sapere perché me ne ricordo con tanta precisione, la ragione è che quella sera lei è stata trovata uccisa. È stato orribile scoprire che a ucciderla era stato proprio Idris Krasinique, uno degli uomini che lavoravano per me.»
Langton e Anna lo ascoltarono dilungarsi sull'angoscia e lo sgomento provati, sull'amore che aveva nutrito per lei. Era rimasto sconvolto quando aveva saputo che Carly Ann aveva pianificato la fuga con Eamon Krasinique, il fratello di Idris. «Ho dato tutto, a quella ragazza. Quando l'avevo conosciuta, batteva il marciapiede, era una drogata, e io l'ho presa e l'ho curata. Volevo sposarla: avrei fatto qualunque cosa per lei.» «Avremo bisogno di eseguire un prelievo per effettuare l'analisi del DNA.» Amadou si sporse in avanti. «Me la sono scopata, quella troia, prima che se ne andasse, perciò il vostro esame del DNA non vi servirà a nulla. Proprio così mi ha fregato: prima ha fatto l'amore con me e poi, appena ho voltato la schiena, è scappata.» «È proprietario di una Range Rover bianca?» «No, apparteneva alla ditta del signor Corso. Io non l'ho mai guidata, perché non le so usare le auto con il cambio automatico: solo quelle con il cambio normale. La guidava uno dei miei uomini: Rashid Burry.» «Mi sta dicendo che non c'è mai neanche salito, sulla Range Rover?» «Non lo so... Magari ci sarò anche salito. Comunque, come vedete, io sto cercando di rispondere a tutte le domande, perché i reati di cui mi accusate sono completamente fuori dal mondo. Voi dovete capire: io lavoro per il signor Corso, sono soltanto un suo dipendente.» «Ammette, però, che Eamon e Idris Krasinique lavoravano per lei?» «In maniera indiretta, sì. In un certo senso lavoravano per me, ma in realtà erano anche dipendenti del signor Corso... mi spiego? È stato lui a mandarmi i due fratelli alla casa di Peckham.» «Potrebbe farci un elenco dei suoi dipendenti che risiedevano in quella casa?» «Cristo, non saprei... C'era una rotazione notevole, tra il personale.» «Cominciamo da quelli più recenti, dalla gente che abitava in quella casa.» Fu un lavorio lungo ed esasperante: a ogni domanda Amadou divagava e forniva interminabili spiegazioni, sostenendo di non avere una buona memoria per i nomi. Continuava a tirare in ballo Rashid Burry e, a ogni nuova menzione, gli attribuiva un'importanza sempre maggiore nella gestione della casa di Peckham. Quanto più si andava avanti, tanto più cercava di prendere le distanze da quel che vi accadeva. Disse di non aver mai sospettato che alcune delle persone a cui lui aveva «dato un tetto sopra la testa»
fossero immigrati illegali. Non ricordava di aver mai conosciuto Arthur Murphy, e disse che forse, quando questi si era presentato a Peckham, lui non era neanche in casa. Negò di aver mai conosciuto Vernon Kramer e insisteva a coinvolgere Emmerick Corso, sostenendo di essere soltanto un suo dipendente. «Dovete credermi, io praticamente gestivo una specie di bed & breakfast: c'era un gran viavai di gente. Avevo preso un aiuto per la cucina e le pulizie, ma io, fondamentalmente, mi limitavo a dirigere il posto.» Amadou non ricordava granché di Joseph Sickert, a parte il fatto che a un certo punto era stato alla casa di Peckham. Non sapeva nulla degli accordi presi da Sickert con il signor Corso riguardo alla moglie e ai due figli. L'interrogatorio procedeva e i poliziotti davano l'impressione di credere alle sue risposte, cosicché Amadou diventava sempre più sicuro di sé. Faceva ampi gestì, mostrandosi ora divertito ora preoccupato mentre rifletteva sulle loro questioni. Quando gli domandarono se avesse mai praticato il voodoo, scoppiò a ridere. «Oh, no, a queste cagate io non credo! C'è della gente che ci crede, lo so... ma io non sono certo il tipo!» Anna gli chiese di raccontare a grandi linee come si svolgesse la sua giornata tipo. «Be', controllavo la cucina, vedevo se c'era bisogno di qualcosa: pane, zucchero, prodotti per le pulizie... Non avete idea di quanta spazzatura c'era, e infatti dovevamo procurarci questi enormi rotoli di sacchi neri di plastica. C'era gente, lì, che non sapeva neanche l'inglese... Cagavano sul pavimento, giuro! Certi tipi erano davvero degli animali.» «Tenevate anche dei bambini in quella casa?» «Sì, a volte ce li mandavano, ma avevo preso una donna che se ne occupava.» «Possiamo avere un elenco dei loro nomi?» «Cristo, non so se esiste... Era un continuo andirivieni.» «Organizzavate cerimonie rituali, in quella casa?» «Che cosa?» «È mai capitato che si tenessero cerimonie o riti particolari, nella casa di Peckham?» «Assolutamente no.» «C'è una cantina in quella casa, vero?» «Sì, ma la usavo soprattutto per tenerci i miei cani. Anzi, sono molto
preoccupato per loro, perché il signor Corso non è a casa. Chi si prenderà cura di loro?» Anna disse che erano stati portati al canile della polizia, dove sarebbero stati sfamati e alloggiati. A quel punto Amadou si umettò le labbra e disse che aveva sete. Langton si strinse nelle spalle e disse che non c'erano distributori di acqua potabile, lì, e che si erano portati una bottiglia di plastica, la quale, però, era ormai vuota. «Conosce un certo dottor Elmore Salaam?» domandò Langton. «No, ho molta sete», ripeté Amadou. Langton si chinò e raccolse una bottiglia d'acqua più piccola posata accanto alla sua sedia; ne svitò il tappo e versò dell'acqua per Amadou, per poi riempire a metà un bicchiere di plastica anche per sé. «Lei non è mai stato un paziente del dottor Salaam?» «No... cioè, non saprei. Il nome non mi è nuovo, ma non ricordo di averlo mai visto.» «Lei ha mai praticato il voodoo?» «Io? No, davvero! Ve l'ho già detto, io a quelle scemenze non ci credo.» Langton guardò Anna e sfogliò all'indietro il taccuino degli appunti, tamburellando con la matita. «Lei ha ammesso di aver ospitato nella casa di Peckham molte persone, tra cui diversi bambini: dovrà darci i nomi e i loro nuovi indirizzi.» «Io non so dove siano andati: lì, da me, erano solo di passaggio. Pochi giorni o, al massimo, qualche settimana, dopo di che trovavano lavoro e se ne andavano.» «Quindi lei non ha mai tenuto un registro delle persone che alloggiavano in quella casa?» «Statemi a sentire, io sono un dipendente del signor Corso. Era lui che si occupava dei permessi di lavoro. Quella gente è sparsa un po' dappertutto in Gran Bretagna.» «Hanno mai alloggiato da lei i due figli di Joseph Sickert?» «Non sapevo nemmeno che avesse dei figli.» «Però conosceva sua moglie, Ella Sickert, giusto?» «No.» «Lavorava anche lei per il signor Corso.» «Allora, magari l'ho incrociata, ma era il signor Corso che si occupava della gestione dei domestici.» «Nella casa di Peckham abbiamo trovato una macchina tipografica e...» «Lo so che c'era», interloquì Amadou. «Ogni tanto la usavano delle per-
sone mandate lì dal signor Corso. Di questo dovete parlare con lui.» «E sa anche a che cosa serviva?» «Mah, avevamo da produrre un mucchio di cartacce: referenze e così via.» «Sapeva che le persone da lei ospitate alla casa di Peckham erano immigrate illegalmente in Gran Bretagna?» Amadou sollevò le mani. «Okay, d'accordo... lo ammetto: ho pensato che non fossero esattamente immigrati regolarissimi... ma io non ho niente a che fare con il loro ingresso nel paese. Come ho già ripetuto più volte, io ho semplicemente lavorato per il signor Corso. Ero pagato benissimo e non mi andava di fare domande.» Trangugiò l'acqua e si leccò le labbra. «Ho bisogno di andare in bagno», disse. Langton consultò l'orologio e sospese l'interrogatorio. Amadou fu accompagnato fuori da un agente; l'avvocato rimase nella sala dell'interrogatorio. Langton prese il proprio bicchiere d'acqua e uscì in corridoio. Si accese una sigaretta e usò il bicchiere come portacenere. Anna si appoggiò al muro. «Insomma, Corso non risponde alle domande, e Amadou gli scarica addosso tutte le colpe.» Si interruppe, esitante. «Quand'è che comincerai a mettergli addosso un po' di pressione?» Langton fece spallucce, si avvicinò a un cestino dei rifiuti e vi gettò il bicchiere. «Quando torna, ricominciamo daccapo. L'ho lasciato un po' libero di esprimersi. Ci sono troppi casi riconducibili a lui. Non era certo un semplice esecutore di ordini, ma contro di lui abbiamo prove solo per l'omicidio di Carly Ann North, la tratta di immigrati e lo sfruttamento della prostituzione.» Anna andò in bagno, si sciacquò la faccia con l'acqua fredda e si diede una pettinata. Quando tornò nella sala interrogatori, Amadou era già seduto al suo posto, accanto all'avvocato, ma sembrava un po' curvo e diceva di sentire caldo. Anche Langton era rientrato portando con sé un enorme faldone. Fu riavviato il registratore. Langton diede notizia di data e ora. «Allora, Eugene, lei ci è stato di grande aiuto, ma dobbiamo ugualmente porle qualche altra domanda sull'omicidio di Carly Ann North.» «Vi ho già detto tutto quel che so di lei. Non ho niente a che fare con il suo omicidio. È stato Idris Krasinique, e l'avete sbattuto dentro. Ha confessato: suo fratello se la faceva con lei.» «Lei ha dichiarato di non aver mai guidato una Range Rover bianca.» «Non le so guidare le auto con le marce automatiche, ve l'ho detto. Non
ci sono mai salito su quella maledetta auto.» «La sera dell'omicidio di Carly Ann North, quell'auto è stata vista...» Langton fu interrotto. «Non me ne frega un cazzo: non voglio neanche sapere dove e da chi è stata vista. Io di certo non ero a bordo.» «Lei sta mentendo, signor Amadou.» «Neanche per sogno! La Range Rover la usava Rashid Burry. Io non ci sono mai salito.» «Eppure abbiamo trovato una sua impronta digitale.» «Okay, ci sarò anche salito, un paio di volte, ma la sera dell'omicidio di Carly Ann sono stato per tutto il tempo con della gente che può testimoniarlo.» All'improvviso, Amadou si voltò di scatto e fissò lo sguardo sulla parete che prima gli stava alle spalle; si spolverò la schiena in preda a una certa agitazione, per poi girarsi di nuovo verso Langton, che riprese l'interrogatorio. «Lei ha ammesso di aver avuto rapporti sessuali con la vittima, la sera dell'omicidio. A che ora?» «Chi cazzo se lo ricorda? Era la mia fidanzata, okay? Io e lei facevamo sesso di continuo.» «Idris Krasinique ha dichiarato che lei, in realtà, ha stuprato Carly Ann North.» «Balle! Era la mia ragazza! Non ho mai avuto bisogno di stuprarla!» Di nuovo, si voltò e riprese a scrollare e a spolverarsi le spalle, sempre più concitato. «Il signor Idris Krasinique dice di essere stato costretto da lei, signor Amadou, ad avere un rapporto sessuale con la ragazza, mentre suo fratello Eamon veniva costretto ad assistere.» «No! Sono tutte bugie! Quei due fratelli mi hanno fregato; quel bastardo di Eamon si scopava la mia ragazza. Forse, io...» Amadou si interruppe e si umettò le labbra. Aveva cominciato a sudare a profusione, al punto che le gocce gli colavano dai capelli, e sotto le ascelle gli erano apparse delle chiazze bagnate. «"Forse io..." che cosa?» domandò Langton. «Forse avrò un po' maltrattato quel bastardo, lo ammetto... Carly Ann era la mia ragazza, giusto? Vi assicuro che avrei potuto scegliere tra centinaia di donne, ma lei...» Ansimò rumorosamente e si leccò le labbra. «Ha mai iniettato a Eamon Krasinique un veleno chiamato Datura stramonium?»
