Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli
Tango e gli altri Romanzo di una raffica, anzi tre
(2007)
M books 014 Indice...
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Francesco Guccini - Loriano Macchiavelli
Tango e gli altri Romanzo di una raffica, anzi tre
(2007)
M books 014 Indice I personaggi del romanzo PROLOGO 1960, settembre, in paese Fine Di Una Storia E Inizio Di Un'altra 1942, ottobre, sul Don Da Corticella All'Inferno
1960, settembre, a Bologna La Lettera Mai Spedita 1943, giugno e oltre, a Bologna Niente Camicia Nera Per Santovito 1960, settembre, in paese Il Ritorno 1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda Riposino In Pace 1944, ottobre, sulle montagne Missione 1944, ottobre, sulle montagne Una Tomba Per Le Piane 1944, ottobre, sulle montagne Amen 1960, settembre, alla scuola del paese Che Sei Venuto A Fare, Maresciallo? 1960, settembre, dal Frabbone Del Frabbone E Altre Cose 1960, settembre, in paese Come In Confessionale 1960, ottobre, nel paese di Furci Pranzo In Caserma 1960, ottobre, nel paese di Furci Cicche E Ricordi 1960, ottobre, a Bologna Nella Caligine Bolognese 1960, ottobre, alla baracca L'ultimo Falò 1960, ottobre, in caserma Il Lupo Non Mangia L'inverno 1960, ottobre, alla Mezzacosta Della Contessa, Della Sua Cameriera E Di Stelio 1960, ottobre, alla Mezzacosta La Prima Neve 1944, novembre, alla piana del Falchetto Le Ragazze Romane Sono Belle 1960, novembre, in caserma e nel paese di Furci Un Testimone 1960, novembre, nel paese di Furci Il Sindaco 1960, novembre, in caserma In Due Non S'indaga Meglio 1960, novembre, alla baracca bruciata La Conferma Che In Due Non S'indaga Meglio 1960, novembre, alla scuola La Bidella E L'insegnante 1960, novembre, al Ristobar Una Foto Su Una Lapide 1960, novembre, alla Ca' Rossa L'acqua Minerale Di Bleblè 1960, novembre, alle Piane Una Nuova Generazione Sul Podere Del Massacro 1960, novembre, alle Piane e in caserma Raffaella Non Ci Sta 1960, novembre, in caserma
Anche Autiere Non Ci Sta 1960, novembre, in caserma, in chiesa e dal Frabbone Una Giornata Libera 1960, novembre, alle Piane e alla baracca Indizi Importanti 1960, dicembre, in giro per il paese Santovito Chiede Aiuto 1960, dicembre, a scuola Il Pomeriggio Di Raffaella 1960, dicembre, a Bologna Le Bugie Di Roberto E La Vigliaccheria Di Giuliana 1960, dicembre, nella casa di Gialdiffa Il Segno Degli Anni 1960, dicembre, nel paese di Furci Incontri Inquietanti 1960, dicembre, in paese L'Ommo Salvadgo 1960, dicembre, in paese Una Brutta Sorpresa 1960, dicembre, in caserma Notizie Di Tango 1960, dicembre, nel bar di Remo Una Riunione Clandestina 1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda La Fucilazione Di Bob 1960, dicembre, nel bar di Remo Di Qui Non Si Esce 1944, ottobre, alle Piane e alla Dogana Gli Ammazzati 1944, ottobre, in tribunale Processo 1960, dicembre, nel bar di Remo Quello Che Mancava 1960, dicembre, nel bar di Remo 1944, ottobre, alla Dogana e al caniccio d'Edgarda La Staffetta 1960, dicembre, nel bar di Remo Una Notte All'inferno 1960, dicembre, in paese Il Funerale 1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda e alle Piane La Strage 1960, antivigilia di Natale, in un luogo qualunque della montagna La Firma Sotto La Confessione RINGRAZIAMENTI
I personaggi del romanzo (alla maniera dei classici) I CARABINIERI (in ordine di grado) Friggerio, tenente colonnello, comandante del Gruppo Operativo del Comando di Bologna Benedetto Santovito, maresciallo maggiore aiutante di battaglia Ares Amadori, maresciallo, comandante della caserma del paese Furci Gennaro, maresciallo, comandante della caserma dell'altro paese, di là della vallata Chiaffalà, appuntato alle dipendenze del maresciallo Amadori Gargiulo, carabiniere alle dipendenze del maresciallo Amadori Zanetti, carabiniere alle dipendenze del maresciallo Furci I PARTIGIANI DELLA BRIGATA GARIBALDI (in ordine di apparizione) Roberto Cortesi, detto Bob Giuseppe Zagatti, detto Lepre Guglielmo Borghetti Strozzi, detto Bill Gianfranco Spezzoli, detto Motore Osvaldo Barsetti, detto Remo Egidio Olmi, detto Autiere Vasco Cattani, detto Tango Irma Tonarelli, staffetta Il Calabrese Ballerina Legno Cino e Franco I PARTIGIANI DELLA BRIGATA MATTEOTTI (in ordine di apparizione) Benedetto Santovito, detto Salerno Musone Toni, comandante della Brigata Capurèl Luzzo I MONTANARI Raffaella Anceschi, insegnante del paese Gialdiffa Cortesi, madre del partigiano Bob Imelde Lenzi, la ragazza del partigiano Bob Roberto Gandolfi, figlio di Imelde Lenzi Valente Cioni, sindaco del paese del maresciallo Amadori Don Vincenzo Cioni, parroco del paese del maresciallo Amadori Pietro Bernardi, il Patriarca delle Piane
Italo Bernardi, figlio del Patriarca La Cesira, sorella minore del Patriarca Nerina Gravelli, moglie di Italo Gionata Bernardi, cugino del Patriarca Filippo Bernardi, figlio di Gionata Clementina Veronesi, moglie di Gionata e madre di Filippo Giovanna, moglie di Filippo Bleblè della Ca' Rossa Stelio della Mezzacosta
PROLOGO Tese le mani quasi a volerli fermare. Due brevi raffiche. Bob sobbalzò, respinto all'indietro fin contro il tronco; con gli occhi sgranati li guardò per l'ultima volta. Mulinò le braccia, poi scivolò a terra segnando con il sangue la corteccia ruvida del castagno. Tango gli si avvicinò, lo guardò, estrasse la pistola e sparò il colpo di grazia. «Svelti, seppellitelo.»
1960, settembre, in paese Fine Di Una Storia E Inizio Di Un'altra Raffaella ha gli occhi lucidi e lui non riesce a dirle quello che vorrebbe, prima di salire sul treno. L'abbraccia e lei gli si stringe contro. Poi si solleva sulla punta dei piedi e gli mormora all'orecchio: «Per favore, torna.» Affacciato al finestrino, la vede come se fosse lei a allontanarsi, la destra ancora sollevata nel saluto. Gliela nasconde la leggera curva che i binari fanno per seguire il fiume. Solo adesso Benedetto Santovito siede, accende un mezzo sigaro e vorrebbe finire la lettura del verbale, ma i pensieri se ne vanno altrove. Così li lascia liberi e, il capo appoggiato allo schienale e gli occhi socchiusi, segue il fumo che si stempera nell'aria della carrozza. È solo e lo sarà fino a Bologna perché oggi è festa grande e i montanari non prendono il treno. Sarà un viaggio tranquillo. Riesce a togliersi dai pensieri quello che si è lasciato dietro, e che forse rimpiangerà, quando il fumo comincia a sapere della troppa nicotina che si accumula nell'ultima parte del sigaro. Lo spegne nel posacenere della carrozza. «Signor maresciallo, il tenente colonnello Friggerio la sta aspettando. L'accompagno.» «Non ti muovere, appuntato. Conosco la strada.». La conosce sì, c'è venuto chissà quante volte dal giorno che Friggerio lo aveva accompagnato a prendere il comando della caserma, su, nel paese sperduto chissà dove, nelle montagne fra l'Emilia e la Toscana e dal quale è appena tornato. Ce l'avevano spedito, nonostante Friggerio avesse fatto il possibile per evitarlo, a causa delle indagini che stava conducendo a carico dei figli di alcuni importanti gerarchi fascisti della Marcia su Roma. Quindi, intoccabili. Un maledetto affare che gli aveva cambiato la vita. Era il '39, era certo di essere arrivato nel paese più freddo del mondo e ci era rimasto fino all'ordine di presentarsi a Bologna, Corticella, scuola allievi ufficiali di complemento. Di là, nel gelo della steppa russa e il paese dell'Appennino era diventato, nella sua memoria, un paradiso perduto. Con lui, due compagnie di fucilieri, due compagnie di mitraglieri, sei fucili mitragliatori completi di accessori, due autocarri leggeri, undici motocicli monoposto, centoventuno ufficiali, duecentonovantanove fra sottufficiali e carabinieri e via, alla conquista del Don.
1942, ottobre, sul Don Da Corticella All'Inferno Il maresciallo dei carabinieri Santovito Benedetto, aggregato al XXVI battaglione Carabinieri regi, doveva lasciare immediatamente il comando della caserma e presentarsi improrogabilmente entro il giorno 12 agosto 1942, presso la scuola allievi ufficiali di complemento sita in Bologna, località Corticella. Il XXVI battaglione, aggregato alla Divisione Vicenza, avrebbe raggiunto l’ARMIR sul fronte russo. L'ordine non arrivò inaspettato a Santovito. Appena si era sparsa la notizia della costituzione di un battaglione di carabinieri da spedire sul fronte russo, Santovito fu certo che sarebbe stato fra i partenti. Qualcuno non lo amava, giù, al comando. Non lo amava il capitano, il classico ufficiale di carriera, infilato dentro una divisa impeccabile cucitagli addosso da un sarto che conosceva il mestiere. Magro e nervoso, capelli scuri e lisci appiccicati al cranio e due baffetti sottili, piccolo di statura, Santovito non lo aveva mai visto tranquillo un istante. A lui doveva il trasferimento in montagna e a lui doveva, ne era sicuro, l'ultimo ordine di trasferimento. Il 10 di agosto del 1942, Benedetto Santovito raccolse le ultime cose e lasciò la caserma nel paese di montagna fra l'Emilia e la Toscana. In treno aveva diritto alla seconda classe e fece il viaggio da solo perché in seconda si spendeva di più che in terza classe e i montanari non ne avevano da spendere. Il caldo aumentava con l'avvicinarsi alla città. Dal 1939 era salito su quel treno almeno una volta al mese per raggiungere il comando di Legione e conosceva ormai il paesaggio che gli mutava di continuo davanti, ma che sempre lo stupiva per i colori, per il fiume, per le atmosfere... Arrivò alla stazione di Bologna poco dopo mezzogiorno e il caldo che trovò gli fece rimpiangere, per la prima volta, il paese. O meglio, il fresco che aveva lasciato al paese. L'atmosfera della città era immobile, opprimente. Pochissimi i passanti che, potendo, se ne stavano chiusi in casa fino al calar del sole. Un po' di fresco usciva solo dagli androni bui di vecchie case dai portoni sempre spalancati, sotto portici bassi dove il calore arrivava riflesso dai muri e dai ciottoli. Fece a piedi la strada fino alla caserma Michele Pala, in via Fossalta. Prima di raggiungere il battaglione, a Corticella, come gli comandava l'ordine di trasferimento, voleva salutare il tenente Friggerio. Chissà se lo avrebbe mai più rivisto. «Vieni, vieni dentro Benedetto» lo accolse Friggerio. Il suo ufficio era in un disordine come Santovito non lo aveva mai visto. «Vedo che sei occupato» disse Santovito. «Ti lascio lavorare. Solo un saluto, ché non so quando ci rivedremo...» «Presto, Benedetto, prima di quanto immagini, visto che siamo di nuovo insieme. La tua destinazione è la mia.» Questa Santovito non se la sarebbe aspettata. «Ci vediamo alla scuola allievi ufficiali qualche giorno prima della partenza.» Santovito non passò a salutare il capitano e non incaricò Friggerio di farlo per lui. Durante il viaggio verso il Don, Friggerio gli disse poi, sottovoce, che nemmeno lui era passato a salutare "quel coglione di fascista imboscato". Dal 12 di agosto, il maresciallo Santovito mangiò, dormì, si annoiò, si avvicinò a alcune armi che conosceva solo di nome, nella caserma allievi ufficiali di complemento sita in Bologna, località Corticella, fino al mattino dell'8 ottobre 1942. Usciva soltanto per comprare i sigari e lo faceva contravvenendo agli ordini, perché si era sempre in attesa di partire da un momento all'altro. Un momento che durò poco meno di due mesi. Forse in Russia non c'era così bisogno del XXVI battaglione Carabinieri regi.
Il 18 ottobre l'arrivo a Kupiansk e da quel momento per Santovito, ma anche per molti altri, quasi tutti, cominciò il calvario che percorse assieme al tenente Friggerio. I mesi sulle nevi, la fame, il freddo, i pericoli passati l'uno accanto all'altro, sempre con la prospettiva di non farcela, non li dimenticarono e lasciarono un profondo segno nella loro amicizia. Li avevano mandati nella pianura del Don per mantenere l'ordine pubblico nelle città conquistate. Non c'erano città conquistate. C'erano solo la guerra e i feriti e i morti e i bombardamenti aerei e gli arti congelati e le decorazioni alla memoria e le promozioni sul campo e la retorica di una Patria che chissà dov'era e che di certo si era dimenticata di loro. C'erano, invece, e ben presenti a trecento metri da loro, due compagnie dell'esercito russo con armi automatiche e mortai. Li divideva un terreno pianeggiante, privo di ripari e coperto di neve. Li fasciavano, unendoli nel gelo, trenta gradi sotto zero. Venti carabinieri, due mitragliatrici Breda 37, un fucile mitragliatore e, duecento metri dietro, il cannone dei tedeschi. Un carabiniere che "si era arditamente inoltrato in posizione più avanzata e più battuta dal nemico, viene colpito mortalmente alla testa chiudendo, appena diciottenne, la sua esistenza che aveva volontariamente ed interamente dedicato alla Patria"1. L'eroismo c'entrava il giusto in quello che facevano. Un colpo di mortaio che solo per caso non li aveva ammazzati, aveva fatto gridare a uno di loro: «Qui si muore!». Nessuno ricordò mai chi avesse gridato, ma era l'unica verità in quell'inferno di gelo dal quale speravano solo di ritrovare la strada di casa e di riportarci la vita. Il maresciallo Santovito e il tenente Friggerio ce l'avevano fatta, ma su quella strada avevano lasciato un bel po' di dolore, tanto freddo, feriti e morti. “Il giorno 13 alle ore 3 [...] effettua, per ordine del comando tedesco [...] una pattuglia dentro le linee avversarie col preciso compito di bruciare un molino a vento presunto osservatorio nemico. “Durante la marcia di avvicinamento, la pattuglia incontra una postazione di mitragliatrice nemica che distrugge a colpi di bombe a mano, lasciando sul terreno vari morti e alcuni feriti non potuti catturare a causa dell'immediata reazione manifestatasi improvvisamente da altri tre centri di fuoco, poco discosti, che lo hanno costretto a ripiegare, per non subire perdite inutili e portare nel contempo preziose informazioni al comando tedesco che aveva ordinato l'azione. Il maggiore germanico, comandante del Gruppo granatieri Panzer, che aveva seguito dal suo osservatorio la brillante operazione condotta dal sottufficiale, si è compiaciuto con quest'ultimo, per le rilevanti perdite inflitte al nemico e per le precise informazioni riportate..."2 C'era chi dei camerati tedeschi aveva un'altra opinione: "Bestemmio un po' di tedesco, tanto da farmi capire, tocco i piedi del fante, grido 'Kaput'. Uno dei kruki, sbraitando e gesticolando, mi fa intendere che non lo vuole sul camion perché gli italiani gli hanno negato non so cosa. Punta un dito alla tempia, parla di un colpo di pistola. Urlo che non è un buon soldato: 'Soldat kamarad ne charosc'. Un sottufficiale tedesco, che ha assistito alla scena, ordina di lasciarlo salire. È il primo e l'ultimo tedesco a cui stringo la mano: terminerò la ritirata offrendo ad un tedesco una pallottola nel cranio” 3 19 dicembre 1942: l'Armata Rossa scatenò la prima controffensiva nella valle del Don. Un fronte di ferro e fuoco lungo duecento chilometri diede il via alla disfatta. Trentacinque gradi sottozero, ordini e contrordini, nessun collegamento con i superiori, colpi di artiglieria aravano il terreno della 1
Dalla Relazione del comandante maggiore Vieri http;//spazioinwind.libero.it/XXVlbattaglioneccrr 2 Ibidem 3 Nuto Revelli, Mai tardi, Einaudi, Torino 2001, p. 118
Papa,
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ritirata, morti sotto la neve, morti sopra la neve, morti con dentro la neve, isbe che bruciano in un deserto di ghiaccio... «Quando siete allo scoperto, quando vi possono vedere da oltre il Don, mettetevi a correre e pregate Dio» raccomandò Santovito agli uomini che gli erano rimasti. Friggerio chissà dov'era. Si erano perduti di vista nella tormenta di neve. Si corre se si può, maresciallo. Spesso ci si trascina, si rotola sulla neve e attorno il vuoto, la solitudine. A ogni scricchiolio è il terrore, i nervi si sbriciolano come se fossero di ghiaccio. Ci si guarda attorno e si aspetta il colpo alla nuca. Maledetta guerra! Autocarri abbandonati, autocarri bruciati con dentro dei corpi che la neve conservava, muli con il ventre squarciato da una raffica o da una granata di mortaio. Erano terribilmente precisi i mortai dei russi. Poi gli scarponi si sfecero. Fatti male e con materiale scadente o il nostro cuoio non sopportava il gelo e si disfaceva, si sfaldava? Gli uni e l'altro, ma loro andarono, andarono lo stesso, i piedi fasciati di stracci. Camminarono curvi nella tormenta, immersi nel nevischio e con la faccia di ghiaccio. Nella tormenta persero di vista l'amico e non si fermarono per aspettarlo, per cercarlo. Un altro gli cadde accanto e lo lasciarono solo, a morire. A quaranta sottozero Santovito sperò di morire, ma non fece nulla per aiutare la morte. Se fosse venuta, bene, tutto finito, finalmente. Aveva perduto la voglia di resistere; solo malinconia, stanchezza, disperazione infinita. Da Gomel a Klinzy, da Klinzy a Gomel, da Gomel a Slobi-Minsk, da Minsk a Baranovic... Poi ancora: Brest, Radom-Rozki, Hodig, Vienna, Villach, Tarvisio, Udine... e poi, finalmente a Bologna, a Corticella, scuola allievi ufficiali di complemento, da dove Santovito era partito, forse un secolo prima. Di sicuro una vita fa. 4 Come ce l'avesse fatta, il maresciallo Santovito Benedetto non lo capì mai. Eppure, molte volte, dopo, ripensò alla maledetta guerra che gli avevano fatto combattere in Russia. E a quella che aveva combattuto in Italia, sui monti dell'Appennino, dopo il ritorno dal fronte del Don, ma quest'ultima, almeno, per sua scelta.
4 Itinerario ricavato dal Diario del vice brigadiere Giuseppe Pepiciello, anch'esso disponibile sul sito di cui alla nota 1 di pagina 16.
1960, settembre, a Bologna La Lettera Mai Spedita «Eccoti qua» dice il tenente colonnello Friggerio. «Siedi, siedi. Ti piace ancora il caffè?» e senza attendere risposta, grida di portare due caffè. Poi: «Allora, cosa mi racconti?» ma non lascia il tempo per la risposta e sorride, complice. «Mi dicono che il tuo ritorno sui luoghi della giovinezza è andato bene e che una certa insegnante avrebbe una certa simpatia per il maresciallo Santovito. Ma non andiamo oltre e diamo tempo al tempo. Piuttosto c'è qui...» Apre il cassetto della scrivania, tira fuori una busta e la porge a Santovito. «Di cosa si tratta?» «Che ne so, Santovito? Mica l'ho aperta. C'è sopra il tuo nome, cognome e grado. La posta è sacra.» La busta è grande, piuttosto gonfia, di un rosa che il tempo ha sbiadito, chiusa, senza mittente e con il destinatario: “Per il signor Maresciallo Benedetto Santovito, SPM”. «Come vedi c'è scritto sue proprie mani e adesso è nelle tue proprie mani.» Poi, vedendo l'indecisione del suo maresciallo: «Non l'apri?». «Piuttosto antica, no? Da quanto ce l'hai nel cassetto, signor tenente colonnello?» «Da due giorni, quattro ore e qualche minuto. Me l'ha consegnata direttamente un ragazzo di quindici, sedici anni. Tanto ha fatto e tanto ha detto con il piantone, che sono stato costretto a riceverlo. Si era seduto in strada, di fronte al portone e ha gridato che se ne sarebbe andato solo dopo avermi parlato di persona. Un ragazzo deciso. Si chiama, si chiama...» Controlla negli appunti che coprono il piano. «Non si trova mai niente su questa scrivania. Si chiama... Ecco qui: Roberto Gandolfi. Lo conosci?» Santovito scuote lentamente il capo. No, non conosce alcun Gandolfi. Arrivano i due caffè, la lettera torna sul piano della scrivania, in silenzio i due gustano la bevanda e poi Friggerio chiede: «Non ti interessa sapere cosa vuole da te con tanta insistenza un ragazzo di quindici anni?» «A giudicare dalla busta e dalla grafia, non è lui che vuole qualcosa. Ho paura che la lettera venga dal passato.» Dalla tasca della giacca prende fuori sigari e fiammiferi. «Le cose mi vengono meglio con un buon sigaro.» Offre al superiore. «Non per me, grazie, ho smesso. E tu non sei passato alle sigarette, come hanno fatto tutti?» «Nei secoli fedele» borbotta il maresciallo. Sceglie, ammorbidisce il sigaro fra le dita, accende, tira un paio di boccate e guarda il fumo salire nell'aria calma dell'ufficio. «Allora, 'sta lettera?» «Sei più curioso di me.» «Sono curioso sì. Una lettera che chissà quando è stata scritta e da chi, me la consegna un ragazzo testardo da passare a un mio subalterno e, alle mie domande non risponde e continua a ripetere "per il maresciallo Santovito, per il maresciallo Santovito". Mi consenti un po' di curiosità?» Il maresciallo raccoglie la lettera e di nuovo la guarda e la gira fra le mani come per scoprire il segreto che custodisce. Raccoglie il tagliacarte, ma ancora esita. «Ho idea che mi porti dei guai» mormora. «Aprila e lo scopri subito» e Friggerio, piuttosto nervoso, comincia a giocare con la matita: batte la punta su un foglio, la fa girare fra le dita e di nuovo la batte sul foglio e quando finalmente il maresciallo si decide e infila il tagliacarte nella busta, posa la matita e aspetta. Alcuni fogli da lettera fitti di scrittura uguale a quella dell'indirizzo e con lo stesso inchiostro.
Egregio Signor Maresciallo Santovito, vengo con questa mia a pregarla di un grande piacere che lei dovrebbe farmi nel nome di quella legge che è chiamato a tutelare e riparare così a un torto tanto grande che porta disonore a chi l'ha commesso e anche a chi ha assistito al suo compiersi e non ha mosso dito per evitarlo. Si ricorderà di sicuro del povero Roberto Cortesi e della sua tragica morte. Io non c'ero e non ho potuto assisterlo in quelle ore disperate, ma so che è morto innocente. Com'erano innocenti quelle povere creature che un delinquente ha assassinato. Non Roberto, il mio Roberto! Roberto non lo ha fatto, mi creda Signor Maresciallo, glielo giuro davanti all'altare della Madonna di san Luca. E adesso tralascio le mie pene e vengo al vero motivo di questa mia. Sono appena tornata dalla montagna dov'ero corsa per rivedere e riabbracciare Roberto. Prima non avevo potuto perché molte cose che non sto a dirle, mi hanno trattenuto a Bologna. E vero, non avrei dovuto incontrarlo perché la mia vita non è la stessa di quando ci siamo lasciati. Mi sono sposata e ho avuto un figlio, ma non è per me che le scrivo né per farle conoscere la mia vita. Le dico solo che volevo incontrare Roberto per spiegargli i tempi tristi che ho passato e che mi hanno costretta a un matrimonio che non avrei mai voluto fare. Volevo spiegare a Roberto come e perché e con quanto dolore ho mancato alla parola data e che la guerra è la cosa più orribile che gli uomini abbiano inventato... Insomma avrei cercato di fargli capire... Poi, lo avrei lasciato per sempre, disposta a sopportare il suo dolore come ho sopportato il mio. Ma Roberto non c'è più. Lo hanno ammazzato come un assassino. Giustiziato, mi ha spiegato mio zio don Vincenzo Cioni, per un orribile delitto che non ha commesso, che non poteva commettere, come le spiegherò in questa mia. La notizia ha ucciso anche me quando don Vincenzo mi ha raccontato come e quando è successo, perché ho capito che non poteva essere stato Roberto. Don Vincenzo mi ha poi detto che lei, Signor Maresciallo, si era interessato per capire come era andata con il massacro alle Piane. Ma mi è rimasto il dubbio che don Vincenzo mi abbia detto quelle cose per tranquillizzarmi, per mettere in pace la mia coscienza, che non può essere in pace perché, lo ripeto, Roberto è innocente. La cosa che mi fa stare peggio, che mi perseguita adesso che sono viva e mi perseguiterà da morta, la mia disperazione, è che io avrei potuto sal varlo, il mio Roberto. Se avessi saputo in tempo, Roberto sarebbe ancora vivo. Vede, Signor Maresciallo? Scrivo e scrivo e sempre viene fuori la mia colpa. Dunque, se è vero, come mi ha assicurato don Vincenzo, che lei si era occupato della strage delle Piane, come ha potuto permettere che uccidessero un innocente? E se lo ha permesso, anche lei dovrà portare una parte del peso che non mi lascia vivere. Oppure faccia qualcosa perché la gente sappia che Roberto non ha ucciso. E se glielo dico è perché lo so. Quella tragica notte dell'anno scorso, quando hanno ucciso quelli delle Piane, Roberto era con me e siamo rimasti assieme dalla sera precedente fino al primo pomeriggio del giorno dopo. Mi faccia un piacere prima di stracciare questa mia e mettere così in pace la sua coscienza. Vada al molino del Turco, che lei sa di sicuro dov'è. Attraversi la passerella e vada dall'altra parte del fiume. Appena dentro il bosco, c'è una baracca che allora era abbandonata e lo deve essere ancora perché non so chi abbia voglia di andare a starci. Entri e vada alla parete di fondo. Se nessuno è più passato di là, come immagino, troverà ancora un pagliericcio dove io e Roberto abbiamo fatto l'amore per l'ultima volta. E non mi giudichi poco seria. A Roberto ho voluto un bene che non si può raccontare e forse nemmeno capire. Poi c'era la guerra e chissà se il giorno dopo ci saremmo rivisti. Infatti non ci siamo rivisti. Quando sarà là, si chini e guardi sulle assi della parete e a circa mezzo metro dal pavimento troverà il mio nome e quello di Roberto e la data incisi con il coltello di Roberto. C'è scritto, me lo ricorderò sempre, I R i p 1 v 11 10 1944. Naturalmente I e R stanno per Imelde e
Roberto, mentre le altre lettere erano un nostro desiderio, un augurio che ci facevamo a vicenda e che letto oggi è un'atroce beffa del destino. Da quella notte, infatti, siamo stati divisi per la vita. Sono appena tornata in città e sono distrutta dal dolore. Per questo le ho scritto, Signor Maresciallo. Adesso faccia quello che la sua di coscienza le suggerisce. Non so se dirle addio o arrivederci. Imelde Lenzi in Gandolfi Bologna, 20 ottobre 1945 «Ti vedo scuro, Santovito. Cattive notizie?» Per un po' il maresciallo non risponde e fissa i fogli. Poi posa la lettera sulla scrivania e la spinge verso il superiore. Dice sottovoce: «Leggi, Friggerio. È il passato che ritorna. E non è un passato piacevole.»
1943, giugno e oltre, a Bologna Niente Camicia Nera Per Santovito Partito da Bologna 1'8 ottobre 1942, ci tornò il 1° giugno 1943. Otto mesi che gli segnarono la vita. Smagrito, debole, pallido e sempre con qualche linea di febbre addosso, Santovito cercò di rimettersi con quel poco d'assistenza e di cibo che gli passava l'Arma, in Legione. Del tenente Friggerio, nessuna notizia. Trovò una Bologna dalla stessa architettura, ma più triste, più buia per l'oscuramento, più affamata e disperata di quando se n'era andato. Otto mesi non sono molti. Se si può essere tranquilli quando attorno ci si scanna nel nome di chissà quale perverso ideale, Santovito lo fu. Poi, la notte del 16 luglio, lo svegliò il primo bombardamento sulla città. Stesse esplosioni, stessi colpi d'artiglieria, stessi bengala a illuminare il buio che già aveva sentito e visto sul Don. La monotonia del massacro. Dieci morti, venti feriti e molte case distrutte dalle bombe nemiche. Quelle stesse bombe che, chissà perché, qualche tempo dopo sarebbero diventate alleate. Altre bombe il 24 luglio e il 2 settembre e poi Santovito si stancò di contare e di chiudersi in rifugio. Se avesse continuato sarebbe arrivato a novantaquattro bombardamenti aerei, a duemila e cinquecento morti e a oltre duemila feriti. Cambiò anche l'architettura della città. Ma c'era da svolgere il servizio, restare al proprio posto, assicurare l'ordine in città e fuori e allora turni di pattuglia giorno e notte, scorta ai trasporti di viveri e di tabacco, reprimere il mercato nero e le frodi alimentari, prevenire gli atti di sciacallaggio nelle case bombardate, facilitare il trasporto dei feriti negli ospedali, trasportare detenuti comuni e politici da una prigione all'altra... 8 settembre: il governo italiano firma l'armistizio separato con gli Alleati; 15 settembre: nasce l'esercito della Repubblica di Salò; 1° ottobre: l'Arma dei carabinieri ha un comandante della Milizia fascista. Nel giugno la Repubblica Sociale Italiana aveva imposto ai carabinieri di togliere la divisa indossata fino a quel giorno e vestire la camicia nera. Benedetto Santovito non amava il nero e non ne volle sapere. Come altri carabinieri. Il treno in partenza dalla stazione di Bologna, tre vagoni merci con motrice e un vagone, l'ultimo, per passeggeri, vuoto, era carico di reclute anni 1924 e '25. Destinazione Brennero e poi Germania, campi d'addestramento tedeschi per farne buoni soldati da sbattere poi sul fronte italiano. Le baionette dei militi della Guardia Nazionale Repubblicana avevano contribuito a far salire le reclute sui vagoni. Il maresciallo Santovito, che si era offerto di comandare la scorta dei carabinieri fino al Brennero, aspettò che i militi della Repubblica di Salò portassero a termine il loro sacro dovere e si ritirassero dai binari. Poi il comandante della Guardia chiuse i catenacci dei tre vagoni merci e consegnò le chiavi a Santovito dicendo, in tono di comando: «Quelle porte si aprono solo dopo il Brennero, oltre il confine.» «So cosa devo fare» replicò secco Santovito, e fece salire i suoi nella carrozza viaggiatori. Tre fischi prolungati e il treno si mosse. Dentro, chiusi come bestie da portare al macello, i giovani di leva urlavano e battevano mani e piedi contro le pareti. Alla stazione di Modena il treno si fermò, Santovito e i suoi carabinieri scesero a controllare, le reclute ripresero le loro proteste, s'alzò una voce isolata che intonò Bandiera rossa, tutte le reclute la cantarono e il coro sovversivo arrivò a un sottufficiale della GNR, nell'ufficio del capostazione. Uscì imbestialito e rosso in viso, di corsa attraversò i binari, si piantò davanti al maresciallo
Santovito e gli urlò, di sotto la faccia perché era un tipo basso e tarchiato e lo salvava solo la divisa: «Maresciallo, tu comandi questi carabinieri! Cosa aspetti a far smettere questo coro? Sei sordo? Fai tacere immediatamente quei sovversivi di merda o ti deferisco al tribunale repubblicano! Pugno di ferro ci vuole, pugno di ferro, perdio!» «Perché non li fai smettere tu?» Il sottufficiale si avvicinò fino a sfiorare con la sua, la divisa di Santovito. Si accorse subito che nel confronto ci rimetteva. In altezza, perché era costretto a guardare il maresciallo dal basso in alto; in eleganza perché la divisa del carabiniere aveva più dignità. Si ritrasse e gridò: «Vuoi dire che non hai il fegato di affrontarli?» «Voglio dire che non posso tappare la bocca a tutti. Ho solo due mani.» «Fai lo spiritoso, carabiniere? Ti faccio vedere io come si fa, come si comporta un vero combattente!» e, bestemmiando nel suo dialetto, si avventò contro il primo portellone come se volesse distruggerlo a morsi. Non ci riuscì e gridò a Santovito. «La chiave! Qui la chiave, perdio, che gli faccio vedere io a questi bolscevichi!» «Gli ordini che ho ricevuto mi impongono di aprire oltre il confine, oltre il Brennero...» «Qui gli ordini li do io. La chiave!» e Santovito gliela porse. Fu come aprire la paratia di una diga: le reclute tracimarono e travolsero e scaraventarono a terra il sottufficiale, lo calpestarono e chi aveva più rabbia dentro lo insultò. Ci fu anche chi gli sputò sulla divisa risparmiando la faccia. Santovito raccolse le chiavi, cadute accanto al sottufficiale, aprì gli altri due vagoni e, prima che il rappresentante della Guardia Nazionale Repubblicana sollevasse la pancia dal marciapiede tre della stazione di Modena, le reclute si erano disperse nelle strade della città. Molte senza neppure sapere dove andare. L'importante era il più lontano possibile dalla strada per il Brennero. Santovito e un paio dei suoi sapevano esattamente dove andare. Da chi li aspettava e la stessa notte li avrebbe accompagnati, con chissà quali mezzi di trasporto, sull'Appennino fra la provincia di Modena e Pistoia, per unirsi ai partigiani. Finalmente alzatosi e estratta la pistola dalla fondina, il sottufficiale scaricò l'intero caricatore nella direzione che avevano preso i "sovversivi sovietici". Non servì nemmeno a scaricargli la rabbia, ma gli fece prendere coscienza di come i traditori andassero tragicamente aumentando di numero nonostante il proliferare di leggi e decreti che il governo di Salò emanava ogni giorno, proprio per far fronte, o almeno limitare, il dilagare dei sovversivi. "Il glorioso grigioverde, scomparso nei tristi giorni seguiti alla capitolazione, dopo le prime fugaci apparizioni ha invaso oggi le vie e le piazze d'Italia. Le caserme risuonano nuovamente dei canti guerrieri e del passo cadenzato dei battaglioni dell'esercito repubblicano, che si preparano a riprendere il posto di combattimento accanto ai camerati germanici. Dall'amica Germania rientrano ogni giorno reparti di soldati italiani che chiedono solo il privilegio di un posto in prima linea per la lotta fino alla vittoria contro l'odiato invasore che calpesta il sacro suolo della Patria." 5 Sull'Appennino Santovito s'incontrò con molti altri che la pensavano come lui sulla guerra del Duce, sul fascismo, sulla libertà e sul futuro. Intanto altrove, in un luogo nel quale gli uomini in divisa avevano perduto il senso della realtà, si preparavano i plotoni d'esecuzione per i terroristi come Santovito. "Decreto Legge numero 145 del 18 aprile 1944-XXII. Sanzioni penali a carico di militari o di civili unitisi alle bande operanti in danno delle organizzazioni militari o civili dello Stato. 5
Corriere della Sera, 21 gennaio 1944. 27
Articolo 1 - I militari di qualsiasi grado, classe o categoria ed i non militari che, prima o dopo 1'8 settembre 1943-XXI, hanno abbandonato il reparto o l'abitazione per unirsi alle bande operanti in danno delle organizzazioni militari o civili dello Stato, sono puniti, per il fatto stesso di tale partecipazione, con la pena di morte mediante fucilazione nella schiena. Alla stessa pena è soggetto chiunque, all'infuori di una vera e propria partecipazione materiale all'attività di bande, esplica un'azione diretta ad agevolare l'opera della banda stessa. Coloro che sono sorpresi con le armi alla mano sono immediatamente fucilati sul luogo stesso della cattura, senza bisogno di alcun giudizio. Articolo 2 - Chiunque dà rifugio, fornisce vitto o presta comunque assistenza a talune delle persone indicate nell'articolo precedente è punito con la pena di morte mediante fucilazione nella schiena..." Decreti e leggi che servirono a poco: militari e civili abbandonarono i reparti e si unirono alle bande e molti diedero rifugio, fornirono vitto e prestarono assistenza alle persone indicate nell'articolo precedente.
1960, settembre, in paese Il Ritorno Il tenente colonnello Friggerio ha fatto le cose per bene e la camionetta dei carabinieri lo aspetta, ferma sul piazzale con l'appuntato Chiaffalà, lucano di origine e ligure nel desiderio, seduto sul cofano e il carabiniere semplice Gargiulo al volante. Appena Santovito mette la testa fuori dalla stazione, l'appuntato scatta sugli attenti e poi, sembrandogli più corretto ricevere il superiore con il rispetto che merita, gli corre incontro. «Qua, signor maresciallo, la valigia» poi si accorge che qualcosa è cambiato nella divisa di Santovito e lascia cadere la valigia; si rimette sugli attenti, saluta e dice: «Mi scusi, signor maresciallo, se l'ho chiamata maresciallo e non maresciallo maggiore». «Stai comodo, Chiaffalà, stai comodo che sono sempre lo stesso» e vedendo che l'appuntato sorride, chiede: «Che c'è? Ti fa ridere che mi abbiano promosso?». «Signornò, signor maresciallo maggiore, che anzi, belin, mi scusi, sono contento come una torta pasqualina di essere mangiata a Pasqua. Sorrido perché penso a come la prenderà il maresciallo Amadori.» «Tranquillo, Chiaffalà, che quando il tuo maresciallo avrà la mia età, chissà quali gradi avrà sulle spalline. Andiamo?» Anche Gargiulo è sceso dalla camionetta, ha salutato il superiore come da regolamento e ha sistemato la valigia sul sedile posteriore. La statale per salire al paese è sconnessa come lo è sempre stata, i boschi che la costeggiano hanno il colore dell'autunno e i rami degli alberi, che nessuno cura più, si sono talmente allungati da coprire ormai buona parte della carreggiata. «Se sarà un inverno come quelli che ricordo, la neve ne romperà una quantità e la strada resterà interrotta per un bel po'. Di solito, sempre se ricordo bene, di questa stagione i proprietari facevano tagliare i rami sulla statale. Era una disposizione di legge...» «C'è ancora la disposizione di legge, signor maresciallo maggiore, ma chissà dove sono finiti i proprietari dei boschi. Abbiamo fatto una ricognizione e ne abbiamo rintracciati dieci da qui al paese. Gli altri... Belin, gli altri sono tutti in città a fare i signori.» «Chiaffalà, ma tu lo sai cosa vuol dire belin?» «Signorsì, signor maresciallo maggiore. Con rispetto parlando vuoi dire...» «Lo so, Chiaffalà, lo so. Ma perché continui a ripeterlo se sei lucano?» «È che, signor maresciallo maggiore, ho vissuto tanti anni in Liguria che sono diventato ligure, ligure lucano. Ma se mi consente, signor maresciallo maggiore, come mai è tornato in questo posto dimenticato da dio?» «Una volta, Chiaffalà, era dimenticato da dio. Adesso è un paradiso. Se ci fossi vissuto nel '39, '40, quando mi ci hanno sbattuto...» e la domanda dell'appuntato resta senza risposta. La caserma dei carabinieri dove aveva passato un brandello della sua vita, vita difficile e non solo per lui, non è la stessa. Quando il fronte si era fermato sull'Appennino, una cannonata degli Alleati aveva demolito la parte sinistra, quella dove teneva l'ufficio. Santovito non c'era. Stava sui monti, ma l'aveva saputo. Nessun danno alle persone, gli avevano raccontato. La nuova caserma dei carabinieri è poco fuori dal paese, confortevole e, cosa piuttosto rara, ha un impianto di riscaldamento centrale. Niente stufe a legna come ai tempi di Santovito. Anche il maresciallo Amadori si accorge dei nuovi gradi sulle spalline di Santovito, ma fa finta di niente. Gli indica la sedia.
Amadori ,è un giovane maresciallo dei carabinieri; alto e in forma. È uno che dedica alla ginnastica tutti i momenti che il servizio gli lascia liberi. E fa in modo che siano molti. Veste sempre una perfetta uniforme completa di berretto d'ordinanza anche quando è costretto a muoversi fra i boschi di questi monti. Pulito e stirato come per la festa dell'Arma. Nel cortile della nuova caserma è parcheggiata la sua Fiat Abarth di un rosso acceso che dà fastidio. Non viene da una famiglia di disperati senza lavoro del Sud, ma da una ricca borghesia ferrarese che gli ha sempre spianato la strada nella carriera nell'Arma. Ha le conoscenze che contano e al tenente colonnello Friggerio, la cosa dà un po' fastidio. «Allora, sei di nuovo qui. Come mai?» «Hai ricevuto il fonogramma del tenente colonnello Friggerio?» «Sì, ricevuto, ma non spiega un accidente di niente. Dice solo che sei comandato qui e che ti devo dare l'assistenza e il supporto logistico che tu o le circostanze dovessero richiedere. Stop. Se devo darti assistenza, dovrò sapere cosa cazzo sei venuto a fare, no?» È piuttosto indispettito. Credeva di esserselo tolto di torno quel rompiballe di maresciallo Santovito e eccolo di nuovo fra i coglioni. Promosso, per di più. Questo non lo dice, ma lo fa capire bene. «Se il tenente colonnello Friggerio non ha ritenuto di informarti, non lo farò io. Piuttosto, dove pensi di alloggiarmi?» Anche questa! «Come sarebbe? Non vorrai sistemarti in caserma?» «Devo dormire in giardino?» «No, certo, ma credevo che... Hai alloggiato su, alla Mezzacosta e pensavo...» «Ero qui per diporto, per piacere personale. Adesso sono comandato e l'Arma non ha intenzione di spendere soldi per me in un albergo. Tanto più che c'è una caserma nuova, appena inaugurata e che sa ancora di bianco.» Santovito si diverte. «Ooo, mi va bene anche la guardina. Ci metti una branda, che ci sono abituato, un tavolo, il telefono, una stufa perché qui quando viene freddo viene freddo sul serio e non mi basta il termosifone...» L'idea di avercelo qui anche per l'inverno che sta arrivando finisce di indispettire il maresciallo Amadori. «Vuoi dire che la cosa andrà per le lunghe?» «Non lo so ancora. Potrebbe essere, potrebbe essere» e lascia il collega ai suoi problemi logistici. Adesso c'è Raffaella. Il maresciallo Amadori grida: «Non sarà ancora per l'affare dei ragazzi uccisi? È una storia finita». Santovito non risponde. «Oh, Santovito! C'è qualcosa che io non so? L'ho risolto o no il caso?» «L'hai risolto, l'hai risolto...» dice sottovoce Santovito. Ma il maresciallo Amadori non lo sente e gli resta il dubbio. L'appuntato Chiaffalà gli apre la porta, lo saluta sugli attenti e dice: «Signor maresciallo maggiore, per lei c'è la mia camera». Santovito lo guarda e scuote il capo: «Non perdi mai il vizio, eh Chiaffalà?». «Belin, signor maresciallo maggiore, è che ci sono dei muri moderni e si sente tutto anche se non si vuole.» «Com'è vero.» «Allora, le va bene la mia camera?» «E tu?» «Mi arrangio con Gargiulo.» Poi sorride e aggiunge, come se si trattasse di una furbata: «Oppure sbatto Gargiulo a dormire in guardina e mi prendo la sua stanza». «Mi pare meglio, Chiaffalà» e dopo che l'appuntato gli ha chiuso la porta alle spalle, riprende a borbottare: «L'hai risolto, maresciallo Amadori? Se era per te, a quest'ora chissà chi ci avevi sbattuto. L'hai risolto, l'hai risolto, sta' tranquillo».
1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda Riposino In Pace Ci fu un tonfo secco e un breve rotolare, rumori fiochi che però risuonarono distintamente nel silenzio attorno. Lepre, seduto su un sasso appena fuori dal piccolo fabbricato poco distante dal caniccio, uno dei tanti edifici nei boschi in cui i montanari essiccavano le castagne, alzò gli occhi un momento, guardò il riccio che nella caduta si era aperto e le castagne brune e lucenti sparse per terra. «Per San Lucca, la castaggna in tera tutta» disse fra i denti. Bill, appena uscito dall'edificio, lo guardò incuriosito. «Cosa vuoi dire?» chiese. Lepre non rispose subito, era intento ad una difficile operazione. Aveva strappato una paginetta da un messale che teneva in una tasca della giubba militare. Da un'altra tasca aveva preso una scatoletta metallica, piena di tabacco semibruciato, frutto di un paziente lavoro di recupero cicche. Mise un pizzico di tabacco nella cartina improvvisata, si arrotolò a due mani una sigaretta, umettò un bordo con la saliva, pigiò con le dita per incollare il tutto e si portò il risultato alla bocca. Prese uno zolfanello, lo sfregò contro il sasso, lo tenne un poco distante per lasciar svanire l'acre odore dello zolfo e si accese la sigaretta, aspirando e sbuffando fuori il fumo con evidente piacere. «Cosa vuoi dire cosa?» disse poi, guardando Bill. «Quella storia di San Luca e della castagna.» «Sei proprio un piangiano, si vede che vieni dalla bassa e non sei di montagna. È un proverbio, dice che quando viene San Luca, che viene il 18 di ottobre, le castagne hanno finito di cadere, sono pronte per la raccolta.» «E oggi è il 18?» «Questo poi non lo so, qui si perde il senso del tempo. In che giorno della settimana siamo? Anche le ore... Tango, giù al comando, ce l'ha l'orologio, ma per noi qui le ore vanno da fame a fame, e da luce a buio.» Il sole era spuntato da poco, su quel giorno di mezzo ottobre. L'aria era frizzante, ma non fredda, e si annunciava una bella giornata. Una nebbiolina leggera correva ancora fra gli alberi del bosco, ma al sole più forte, col passare del tempo, sarebbe scomparsa. I castagni intorno rosseggiavano, come gli alberi di tutta la vallata, un trionfo di rosso giallo e ocra in un piano degradare a valle, verso il fiume in fondo. 1 castagneti erano ancora curati, tenuti puliti per la raccolta, ancora importante per l'economia povera della zona. Erano venuti il giorno prima, all'alba, a raccogliere, quelli della famiglia che possedeva il castagneto, tutti, donne, vecchi e bimbi compresi; mancavano gli uomini validi. Si erano messi a maneggia, ognuno cioè, partendo dal limite in basso della proprietà, aveva preso una striscia di terreno e con una balla di canapa legata in cintura si era spinto su in alto, fino al caniccio, aveva scaricato il raccolto dentro ad ampi corbelli e bigonci, poi era tornato indietro, per ricominciare, chini a spaccare la schiena, mani e dita nere dalle punture dei ricci non ancora schiusi. Una breve sosta a mezzogiorno, pane, formaggio e acqua di sorgente, e poi via, di nuovo. Tango l'aveva detto al vecchio, il capo del branco familiare, mentre stavano per tornare a casa. Gli aveva detto: «È meglio che domani non veniate. Dobbiamo fare una cosa che è meglio che non ci siate.» Il vecchio l'aveva guardato. Era rimasto un poco in silenzio, poi: «Dovete... Insomma... Dovete fare giustizia?». Tango aveva allargato le braccia e buttato fuori aria con forza dalla bocca. Aveva scosso la testa.
«Dobbiamo fare quello che il tribunale partigiano ci ha ordinato di fare» disse. Il vecchio assenti. «Speriamo che da domani quei poveri morti riposino in pace.» Tango lo guardò. «I morti sono morti» disse. «Siamo noi vivi che dobbiamo fare...» si interruppe. «Be', niente, allora domani, domani a casa, mi raccomando. » «Chi la scava la fossa?» domandò il vecchio. «La fate scavare a lui?» «No, non siamo fascisti, e neanche tedeschi. La faremo noi.» «Se volete ve la faccio io, o una di quelle donne mi aiuterà a fare la fossa. Quei poveretti li conoscevamo. E poi morire in quel modo...» Tango lo interruppe con un gesto della mano. «No, la fossa la scaviamo noi, combattiamo anche per questo, l'avete detto anche voi prima, combattiamo per avere e fare giustizia, non per la vendetta.» «Fai una sigaretta anche a me?» chiese Bill a Lepre. Lepre lo guardò. «Te la faccio, ma te l'avevo detto di mettere da parte le cicche. Appena c'è il lancio siete tutti americani, e poi, se tardano un po' a lanciare, siete tutti in braghe di tela.» Lepre era uno degli anziani del gruppo, era sui venticinque, trenta. Caporalmaggiore nell'esercito, l'armistizio lo aveva trovato fortunosamente in Italia, e con mezzi di fortuna era riuscito a tornare a casa. Poi c'era stata la Repubblica di Salò e per sfuggire ai bandi d'arruolamento era andato con una delle prime formazioni partigiane operanti in quella parte d'Appennino, la Garibaldi. Non alto, un viso segnato sotto a un ciuffo di capelli biondo stoppa, indossava un giubbetto militare alleato e un paio di pantaloni civili, stretti alla caviglia da un elastico sopra calze di lana infilate dentro ad un paio di scarponi chiodati, tipici allora della gente della montagna. Il suo compagno, Bill, sui vent'anni, alto e sottile, era vestito ancora con gli abiti con i quali aveva lasciato il paese dov'era sfollato con i genitori: una giacca con sotto un maglione a collo alto, un paio di pantaloni e scarponi da sci. Si accese la sigaretta con quella di Lepre. «Almeno tiene un po' a bada la fame» disse. Lepre si girò verso la porta del caniccio da cui veniva un filo di fumo. «Motore!» urlò. «C'è niente da mangiare?» «Calma, calma! Ragazzi, non fate altro che mangiare» rispose una voce dall'interno. «Ancora cinque minuti e il pranzo è pronto!» «Ha il coraggio di chiamarlo pranzo!» Lepre prese lo Sten che aveva accanto, tolse il caricatore e fece scorrere l'otturatore un paio di volte. Bill guardò il suo moschetto 91 appoggiato al muro. «Quand'è che mi date uno Sten?» chiese. «Al prossimo lancio, se ci sarà. Ma perché ti lamenti, il 91 è un'arma sicura.» «È pesante, poi è un ta-pum. Lo Sten spara a raffica.» Mise gli indici in avanti. «Ta-ta-ta-ta» fece. «Sai cosa vuoi dire Sten?» Lepre si strinse nelle spalle come a significare che non lo sapeva, ma non gli importava poi molto saperlo. «Te lo dico io: esse e ti sono le iniziali dei due inventori Shepard e Turpin. E e enne sono le due prime lettere della città dove lo costruiscono che si chiama Enfield. Proprio una bell'arma lo Sten.» «Bella, poi... Se è per questo, è più bello il mitra dei tognini. Ma è troppo complesso e s'inceppa più facile. Questo è un pezzo di ferro con una molla e un otturatore. Fa quello per cui è stato fatto, spara.» Sottovoce: «Quando non si pianta». Dalla porta del caniccio uscì un giovane con un lungo impermeabile svolazzante, una grande "mascagna" di capelli sulle spalle e una folta barba sul viso. Reggeva in mano un paniere. «Ecco il pranzo» disse ridacchiando, «che è poi la colazione, ma sarà anche il pranzo e la cena. Se quando vengon su per... per fare quello che sapete... e se portano su un po' di farina gialla e di formaggio, stasera vi faccio mangiare meglio. Autiere si è incaricato di trovare farina e formaggio. Speriamo... Per ora accontentatevi dei balotti, che ce n'è tanti! Come si dice dalle mie parti, pane di
legno e vino di nuvole» e offrì ai due il paniere di castagne bollite. Lepre e Bill cominciarono a mangiare in silenzio, schiacciando in bocca le castagne coi denti e sputando le gusce. «Lepre» fece Bill. «Cosa pensi di fare quando questo... tutto questo buridone sarà finito?» Lepre si strinse nelle spalle. «Sono autista meccanico. Non so, metter su un'officinetta per aggiustare attrezzi agricoli. O le macchine. Macchine ora non ce ne sono tante in giro, ma vedrai che arriveranno. Intanto ci saranno quelle vecchie, di prima della guerra, da sistemare. O comprare un camioncino, o una corrierina... Poi arriverà qualcosa di nuovo, insomma sono sicuro che ci sarà da lavorare. E tu?» «Io faccio... Facevo l'università. Legge. Farò l'avvocato. Mio padre ha già lo studio, comincerei con lui, poi è un campo che mi appassiona. Se tutto questo finisce in fretta.» Tacque, poi: «Forse bisognerebbe portare un poco di castagne anche a lui» e indicò con la testa la piccola costruzione poco distante dal caniccio, in pietre a secco e coperto da lastre d'arenaria, quei ripari usati dai montanari per riporre attrezzi. «Che almeno mangi qualcosa.» Lepre alzò le spalle. «A questo punto!» Rimase pensoso. «Ma sì, vai, che forse con due castagne si consola.» Bill si alzò, prese due manciate di balotti e si avviò verso la piccola costruzione. Aprì la porta, che era tenuta da un bastone fissato ad una corda girata fino ad incastrarsi nel muro e guardò dentro. «Bob» disse «ti ho portato un po' di castagne da mangiare.» Bob sbatté gli occhi alla luce improvvisa e si alzò dal mucchio di foglie secche su cui era sdraiato. Guardò Bill. «Avresti per caso una sigaretta?» Bill scosse la testa. «Comunque ti ho portato un po' di castagne.» Le posò a terra. «Se le vuoi sono qui.» «Grazie, ma non ho fame.» Bob prese l'altro per un braccio. «Senti, sai dirmi qualcosa di quello... Insomma, cosa hanno poi deciso, cosa mi faranno?» Bill tolse la mano. «Cosa vuoi che sappia, io? Non so dirti proprio niente!» Alzò il braccio in un gesto di saluto ma si fermò a metà; ristette un attimo imbarazzato poi si girò su se stesso, sbarrò la porta dietro di sé e tornò da Lepre. Bob si lasciò andare sulle foglie secche. Aveva passato in bianco quasi tutta la notte, un po' per il freddo ma soprattutto per quel pensiero che lo angustiava, l'opprimeva: non sapere se, per lui, sarebbe arrivata la sera di quel giorno. Ogni tanto, spossato, piombava in un sonno leggero colmo di sogni strani e inquietanti in cui si mescolavano vaghe figure, sagome del tribunale partigiano, l'immagine evanescente della sua donna. Poi, voci che lo chiamavano, lo deridevano... E si svegliava di soprassalto. Cercava di trovare un modo per uscire da quella situazione. Scappare, ma dove, ma come? Aveva saggiato la resistenza della porta, unica via di fuga, ma aveva retto bene. "Ci sarà un modo per venirne fuori. Non possono fare questo, devono accorgersi dello sbaglio" pensava. Di nuovo si alzò. Tempestò di pugni la porta. «Tiratemi fuori! Adesso basta! Facciamola finita con questa storia che non sta in piedi!» urlò. Dal basso del castagneto spuntò Tango assieme agli altri. Il sole era ormai abbastanza alto sull'est, e aveva spazzato via la nebbiolina, regalando una temperatura gradevole. Lepre e Bill si alzarono e andarono loro incontro. Dal caniccio uscì anche Motore, che li aveva sentiti arrivare. Andò subito verso Autiere che aveva sulle spalle un tascapane. Lo aiutò a sfilarlo dalle spalle, lo soppesò, guardò Autiere e borbottò: «Non ti sei smaronato. Saranno due chili di roba. Che ci faccio?» «Quello che puoi. Sono riuscito a mettere assieme questo. Non è che giù, in paese, abbiano delle
gran risorse» gli rispose Autiere. «Tireremo la cinghia, tanto per cambiare» borbottò ancora Motore e, preso su il tascapane, tornò nel caniccio. Non voleva essere coinvolto in quello che erano venuti su a fare Tango e gli altri. Lui si occupava della cucina. Il gruppo salutò a bassa voce e Tango chiese: «Com'è?» «È com'è, porca la guerra» Lepre rispose per tutti. «E lui?» «Un po' si è agitato, ma adesso pare che stia calmo. Dov'è che...?» «In là, alla piana di Santino, penso che sia il posto adatto. Andatelo a prendere.» Lepre e Bill si mossero, andarono alla costruzione poco discosta dal caniccio, aprirono la porta e guardarono dentro. «Bob, vieni fuori!» fece Lepre. Bob uscì, sbattendo gli occhi alla luce. «Cosa c'è?» chiese. «Cosa volete fare ancora? Non ne ho avuto abbastanza solo per aver disobbedito a un ordine?» «Vieni senza fare storie» e Lepre lo afferrò per un braccio e lo spinse fuori, ma Bob si divincolò. «Cosa volete ancora?» urlò. «Volete smetterla con questa storia? Va bene, mi sono allontanato e non dovevo. Gli ordini sono ordini, ma adesso smettetela e lasciatemi andare!» Tango fece un gesto e altri due partigiani afferrarono e trascinarono Bob.
1944, ottobre, sulle montagne Missione Salerno era intento a pulire e oliare lo Sten, seduto su un sasso, al limitare dell'aia quadrata che circondava la porta d'ingresso della casa. A valle il terreno declinava dolcemente verso campi abbandonati. Saliva a monte verso un cerreto che sorgeva a poche decine di metri dall'edificio permettendo un'ampia visibilità. Prima della guerra su quell'aia battevano il grano. Rendevano impermeabile il terreno imbuinandolo, cioè spargendo sulla massicciata di pietre, fra cui spuntavano copiosi ciuffi d'erba, sterco vaccino sciolto nell'acqua; quando il composto si seccava ricopriva il terreno pianeggiante con una patina attraverso la quale i chicchi del grano non potevano disperdersi. Scioglievano a terra i covoni, poi passavano sopra alle spighe con una grossa pietra triangolare trainata da buoi o le battevano a mano con il correggiato, due bastoni di diseguale misura, il mafonile e la vetta, uniti da una correggia che gli uomini facevano vorticare in aria per poi abbatterne il lato più corto, la vetta, sulle spighe. Quell'anno, però, il grano (ed era tanto, un raccolto che da tempo non si vedeva) l'avevano requisito i tedeschi, non tanto per trebbiarlo macinarlo e trasformarlo in pane, quanto piuttosto per usarlo come lettiera per i cavalli che certi reparti avevano con loro, animali dal posteriore enorme che venivano usati per il traino o il trasporto. Quel giorno l'aia era piena di partigiani che oziavano, aspettando il momento dell'azione. Dai primi deboli nuclei di sbandati che, fra il settembre e l'ottobre del 1943, si aggiravano sui monti senza direttive e obiettivi precisi, nell'estate del 1944 erano operanti tre, quattrocento partigiani, inquadrati nella brigata Matteotti di montagna del capitano Toni Giuriolo. Poi Giustizia e Libertà, comandata da Pietro Pandiani, oltre a piccole formazioni locali nate spontaneamente, come la Buozzi e la Slit, dal nome di battaglia del suo comandante e la banda Toti, dal nome di battaglia del suo comandante Romolo Castelli. Verso la fine di settembre poi circa millecinquecento uomini di Mario Ricci, Armando, avevano lasciato il modenese per raggiungere quelle località fra il bolognese e il pistoiese. Quasi tutti avevano al collo un fazzoletto annodato sul davanti e con la punta pendente sulle spalle, o rosso o tricolore. Chi era in camicia e pantaloni corti (ma allora i ragazzi li indossavano anche in pieno inverno, i pantaloni corti), chi con giubbetti militari degli alleati, chi in giacca borghese. Ai piedi di solito scarponi da montanari, quelli con le bullette sotto la suola; in testa quasi tutti avevano un copricapo, dalle forme più varie, Borsalino borghesi, baschi e bustine militari con fregi disparati, uno addirittura un elmetto tedesco. Anche le armi erano le più svariate, degli Sten provenienti dai lanci degli Alleati, ma anche i vecchi moschetti 91, qualche pistola infilata alla cintura, fucili mitragliatori e, in un angolo, una Breda calibro 8 e una MG tedesca, la "sega di Hitler", evidente preda bellica. Si avvicinò a Salerno un partigiano alto e magro, con un mento sporgente su una faccia lunga che raramente, forse mai, si apriva al sorriso. Per questo tutti lo conoscevano come Musone. Ma aveva i suoi buoni motivi per non ridere. Poco meno di un mese prima le truppe tedesche provenienti da Sant'Anna di Stazzema, al comando del maggiore Walter Reder, detto il Monco per via del braccio destro perduto durante la campagna di Russia, incaricato di "ripulire" le retrovie della Linea Gotica, si erano macchiate di uno dei più feroci episodi accaduti nella zona, un eccidio costato la vita a ventisei civili e quattro partigiani. Alcuni dei civili erano parenti strettissimi di Musone. «Salerno» bofonchiò Musone, «il capo ti vuole.» Salerno alzò gli occhi. Era in divisa da carabiniere. Sulle spalline i gradi di maresciallo. «Cosa vuole?»
«Non lo so. Ha detto solo di cercarti, e che ti voleva vedere.» Il capo della formazione di Salerno, era Toni Giuriolo, nome di battaglia Toni, nell'esercito italiano fino all'8 settembre e poi passato fra le formazioni partigiane. Salerno rimontò lo Sten, si alzò e i due andarono verso la casa. Si entrava direttamente in una cucina con un camino nero di fumo, come nere erano le pareti attorno e dentro, e dove alcuni partigiani si davano da fare con un paiolo appeso ad una catena di ferro sul fuoco. Una scala di legno a pioli passava, attraverso una botola, al piano superiore. Dalla cucina, dopo una porta, si entrava in una stanza con un lungo tavolo di castagno ingombro di carte topografiche, un barattolo colmo di cicche, un binocolo da teatro. Due mitra erano abbandonati sul piano di legno sgombro dalle carte. Dietro il tavolo era seduto un uomo, con un giubbetto militare alleato. Di fianco, altri due che alzarono lo sguardo verso il nuovo venuto. Anche l'uomo seduto guardò Salerno. «Salve, prendi una sedia» disse con accento veneto. Salerno sedette. «Che c'è, Toni?» chiese. L'altro lo guardò. «Tu sei maresciallo» era più un'affermazione che una domanda. Salerno si guardò l'uniforme. «Be', ero maresciallo. Adesso non so proprio cosa sono. Nella Benemerita, dico. Adesso sono partigiano.» «Certo, partigiano. Ma anche maresciallo. Maresciallo Benedetto Santovito.» «Quello per ora non c'è più. Nome di battaglia, Salerno.» «Certo, ma credo sia un po' come coi preti. Semel abbas, semper abbas. Una volta carabiniere, per sempre carabiniere. E mi hanno detto che ti intendi di indagini, che hai risolto un caso brigoso, là, dov'eri di stanza.» Salerno si strinse nelle spalle. «Passata una vita. Ma ora, qui...?» «Hai sentito del massacro alle Piane?» «Sì, ne hanno parlato i compagni, ma non so niente di preciso.» «Pare che non c'entrino i tedeschi o i fascisti. Uno di qui, si dice. E pare che lo abbiano preso, uno della Garibaldi. Ma mi sono arrivate voci strane, insomma c'è qualcosa di poco chiaro. Capisco il desiderio di giustizia e quello di tener ordine fra di noi, il nostro dovere morale, dico soprattutto morale, è di non avere nessuna pendenza, a parte la guerra sacrosanta che stiamo combattendo. Facciamo questa guerra per la giustizia scomparsa, per ripristinarla, e dobbiamo per primi fare giustizia. Dobbiamo essere i più...» Cercò la parola. «... I più puri, mi capisci? A costo anche di colpire fra noi, separare il grano dal loglio. Non siamo certo tutti Figlie di Maria, ma a volte questo desiderio di giustizia a tutti i costi, a volte la fretta a cui ci costringe la guerra, potrebbero far fare delle cose sbagliate, tragicamente sbagliate. So che c'è stato un processo, al loro comando, non so com'è andato a finire. Tu hai ancora la divisa, e ancora quella significa qualcosa. Dovresti andare da loro e informarti. So che hanno degli uomini al caniccio d'Edgarda. Sai dov'è?» «No.» «Ti accompagnerà Musone, che è di qua. Vai, e buona fortuna.» Avevano preso uno stretto sentiero in salita che correva prima nel cerreto per poi aprirsi all'arrivare dei castagni. Musone, davanti, camminava di buon passo, guardandosi i piedi che si muovevano veloci, lo Sten con la correggia che gli attraversava il petto da sinistra a destra, vicino alla mano pronta ad impugnarlo. «Quanto ci vorrà per arrivare?» chiese Salerno che lo seguiva. «Un'ora, andando così» rispose Musone senza voltarsi. «Conosci qualcuno della Garibaldi, lì al caniccio d'Edgarda?» Musone ci pensò un poco. «Dovrebbe esserci Lepre, è di queste parti anche lui.» Il sole si era alzato, Musone procedeva instancabile, col passo metodico dei montanari. Salerno estrasse di tasca un fazzoletto e si asciugò il sudore dalla faccia, ma il castagneto era bello da
percorrere, con ampi spazi fra un albero e l'altro, il sottobosco curato quasi fosse il prato d'un giardino. Qua e là si potevano vedere funghi, ma Salerno non aveva tempo per fermarsi a guardare i buoni e i cattivi, Musone avanzava in silenzio, verso la destinazione che gli avevano ordinato. «Musone!» fece Salerno. «Cosa?» ma non si fermò. «C'eri tu al massacro del Monco?» Musone spezzettò una bestemmia fra i denti. «No, ero già nei partigiani.» «È stata una gran brutta cosa.» «Brutta?! Ma la pagheranno, verodio, pagheranno tutto! Dio» e qui un'altra bestemmia gli rotolò fra le labbra «non paga il sabato.» Tacquero, camminando. Improvvisamente, da un castagno sbucò un partigiano con lo Sten puntato. «Fermi là! Chi siete?» urlò. Musone si fermò. «Sono Musone, della Matteotti, e questo è Salerno!» «Venite avanti. Cosa volete?» «Parlare con qualcuno di un fatto.» «Andate su al caniccio, andate pure che c'è Lepre.»
1944, ottobre, sulle montagne Una Tomba Per Le Piane Per arrivare non ci misero molto. In vista del caniccio, Musone si fermò e chiamò: «Lepre! Oh, di' su Lepre!» Lepre sbucò fuori dalla piccola costruzione, poco distante dal caniccio. Non abbandonava mai il suo Sten. «Ve' Musone. Com'è?» «È com'è» gli rispose Musone. Lepre guardò Salerno. «C'è anche la Benemerita» disse con un tono ironico. «C'è solo il partigiano Salerno della Matteotti» disse Santovito. «Be', fa piacere vederne qualcuno anche fra i nostri. Ma se venite da là avrete sete.» Andò dentro e uscì con un fiasco. «Servitevi» disse «e sempre avanti.» «Avanti e vita lesta, mangiar poco e lavorar da bestia» e Musone si portò il fiasco alla bocca, diede un'ampia sorsata e lo passò al compagno. Salerno bevve e restituì il fiasco a Lepre. Bevve anche lui poi lo posò a terra. «Allora?» «Mi hanno mandato per chiedere notizie sul massacro alle Piane.» «Una brutta storia, maresciallo, davvero brutta. E non sono stati i tedeschi o i fascisti. È stato uno dei nostri» e Lepre sputò per terra. «Come uno dei nostri? Chi sarebbe stato?» Lepre guardò Salerno. «Hai conosciuto Bob?» Salerno scrollò la testa e Musone assentì. «Be', è stato lui. Avrà avuto anche le sue ragioni, ma ammazzare la gente così!» e raccontò a Salerno come si erano svolti i fatti, secondo l'inchiesta del commissario politico della Garibaldi, e com'era andata con il processo. Salerno si passò le mani sul viso e scosse il capo: «Che brutta cosa, mio Dio». Poi: «E le prove? Ce n'erano abbastanza per un'inchiesta come si deve?». «Ooo, maresciallo! È tutto in regola, eh. Qui si fanno le cose in regola. Giù al comando Bob ha avuto il processo, tutto regolare, cosa credi?» «E cos'è venuto fuori dal processo?» Lepre guardò da un'altra parte e borbottò: «Colpevole». «E Bob?» Lepre tornò a guardare Salerno, poi si passò il pollice della mano destra di taglio sulla gola. «Fucilato due mattine fa.» Salerno guardò Lepre, stupito: «Che bisogno c'era di fare le cose tanto in fretta? Si poteva cercare ancora, aspettare altre...». «Altre, cosa? C'era tutto quello che serviva, maresciallo. Aspettare poteva sembrare che noi non ce la sentiamo di punire i nostri che fanno come le essesse. Abbiamo gli occhi addosso e se sgarriamo...» «Dove l'avete fucilato?» lo interruppe Salerno. Lepre indicò il bosco. «Poco più su, alla piana di Santino. Abbiamo scavato la fossa e ce l'abbiamo seppellito.» «Dove hanno fatto il processo?» «Giù, al comando di brigata.» «Chi presiedeva il tribunale?»