«No, no! Io gli ho dato una ripassata, ma solo perché lui si scopava la mia ragazza a casa mia!» «Dunque lei ammette che la casa di Peckham era sua?» «No, non ho detto questo... Magari, Cristo! Magari! Era un posto fantastico: io mi ero occupato dell'arredamento, ma non era mia.» «Quindi è stato lei ad approntare la cantina?» «A fare che cosa?» «La cantina, signor Amadou... Vuole che le ricordi com'era?» Gli fu mostrata una fotografia. L'uomo la osservò per un attimo e poi distolse lo sguardo. «Io non ci sono mai stato, in questa cantina. Ve l'ho detto: la casa non era mia.» «Sa qual è l'effetto dello stramonio?» domandò Langton con pacatezza. Negli occhi di Amadou balenò come uno scintillio, seguito da una risata. «No, non ne ho mai sentito parlare.» «Dunque, non è stato lei a preparare le tortine contenenti stramonio?» «Non so neanche di che cosa stiamo parlando.» «Abbiamo raccolto una dichiarazione secondo cui lei avrebbe fornito al signor David Johnson delle tortine da consegnare a...» «Questa è un'altra bugia! Per chi cazzo mi avete preso? Per un cuoco?» Amadou si alzò in piedi di scatto e cominciò, questa volta, a mulinare un braccio come se avvertisse una presenza alle sue spalle. «La prego, resti seduto», disse Langton. Amadou, lentamente, riprese posto, ma continuava a voltarsi e a spolverarsi le spalle, come se qualche animale vi stesse strisciando sopra. Il sudore gli luccicava sulla faccia. Ansimava come un cane. «Mi sento male», disse. L'avvocato gli domandò se avesse bisogno di un dottore. Amadou si piegò in avanti, afferrandosi la testa tra le mani. Dopo una lunga pausa, tornò a raddrizzare la schiena. «Se la sente di continuare l'interrogatorio?» gli domandò Langton. Amadou non rispose; agli angoli della sua bocca stava formandosi una bava schiumosa. «Signor Amadou...» L'avvocato si protese verso il suo assistito. Amadou si ritrasse. «No, quest'uomo deve andarsene, non lo voglio qui», disse, inviperito. Arretrò con la sedia e cominciò a inveire contro Langton e Anna, dicendo che non si fidava di loro. Voleva andarsene, non si sentiva bene. Amadou dava segni sempre più evidenti di ansia, e il suo comportamento si fa-
ceva via via più incoerente e bizzarro. Attaccò a farfugliare e imprecare e poi si distese a terra. Furono chiamati degli agenti affinché lo riportassero in cella. Langton interruppe l'interrogatorio e invitò l'avvocato a discutere con il suo cliente dell'opportunità di convocare un medico. Amadou aveva la febbre altissima, ma aveva smesso di sudare. Straparlava, ormai; aveva il ritmo cardiaco fuori controllo e gridava, dicendo che vedeva dei mostri che sbucavano dalle pareti della sua cella. Passava dalla confusione più totale a uno stato prossimo all'euforia e invocava il nome di Carly Ann. Piangeva a dirotto e continuava a ripetere che l'amava. Poi le sue condizioni peggiorarono: sprofondò nel delirio. Fu chiamata un'ambulanza, e Amadou fu portato all'ospedale locale. Alla disperazione subentrò il terrore. L'uomo si rannicchiò come un animale in gabbia quando cercarono di caricarlo sull'ambulanza in attesa. Dovettero intervenire quattro agenti in aiuto degli infermieri. Amadou ebbe il suo primo attacco di cuore alle nove, seguito da altri due a bordo dell'ambulanza; all'arrivo al pronto soccorso era ormai in uno stato di catatonia profonda. Alle dieci e trentacinque ebbe un grave arresto cardiaco. Malgrado gli sforzi, non riuscirono a rianimarlo. Il decesso fu dichiarato alle dieci e tre quarti. Il certificato di morte di Eugene Amadou parlava di arresto cardiaco. Poiché il malore era cominciato quando era sotto la custodia della polizia, ci sarebbe stata un'autopsia, anche se l'uomo era morto in ospedale e non al commissariato. La successiva indagine rivelò che non era accaduto nulla di strano, durante la detenzione. Amadou aveva manifestato sempre più evidenti i sintomi di un imminente attacco cardiaco: sudorazione intensa, disorientamento, difficoltà respiratorie. L'avvocato confermò che non appena il suo cliente aveva mostrato segni di disagio, l'ispettore capo Langton aveva sospeso l'interrogatorio e convocato un medico. Amadou aveva avuto tre attacchi in presenza del personale paramedico. Nessuno si presentò a reclamare la salma: l'avvocato cercò di rintracciare eventuali conoscenti desiderosi di rendere un ultimo saluto al defunto, ma di parenti non se ne trovarono. Quando domandarono a Emmerick Corso se c'era qualcuno a cui potesse interessare la notizia di quel decesso, la risposta fu: «Chiedete all'inferno». A Corso non fu concessa la libertà su cauzione: lo portarono nel carcere
di Brixton in attesa di giudizio. Si dichiarò innocente su tutta la linea, ma continuò a rifiutarsi di rispondere. Anche David Johnson rimase in carcere, ma acconsentì a testimoniare contro Corso. I preparativi del processo sarebbero durati mesi: c'erano quintali di documenti da produrre. Anna e il resto della squadra passarono al setaccio tutti gli elementi di prova raccolti sulle attività di riciclaggio di denaro e sulla tratta di immigrati illegali di Corso. Questi aveva fatto molta attenzione a cancellare ogni traccia, e la polizia non aveva prove sul suo coinvolgimento negli omicidi di Carly Ann North, di Arthur Murphy, di Gail Sickert e di sua figlia Tina, di Rashid Burry e del bambino rinvenuto orribilmente mutilato nel Regent's Canal. Quando il processo era ancora in fase istruttoria, la moglie di Corso chiese il divorzio. Riferì tutto quel che sapeva dei conti e degli investimenti off-shore del marito. Furono trovati milioni di sterline frutto di traffici illegali, e il patrimonio di Corso fu congelato. A mo' di ulteriore incoraggiamento, soprattutto per Anna, giunse la notizia dell'affidamento di entrambi i figli di Gail Sickert a Dora Rhodes, la stessa donna che aveva aiutato Carly Ann North. Sharon e Keith erano sistemati e avrebbero ricevuto tutto l'aiuto possibile per superare i traumi e le sofferenze patiti a opera di Amadou. Quando Anna disse che non esisteva, secondo lei, una persona più adatta di Dora alla cura di quei bambini, Alison le rispose che era stata l'unica ad accettare di prenderli tutt'e due. «Non avrei mai permesso che fossero separati; al limite, li avrei adottati io.» Beryl Dunn, la madre di Gail, fu ben felice di lasciare che fossero altri ad assumersi questa responsabilità: le pratiche erano in corso. Era l'unico risvolto positivo dell'agghiacciante caso a cui stavano lavorando ormai da tantissimo tempo. Il collegio di difesa di Idris Krasinique stava preparandosi per la riapertura del processo. Langton aveva concesso loro di consultare i documenti relativi agli incontri avuti dalla squadra Omicidi con Idris e con il dottor Salaam. Anna stava facendo le fotocopie richieste, quando sorse in lei il primo germe di un sospetto. Si sedette e passò di nuovo in rassegna i dati a disposizione: la dichiarazione del dottor Salaam sul veleno somministrato a Eamon Krasinique; il verbale dell'interrogatorio con Courtney Ransford, che aveva fatto da tra-
mite per l'avvelenamento di Krasinique; e, infine, l'ammissione di David Johnson, che era andato a trovare Ransford in carcere e gli aveva consegnato il veleno, nascosto in alcune tortine di cocco. Anna passò poi a studiare i sintomi che il dottor Salaam aveva ricondotto all'assunzione di Datura stramonium: bocca secca, pupille dilatate, febbre alta e vista annebbiata. L'elenco degli effetti psicologici, invece, contemplava confusione, euforia, delirio... Un dosaggio eccessivo inibiva l'eloquio, pregiudicava la coordinazione e causava attacchi di cuore che talvolta portavano all'arresto cardiaco. Anna andò a trovare Langton nel suo ufficio. Lui le fece cenno di accomodarsi e proseguì nella conversazione telefonica in cui era impegnato. Aveva un aspetto fantastico: le occhiaie scure erano scomparse. Era al telefono con Kitty e le promise di andare a trovarla nel weekend e, terminati i saluti, riagganciò. Non era semplicemente in forma: era anche rilassato, e il ginocchio non doveva essere più un gran problema, a giudicare da come scattò in piedi. «Le Barbie sono superate: vuole un registratore con cui fare il karaoke!» Anna sorrise, e tacque: non aveva voglia di toccare argomenti che potessero rovinargli l'umore. «Che cosa c'è?» le domandò, stappando una bottiglia d'acqua. Anna gli parlò del lavoro che stava facendo per il nuovo processo di Idris Krasinique. Dopo aver riletto l'elenco dei sintomi causati dallo stramonio, si era resa conto di come Amadou li avesse mostrati tutti. «Come dici?» «Non ti ricordi?» gli domandò. «Che cosa dovrei ricordare, esattamente?» «Durante l'interrogatorio, continuava a chiedere acqua.» Langton tornò a sedersi. «Non capisco dove tu voglia arrivare.» «Amadou ha avuto un arresto cardiaco.» «Lo so.» «Ha ricevuto il cibo da fuori.» «E allora?» «Be', stavo pensando... Non potrebbe darsi che Corso abbia trovato il modo di avvelenargli il cibo? Se riuscissimo a dimostrarlo, avremmo un'altra accusa a cui inchiodarlo.» Langton scosse la testa. «Lasciamo perdere. Quello stronzo è morto e ci ha risparmiato un mucchio di lavoro. E poi, a carico di Corso, abbiamo già abbastanza elementi da sbatterlo dentro per un quarto di secolo.»