Sospettoso, Lepre guardò Salerno: «Stai pensando che le cose non siano andate come dovevano andare? Stai pensando che noi ci divertiamo a uccidere i compagni? Guarda, maresciallo, che non mi piace» e fece l'atto di lasciare lì i due, ma Musone lo fermò: «Sta solo chiedendo informazioni, Lepre. Cosa te la prendi tanto? Lo hanno comandato, come te e me. Poteva capitare a chiunque. Allora si può rispondere, no?» Lepre ci pensò su: «Sì, si può rispondere. Anche perché non c'è niente di niente da nascondere. Alla Garibaldi si fanno le cose alla luce del sole. Il tribunale lo presiedeva Tango. Tango, sì». «E dove lo trovo?» chiese ancora Salerno, per niente preoccupato del risentimento di Lepre. «Tango?» e Lepre indicò un punto della montagna, presumibilmente verso sud. «Tango è... Se Tango ce l'ha fatta, a quest'ora dovrebbe essere oltre le linee in missione.» «E quando torna?» Lepre si fece aggressivo. «Cos'è, un interrogatorio? Se fosse un fascista a farmi tutte queste domande, lo avrei già ammazzato! Cosa sono queste domande? E dov'è Tango? E quando torna? Mi sa che sei qui per fare dello scompiglio, mi sa.» Musone si mise in mezzo: «Stai calmo, Lepre. Per Salerno ci sto davanti io. Me la prendo io la responsabilità». Lepre si tranquillizzò e per un poco nessuno parlò. Poi Salerno chiese, sottovoce: «Dove avete sepolto Bob?». Lepre ci pensò, guardò Musone e fece segno di andargli dietro. C'era solo un tumulo, senza nessun altro segno, né religioso, né civile. Si vedevano la terra smossa e alcuni bossoli. Una scena purtroppo consueta in quei giorni. «Chissà cosa mi aspettavo di vedere» mormorò Salerno. «Pace all'anima sua, colpevole o innocente.» Poi a Musone: «Sai dove sono le Piane?». Musone assentì. «Quanto ci vorrà per arrivarci?» «Si vede che voi della Matteotti avete tempo da perdere» disse sottovoce Lepre. E si avviò per tornare nella baracca vicina al caniccio. «Allora?» insisté Salerno con Musone. «Allora, allora... È molto più in basso, ci vuole il suo tempo...» «Va bene, il tempo che ci vuole. Andiamo a vedere queste Piane.» Ci volle tutto il suo tempo, e anche qualcosa di più. Avevano lasciato il bosco e, stando bene attenti che non ci fosse pericolo, avevano preso una cavedagna che attraversava campi aperti in leggera ondulazione, ancora coi segni di recenti coltivazioni. La casa, che sorgeva su un'ampia spianata del terreno, per questo si chiamava le Piane, apparve improvvisamente dopo l'ultima curva della cavedagna. Un edificio in pietra colombina, giallastra, macchiata nei muri dal fumo del recente incendio. L'edificio era a due piani, più lungo che alto e il tetto crollato lasciava intravedere monconi di lunghe travi di legno. Appoggiata al muro, assurdamente viva, una pergola di uva americana carica di grappoli, davanti a un muro chiazzato dell'azzurrino del verderame. Di fianco alla porta d'ingresso, aperta spalancata col legno semibruciato, una panchina in un unico blocco di pietra, poggiante su due piccoli massi. Al muro alcune anelle di ferro, approntate per legarvi gli animali, o muli o somari. Poco vicino era la stalla con sopra il fienile, ancora intatta, poi una piccola costruzione di fianco, lo stalletto per il maiale e, appoggiata a un lato, la baracchetta del pollaio, con un'asse esterna che portava a una piccola apertura, da dove a sera entravano le galline. C'erano anche alcune gabbie, le conigliere, con gli sportelli spalancati e vuote. Al limitare dell'aia, e prima che la cavedagna dalla quale i due erano arrivati fin lì, proseguisse e si perdesse nel bosco, un muretto con una fontana e un grande acquaio sottostante scavato da un
enorme blocco di sasso, erano quasi del tutto coperti da un enorme sambuco. Accanto, una pompa a mano con un braccio di legno dipinto di verde, si disperdeva in un tubo sottoterra. Tutto attorno solo un grande, profondo silenzio, non una voce, un muggito, un chiocciare, un grugnito, come se dalle Piane la vita se ne fosse andata da poco; si respirava soltanto morte. «Dove sono finiti gli animali?» chiese Salerno. Musone si strinse nelle spalle: «In questi tempi ne avevano pochi, un maiale, qualche gallina e qualche coniglio». Indicò attorno: «Chi ha fatto tutto ha aperto pollaio e gabbie e li ha fatti scappare. Le galline non si allontanano dal pollaio, mucche e maiale è venuto a prenderli un tale... Si chiama Gionata, che ha sposato una sorella del Patriarca» e aggiunse, amaramente ironico: «Li tiene buoni per le prossime requisizioni dei togni». «Qua attorno ormai tutte le bestie se le sono mangiate i tedeschi. Come mai queste non le avevano ancora requisite?» chiese Salerno. Musone sogghignò: «Difficile, Salerno. Il vecchio Bernardi era fascistissimo, e suo figlio pure. Non che gli interessasse tanto la politica, ma ci faceva i suoi affari. Era mediatore, trafficava in terreni, poderi, case, animali... Soprattutto con il mercato nero. Stava dalla parte di chi comandava, hai capito? Nessuno li toccava, i Bernardi, tanto che quelli della brigata Garibaldi li avevano anche avvertiti, di stare in campana, che prima o poi, qualcosa gli sarebbe toccato pagare, o in un modo o nell'altro». Ci pensò su un attimo e scosse il capo: «In fondo non mi dovrebbe dispiacere che i Bernardi siano finiti così, ma è troppo... troppo...». Non trovò le parole e concluse borbottando: «Io so cosa vuol dire». «Possibile che questo Bob si sia preso la libertà... Insomma, che abbia voluto fare un gesto dimostrativo?» Soprappensiero, Musone non rispose subito. Poi disse: «Non credo. Bob era... Bob non era di quelli duri, che vogliono fare piazza pulita a ogni costo. Forse aveva delle ragioni sue. In paese dicono che con i Bernardi non si potessero soffrire, soprattutto con il vecchio per delle ragioni sue, per motivi... Vecchie storie di paese che non so bene. Le chiacchiere non mi hanno mai interessato». «Dov'è che sono stati ammazzati?» Senza rispondere, Musone si avviò, proseguì per la cavedagna e si fermò poco oltre la fontana, in un piccolo spiazzo dove i montanari sono soliti bruciare i ricci delle castagne. I resti della casa erano nascosti dal sambuco, attorno alla fontana, e dai primi castagni. Indicò lo spiazzo: «Li ha ammazzati lì». Si chinò: «C'è ancora il sangue» disse e si alzò per andare al limite della piccola spianata, quattro passi dal sangue e ancora indicò. «E qui ci sono i bossoli della raffica.» Salerno rifece il percorso che Musone aveva concluso e anche lui si chinò sulle macchie di sangue rappreso, ormai amalgamato con l'erba appassita dall'autunno. Da dove l'assassino aveva esploso la raffica, Salerno raccolse un bossolo e se lo rigirò fra le mani. «Sten, sì» mormorò «non ci sono dubbi.» Allontanandosi dallo spiazzo, controllò attorno e, poco dentro il bosco e dietro al tronco di un grosso albero, fra l'erba calpestata che l'autunno non era riuscito a far riprendere, raccolse qualcosa che poi andò a mostrare a Musone. «Sì, va bene, una cicca di toscano» borbottò quello, «ma non vuoi dire niente. Forse il vecchio dei Bernardi fumava il toscano. Da queste parti, tutti i vecchi fumano il toscano...» «Lo fumo anch'io e non sono ancora vecchio» mormorò Salerno. «Oddio, lo fumo per modo di dire. Di questi tempi ne trovo pochi.» Guardò a lungo il mozzicone, lo annusò: «È del tipo che fumo io. Chissà perché il vecchio dei Bernardi era andato a fumarlo di nascosto, dietro il tronco di un albero?». Alzò il tono: «Cosa fumava Bob?». Musone si strinse nelle spalle: «O questo poi non lo so. Ooo, Salerno, ho idea che ha ragione Lepre». «Cioè?»
«Sei qui per fare dello scompiglio.» Salerno negò con un gesto del capo, fasciò il mozzicone in una foglia di castagno e lo mise in tasca. Un'ultima occhiata attorno e si avviò alla casa continuando a controllare il terreno. Tracce di sangue che pareva spalmato sull'erba e, poco prima di arrivare alla fontana, si chinò ancora. «E questo cos'è?» Musone guardò il palmo che Salerno gli porgeva. «La cartuccia di un fucile da caccia» borbottò. «Ancora da esplodere» precisò Salerno. «Oltre allo Sten, Bob aveva con sé anche un fucile da caccia?» «Bisognerebbe chiederlo a Bob» fece Musone.
1944, ottobre, sulle montagne Amen Più per scrupolo di carabiniere cosciente, quale lui era, che sperando di trovare altri indizi, Salerno diede un'ultima occhiata attorno e si avviò dicendo a Musone: «Torniamo su.» Musone gli tagliò la strada. «Su dove? Da Lepre?» e, al muto assenso di Salerno, continuò: «Hai idea di cosa vuol dire tornare da Lepre? Hai idea di quanto siamo lontani da casa? Hai idea di cosa possiamo incontrare? Io dico che è ora di tornare da Toni e dirgli che Bob ha fatto la fine che si meritava e amen». Per il suo carattere e per le sue abitudini, Musone aveva parlato anche troppo e chissà per quanto avrebbe taciuto in modo da recuperare il suo silenzio. «Sì, potremmo tornare» mormorò Salerno, «ma noi non sapremmo mai cos'è successo qui» e indicò il luogo del massacro e i dintorni. «Ci sono molte cose poco chiare. Intanto non ci sono solo partigiani che hanno lo Sten. Ho saputo che anche dei fascisti li usano. Li hanno presi a partigiani arrestati o uccisi. Poi tutta questa storia mi puzza di messa in scena. Per esempio, chi mi dice che non siano stati i fascisti per dare poi la colpa ai partigiani e metterli in cattiva luce con i civili che ci aiutano?» Rifletté e poi mormorò: «Un sigaro, adesso ci vorrebbe un sigaro. Dio, cosa darei...». Riprese per Musone. «E poi c'è di mezzo la morte di troppa gente...» Lo interruppe Musone: «Cambierà qualcosa? Questi sono andati, Bob è andato e se non torniamo al campo, e di corsa, finisce che andiamo anche noi. Sento puzza di togni, Salerno, e la puzza di togni a me mi dà il vomito». «Musone, si torna da Lepre» decise Salerno. E scostando il compagno, riprese la cavedagna. Prima di seguirlo, Musone, come un animale selvatico, guatò attorno, cercò fra i tronchi degli alberi, poco lontani, annusò l'aria, si tolse di tracolla il mitra e finalmente si avviò. Ma restò qualche passo dietro Salerno, attento a ogni rumore, lo sguardo lungo la strada che dovevano fare e, sempre più spesso, verso quella dalla quale venivano. In un tratto di cavedagna che saliva dritto davanti a loro, Musone si accostò svelto a Salerno, lo toccò sulla spalla, con la testa gli segnò dietro, con la canna del mitra indicò il bosco che costeggiava la strada. Armò il mitra e s'imboscò. Salerno lo seguì. Conosceva troppo bene Musone per perdere tempo in domande. Si sdraiarono dietro i tronchi, abbastanza distanziati l'uno dall'altro, e tennero gli occhi sulla cavedagna. Non passò molto che spuntarono in sei. Sette con il sottufficiale che li guidava. Salivano in fila indiana, tre a destra e tre a sinistra, con precauzione e attenti a non fare rumore. Ma Musone aveva buone orecchie. Subito fuori dalla curva e dove si vedeva un gran tratto di strada, il sottufficiale fece segno di fermarsi. Erano a pochi passi da dove i due si erano imboscati. «Non possono essere già arrivati lassù» mormorò il sottufficiale. «Hanno preso per il bosco. Che si fa, camerati?» «Che si fa?» chiese uno di loro. «Gli si va dietro, madonna sul ciuco. Si ha paura di due banditi? Dobbiamo seguirli o no? Allora si seguono, dio latte.» «Va bene» decise il sottufficiale. «Non possono che salire e allora voi tre andate più sopra. Io e gli altri entriamo qui. Chi li trova non si fa vedere. Ci si rivede tutti alle Piane, ci si organizza e gli facciamo una bella sorpresa, su, al loro campo» e il sottufficiale e i tre repubblichini fecero per entrare nel bosco, giusto in direzione di Salerno e Musone. Non fecero a tempo. Da dietro parti una raffica che stese due di loro. Morirono di colpo, senza un sospiro. Gli altri cinque presero di corsa il bosco verso valle e non si videro più. Appiattiti contro terra, Salerno e Musone aspettarono. Dalla curva si fece vedere un partigiano:
«Allora, Musone! Te la sei fatta sotto?» urlò verso i due. «Potete venire fuori.» «È Ballerina» disse Musone. Si alzò e cautamente si affacciò alla cavedagna, il mitra pronto. Si mostrarono anche altri tre partigiani e Musone e Salerno andarono loro incontro. Musone mormorò a Salerno: «Te l'avevo detto, io lo sapevo. Li sento dalla puzza quei macellai». Ai partigiani: «Ooo, Ballerina, che ci fai qui?». «Sono arrivati i nostri, Musone! Minimo ci dovresti offrire un pacchetto di sigarette.» «Avercele» borbottò Musone. «Che ci fate qui?» chiese Salerno. Ballerina sorrise: «Bel modo di ringraziare». Poi, serio: «Maresciallo, noi non ci fidiamo di nessuno. Dei carabinieri meno di tutti. Lepre ci ha detto che ti interessa Bob, che stavi andando alle Piane... Che ci sei andato a fare alle Piane, maresciallo?». «Mi chiamo Salerno, Ballerina, e stiamo dalla stessa parte, carabiniere o no. Comunque, grazie.» Caddero le prime gocce da un cielo che si era fatto scuro. Anche l'aria, nel sottobosco, si era incupita e nuvole basse si sfilacciavano verso terra. «Bestia» mormorò uno dei partigiani. «Adesso ci voleva proprio l'acqua.» Ballerina indicò i due stesi ai lati della cavedagna: «Vorresti essere nelle loro condizioni? Ringrazia il tuo dio... A quelli non gli dà più noia l'acqua. Non ti lamentare per due gocce, Legno». Il nominato Legno prima si palpeggiò ripetutamente fra le gambe e poi guardò il cielo: «Due gocce, dici? Fra poco qui viene giù un diluvio che dio lo manda e ci conviene metterci sotto un coperchio». «C'è dove mettersi al coperto?» chiese Ballerina a Musone. «Io lo conosco Legno e se dice che ne verrà, stai sicuro che ne verrà.» Musone era tornato quello di sempre e in silenzio si avviò. Lo seguirono. La pioggia continuò leggera fino a una capanna di fasci di ginestra tenuti assieme da vimini intrecciati chissà quanti anni prima, e sghemba come se avesse preso una sberla sulla fiancata. Anche il tetto era di ginestra e teneva ancora fuori la pioggia. Probabilmente l'avevano costruita i taglialegna o i carbonai quando se ne stavano nei boschi per un'intera stagione senza scendere in paese, troppo distante per tornarci a piedi ogni fine settimana. Odore di muffa, forse dalla paglia in un angolo del pavimento, e umidità, ma sempre meglio che fuori all'acqua. In mezzo, e su una lastra grigia di sasso, c'erano ancora le tracce del fuoco che i boscaioli accendevano per scaldarsi in giornate così. Da queste parti ne capitano, specie in autunno. Il fumo se n'andava filtrando dalle fessure fra ginestra e ginestra. Entrarono che la pioggia stava diventando pesante e batteva sul terreno e sul fogliame con rumore di grandine, tanto grosse erano le gocce. Salerno, Musone, Ballerina, Legno, Cino e Franco non lo sapevano ancora, ma così era cominciata una pioggia che sarebbe andata avanti a lungo. Per tutto il mese di ottobre e le prime giornate di novembre, anticipo di un inverno che sarebbe stato il peggiore degli ultimi anni. Tanto per aiutare gli uomini che si erano dati alla macchia. «Comincia a far freddo e sono spolto d'acqua» disse Ballerina. «Accendiamo un fuoco, che qui e con questo tempo non se ne accorge nessuno.» Cino e Franco si erano già seduti, le spalle contro la parete scombinata e il mitra tra le ginocchia. «Ooo, voi due» li riprese Ballerina. «Comoda la vita, eee? Siete i più giovani e tocca a voi lavorare. In quell'angolo c'è della legna, trovate un po' di bacchetti asciutti e accendete. Cazzo, dove credete di essere?» Cino e Franco erano molto giovani, forse sui sedici, diciassette anni, viaggiavano sempre in coppia e l'unico che parlava era Cino. Franco si limitava a confermare i discorsi del compagno con leggeri cenni del capo. Non raccontarono mai di dove venivano, ma il loro parlare era di Toscana. Si presentarono, Tango chiese loro come volevano essere chiamati. Rispose Cino: «Io Chimera e lui Destino.» Tango scosse la testa. «Chimera e Destino... Siete sicuri?» Annuirono assieme. «Va bene: Chimera il biondo e Destino il moro» si convinse Tango. Li guardò meglio. Uno, Chimera, era più
alto dell'altro, magri entrambi e con i capelli tagliati corti. «Voi due mi ricordate... mi ricordate Cino e Franco, quei due dei fumetti» e furono per tutti Cino e Franco. Addio a Chimera, addio a Destino. Seduti attorno a un fuoco che stentava a prendere, si concluse una giornata infame. E si conclusero dei discorsi che lasciarono ancora molti dubbi a Salerno. «Ballerina» chiese Salerno dopo un bel po' di silenzio che la pioggia riempiva di toni alti e bassi, quasi una musica. «Ballerina, cosa ne sai tu di quello ch'è successo alle Piane?» «Ne so come ne sanno gli altri: per sentito dire...» «E Bob lo conoscevi?» «È nato poco lontano da casa mia...» «Cos'è la storia che odiava i Bernardi?» Ballerina si strinse nelle spalle: «Storie di paese...». Ci fu un altro lungo silenzio, ognuno con i propri pensieri. Poi Salerno chiese ancora: «Secondo te che ci facevano quei fascisti alle Piane? Come sapevano che saremmo andati? E perché non ci hanno ammazzato mentre eravamo alle Piane, allo scoperto?». «Non stai facendo troppe domande, maresciallo?» disse Ballerina. «Dimenticati di essere un carabiniere» ma le domande di Salerno avevano lasciato un segno. Ballerina continuò: «Posso dirti solo che quelli non avevano nessuna intenzione di farvi fuori, che avrebbero avuto modo di farlo tranquillamente mentre stavi cercando chissà cosa nell'erba delle Piane...». «Sì, ho sentito i discorsi... Volevano arrivare al campo della Garibaldi... Ancora peggio... E Bob potrebbe essere stato lo specchietto per allodole...» «Cosa vuoi dire, maresciallo?» «Niente, Ballerina, niente. Idee che mi vengono con questo tempo di pioggia. E il fuoco acceso.» Soprappensiero frugò nelle tasche per un sigaro. «Cosa darei per un sigaro. Potrei fumare il mozzicone trovato giù alle Piane...» Musone non parlava spesso, ma quando lo faceva lasciava il segno. «Anche se è stato fra le labbra di un assassino?» «Be', no...» cercò di rimediare Salerno. «Era solo un modo di dire...» «Cos'è che dite? Di che sigaro e di che assassino andate ciarlando voi due?» s'interessò subito Ballerina. Santovito spiegò e nella baracca ci fu silenzio. Ballerina aveva piantato gli occhi su Salerno e non lo lasciò per un bel po'. Poi disse: «Se potessi fidarmi di un carabiniere...». «Qui non c'è nessun carabiniere» lo interruppe Salerno, indispettito. «Ci sono degli uomini che rischiano la vita per lo stesso motivo e se hai qualcosa da riferire sul massacro alle Piane...» «D'accordo, d'accordo Salerno» interruppe anche Ballerina. «Mettiamola così: noi siamo sicuri di aver giustiziato la persona giusta e siamo in pace con la coscienza. Niente altro da riferire, maresciallo.» Sorrise, frugò anche lui in tasca e mise sotto il naso di Salerno un mezzo toscano, un po' inumidito dalla pioggia. «Per farti capire che non ce l'ho con te. Cosa ne dici?» Salerno lo annusò a lungo, lo accarezzò e infine lo accese con un legnetto tolto dal fuoco. Diede due tiri ragionati, convinti e offrì il sigaro a Ballerina. «Tiralo pure tu, tiralo tutto che potrebbe essere il tuo ultimo toscano.» Poi, di nuovo sorridente: «Aaa, Salerno, perché non ti vengano strane idee su Ballerina e sul suo toscano, ti comunico che io non fumo. Né toscani né altro». «Lo so bene. Non me Io avresti offerto se quello trovato alle Piane potesse mai essere stato il tuo.» Poi Salerno offrì in giro, ai compagni di baracca, il sigaro acceso. Musone scosse il capo; Legno tirò fuori uno sgualcito pacchetto di Navy Cut e si accese una sigaretta. Offrì a Franco, che dei due giovani era il più vicino a lui, ma fu Cino a dire:
«Adesso ci andrebbe meglio un pezzo di pane con un po' di formaggio o, meglio ancora, di prosciutto.» Legno offrì a Franco che, senza parlare, accennò a Cino per significare che condivideva le sue esigenze. Chiese Legno: «Ooo, Cino, parla ogni tanto questo tuo amico?». Franco annuì, ma fu Cino, al solito, che rispose: «Sì, parla, parla quando ha qualcosa di importante da dire». «Ooo, pare che qui nessuno più fumi» commentò Santovito. «Non sarà per il mozzicone che ho trovato alle Piane?» Nessuno ribatté, ma Ballerina lo guardò male. «Scherzavo, Ballerina, scherzavo.» Pioveva sempre e Salerno era bagnato dalla testa ai piedi. Entrò da Toni, che lo guardò. «Sei ridotto male.» «Succede quando piove e si gira per i boschi senza ombrello...» «Allora?» chiese Toni. «Missione compiuta, ma obiettivo miseramente fallito.» «Sarebbe?» «Sarebbe che ci siamo mossi tardi. O meglio, io sono arrivato tardi. Il presunto colpevole, o il presunto innocente, è già stato fucilato.» Toni lo guardò scuotendo il capo e per un po' in silenzio. Poi: «Be', questa è la maledetta guerra» disse. «Amen.» «Amen» rispose Salerno sottovoce. Accennò a un mezzo saluto militare e uscì mestamente dalla cucina-comando. Lo tormentavano parecchi pensieri e uno, il meno pesante, era che non sapeva cosa mettersi di asciutto.
1960, settembre, alla scuola del paese Che Sei Venuto A Fare, Maresciallo? Nelle prime consultazioni del dopoguerra fu eletto sindaco quasi all'unanimità. Valente Cioni, nipote del prete don Vincenzo, non condivideva evidentemente le idee dello zio e si era presentato nelle liste della sinistra estrema, quella che aveva come simbolo elettorale l'immagine di Garibaldi. In paese lo consideravano un onest'uomo e quindi erano convinti che sarebbe stato anche un buon amministratore. Lo fu. Ogni tanto succedeva, in politica. Veniva dalle Casette, il borgo che sta su un picco, quasi a dominare il paese, e che per primo vede il sole all'alba e lo saluta per ultimo la sera. Da sindaco Valente Cioni ricordò, maledicendoli, i troppi chilometri fatti, da bambino, sotto la neve per andare a scuola. Si riprese lo stabile della vecchia caserma dei carabinieri, rimasta di proprietà comunale, forse una vecchia dogana quando il confine fra la Toscana e l'Emilia passava da quelle parti, per farne quella scuola che il paese non aveva mai avuto. Non ci riuscì subito perché incassare i danni di guerra stanziati dallo Stato fu lungo, laborioso e burocratico, come fu lungo, laborioso e burocratico racimolare un altro po' di soldi, ché i danni di guerra non bastavano. Poi mise mano ai lavori e trasformò la caserma nella nuova scuola. Ricostruita la parte sinistrata, rifatta la recinzione, intonacate le pareti e tinteggiato tutto di fresco. Porta d'ingresso nuova e senza spioncino, nuovi infissi alle finestre dalle quali erano sparite le inferriate da caserma. Ci sono voluti anni, ma adesso il paese ha la sua scuola con tanto di insegnanti e una bidella che il Cioni ha assunto sì per la raccomandazione del collega dell'altra vallata, ma soprattutto perché la povera donna ha vissuto una vita grama e ha diritto a una pensione. La scuola l'ha inaugurata Raffaella. Nel senso che è la prima a insegnarci. Il nastro, invece, l'ha simbolicamente tagliato il vescovo, qualche giorno prima che cominciassero le lezioni e la scritta "Nuova Scuola Media" era ancora fresca di tinta. Accanto al vescovo, a tenere un occhiello delle forbici, c'era un onorevole venuto da Roma, eletto nel collegio della montagna, ma che non sapeva dove fosse il paese né che qui, fra questi monti e boschi, ci fossero degli abitanti, oltre agli animali selvatici, e per di più suoi elettori. Prima di andarsene, li ha comunque ringraziati e promesso che tornerà "in questo meraviglioso paese, in questo paradiso verde che voi conserverete con lo stesso amore con il quale lo avete difeso dalla furia nazista e fascista". Non si farà più vedere fino alle prossime elezioni, ma il pistolotto vale per quelle. Seduto sul muretto di recinzione, un sigaro acceso da poco, Santovito aspetta la fine delle lezioni. È ancora vestito da carabiniere perché, al momento, non ha una stanza dove sistemare le sue cose e cambiarsi d'abito. Ma confida che Raffaella lo riconosca, anche se lei lo ha visto solo in abiti civili. Alla campanella, Santovito borbotta: «Be', forse è meglio senza berretto». Lo tiene in mano e spegne il sigaro ancora da fumare per una buona metà. I ragazzini escono di corsa, si spingono e urlano e si rincorrono; uno di loro si accorge del carabiniere fuori dalla loro scuola e fa segno ai compagni. Guardano, si calmano, se lo indicano, parlano sottovoce e, in silenzio, gli passano davanti, ben ordinati. Lo lasciano dietro e di nuovo si scatenano e si disperdono nei vicoli del paese. Il Millecento di Stelio spunta dalla statale, rallenta e si ferma accanto a Santovito. Il ragazzo si sporge dal finestrino e saluta. Sorride, poi fa un cenno con il capo che vuoi dire: "Che ci fai qui?". «Aspetto Raffaella. E tu?» Il giovane annuisce. «Anche tu? Non siamo in troppi per una ragazza sola?» Stelio mima la guida dell'auto e indica su, verso la Mezzacosta. «Ma bene, servizio pubblico. E la patente?» Il giovane mostra, con le due mani aperte, i sedici anni che ha, poi scende e abbraccia il maresciallo. «Che c'è, Stelio? Commosso? Ci siamo visti solo un paio di mesi fa. Non è un secolo. Adesso, però, salti di nuovo in macchina e te ne vai che Raffaella l'accompagno io.»
Stelio annuisce, sorride ancora e torna all'auto. Prima di salire si gira e è improvvisamente serio. Indica Santovito e indica, con l'indice di entrambe le mani, la terra, cioè il paese. Per dire: "Che sei venuto a fare, maresciallo?". «Ancora non lo so, Stelio.» Il Millecento parte e dalla scuola ora escono anche le insegnanti. Quattro e c'è Raffaella. Come per i ragazzi, appena una di loro vede l'uomo in divisa, lo indica alle altre. C'è un attimo di attesa e Raffaella dice: «Ma è... Accidenti, è Santovito. Scusate» e lascia le colleghe. Una, Cristina Daltoni, di matematica, le chiede, a voce alta: «Ma come? Lo conosci?» «Ma come? Mi conosci?» ripete Santovito. Raffaella annuisce. E felice di rivederlo. «Sei tornato prima di quanto sperassi. Per me o...» «O, cosa?» «Il mio o vuoi dire: perché sei tornato?» Lo guarda, gli prende dalle mani il berretto e glielo posa sul capo. «Sei in divisa e quindi qui per servizio. Resti molto?» Si stringe nelle spalle. Non sa cosa dire e va sul banale: «Come va con la scuola?». «Se ti hanno spedito qui per indagare come va fra me e la scuola, facciamo presto. Ho appena cominciato, sto prendendo le misure ai ragazzi, le colleghe... Tutte donne, la sfortuna! Le colleghe sono colleghe e ho già inquadrato la preside: una rompiscatole... Basta signor maresciallo?» Santovito indica le spalline: «Maresciallo maggiore aiutante di battaglia, prego». «Il che vuol dire?» «Che sono stato promosso, che prenderò uno stipendio leggermente più alto, andrò in pensione con...» «È proprio il momento di parlare di pensione. Ti ripresenti all'improvviso e non hai altro da dirmi?» «Sì, ho altro, ma non qui. E tu?» «Anch'io ho altro, ma non qui. Hai mangiato?» No, il maresciallo non ne ha avuto il tempo. «Ti offro qualcosa da Ciccio» e prima di avviarsi, si guarda attorno. «Se cerchi Stelio... L'ho rimandato indietro. Alla Mezzacosta ti riaccompagno io. Con la camionetta dell'Arma. Non sarà l'Abarth rossa di Amadori, ma meglio che andare a piedi.» «Salgo spesso a piedi. Una passeggiata. Quando non ne ho voglia, chiedo a Stelio di venirmi a prendere. Sempre per lo stesso prezzo dell'affitto. Un caro ragazzo, Stelio.» Prende sottobraccio il maresciallo e si avvia al Ristobar di piazza. «Ooo, non ti aspettare granché: quando non ci sono villeggianti, Ciccio mette a casa i dipendenti e chiude la cucina e, a richiesta, può prepararti al massimo un panino. Ha ragione: chi vuoi che vada a mangiare da lui? Qui restano solo i paesani che mangiano in casa e poi... Ma il pane è buono e il prosciutto toscano è il migliore e spero che abbia ancora un po' di quel vino... Te lo ricordi?» Parla, parla, parla, come aveva fatto il giorno della partenza, giù, in stazione, per non mettersi a piangere. E come giù, in stazione, Santovito la lascia fare. Anche perché non ha ancora pensato a come giustificare il ritorno in paese. Con Ares Amadori semplicemente non ha risposto alla domanda; con Raffaella ci vorrà un'idea migliore, nel tempo di un panino al prosciutto e un bicchiere di rosso toscano. Di preferenza sta dietro il banco, è sui quaranta, grassoccio e pelato. Posa le ordinazioni sul banco e il cliente si arrangia a portarsele al tavolo. Adesso non ci sono clienti al Ristobar, Ciccio legge il giornale e solleva il capo all'ingresso dei due. Saluta Santovito con un gran gesto del capo e un sorriso; esce da dietro il banco e corre a stringere la mano al maresciallo. «Ma guarda, guarda. Chi l'avrebbe detto?» Poi, come già per Stelio, anche Ciccio si fa serio: «Che accidente sei tornato a fare, maresciallo?». Santovito si stringe nelle spalle. «Sedete. Cosa vi servo?»
«Vuoi dire» chiede Raffaella «che ci servi tu? Al tavolo?» «Certo, le autorità vanno trattate bene.» Panino al prosciutto e un bicchiere di rosso. Due fette di toscano e, in mezzo, un'abbondante porzione di prosciutto tagliato a mano, grosso, corposo e con il buon sapore di pepe. Mangiano in silenzio. «Così sei tornato» dice Raffaella. Santovito annuisce. «Me la togli una curiosità?» Altro cenno di assenso. «Che sei venuto a fare, maresciallo?» Per un po' Santovito non risponde. Mostra a Raffaella il poco panino che ancora gli resta in mano e dice: «Sai che avevi ragione? È proprio buono». «Mi sa che non lo saprò mai» mormora Raffaella, sconsolata. «E a me sa che in paese non siete molto contenti del mio ritorno. E tanto importante? Sono qui, sono qui e basta.»
1960, settembre, dal Frabbone Del Frabbone E Altre Cose L'appuntato Chiaffalà ha fatto un buon lavoro e la cameretta che, con un certo orgoglio, mostra a Santovito, è pulita e sufficientemente tiepida per essere ottobre; il letto ha lenzuola di bucato e una coperta di lana che sa di naftalina; sotto la finestra è sistemato un tavolino, una sorta di fratina con sopra macchina per scrivere, fogli di carta, matite e carta copiativa. C'è anche un posacenere di metallo con la scritta "Bitter Campari". Un appuntato con l'occhio avanti, questo Chiaffalà. Che dice: «Manca il telefono...» «... e manca anche la stufa, Chiaffalà» lo interrompe il maresciallo. «Signor maresciallo maggiore, dove trovo una stufa di questi tempi?» «Dove ti pare. Cercala.» L'appuntato mormora un belin che non ha niente del dialetto natio e continua: «Per il telefono ho già avvertito Clemente l'elettricista che faccia una derivazione provvisoria dal centralino alla sua stanza, signor maresciallo maggiore». «E il maresciallo Amadori?» «Si è adeguato, belin.» «Dov'è adesso?» «Ha preso l'Abarth, ha sgasato un po' nel cortile della caserma e poi è partito su, verso il passo. Dice che le curve sono la sua passione e che lo scaricano e che da qui al passo è quello che ci vuole che di curve ce ne sono... E poco traffico. Lo fa quand'è arrabbiato e le cose non vanno come vuole lui e, belin, oggi è proprio incazzato il signor maresciallo.» «Chiaffalà, mi faresti un caffè?» «Agli ordini signor maresciallo maggiore.» In attesa del caffè, Santovito siede alla fratina e approfitta del posacenere: accende un sigaro. Dalla cartella prende copia della lettera scritta da Imelde Lenzi in Gandolfi nel lontano 1947 e la rilegge lentamente, come per mettersi bene in testa le singole parole. E a metà che l'appuntato posa la tazzina sul tavolino. «Altro zucchero, signor maresciallo maggiore?» chiede, con il vasetto dello zucchero in mano. «Va bene così, grazie Chiaffalà. Vai pure.» Beve il caffè, riprende a tirare nel sigaro e la piccola stanza si riempie di fumo chiaro. Nessun problema: questa notte, qui, ci dormirà lui. La legge due volte quella lettera, poi torna su una frase, che ripete sottovoce: «Dunque, se è vero, come mi ha assicurato don Vincenzo, che allora lei si occupò della strage alle Piane, come ha potuto permettere che uccidessero un innocente? Che io mi sia occupato della strage alle Piane, è una parola grossa» e segue, con gli occhi, il fumo del sigaro. «Don Vincenzo» borbotta. «Si comincia da lui.» Non ha ancora suonato che la porta della canonica si apre e la perpetua, fazzoletto in testa e borsetta al braccio, si mostra, pronta per uscire. Si trova davanti Santovito e, sorpresa, dice: «Mo to', il signor maresciallo!» «Salve. Si va a fare la spesa?» Prima di rispondere la perpetua guarda sospettosa l'ospite che non aspettava. Poi chiede: «Ma lei non era partito?».
C'è una quantità di paesani sorpresi per l'inatteso ritorno di Santovito. «Sono tornato» dice. «C'è don Vincenzo?» «Non sto andando alla spesa. Vado a prendere mio nipote da scuola.» È una donnetta magra, sempre vestita di scuro e che si porta dietro l'odore di chiesa accumulato in chissà quanti anni di canonica. Non si sa quanti anni abbia. Molti, di sicuro. Ha la cadenza delle vecchie bolognesi che non dimenticano la loro origine, campassero cent'anni e parlerebbe volentieri in dialetto se non fosse sconveniente per una che frequenta la chiesa. «Aaa sì? E quanti anni ha?» La perpetua è in ritardo con le risposte, che arrivano sempre quando c'è già un'altra domanda in ballo. Infatti: «Don Vincenzo? E dove vuole che sia? A giocare a carte, come tutti i pomeriggi che Nostro Signore manda in terra. Invece di occuparsi di anime, si occupa di carte, quello sfrombolone sempre in giro. E beve con quegli altri ubriaconi». Chiude a chiave la porta, mette la chiave nella borsetta, sposta Santovito e si avvia. Ha fretta e, senza fermarsi, si gira al maresciallo per dire: «Ha tredici anni, perché?». «Niente, così per sapere» dice Santovito. E l'affianca. «Lo trovo al bar?» «Così per sapere! Arriva un maresciallo dei carabinieri e ti chiede quanti anni ha tuo nipote. Ci sarà un motivo, no?» Si sistema il fazzoletto in testa e borbotta, sempre senza fermarsi: «Fa freddo oggi». Poi alza la voce: «A1 bar? Saranno degli anni che don Vincenzo e quegli altri non mettono piede al bar. Dal Frabbone, giocano a carte dal Frabbone, no?». Come se fosse la cosa più naturale del mondo. «Ho capito. Grazie e saluti suo nipote.» La lascia andare dietro la sua fretta. «Perché poi devo salutare mio nipote?» brontola la perpetua. Ai suoi tempi, ai tempi nei quali Benedetto Santovito era, per quelli del paese, il Maresciallo, il Maresciallo e basta, la chiamavano la bottega del Frabbone. Stava, e sta ancora, poco fuori dal paese e ci si arriva o dalla stradina che scende accanto alla chiesa o da un sentiero per muli e somari che sale dal fiume. Un pugno di fabbricati in sasso coperti da lastre di pietra che il tempo ha annerito e, nelle falde verso nord, ricoperto di muschio. Prima del Frabbone, la bottega la teneva suo padre e, prima di lui, il padre di suo padre e ancora altri padri di padri, per chissà quante antiche generazioni. Dopo il Frabbone nessuno continuerà più il mestiere: non ce n'è motivo. E il Frabbone non si è sposato. Piccole sono le porte e le finestre di tutti i fabbricati e piccola è la finestra sopra il banco e perciò l'interno della bottega è buio, illuminato dalla porta, spalancata anche di notte, e da due lampade, una sostenuta dal filo elettrico appeso al centro del soffitto e l'altra a muro. In fondo alla bottega, nella parte più buia, la fucina continua a mandare il bagliore delle braci accese e, di tanto in tanto, lo scoppiettare del carbone solleva un minuscolo fuoco d'artificio di scintille. Di nuovo, oggi, ci sono un tavolo di legno grezzo e delle sedie impagliate, al centro della bottega, che in passato il Frabbone aveva sempre tenuto sgombero per lavorarci e muoversi liberamente. Il Frabbone non è mai stato uno di molte parole e quando ha qualcosa da dire, lo fa sottovoce. Santovito lo conosce bene. «Quanti anni hai Frabbone?» gli aveva chiesto l'ultima volta che l'aveva incontrato. «Eee, chi se lo ricorda, maresciallo. E poi a cosa serve? Ho gli anni che ho.» Alto e massiccio, un po' curvo come un antico gigante affaticato, ha bianchi capelli arruffati e sta sempre in piedi, tranne quando gioca a carte. Adesso gioca a carte con Catullo, Nasone e don Vincenzo. Sul tavolo, un fiasco, quattro bicchieri. Santovito si ferma sulla porta e il sole, al tramonto, manda l'ombra fino al tavolo. «Guarda chi si rivede» dice il Frabbone, che è sistemato di faccia alla porta. «Cos'è, maresciallo? Nostalgia?»
«Forse» risponde Santovito entrando. «Dei montanari o di una bella ferrarese trapiantata in montagna? Lo prende un bicchiere?» «Sì, se è come quello dell'altra volta.» «E chi si ricorda com'era quello dell'altra volta?» Anche per il signor maresciallo saltano fuori un bicchiere, che subito viene riempito, e una sedia. I quattro continuano a parlare e a giocare. «Certo che l'osteria della Serafina era un'altra cosa. Vi siete ridotti a giocare qui, da soli...» provoca Santovito. «Eee, la Serafina» rimpiange Catullo. «Bei tempi. Adesso c'è il Ristobar di Ciccio. Tutt'un'altra cosa, caro mio!» e prende con una briscola. «Intanto c'è un caldo della madonna... Mi scusi, don Vincenzo. Con quello schifo di impianto di riscaldamento...» «Quando c'era la Serafina, invece, si moriva di freddo» dice Santovito. «Ma se lei stava sempre abbracciato alla stufa» sfotte il Frabbone. «Era freddo lo stesso.» «... poi c'è quell'accidente che urla, urla» continua Catullo, come se non lo avessero interrotto. «Si chiama giuboss» precisa don Vincenzo. «Giuboss o non giuboss, ti fa diventare sordo. Poi non c'è più modo di bere un bicchiere come dio comanda. Porcherie americane che ti fanno venire l'ulcera e non sai con cosa sono fatte...» e via così fino alla fine della mano. Discorsi da vecchie conoscenze: come vanno le cose, come andranno, che novità, gli andati, tanti, e i tornati, pochi, come sarà l'inverno e dove nevicherà di più.. e il fiasco cala assieme alle chiacchiere e le carte adesso stanno come quando si smette di giocare: riposano alla rinfusa sul tavolo. «Se sarà come quella del '36» dice il Frabbone «di neve ce ne sarà per tutti.» «Stai tranquillo che delle nevicate così non ne vengono più» rassicura Catullo. Raccoglie le carte e le rimescola per abitudine prima di rimetterle sul tavolo, in ordine, come per un'altra partita. «Sarà come Dio vorrà.» «Ooo, don Vincenzo» dice il Frabbone, «con il fatto che è in contatto con Nostro Signore, lei se la cava sempre.» «A proposito del molino del Turco» interviene Santovito, «ho visto che non ci abita più nessuno...» «E chi fa più il pane in casa?» si chiede Nasone. «E chi ha più del grano da macinare? Adesso si va al forno e nessuno ha bisogno del molino. » «Mi ricordo che nel '36 non si riusciva a scendere al molino e quelli del Turco rimasero isolati per due settimane.» «Io nel '36 non ero ancor arrivato in paese» dice sottovoce Santovito. «E adesso di chi è il molino?» «Ooo, maresciallo» dice il Frabbone, «non sarà tornato per comprare il molino del Turco? Sta in un buco che non vede mai il sole...» «No, magari la Ca' Rossa. Non mi dispiacerebbe...» «Be'» commenta sempre il Frabbone, «quando Bleblè sarà morto... Ma dovrà aspettare ancora molti anni, maresciallo. Bleblè non ha nessuna voglia di andare al Creatore.» Santovito alza il bicchiere: «Lunga vita a Bleblè della Ca' Rossa» e i presenti brindano a Bleblè. Il Frabbone si asciuga le labbra con il dorso della mano e torna alla domanda di Santovito sul molino del Turco: «Dunque, Quintale l'ha portato via la piena del '39 mentre cercava di togliere i rami e i tronchi dal canale e Passerino, suo figlio, è andato sotto le armi nel '41, l'hanno spedito in
Russia e non se n'è saputo più niente e il molino del Turco è andato in malora...» «Passerino, me lo ricordo» dice Santovito. «Non c'era anche una baracca, di là dal fiume?» I quattro, il prete, Nasone, Catullo e il Frabbone si guardano e nessuno di loro risponde. Don Vincenzo vuota il bicchiere, si alza e: «Be', ridendo e scherzando, anche oggi abbiamo fatto venire l'avemaria. È ora di tornare in chiesa» dice. Si alza anche Santovito: «Facciamo la strada assieme, don Vincenzo». «Signor maresciallo, se le viene voglia di fare due chiacchiere che non siano un interrogatorio, due chiacchiere come si faceva una volta all'osteria, la mia bottega è il posto buono. Ci vengono quelli che non sopportano la musica del giuboss e la cocacolla» dice il Frabbone. Non è chiaro se sia un invito a tornare o a non farsi più vedere.
1960, settembre, in paese Come In Confessionale Ci sono un paio di chilometri fra la bottega del Frabbone e la chiesa di don Vincenzo. In salita da farsi venire il fiatone e fra i castagni. Vanno su tranquilli e in silenzio per un poco. A metà salita, don Vincenzo si ferma, si volta indietro a guardare il borghetto del Frabbone, sospira e dice: «Un bel posto, proprio un bel posto. Si vede giù, fino all'acqua...» Santovito, anche lui fermo a guardare la valle e il fiume, lo interrompe. «Perché devono sempre essere così diffidenti, questi montanari?» e scuote il capo e si accende un sigaro. «Lei non fuma, don Vincenzo, vero?» «Non hanno torto, poveretti. Secoli di miseria e di sopportazione e di prepotenze...» «Non è una ragione... E poi, i tempi sono cambiati.» Don Vincenzo riprende a salire: «Ne è sicuro, signor maresciallo?». «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che lei arriva in paese all'improvviso e si mette a fare domande...» «Ne ho anche per lei, don Vincenzo.» «Dica, dica pure e se sono in grado...» «Sediamoci qui» dice Santovito. Siedono su un masso tanto vicino al tronco di un castagno che non si capisce se sia stato il masso a venire in superficie contro il tronco, sputato dalla terra, o se il castagno sia nato in aderenza al masso. Comunque sia andata la cosa, castagno e masso convivono a meraviglia, il primo adeguandosi al masso e il secondo sostenendo il tronco e proteggendone le radici. L'autunno ha colorato i boschi e il tramonto fissa i colori nell'aria immobile, come se volesse conservarli per sempre. Non sarà così e domattina i colori saranno diversi. O non saranno proprio. E l'autunno. Restano in silenzio, come se volessero godersi un momento di tranquillità. Ma non c'è tranquillità per loro: il prete aspetta domande e non sa se potrà rispondere e Santovito cerca un modo per farle. Comincia così: «Allora, questa baracca?» Don Vincenzo lo guarda in silenzio e il maresciallo chiarisce: «Di chi è, a cosa serviva, a cosa serve adesso, è stata usata di recente?». «Non capisco l'utilità, comunque... Molto tempo fa i proprietari del molino del Turco ci tenevano al coperto gli attrezzi per la cura dei boschi e per la raccolta delle castagne di là dall'acqua. Per non stare a portarli avanti e indietro, che non era né comodo né semplice con la passerella di legno buttata fra le sponde. Poi, quando hanno impiantato una ghiacciaia più sopra, serviva di ricovero ai lavoranti. Dovrebbe essere ancora dei proprietari del molino, ma non so se ce ne siano dopo che Passerino è stato dato per disperso in Russia. Adesso non credo sia utilizzata, tanto che ne avevo perso la memoria e se lei non ne avesse parlato... È importante?» «Ancora non lo so. Come ci si arriva?» Don Vincenzo scuote il capo, sempre più sorpreso che la baracca del molino del Turco sia diventata così importante. «Gliel'ho detto: una volta c'era una passerella. Una piena se l'è portata via e nessuno l'ha più rifatta. Adesso si può attraversare il fiume, se c'è poca acqua. Se no ci si arriva dall'altra parte, ma è lunga e bisogna farla tutta a piedi, che non ci sono strade, ma solo un sentiero.» «In questi giorni com'è l'acqua?» Il prete guarda il fiume. «Visto da qui direi che si passa. Ma cosa ci va a fare, maresciallo? Troverà una baracca di legno mezza crollata e marcita.» Due tiri dal toscano, il tempo per pensare a come porre la domanda successiva: «Cosa mi dice di
Lenzi Imelde in Gandolfi?». Don Vincenzo non se l'aspettava. «Cosa c'entra mia nipote?» «Anche questo ancora non lo so. Allora?» Il prete guarda Santovito e dice: «Le parlerei più volentieri di mia nipote se sapessi perché...». «Glielo dirò, don Vincenzo, ma come in confessionale» e Santovito accenna velocemente alla fucilazione di Bob e a certe novità che sarebbero emerse sull'eccidio alle Piane. Non gli parla della lettera né del figlio di Imelde. Il prete riflette, Santovito schiaccia il mezzo sigaro sotto la suola, le campane della chiesa mandano l'avemaria. «Mi ha fatto perdere l'avemaria, maresciallo. Non accade spesso.» Fa una pausa e poi: «Imelde è morta...». «Quando?» «Venticinque giorni fa. Era ancora giovane, poverina, riposi in pace. Ho detto una messa. Ha lasciato un ragazzo di quindici che si chiama Roberto. Imelde era nata qui, in paese, figlia di mia sorella più piccola; si sposò con un Gandolfi, ultimo di una ricca famiglia di Bologna, e andò a vivere in città. Non so che altro dirle di Imelde.» «Per esempio se in seguito al matrimonio è tornata in paese.» «La povera Imelde veniva su tutti gli anni e stava da me per un certo tempo "a respirare un po' d'aria buona", diceva ogni volta. Dopo la guerra portava su anche il figliolo, che ci stava bene, correva in lungo e in largo, si era fatto degli amici qui... Mangiava, Signore se mangiava, quel ragazzo! Prima della riapertura delle scuole, scendeva in città e aveva cambiato pelle. Spero che torni a trovarmi, adesso che sua madre è morta.» A questo punto del discorso, Santovito ha una cosa delicata da chiedere, soprattutto perché parla a un prete. Comincia così: «Lei sa se Imelde conosceva Bob, se si vedevano...». Don Vincenzo lo interrompe. «Sapevo che ci sarebbe arrivato, maresciallo. Sì, mia nipote lo conosceva e si vedevano. Si erano incontrati alla festa del paese e si erano voluti subito bene. Imelde me ne aveva parlato, mi aveva detto che appena la guerra fosse finita, lei e Roberto si sarebbero sposati. Io le ho ricordato che a Bologna l'aspettava il suo promesso... Sa cosa mi ha risposto?» e qui si ferma come a riflettere. Guarda ancora giù, verso l'acqua e i pensieri gli fanno scuotere il capo. «A cosa pensa, don Vincenzo?» «Che non dovevo rimandarla in città, che non ho capito che i giovani hanno dei diritti... A troppe cose penso, maresciallo, e oggi lei me le ha ricordate e mi fanno male. Se io non l'avessi rimandata in città... Nostro Signore sa quello che è meglio per noi.» Per un po' Santovito lascia il prete ai suoi pensieri e poi: «Cosa le ha risposto Imelde?». Che lei gli avrebbe spiegato; che era più onesto dirgli subito che amava un altro; che il suo promesso, se le voleva davvero bene, l'avrebbe capita e si sarebbe rassegnato; che se Dio le aveva fatto incontrare Roberto e aveva voluto che si amassero... «Insomma, me ne disse tante che mi confuse e io non sapevo che risponderle. Le dissi solo: "Pensa bene a quello che fai, Imelde. Io adesso ti rimando a Bologna, vai dal tuo promesso e poi..."» Poi... Il pomeriggio del 12 ottobre 1944, dalle 9 e 58 alle 11 e 59, mille aerei alleati avevano sorvolato in più ondate la città e scaricato tonnellate e tonnellate di bombe. Case, strade, ferrovie, scuole, ospedali, rifugi... distrutti, crollati sotto le bombe, quattrocentotrentaquattro cittadini uccisi e seicento feriti. Forse nessuno di loro aveva dichiarato guerra al mondo civile. Un massacro. Tutto in due ore e un minuto. Imelde era arrivata a Bologna il pomeriggio dello stesso giorno. L'aspettavano la casa bombardata,
i genitori morti sotto le macerie e, sulle macerie, il promesso che la piangeva per morta. Seppe poi, Imelde, che i suoi genitori avevano avvertito il promesso che lei sarebbe arrivata in città il giorno precedente. I parenti sfollati chissà dove, non un letto né un tetto né da mangiare. Sola, Imelde aveva trovato un po' di conforto a casa dell'uomo che avrebbe dovuto sposare. E che sposò. «A guerra finita, Imelde venne a trovarmi e mi confessò che quel 12 ottobre l'aveva cambiata, che i dolori le avevano tolto anche la voglia di vivere e che si sarebbe lasciata morire se il suo promesso non le fosse stato così vicino e non l'avesse aiutata a superare il momento. Io credo che lo sposò per riconoscenza o perché non aveva avuto il coraggio di dirgli di Roberto. O per disperazione, perché non voglio pensare che lo abbia fatto per necessità.» «Cosa vuoi dire, don Vincenzo?» «Niente, niente» borbotta il prete. «Idee che mi vengono quando ripenso a quei giorni.» Per il momento Santovito non insiste, ha già avuto informazioni che non si aspettava. Ci sarà modo e tempo per tornarci. In silenzio, i due restano ancora seduti per un poco a guardare la valle. Assorbono i pensieri. Santovito si alza. «Ricordi, don Vincenzo, come in confessionale» ripete. La perpetua è sulla soglia della canonica e aspetta il parroco. Lo vede e gli corre incontro. Di Santovito, che l'accompagna, non si occupa. Come se non esistesse: «Don Vincenzo, anche di queste si è messo a fare adesso? Mo' lo sa che l'avemaria è suonata da un pezzo e lei non era in chiesa? Se va avanti così, finirà che non dirà più neanche la messa. Chissà cosa c'aveva poi da fare con quei quattro sfaticati, giù dal Frabbone...» «Tre, perpetua, dal Frabbone sono in tre» l'interrompe il parroco. Interrompe anche la perpetua: «Con il maresciallo, adesso fanno quattro. Ci mancava anche lui!». «Sì, hai ragione. Infatti mi sono messo a parlare con il signor maresciallo e il tempo è volato che non me ne sono accorto.» «Figurati cos'avevate da parlare voi due. Me l'immagino! E non ha sentito suonare l'avemaria?» «Sta' buona che adesso sono qui e andrò a chiedere perdono a Nostro Signore...» «Nostro Signore, Nostro Signore... Crede che sia a sua disposizione?» e rientra in canonica senza neppure un'occhiata a Santovito. Da dentro grida: «Guardi, don Vincenzo, che è già in tavola». «Tutto bene con il nipotino, signora?» le grida dietro anche Santovito. La perpetua torna a mettere fuori la testa: «Che signora e signora! Intanto io sono la perpetua e mio nipote sta benissimo». Sparisce, ma per poco. «E poi, a lei cosa gliene importa di mio nipote?» «Volevo solo sapere se a scuola va bene...» «Va benissimo, non si preoccupi. Lei avrebbe fatto meglio a mettere in carbona gli assassini, quelli veri, al posto di chi non ha fatto niente» e sparisce nel buio della canonica. Don Vincenzo guarda Santovito, allarga le braccia e fa per seguirla, ma Santovito lo ferma: «Un momento. Cosa vuoi dire?». «Sa, viene dai quartieri popolari di Bologna e usa delle parole gergali... Carbona sta per prigione...» «L'avevo capito. Cosa vuoi dire con "quelli veri"?» «Non lo so. Parla così, tanto per parlare.» «Non ne sono sicuro, don Vincenzo, ma avremo modo di tornarci su. Ho idea che non me ne andrò tanto presto dal paese. Adesso vada, vada che la cena si raffredda e non faccia arrabbiare di più la perpetua.»
1960, ottobre, nel paese di Furci Pranzo In Caserma «Buongiorno Amadori, come hai passato la nottata?» Santovito siede di fronte al collega che pare molto occupato con certe pratiche. «Vado a fare colazione al bar. Mi accompagni?» Amadori nega con il capo, senza alzarlo dalle carte. «Be', vedo hai da fare. Ti lascio.» Sulla soglia si ferma: «Aaa, questa mattina mi servono Chiaffalà e la camionetta. Problemi se me li prendo fino a sera?». Si diverte a stuzzicare il più giovane collega, ma il giovane collega non apprezza. Finalmente solleva il capo dalle carte e dice, sgarbato: «Sì, problemi! Servono a me. Oggi proprio non si può. Rimanda a domani.» Santovito torna alla scrivania: «Mi dispiace, ma dovrai rimandare tu a domani». Amadori si alza e guarda a brutto muso e dritto in faccia il collega: «Non puoi scombinare i miei programmi. Tutta la collaborazione che vuoi, ma c'è un limite. Se il tuo lavoro interferisce con il mio... Telefonerò a Friggerio...». «Ecco, bravo, telefona a Friggerio. Io intanto vado a fare colazione.» Sulla soglia dice ancora: «Aaa, dimenticavo la macchina fotografica. Mi serve anche quella» e mentre esce dalla caserma sente il maresciallo Amadori urlare, dall'ufficio: «Chiaffalà!» L'appuntato corre: «Signorsì, signor maresciallo. Eccomi». «Chiudi quel cazzo di porta, appuntato!» Il tempo di un cappuccino e Santovito torna in caserma. La porta dell'ufficio di Amadori è chiusa e Chiaffalà è seduto al tavolo dell'ingresso. Dice: «Quando vuole, signor maresciallo maggiore. Io sono pronto.» «Amadori?» «Se n'è andato. Ha fatto una telefonata e ho sentito che urlava e poi se n'è andato senza dire una parola. Ha preso l'Abarth.» Per arrivare al paese dov'era nato Bob bisogna attraversare l'acqua, salire la montagna di fronte e scendere un poco verso la seconda vallata. Sta più in alto del paese dov'era maresciallo Santovito e la caserma la tiene il maresciallo Furci. È nella piazza del paese di Furci che Chiaffalà ferma la camionetta e Santovito si guarda attorno. «Certo che è cambiato, dall'ultima volta che l'ho visto.» L'avevano preso, quel paese, poi c'era stata la controffensiva tedesca e l'avevano perso, scambio di colpi di mortaio e raffiche, morti e feriti da una parte e dall'altra. Erano entrati definitivamente dopo che uno scambio di artiglieria fra gli americani della 10th Mountain e i tedeschi aveva quasi raso al suolo il paese. I tedeschi erano arretrati, spingendosi più a nord. Santovito ricorda le macerie, le case sventrate, il campanile della chiesa sbrecciato, i crateri dei proiettili che butteravano le strade. Sospira, nel ricordo. Ora il paese è ricostruito, tutto sembra tranquillo, niente più ricorda quei giorni, anche se sono passati solo quindici anni. C'è la scritta "Carabinieri" in una palazzina al limitare dei caseggiati. «Ecco chi ci darà qualche informazione» dice Santovito. Chiaffalà ferma l'Alfa Romeo Matta davanti alla porta. Apre un appuntato, che saluta militarmente Santovito. «C'è il maresciallo?» «Be', c'è, ma...» Lo interrompe una voce dall'interno: «Cosa c'è, Zanetti?» e un viso si sporge da una porta, poi esce un militare in maniche di camicia, un tipo gioviale, non tanto alto, con viso fianchi e ventre
arrotondati, segni di un amante della buona cucina. «Aaa, un collega!» dice. «Vieni, vieni. Sono il maresciallo Furci. Zanetti si vergognava a dire che sto preparando da mangiare, ma qui bisogna arrangiarsi. Sto facendo un sugo molto semplice, ma gustoso. Salsiccia locale, perché purtroppo la mia calabrese è finita da un pezzo, ma aggiungo tanto peperoncino e verso fine cottura la tiro con un po' di vino bianco e aggiungo un cucchiaio di conserva sciolta nell'acqua. Un attimo solo che controllo l'operazione. Intanto entrate, entrate.» Entrano. Furci si dà da fare ai tegami. «Ecco, l'acqua sta bollendo, un pugnetto di sale grosso e giù le mezze maniche. Ma scommetto che voi non avete mangiato.» «Be', pensavamo di mangiare un panino in un bar.» «Ma quale panino, quale bar? Sugo ce n'è in abbondanza. Lo faccio sempre per altre volte, basta aggiungere la pasta! Zanetti, apparecchia per altri due, siamo io e lui perché gli altri due carabinieri sono in licenza. Dopo l'estate c'è poco da fare: i villeggianti sono andati via tutti, non ci sono più feste paesane se dio vuole e tutto ritorna al solito tran-tran. Zanetti, contami dodici minuti, intanto versa da bere per tutti. C'è quel Sangiovese che ci hanno regalato...» A Santovito: «Qua è ancora come una volta: arrivano coi capponi, con le uova, col vino...». Prende un bicchiere e lo vuota d'un sorso. «Aaa, è buono. Su, bevete anche voi... Ma mi dirai il motivo della visita, o meglio, no, prima mangiamo, che è quasi pronto.» Scola la pasta, la condisce e fa sedere tutti. «Com'è?» fa poi. «Buona!» dice Santovito e, sopraffatto dalla logorrea del collega, manda giù un bicchiere di vino. «Anche se il peperoncino picchia un po'.» «Eee, ma io sono calabrese. Tu di dove sei?» «Provincia di Salerno.» «Lo sapevo che eri dei nostri.» Niente da fare, Furci riprende a parlare. Parla e mangia. «Ma anche qua c'è buona gente, a saperci andare d'accordo, si va d'accordo. È una situazione tranquilla. C'è ancora pasta, ne volete? No? Io me ne faccio un altro piatto, anche perché per dopo c'è solo un po' di formaggio. Buono eee! Formaggio sardo, piccante, saporito, e dell'insalata. Ma prego, mangiate, mangiate! Zanetti, porta dell'altro Sangiovese.» Santovito allontana il piatto, beve un sorso e mostra il pacchetto dei sigari. Dice: «Per me basta così. Posso?». «Come no? Cosa c'è di meglio di un sigaro dopo un buon pranzo?» «Vuoi?» «Eee, magari! Il medico mi ha ordinato di smettere e così mi sfogo con...» Indica i piatti e il bicchiere. Che si riempie di nuovo. Riempie anche quello di Santovito. «Bevi, bevi che dà più sapore al sigaro.» Santovito sorseggia, accende e dice: «Andiamo nel tuo ufficio, così lasciamo liberi gli uomini». «Giusto, collega. Vieni, ma non ti spaventare per il disordine. Ho troppe carte, troppe carte. Ti faccio strada.» Effettivamente l'ufficio del maresciallo Furci è assai disordinato. Sulla scrivania c'è di tutto. E anche sulle sedie. Furci ne libera una gettando sul pavimento due faldoni che l'ingombravano. «Accomodati» ma prima di sedere Santovito va a chiudere la porta. «Sai che il profumo del tuo sigaro mi fa tornare voglia di fumare.» «Non voglio essere io a tentarti» dice Santovito. Fa per spegnere il sigaro nel posacenere che spuntava fra i fogli della scrivania. Furci lo ferma: «Fuma, fuma tranquillo. Te ne rubo solo un po', quello che arriva da me. Dunque, sentiamo...» «Sì. Prima di tutto grazie dell'accoglienza. Poi, sul motivo della mia visita...» Furci lo interrompe agitando la destra: «Niente, niente, figurati. Dimmi, dimmi pure». «Sono qui per incarico del colonnello Friggerio. Si tratta di un'indagine retrospettiva, una brutta faccenda capitata durante la guerra da queste parti...» «Ce ne sono state molte di brutte faccende durante la guerra» lo interrompe di nuovo il
maresciallo Furci. «Per esempio, qui i tedeschi e i fascisti...» e andrebbe avanti con la narrazione di chissà quali e quanti fatti cruenti, se Santovito non lo interrompesse. «No, no, allora si disse che il massacro non fu fatto dai tedeschi. E nemmeno dai fascisti. Anzi, si arrestò un partigiano e lo si processò.» «Partigiano?» mormora Furci. Santovito annuisce. «Ne sai qualcosa?» «No, non è tanto che sono qui.» Furci va alla porta, l'apre e grida: «Zanetti, portaci il caffè!». «È pronto, maresciallo.» Furci richiude e si ferma accanto a Santovito: «Adesso senti da Zanetti. È quasi del posto, è qui da prima e ti può aiutare». Va a sedere. «Ma se il caso fu risolto già allora...» «Sarebbero emersi elementi nuovi. Devo parlare con qualche ex partigiano di qui...» «Adesso senti da Zanetti» e il carabiniere Zanetti bussa. «Avanti, avanti Zanetti. Posa qui sulla scrivania, dove trovi un buco libero e senti il maresciallo.» Ma non sente niente perché è lui stesso che parla: «Gli serve il nome di qualche ex partigiano del paese e dintorni. Cosa gli puoi dire, Zanetti?». Il nominato Zanetti ci pensa un po' e poi: «Be', il sindaco era partigiano. Poi c'era anche Giuseppe Zagatti, quello che ha l'autofficina in paese...». «Dimmi del sindaco, Zanetti» lo sollecita Santovito. I due marescialli sorseggiano il caffè. «Che tipo è?» «Si chiama Egidio Olmi. Dicono tutti che è una brava persona. È sindaco dal dopoguerra, sindaco democristiano, anche se qui attorno la zona è rossa. È l'unico sindaco democristiano di questa parte della montagna. Ma si vede che i cittadini hanno premiato il merito. C'è da dire che come democristiano ha simpatie di sinistra...» «E Zagatti?» «No, Zagatti è rimasto rosso, ma è una brava persona anche lui. Adesso lavora e alla politica ci pensa solo la domenica.»
1960, ottobre, nel paese di Furci Cicche E Ricordi «Aspettami qui» dice a Chiaffalà. Lo lascia seduto al volante della camionetta e entra nell'officina. Un ragazzetto biondo regge una lampada elettrica e illumina il vano motore di un'automobile. Dice: «Babbo, c'è gente.» Il babbo, da dentro il vano motore, mugola qualcosa. «Ci sono i carabinieri.» «I carabinieri? E cosa vogliono da me?» e il meccanico mette fuori la testa. I capelli biondo stoppa, il viso sporco di grasso, indossa una tuta blu da meccanico su cui, all'altezza del petto, c'è una scritta pubblicitaria ormai sbiadita. Si passa una manica della tuta sul viso poi prende uno straccio e si pulisce alla meglio le mani. «Lei non è il maresciallo Furci!» «No, non sono» e gli pianta gli occhi addosso, tanto che quello si sente a disagio. «Allora, cosa c'è?» chiede ruvido. «Non ho tempo da perdere...» «Giuseppe Zagatti?» «Sissignore, Zagatti Giuseppe, sono io. Cosa c'è che non va?» «Sei sempre lo stesso, eh, Lepre? Ruvido quando si tratta di carabinieri. Poca confidenza...» Lepre getta via lo straccio, che va a finire su una tanica, in un angolo dell'officina, e per fissare meglio il maresciallo, piega la testa da un lato. «Lepre, sì» borbotta. «Ma... fammi vedere un po'! Per la madonna, Salerno! Sì! Al caniccio d'Edgarda, il povero Bob... Vedo che è ancora maresciallo.» «Semel abbas, semper abbas» borbotta Santovito. «Cosa dice?» «Niente, una riflessione. Sì, sono di nuovo maresciallo, ma non ci davamo del tu?» «Altri tempi, Salerno.» «Già, altri tempi» ma non sa bene, Santovito, se rimpiangerli o cercare di dimenticarli gli "altri tempi". «Be', cosa vuole?» chiede Lepre. Poi si gira al ragazzo. «Vai a casa, tu, che qui abbiamo finito.» «Ma babbo! C'è la macchina di Florindo da finire...» «Florindo aspetterà il suo turno. Va' a casa a fare i compiti che qui finisco io.» Il ragazzo se ne va contro voglia. «Un gran bravo ragazzo. Si chiama Antonio, ma lo chiamiamo Toni...» «Toni, come...» «Sì, come il suo comandante, proprio lui. Cosa vuole, maresciallo?» «Non ci riesci proprio a darmi del tu come quattordici anni fa, eh?» «Gliel'ho detto: altri tempi. Adesso io sono un meccanico e lei la Legge» e resta in attesa del seguito. «Ho capito. Devo darti del lei anch'io?» «Faccia come crede, maresciallo. A me va bene il lei e il tu. Solo il voi mi rompe un po' le palle.» «Ho capito. Posso fumare?» Lepre annuisce e Santovito gli offre un sigaro. «Grazie, ma quella roba lì non la fumo più. Preferisco le Nazionali che sono sigarette da proletari» e ne tira fuori una. «Da proletari come il sottoscritto Zagatti Giuseppe...» «... detto Lepre» completa Santovito. «Sissignore, detto Lepre, ma erano altri tempi, come ho già spiegato.» Continua a tenere la sigaretta spenta, nell'angolo della bocca. «Più che da proletari, sigarette da compagni» precisa Santovito. Lepre non risponde. Santovito gli
accende la sigaretta e passa al suo sigaro. Un paio di boccate per entrambi e il maresciallo dice: «Sono qui per parlare con te di quella faccenda. Di Bob». «Ancora! Bob è ormai morto e sepolto e chi s'è visto s'è visto. Che bisogno c'è d'andare a rivangare dei fatti morti e sepolti anche loro, Salerno?» «Ci sono delle novità...» Lepre guarda Salerno e, con un cenno del capo, chiede il seguito. «Forse non è stato lui.» «Non è stato lui? Non è possibile.» «Perché non è possibile?» «Perché c'è stato il processo...» «Ce ne sono tanti di processi sbagliati.» «Se lo dice lei, maresciallo... E poi lo sapevano tutti che Bob aveva dell'odio contro quella gente, i Bernardi. Contro il vecchio, soprattutto.» «Ma perché aveva dell'odio?» «E che ne so? Io non sono nemmeno di qui, proprio, stavo alla Ca' Lunga.» Guarda il maresciallo che è venuto a riportargli il passato. «Eri nel plotone d'esecuzione?» Lepre tira l'ultima boccata, getta la sigaretta sul pavimento bisunto dell'officina e la calpesta per bene e la riduce in briciole. Poi va alla saracinesca, la abbassa fino a metà, torna davanti a Santovito e dice, sottovoce: «Mi sa che questo è un interrogatorio, no, Salerno?». «No, Lepre, quattro chiacchiere fra vecchi compagni di lotta. E se vuoi, puoi non rispondere...» «Rispondo sì!» lo interrompe Lepre, piuttosto piccato. «Non ho niente da nascondere. C'è stato un processo regolare, con tanto di verbale e nel plotone c'ero anch'io, sissignore. C'era la guerra, c'erano degli ordini del comando... Non mi sono mai divertito a sparare alla gente, io. Allora non si scherzava micca tanto! Quasi ogni giorno qualcuno ci rimaneva, non rientrava da un'azione e non c'era micca il tempo per delle "asciugaie"!» Salerno traduce mentalmente il termine locale con "sciocchezze", "fanfaluche". Certo, non era tempo di "asciugaie", lo sa bene anche lui. C'era anche lui in quella guerra. "Pietà l'è morta". Ricorda il canto partigiano e i tanti compagni, troppi, che sono rimasti su quei greppi, in quei boschi, segati da una raffica, troncati da una bomba di mortaio, presi e impiccati con il filo spinato. Altri tempi. «Chi ha sparato?» «Ma, cazzo, Salerno!» grida sottovoce Lepre. «È proprio così importante? E perché proprio adesso che cominciamo a stare tutti un po' meglio?» «Non lo so, Lepre. So che le brutte storie, prima o poi tornano fuori. Non prendertela con me.» Lepre abbassa il capo e mormora: «Non me la prendo con te, me la prendo con questo schifo di vita» e va a sedere su un vecchio sedile di automobile, scassato e sgangherato e con le molle fuori dalla finta pelle. Batte la mano sulla parte libera e Salerno va a sedere accanto a lui. «Dunque» dice sottovoce «su c'eravamo noi tre della cascina d'Edgarda. Io, Bill e Motore. Poi dal comando arrivò su Tango con un gruppo di partigiani. Ricordo che c'era Autiere che ci aveva portato su qualcosa da mangiare... C'era Remo, il Calabrese... Poi, aspetta... Sì, Ballerina e Legno.» Ha parlato a capo chino. A capo chino prende una sigaretta dalla tasca della tuta. A capo chino dà la prima boccata e poi alza il viso e guarda Salerno. Ha gli occhi lucidi. «Chi ha sparato?» insiste Santovito. «Io, allora, vidi pochi bossoli.» Una vampata di calore arrossa il viso di Lepre, che grida trattenendo la voce: «Cosa volevi? Un plotone d'esecuzione in piena regola? Non c'era da sprecare munizioni». Si calma con un lungo tiro di sigaretta e, guardando bene in viso Salerno, mormora, sempre con la voce piuttosto tesa. «Abbiamo sparato tutti. Tutti e nessuno, va bene?» China di nuovo il capo e per un po' fuma. «E
adesso, cosa vuoi fare? Andare a tirare fuori dalla tomba quelli che sono morti per chiedergli se hanno sparato loro al povero Bob?» «Perché, sono tutti morti?» «Non tutti. Autiere è diventato sindaco, qui. Remo si è comprato il bar del paese. Gli altri... Motore se 1'è mangiato la tisi, dopo la guerra e non ha potuto neanche godersi un po' di pace. Tango... Tango è sparito due giorni dopo la liberazione e non l'ho più rivisto. Non so nemmeno il suo vero nome. Il Calabrese è tornato a casa, giù, nel Sud e ho saputo che se n'è andato, morto anche lui che aveva i polmoni disfatti dal fumo, poveretto. Restano Ballerina e Legno, ma non ne so più niente da un pezzo.» «Hai detto che c'era anche Bill...» «Sì, Bill, ma lui è rimasto di guardia al caniccio... Diceva che gli sarebbe piaciuto fare l'avvocato. C'è riuscito e fa l'avvocato giù a Bologna. D'estate ogni tanto viene su, ha la casa dei suoi.» Fumano in silenzio per un poco. Fino a una domanda che Lepre non si aspetta: «Durante il processo è venuta fuori la storia di una frase scritta in una baracca in un posto chiamato il molino del Turco?». Lepre ci pensa e poi, lento, scuote il capo: «Non lo so. Io non c'ero al processo» e la sua cicca fa la fine dell'altra. Il pavimento è coperto da cicche calpestate, sbriciolate quasi con rabbia. «Te ne ha parlato Bob quando gli facevi la guardia prima di...» «Ooo, cazzo, Salerno, cosa vuoi che mi ricordi adesso? Bob aveva altri pensieri in quei momenti. E anch'io!» Salerno si alza. Anche il mezzo sigaro si è spento e Salerno se lo toglie dalle labbra e lo rigira fra le mani e lo guarda a lungo prima di chiedere: «Lepre, cosa fumava Bob?». Senza sollevare lo sguardo, Lepre dice: «Quello che trovava, come facevamo tutti». «Gli hai mai visto un sigaro in bocca?» Lepre ci pensa e poi solleva il capo e lo sguardo. Scuote la testa: «No, non mi ricordo di avergli mai visto un sigaro». «E quando lo avete arrestato per processarlo, gli avete trovato un fucile da caccia?» Questa volta Lepre non ha bisogno di pensarci. Nega con il capo. «Grazie» e Salerno batte la mano sulla spalla di Lepre. «Be'» dice, «mi ha fatto piacere rivederti» e va, solleva la saracinesca e lascia l'officina. Dal sedile squinternato, residuo di chissà quale antica automobile, e tornando con lo sguardo alle cicche sparse sul pavimento, Lepre saluta con un gesto stanco della destra.