«Lo so, ma non credi che sarebbe meglio approfondire?» «No, non credo. Lascia stare, Anna: abbiamo già abbastanza carne al fuoco. È già stata fissata la data del processo.» «Se lo dici tu...» «Lo dico io.» «Gli faranno l'autopsia?» Langton annuì. «Già fatta. C'è stata un'indagine sul decesso, e si è appurato che è morto per arresto cardiaco.» Protese la mano per farsi consegnare i verbali. «A quelli penserò io.» Anna fece come le era stato suggerito, ma domandò ugualmente a Harry Blunt se avesse visto il rapporto sull'autopsia di Amadou. «Be', di certo da qualche parte lo si trova. Per quel che ne so io, si è trattato di ordinaria amministrazione. A quest'ora, sarà già stato cremato.» «Che cosa?!» «Non possono mica tenerlo in frigorifero per sempre, o no? Credo che il capo abbia dato il nulla osta.» «Per la cremazione?» «Non chiedere a me, io non ne so niente. Io so solo che quel bastardo avrebbe meritato la forca. Avrei aperto io stesso la botola. Quando ripristineranno la pena di morte sarà un giorno di festa, per me. Comunque, ormai è andato. Uno di meno. Se avessimo dovuto fargli il processo, si sarebbe beccato l'ergastolo: tre pasti al giorno per tutta la vita...» Harry proseguì con la sua solita invettiva sul sovraffollamento delle carceri e sul suo metodo per ridurre almeno della metà la popolazione dei detenuti. «Con Murphy hanno fatto proprio un bel lavoro: era una bestia. Eamon Krasinique, solo per averlo ammazzato, avrebbe meritato il rilascio.» «Eamon è morto», disse Anna. Harry si strinse nelle spalle. «Non mi interessa. Idris Krasinique ha violentato Carly Ann North, insieme ad Amadou; che sia stato o meno costretto a farlo per me non ha importanza, anche perché poi ha cercato di amputarle le mani e di decapitarla; qualunque cosa salterà fuori alla riapertura del suo processo, lui per me continuerà a essere una bestia. Questa è gente pericolosa che non dovrebbe mai poter tornare in libertà.» «E se l'avessero terrorizzato, per costringerlo a farlo?» domandò Anna. Harry alzò le mani come a negare ogni clemenza. «Se qualcuno mi fa paura, il voodoo non è certo un'attenuante. Gli farei trascorrere tutta la vita in galera. Lo sai che il capo ha avuto problemi con i superiori per quel che
è costata questa indagine?» «Alla fine, però, abbiamo risolto il caso.» «Sì, e adesso per quante settimane saremo qui bloccati prima del processo? Corso ci farebbe un gran favore se decidesse di ammazzarsi.» Anna tornò alla sua scrivania per riprendere il suo lavoro. Evidentemente a nessuno importava che Corso potesse aver avvelenato Amadou. Il processo a carico di Corso occupò le prime pagine dei quotidiani per diversi giorni. Non una sola volta l'imputato si presentò in aula; lasciò ai suoi agguerriti avvocati il compito di provare a smontare le accuse come volgari dicerie. Alla fine, però, fu condannato per aver fatto entrare illegalmente nel paese persone da lui poi utilizzate come corrieri della droga. Anche l'accusa di aver gestito un bordello tenne, così come quelle di truffa e traffico di droga. Fu condannato non a venticinque anni, come si sperava alla squadra Omicidi, bensì a quindici. Il suo legame con i vari delitti era puramente indiziario, fondato su voci non riscontrate, sicché queste accuse caddero. La Omicidi stimò che, con la buona condotta, avrebbe scontato al massimo dodici anni. Alla fine del processo, Langton organizzò una festa al pub locale. Ringraziò ed elogiò la squadra per l'impegno profuso, anche se l'esito non era stato quello sperato. Diede appuntamento a tutti, con formula dubitativa, per eventuali successive indagini: non si sapeva se la squadra sarebbe stata confermata, ma lui tenne a dire che molto volentieri avrebbe lavorato di nuovo con ognuno di loro. Anna lasciò il pub di buon'ora per tornare a casa. Si avvicinò a Langton per salutarlo. Lui fu quanto mai galante e le domandò se non fosse possibile, magari, uscire una sera a cena... Lei fu altrettanto cortese e rispose che le avrebbe fatto molto piacere. Quando lei si voltò per andarsene, lui allungò un braccio e le prese una mano, attirandola a sé. «È finita, Anna.» Lei capì al volo che Langton non alludeva alla loro relazione. Le stringeva la mano con forza, e lei lo guardò negli occhi scuri. «Sì, e tu sei sulla via del più completo recupero.» «Adesso sì. Te l'ho detto: è finita. Mi spiego?» «Sì, certo, capisco. Usciamo una sera a cena! Aspetto una tua chiamata.» Langton le diede un bacio su una guancia e le lasciò la mano. Anna restò per un po' seduta nel parcheggio. Era in balia di emozioni co-
sì contrastanti... Non aveva intenzione di riprendere la relazione con lui, e le pareva che neanche lui volesse. Il bacio che le aveva dato le era apparso come una minaccia o un avvertimento. Per la prima volta da quando lo aveva conosciuto Anna ebbe paura dell'ispettore capo Langton. Il sospetto che era cresciuto in lei non l'abbandonava. Anna era convinta che a uccidere Eugene Amadou fosse stato proprio lui. 23. Terminato il processo e sgomberata la sala operativa, Anna ebbe un po' di tempo per sé prima di essere assegnata a un nuovo incarico. Rimise a posto la casa, pulendo e lavando di tutto, dalle tende ai copriletti. Faceva sempre le pulizie generali al termine di ogni indagine impegnativa: era un'abitudine dalle virtù terapeutiche. Fece dei gran bucati, stirò e mise in ordine il suo intero guardaroba, andò dal parrucchiere e dalla manicure e fece persino qualche seduta di allenamento nella palestra più vicina. Pedalando sulla cyclette, non poteva fare a meno di arrovellarsi di continuo su quel rompicapo che era la sua vita. Langton non era mai troppo lontano dai suoi pensieri. Non le aveva telefonato. Anna aveva la sensazione di procedere con il pilota automatico. Non aveva voluto alimentare i propri sospetti, ma questi erano comunque cresciuti. Estrasse un taccuino dalla valigetta - l'indagine si era protratta al punto che quello era già il terzo quaderno di appunti - e riesaminò il caso dall'inizio, dall'omicidio di Irene Phelps. Si ricordò che Mike Lewis temeva che Langton, se mai si fosse ristabilito, potesse chiedere a lui e a Barolli di agire come giustizieri. Anna sospirò: non poteva certo biasimare Langton per il suo desiderio di mettere le mani sull'uomo che l'aveva ridotto in quelle orribili condizioni. Anna cercò di rievocare con precisione le parole usate da Langton quando le aveva descritto la scena del ferimento. Sapeva che aveva sospettato da subito che il suo feritore fosse Eugene Amadou. Quanto più consultava i suoi appunti, tanto più le sembrava probabile che anche ad Amadou fosse stato somministrato del veleno: i suoi sintomi erano apparsi identici a quelli manifestati da Eamon Krasinique. Anna si sforzò di immaginare come qualcuno potesse essere arrivato a lui. Se gli avessero fatto un'iniezione, i segni sarebbero stati rinvenuti sul corpo di Amadou durante l'autopsia; nel caso di Eamon, all'inizio, i segni delle punture non erano stati notati, ma lui aveva assunto il veleno anche per via o-