1960, ottobre, a Bologna Nella Caligine Bolognese L'appuntamento è per le otto di sera "da Lamma, in via dei Giudei" aveva detto il ragazzo. Poi, per precauzione e timidamente, aveva aggiunto: «Lei sa dov'è Lamma, maresciallo?». Santovito non sa dov'è. Non sa dov'è "da Lamma" ma sa dov'è via dei Giudei, nel centro storico: parte da piazza Ravegnana, proprio sotto le due Torri e scende giù, nell'antico ghetto ebraico. Lo troverà. È stato a Bologna alcuni anni prima di prendere il posto del maresciallo Bargellaux nella caserma dell'Appennino fra la Toscana e l'Emilia. La caserma l'aveva fatta costruire il Federale, che era di quelle parti, per lasciare un segno del suo passaggio. Nella storia. E anche per tenere sotto controllo gli abitanti di qui che non hanno mai gradito l'autorità. Prima e dopo l'Unità d'Italia. Circolano ancora certe storie sui fomentatori di risse, sugli ubriaconi, sui renitenti alla leva... Gente di casa. E ci sono storie, che ancora circolano fra gli anziani, sul brigantaggio durante la costruzione della ferrovia. I banditi più famosi pare che fossero della zona. Bargellaux aveva inaugurato la caserma, ma aveva fatto una brutta fine: impallinato come una lepre. Era uscito presto, a caccia. Lo trovarono un mattino di settembre. In mezzo a un roveto che non si capisce come ci si fosse infilato. La versione ufficiale fu "incidente di caccia". Ma non si è mai saputo chi avesse tirato il grilletto né di chi fosse lo schioppo che l'aveva ammazzato. Non si era fatto molti amici in paese. O non ne aveva avuto il tempo. All'incidente di caccia, in paese, non ci aveva mai creduto nessuno. Avranno avuto le loro buone ragioni. Nel '39 Santovito l'avevano mandato quassù a sostituire il defunto Bargellaux. Un gran brutto paese, aveva subito deciso il nuovo maresciallo. Ma poi aveva cambiato idea e se n'era andato con rimpianto. Per sbarcare in Russia, altro gran brutto posto, specie se ci si va per combattere. Per la Russia, Santovito non aveva nessun rimpianto. Il treno arriva che sono da poco passate le sette e Santovito esce dal piazzale ovest per entrare in una nebbia bolognese che stagna sulla piazza antistante la stazione. A malapena vede i fanali delle strade e delle poche auto che viaggiano a passo d'uomo e si accorge dei semafori quando ormai c'è arrivato sotto. Goccioline di umidità gli si posano sulla faccia, come se piovesse. Solleva il bavero del cappotto borghese e, nonostante la nebbia, decide di andare in centro a piedi. È un mediterraneo, abituato al mare e al sole salernitano e ai balzi dell'Appennino, dove la nebbia non è di casa. Solo a volte, in montagna, i boschi si coprono di nubi sfilacciate o scendono nuvole basse a tutto coprire. Ma non è la fitta caligine della pianura. È qualcosa da affrontare come una nuova avventura. In piazza Otto Agosto taglia verso piazza San Martino dove, dopo la parte più moderna, cominciano gli antichi edifici rosso mattone. Gli torna alla mente una poesia di Carducci e se la ripete sottovoce: «Para papara papara... la fosca turrita Bologna. O è la rossa, turrita Bologna? No, dev'essere la fosca. Aaa, la memoria». Procede lentamente, si ferma per accendere un toscano, si guarda attorno. Portici e vicoli. Per strada qualche passante ingobbito, la testa dentro al bavero e il passo frettoloso. Arriva in via dei Giudei in anticipo sull'ora dell'appuntamento, passando getta una veloce occhiata al locale poi prosegue fino in cima alla leggera salita per trovarsi dinanzi alla maestà delle due torri, giganti inclinati che si ergono come spartitraffico fra le quattro strade che dalla piazza si dipartono mentre la quinta, più moderna ma continuazione della più antica via Emilia, si dirige a ovest. Resta a testa in su a cercare la testa delle due torri infilata nella caligine e a sbuffare fumo, poi torna indietro e si ferma fuori dal locale, a aspettare. Lo vede spuntare dalla nebbia, frettoloso. Un ragazzo sui quindici anni, non alto, moro, capelli bagnati dalla nebbia, avvolto in un montgomery col cappuccio abbandonato sulle spalle e le mani in
tasca. In via dei Giudei sono in due. Nessun altro in giro e anche il ragazzo guarda con curiosità il maresciallo. Aspetta un cenno. «Sei Roberto?» chiede Santovito. «Sì, sono io.» Il maresciallo gli tende la destra, che il ragazzo stringe. «Sono Benedetto Santovito, sono io che ti ho cercato. Entriamo? Staremo al caldo.» Dentro, da Lamma, c'è più caldo. E una grande confusione. A sinistra il bancone del bar sul quale troneggia una fontana che butta birra; a destra i tavoli, occupati da giovani che mangiano e vociano. Svelti camerieri s'infilano negli stretti passaggi reggendo in equilibrio piatti e grandi boccali di birra. L'atmosfera è satura di sigaretta mista a odore di cipolla e tonno. Nel fondo del locale c'è un tavolo vuoto, Santovito si toglie il cappotto, lo appoggia su una sedia libera e i due siedono. «Conosci il locale?» chiede Santovito, tanto per rompere il ghiaccio, ma il giovane sta sulle sue, è guardingo. Borbotta: «Be', sì e no. Ogni tanto di sabato pomeriggio ci vengo con gli amici, ma non è che possa uscire molto, la sera.» «Siedi, mettiti comodo. Direi di mangiare qualcosa, no? È l'ora giusta.» Roberto siede, ma sulla sedia si agita. Dice: «Be', non è che io abbia tanti soldi e...». «Non ti preoccupare, ti ho invitato io, no?» e Santovito sorride al ragazzo. Capisce il suo disagio: gli ha telefonato un maresciallo dei carabinieri e gli ha chiesto un incontro... Praticamente lo ha convocato. Poi c'è la strana lettera di sua madre indirizzata proprio a quel maresciallo... Insomma, adesso Santovito deve farlo sentire tranquillo. Ci prova: «Hai detto che vieni qui con gli amici. Solo amici o anche amiche?» «Sì, insomma, compagni e compagne di scuola, mettiamo su qualche disco dal jukebox...» «Che classe fai?» «La quinta ginnasio.» Santovito gli batte una mano sulla spalla: «Bravo, quindici anni, quinta ginnasio: tutto in regola. Sai già cosa farai dopo il liceo?» «Be', mia madre...» e qui lo sguardo si abbassa, un poco «... avrebbe voluto che studiassi Legge. A mio padre piacerebbe Medicina.» «E tu?» Roberto si stringe nelle spalle. «Onestamente non so ancora. Vedrò. Forse...» e guarda il maresciallo in borghese. «Mi piacerebbe fare Lettere.» «Lettere? C'è qualche motivo?» Anziché mettere il ragazzo a suo agio, Santovito ha finito per impacciarlo di più. Infatti continua a agitarsi. «Mi piace leggere, poi... mi piace anche scrivere.» «Scrivere! Scrivi poesie?» Roberto abbassa ancora la testa: «Sì, qualche poesia, racconti... ma sono ancora giovane». Guarda il maresciallo. «Credo che per scrivere seriamente, uno ne debba masticare, di roba.» Chissà se Roberto ricorda la poesia di Carducci sulla rossa o fosca Bologna? Ma è arrivato il cameriere per le ordinazioni. Santovito guarda Roberto: «Senti, qual è la specialità, qui?» Roberto sorride: «Be', qui di solito mangiamo tonno, fagioli e cipolla. Poi, il tonno delle latte grosse è molto buono». «Va bene anche per me» ma gli è venuta sete nel vedere tutti quei boccali di birra che gli passano davanti. Al cameriere: «Allora, due di tonno fagioli e cipolla e birra alla spina. Un boccale per me e
per lui...». Guarda Roberto che fa segno con l'indice e il pollice per indicare piccola, una birra piccola. «Diciamo media, per lui.» Il cameriere serve le birre. «Alla salute» dice il maresciallo. Un lungo sorso e si pulisce la bocca con il tovagliolo. «Aaa, proprio buona, ci voleva» fa. Anche Roberto manda giù un sorso, ma lui si pulisce con il dorso della destra. Posa il bicchiere e guarda il maresciallo. Fino a questo momento si sono fatte chiacchiere che non hanno senso. Adesso aspetta il motivo della convocazione. Non in caserma, per fortuna. Ma Santovito non entra ancora in argomento. Chiede: «Conosci la nostra montagna?» Ha detto nostra, ormai è cosa che gli appartiene, che sente sua. «Be', sì, mia mamma mi ci ha portato spesso e in un certo senso anch'io vengo da là» e manda giù un altro sorso. «Non è che mi ci portasse... Voglio dire, c'era come qualcosa che la tratteneva. Quando ci si andava, per brevi periodi però, mi raccontava della sua vita lassù, ma in modo, come dire, non completo, voglio dire, come se qualcosa le fosse di peso e non volesse parlarne. Ma mi piace lassù, mi piace il paese e mi piace andare in giro per i sentieri... Si scoprono delle cose...» «Cioè?» «Ma, per esempio, vai per un sentiero e sei da solo e sbuchi davanti a un laghetto... Oppure ti trovi nel letto di un torrente fresco e con dell'acqua così chiara che... che...» Lascia perdere per non sembrare ridicolo. Infatti dice: «Ooo, io la vedo così». «Anch'io. Dimmi di tuo padre.» Roberto alza le spalle: «Lui queste cose non le capisce, lui è un cittadino, bolognese al cento per cento. Ai suoi tempi, quand'era giovane, per lui c'era il mare, come per molti bolognesi. Rimini, Riccione e basta. Chiedergli di andare in montagna è come...» e ancora la pianta lì, tanto è inutile. Arrivano le ordinazioni e i due cominciano a mangiare. Di gusto. Il tonno è ottimo e ben si sposa con la cipolla e i grossi fagioli, quelli detti anche "del papa". La birra, poi, completa il sapore del piatto. «Vuoi un'altra birra?» chiede al ragazzo, che fa segno di no. Santovito mostra al cameriere, lontano, il suo boccale vuoto. E è ora di entrare nel motivo dell'incontro. «Senti, Roberto: quella lettera che mi hai fatto avere... Tua madre te ne aveva mai parlato prima?» Il ragazzo nega con il capo. «Sai cosa contiene? Voglio dire: l'hai letta?» «No, certamente» fa Roberto con l'aria offesa. «Era indirizzata al maresciallo Santovito, e chiusa. Non potevo certamente aprirla.» «Ne hai parlato a tuo padre?» Perplesso per una domanda che gli sembra ovvia, Roberto non risponde subito. Manda giù il boccone con un sorso di birra e dice: «Certamente, sì. Quando la mamma è morta» e china per un attimo il capo. Ma subito guarda lo strano maresciallo che lo ha invitato a cena. Forse gli passa per la testa che se sua madre gli ha indirizzato una lettera, c'è da aver fiducia in lui. Continua: «Quando è morta, io e il babbo abbiamo guardato fra le sue cose, per vedere se c'era qualcosa di... di sospeso, ecco, non so bene nemmeno io. La lettera era in una grande scatola di latta, sa, di quelle per i cioccolatini, antica, dentro a un cassetto. Nella scatola c'erano delle vecchie fotografie, dei santini di parenti morti chissà da quanti anni... Insomma, non so, ricordi suoi. C'era anche la lettera e io e il babbo ci siamo chiesti cosa farne». Sospende per mangiare alcune forchettate di tonno, fagioli e cipolla. Riprende: «Be', veramente il babbo voleva aprirla e leggerla, ma io gli ho detto che non era giusto e che se la mamma l'aveva chiusa, voleva che restasse chiusa. Che c'era un destinatario e che gli andava consegnata. Io credo che la mamma volesse così e si è convinto anche il babbo». Arriva il cameriere con il secondo boccale di birra. Per Santovito, che ne manda giù un lungo sorso. Roberto sospende il racconto e torna al tonno, cipolla e fagioli che stanno per finire. C'è ancora un dito di birra nel suo bicchiere e Roberto la manda giù dopo l'ultimo boccone. «Senti, Roberto, tua madre ti aveva mai parlato di quella lettera?»
«No, mai.» «E ti sei chiesto perché non me l'abbia mai spedita?» «Sì, ci ho pensato prima di venire al comando dei carabinieri. Forse... Insomma, io ho pensato... Insomma, credo che la mamma volesse che io, che noi, il babbo e io, la spedissimo dopo che lei era morta.» Santovito annuisce: sì, forse Roberto ha capito. Gli chiede: «Hai mai sentito parlare da tua madre di una certa Cortesi Gialdiffa?». Roberto sorride: «Che strano nome, Gialdiffa. Non l'ho mai sentito. No, la mamma non me ne ha mai parlato». Torna serio e chiede anche lui: «Perché tutte queste domande? Posso sapere cosa c'è nella lettera di mia madre?». «Come sai che la lettera è di tua madre?» «Be', la scrittura dell'indirizzo, sulla busta, è sua e penso che sia sua anche la lettera che c'era dentro.» Guarda Santovito e chiede ancora: «E così?». Santovito annuisce. «E così, ma non posso dirti cosa c'è scritto nella lettera. Posso dirti che riguarda un'indagine per un brutto fatto accaduto durante la guerra. Non te ne posso parlare. Un giorno, forse...» Roberto annuisce, guarda l'orologio e dice: «Adesso io... Se non c'è altro, è meglio che io torni a casa che devo preparare ancora una lezione per domattina...». Si alza e tende la mano. «Ancora una cosa, Roberto: hai parlato di fotografie nella scatola. Potrei vederle?» «Be', io credo di sì... Sento dal babbo e poi le dico.» «E anche una foto di tua madre. Ce l'hai?» «Non qui, ma a casa ne ho tante...» Sta in piedi, davanti a Santovito. Ha in mente qualcosa che lo tormenta. Decide e lo mette fuori: «C'è qualcosa che la mamma ha fatto... Insomma, quella lettera può procurarle dei guai? Anche se adesso non c'è più, mi dispiacerebbe che proprio io...». Si alza anche Santovito, posa una mano sulle spalle del giovane e lo rassicura: «Tua madre ha scritto delle cose molto importanti in quella lettera, delle cose che potrebbero scagionare una persona da una tremenda accusa. Niente che possa turbare il ricordo che hai di tua madre, stai tranquillo, Roberto». «Grazie» mormora il ragazzo. E si allontana, ma Santovito lo chiama: «Aaa, Roberto. Io sto su, al paese, sai dove trovarmi» ma Roberto non capisce perché. «Per le foto, dico. O ti metti in contatto con la caserma del paese o vai a parlarne con il tenente colonnello Friggerio, sai, quello della lettera.» Roberto annuisce e se ne va. «Ciao» gli dice dietro il maresciallo. Consuma l'ultima birra, ferma un cameriere per ordinare caffè e grappa, estrae un sigaro e lo accende. In quella nebbia da sigarette, nessuno si offenderà per il suo sigaro. L'incontro con il ragazzo gli ha dato qualche idea, ma non quanto sperava. Restano fuori molte cose. Soprattutto resta fuori il fatto che, con il passare degli anni, e ne sono passati dal giorno del massacro, anche gli indizi più stabili perdono consistenza. E i testimoni muoiono. Dopo sedici anni si è socchiusa una finestra sul passato, che è importante aprire del tutto. Con molti pensieri in testa, Santovito finisce grappa e sigaro, paga il conto e torna a immergersi nella caligine bolognese.
1960, ottobre, alla baracca L'ultimo Falò Arrivano con la camionetta fino alla curva della Leona, sulla statale, e Santovito dice: «Fermati qui, appuntato, che devo andare a vedere una cosa». «L'accompagno, signor maresciallo» e l'appuntato spalanca la portiera e fa per scendere, ma Santovito lo ferma con un gesto: «No, Chiaffalà, ti risparmio la fatica. Andar giù è discesa, ma tornar su...» Sorride «... e tu non sei più un giovanotto.» «Ma signor maresciallo, scherza? Io...» Il maresciallo blocca le recriminazioni con un gesto brusco della mano. «Passami la macchina fotografica.» Chiaffalà gliela passa. «Faccio un salto giù e torno. Avvertimi se arriva qualcuno.» «Come l'avverto, signor maresciallo? Sparo un colpo in aria?» Santovito fa il giro dell'automezzo, mette la testa dentro e dice all'appuntato, rimasto inchiodato al sedile dalla decisione del superiore: «Gridi, Chiaffalà. Mi fai un urlo, mi chiami e io capisco». Inizia di buon passo la discesa e arriva al molino del Turco. Ancora una volta lo stupisce lo stato di abbandono che ormai caratterizza tante cose e tanti edifici di una montagna che sente un po' anche sua. La gente scappa dalle dimore abituali, nelle quali i padri hanno vissuto per secoli. La vita dura, raspata su quei terreni impervi, le poche possibilità di lavoro, favoriscono l'esodo verso le città, di qua e di 1à dal confine. «Non hanno torto, poveretti» borbotta il maresciallo. «Basta una nevicata un po' più forte e si blocca tutto. La gente non è più abituata ai sacrifici di una volta e in città si vive meglio. Ma sarà così per molto?» Scuote il capo. «Chissà che prima o poi non tornino su. Ma intanto...» Si è fermato a guardare l'antica e solida struttura di sasso del molino del Turco. La porta è ancora sbarrata ma i vetri delle finestre, senza persiane, sono rotti, anche se difesi da grate di ferro. Le erbe infestanti non hanno ancora guadagnato tutto il terreno e l'edificio ne è abbastanza libero. Solo la porta d'ingresso è quasi murata da cespugli di rovi e di prugnoli e i pochi alberi attorno sono ricoperti da festoni d'edera e di vitalba. Santovito fa il giro della casa; due archetti in pietra lasciano intravedere l'antro dei ritrecini, ancora in piedi ma con molti catini delle pale pencolanti e mancanti. «E pensare che qui ci ricavavano la farina di castagne e la farina per il pane. Roba passata, di una volta» si dice. Batte una mano sulla giubba a cercare la scatola dei sigari e sente un rumore alle sue spalle, un fruscio di rami appena smossi. «Chi è là!» grida. «Sei tu, Chiaffalà? T'avevo pur detto di aspettarmi in macchina!» Non ha risposta. Guarda in giro, ma non vede nessuno. Pensa: "Un animale. Un gatto o una volpe. Chi dovrebbe essere?". Completa la ricerca dei sigari, ma non li trova, sono rimasti sul cruscotto della camionetta. «Bene, anche senza sigari» borbotta. Si rassegna, va dietro il molino e vede la baracca, oltre il fiume. Cerca il modo per raggiungerla. Un tempo c'erano due tronchi gettati sulle rive, collegati da tavole trasversali, che permettevano di passare, nei momenti di piena, da una parte all'altra dell'acqua, ma una delle piene doveva aver travolto la passerella e nessuno aveva più sentito la necessità di ricostruirla. Sono rimasti alcuni massi affioranti dal pelo dell'acqua e Santovito salta da uno all'altro. L'ultimo, ormai di là, gli fa altalena e Santovito si trova con un piede nell'acqua bassa della sponda. Impreca: «Ma guarda te. Senza sigari e con un piede a bagno.» Scrolla l'acqua dal piede e va alla baracca. È una costruzione quadrata di tavole di legno; il tetto spiovente all'indietro e ricoperto con tegole, gli fa venire in mente certe baracche dei cartoon del cinema americano che vedeva da ragazzino. Sorride al ricordo. Anche qui, attorno, rovi e cespugli di prugnoli. La porta è spalancata e sbilenca
sui cardini. Entra. La baracca, come aveva spiegato don Vincenzo, serviva sicuramente come ricovero temporaneo per chi lavorava alla ghiacciaia: si passava il fiume e poco più su c'era l'impresa del ghiaccio. A volte qualcuno ci pernottava, lì dentro. D'inverno, quando il freddo era mordente, una stufetta, ricavata da un bidone, appoggiata in un angolo con il tubo che usciva dal tetto, assicurava un poco di tepore. Erano altri tempi, e altra gente. Nell'altro angolo, sorretto da un'incastellatura di legno, un saccone funge da grezzo materasso. Santovito lo saggia con una mano. È pieno di scricchiolanti foglie di granoturco e la stoffa del saccone è chiazzata e intignazzata da macchie d'annosa umidità. Sposta l'incastellatura e trova, su una delle assi, in basso, la scritta incisa a coltello, esattamente come descritto nella lettera a firma di Imelde Lenzi: "I R i p 1 v 11 10 1944". Santovito cerca la posizione migliore per fotografarla, ma la luce incerta del pomeriggio non gli permette una buona immagine. Allora sposta ancor più l'incastellatura in modo che non sia d'ostacolo alla luce. A terra, sotto il provvisorio giaciglio, c'è qualcosa di spiegazzato e scolorito. Lo raccoglie: è un pacchetto di Navy Cut, le sigarette che gli inglesi lanciavano, assieme alle armi e a altri generi di conforto, ai raggruppamenti dei partigiani di montagna. L'immagine del marinaio barbuto con attorno un salvagente, molto nota in passato, fa tornare in mente a Santovito il tempo della Resistenza e quelle bionde sigarette che ogni tanto fumava, senza però che gli togliessero la voglia del sigaro. Istintivamente torna a frugare nelle tasche, ma i sigari sono nell'auto su, alla curva della Leona. Scatta alcune foto e esce: quello che c'era da vedere l'ha visto e la lettera diceva la verità. Diceva la verità anche Bob, quando gridava la sua innocenza? Guarda la baracca, ancora più scura all'imbrunire, ripassa il guado, questa volta senza incidenti, e comincia la salita. Chiaffalà lo aspetta, diligentemente seduto alla guida dell'automezzo, ma Santovito non monta. Prende il pacchetto dei sigari dal cruscotto, va a sedere su un sasso, accende, fuma finalmente con lente e golose boccate e guarda giù, verso il fiume e verso la baracca dove si è consumato, molti anni fa, un atto d'amore e, forse, anche un atto di drammatica ingiustizia. L'imbrunire ha coperto la vallata e intristito i contorni dei monti e Santovito fuma in silenzio. Decide che è ora di tornare e quando sta per alzarsi, lo investe una ventata tiepida, come lo spostamento d'aria quando, durante la guerra, una bomba gli esplodeva poco lontano. Lo investe anche un bagliore intenso che sale da giù, dal fiume, dalla baracca. Lingue di fuoco illuminano la sera e puntano dritte contro il cielo scuro, assieme a volute di fumo. Santovito schiaccia sotto il tallone il sigaro e corre verso il sentiero gridando: «Chiaffalà, corri! Scendiamo!» ma anche l'appuntato ha visto e sta già correndo dietro il maresciallo. «Cos'è?» chiede. «La baracca sta bruciando!» Sempre di corsa attraversano il fiume e si fermano, ansimando, dinanzi al rogo. «Brucia come un fiammifero» riesce a balbettare l'appuntato, non più avvezzo alle corse sulla distanza. «Com'è capitato?» «Non lo so, ma lo immagino.» Chiaffalà vorrebbe, non vorrebbe e poi decide: «Signor maresciallo... non è che... Insomma, non è che il mozzicone del suo sigaro...» «Chiaffalà!» grida il maresciallo. «Ti sembro il tipo che butta il sigaro acceso? Poi, anche se fosse, con l'umidità che c'era lì dentro, altro che sigaro ci voleva...» «Mi scusi... Allora?» «Annusa, Chiaffalà, annusa! Non senti l'odore di benzina?» «Allora?» ripete imbambolato Chiaffalà.
«Allora, allora! Qualcuno ha distrutto una prova!» «Una prova?» «Una prova, Chiaffalà! Sai cos'è una prova?» Il maresciallo è troppo arrabbiato perché l'appuntato possa permettersi di rispondere. Guardano la baracca che si consuma velocemente, crolla e le tegole, precipitando sulle assi ancora in fiamme, mandano al cielo, che si è incupito di nuvole scure, una folata di lapilli. Cadono le prime gocce di un acquazzone d'autunno. «Qui abbiamo finito» mormora Santovito. «Ogni tanto la pioggia arriva quando deve arrivare. Spegnerà le braci e resterà la cenere. Meglio così. È come per Bob e Imelde.» Lentamente, nonostante la pioggia si faccia più fitta, ripassano il torrente e salgono alla curva della Leona. In cima, Santovito si volta per un'ultima occhiata al bagliore, che adesso è calato, e mormora: «Dal '44 al '60: quel falò, quel fuoco riapre un caso chiuso troppo in fretta.» Poi all'appuntato: «Dai, Chiaffalà, metti in moto che qui ce la stiamo prendendo tutta».
1960, ottobre, in caserma Il Lupo Non Mangia L'inverno Piove che dio la manda, come si dice da queste parti, e comincia a fare freddo. Il freddo di fine ottobre in montagna, che Santovito conosce bene. L'appuntato parcheggia la camionetta nel cortile della caserma. «Signor maresciallo, resti dentro che vado a prendere un ombrello» urla. «Lascia perdere che due gocce non hanno mai ammazzato nessuno» gli grida dietro Santovito, ma Chiaffalà è già dentro e non lo sente. Lo incrocia sulla porta, con l'ombrello già aperto. «Belin, signor maresciallo, ecco qua...» ma l'ombrello è inutile. «Si è bagnato per bene...» «Anche tu non scherzi, appuntato.» Il maresciallo Amadori mette fuori la testa dall'ufficio. Cerca di fare dello spirito: «Sei già qui, Santovito?». Ma è troppo nero per continuare con l'ironia. «Hai mandato a puttana tutti i miei impegni...» «Mi dispiace, Amadori» borbotta con poca convinzione Santovito. E lascia il collega nel corridoio per salire nella sua stanza. Prima di chiudersi dentro, sente Amadori che grida con Chiaffalà. «Una telefonata, appuntato! Una telefonata per avvertirmi che tardavate, cazzo! A rapporto nel mio ufficio.» «Se permette, signor maresciallo, mi cambio e...» «Subito, appuntato, subito! Ti cambierai dopo. La pioggia non ammazza.» «Che razza di coglione» borbotta Santovito. E si chiude in camera. Ha bisogno di un bagno caldo. La pioggia gli è entrata nelle ossa, non hanno ancora acceso il riscaldamento e la sua stanza-ufficio è gelida. «C'è da stare allegri.» Si affaccia sulle scale e anche lui grida: «Appuntato Chiaffalà!». Di corsa Chiaffalà esce dall'ufficio del maresciallo Amadori e anche lui si affaccia alle scale: «Comandi, signor maresciallo maggiore». «Cosa aspetti a far accendere il riscaldamento? Se la pioggia non ammazza» continua a gridare «come giustamente ha rilevato il maresciallo Amadori, da queste parti il freddo è micidiale.» «Provvedo subito, signor maresciallo maggiore.» Da quando sono rientrati in caserma, Chiaffalà insiste nell'aggiungere "maggiore" al solito "maresciallo" per far intendere, a chi deve intendere, che nell'Arma le gerarchie vanno rispettate. «Come siamo delicati, Santovito» grida Amadori dal suo ufficio. «Amadori, io di freddo ne ho preso abbastanza in Russia» gli rimanda sempre dalle scale Santovito. «Appuntato, quando avrai riscaldato il signor maresciallo maggiore, da me per il rapporto.» Chiaffalà comincia a non capirci più nulla. Intanto il suo dovere di subalterno sarebbe di rispettare la gerarchia, ma il suo superiore diretto è pur sempre il maresciallo Amadori Ares, da Ferrara. E chi gli assicura che, una volta ripartito il maresciallo maggiore Santovito Benedetto i suoi rapporti con Amadori torneranno normali? Per non saper né leggere né scrivere, fa più in fretta che può a accendere l'impianto di riscaldamento e, tre minuti dopo e sempre di corsa, bussa all'ufficio. «Chiaffalà, se ti ho convocato, puoi entrare senza bussare!» grida da dentro il maresciallo Amadori. L'appuntato entra e, arrivato a tre passi dalla scrivania del superiore, come prescritto dal regolamento, si sbatte sull'attenti e scatta in un enfatico saluto militare. «Riposo, riposo, Chiaffalà. Allora si può sapere dove sei finito?» «Col signor maresciallo maggiore Santovito...» «Questo lo so, Chiaffalà, ma dove siete andati a parare fino a quest'ora?»
Chiaffalà è a disagio: «Non so bene, signor maresciallo...». «Come sarebbe a dire "non so bene"? Mi prendi per il culo, appuntato? C'eri anche tu o no?» «Signorsì, signor maresciallo. C'ero anch'io, ma non del tutto.» Amadori sbatte una manata sulla scrivania. «Chiaffalà, se non la smetti, giuro perdio che ti faccio passare un brutto momento. Cosa vuoi dire che c'eri anche tu ma non del tutto?» Chiaffalà è sempre più a disagio e sottovoce gli sfugge un belin che non avrebbe voluto: «Signor maresciallo, vuol dire che ho accompagnato il signor maresciallo maggiore...» «Chiamalo semplicemente Santovito, che facciamo prima. Poi la mia pazienza ha un limite. Vuoi raccontarmi tutto senza tirarla per le lunghe?» «Signorsì, signor maresciallo. Allora, ho accompagnato il signor... Ho accompagnato Santovito con la camionetta alla curva della Leona dove lui è sceso e io volevo accompagnarlo ma lui mi ha detto di aspettarlo lì. Ha preso una macchina fotografica che non so da dove venga...» «Lo so, lo so, gliel'ho data io. A cosa gli è servita?» «Lo ignoro, signor maresciallo. Le ho detto che volevo seguirlo ma lui...» «... non ha voluto, lo hai detto. Dov'è andato?» Per Chiaffalà le cose si complicano sempre più e il suo disagio di subalterno aumenta tanto che comincia a balbettare: «Pre... presumo alla ba... alla baracca che c'era oltre il torr... oltre il torrente, in faccia al mo... in faccia al molino del Turco». Amadori cerca di contenersi perché capisce che il suo disappunto non fa che complicare le cose all'appuntato. «Va bene, Chiaffalà. Diamoci una calmata tutti e due.» «Signorsì, signor maresciallo.» «Allora, vediamo: Santovito è sceso al molino del Turco e... quanto è stato via?» «Direi un'ora, o più. È andato che era ancora giorno, è tornato che stava imbrunando.» Amadori sorvola sull"`imbrunando", che non è certo un vocabolo usuale per il Chiaffalà che lui è abituato a sentir parlare, e torna a un verbo che gli è rimasto impresso. Dice: «Un momento. Hai detto: la baracca che c'era. Cosa vuoi dire "che c'era"? Non c'è più?». «No, signor maresciallo, adesso non c'è più.» Nonostante l'impegno a controllarsi, Amadori riperde la pazienza. Batte un'altra manata sulla scrivania e si alza in piedi: «Chiaffalà, o sei deficiente o lo fai! Spiegami il mistero di questa baracca che c'era e non c'è più». Chiaffalà deglutisce a fatica: «Ecco, è che il signor... È che Santovito stava tornando su, allora mi ha chiamato, ha gridato: "Chiaffalà, corri!". Sono corso e ho visto che laggiù, oltre il torrente, la baracca stava bruciando. Siamo corsi giù tutti e due, ma quando siamo arrivati era già tutto bruciato, era crollato anche il tetto... Ecco perché ho detto che la baracca non c'è più...». «Allora che avete fatto?» «Abbiamo guardato per un po' il fuoco che andava spegnendosi e poi ha cominciato a piovere e siamo tornati su.» Il maresciallo ci pensa su e poi chiede: «E Santovito?». «Mi è sembrato molto... molto turbato.» «Imbrunando, turbato... Che parole adoperi, Chiaffalà? Santovito avrà detto qualcosa, no? Un commento...» «Signorsì. Ha parlato del '44 e del '60...» «Cosa fai, Chiaffalà? Dai i numeri del lotto?» «Signornò, signor maresciallo. Credo che parlasse degli anni, del 1944 e del 1960. Poi ha anche detto, e questo me lo ricordo bene, ha detto: quel falò, quel fuoco riapre un caso chiuso troppo in fretta.»
Il maresciallo Amadori ha altro materiale su cui riflettere. Infine chiede, sottovoce, questa volta: «Poi?». «Poi siamo montati sulla camionetta e siamo tornati qua.» Amadori fa segno che Chiaffalà ha il permesso di andare a cambiarsi. Finalmente. L'appuntato non ha ancora chiuso la porta dell'ufficio che il maresciallo prende una pila di fascicoli e li sbatte sulla scrivania. «Ma guarda te! Ma pensa te! Adopera il mio ufficio e la mia caserma come gli pare; prende la camionetta e i miei uomini e va a spasso per la montagna! Ma chi crede di essere? Adesso gli faccio vedere io!» Esce, sbatte la porta, passa dinanzi all'allibito Chiaffalà e grida ancora: «Adesso gli faccio vedere io! Non finisce qui, no, non finisce proprio qui!». Due minuti e l'Abarth urla nella tranquilla serata di montagna, per un istante i fari inquadrano le finestre della caserma illuminando l'interno, le gomme stridono sull'asfalto bagnato della statale e il rombo del motore su di giri si perde verso valle. È una di quelle sere piovose d'autunno che danno ragione al detto montanaro "il lupo non ha mai mangiato l'inverno". È una di quelle sere che avvertono i montanari della neve lì, dietro la porta, anche se non sarebbe tempo. È una di quelle sere nelle quali Santovito non se la sente di restare solo, chiuso in camera. E poiché nella sua stanza non hanno ancora montato la derivazione per il telefono, come promesso dall'appuntato, è costretto a ricorrere ancora all'ufficio del titolare della caserma. «Mi serve il telefono» dice entrando. Il maresciallo Amadori non alza neppure il capo dalle carte. «Pronto, sì. Sei tu, Cleto? Sono il maresciallo Santovito. Manda Stelio con l'auto a prendermi in caserma. Non me la sento di salire alla Mezzacosta sotto l'acqua.» Una pausa d'ascolto e poi: «Sì, per cenare da te. In due, sì, hai capito perfettamente. Avvertila tu, grazie. Fra venti minuti, mezz'ora» e chiude. «Grazie Amadori» dice prima di lasciare l'ufficio. «Guarda Santovito che c'è il centralino nell'ingresso» borbotta il collega. «È a disposizione di tutti, compresa la truppa e anche per telefonate private.» I rapporti fra i due cominciano a essere un po' troppo tesi. «Lo terrò presente per la prossima, maresciallo. Non volevo far sapere alla truppa che non mi fido del rancio» e Santovito va a aspettare Stelio seduto nell'ampio ingresso per il piantone, ma che fa anche da centralino telefonico, da ufficio per la stesura delle denunce e da sala d'aspetto per il pubblico. Ha il tempo per un sigaro. Che accende, ma, mischiato al fumo, gli arriva un decente profumo di cose da mangiare che non riesce a decifrare. Mette la testa in cucina. «Oh, Chiaffalà, che stai facendo di buono?» «Trenette col pesto, signor maresciallo...» «Buone. E il basilico, di questa stagione?» L'appuntato apre un vasetto, annusa e lo porge a Santovito che pure annusa e ripete: «Buono. E il basilico?». «Vengo dalla Liguria, signor maresciallo...» «Be', su questo ci sarebbe da discutere, Chiaffalà...» ma l'appuntato non accetta dubbi e va avanti per la sua strada. «... il basilico lo coltivo io nel giardino, lo colgo al momento giusto, preparo il pesto e lo metto in tanti vasetti che poi copro di olio, così si mantiene. Olio ligure naturalmente. Me lo manda un collega... Sentirà che trenette, signor maresciallo. Altro che le mezze maniche del maresciallo Furci...» Santovito lo interrompe: «Mi dispiace, Chiaffalà, ma questa sera ceno fuori. Sarà per un'altra volta. Anzi, ti lascio perché non voglio rovinare il profumo del tuo pesto con il sigaro» e fa per tornare nell'ingresso. «Ah, Chiaffalà, mi serve la derivazione del telefono. Mi serve anche quella stufetta per la mia stanza.»
«Clemente mi ha giurato che domattina farà il lavoro, signor maresciallo. Per la stufetta... Non l'ho trovata. Bisognerebbe fare un buono e spedirlo all'economato, ma ci vogliono dei mesi e se aspettiamo la burocrazia del comando, ci arriva l'estate prossima...» «Fai una cosa, Chiaffalà: chiedi al Frabbone. Lui ne ha di sicuro una che non usa. Ha l'officina piena di cose inutili. Digli che è per me. In prestito, naturalmente.» «Lo farò» e l'appuntato torna alle trenette per la truppa. Le trenette scotte sono il peggior disastro che potrebbe cascare addosso a un cuoco ligure come Chiaffalà. Un leggero vento freddo prende d'infilata le case grigie del paese; la pioggia aumentata batte sul parabrezza e i tergicristalli non ce la fanno e batte forte anche sul tettuccio del Millecento; la strada stretta e ripida per la Mezzacosta è diventata un torrente. L'acqua scorre a rivoli giù, verso il paese. Per Santovito, Stelio guida con troppa disinvoltura, anche se conosce a memoria ogni curva e ogni buca. Guida e spesso, troppo spesso, guarda Santovito e gli sorride. «La strada, Stelio, la strada. Cosa c'è? Ho il viso sporco?» Stelio nega con il capo. «Allora che c'è?» Il giovane indica la divisa. «Ah, non mi avevi già visto in divisa?» Stelio annuisce. «Be', abituati perché per un po' mi vedrai così.» Stelio abbandona con la destra il volante e a gesti chiede se Santovito resterà in paese a lungo. «Tieni le mani sul volante, Stelio, che ci parliamo dopo. Non so quanto resterò. Ho l'impressione che siate tutti preoccupati per il mio ritorno.» "No, no" fa capire Stelio, sempre a gesti e per nulla preoccupato dalle raccomandazioni del maresciallo. "No, no, io sono contento di rivederti." «Sei uno dei pochi, credo. Anch'io sono contento di rivederti, ma mi piacerebbe che prendessi la patente. Hai già l'età?» No, Stelio non ha ancora l'età per la patente, ma la prenderà, la prenderà di sicuro. Scendono dal Millecento davanti alla casa di Stelio e il vento li prende di traverso, più forte e più gelido che in paese, e buca il pastrano. Anche la pioggia è diventata di ghiaccio e Santovito, che non ha vissuto invano fra quei monti, sa che presto sarà neve.
1960, ottobre, alla Mezzacosta Della Contessa, Della Sua Cameriera E Di Stelio Nel 1939 Benedetto Santovito fu sbattuto lassù da alcuni gerarchi fascisti di Bologna che non accettavano che un giovane maresciallo dei carabinieri si permettesse di indagare sui loro figli, sospettati di alcune azioni criminali piuttosto pesanti. Ci mise qualche tempo, Santovito, prima di diventare per tutti il signor maresciallo. Il che significava essersi guadagnato la stima della gente, cosa piuttosto rara per la diffidenza dei montanari verso gli ultimi arrivati e verso i carabinieri in particolare. Arrivò in paese e trovò la Mezzacosta. Ci abitava la contessa, spedita dal marito, un noto avvocato di Bologna, si diceva, per un problema di corna. I montanari più informati, quelli che ogni tanto scendevano in città, raccontavano, e con risatine complici ma comprensive, che il signor avvocato avesse sorpreso la signora contessa fra le braccia dello stalliere. Una storia d'altri tempi. Allora la Mezzacosta, alta sopra il paese in posizione dominante e visibile da lontano, era l'unica costruzione in mattoni. Ci saranno voluti mesi e mesi a trasportarli fin lassù dalla fornace che sta nel paese allo sbocco della valle. Una processione di carri tirati da buoi. Ci si arrivava per una mulattiera stretta, sconnessa e sassosa che durante le piogge dell'autunno e di primavera diventava un torrente. Grandi finestre al piano terra e al primo piano e piccole asole sotto lo sporto del tetto per dare aria alla soffitta dove, su ripiani di arelle, finivano di maturare le mele e si conservavano i pomodori per un bel po' dell'inverno. Un largo corridoio al piano terreno attraversava la costruzione e vi si aprivano tre stanze per lato. Sulla destra, e cioè disposti a mezzogiorno, sala da pranzo, salotto e salone con camino; a nord, la grande cucina, la stanzetta di Stelia, la cameriera della signora contessa, e poi lo sgabuzzino e la dispensa. Poco prima che la signora contessa venisse ad abitarci stabilmente, l'avvocato suo marito aveva fatto costruire un gabinetto con bagno. A metà corridoio c'era lo scalone che portava al primo piano dove erano le camere da letto. Dietro la Mezzacosta, più a ridosso del monte e abbastanza lontana perché non arrivasse al naso dei nobili il sano odore del letame, c'era la casa colonica. L'abitava il vecchio Bartolomeo. Era scoppiata la guerra e Santovito, sempre per la sua intolleranza al fascismo, mai abbastanza nascosta, era stato spedito in Russia, nell'ARMIR con un battaglione di carabinieri. Nella primavera del 1960 Santovito era tornato come turista, forse per nostalgia, forse per ritrovare il senso del tempo perduto. La Mezzacosta era un albergo e la strada per salirci, asfaltata, ma sempre ripida come la vecchia mulattiera, se pure più larga di come la ricordasse. Per il resto, tutto come allora. Il muro di sassi che recinta giardino e fabbricato ha le due aperture e cioè cancello carraio di fronte alla facciata principale e cancelletto sul retro per collegare la casa padronale alla casa colonica. L'uno e l'altro sempre spalancati come allora e forse non si riuscirebbe a chiuderli tanto sono arrugginiti e scardinati dal tempo. Davanti e dietro la casa il terreno è quasi in piano e, quando piove, l'acqua non scorre via, come nei campi attorno, e la terra ha il tempo per assorbirla. Ci crescono alberi e l'erba del prato è verde. Un pezzo di terra che, se coltivato, darebbe buoni frutti. Nella casa colonica, anch'essa ristrutturata e intonacata a nuovo e tinteggiata con uno sgradevole colore rosa pallido che non appartiene alla tradizione montanara, ci abita Stelio. Gliel'ha lasciata per testamento la signora contessa, non si sa perché. Diventata albergo, la struttura esterna della Mezzacosta non era cambiata: la solita imponente struttura a dominare il paese. Qualche modifica interna: il largo corridoio, una sala da pranzo, il salone con l'enorme camino dinanzi al quale Santovito e la contessa... Ma erano passati troppi anni.
Era cambiato l'arredamento: una quantità di tavoli in acciaio e formica apparecchiati per quattro. In acciaio e formica anche le sedie e nell'aria lo sgradevole odore di minestrina in brodo che qui chiamavano matto. A sinistra del corridoio, la grande cucina e la dispensa. Sulla terza porta, che ai tempi della contessa chiudeva la camera di Stelia, una targhetta in plastica con la scritta "privato". Di Stelia, la cameriera della signora contessa, gli avevano raccontato la fine. Era una di quelle ragazze bolognesi di poca paura, che dicono ciò che pensano, che sanno di piacere agli uomini, che non nascondono dietro un falso pudore la voglia di fare l'amore. Stelia era una di quelle ragazze bolognesi che se lo poteva permettere. Aveva l'aspetto sano delle popolane. Se n'era andata di casa che aveva quattordici anni perché non sopportava come suo padre trattava sua madre e come suo padre le prendesse, ogni settimana e appena rientrava, la paga ricevuta dalla contessa. Unico suo dispiacere, vivere fra questi monti dove la contessa si era ritirata. A Bologna aveva lasciato molti rimpianti e molti se li era portati alla Mezzacosta. I primi tempi quando, passata l'estate, non si parlava ancora di tornare a Bologna, Stelia chiese: «Signora contessa, quando torneremo?». Lo richiese alla prima neve e nella primavera che seguì, ottenendo sempre la stessa risposta: «Non lo so, Stelia, proprio non lo. Stai male qui? Ti manca qualcosa?». Avrebbe voluto dire "Sì, mi manca questo e questo e questo" ma rispose: «No, signora contessa, non sto male e non mi manca niente, ma la città è un'altra cosa». Da quella estate altre ne passarono e Stelia ci morì alla Mezzacosta. E come non avrebbe mai immaginato. La Mezzacosta stava sotto il monte e quindi nascosta agli aerei alleati che spuntavano dai monti a sud e non facevano a tempo a vederla e già erano passati oltre le cime dall'altra parte della valle. La Mezzacosta dominava la vallata e teneva sotto tiro la strada per il valico. Per questo il colonnello della Wehrmacht l'aveva scelta come sede del suo comando. Il giardino era diventato parcheggio per automezzi militari e alla Mezzacosta non si dormiva né di giorno né di notte. Quando non erano i cannoni degli Alleati, erano i soldati che arrivavano o partivano. Un inferno, soprattutto per Stelia che era incinta e aveva bisogno di calma. Fu alle cinque del pomeriggio che Stelia sentì arrivato il momento; sopportò il dolore fin che poté, poi salì dalla contessa e, per la prima volta da quando era al suo servizio, le entrò in camera senza bussare. La contessa era in poltrona, accanto alla finestra e leggeva. Ornella ne aveva fatti nascere una tale quantità che neppure ricordava quanti. Arrivò alla Mezzacosta a bordo dell'auto che il colonnello della Wehrmacht, dietro richiesta della contessa, le aveva fatto trovare dinanzi alla porta di casa. Corse nella stanza della ragazza. L'ultimo grido di dolore di Stelia fu coperto dalla prima cannonata degli Alleati. Poi si scatenò un finimondo che andò avanti per più di un'ora e il neonato capì subito in che razza di mondo era arrivato. E grazie a dio se gli mancò solamente la parola, che poteva nascere peggio. La levatrice rimase accanto a Stelia tre giorni e tre notti, ma nonostante la sua esperienza e gli sforzi, per la ragazza le cose si misero male e quando don Merigo arrivò alla Mezzacosta, chiamato con urgenza sempre grazie al telefono del colonnello, somministrò una estrema unzione e un battesimo: «Come lo chiamiamo, signora contessa?» «Stelio, lo chiamiamo Stelio, come la sua povera madre» mormorò la contessa. Prima nessuno l'aveva mai vista piangere. Dicevano che la contessa fosse una donna dura, senza sentimenti. Una volta partiti i villeggianti, i più resistenti se ne vanno verso la metà di settembre, alla Mezzacosta restano pochi clienti. Al momento sono un professore di origine fiorentina che trascorreva le vacanze in paese e una volta andato in pensione ha scelto di finire qui i suoi giorni; un
geologo che sta facendo rilievi in una zona franosa di questa parte dell'Appennino; un mediatore di terreni edificabili che ha nasato la possibilità di lottizzare una vasta area di terreni agricoli, da nessuno più curati, per costruirvi seconde case da vendere ai villeggianti; Stelio, incaricato abusivamente del trasporto in auto dei clienti da e per il paese e Raffaella che quando non ha voglia di prepararsi da mangiare, e cioè spesso, esce di casa, attraversa il giardino e cena alla Mezzacosta. Insomma, per Cleto è più una rimessa, ma si rifà i fine settimana perché si è sparsa la voce che alla Mezzacosta si mangia bene e la gente di città, che ha fatto su un po' di lira, si concede pranzi o cene al ristorante. Arrivano in paese con la Seicento e, se hanno voglia, salgono alla Mezzacosta a piedi. Una passeggiata. Per tornare in paese dopo mangiato, c'è sempre il Millecento di Stelio. Padre, madre e figli. Spesso anche qualche nonno. In quelle occasioni salgono alla Mezzacosta anche tre o quattro del paese. Servono ai tavoli, lavano i piatti, si occupano delle pulizie. In cucina c'è l'Adelina, anni sessanta, vedova che ha fatto esperienza alla mensa della canapiera. L'hanno chiusa, la canapiera, e l'Adelina ha trovato posto da Cleto. È piuttosto brava e se la gente viene alla Mezzacosta, la colpa è solo sua. Quando cucinava Cleto, non accadeva che tornassero a mangiare la seconda volta. Si è rifatto vivo anche Lorenzo, detto Mandarino, che era scappato con un cliente qualche mese fa, in piena stagione di villeggiatura lasciando nei guai Cleto. In lacrime si è presentato dal titolare, gli ha spiegato che quel farabutto è sparito con i soldi, ha chiesto perdono e la cortesia di essere riassunto, che non capiterà più. «Mandarino, lo sai che mi hai lasciato nella merda? Con tutti i clienti da servire...» gli ha risposto Cleto. Lorenzo ha annuito a capo chino, ha poi sollevato lo sguardo sul principale, ha mormorato: «Signor Cleto, per piacere non mi chiami Mandarino» e è andato a indossare la divisa da cameriere. Che gli sta bene. Uno dei pochi.
1960, ottobre, alla Mezzacosta La Prima Neve Solo una lampada è accesa nell'angolo opposto alla porta d'ingresso. Riesce appena a schiarire la penombra della grande cucina. È il baluginare del camino acceso che dà colore e vita alle cose e al viso della donna. In questa cucina sono passate generazioni delle quali gli ultimi rappresentanti sono Raffaella, seduta dinanzi alla fiamma, e Stelio che si toglie di dosso il gocciolante impermeabile incerato e lo appende a un chiodo, dietro la porta. La fiamma e il fumo e le faville, che i montanari chiamano "fialimmole", salgono veloci, aspirate dal freddo che c'è fuori e mandano attorno il profumo di legna bruciata. Raffaella si alza e si presenta a Santovito con il viso buio: «Cos'è la novità? Non ti fai vedere per giorni...» dice. «Scusami, ho avuto da fare» la interrompe Santovito. «... e poi mi arriva in casa Cleto con un regolare invito a cena.» «Che tu non hai accettato, vedo.» «Mancano solo un mazzo di fiori e un regalino per tenermi tranquilla.» «Non è stagione di fiori. Per il regalino, poi... Trovarne uno in paese è difficile. Specie a quest'ora. Accetti o no l'invito a cena?» «Non so ancora. Dipende.» «Da cosa?» «Da come ti giustificherai, accidenti. Credi che io sia a disposizione?» «No, ma il mio lavoro...» «Il tuo lavoro!» Raffaella risiede dinanzi al fuoco e dà la schiena a Santovito. «Non so neppure cosa sei tornato a fare in paese...» «Questa sera lo saprai.» Raffaella si gira e lo guarda stupita: «Davvero mi farai questo onore?». «Non vedo perché tu non debba saperlo. Ormai anche l'indagato sa cosa sono venuto a fare. O gli indagati, che ancora non so.» «Allora vengo a cena» dice allegra Raffaella. Si alza. «Due minuti e sono pronta.» Di corsa infila la scala di legno e sparisce al piano di sopra. I suoi passi sulle tavole dei pavimenti. Finalmente Stelio, tenutosi in disparte perché la disputa non lo riguardava, batte una mano sulla spalla di Santovito e mostra, sollevato a mezz'aria, un fiasco aperto e indica la tavola con sopra i bicchieri. «Hai ragione» conviene il maresciallo. «Conosciamo i minuti delle donne. C'è il tempo per un paio di bicchieri e per una tirata» e mentre Stelio versa il rosso, lui ammorbidisce un sigaro fra le dita, con le molle raccoglie una brace dal fuoco e lo accende. Siedono al tavolo e sorseggiano. Stelio aspira un po' del fumo del sigaro, fa segno che è buono, che gli piace e indica il camino. «Sì» dice il maresciallo, «il profumo del sigaro sta bene con l'odore del camino. Tu non fumi ancora?» Stelio fa segno di no con il capo. «Vuoi cominciare?» e gli offre la scatola. Il giovane continua a scuotere il capo e agita le mani davanti al viso. «Se guidi senza avere l'età, puoi anche fumare il sigaro, no?» No, Stelio non è d'accordo, il rosso è gradevole e può essere un buon aperitivo. Ne mandano giù due bicchieri, a piccoli sorsi, e fanno a tempo a versarne un terzo, prima che Raffaella scenda le scale, con rumore di tacchi. Sugli ultimi gradini si ferma, si mette in posa e, nella penombra della grande cucina, si lascia ammirare. Indossa un abito leggero di lana chiara, che le resta un po' sopra le ginocchia e con appena un accenno di scollatura; sopra, ha messo una giacca aderente, che tiene
sbottonata, anch'essa di lana ma di colore più scuro della gonna; calze velate e scarpe scure con un po' di tacco. Sorride. È una bella donna e a Santovito spiace essersi presentato a mani vuote. E in divisa, oltretutto. Le offre il braccio e si avviano. Di corsa li precede Stelio, strappa l'impermeabile dal chiodo, se lo sbatte sulle spalle, apre la porta, fa segno di aspettare, corre all'auto, ci monta e viene a caricare i due tanto vicino all'ingresso della cucina che Raffaella, per salire, nemmeno si bagna i capelli. Anche nella sala della Mezzacosta il camino è acceso. I pochi clienti sono al caffè e Cleto dà gli ultimi tocchi al tavolo piazzato a due dita dal fuoco. Sa dell'avversione del maresciallo per il freddo. Chiede: «Va bene qui, vicino al camino?». «Mi fa piacere, tu non sai quanto.» «Forse lo so. Qualcuno mi ha parlato di un certo tavolo del maresciallo.» Quando in paese l'osteria si chiamava osteria e non Ristobar e era tenuta dalla Serafina e da Parsuès, siamo attorno al '40, c'era sempre un tavolo riservato, vicinissimo alla stufa, che i montanari chiamavano "il tavolo del maresciallo", e dall'autunno alla primavera, ogni sera che Dio mandava in terra, aspettavano che il pastrano di Santovito prendesse fuoco. Non è mai accaduto, ma bisognava capirlo, il signor maresciallo: veniva da un paese del Sud e nella casa della sua infanzia e della sua prima giovinezza, la stufa l'avevano accesa sì e no quattro volte. «Cos'è la stufa del maresciallo?» chiede Raffaella. «Una storia degli anni Quaranta. Te ne parlerò» la rassicura Santovito. «Serata memorabile» gli mormora all'orecchio Raffaella. «Saprò cosa sei tornato a fare in paese e conoscerò un segreto della tua infanzia.» «Infanzia: non esagerare. Ho detto anni Quaranta, appena venti fa.» «Appunto: eri un bambino.» Mangiano e mangiando parlano di tutto tranne quello che si aspettava Raffaella. Ma lei sa che con Santovito non bisogna forzare. E bevono, anche, bevono in abbondanza di un rosso più che gradevole. Tanto che, allo sgocciolo, il maresciallo fa segno a Cleto di avvicinarsi e gli dice: «Tieni da parte un paio di questi fiaschi. Non è escluso che torni a trovarti prima di riprendere la strada di casa.» «E il mangiare?» chiede Cleto. «Com'è stato il mangiare?» Santovito, bicchiere in mano per l'ultimo sorso, indica Raffaella: «È lei l'esperta di cucina». Cleto la guarda e aspetta. Raffaella parte da lontano: «Ti dirò: quando sono arrivata qui, la tua cucina non era granché. Anzi... Per dire: non ho mai assaggiato una minestrina in brodo come quella che mi mettesti davanti la sera del mio arrivo. Insipida, insulsa, non sapeva né di questo né di quello... Insomma, da fare una croce sul tuo locale e girare alla larga.» Anche Raffaella si prende il tempo per l'ultimo sorso e con calma posa anche il bicchiere. «Una brutta sera che non mi andava di mettermi a tavola...» Sospende e si rivolge a Santovito. «Il giorno della tua partenza. Ero proprio scoglionata, signor maresciallo.» Torna a Cleto: «Be', quella sera ho mangiato bene, ma proprio bene e mi sono ricreduta sulla tua cucina, signor Cleto.» «Io c'entro poco. La colpa è di Adelina. Cucina toscana. Da quando ho messa quella là ai fornelli...» e fa per tornare al banco. «I crostini al pollo erano fantastici. Le pappardelle alla lepre... Non ti dico dei cardi trippati. Insomma, l'Adelina sarebbe da sposare.» «Se vuoi te la presento, ma devi sapere che è attorno ai sessanta. E non apprezza il matrimonio fra
donne» dice Cleto. Torna con una bottiglia senza etichetta e la posa sul tavolo assieme a due bicchierini. «Questo per finire in bellezza» e li lascia soli. Soli in tutti i sensi, perché i pochi avventori hanno finito da un po' e sono saliti nelle stanze. C'è il silenzio delle notti in montagna, con la pioggia che continua a battere sul tetto e, nel camino, l'ammasso di braci scure macchiate di cenere, vive solo perché, ogni tanto, scoppiettano e mandano su, lungo la canna, gli ultimi segni di fumo chiaro e le ultime "fialimmole". Raffaella posa le sue mani su quelle di Santovito e dice: «Forse è ora di andare a letto». Nella stanza di Raffaella non è freddo. Ci passa la grossa canna fumaria del camino e Stelio, prima di andare a dormire, ha messo una quantità di legna sul fuoco. Brucerà per una buona parte della notte e, domattina, sotto la cenere, ci saranno ancora le braci. Fanno l'amore. Poi parlano. Santovito comincia così: «Se hanno bruciato la baracca del molino del Turco, vuoi dire che l'assassino sa cosa sono venuto a fare. Puoi saperlo anche tu». E racconta. E fa leggere a Raffaella la lettera di Imelde. E le mostra le foto, arrivate dal laboratorio del comando e scattate alla baracca prima che la riducessero in cenere. Poi tacciono, forse pensano o sono semplicemente stanchi di pensare. «I e erre» mormora infine Santovito all'orecchio di Raffaella. «Imelde e Roberto. Ma cosa vogliono dire i, pi, elle, vu?» Raffaella si toglie dalle braccia di Santovito, si solleva per guardarlo in viso e chiede: «Davvero non lo sai?». Lui nega con il capo e lei gli sorride. Come ha fatto lui prima, adesso è lei che gli posa la bocca sull'orecchio per mormorare: «I, erre, i, pi, elle, vu: Imelde e Roberto insieme per la vita». Poi scuote il capo: «Non sono stati insieme per molto». «L'ho sempre detto che le donne hanno più sensibilità degli uomini» e la bacia, ma Raffaella dice, fra le loro labbra: «Lo credi davvero?» Santovito annuisce. Un mattino freddo nella camera di Raffaella. Dai vetri appena appena appannati entra troppa luce per un'alba ancora non spuntata. Cautamente, per non svegliare Raffaella, Santovito scende dal letto, scosta le tendine e trova gli alberi imbiancati da una spruzzata di neve.
1944, novembre, alla piana del Falchetto Le Ragazze Romane Sono Belle Erano passati giorni dalla fucilazione del partigiano Bob e dall'indagine che Salerno era stato costretto a interrompere, appena cominciata, perché certi segnali facevano pensare che il fronte alleato si sarebbe finalmente mosso. Si aspettava solo l'annuncio di Radio Londra "La gallina ha fatto l'uovo" e le brigate si sarebbero mosse, ognuna con un preciso obiettivo. Non c'era tempo né per Bob né per i massacrati delle Piane. Dopo, a guerra finita, chissà... In attesa che la gallina facesse l'uovo, i comandi partigiani avevano intensificato i turni di guardia sui passi da dove i tedeschi, si sperava in rotta, avrebbero preso la strada per il Brennero e non si sarebbero fermati nemmeno sul Po. A Salerno toccò il turno del pomeriggio. Assieme a Capurèl, bolognese di Broccaindosso alto esattamente com'era alto Vittorio Emanuele III, Sciaboletta, come lo chiamava lui. E proprio per non essere abbastanza piccolo, fu costretto a andare sotto le armi, in fanteria. Tre mesi dopo, e prima di spedirlo al fronte, lo fecero caporale, lui non seppe mai perché. «Forse fanno caporali tutti i soldati piccoli come Sciaboletta» si giustificava. Quando le cose andavano male, e cioè spesso, ripeteva: «Aziddnt a crasser. Non potevo fermarmi mezzo centimetro prima?». «E Florinda come avrebbe fatto a vederti?» lo sfotteva Luzzo, altro bolognese di Broccaindosso arrivato quassù assieme a Capurèl. Florinda era la ragazza che Capurèl aveva lasciato nel Pratello. «Chèro te sóc' mel» gli rimandava quello. Lui e Salerno erano di guardia all'osservatorio. Chiamarlo osservatorio era presuntuoso: una buca scavata sul crinale che guardava la statale Bologna-Pistoia. L'avevano ricoperta di legni e di frasche in modo che ci si stava dentro in piedi, comodi, e si era per metà fuori terra, ma coperti e non visibili. Qualcuno, forse Capurèl, ci aveva messo dentro un paio di zocche che potevano servire per sedersi. O per arrivare con l'occhio alle aperture, se si era più bassi della norma. Fino a quel momento, nessun movimento sulla statale. Nel tardo pomeriggio, un vento freddo da nord s'infilò fra le fessure dei legni e cominciò a scuotere le frasche del tetto. «È il bel tempo che arriva» disse Capurèl. E si fasciò più stretto nei suoi blocchi. Il cambio arrivò un'ora prima del previsto. «Cosa succede?» chiese Salerno ai due che li rilevavano. «Ti vuole Toni, giù al comando.» «Un'altra rogna» borbottò Salerno. «Cosa t'importa, Salerno?» disse Capurèl. «Andiamo giù a scaldarci un po' e a bere qualcosa di caldo.» «Te no, Capurèl» disse uno del cambio. «Te resti qui con noi. Sei occhi vedono meglio di quattro. Soprattutto nel buio. E questa notte se ne vedranno delle belle.» Entrò al comando. Toni era chino sulla radio a batteria e cercava di sintonizzarsi, ma dall'apparecchio uscivano solo scariche. Il borbottio, insoddisfatto e a denti stretti, era di Toni. «Niente, niente da fare!» Lasciò perdere e guardò Salerno. Disse: «Sto perdendo la calma. Ci capisci qualcosa?». «Ne ho avute fra le mani quand'ero in Russia. Funzionavano male anche allora. Fai vedere.» Toni lasciò il posto a Salerno che per un po' "lambiccò" con i tasti, cercò di sistemare qualche filo all'interno dell'apparecchio, di collocare meglio le valvole nelle loro sedi, ma continuò a ricevere scariche. Rinunciò.
«Se mi hai fatto rientrare per questo...» «No» disse Toni «non per questo. Dovrebbe esserci un lancio questa notte. Tu sai dove e come e dovresti andare...» «Proprio una bella notte per un lancio. Nuvole basse, tempo da lupi, forse nevicherà...» «Non ci posso fare niente, Salerno. Ieri sera quella...» e indicò la radio «... quella funzionava e abbiamo sentito che "le ragazze romane sono belle". Se lo ripetono anche stasera, il lancio è confermato. Ma quell'accidente...» e di nuovo indicò la radio «...non ne vuole sapere. Per non correre il rischio di perdere il lancio, è meglio che ci prepariamo come se ci fosse. E ci sarà, se hanno deciso, come sembra, di muovere il fronte. Era ora. Sono fermi da mesi a un tiro di schioppo da qui e non capisco cosa stiano aspettando. Il lancio ci sarà, ci sarà perché ci vogliono ben armati e pronti a dargli una mano. Ci saremo anche noi, Salerno, e tocca a te, come l'altra volta. Le modalità le conosci. Sono le stesse.» Nella zona, il posto più adatto ai lanci era la piana del Falchetto, lontano dal paese, in alto e sufficientemente pianeggiante e ampia perché i paracadute non finissero chissà dove. Ma soprattutto la piana era circondata da una fitta boscaglia che impediva, o almeno limitava, il propagarsi a valle della luce dei fuochi per la segnalazione agli aerei. Notte da lupi, come aveva detto Salerno. E un vento che si faceva sempre più freddo man mano che i tre salivano. Con la possibilità di un viaggio inutile. Nessun pilota si sarebbe azzardato a volare basso con quel tempo. Di buono ci fu che, arrivati alla piana, il vento si era chetato, le nuvole si erano ancora abbassate e nascondevano boschi, burroni e paesi, in basso, sgomberando sopra di loro un cielo stellato che faceva meraviglia e la luna splendeva come in una notte di primavera. Notte straordinariamente adatta a un lancio, perché da valle non avrebbero visto né i falò né l'aereo. Ma c'era il gelo che fece intorpidire le mani nella raccolta di foglie secche, arbusti e sterpaglia secca per i falò. Ne prepararono quattro. Le buche erano pronte dagli altri lanci. Verso le dieci, nel silenzio della montagna, Salerno sentì, distante, il ronzio, ormai conosciuto, dell'aereo. «Forse ci siamo» disse. «Tenete orecchie e occhi aperti.» «Accendo?» chiese Musone. «No, aspettiamo. C'è una procedura da rispettare.» Il rumore si avvicinò e videro la sagoma, alta nel cielo, del Lysander che volava senza nessuna luce accesa. Sorvolò la piana e si allontanò. Salerno disse: «Se ripassa, io gli faccio il segnale e voi tenetevi pronti a accendere i falò». Passarono pochi minuti e il rumore dei motori si rifece sentire. Poco prima che il Lysander arrivasse a perpendicolo sulla piana del Falchetto, Salerno accese e spense la lampada a pila a formare tre volte la sigla okay nell'alfabeto Morse luminoso: tre linee e un punto e mentre l'aereo si allontanava ancora, Musone e Luzzo accesero i quattro falò. Pochi minuti dopo l'aereo ripassò, più a bassa quota, e cominciò il lancio. Contarono quindici ombrelli chiari nella luce della luna che, per la mancanza del vento, scesero quasi in verticale e si posarono sulla piana del Falchetto docili e dolci come fiocchi di neve. Cominciarono a trasportarli nel sottobosco. All'alba sarebbero saliti altri partigiani che, assieme a contadini, li avrebbero trasportati al comando dove i "bossoli" sarebbero stati aperti e armi e viveri distribuiti. La seta dei paracadute sarebbe diventata stoffa per le camicie dei montanari o gonne per le loro donne che di seta non ne avevano mai indossata. La notte procedeva, aumentava il freddo e le nuvole salirono di nuovo, tornarono a coprire la piana del Falchetto ma ormai non serviva più il cielo stellato. Salerno ripensò al gelo della campagna di Russia. Stavano trasportando gli ultimi "bossoli" e sentirono muoversi qualcosa poco distante. Salerno
fece segno ai due compagni di ripararsi dietro i tronchi delle querce. Imbracciarono i mitra, Musone bestemmiò, e aspettarono. Più nessun rumore. Passarono lunghi, silenziosi minuti. Musone, poco distante da Salerno, disse: «Se era un animale, era un animale bello grosso. Che si fa?». Salerno fece segno: non c'era altro che aspettare. E aspettarono. Poi: «Vediamo di non farci male, ragazzi» gridò qualcuno poco lontano, nella boscaglia. «Vediamo di metterci d'accordo.» «Quella voce...» mormorò sempre Musone. «Quella voce io la conosco.» «E chi sarebbe?» «Non ho capito. Fallo parlare ancora.» Salerno urlò: «Siamo in molti...» «Be', in molti. Siete in tre.» «Siamo armati.» «Anche noi! Solo che noi sappiamo dove siete e voi non sapete dove siamo noi. Adesso mettete a terra le armi e venite fuori con le mani alzate, così non si farà male nessuno...» «Tango!» urlò Musone. «Cosa ti salta in mente, Tango! Siamo noi. Musone, Salerno e Luzzo!» «Venite fuori lo stesso con le mani alzate.» Musone guardò Salerno. «Sono quelli della Garibaldi. Che facciamo?» «Esco io. Voi tenetevi pronti» rispose Salerno. Mise il mitra a tracolla e uscì da dietro il tronco. «Eccomi» gridò. Nella calma di vento e dalle nuvole sulla piana del Falchetto, caddero i primi lenti fiocchi di neve. Gli si sciolsero sul viso. L'alba arrivò luminosa sulla piana del Falchetto e la prima neve del '44 aveva cominciato a imbiancare legera i tronchi degli alberi e le foglie secche del sottobosco. Le cime dei monti ancora visibili, alti attorno, ne erano ormai coperte e presto sarebbe scesa giù, verso valle. Con Tango, Salerno si mise d'accordo presto; assieme avrebbero trasportato al comando i "bossoli" paracadutati dagli Alleati e lì, assieme al comandante Toni, si sarebbero divisi armi e viveri. «Le sigarette soprattutto» disse Tango. «Tu non sai quanto ci manchino le sigarette.» , «Lo so. A me mancano i sigari. Non so cosa darei per un sigaro, adesso.» Tango sorrise, frugò nella tasca interna del giaccone, prese fuori e annusò un sigaro. Che poi porse a Salerno. «Te lo regalo» disse Tango. Salerno se lo rigirò fra le dita indurite dal gelo: «Non credo ai miei occhi. Pensavo non esistessero più».
«Ce ne sono ancora. Pochi, ma ce ne sono. Questi ce li ha portati su una nostra staffetta da Pistoia.» «Facciamo a metà» disse Salerno. Tango negò con un cenno del capo e disse: «Non fumo sigari. Questo me l'ha regalato uno dei miei per i casi d'emergenza, in modo che per un po' il fumo mi faccia schifo.» Indicando i "bossoli" ammucchiati, cambiò discorso: «Voi siete dei privilegiati. A noi i lanci li promettono solo e non li fanno mai». «Come hai saputo?» «Abbiamo una radio a batteria anche noi...» Prima di riprendere la strada per il comando, Salerno assaporò lentamente il fumo di un sigaro che aveva desiderato più di qualsiasi altra cosa. Il fronte non si mosse e quello del '44 fu uno degli inverni più infami mai arrivato da anni in qua
su questa parte d'Appennino.
1960, novembre, in caserma e nel paese di Furci Un Testimone La poca neve caduta nella notte se ne sta andando. La spruzzata ha solo ricordato ai montanari di stare in orecchio che l'inverno c'è e se non è ancora arrivato, arriverà. Stelio li ha portati in paese molto presto. Con calma fanno colazione da Ciccio, al Ristobar, poi Santovito accompagna Raffaella davanti alla scuola e lui rientra in caserma. Trova un maresciallo Amadori che, finalmente tranquillo, lo saluta allegro e gli dice: «Quando sei in comodo, vieni nel mio ufficio che prendiamo il caffè assieme.» «Sono già in comodo.» «Appuntato» urla Ares, «due caffè! E che siano decenti, non la solita brodaglia» poi, in ufficio e lontano da orecchie estranee, sorride a Santovito e gli chiede, ironico: «Com'è andata stanotte con la prof?». «In che senso?» «Niente, niente. Per dire. Accomodati, accomodati.» Una cortesia che mette Santovito in sospetto. Siede e aspetta. Con calma e in attesa del caffè, Ares sgombra la scrivania, posa al centro, in evidenza e con l'intestazione nel verso di Santovito, due buste, una del Comando Regionale dell'Arma e l'altra del Comando Operativo, sorride soddisfatto e finalmente siede al suo posto di comando. E Santovito comincia a capire. Bussano. «Entra, entra Chiaffalà. Posa le tazzine e vattene» dice il maresciallo Amadori. «Grazie, appuntato» dice Santovito. E bevono in silenzio. «Non è male. Di solito fa schifo» commenta Amadori. «Dopo il caffè...» dice Santovito. E prende fuori un sigaro. «Ti disturba?» «No, no, figurati. Anch'io amo fumare dopo il caffè» e dalla tasca della giacca d'ordinanza cava portasigarette e accendino, entrambi d'argento. È in forma, il giovanotto. Accende e il fumo è profumato da far schifo. Offre l'accendino al collega. «Grazie» e anche Santovito accende. Finalmente Ares indica le due buste e dice: «Leggi». Santovito non esegue subito. Prima dà altre due tirate. Si sporge sulla scrivania e prende la lettera del Comando Operativo perché sa che l'ha scritta il tenente colonnello Friggerio. «Comincia da questa» lo invita Amadori, spingendo l'altra busta verso il collega. «So cosa contiene. L'altra è riservata a te e non ne conosco il contenuto, ma lo immagino.» Santovito non conosce alla lettera il contenuto, ma anche lui lo immagina. E ha ragione. Il comandante regionale dell'Arma invita il maresciallo maggiore aiutante di battaglia Santovito Benedetto, a mettere al corrente il maresciallo Amadori Ares, comandante di stazione dei carabinieri, circa la missione a lui affidata e invita, anzi, adesso ordina, al suddetto maresciallo maggiore aiutante di battaglia, di espletare le sue indagini in perfetta collaborazione e in sintonia con il suddetto maresciallo comandante di stazione, competente per territorio. Santovito annuisce, mette in tasca la lettera appena letta, prende l'altra, ne controlla l'indirizzo e la mette in tasca. Torna al sigaro che rischia di spegnersi. E un sigaro spento e riacceso non ha più lo stesso gradevole sapore. «Non leggi l'altra?» chiede Amadori. «È indirizzata al sottoscritto, la leggerò più tardi» e si alza per uscire. «Cosa intendi fare?» «Ho una scelta?»