rale. Anna si distese sul divano e chiuse gli occhi. Le tornò in mente la sete mostrata da Amadou durante il primo interrogatorio. Tra tutti, avevano consumato una bottiglia di quelle grosse. Quindi, si ricordò di come Langton avesse versato, da un'altra bottiglia più piccola, un bicchiere pieno per Amadou e un mezzo bicchiere per sé. Amadou l'aveva trangugiata e poco dopo aveva chiesto di poter andare al bagno. Anna ricordò anche di essere uscita in corridoio e di aver visto Langton spegnere la sigaretta nel bicchiere mezzo pieno per poi gettarlo nel cestino dei rifiuti! Anna ne era certa: Langton non aveva bevuto l'acqua della bottiglietta. Si rialzò in piedi e prese a camminare avanti e indietro per la stanza. C'era dell'altro. In quel momento non ci aveva fatto caso. Quando l'agente di guardia aveva chiesto a Langton se il detenuto avesse il diritto di farsi portare da mangiare in cella lui aveva detto che Amadou si era fatto servire da fuori una bistecca alla tartara. Come faceva Langton a sapere quello che Amadou aveva ordinato? Anna telefonò a Esme Salaam per chiederle un colloquio e raggiunse immediatamente in auto la moglie del dottore. I Salaam erano tornati nel loro studiolo dell'East End e all'arrivo di Anna stavano per chiudere. «Vorrei sapere se è facile individuare le tracce di Datura stramonium in un cadavere», domandò Anna senza perifrasi. Esme guardò il marito, che si stava spogliando del camice bianco. «Per quel che ne so io, non è affatto facile. Bisognerebbe già sapere della sua presenza o conoscere quali sono i sintomi che causa. Sì, è difficilissimo individuarla... anche se, ovviamente, dipende dal dosaggio.» «Se la dose è sufficiente a causare un arresto cardiaco?» domandò pacatamente Anna. Il dottor Salaam guardò la moglie e si strinse nelle spalle. «Be', se l'arresto cardiaco è avvenuto in circostanze sospette, se il paziente ha dato segno di gravi allucinazioni uditive o di un'intensa angoscia visiva...» «Allude a visioni allucinatorie o alla sensazione di sentirsi addosso qualcosa che cammina?» «Questo potrebbe essere un effetto collaterale; come dicevo, dipende dal dosaggio.» «Poniamo che dall'assunzione siano passate meno di trentasei ore?» «Be', allora la dose deve essere piuttosto consistente. Per quel che ne so, lo stramonio viene usato di solito in dosi molto piccole per controllare e
spaventare coloro che l'assumono e convincerli di essere posseduti da una forza a loro estranea.» «È facile procurarselo?» «Al contrario, è difficilissimo. Se uno volesse, potrebbe coltivarlo, ma non esistono antidoti. Sarebbe poco consigliabile fare esperimenti incauti.» Anna accettò la tazza di tè offertale da Esme e si accomodò, mentre il dottor Salaam si congedò dicendo che aveva alcune telefonate da fare. Mentre questi rientrava nel suo ufficio, Anna si sforzò di spiegare con la massima chiarezza possibile la ragione di quelle sue domande. Esme, però, le semplificò il compito. «Ha a che fare con Amadou?» domandò. «Sì. Le risulta che ne abbia mai fatto uso?» «Se l'ha usato, di certo non l'ha avuto da noi. Noi ne possediamo soltanto un campione minuscolo, che viene sempre tenuto sotto chiave. Non mi capita quasi mai di tirarlo fuori.» «Quand'è stata l'ultima volta?» «Quando eravamo all'ospedale. Mio marito l'ha ritenuto necessario, ma poi alla fine non credo che l'abbia mostrato ad altri.» «Lo tenete in una boccetta?» «Sì, può essere liquido o in piccole compresse.» «È percepibile al gusto?» «No.» «Quindi potrebbe essere mescolato al cibo?» «Sì, certo. Non è stato così che l'hanno somministrato a quel povero ragazzo in prigione?» Anna inspirò a fondo. «Dunque, Amadou aveva a disposizione quantitativi di questo veleno?» «Sì, certo, ma lui gestiva anche un traffico di immigrati illegali: potrebbe essere stato uno di questi a trasportarlo per lui. Contrabbandavano anche eroina, cocaina e marijuana, o sbaglio?» Anna assentì. Esme bevve un sorso di tè e poi posò delicatamente la tazza sul piattino di porcellana color avorio. «Perché mi fa tutte queste domande?» «Volevo solo chiarire alcuni dettagli rimasti in sospeso», rispose Anna sommessamente. Esme annuì e offrì dell'altro tè ad Anna, che rifiutò. «Posso vedere il contenitore in cui voi conservate il veleno?» Esme ebbe un'esitazione. «Non è che poi questo avrà conseguenze per
noi?» «No, certo che no», assicurò Anna. Esme aprì un armadietto e ne tolse un flacone sulla cui etichetta campeggiava una croce rossa. «All'ospedale qualcuno l'ha avuta per le mani, a parte voi?» Esme scosse la testa. «No, è rimasta per tutto il tempo nella mia valigetta. L'ho estratta solo per mostrarla all'ispettore capo Langton.» «E poi ha richiuso a chiave la valigetta?» «Sì, assolutamente. Prendo sempre tutte le precauzioni del caso, e non ho perso di vista la valigetta neppure per un istante.» Anna assentì e poi chiese a Esme di verificarne il contenuto, per accertarsi che non ne mancasse. Esme ebbe un attimo di titubanza; quindi, premette verso il basso il tappo e lo svitò. «Noi l'abbiamo sotto forma di compresse: i semi della pianta vengono frantumati e poi ridotti in pillole.» Inclinò la boccetta facendo cadere una piccola pillola bianca sul palmo della mano, che protese verso Anna. «Così piccola e così letale.» Esme rimise la pillola nella boccetta e ne riavvitò il tappo. «Quali sono i dettagli che le interessano?» domandò con estrema serietà. Anna scrollò le spalle. «Be', i sintomi mostrati da Amadou ci hanno messo un po' sull'avviso; dovremo verificare se la morte è avvenuta per cause naturali.» «Capisco. Be', a essere sinceri, mio marito e io abbiamo provato un grande sollievo quando abbiamo saputo della sua morte. Era un uomo malvagio e perverso. Chissà quante vite, anche giovanissime, ha distrutto per la sua gratificazione sessuale... Spero che sia morto tra atroci sofferenze. Non merita alcuna simpatia. Purtroppo, non basterà a riparare ai torti subiti dalle sue vittime.» In quel momento, ricomparve il dottor Salaam che, scusandosi, disse di avere due pazienti insonni da visitare. Anna li ringraziò per la disponibilità. Il dottore le strinse la mano e l'accompagnò alla porta. Quando se ne fu andata, il medico richiuse la porta con entrambe le serrature. «Che cosa voleva davvero, secondo te?» domandò alla moglie. «Qualcuno potrebbe aver somministrato dello stramonio a Eugene Amadou. Io non ho insistito tanto, ma mi ha detto che ha mostrato certi sintomi...» rispose Esme. «Be', complimenti a chi è stato. Se è morto soffrendo e in preda al terro-
re, così sia.» «Chiunque sia stato, non ha rubato a noi lo stramonio. Sono stata attentissima.» «Ma certo, cara. E poi lì c'erano solo poliziotti, quindi non credo che lei deciderà di coinvolgerli.» Esme lo baciò e andò al piano di sopra per preparare la cena. Il dottor Salaam disse che l'avrebbe raggiunta di lì a pochi minuti. Richiuse le tende e si avvicinò all'armadietto. Fissò il flaconcino con la croce rossa sull'etichetta e lo tolse dallo scaffale. Lo scosse e si avviò verso il tavolino della reception dove estrasse da un cassetto una paletta d'argento in miniatura. Svuotò il flacone e contò le pillole sospingendole di nuovo dentro con la paletta. Quindi riavvitò il tappo e rimise la boccetta nell'armadietto. Mancavano quindici piccole compresse. Anna tornò a casa insoddisfatta. Si era illusa di trovare qualche risposta. Il sospetto però continuava ad aleggiare nella sua mente. Langton sapeva che era stato Amadou a ferirlo? Provò a ripensare alla reazione che lui aveva avuto a casa di Corso, quando avevano arrestato il nigeriano: nessuno dei due aveva dato segno di riconoscere l'altro. Langton non ne aveva mai parlato durante l'interrogatorio di Amadou. Anna, con la mente in subbuglio, non riusciva a dormire. Prese a pugni il cuscino per cercare di renderlo più comodo. E se Langton avesse avuto un ruolo nella morte di Amadou? Questi era un essere schifoso: non esisteva una condanna capace di compensare i crimini che aveva commesso. Eppure Anna non riusciva a passarci sopra, perché Langton era un poliziotto: se si fosse davvero sostituito alla legge, si sarebbe trattato di una grave violazione dei principi a cui loro tutti si ispiravano in quanto tutori dell'ordine. Dopo che l'hai fatto una volta, è più facile ricaderci. Langton era noto per la sua audacia: aveva forse deciso di correre quel rischio estremo? Dopo una notte inquieta, Anna si preparò un caffè nero fortissimo. Era decisa a trovare le risposte ai suoi quesiti. Compilò un breve elenco di persone con cui voleva parlare. Se non avesse trovato conferma ai propri sospetti, a quel punto si sarebbe rassegnata. Mike Lewis stava sistemando il figlio più piccolo sul passeggino, quando Anna si presentò a casa sua. Era anche lui in permesso, in attesa di essere assegnato a una nuova indagine; diversamente da Anna, però, se la stava godendo. Lei gli disse che aveva un paio di domande da porgli. Lui si strinse nelle spalle e disse che stava andando al parco giochi.