«Direi di no. Allora?» Dalla soglia Santovito risponde: «Mi atterrò agli ordini ricevuti. Prima di sera ti metterò al corrente». Mentre sale la scala per la sua stanza, Chiaffalà gli dice: «Signor maresciallo, entro sera il Frabbone le monterà la stufa in camera.» «Grazie, appuntato.» Osvaldo Barsetti, nome di battaglia Remo, sta a braccia conserte dietro al bancone del bar; osserva annoiato dei giocatori di carte e un gruppetto di spettatori attorno a un tavolino. È uomo massiccio di una cinquantina d'anni, capelli neri tenuti cortissimi, faccia larga e spigolosa tagliata da un mezzo sorriso ironico, ma non per qualcosa che lo ha fatto sorridere. Quel sorriso è come stampato sul viso, un marchio di fabbrica. Osvaldo Barsetti guarda un attimo il maresciallo appena entrato e torna a occuparsi dei giocatori arrivati a una fase cruciale del gioco, con urla, commenti ironici, carte gettate e pugni sul tavolo. Santovito si avvicina al banco: «Mi fa un caffè?». «Un bel caffè per la forza pubblica» dice il barista. Prende piattino e cucchiaino e li posa sul ripiano lucido. Scrolla la zuccheriera, posa anche quella e va alla macchina espresso mettendo sotto al beccuccio la tazzina. Santovito lo guarda: «Barsetti Osvaldo, se non sbaglio». Barsetti si ferma con la mano sull'impugnatura della leva della macchina espresso. Il mezzo sorriso gli sparisce dalla faccia. Corruga la fronte e ricambia lo sguardo: «Barsetti Osvaldo in persona. Sono io. E allora?». «C'è stato un tempo in cui ti chiamavano Remo.» Barsetti guarda il caffè scendere nella tazzina e quando ritiene che il livello sia giusto, toglie la tazzina di sotto il beccuccio e la posa nel piattino. Ha notato il tu del maresciallo, ma continua con il lei: «Senta, cosa vuole da me? Sono stato partigiano, e me ne vanto, e anche se qualcuno vorrebbe gettarci la croce addosso, io non ho mai cambiato idea. Abbiamo combattuto per la libertà e molti, troppi, ci hanno lasciato le penne. Abbiamo fatto bene a fare quello che abbiamo fatto. Abbiamo liberato l'Italia dai nazisti e dai fascisti, è chiaro? Adesso non mi vengano a dire...». Santovito lo ferma con un gesto: «Sono stato partigiano anch'io, da queste parti. Ero nella Matteotti». Barsetti sta in silenzio e poi: «Era quasi dei nostri. Allora cosa vuole?». «Parlare di Bob. Te ne ricordi?» Nessuno dei due si era preoccupato di tenere basso il tono e i giocatori e gli spettatori li ascoltano in silenzio. Uno mescola le carte, le manovra, ma li guarda. Barsetti lascia il banco: «Sarà meglio parlarne fuori» dice. Escono. Barsetti fronteggia il maresciallo piazzandosi di fronte a lui a braccia conserte. «Che storia va a tirare fuori, dopo tanto tempo. Bob è morto e sepolto.» «Lo so, ma ci sono elementi nuovi che hanno fatto riaprire il caso e forse riabilitare la memoria di un uomo ucciso ingiustamente.» «Lei non sarà mica uno di quelli che dice che i partigiani hanno ammazzato a destra e a sinistra senza guardare in faccia a nessuno... C'era anche lei in mezzo, se ha detto la verità. Allora sa come andavano le cose. Poi Bob era uno dei nostri!» «So anche questo...» «Era dei nostri, ma ha sgarrato. Ha fatto fuori un'intera famiglia e in maniera... Be', non che la cosa mi sia dispiaciuta del tutto. Erano simpatizzanti fascisti, ma non era legittimo agire per iniziativa personale. O per motivi personali. Si dovevano aspettare gli ordini del comando, noi per primi avevamo delle regole da rispettare, e volevamo rispettarle.» Fa una pausa e poi: «Io me lo
ricordo, sa, il regolamento di disciplina. Me l'hanno fatto leggere e ci ho giurato sopra. Ce l'ho ancora qui» dice toccandosi la fronte. «Quali sarebbero i motivi personali che avrebbero fatto ammazzare quella gente?» «E che ne so! Lo chieda a quelli del comando, a chi l'ha giudicato. Tango, poi il commissario politico, poi Ballerina, poi non so... Io non c'ero lì, al processo. Tango poi m'ha detto: "andiamo" e ho preso il mitra e sono andato.» «Tutti parlano di motivi personali fra Bob e la famiglia Bernardi e nessuno sa dirmi di più. Tu non sai, Lepre non sa... Non lo trovi strano, Remo?» «Lasci stare Remo, maresciallo, che è morto e sepolto anche lui.» «Chi c'era nel plotone, oltre a te?» Santovito lo sapeva, ma voleva sentirlo dire da lui. Barsetti non ci deve pensare: «Non era un vero plotone d'esecuzione. Alla fucilazione eravamo in tanti ma a sparare, in pochi. Non c'erano molte munizioni...» «Chi ha sparato?» insiste Santovito. «E chi se lo ricorda?» «Vediamo se posso aiutarti: Autiere, per esempio?» «Sì... Mi pare... Forse... Adesso è sindaco qui» e il barista si prende la rivincita. «Sindaco democristiano, l'unico sindaco democristiano della montagna» e gli torna il sorriso ironico. «Era nella Garibaldi ed era democristiano?» «Lui ha sempre raccontato che la nostra brigata Garibaldi è stata la prima che ha incontrato quando si è dato alla macchia. Democristiano, ma non ha mai sgarrato. Freddo e coraggioso, anche, ubbidiva agli ordini. Più che democristiano credo sia cattolico convinto. Una brava persona e un buon sindaco e ammanicato com'è col suo partito al governo, porta vantaggi al paese.» «L'hai votato anche tu?» Il sorriso ironico di Barsetti si accentua: «Io? Vuole scherzare, maresciallo?». «Va bene, è tutto. Ti ringrazio, Remo.» «Gliel'ho detto: Remo non c'è più. C'è Osvaldo che non vuole ricordare certe cose e certi tempi e se le forze dell'ordine permettono un consiglio, lasci perdere, lasci ben perdere, maresciallo.» Santovito lo saluta con la mano al berretto.
1960, novembre, nel paese di Furci Il Sindaco Un'occhiata al paese e una passeggiata tranquilla verso il municipio, fermandosi a guardare il panorama che è gradevole: la valle con il fiume che finisce per scomparire dietro una curva, le vette dei monti che sembrano lì e invece ci vogliono ore per salirle, i boschi, alcune vecchie case con i buchi delle cannonate rattoppati da mattoni su pareti di sasso... La vecchia sede del comune fu distrutta dalla guerra e la nuova palazzina sta al centro della piazzetta del paese, è un brutto e tozzo edificio, come tanti edifici di questi anni. All'ingresso c'è un grande atrio con, ai lati, due porte chiuse con su le scritte "Anagrafe" e "Ufficio Tecnico". In una bacheca sul lato sinistro ci sono avvisi di vario genere del tipo pubblicazioni matrimoniali, bandi di gare d'appalto, ordinanze... Sulla parete di destra una lapide ricorda che il 30 ottobre del '44, le brigate partigiane Garibaldi, Matteotti e Giustizia e Libertà hanno liberato il paese e sconfitto l'oppressione nazista e fascista. In fondo all'atrio, una scala sale al piano superiore. Anche qui un grande atrio e, di fronte, una porta chiusa con targa "Sala di Consiglio". A sinistra, un'altra porta con la scritta "Il Sindaco". A destra, oltre una porta che ha l'aria di essere sempre spalancata, un ufficio con scrivania dietro la quale è seduto un impiegato che solleva gli occhi da un incartamento per guardare il maresciallo Santovito e poi chiedergli: «Desidera?». «Parlare con il sindaco.» «Adesso è occupato; se vuole attendere...» e gli indica la sedia. «Grazie, ma aspetto qua fuori» e continua a guardarsi attorno. Antichi manifesti del comune, ingrandimenti di foto di com'era il paese prima della guerra. Alcune molto significative sugli usi e costumi di un tempo. Come quella che riprende un gruppo di paesani nella piazzetta: uomini, donne, bambini... e alcuni asini con tanto di soma che sembra guardino curiosi il fotografo. La porta del sindaco si apre e ne esce, rinculando, un uomo anziano: «Grazie, signor sindaco» dice. «Grazie per il vostro interessamento...» e subito dietro di lui, esce il sindaco. Sulla cinquantina d'anni, ben portati, non tanto alto, magro, capelli brizzolati e viso ancora giovanile ma spigoloso e sul quale spiccano vivaci due occhi azzurri. Indossa giacca a un petto principe di Galles su pantaloni di flanella, ben poco adatti alla giacca elegante. Tende la mano all'uomo che lo ringrazia e gli dice: «Non vi state più a preoccupare, Peppe. Vi assicuro che la cosa si accomoderà a vostro desiderio. Vi ho promesso il mio personale interessamento e vedrete che tutto andrà a posto, tutto andrà a posto». L'anziano stringe la mano offerta, ringrazia ancora, dà un'occhiata al maresciallo e si avvia alle scale. Anche il sindaco guarda Santovito. Chiede: «Desidera?». «Il signor sindaco Olmi, suppongo» e all'assenso: «Vorrei scambiare due parole con lei». Il sindaco gli sorride: «Prego, signor maresciallo maggiore...». «Mi chiamo Santovito. Maresciallo Benedetto Santovito.» «Signor maresciallo si accomodi» e, indicando l'ufficio con un ampio gesto, il sindaco fa passare l'ospite. Lo segue, chiude la porta e: «Sieda, prego» dice, indicando la sedia imbottita di fronte alla scrivania, dietro alla quale va poi a mettersi lui. «Mi dica.» «Lei sa di certo perché sono qui» dice Santovito guardandosi attorno. «Vede, il paese è piccolo, come si dice, e sì, sono già stato informato. Ho saputo del suo arrivo e, da buon sindaco, ho chiesto qua e 1à... So che sta svolgendo un'indagine sulla morte del povero Bob. Come mai, dopo tanto tempo?» «Sono emersi nuovi particolari...»
«E quali sarebbero questi nuovi particolari?» lo interrompe il sindaco. Santovito fa un cenno vago: «So che lei non solo era presente, ma ha partecipato all'esecuzione». Il sindaco annuisce tristemente: «Mi ricorda un episodio doloroso, anzi, dolorosissimo della mia vita. Lei dov'era in quel periodo?». «Partigiano. Nella Matteotti di montagna.» Il sindaco stringe le labbra e annuisce di nuovo: «Allora capirà. Se ricorda, come ricordo io, quel periodo convulso e le decisioni che si dovevano prendere nel giro...» e fa schioccare le dita. «A volte anche in pochi secondi. Non potevamo trascurare un fatto tanto grave, tutti quegli omicidi... Ne andava della nostra serietà, della consapevolezza, del fatto stesso di essere partigiani di una giusta causa...» e si interrompe. Santovito ha giocherellato per un po' con il posacenere e adesso mormora: «Certo, certo». Poi: «Le dispiace se fumo?». «Ci mancherebbe altro.» Santovito offre il pacchetto al sindaco, che alza le mani: «Grazie, no. Ho smesso, ma resta sempre una certa voglia...». Un paio di tiri lasciano a Santovito il tempo di una rapida riflessione e poi: «Lei ha partecipato al processo?». «No, c'erano il commissario politico venuto da un'altra brigata, Tango, Ballerina, il Calabrese... E c'erano anche dei testimoni che Bob aveva abbandonato il posto di guardia. Bill, che era studente in legge, ha tenuto il verbale del processo. Io ero un semplice partigiano e non prendevo parte alle loro decisioni. Non è che mi tenessero... Voglio dire, non che fossi emarginato, ma per le mie idee... Nella Garibaldi erano quasi tutti comunisti, come sa. Voglio dire, nessuno ha mai trovato da ridire sul mio comportamento, ma ero un po' tagliato fuori da certe responsabilità. Ero e sono profondamente cattolico.» «Già. E adesso è sindaco democristiano.» «Sì, ma mi votano anche dei loro. In qualche modo sono di sinistra. Essere democristiano non vuoi dire per forza essere reazionario.» Si appoggia alla scrivania, verso Santovito. «Ha visto quell'anziano uscito prima? È un comunista che più comunista non si può. E mezzadro, uno degli ultimi, purtroppo. Il padrone del fondo, democristiano che più democristiano non si può, gli ha fatto dei torti e lui è venuto da me. Io guardo chi ha ragione e chi torto. E il vecchio ha ragione anche se è comunista. Semplice.» «Semplice, certo» ripete Santovito e per un po' nessuno dei due parla. Il fumo del sigaro non infastidisce il sindaco, anzi... e: «Mi spiega come ha fatto uno non comunista come lei a finire nella brigata Garibaldi?». Il signor Olmi, sindaco, si stringe nelle spalle e dice: «È semplice da spiegare, maresciallo Santovito. Non sono stato partigiano della prima ora, lo ammetto. Avevo degli affari che... Vede, se ha vissuto come me quei momenti, può capire. Mi tenevo in contatto anche coi fascisti, ma non sono mai stato fascista. Da cattolico, capirà, avevo anche un Bescheinigung, un lasciapassare. Lo facevo soprattutto perché ero in una buona posizione per poter mediare... Ho anche salvato della gente dalla deportazione in Germania. Poi le condizioni si facevano sempre più strette, la mia coscienza cominciava a brontolare, ho visto troppe cose sbagliate, tragiche, così un bel giorno mi sono deciso e ho preso quella strada...» e indica i monti che si intravedono dalla finestra. «Quelli della Garibaldi sono stati i primi che ho incontrato.» Olmi pensa e scuote il capo. Poi: «Le posso offrire un caffè, Santovito?» chiede. Anche il maresciallo sta pensando e nega con il capo. Aspira le ultime due boccate dal sigaro, che poi spegne nel posacenere sul tavolo del sindaco. Dice: «Lei ha parlato di affari. Che genere di affari?». «Quei pochi che si potevano fare su di qua a quei tempi: bestiame, case, terreni, legna, carbone per la città... Cose di questo genere. Allora si viveva così.»
«Conosceva il vecchio dei Bernardi? Mi pare si chiamasse...» «Pietro. E chi non lo conosceva? Lo chiamavano il Patriarca. Non eravamo molto in confidenza.» «Come mai?» Il sindaco sorride: «Due galli nello stesso pollaio... Insomma facevamo lo stesso mestiere, anche se non abbiamo mai avuto materia di discussione. Non c'era affare di una certa importanza nel quale lui non avesse uno zampino. Poi c'era una cosa dei Bernardi che non mi piaceva» e di nuovo scuote il capo, ma non continua. Tocca a Santovito sollecitarlo: «Cioè?» «Be', adesso non vorrei sembrare quello che non sono, dato che anch'io ho avuto a che fare con i gerarchi... Insomma, io con i fascisti ci facevo affari, loro, i Bernardi, Pietro e il figlio, erano fascisti della prima ora. Fascisti convinti.» «Può essere stato il motivo della loro uccisione?» Il sindaco ci pensa su e poi scuote il capo: «No, direi di no. Non hanno mai fatto male a nessuno. Avevano la loro convinzione e una convinzione non fa male al prossimo». Sull'ultima affermazione Santovito avrebbe qualcosa da eccepire, ma non è qui dal sindaco Olmi per dissentire. Chiede ancora: «Come andò quel giorno? L'esecuzione, dico». «Sono ricordi pesanti» mormora il sindaco. Poi: «È arrivato Tango e m'ha detto: "Tu, vieni". Mi sono alzato e sono andato... Insomma, è andata così». «E da cattolico non ha avuto esitazione?» Olmi fa segno di sì. «In montagna c'è stato anche lei. Non ha mai fatto, da partigiano, qualcosa che da carabiniere non avrebbe fatto?» Non si aspetta risposta e prosegue: «Poi c'era la certezza che Bob fosse colpevole...». «Mi sa dare un motivo per cui Bob avrebbe fatto quel... Avrebbe fatto quello che ha fatto?» «Dissapori fra Bob e il vecchio Pietro... Voci che circolavano e non ne so di più.» Santovito si alza: «È strano, ma quando si parla dei dissapori, come li chiama lei, fra Bob e il Patriarca, nessuno ne sa di più». Anche il sindaco si alza e allarga le braccia. «Cosa vuole che le dica? Di più non so, mi spiace. Posso però dirle che, dopo la guerra, ho fatto quello che ho potuto per quella povera donna» e vedendo che Santovito non ha capito, precisa: «La madre del povero Bob. Ha avuto una vita infame, poveretta. L'ho fatto perché è nata qui, quindi, come sindaco era mio dovere... Insomma, è andata così». Tende la mano al maresciallo. «Piacere d'averla conosciuta, Santovito. Se crede, se pensa che io possa esserle utile in qualche modo...» Si stringono le mani e Santovito esce dal municipio. Si ferma nella piazzetta, si guarda attorno, va a sedere nella panchina di pietra che dà sulla valle e accende un sigaro. Fuma con calma e con calma ripassa gli ultimi avvenimenti e testimonianze, ma le idee restano confuse. Ancora non ha chiari il succedersi e le motivazioni degli avvenimenti, ma si sta convincendo che Bob sia morto, o peggio, sia stato ucciso per errore. O per convenienza, il che sarebbe anche più triste.
1960, novembre, in caserma In Due Non S'indaga Meglio Nel viaggio di ritorno non ci sono molti passeggeri e spesso la corriera salta delle fermate perché non c'è nessuno da far scendere. Stasera sta facendo il viaggio solo per il maresciallo Santovito, che ormai ha pagato il biglietto. Ci sono lui e il conducente, che non è più quello Stalin che Santovito conosceva e oggi Santovito non ha nessuna voglia di mettersi in confidenza con il nuovo autista, forse proprietario o forse dipendente del nuovo titolare della linea. Un viaggio silenzioso, dunque, nella discesa complicata da troppi tornanti e accompagnati dal rumore del motore e dal ripetuto suono del clacson prima di ogni curva, e cioè spesso. Solo davanti alla caserma, e mentre apre le porte della corriera, il conducente rompe il silenzio con un "Buonanotte, signor maresciallo" che fa capire a Santovito come ormai tutti, almeno in questa parte della montagna, sappiano di lui e delle sue indagini. «Buonanotte anche a lei» risponde di malavoglia, se pure le sei del pomeriggio non sarebbero precisamente l'ora della buonanotte. Ma il sole tramonta presto in paese, chiuso com'è sia a levante che a ponente dai monti che lo stringono sulla valle, e in novembre la sera fa presto scuro e presto si accendono i pochi lampioni, per ora piazzati solo davanti al municipio in attesa di avere i soldi per montarne altri almeno nelle strade che portano alla chiesa e al Ristobar di Ciccio, come da richiesta degli abitanti. L'aria è fredda e la poca neve della notte si è ghiacciata sull'asfalto. Nell'atrio della caserma, seduto dietro il tavolo, c'è Chiaffalà. Disciplinatamente si alza, saluta e dice: «Il signor maresciallo ha chiesto più volte di lei...». Santovito lo interrompe con un gesto: ha capito, ma non è il momento, e va diretto alle scale. «Aaa, signor maresciallo maggiore, è venuto il Frabbone e ha montato la stufa... L'ho accesa...» Ancora un gesto, questa volta di veloce ringraziamento. «Belin che brutt'aria, stasera» borbotta l'appuntato. «Il signor maresciallo se la prende con me per tutto e questo... questo non saluta nemmeno. Volevo anche dirgli che Clemente ha messo su il telefono... Se ne accorgerà. E fra poco il rancio sarà pronto...» Scuote il capo e lascia perdere le lamentele. C'è abituato. La stufa, una di quelle piccole e rotonde che qui chiamano, chissà perché, parigina, ha già messo nella stanza un piacevole tepore. L'apparecchio telefonico, una grossa scatola nera di bachelite, è piazzato in mezzo al tavolo. Non ha nessuna voglia di mangiare. Si toglie il pastrano, siede sulla sponda della branda, accende un mezzo toscano e fra una boccata e l'altra mormora: «Dovrò decidermi a parlarne a quel coglione di Amadori». "Fai come puoi, ma non coinvolgerlo del tutto" gli ha scritto Friggerio nella lettera riservata. "Da parte mia, ho cercato di dissuadere il comandante, ma quel coglione del tuo collega ha amici troppo in alto e non posso non obbedire agli ordini che ricevo." «Farò come posso» brontola Santovito. Si sdraia sulla branda e blocca i pensieri, occupato solo a gustare il fumo del sigaro e a seguirlo mentre riempie la stanza. Un po' discosto dalla stufa, Chiaffalà ha messo anche una cassetta con della legna, tagli di buona quercia che dura a lungo e tiene la brace, spaccata a misura per la parigina. Il sigaro è alla fine e Santovito si alza; con l'uncino che il Frabbone, sempre attento ai particolari, ha appeso a un gancio attorno al tubo per il fumo, toglie un paio di cerchi dal piano della stufa e il fuoco, di colpo alimentato da aria nuova, prende vigore, si alza e serpeggia per un po' nell'aria. Ciò che resta del sigaro finisce fra le braci, assieme a un ciocco che sfrigola e scintilla e subito prende fiamma. «Andiamo a parlare con il coglione» si dice Santovito.
È un discorso breve quello che Santovito ha tenuto al maresciallo Amadori. Pochi ragguagli, l'indispensabile, tenendo per sé certe informazioni come: "Sono stato partigiano da queste parti". O ancora: "A suo tempo fui incaricato di informarmi sulla morte del partigiano Bob". Oppure: "Nel '47 Imelde mi ha scritto una lettera che poi non ha mai spedito". Notizie che Santovito non ha ritenuto di raccontare, convinto che al più giovane collega non serviranno. Se "il coglione" come ormai ha soprannominato il maresciallo Amadori, non è stato in grado di trovare l'assassino di tre ragazzi, nell'estate finita da poco, e cioè mentre i crimini venivano commessi a due passi da lui, non risolverà certo un enigma ben più complesso e che si perde nel passato, con tracce che ormai il tempo ha cancellato e testimoni reticenti e storie che nessuno ha voglia né intenzione di riesumare. Ci vuole altro che un maresciallo incapace, ma raccomandato da chi sta in alto e che si preoccupa solo della carriera. Ha appena finito di aggiornare il collega e la considerazione di come cambino le cose, dalla guerra alla pace, dalle tensioni a tensioni più grandi, lo intristisce ancor più degli scarsi risultati della giornata. E gli fa scuotere il capo la constatazione di come i superiori, non tutti ma tanti, si portino dietro sempre le stesse idee e cambino così poco. «Qualcosa non va, Santovito?» chiede Amadori. «Niente, va tutto bene. Solo, è stata una giornata merdosa.» «Allora andiamo a mangiare...» «Vai tu. Non ho fame, proprio niente fame.» Amadori si alza dalla scrivania. Dice: «Per domani ti propongo un sopralluogo...». «Facciamo così» lo interrompe Santovito. «Tu ti occupi dell'incendio alla baracca e io...» sospende. «E tu?» «Io ci penserò. Adesso non ho nessuna idea» poi sottovoce: «Soprattutto non ho nessuna voglia di ricominciare». «Be', io vado al rancio» ma si ferma sulla soglia. «A proposito: cosa ti scrive il tenente colonnello Friggerio?» «Cose personali» risponde secco Santovito. Non arriva a capire quale sia il proposito che ha fatto venire in mente al collega la lettera di Friggerio, quale il collegamento, visto che il discorso era il rancio. A proposito di nulla. «Però, Santovito, ce ne hai messo di tempo per deciderti a mettermi al corrente, eh?» Non è il caso di spiegargli che in due non s'indaga meglio, se il secondo è un coglione. Amadori prende il corridoio: «Proprio non ti va una gavetta di rancio? Stasera si mangia ribollita, segue una braciola di maiale ben cotta con contorno di patate lesse condite con olio ligure e un trito di aglio e prezzemolo». Nessuna risposta. Lascia il collega seduto nel suo ufficio, a finire il sigaro. Solo ieri non lo avrebbe fatto. In un altro momento, l'idea della ribollita avrebbe solleticato il maresciallo Santovito. Questa sera lo lascia indifferente. Lo indispettisce, invece, che l'appuntato Chiaffalà si intestardisca sull'olio ligure quando a portata di mano avrebbe quello toscano, più saporito. O almeno a lui piace di più. Solo questione di gusti? Non finisce il sigaro. Lo spegne e torna in camera sua e di nuovo si sdraia sulla branda. Forse si appisola, vestito com'è. «Signor maresciallo Santovito!» grida qualcuno da basso. «Che c'è?» «Una telefonata per lei, signor maresciallo. Gliela passo.» «Non c'è altro modo per passarmi la comunicazione che gridare?» borbotta Santovito. Clemente l'elettricista non deve essere una cima in fatto di derivazioni telefoniche. «Sì, Santovito...»
«Ooo» dice Raffaella «hai la luna di traverso?» «Perché?» «È il modo di rispondere. Gentilezza zero.» «Scusa, ma è una brutta sera...» «Te la rendo migliore, maresciallo. Vieni su da me e ti racconto alcune cose interessanti...» «Adesso? Che ore sono?» «Proprio una brutta giornata, eh, maresciallo? Sono le nove, è il momento di vivere. Allora, sali o no?» Non aspetta conferma. «Ti mando Stelio. Ah, maresciallo, ti ho preparato qualcosa da mangiare» e chiude. Chissà perché stasera tutti lo vogliono imboccare. E lui non ha nessuna voglia di lasciarli fare. Neppure da Raffaella. Cautamente scende le scale e con precauzione chiude la porta della caserma. Per non dover spiegazioni. Fuori, seduto sul muretto di recinzione, sigaro fra i denti, aspetta il Millecento di Stelio. E una notte chiara di stelle e la luna stampa ombre lunghe sul selciato. Ma è anche una notte gelida che fa rimpiangere a Santovito la parigina lasciata nella stanza. «E non ci ho nemmeno messo dentro un legno...» borbotta. Immagina il freddo che troverà rientrando. Se rientrerà. La tavola è preparata per due. Un piatto grande, al centro, con salumi affettati; un fiasco di rosso e pane toscano accanto. Anche questo a fette. Un mezzo formaggio dalla crosta soda, lascia vedere la sua pasta densa, compatta, passita al punto giusto. E Raffaella ha acceso anche delle candele. «Cos'è? Alla Mezzacosta manca la corrente?» «Quando vuoi, riesci a essere perfido» dice Raffaella. «Le candele fanno atmosfera...» «Serata giusta...» «... ma se vuoi, le spengo...» «Lascia, lascia. Questa penombra fa bene, mi ricorda che brancolo nel buio.» Raffaella versa il rosso. Dice: «Questo per riscaldare il tuo pessimismo e le tue speranze». Passa il bicchiere a Santovito e solleva il suo. «Bevi. Facciamo uno spuntino e poi ti racconto.» Dopo un paio di bicchieri e alcune fette di salame, la falsa inappetenza di Santovito se ne va d'incanto. Se ne va anche un'abbondante porzione del mezzo formaggio e il rosso rubino sparisce presto sotto la veste di paglia del fiasco e finisce che mostra il fondo. Raffaella assicura che Stelio ne ha ancora, in cantina. Ci vuole poco a scendere. «Allora, mi spieghi cos'hai di importante da dirmi?» Raffaella lo guarda e mostra un sorriso che vorrebbe essere misterioso. Dice sottovoce: «Credo di aver trovato la madre del tuo Bob» e all'occhiata preoccupata del maresciallo, aggiunge: «Tranquillo, non ti ho rubato il mestiere. Non le ho detto niente di niente. Solo, credo di averla trovata. E più vicino di quanto tu pensi».