«Quando hai visto Amadou lo hai riconosciuto come l'uomo che ha ferito Langton?» Lewis fermò il passeggino. «Che cosa?» «L'hai riconosciuto?» Mike riprese a camminare. «Mah, è passato tanto tempo. A dire il vero, è stato un tale incubo che l'ho un po' cancellato... comunque, per tornare alla tua domanda, no, non l'ho riconosciuto.» Si fermò di nuovo. «Forse, se Jimmy me ne avesse parlato, ci avrei anche pensato, ma se c'è uno che poteva riconoscerlo quello è lui, giusto?» «Lo sai che Amadou si è fatto portare il cibo dall'esterno, quand'era in cella?» «Sì.» «Be', secondo me qualcuno lo ha avvelenato.» Mike spinse il passeggino con più foga. «Non so dove tu voglia andare a parare, Anna, ma se qualcuno lo ha avvelenato non può essere stato che Corso. Qual è il problema?» «Nessun problema... Volevo solo chiarire qualche piccolo dettaglio.» «Resta sempre qualche aspetto poco chiaro in ogni indagine, ma non capisco dove tu voglia arrivare.» «Lascia stare. Pensa a goderti il tempo libero.» Detto questo, Anna si allontanò. Mike restò lì a guardarla per un po', dopo di che riprese la sua passeggiata con il figlio, sia pur con una vaga sensazione di disagio, al pensiero di quel che poteva avere in mente Anna. Anche Barolli era a casa; benché stesse già lavorando a un'altra indagine, aveva il weekend libero. Anna gli mostrò le foto segnaletiche di Eugene Amadou. «È questo l'uomo che ha ferito Langton?» «Può darsi», rispose Barolli. «Ma tu c'eri... L'hai visto.» «Sì, ma tieni presente che davanti a me c'era quest'altro tizio enorme, e poi quello stronzo è sbucato all'improvviso. Non so... cioè, sembra lui, ma non posso esserne sicuro.» Anna mise via la foto. «Perché ti interessa?» le domandò Barolli. «Tra l'altro, ho capito chi è... Quello è Eugene Amadou, giusto?» «Sì.» «Perché sei venuta a farmi questa domanda?»
Anna disse che voleva solo chiarire qualche piccola questione rimasta insoluta. Restò sorpresa quando Barolli, dandole un buffetto sul ginocchio, le disse: «Questioni tue... o di Jimmy?». «Mie.» Barolli si appoggiò all'indietro sulla sedia e scosse la testa. «Lascia perdere. Qualunque cosa tu speri di guadagnarci, finirà per ritorcersi contro di te, capito? Lascia perdere.» Anna sentì le lacrime bruciarle negli occhi. «Non posso.» «Allora, ascolta il mio consiglio: quel che tu stai cercando di scoprire finirà per distruggerti. Se vai avanti così, tireranno fuori la storia del risentimento da donna abbandonata.» «Ma questo non è vero», ribatté lei aspramente. «Ne sei sicura? Comunque, lascia perdere queste stronzate, Anna.» «Lui è un funzionario di polizia!» «Anch'io!» replicò secco Barolli. «E allora anch'io!» insistette lei. «E allora lascia perdere e pensa per te», disse lui più tranquillamente. «Mike Lewis ti ha telefonato, vero?» «Pensa agli affari tuoi, Anna. Dico sul serio. E adesso va' a casa. Questo è il mio weekend libero.» Anna raggiunse in auto la stazione di polizia del New Forest, dove la sua comparsa fu una sorpresa. Lei chiese di poter parlare con gli agenti in servizio alle celle durante la detenzione di Amadou. Aspettò in una saletta per una decina di minuti. Quindi, arrivò l'agente Harris. Anna fu molto cortese e cercò di metterlo a suo agio, ponendogli domande apparentemente innocue sul conto di Amadou e sulla procedura seguita per fargli arrivare il cibo da fuori. Harris disse che Langton era a conoscenza delle richieste di Amadou e che aveva ordinato loro di controllare con grande cura tutti i piatti e i vassoi. «A che ora è stata ordinata la bistecca alla tartara?» Harris scrollò le spalle. Lui stesso aveva consegnato ad Amadou il menù di un ristorante italiano. Compiuta la scelta, avevano telefonato al locale per ordinare il cibo che in breve era stato recapitato, esaminato e portato nella cella. «E l'ispettore capo Langton ha dato la sua approvazione?» «Ha voluto controllare più volte di persona i vassoi.» «E il signor Corso ha avuto a sua volta accesso a questi vassoi?»
«No, era chiuso nella sua cella.» «Dunque, i vassoi del cibo li avete controllati solo tu e l'ispettore capo Langton?» «No, li hanno controllati tutti gli agenti in servizio.» «Grazie.» Anna si alzò in piedi e, quasi soprappensiero, chiese a Harris se fosse presente quando Amadou era stato riportato in cella in preda al suo malore. Rispose di sì; anzi, era stato proprio lui a telefonare al dottore. «Era completamente fuori di senno: vedeva mostri e cose varie che sbucavano dalle pareti. Strillava, diceva che ce l'avevano con lui; si strappava i vestiti, convinto che lo stessero divorando. Era in trance, gli si rovesciavano gli occhi all'indietro, aveva la bava alla bocca... Roba da pazzi.» «Come se fosse sotto l'effetto di una droga?» «Non lo so... Era letteralmente terrorizzato.» «E poi che cos'è successo?» «Poi è ammutolito, si è come irrigidito, e fissava la parete... Ogni volta che lo guardavo, lo vedevo compiere questo gesto.» Harris sollevò la mano e puntò un indice davanti a sé, tracciando con la punta un cerchio immaginario. «Come se seguisse le lancette di un orologio.» «E poi com'è andata?» «L'ispettore capo Langton è venuto a dire che bisognava chiamare un medico al più presto.» «Mentre aspettavate il medico, che cosa faceva Amadou?» «Nulla. È rimasto disteso sulla sua branda, con gli occhi fissi sul soffitto.» «Come uno zombi?» domandò Anna, simulando ingenuità. «Sì, proprio come uno zombi.» «Grazie, davvero.» Anna lasciò la stazione di polizia diretta, finalmente, a un appuntamento a cui teneva molto. Aveva chiesto, visto che si era nel fine settimana, di poter incontrare i figli di Gail. Dora gliel'aveva concesso e l'accolse dicendo che stava preparando del tè. I bambini erano nella loro saletta nel più completo disordine. Anna entrò e vide la bambina: con una gonnellina a balze e una delle collane di Carly Ann al collo, stava giocando con un'enorme casa di bambole. Keith sorrise, quando vide Anna: era completamente vestito da poliziotto, con tanto di berretto. «Ehi, sei bellissimo», disse Anna, quando lui le sfilò davanti impettito. «Ho catturato il cattivo», disse.
«Eccome!» confermò Anna, sedendosi su un cuscino. Si voltò quando Dora sopraggiunse con un vassoio di Coca-Cola e tè e con un piatto di biscotti al cioccolato. «Stavo facendo i complimenti a Keith perché ci ha dato un grande aiuto per catturare il cattivo.» «Sì, ha ricevuto l'uniforme e tutti gli accessori da poliziotto, dalle manette ai fogli per i mandati di cattura: adesso è un vero investigatore. E gli daranno probabilmente anche una medaglia al valore. Inoltre, abbiamo ricevuto delle Barbie con tanto di casetta.» Anna capì subito, senza che Dora glielo spiegasse, a chi si dovevano quei regali. «James Langton... è una persona davvero speciale, eh?» disse Dora, felice. Anna assentì. Dora le domandò di spiegarle come fare con i gioielli lasciati da Carly Ann. Anna rispose che, per quel che le constava, nessuno li aveva mai reclamati; dato che i bambini avevano bisogno di denaro, i gioielli potevano essere venduti a loro beneficio. Andandosene, Anna si rese conto di aver appena violato le regole, ma si sentiva ampiamente giustificata dalle circostanze. Le tornò in mente Langton: nonostante la trasgressione di cui si era appena resa colpevole, Anna non riusciva a mettersi sul suo stesso piano... Sospirò. Quando si comincia, poi diventa difficile fermarsi! Entrando in casa sentì squillare il telefono. Si tolse il cappotto e andò a rispondere. «Ciao.» Era Langton. Anna dovette sedersi. «Ciao, come va?» gli domandò. «Bene. E tu?» «Bene, mi sto ricaricando in vista della prossima indagine, qualunque essa sia.» «Hmmm... Io sono in Francia, ci starò un paio di settimane, con i bambini. Avevo bisogno di respirare un po'... anche se non credo che Kitty e Tommy me lo permetteranno. Comunque, ci sono le terme e magari qualche momento di relax ci scappa...» «Fantastico.» «Be', stavo pensando a quella cena di cui si parlava... Potremmo cominciare a fissare una data, no?» «Sì, certo.» Stabilirono che Langton sarebbe passato a prenderla il giorno successivo a quello del suo rientro, alle otto di sera.
«Sarò puntuale», disse lui, ridendo. Anna pensò che un paio di settimane alle terme avrebbero fatto bene anche a lei. In quei quattordici giorni, però, i suoi sospetti si affievolirono; anzi, cominciò a pensare, come le aveva suggerito Barolli, che sarebbe stato meglio metterci una pietra sopra. Intanto, arrivò una buona notizia: l'altro figlio di Ella Sickert era stato rintracciato presso una coppia che abitava a Birmingham. I due gestivano una tavola calda; il bambino lavorava per loro e frequentava poco la scuola. I coniugi dissero che lo avevano accolto solo per fare un favore a sua zia, che non era in grado di tenerlo a bada. La sedicente zia fu rintracciata: era una nota prostituta che conviveva con un piccolo spacciatore in un palazzo fatiscente. Il bambino non mostrava segni di maltrattamenti o violenze sessuali, ma aveva un atteggiamento aggressivo, e all'arrivo della polizia fu preso da una crisi di nervi. Si scoprì, infine, che con il fratello era stato nella casa di Peckham. Ci aveva abitato per poche settimane, prima di essere mandato dalla zia a Birmingham. Non aveva più rivisto il padre, contrariamente alle promesse ricevute, e dopo aver lasciato la casa di Peckham non aveva più incontrato neppure il fratello. Solo dopo un lungo lavoro terapeutico il bambino ammise di essere stato drogato e di aver subito abusi da parte di uomini che frequentavano il bordello. Anche in questo caso saltarono fuori documenti e permessi falsi riconducibili ad Amadou e a Corso. Tutte le altre persone coinvolte furono arrestate e incriminate. Dopo diverse settimane di attesa, Ella poté finalmente ricongiungersi con il figlio. Non sarebbe stato semplice riannodare i fili. Il bambino manifestò un rifiuto fortissimo nei confronti della madre e la incolpò di tutte le violenze da lui subite. Pur essendo autunno, il clima era mite. Anna stava ancora aspettando un nuovo incarico. Le due settimane trascorsero velocissime, e all'improvviso lei si rese conto dell'imminenza dell'appuntamento con Langton. Non era una prospettiva particolarmente allettante. James le telefonò per chiederle se, data la bella giornata, non preferisse uscire a pranzo, invece che a cena. Lei rispose di sì. Indossò un semplice abito bianco e tacchi alti; si era tagliata i capelli cortissimi, e il sole preso le aveva messo in evidenza, sul naso, le lentiggini che lei aveva sempre odiato. Mise una bottiglia di Chablis in frigorifero. Alle tredici in punto, il campanello della porta trillò. Anna restò a bocca aperta. Langton aveva un aspetto fantastico: era ab-
bronzatissimo e indossava un completo azzurro sopra una semplice maglietta bianca a girocollo. Aveva in mano un mazzo di rose bianche. «Per te», disse con un inchino scherzoso. La seguì in cucina, dove Anna prese un vaso, lo riempì d'acqua e vi sistemò i fiori, per poi portarli in salotto. «Vedo che hai preso il sole... perlomeno sul naso», celiò lui. «Solo attraverso il tettuccio aperto della Mini. Non posso espormi troppo. Divento rossa come un peperone.» «Kitty è nera come il carbone, e anche Tommy non scherza. Abbiamo trovato un tempo fantastico: tutti i giorni bagni, sauna, massaggi. È servito. Mi sento benissimo.» «Si vede», disse lei. «Grazie... Hai fame?» «Sì. Dove si va?» «Be', visto che è una bella giornata, pensavo di andare a Sunbury... Hai presente? Appena prima di Shepperton c'è un pub molto carino, dove cucinano bene e ci si può sedere a mangiare all'aperto.» «Mi sembra un'ottima idea.» Il viaggio fu abbastanza lungo. Anna si mise al volante della Mini, Langton le si sedette accanto, lamentandosi come sempre per la scarsità di spazio. Passarono da Richmond, attraversando il ponte sul Tamigi, e proseguirono verso Sunbury. Lui tenne viva la conversazione parlando delle sue vacanze, del cibo, dei chili che aveva messo su a furia di croissant, di pranzi da tre portate e di cene a ora tarda... Non aveva mai mangiato così bene. Imboccarono la tortuosa viuzza che conduceva al pub da loro prescelto, che si affacciava sull'acqua. Langton scelse un tavolo all'aperto e si mise a consultare il menù. «Ti va un'insalata? Fanno anche delle ottime bistecche con patatine.» «Sì, va benissimo.» Langton andò a ordinare al banco e tornò con due bicchieri di vino rosso e un grosso cucchiaio contrassegnato da un numero, che lui infilò in un pentolino apposito. «Chiameranno il nostro numero quando sarà pronto.» «Evidentemente, lo conosci bene, questo posto», disse lei, per alimentare la conversazione. «Sì, ci venivo spesso quand'ero sposato.» Levò il bicchiere e lo protese per brindare. «Salute!» «Salute», disse lei.
«Allora, Anna, raccontami un po' che cos'hai fatto in questo periodo.» «Sto ancora aspettando un nuovo incarico e, intanto, ho pulito tutta la casa. Mi piace che tutto sia...» «In perfetto ordine», disse lui. «Sì, più o meno.» Lui si accese una sigaretta e fece capire che non era vietato in quella parte del pub. «Ho diminuito di molto e ho deciso di provare a smettere, con l'agopuntura.» «Bene.» «Nient'altro?» La loquacità di Langton sembrava svanita. Senza aggiungere altro la fissò negli occhi con aria severa. «Sono stata a trovare i figli di Gail, ma ho visto che mi avevi preceduto.» Lui annuì. «Ella Sickert e il figlio si sono ricongiunti.» «L'ufficio Immigrazione ha un tale lavoro arretrato che passerà un anno prima dell'espulsione.» «Credo che voglia tornare a casa.» «Non la biasimo. Questo paese fa schifo.» Anna assentì e bevve un sorso di vino. «E... poi?» Di nuovo Anna colse un che di vagamente inquisitorio nel tono di Langton e fece fatica a sostenere il suo sguardo. «Dai, Anna, sputa l'osso. So che sei andata a trovare il dottor Salaam.» «Volevo solo capire.» «So quel che volevi capire. Hai anche telefonato a Mike Lewis e a Barolli.» «Sì.» «E sei tornata alla stazione di polizia del New Forest.» «Sì.» «E dopo tutto questo tour de force, che cosa hai...?» Furono interrotti dalla chiamata del loro numero e dalla comparsa di una cameriera che servì loro le insalate. «Grazie», le disse Langton con un sorriso. Chiese che insieme alla portata successiva fossero portati altri due bicchieri di vino e una bottiglia di acqua naturale. Impugnò forchetta e coltello e si avventò sull'insalata. Anna, invece, la toccò a malapena. Aveva un groppo allo stomaco, e le era completamente passata la fame. «Dai, racconta... Come mai ti sei data tanto da fare? Che cosa cercavi?»
Mise da parte il piatto dell'insalata semivuoto e scolò il bicchiere di vino. Anna illustrò, non senza tentennamenti, le notizie da lei fornite al collegio difensivo di Idris Krasinique in vista della riapertura del processo. «Ascolta: Idris Krasinique si è dichiarato colpevole dell'omicidio di Carly Ann North...» «Ma non è stato lui a ucciderla.» La mano di Langton scattò fulminea ad afferrare le mani di Anna. «Non interrompermi. Sappiamo che Idris, insieme a suo fratello, lavorava come tirapiedi e spacciatore per Amadou; sappiamo che erano entrambi immigrati illegalmente... Cristo, non siamo neanche sicuri che quelli siano i loro veri nomi! Giusto? Giusto?» «Sì, questo lo so anch'io.» «Idris stava cercando di decapitare la ragazza e di tagliarle le mani, per impedirne l'identificazione, giusto?» «Sì.» «Ebbene, anche ammesso che fosse sotto l'effetto di qualche droga, terrorizzato da Amadou, in pena per il fratello o quant'altro, è sicuramente implicato nell'omicidio. Ha dichiarato di aver visto Amadou che la strangolava dopo averla stuprata e dopo che lui stesso era stato costretto a violentarla... Come doveva essere lei? Legata a quella cazzo di lastra di pietra? Il fratello di Idris è stato obbligato ad assistere, gli hanno persino iniettato la Datura stramonium, facendogli perdere completamente il senno... Vuoi che prosegua?» Lei annuì e assaggiò l'insalata. «Okay: ad assistere al tentativo di decapitazione c'erano anche Rashid Burry e Amadou. Idris viene pizzicato; gli altri due si allarmano e la Range Rover scompare dalla circolazione. Mi segui?» «Sì!» Langton cominciò a enumerare sulla punta delle dita gli eventi successivi: Idris Krasinique aveva ritrattato i nomi forniti alla polizia in un primo momento; aveva detto di non conoscere quei due e di aver ucciso da solo la ragazza. «Dimmi un po', Anna: perché mai uno dovrebbe accollarsi un omicidio che non ha commesso?» «Per timore che potesse andarci di mezzo il fratello, magari...» «Eamon Krasinique era stato arrestato per spaccio di droga a minori davanti a una scuola. Aveva opposto resistenza all'arresto e al processo aveva sul groppone otto capi d'accusa legati al traffico di droga e uno relativo al tentato sequestro di una quattordicenne.»
«Non credi che i due fratelli potessero essere terrorizzati dalle minacce di Amadou?» domandò Anna. «Credevano, una volta in carcere, di potersi sottrarre alla sua influenza, anche se poi, come sappiamo, Eamon è stato raggiunto anche in galera.» Langton scosse la testa. «Idris, però, è stato reticente; ha bloccato la nostra inchiesta sull'omicidio di Carly Ann. Se ci avesse fornito subito i nomi di Rashid Burry e di Amadou... Ha mentito: era in possesso di informazioni preziose e ha taciuto. Solo quando gli è convenuto, per aiutare suo fratello, si è deciso a parlare. Se tu hai intenzione di fare da sponda ai suoi avvocati che chiedono un nuovo processo, fa' pure. Per me, quella canaglia può anche marcire in carcere.» «Però Carly Ann non l'ha uccisa lui.» Langton sbottò: «Ti ho appena dimostrato che lui sapeva chi era stato!». «Vuoi dire, insomma, che quando tu sei andato a quell'ostello con Lewis e Barolli, vi siete trovati di fronte Burry e Amadou?» «Sì. Se Idris ci avesse aiutati, avremmo evitato una lunga serie di omicidi. Cristo, la figlia di Gail aveva due anni... e l'hanno data in pasto ai porci! Ti lascia indifferente?» «No, certo.» «E allora lascia che Idris resti dov'è!» La cameriera chiamò di nuovo il loro numero e servì le bistecche con patatine. «Grazie... E il vino?» La donna assicurò che stava per arrivare. Langton prese il ketchup e ne offrì ad Anna, che scosse la testa. «Rashid Burry è stato assassinato», disse Anna con voce sommessa. «Sì, e impacchettato per bene nel bagagliaio della Range Rover che Amadou - siccome non sa usare il cambio automatico, poverino! - non ha mai guidato.» Langton tagliò e mise in bocca un grosso pezzo di carne. «Dunque, Rashid... l'avevi riconosciuto, vero? Con quei denti d'oro che aveva...» Langton annuì. «Be', è ovvio.» «E avevi riconosciuto anche Amadou? Lo avevi identificato come il responsabile del tuo ferimento?» Langton evitò lo sguardo di Anna e tagliò un altro pezzo di carne. «No.» «E non l'hai riconosciuto neanche quando l'hai incontrato nella casa di Emmerick Corso, a Redhill?» «No.»
«E quando, allora...?» «Che cosa?!» «Quando l'hai riconosciuto?» «Non l'ho riconosciuto.» Anna prese il sale e ne mise un po' sulle patatine. «Vuoi dire che non è stato Eugene Amadou a ferirti?» Langton replicò con fermezza: «Ascoltami bene: dopo tutto quello che ho passato, se mi fossi trovato di fronte alla persona che mi aveva ferito, avrei avuto una reazione. Puoi scommetterci il tuo bel culetto: non sarei riuscito a non mettergli le mani addosso». Con la mano che impugnava il coltello, indicò il piatto di Anna. «La tua bistecca è buona?» «Sì, buonissima, grazie.» Langton sorrise di nuovo alla cameriera, che aveva servito loro i due nuovi bicchieri di vino e prelevato dalla tavola quelli vuoti. Poi, osservando Anna impegnata a tagliare la bistecca, disse: «Gira voce che sarei stato segnalato per una promozione. Dovrò fare i miei bei compitini, ma il sovrintendente capo sembra deciso. Che cosa ne pensi?». Anna si strinse nelle spalle. «Mi sembra una bella cosa.» «"Mi sembra una bella cosa"», la scimmiottò lui. «Lo penso davvero. Spero che tu ottenga la promozione.» Prese la bottiglia di acqua e le chiese se ne volesse, ne versò un mezzo bicchiere per sé e riavvitò il tappo. Così facendo, non smise un solo istante di fissarla negli occhi, finché lei non fu costretta a distogliere lo sguardo. Lui era sempre l'uomo bello e disinvolto di cui Anna si era innamorata; non aveva smesso di ammirare il suo fisico, le sue mani, il modo in cui rideva. Così abbronzato e in forma, anzi, era più attraente che mai, ma lei, come già molte altre volte era capitato, aveva l'impressione di non conoscerlo. Le pareva di essere a tavola con uno sconosciuto. «Scusa, ho un mal di testa fortissimo», gli disse. «Vorrei andare a casa.» Langton andò a pagare il conto, e Anna si avviò all'auto parcheggiata, sedendosi poi al volante ad aspettarlo. Quando lo vide arrivare, si sporse di lato per aprirgli la portiera. «Avviati pure, tu. Io ho bisogno di fare due passi.» Jimmy diede una paio di colpetti sul tettuccio della Mini e aggirò l'auto sul davanti per raggiungere il lungofiume. Anna notò che zoppicava ancora, sia pur lievemente. Pareva spensierato, guardava le anatre, e Anna, a quel punto, non poté più resistere. Scese dall'auto e sbatté la portiera.
Corse verso di lui. «So che sei stato tu!» Lui si voltò a guardarla, corrugando la fronte in un'espressione perplessa. «Lo so che è stato Amadou a ferirti! Non so come tu sia riuscito a dominarti e a non mettergli le mani addosso, ma io lo so, James, so tutto!» Langton raccolse un legnetto e lo gettò nelle acque del fiume, quindi fece alcuni passi e si appoggiò a un albero. Lei lo seguì. «Era nel cibo che gli è arrivato da fuori. Era nell'acqua che tu gli hai fatto bere in sala operativa.» «Si può sapere di che diavolo stai parlando?» «Cristo, lo sai benissimo! Hai dato lo stramonio ad Amadou. Ha manifestato tutti i sintomi più tipici.» Langton scosse la testa e sorrise. «Ne sono sicura, anche se non so come tu ne sia entrato in possesso.» «Non sei già andata a trovare il dottor Salaam e sua moglie?» «Sì!» «All'inizio credevo si trattasse soltanto di una tua fissazione, della tua incapacità di fare il gioco di squadra, come ho già avuto modo di dirti. Credevo tu stessi ancora cercando di dimostrare il coinvolgimento di Emmerick Corso.» «Non può essere stato lui!» ribatté secca Anna. «Gesù Cristo...» Langton scosse la testa e fissò la sua ex compagna. «Insomma, vorresti coinvolgermi in questa storia, ho capito bene? È questa la ragione per cui sei andata in giro a mestare nel torbido?» «No, no!» «Perché, allora? Che cosa vuoi dimostrare, perdio? Che io avrei riconosciuto in Eugene Amadou il colpevole del mio ferimento e che, nonostante fosse responsabile di Dio solo sa quanti omicidi, l'avrei arrestato solo perché volevo vendicarmi del fatto che mi aveva ridotto in fin di vita? Per chi cazzo mi hai preso?» «Hai manomesso i piatti che gli sono arrivati da fuori.» Langton l'afferrò all'improvviso per i polsi. «Stammi a sentire: questa è un'insinuazione pazzesca. Non hai uno straccio di prova a sostegno di quel che dici. Io ho già avuto molta pazienza con te, Anna, in tre diversi casi di grande importanza. Hai più volte commesso errori grossolani e io ho sempre chiuso un occhio, ma questa tua accusa...» «Non è un'accusa. È la verità!» «Se hai uno straccio di prova, prego, va' pure da chi di dovere, ma in tal
caso preparati, perché io dovrò fare una cosa che ho cercato in tutti i modi di evitare.» «Che cosa?» «Credo che tu non sia adatta a lavorare nella squadra Omicidi. Hai sbagliato troppe volte. Dovrò tirare in ballo anche la nostra relazione sessuale, che è stata un grave errore di cui mi pento amaramente, perché il fatto che sia finita ti ha trasformato in una mia nemica.» «Non riuscirai a cavartela così a buon mercato!» replicò lei, infuriata. Lui le si avvicinò, sempre stringendole i polsi con forza. «Io non me la sono cavata affatto. Ci ho guadagnato un'articolazione menomata e seri problemi ai polmoni e al torace. Me la sono cavata assicurandomi una vita di malanni e medicine. Se fosse stato Eugene Amadou a ridurmi in questo stato, avrei chiesto l'incriminazione. E adesso, Anna, ti conviene decidere.» Le lasciò andare i polsi. «Sei vuoi davvero sollevare queste grottesche accuse contro di me, sei libera di farlo, ma ti serviranno delle prove... che non hai. Ma non ti scoraggiare, per questo: va' avanti e assumiti le tue responsabilità.» «A quali responsabilità alludi?» Lui ridacchiò e si mise a gesticolare come se stesse dirigendo il traffico, con un gran sorriso sulle labbra. Quel gesto la fece infuriare ulteriormente. «Credi che sia stato facile, per me?» gli gridò. «Non ci ho dormito la notte! Tu però non puoi metterti a fare il giustiziere!» Langton la guardò malissimo. Anna, temendo che lui potesse tirarle uno schiaffo, arretrò di un passo. «Questa idea non mi ha mai neppure sfiorato. Con la tua immaginazione contorta hai fatto due più due e il risultato è una vagonata di merda! Se penso ai tuoi sospetti non riesco più ad avere fiducia in te.» Anna si sentì gli occhi gonfi di lacrime. «Un giorno, tra la massa di immigrati illegali che stiamo ancora esaminando, troveremo quello che mi ha quasi ucciso. E allora, siccome non intendo certo lasciar correre, verrai a saperlo anche tu. Contrariamente a quel che tu credi, io non mi sono affatto procurato quel veleno per uccidere Amadou; anzi, con la sua morte abbiamo perso l'opportunità di sollevare contro Corso una quantità di altre accuse. Io non volevo che quel bastardo morisse.» Anna stava tremando. Si ritrasse d'istinto quando lui protese il braccio per avvicinarla affettuosamente a sé. «Anna, ti ho voluto tanto bene, ma non dare la colpa a me per com'è an-
data tra noi: lo sai anche tu che non poteva funzionare. Forse non sono capace di mantenere una relazione duratura. Di sicuro, però, senza il tuo aiuto, difficilmente sarei riuscito a superare certi momenti di crisi, e per questo ti sarò sempre grato. Lascia perdere: se renderai pubblici i tuoi sospetti, sarai tu l'unica a patirne le conseguenze. Mi sono spiegato?» Langton le scostò dolcemente un ciuffo dalla fronte. «È finita. Dai, ammettilo.» Lei ammise, con una voce che a lei stessa parve quella di una bambina in castigo. Lo guardò in faccia. Lo aveva amato tantissimo, e tuttora il cuore le batteva quando gli stava vicino. «Bisogna lasciar correre, dolcezza. Di questo si tratta. Non c'è altro da fare, e io lo farò. Il caso, grazie a Dio, è chiuso. Anna...» Lei si staccò da lui e si sforzò di sorridere. «Addio, Anna. Mi raccomando, abbi cura di te.» Anna assentì e gli voltò le spalle, consolandosi al pensiero che lui, perlomeno, non l'avrebbe vista piangere. Langton rimase appoggiato all'alberò e la guardò andar via senza più degnarla di un cenno; si voltò verso il fiume e rimase a scrutarne le acque torbide. Avrebbe cominciato a prepararsi per gli esami indispensabili alla promozione. Sapeva che i problemi fisici non lo avrebbero più abbandonato e che l'ascesa nella gerarchia avrebbe comportato per lui un ruolo meno attivo. Aveva a sua volta proposto una promozione per Mike Lewis: se la meritava, ma avrebbe anche lui dovuto superare una serie di esami preliminari. Voltò, infine, le spalle al fiume e si avviò chiamando al contempo un taxi con il suo cellulare. Dopo un po' che camminava, il ginocchio riprese a fargli male. Quel dolore, come aveva detto ad Anna, sarebbe stato l'indelebile ricordo dell'aggressione subita. Gli venne da sorridere: la vendetta ha sempre un gusto dolcissimo, anche a freddo. Anna ricevette una telefonata dall'avvocato di Idris Krasinique, che stava ancora lavorando per ottenere la ripetizione del processo a carico del suo assistito: gli servivano alcuni documenti su cui lei aveva lavorato e le chiese un incontro al carcere di Wakefield a cui avrebbe presenziato anche Idris. Anna accettò. A Wakefield, Anna fu accompagnata in una sala colloqui. Visto che i secondini incaricati di prelevare Idris dalla sua cella non erano ancora arrivati, Anna poté parlare a quattr'occhi con il suo avvocato, tale Toby Free-
man, un giovane molto piacevole e pieno di energia. «Il nostro compito non sarà facile», disse Freeman. «Avremmo voluto chiedere una riduzione della pena, ma con la morte del fratello, di Rashid Burry e di Eugene Amadou, la nostra posizione si è notevolmente indebolita. Io cerco di tenerlo su di morale, ma vista l'archiviazione dei due processi, il giudice del riesame chiede che gli elementi di novità siano più corposi.» Idris si era rimesso discretamente in forma: aveva accumulato un po' di peso e parve contento di vedere Anna. Le strinse la mano con calore e la ringraziò. Il lavoro fu piuttosto lungo e noioso: ripassarono in rassegna tutte le dichiarazioni fatte da Idris. Quando lei gli domandò perché non avesse detto quel che sapeva sugli altri due uomini coinvolti nell'omicidio di Carly Ann, lui scosse la testa. «Ero terrorizzato all'idea che Amadou potesse farmi del male. Sapevo quale trattamento aveva riservato a mio fratello. Avevo paura persino di uscire dalla mia cella. Lo avevano pompato di crack, di eroina e di quella pianta velenosa sino a farlo andare completamente fuori di testa.» Idris chinò il capo, in lacrime, ma Anna insistette. Lui parlò nuovamente di come Amadou avesse legato Carly Ann, nuda, a quell'altare di pietra. Aveva costretto tutte le persone presenti nella casa ad assistere: voleva che tutti sapessero quel che capitava a chi cercava di tradirlo. Idris, tra i singhiozzi, ripeté di essere stato costretto ad avere con lei un rapporto sessuale, sotto gli occhi di suo fratello Eamon, il quale era così stordito che, forse, non si era neppure reso conto chiaramente di quel che accadeva. Idris aveva anche assistito, paralizzato dal terrore, allo strangolamento della ragazza per mano di Amadou. Poi, l'avevano fatto salire sul sedile posteriore della Range Rover: Rashid era alla guida, Amadou accanto a lui, e dietro la rete, nel bagagliaio, il cadavere di Carly Ann. Quando si erano fermati, a Idris era stato ordinato di tagliarle le mani e di decapitarla. Amadou non voleva che fosse identificata; era già stata arrestata per adescamento, e la polizia possedeva di certo le sue impronte digitali. Idris, nelle condizioni in cui si trovava, non era riuscito a eseguire con efficacia gli ordini ricevuti. E allora, Amadou era sceso furibondo dalla Range Rover insieme a Rashid per finire il lavoro. «L'aveva presa per i capelli e le stava sollevando la testa per tagliarle il collo, quando è comparso quel poliziotto. Amadou ha mollato la presa ed è scappato con Rashid. Io non ce l'ho fatta: mi hanno preso che ero tutto sporco di sangue. Avevo il coltello in mano. Ho detto di essere stato io: ero
troppo spaventato per fare altrimenti.» Idris supplicò Anna di aiutarlo; lei poté promettergli soltanto che avrebbe fatto del proprio meglio. Gli disse che uno dei motivi per cui Amadou era stato arrestato era l'omicidio di Carly Ann. Idris, allora, diede un pugno sul tavolo per la rabbia: l'unico che avrebbe potuto aiutarlo era morto. A quel punto Anna si rivolse a Toby Freeman e gli chiese di concederle due minuti di colloquio faccia a faccia con Idris. L'avvocato accettò. I secondini gli aprirono la porta e lo lasciarono uscire. «Abbiamo solo due minuti, Idris. Devi rispondermi con sincerità.» «Sì, puoi contarci. Ormai mi conosci, lo sai che dico la verità.» «Mentre eri in stato di fermo alla stazione di polizia, avevi detto che non eri da solo al momento del tuo arresto, bensì in compagnia di altri due uomini, di cui avevi fornito i nomi e gli indirizzi.» «Sì.» «Hai telefonato a qualcuno, dalla stazione di polizia, in quell'occasione?» «Sì, a Rashid Burry, per avere un avvocato, e gli ho detto tutto.» «E dopo questa telefonata hai ritrattato parte della tua dichiarazione... giusto?» «Sì.» «Hai detto che non c'era nessun altro con te in quel frangente, e che la storia dei due complici te l'eri inventata... giusto?» «Sì.» «Perché hai mentito?» Idris chinò la testa. «Mi avevano detto che Eamon sarebbe morto, se non l'avessi fatto. Io ho dato i nomi di due tizi che avevano lavorato alla casa di Peckham e ho parlato di quell'ostello solo perché ne avevo sentito parlare. Premevano, volevano informazioni... Quel Langton, in particolare, mi ha martellato per tutta la notte.» «Allora, torniamo per un attimo alla Range Rover: hai detto che alla guida c'era Rashid Burry.» «Sì, infatti.» «Chi era l'altro passeggero, oltre a te?» Idris si strinse nelle spalle. «L'ho già detto: l'altro era Eugene Amadou. Ora posso dirlo: è morto e non può più farmi nulla. La teneva per i capelli, sollevandole la testa per potergliela tagliare...» Anna assentì. «Quando hai telefonato a Rashid dalla stazione di polizia, gli hai parlato delle tue risposte durante l'interrogatorio?»
«Rashid mi ha insultato: diceva che avrei fatto meglio a tacere.» Anna, dopo una breve pausa, gli domandò: «Che cosa ti risulta che sia successo dopo che hai fatto il nome di quell'ostello?». Idris si strinse nelle spalle. «Credo che Rashid sia andato lì alla svelta per avvertire i suoi uomini.» «Ci è andato insieme ad Amadou?» «Non lo so, credo di sì.» «Non ne sei sicuro?» «No. Ho saputo poi che Langton era stato ferito.» «Da Rashid?» Idris scosse la testa. «Non si è più fatto vedere, dopo quella sera. Mi hanno detto che era morto.» «Chi te l'ha detto?» «Non ricordo, ma ero impressionato dall'idea che Amadou potesse fare a fette un poliziotto e passarla liscia. In quella situazione, non avrei parlato per nessuna ragione al mondo.» «Dunque, secondo te, è stato Eugene Amadou a ferire l'investigatore di cui si diceva, James Langton?» «Sì, Amadou aveva un machete e lo mostrava a tutti: era affilato come un rasoio. Ti assicuro: Amadou era completamente pazzo e se ne vantava. Faceva paura a tutti.» Idris riattaccò a singhiozzare. Biascicò qualcosa a proposito del bambino e di quel che Amadou gli aveva fatto; aveva anche conservato il teschio e le mani che poi, rattrappite e annerite, portava al collo a mo' di pendaglio. Bussarono alla porta: il tempo a disposizione era scaduto. Anna raccolse le proprie carte. Idris si protese verso di lei cercando di prenderle la mano. «Ti prego, aiutami a ottenere la ripetizione del processo... Non l'ho uccisa io, quella ragazza.» Anna richiuse la sua valigetta. «Eri presente quando Amadou uccideva quel bambino?» «Sì, sì... ci costringeva. Se non gli obbedivamo, se la prendeva con noi. Era...» Non gli riuscì di finire la frase: gli agenti fecero segno che Anna doveva andare. Uscì mentre alle sue spalle Idris invocava il suo nome e si proclamava innocente. Nel parcheggio, Anna fu avvicinata da Toby Freeman. «Abbiamo, secondo lei, qualche probabilità di ottenere la ripetizione del processo?»
Anna abbassò il finestrino. «Non saprei proprio.» «Be', la ringrazio comunque per l'aiuto prezioso. A mio parere, Idris è innocente, ma era troppo terrorizzato per dire la verità.» Anna gli sorrise e partì. Era sfinita. Non vedeva l'ora di arrivare a casa e di farsi una doccia, per liberarsi dell'odore della prigione, delle immagini snocciolate da Idris, del ricordo di Eugene Amadou che nei lunghi mesi dell'indagine aveva dominato sopra ogni suo pensiero. Anna, in accappatoio, stava stracciando le pagine dei suoi appunti. Che a Idris Krasinique concedessero un nuovo processo o meno, a lei non importava: non voleva più saperne di quella storia orrenda. Era sicura che l'ispettore capo Langton avesse riconosciuto Eugene Amadou e gli avesse somministrato il veleno mortale. Amadou era morto in preda al terrore; Anna, però, pensò subito anche al terrore che doveva aver provato quel povero bambino decapitato e gettato come spazzatura nel canale. E a quello di Gail Sickert e dei suoi figli. L'autocontrollo fisico e mentale dimostrato da Langton la lasciavano sbalordita e spaventata. Era un uomo formidabile, e lei non voleva certo metterglisi contro. Capì, però, di essere depositaria di un segreto. Un segreto molto pericoloso. RINGRAZIAMENTI La mia gratitudine va a tutti coloro che hanno speso il loro tempo prezioso per aiutarmi nelle ricerche necessarie alla realizzazione di questo libro, in particolare a Lucy & Raff D'Orsi, al professor Ian Hill (patologia), alla dottoressa Liz Wilson (medicina legale) e a Callum Sutherland, per tutti i loro preziosi suggerimenti da esperti. Un ringraziamento merita anche l'équipe dei miei scrupolosissimi collaboratori della La Plante Production: Liz Thorburn, Richard Dobbs, Pamela Wilson e Noel Farragher hanno profuso tutto il loro impegno, consentendomi così di dedicarmi alla scrittura e alla gestione della La Piante Productions. Un pensiero grato va anche a Stephen Ross, Andrew Bennet-Smith e, soprattutto, a Kara Manley. Al mio agente letterario Gill Coleridge e a tutti i collaboratori della Rogers, Coleridge and White, porgo tutta la mia riconoscenza, in particolare per il loro costante incoraggiamento. Un sentito «grazie» anche ai miei editori Ian Chapman, Suzanne Baboneau e a tutti quelli della Simon &
Schuster, in particolare a Nigel Stoneman. Sono molto felice di lavorare per una casa editrice così bella e importante. FINE