1960, novembre, alla baracca bruciata La Conferma Che In Due Non S'indaga Meglio La neve non s'è più fatta vedere, dopo la spolverata dell'altra notte, ma la temperatura continua a ballare attorno allo zero. Saranno le sette del mattino e lo svegliano gli ordini del maresciallo Amadori che dalla finestra del suo ufficio grida: «Porta su la camionetta, appuntato, che partiamo! Muoviti!». Il motore imballato dell'auto che sale la piccola rampa dal cortile alla statale, finisce di svegliare Santovito. Che borbotta: «Questa mattina Amadori ha cattive intenzioni.» Il profumo del caffè, appena fuori dalla stanza, è invitante e a quest'ora ci sta. Glielo serve il carabiniere semplice Gargiulo, da Crotone. «Ti hanno lasciato solo, Gargiulo?» «Signorsì, signor maresciallo. Un po' di latte caldo nel caffè?» «No, perché vuoi rovinarlo? Già non è una bontà così e se ci aggiungo il latte...» «Mi dispiace, signor maresciallo, ma di solito lo prepara l'appuntato...» «Fa niente, quello di Chiaffalà non è meglio. Stamattina se ne sono andati presto. Problemi?» «Non lo so, signor maresciallo. Il signor maresciallo si è fatto svegliare presto e è partito con Chiaffalà...» «L'ho sentito, l'ho sentito. Per dove?» «Non lo so, signor maresciallo...» «Gargiulo, c'è qualcosa che sai?» «Sì, signor maresciallo. So che il signor maresciallo Amadori si è alzato, ha bevuto in fretta un caffè corretto, si è vestito di pesante, ha messo gli stivali da montagna, ha preso la macchina fotografica, ha chiamato l'appuntato...» «Basta così, Gargiulo. Il resto lo conosco. Cosa ne diresti di un'altra tazzina di acqua scura?» «La prendo volentieri, signor maresciallo» e Gargiulo se lo versa e se lo beve. Non saprà mai che la domanda del maresciallo era retorica e che un'altra tazzina di acqua scura Santovito l'intendeva per se stesso. Si serve da solo. Ha una mattina vuota: aspettare che la scuola chiuda e andare a trovare quella che Raffaella sostiene essere la madre del partigiano Bob. «Cosa te lo fa credere?» le aveva chiesto Santovito. «Intanto certe cose una donna le sente...» «A parte questo?» «Potrebbe essere sufficiente, ma c'è anche il fatto che non parla mai del figlio se non per dire che glielo hanno ammazzato, quei delinquenti, dice...» Per niente convinto, Santovito aveva insistito: «Ne hanno ammazzati tanti, durante la guerra e di delinquenti ce n'erano dappertutto» e Raffaella si era un po' risentita e aveva deciso che, se il maresciallo la prendeva in quel modo, lei non aveva più nulla da dire. Per recuperare, perché nulla si deve trascurare in un'indagine antica come la morte del partigiano Bob, Santovito si era giustificato: «Guarda che io non dubito di quello che mi dici. Io cerco delle sicurezze, il che vuol dire che ti metto in difficoltà». «Guarda tu! Io non sono una teste da interrogare! Io voglio solo aiutarti, ma se la prendi così...» e fra un "non me la prendo" e un "allora lasciami parlare", Raffaella aveva concluso che non c'erano dubbi: il partigiano Bob era figlio della donna e che Cristina... «Chi è Cristina?» «La mia collega di matematica. Non te la ricordi? Abita qui in paese da anni e anni... Ma sì, l'hai
vista quando sei venuto a prendermi alla scuola, il primo giorno... Anzi, lei ha detto che sei un bell'uomo e che la divisa ti dona...» Insomma, che diceva questa Cristina? Diceva che Gialdiffa... Si chiama così la madre di Bob, Gialdiffa. Diceva che Gialdiffa aveva perduto il figlio durante la guerra e che, dopo, per molti anni è andata spesso da un avvocato, giù a Pistoia e che non si dava pace fino a quando non avrebbe fatto ufficialmente riconoscere l'innocenza del figlio. A costo di spendere anche l'ultima goccia di sangue. Poi il tempo, i soldi che non aveva più... Insomma, aveva lasciato perdere l'avvocato e Pistoia e pareva rassegnata. Gialdiffa, sempre secondo Cristina, era proprio una gran donna. Santovito non aveva niente da replicare e di nuovo Raffaella si era inalberata: «Vuoi dire che ancora non mi credi?». Le credeva, Santovito le credeva, ne aveva bisogno, ma dove avrebbe trovato questa Gialdiffa? «Più vicino di quanto immagini, te l'ho detto» e adesso Santovito aspetta la chiusura delle scuole del paese, all'una, per andare a incontrare Gialdiffa, di cognome Cortesi come il partigiano Bob. E nel frattempo? Un salto dal Frabbone per ringraziarlo della parigina e fare due chiacchiere. Senza secondi fini, questa volta, se non due bicchieri di rosso di pronta beva, come aperitivo al rancio di mezzogiorno. Arrivano alla curva della Leona che il sole è appena spuntato da dietro il monte. Prima di scendere dalla camionetta, il maresciallo Amadori dice all'appuntato: «Adesso rifacciamo quello che avete fatto con Santovito.» «Bene, signor maresciallo. È andata così: ci siamo fermati proprio qui e io stavo per scendere per aprirgli la portiera...» «Che bisogno c'era di aprirgli la portiera, Chiaffalà? Lui non ce la faceva?» L'appuntato non ha tempo di rispondere. «Va avanti. Poi?» «Stavo per scendere, ma il signor maresciallo mi ha detto di aspettarlo in macchina e di non muovermi e lui ha preso la mulattiera che scende al molino del Turco...» «Va bene, va bene, non stiamo a perdere tempo e cominciamo da quando sei sceso anche tu...» La notte fredda ha gelato l'erba che adesso scricchiola sotto le suole. Amadori davanti, Chiaffalà dietro, scendono e arrivano ai resti della baracca. Dice l'appuntato: «Ecco, ci siamo fermati qui perché le fiamme erano alte. Per un po' abbiamo guardato il falò e poi il maresciallo Santovito ha parlato di qualcuno che avrebbe distrutto una prova, poi la baracca è crollata, poi ha cominciato a piovere, poi il signor maresciallo ha mormorato qualcosa e io ho capito solo Bob e Imelde, poi siamo risaliti e il signor maresciallo ha detto: "Dai, Chiaffalà, metti in moto che qui ce la stiamo prendendo tutta". Questo me lo ricordo bene...» «Ti ricordi quello che non serve.» «Il signor maresciallo parlava sottovoce e io...» «Va bene, va bene Chiaffalà. Santovito non ha cercato indizi? Non ha guardato attorno?» «No, signor maresciallo, ha solo borbottato qualcosa e poi, siccome cominciava a piovere...» «Sono contento: il signor maresciallo maggiore ha svolto proprio una bella indagine, seria, precisa... Doveva cercare gli indizi allora, subito dopo l'incendio. Adesso chissà dove sono finiti» e Amadori si mette in caccia. Dice all'appuntato: «Da' un'occhiata attorno, vedi se trovi qualcosa...» «Cosa, signor maresciallo?» «Non lo so. Cerca qualcosa, cazzo! Qualcosa che ci dica chi è stato.» Guardano attorno e poi fra i resti; frugano fra la cenere sollevando polvere, spostano con gli stivali brandelli di legname che la pioggia ha spento e sono mezzo bruciacchiati... «Se anche c'era qualcosa, chissà dov'è finita» dice ancora Amadori. E prima di rinunciare e risalire alla camionetta, fa un altro giro attorno al perimetro allontanandosi dal posto dell'incendio. Si
ferma, si china, sorride e raccoglie qualcosa che osserva e poi avvolge in un fazzoletto bianco, immacolato e profumato. «Trovato qualcosa, signor maresciallo?» «Sì, trovato qualcosa che ci dice chi ha dato fuoco alla baracca e come, Chiaffalà.» È contento: «Non abbiamo fatto un'alzataccia per niente, Chiaffalà». «Mi fa piacere, signor maresciallo.» «Anche a me.» Lungo la mulattiera il sole ha ammorbidito l'erba che non scricchiola più sotto le suole. Anche l'aria si è fatta più tenera, quasi gradevole. Il carabiniere Gargiulo sente la camionetta e corre alla porta. Al maresciallo Amadori non piace suonare ed attendere come un qualsiasi montanaro che abbia bisogno dei carabinieri. E ancora lontano che già agita le braccia e grida: «Gargiulo, mandami subito Santovito!» «Non è in caserma, signor maresciallo...» Amadori si ferma dinanzi al carabiniere e chiede sottovoce, ma con cattiveria, come se Santovito dovesse aspettare gli ordini del collega più giovane: «Dove cazzo è andato?». Gargiulo si stringe nelle spalle. «Appena rientra digli di venire nel mio ufficio! Ah, preparami un caffè, che me lo sono meritato.» «Uno anche a me, Gargiulo» mormora Chiaffalà passando accanto al subalterno, se pure di poco. Una volta tanto, il grado fa autorità. L'odore del cibo è intenso, ma gradevole. «Chi è in cucina oggi?» chiede Santovito appena entrato. Per ottemperare immediatamente agli ordini ricevuti, Gargiulo non risponde e dice subito: «Il signor maresciallo Amadori la desidera in ufficio.» «Prima del rancio?» Gargiulo non si aspettava la domanda e allarga le braccia. Mormora: «Lui, il signor maresciallo, ha detto "appena rientra"». «Appena rientra vuol dire adesso. Va bene, Gargiulo, vado» e Santovito si avvia chiedendo ancora: «Chi c'è in cucina?». «L'appuntato Chiaffalà. È il suo turno.» «Il profumo è buono e se il sapore corrisponde, dovrò ricredermi sulla sua arte culinaria. Digli che tenga in caldo. Non ci metto molto.» Ares Amadori o sta seduto dietro la scrivania o va in giro con l'Abarth rosso fuoco. Adesso è seduto e finge di studiare chissà quali documenti. È un paese, questo, dove non ci sono grandi pratiche da esaminare o rapporti da preparare, Santovito lo sa per esperienza personale. Ogni tanto capita qualche grosso guaio come la storia di Bleblè della Ca' Rossa e Ciarèin. Oppure i ragazzi saltati su una mina o finiti fra le braccia della Borda, ma poi si resta anni a redimere piccole beghe fra confinanti o liti per un pollo o le botte di un ubriaco alla moglie. Bleblè della Ca' Rossa: Santovito l'ha salutato in settembre, il giorno stesso della partenza dal paese, che pensava definitiva, e da quando è improvvisamente tornato, non l'ha rivisto. Dovrà chiederne in giro. Bleblè ha una certa età e va tenuto d'occhio. «Qualche novità?» chiede Santovito al collega. Amadori annuisce, lascia perdere il finto interesse alle pratiche, guarda in faccia Santovito, gli sorride, apre lentamente il cassetto... Una scena che sa di teatro. Posa sul piano della scrivania il suo bianco fazzoletto profumato che avvolge qualcosa, posa i gomiti di fianco al fagottino e continua a fissare Santovito con evidente soddisfazione. Poi, finalmente, risponde: «Sì, novità. Ho trovato chi ha dato fuoco alla baracca» e aspetta fiducioso il trionfo. O almeno un cenno di complimento. Né l'uno né l'altro, ma uno sguardo dubbioso che lo infastidisce. Si prende la
sua rivincita: «In due si indaga meglio, Santovito, dovresti saperlo». Anche su questa affermazione Santovito ha qualche dubbio, soprattutto se il secondo è Amadori, ma lascia perdere e aspetta. «Ecco qua» dice Amadori. E si accinge, con la stessa calma, a svolgere il fazzoletto per mostrare l'indizio rivelatore. Striscia sul piano e verso Santovito il fazzoletto aperto, si rilassa contro lo schienale e guarda soddisfatto lo sconfitto collega. Conclude: «E ti dirò: mi sorprende molto che tu, con la tua esperienza, non abbia fatto subito un accertamento accurato sul luogo del delitto. Poco distante dalla baracca bruciata, avresti trovato questo» e indica il mozzicone di sigaro in evidenza sul candore del fazzoletto. Santovito lo guarda senza toccarlo, solleva il capo e chiede: «E allora?». «È un tuo sigaro, Santovito, o sbaglio?» «Diciamo meglio: è del tipo che fumo io.» Amadori si ritiene abbastanza soddisfatto della risposta. Secondo lui, e lo spiega con dovizia di particolari, le cose sono andate così: durante il sopralluogo alla baracca il maresciallo Santovito si è acceso due sigari, uno lo ha fumato all'esterno della baracca e uno all'interno. Che poi ha gettato senza spegnerlo. La paglia secca di anni, le tavole di legno che bruciano come carta e un leggero venticello, hanno completato l'opera. Mistero risolto e «Devi stare più attento con quel tuo accidente di sigaro» conclude Ares. «Prima o poi finirai coll'incendiare la mia caserma.» Tranquillo e soddisfatto, si accende una delle sue insulse e troppo profumate sigarette. Che offre anche al collega. «Lo sai che io fumo il sigaro» dice Santovito alludendo al reperto che lo indica come pericoloso incendiario. «Devo darti una delusione, collega: non avevo con me i sigari. Il che dimostra che non sempre in due si indaga meglio.» Si alza, riavvolge il mozzicone di sigaro nel prezioso fazzoletto, intasca il tutto e anche lui conclude: «E adesso il rancio. Dal profumo direi che Chiaffalà ha preparato qualcosa di buono» e lascia l'ufficio, piuttosto soddisfatto. Anche se ha ragione Amadori: avrebbe dovuto fare un sopralluogo accurato, mentre la baracca bruciava, ma stava diventando buio, aveva cominciato a piovere e difficilmente avrebbe trovato il reperto che, secondo Amadori, lo accusa. È una storia nella quale i mozziconi di sigaro pare abbiano grande importanza. Santovito ne trovò uno alle Piane nel lontano 1944. Stesso tipo dell'ultimo. Allora non aveva a disposizione un profumato fazzoletto bianco e l'avvolse in una foglia di castagno. Trovare chi allora fumava il sigaro! E, a quanto sembra, lo fuma ancora. Finalmente qualcosa da cui partire. Per questo mangia con gusto la zuppa che Chiaffalà gli mette davanti, soddisfatto: «Mesciva, signor maresciallo, specialità spezzina. Poi mi dirà.» Poi gli dice, infatti. Gli dice: «Buona, molto. Complimenti, Chiaffalà. Ma qualcosa delle tue parti, mai?» «Vedrò, vedrò, ma avendo vissuto tanto in Liguria, sono diventato ligure e specializzato in quella cucina» e gli spiega che per la mesciva ci vogliono ceci, fagioli bianchi, quelli chiamati di Spagna e che qui dicono, chissà perché, "del papa". Poi ci vuole del grano, un pizzico di bicarbonato... «e dell'olio ligure genuino, signor maresciallo, mi raccomando.» Si tratta, spiega, di una vecchia ricetta inventata da un povero talmente povero da non avere neppure abbastanza fagioli per una zuppa e così ci ha aggiunto i ceci e un pugno di grano. Chiaffalà è una sorpresa: meglio cuoco che appuntato, ma Santovito non glielo dice. «Oggi è difficile trovarla nei ristoranti, signor maresciallo» e nella foga del dire, dimentica di servire il secondo. Che Santovito non avrebbe preso. Gli è bastata la mesciva. Poi è ora di incontrare Gialdiffa.
1960, novembre, alla scuola La Bidella E L'insegnante Sarebbe meglio che Raffaella non lo vedesse, troppe domande. Poi gliene parlerà, che può essere utile. Resta nel vicolo e aspetta che si allontanino le ultime insegnanti. Sta per andare, ma due ragazzi, chissà perché rimasti indietro dal grosso della mandria in parte dispersa nel paese e in parte salita sullo scuolabus, escono di corsa dalla scuola, quasi cacciati in strada dalla bidella che grida loro dietro: «Sempre gli ultimi, voi due pigroni! Un giorno prendo lo spazzone e vi faccio sentire che sapore ha, per vedere se imparate la mia lezione.» Guarda i due correre lontano, dà un'occhiata alla strada deserta e si chiude dentro per le pulizie. Adesso Santovito si avvicina e suona il campanello. «Cosa ti sei dimenticato questa volta?» chiede da dentro la bidella, con tono burbero, ma si capisce che è per scherzo. «La prossima non ti apro e così impari una buona volta» ma intanto gira la chiave e si trova dinanzi il maresciallo venuto di lontano. Lo riconosce anche se non è in divisa. Ormai tutti sanno chi è e cos'è venuto a fare da queste parti. «Me l'aspettavo» borbotta e resta sulla soglia a chiudere il passo. «Perché se l'aspettava?» «Voi ci sentite bene, eee?» «Sì, non mi lamento. Ma perché se l'aspettava?» Gialdiffa Cortesi ha avuto una vita infame e i suoi sessantuno anni ci sono tutti. E stampati sul viso. Nel fisico è messa meglio: alta, non magra, sta dritta come un fuso e guarda in faccia il prossimo e lo sfida, senza paura anche se è un maresciallo della Benemerita. I capelli sono grigi e grigi gli occhi grandi e severi. Le guance leggermente scavate fanno risaltare gli zigomi. Doveva essere una bella donna. «Perché me l'aspettavo? Avete parlato con tutto il paese, ormai, e prima o poi sareste arrivato anche da me, no? Allora, entrate o no?» e si toglie dalla porta. Santovito entra e Gialdiffa chiude a chiave. «Ooo, guardate che non ho tempo da perdere. Devo pulire le aule e i cessi, mettere via i registri di classe, sistemare la sala insegnanti... Insomma, ho da fare.» Abbassa il tono: «E poi devo andare anche al cimitero». «Ci va tutti i giorni?» «Ci vado una volta al mese. Ci vado il 20 di ogni mese e oggi ne abbiamo 20.» Riprende spazzone e straccio che aveva posato al muro per aprire. «Non mettete i piedi dove sono già passata con lo straccio» ordina. «Signora Cortesi, possiamo sederci da qualche parte? Io credo che lei possa sospendere il lavoro per dieci minuti. È una cosa importante.» Gialdiffa posa di nuovo gli attrezzi del suo lavoro e si avvia lungo il corridoio della scuola. Entra nella stanza degli insegnanti, siede al tavolo e guarda Santovito, che sta ancora sulla porta. Dice: «Ecco, sono seduta. E adesso sbrighiamoci. Cosa volete da me?». L'ostilità della bidella non mette a disagio Santovito; si aspettava una donna così. Le siede accanto e la guarda negli occhi, per un po' in silenzio. Poi chiede sottovoce: «Ce l'ha una sua fotografia?». Gialdiffa si aspettava di tutto, ma non quella domanda. Soprattutto non fatta con un tono tanto sommesso e gentile. Dai carabinieri, come a tutti i montanari, le sono sempre venuti solo soprusi. Si sforza di sussurrare: «Perché?». «Perché quando, durante la Resistenza, sono salito da lui per parlargli e sentire le sue ragioni, era tardi. Sono arrivato tardi, ma non per colpa mia. Mi sono sempre portato dietro la voglia di vedere il viso del suo Bob. Sono convinto che sul viso delle persone sta scritta una parte del loro carattere.»
«Il mio Roberto... Non l'ho mai chiamato Bob, io. Quel soprannome gli ha portato sfortuna. Il mio Roberto era bellissimo» e sta per commuoversi, ma non è il tipo e si irrigidisce. «Se volete vedere che faccia aveva, andate al cimitero. C'è la foto sulla sua lapide» e guarda dritto in faccia Santovito. Lo sfida, vuol vedere cosa strolgherà, come andrà avanti questo carabiniere piombato nella sua vita, dopo sedici anni durante i quali nessuno si è mai occupato di lei e del suo Roberto. Durante i quali nessuno le ha mai chiesto cosa abbia provato, e cosa provi ancora, per la morte di un figlio di ventidue anni. Non era ancora riuscita a conoscerlo del tutto, il suo Roberto. «Lo farò» dice solo Santovito. «Ci andrò» e i due restano in silenzio per un po'. È difficile dialogare in queste condizioni. Poi Gialdiffa chiede: «Perché adesso, maresciallo, perché dopo tanti anni?» e calca su "maresciallo" per far capire che non ha un gran rispetto per i gradi. «Sono emersi alcuni fatti che rimettono in discussione...» Gialdiffa si alza di scatto: «Non raccontatemi delle fole! A chi volete che interessi la morte di Roberto?». Parla sottovoce, ma con una cattiveria che fa capire quanto sia l'odio che si porta dentro. Da sedici anni. E quanto ci provi gusto nel mostrarlo. «Fatemi un piacere, maresciallo, fatemi un piacere tutti: lasciatemi in pace!» Torna nel corridoio e riprende il lavoro. Il maresciallo sa che non c'è altro da dire. Da Gialdiffa non avrà niente se non riuscirà a entrare nel suo dolore. A condividerlo. Ma come? Per lasciare la scuola, le passa accanto in silenzio. Non è ancora alla porta e la mano di Gialdiffa, dura com'è dura lei, gli si posa sulla spalla e lo blocca in mezzo al corridoio. «Lo so, maresciallo, cosa volete fare, tu e i tuoi caporioni. Volete tirare fuori dalla fossa mio figlio per buttargli addosso altra merda. Poi ce ne sarebbe anche per la Resistenza, no? E da tanto che vi sta qui» e si pianta l'indice sulla gola. «Avete tante di quelle magagne da nascondere e avete pensato di usare il mio Roberto.» Gli lascia la spalla e gli va davanti. «Io non ci sto, hai capito? Tienilo bene a mente, maresciallo: io non ci sto!» Santovito lascia la bidella alla sua disperazione. O così crede. Gialdiffa ha tanta rabbia dentro che se la deve prendere con qualcuno. Se la prende con il maresciallo. Riapre l'uscio della scuola e esce sulla strada impugnando lo spazzone a due mani, come un bastone, nel caso che il carabiniere ci ripensasse e intendesse tornare sul discorso. Ma Santovito conosce abbastanza le persone con le quali ha a che fare, per capire quando lasciare la presa. Anche se con Gialdiffa non è il caso di parlare di "presa", ché neppure è riuscito a sfiorarla. «Ooo, maresciallo!» grida. «Non farti più vedere dalle mie parti!» e con una botta dello spazzone, chiude l'uscio della scuola. E definitivamente chiude fuori Santovito e il passato che è venuto a riproporle. Il "maresciallo" non se la prende: una donna che ha passato quello che ha passato Gialdiffa, ha il diritto di fare e dire quello che Gialdiffa ha fatto e detto. Santovito ha imparato a capire i montanari di queste parti. Non si aspettava, quindi, due braccia aperte. Era venuto per capire e aiutare Gialdiffa a capire, ma lei non gli ha creduto e il motivo c'è. Va ragionando fra sé e imbocca il vicolo verso la piazza del paese. Un vicolo stretto e già buio, che il sole non tocca nemmeno in estate. Oggi, poi, anche il cielo è scuro di nubi. Nessuno in giro, silenzio e buio, quasi una nemesi che colpisce Santovito per misfatti non suoi. Ma qualcuno c'è che si muove dietro i muri di sasso, oltre le persiane scheggiate dal tempo e dalle intemperie. Il maresciallo lo sa e lo sente: l'odore di legna bruciata, una sedia smossa sul pavimento di mattoni sconnessi, una stufa che pesta la neve, il brontolare della fiamma in un camino, il sospiro di un vecchio che aspetta, una porta che cigola nell'ombra di un corridoio e Raffaella che di colpo gli piomba dinanzi, pericolo inatteso, a stracciargli il cuore e mordere i muscoli. «Ma che...» e non riesce a dire altro, con la gola serrata. «Non mi aspettavi...»
«No, non ti aspettavo, accidenti!» «Paura? Di cosa?» «Non lo so. La paura è sempre dietro l'uscio...» «... o in un vicolo buio come questo. Sai chi abita qui?» Santovito non ha voglia di rispondere, non adesso. E soprattutto non è interessato agli abitanti del vicolo. Quindi tace. «Ci abita Gialdiffa.» «Bene, mi fa piacere. E allora?» Raffaella si stringe nelle spalle e si avvia. Una veloce occhiata nel corridoio e poi la segue, che in due non ci si sta nel vicolo. «L'ho appena lasciata.» Raffaella si ferma e si volta. Chiede, ma la domanda non prevede risposta: «Niente da fare, eh?» e si riavvia. «Io la conosco: è una che non si lascia intimidire. Ha avuto una vita... e ne ha viste e sopportate di tutti i colori.» «Che ci facevi in casa sua?» «Chi ti dice che ero in casa sua?» Ancora Santovito non risponde. «Lascia la porta aperta. Gialdiffa, dico, e abita qui fin da prima della guerra. A pochi passi da scuola, così è la prima a arrivare» e i due sono nella piazza. «Prendiamoci un caffè.» «Tu non hai mangiato.» «Mangerò di più stasera.» Dentro da Ciccio c'è il gradevole calore di una grande stufa di ceramica piantata al centro della sala. A Santovito ne ricorda un'altra, grande quanto questa, ma di ferro e con una bocca che ingoiava grossi tronchi di quercia o di castagno, e che gli riscaldava la schiena. Il locale non si chiamava Ristobar, allora, e lo tenevano Serafina e Parsuès. Chissà che terra toccano. Niente clienti e Ciccio li accoglie da dietro il bancone, giornale aperto dinanzi, con un «Signori» che sa di presa in giro. «Due caffè» ordina Santovito. E sceglie il tavolo più vicino alla stufa. Accende un sigaro, guarda Raffaella e stabilisce: «Eccoci qua». Tira nel sigaro cercando di mandare il fumo lontano da Raffaella. «Non ti preoccupare» dice lei. «Il tuo sigaro mi piace.» «Devi essere l'unica a non odiare il fumo del sigaro.» «Be', se io fumassi, fumerei il sigaro» e Santovito le porge il pacchetto. «Ho detto se fumassi.» C'è qualcosa in sospeso fra lei e lui. Che chiede: «Allora?». «Allora, cosa?» «Lo sai.» «E tu sai che in paese nessuno chiude a chiave la porta di casa?» «Lo stesso quando c'ero io, ma durerà poco, che i tempi cambiano e ci sarà chi metterà inferriate alle finestre. Se il Frabbone fosse ancora in attività, diventerebbe ricco.» Aspetta che Ciccio posi le tazzine, chieda se serve altro e, al cenno di diniego del maresciallo, si allontani, torni al suo giornale. «Ma che lascino le porte aperte non è un buon motivo per entrare. Che ci sei andata a fare?» Lei non risponde subito. Si prende il tempo per zuccherare e assaggiare poi dice: «Ci voleva. Una mattina d'inferno. I miei ragazzi non stavano tranquilli un momento». «Sentiranno il tempo.» Raffaella finisce a piccoli sorsi ravvicinati, nervosi, la sua dose di caffeina. Ha altro per la testa che i suoi ragazzi. Poi: «Non avevo mai fatto una cosa così... così... Insomma, volevo vedere dove abitava. Sai, in tutta la casa, che non è grande: tre locali che sono la cucina, una camera da letto e uno stanzino con una piccola finestra che guarda dietro. Niente altro. Il cesso è nel cortiletto dietro... Dicevo che in tutta la casa non c'è una foto del figlio». «E questo è tutto?» Raffaella fa segno di no con il capo, ma non continua. Lo fa lui: «Ho capito,
c'è dell'altro». «Sì, c'è dell'altro» ma non si decide. Santovito le lascia il tempo: «Cominciamo dalla foto che Gialdiffa non tiene in casa. Può essere che non ne abbia. Prima della guerra non era facile farsi delle foto. Bisognava avere un abito decente, poi scendere in città, cercare un fotografo, che costava soldi... Voglio dire che non è strano...». Lei lo interrompe: «Non è così» ma non prosegue. «E cioè?» «Cioè... Alle pareti dello stanzino, dove forse ci dormiva il figlio, sono appese molte crociere...» «Non avrà un armadio» la interrompe Santovito. «Be'» dice lei, «quando vuoi fare l'indisponente, ci riesci benissimo» e, indispettita, gira e rigira il cucchiaino nella tazzina. «Ce l'ha, ce l'ha un armadio! Nello stanzino ci sono solo un letto singolo e un armadio. Questo è lo strano: l'armadio è vuoto. Completamente vuoto eppure gli abiti sono appesi alle pareti. Abiti da uomo: giacche e calzoni, alcune camicie, alcune cravatte, due cappotti, un cappello a tesa piuttosto larga...» «Forse la tua bidella ha un amante e lo accudisce. Gli lava e stira i vestiti...» «Sai benissimo cosa voglio dire...» «Sì, forse, ma mi piacerebbe che fossi tu a spiegarmelo.» Lei smette di tormentare tazzina e cucchiaino. «Sì» dice, «te lo spiego. Gli abiti sono di foggia antica, diciamo che sono di prima della guerra, e confezionati alla meglio. Come se li avesse tagliati e cuciti Gialdiffa. Mi ricordano gli abiti che vedevo indosso a mio padre... Alcuni sono di un ragazzo e altri sono più grandi, ma la cosa strana è che sono in ordine.» «In che senso?» «Sono lavati e stirati di fresco, come se aspettassero solo di essere indossati... e sono appesi per ordine di età. Da quelli per ragazzo a quelli per uomo. Il cappotto del ragazzo divide gli abiti piccoli da quelli grandi... Potrebbe essere il misero guardaroba del figlio. Di Roberto» e guarda in viso Benedetto. Aspetta un commento che non viene. «Insomma» alza la voce. «Insomma, non lo trovi strano?» Santovito non commenta. Gli serve che parli lei e la lascia in pace. Ci vuole il tempo che ci vuole e poi Raffaella riprenderà. Inutile e sciocco insistere. Fa un cenno a Ciccio che, dietro il banco, finge di leggere il giornale, ma in realtà fa di tutto per capire cosa passa fra i due. E il maresciallo lo sa. Infatti Ciccio lascia subito il giornale e il banco. «Dica, maresciallo.» «Qualcosa di forte... Una grappa.» A Raffaella: «Per te?». Raffaella annuisce: anche per lei qualcosa di forte. Ne ha bisogno.
1960, novembre, al Ristobar Una Foto Su Una Lapide Arrivano sul tavolo due bicchieri da vino e una bottiglia senza etichetta. Ciccio riempie il primo bicchiere fino a metà e se il maresciallo non gli avesse fatto un cenno, sarebbe arrivato all'orlo. Posa poi la bottiglia sul tavolo, nel caso che ai clienti non bastasse la dose da taglialegna in pieno inverno. Dice: «Produzione locale, maresciallo. Me la procura un tale Bleblè che sta alla Ca' Rossa...» Bleblè della Ca' Rossa! Bisognerà andarlo a trovare, prima di lasciare il paese. Chissà quando, se le cose procederanno come stanno procedendo. Bleblè è ormai la memoria storica della montagna e ha di certo qualche ricordo interessante sulla faccenda. Durante la Resistenza era anche lui sui monti e faceva la sua parte. Quando si erano lasciati, lui e il maresciallo, era il settembre appena passato, all'ipotesi di un ritorno di Santovito al comando della caserma del paese, Bleblè aveva commentato: «Qui c'è chi ti prenderebbe a braccia aperte, maresciallo maggiore... Be', adesso si va a festeggiare... Andiamo, va, che ti offro un bicchiere di vino» che, detto da un montanaro della generazione passata, era il massimo della considerazione. Bleblè, che si chiama Olinto ma nessuno in paese se lo ricorda più, ha avuto una vita infame fin da bambino. Abita alla Ca' Rossa, una piccola costruzione attaccata alla montagna, sopra il paese. L'avevano costruita secoli fa scavando un tratto di roccia per ricavare il piano d'appoggio delle fondazioni. Il risultato è che la casa sembra nascere dal monte. Dinanzi avevano lasciato uno spiazzo in modo che, uscendo di casa, non si rotolasse in basso. Due locali al piano terreno, due al primo piano e una soffitta per conservare le mele e i pomodori in inverno. Il tetto a due falde era ricoperto con lastre di pietra serena che il tempo aveva annerito. Sotto tutto il fabbricato avevano ricavato la cantina scavando nella roccia a colpi di mazza e scalpello e di roccia la cantina aveva il pavimento. In origine c'era, poco discosto, un forno di sasso che, con l'aumentare delle esigenze, era stato ampliato fino a diventare un fabbricato grande quanto la casa che serviva anche per il ricovero della legna e degli attrezzi. I1 primo proprietario e costruttore aveva fatta dipingere la casa di rosso, forse perché la si vedesse fin dal paese. Di quella prima pittura, che nessuno aveva mai più rinnovato, non era rimasto quasi nulla. Qua e 1à, nei punti meno esposti al maltempo e al sole, restavano chiazze di un rosa talmente pallido che si confondevano, in autunno, con il colore delle foglie. Ma continuavano a chiamarla la Ca' Rossa. L'aveva comperata l'Elvira, di ritorno dall'estero, con i soldi che le avevano dato come risarcimento per la morte del marito in una miniera di Francia, ma ci abitava, con il marito e il figlio piccolo, anche prima di emigrare. Allora la tenevano in affitto; l'Elvira si arrangiava con un orto, delle galline e dei conigli, spigolava quando era il momento, rubava castagne, cercava funghi... Il marito andava ad opera, come si diceva da queste parti. Nel senso che prestava la sua opera a chi ne aveva bisogno e quando ce n'era bisogno. E capitava sempre più di rado. Per questo, un giorno che si era presentato al lavoro e si era ritrovato sulla strada, decise che se voleva sopravvivere assieme ai suoi, bisognava emigrare. Tutti e tre: lui, moglie e figlio. Cominciò le pratiche per l'espatrio senza neppure consultare la sua donna che lo avrebbe certamente dissuaso. Lei non sapeva neppure dove fosse la Francia. E poi voleva troppo bene alla Ca' Rossa, tanto che, al ritorno dalla Francia, vedova e con il piccolo Olinto, se l'era comprata e non si era mai più mossa di là. E neppure Olinto, tranne che per fare il soldato in bass'Italia e per un altro periodo di cinque anni, anche questa volta per motivi indipendenti dalla sua volontà, che, se fosse stato per lui, sarebbe rimasto volentieri alla Ca' Rossa.
Fin dal ritorno dalla Francia nessuno in paese lo aveva più chiamato Olinto; era diventato Bleblè per tutti perché balbettava su ogni parola che cominciava con la lettera ci. Fu poi costretto ad allontanarsi di nuovo dal paese e quando tornò non balbettava più, ma rimase comunque Bleblè, Bleblè della Ca' Rossa. Alla Ca' Rossa si arriva per una ripida mulattiera che la pioggia, in autunno, trasforma in torrente. In inverno è una lastra di ghiaccio e si rischia l'osso del collo. Negli anni fra il '39 e il '43, prima di partire per la Russia, buttato dentro a una guerra maledetta e vergognosa come sono maledette e vergognose tutte le guerre, il maresciallo Santovito c'è salito spesso per quella mulattiera. Sudando e sbuffando anche in inverno. «Produzione locale, maresciallo. Me la procura un tale Bleblè che sta alla Ca' Rossa. La distilla lui, ma si raccomanda di non parlarne in giro, specialmente alle forze dell'ordine. Come se non lo sapessero tutti.» Santovito annuisce per tranquillizzare Ciccio. E anche perché distillare un paio di fiaschi di grappa non è il reato che, al momento, gli interessi di più. «Lascio qui la bottiglia» dice Ciccio. E torna di malavoglia alla finta lettura del giornale. In paese tutti, ma proprio tutti, da don Vincenzo Cioni al Frabbone, dalla perpetua a Ciccio, si interessano alla morte del partigiano Bob. Improvvisamente, dopo sedici anni di oblio. E pare che tutti abbiano qualcosa da nascondere. O da sapere. Uno strano mondo di personaggi che il maresciallo Benedetto Santovito si era illuso di aver imparato a capire. Ma le pieghe grezze dei monti, le forre, i dirupi, i boschi... custodiscono sorprese e segreti che, quando decidono e li lasciano trapelare, spesso sono devastanti. Come la fucilazione del partigiano Bob? La grappa di Bleblè è grezza, ma asciutta e, passato il primo sorso, si dilata in un calore gradevole che sollecita un altro sorso. Raffaella non sa come si beve questa grappa e manda giù d'un fiato il mezzo bicchiere. I muscoli del viso le si tendono in una smorfia involontaria e i brividi le corrono per tutto il corpo. Riesce appena a mormorare: «Madonna...» «Sì» conviene Santovito, «è un po' forte e va bevuta a sorsi. Il primo tira su il morale...» «Be', a me basta il primo» mormora lei con voce fatta roca dai gradi della grappa. «... e i successivi ti mettono in pace con il mondo» assicura il maresciallo versando ancora nel bicchiere di Raffaella. Dà la piena anche al suo, per equità. Accende un sigaro e dà un tiro. «Sigaro e grappa sono un buon equilibrio di gusti.» «Se lo dici tu...» ma si limita a accarezzare il bicchiere con i polpastrelli. Poi bagna l'indice nella grappa e succhia il dito. Adesso sembra un po' più rilassata. È il momento per sollecitarla: «Non è la mancanza di una foto che ti ha sconvolto in quella casa, no?» Raffaella alza gli occhi dal bicchiere e guarda Santovito. Dice sottovoce: «Maresciallo, Gialdiffa ha almeno una foto del figlio. E io l'ho vista. I primi giorni di scuola ho accompagnato una mia collega al cimitero...». Sospende per un sorso di grappa, che questa volta non la fa rabbrividire. Ci si sta abituando. La grappa fa il suo dovere. «Allora?» «Allora... Si è fermata sulla tomba dei suoi e poi mi ha mostrato quella del figlio della bidella. Sulla lapide c'è la foto di Bob, suo figlio...» Un altro sorso. «Mi sembra strano che Gialdiffa non tenga a una parete di casa la foto del figlio. Qui usa così. Una foto alla parete, di solito sul comò, e, sotto, un lumino acceso. Qui tutti lo fanno. Perché Gialdiffa no?» La notizia non sorprende Santovito. Schiaccia il resto del sigaro nel posacenere, beve la sua grappa, questa volta d'un fiato anche lui, si alza e dice: «Se la cosa ti turba tanto, chiederemo alla tua bidella perché non tenga in casa una foto del figlio con dinanzi il lumino acceso, come fanno tutti da queste parti. Anzi, perché non glielo chiedi tu?» e va da Ciccio a pagare. «Tutto bene, maresciallo?» chiede quello.
«Tutto bene, Ciccio, perché?» «Ma... Vedo la signora professoressa un po'... Come dire? Un po' giù, pallida.» «Non sta bene, ma passerà. Quanto ti devo?» Ciccio ripiega il giornale, con un colpo della destra chiude la cassa e dice: «Offre la ditta, maresciallo. Auguri per la professoressa». I due lasciano il tepore del Ristobar e fuori li investe un vento gelido, che da poco è calato dalle vette attorno; prende d'infilata le strade del paese, spazza la piazzetta e turbina e solleva quel poco di spazzatura che stamattina le donne avevano ammucchiato dinanzi agli usci di casa. Fanno pochi passi e Raffaella si stringe, tremando, al braccio di Santovito. «Freddo?» «No, mi fa rabbrividire la tua insensibilità.» Santovito cambia discorso. Se c'è una cosa che non lo lascia insensibile, è proprio questa drammatica storia di massacri e fucilazioni, ma non se la sente di spiegarlo adesso e qui, in strada. Dice: «Ti faccio accompagnare alla Mezzacosta da Chiaffalà». «No, no. Telefono su e faccio venire Stelio. Non mi va di scomodare la Benemerita. Solo che...» ma la smette lì. «Solo che...» «C'è dell'altro nella casa di Gialdiffa.» Santovito si ferma, guarda in faccia Raffaella, le mette le mani sulle spalle e dice: «Non avresti dovuto entrare. Non è legale...». Con un gesto di stizza che non le è consueto, Raffaella si toglie di dosso le mani di Santovito e si riavvia. «E cos'è legale in questa storia?» Si ferma e è lei che guarda in faccia Santovito. «È legale ammazzare un ragazzo di vent'anni? Fare un falò della baracca dove c'era la prova della sua innocenza? Raccontare a una povera donna che le hanno ammazzato il figlio per un errore? Riprendere le indagini sedici anni dopo? A che serve, me lo vuoi dire, se non a tormentare di più Gialdiffa? Che già ne ha passate abbastanza. Io sono entrata in casa sua per darle una mano, maresciallo, visto che lei non ne vuole sapere, visto che è così incarognita da non ascoltare più nessuno...» ma è arrabbiata e non trova altre parole. Riprende la strada verso la cabina telefonica nell'angolo della piazza, di fronte al Ristobar. Si chiude dentro e chiama la Mezzacosta, che le mandino giù Stelio con la macchina. Esce e dice: «Adesso arriva Stelio e te ne puoi tornare in caserma». «Sto facendo solo il mio dovere. Se avessi potuto, se fossi arrivato in tempo anni fa... Lo avevano già fucilato.» «Non ce l'ho con te.» «Con chi, allora?» «Con questo modo di vivere...» e la smette perché sente un nodo in gola. Cerca di ingoiarlo: «Mi dirai le novità?». «Sì, se ce ne saranno. E l'altro che hai visto in casa di Gialdiffa?» «Non è importante.» «Vorrei deciderlo io...» Raffaella fa un cenno vago. Dice: «Perché non vai tu a controllare?» Santovito scuote il capo: «Perché non posso, perché mi servono delle autorizzazioni, perché allo stato dei fatti non ho motivi per chiedere una perquisizione nella dimora di una probabile teste...». «"Allo stato dei fatti... Perquisizioni nella dimora di una probabile teste..." Ma come parli, maresciallo?» «Lascia perdere.» Lasciano perdere entrambi. Santovito si appoggia al muro sgretolato di una casa e accende un sigaro; Raffaella, un po' discosta, si stringe le braccia attorno al corpo, respira lungo e guarda il
cielo. Passa un po' di tempo senza una parola. Poi, di lontano e nel silenzio di un paese deserto, arriva il rumore inconfondibile del Millecento di Stelio. Non riesce a dormire e la branda non è mai stata tanto scomoda. O sono i troppi pensieri. L'ultima volta che ha guardato l'orologio era passata da poco mezzanotte. Se n'è andato altro tempo, chissà quanto, poi suona il telefono. Uno squillo troppo forte, stridente, che entra nel cervello. «Pronto...» La voce di Gargiulo è impastata di sonno. Anche lui stava in branda. Con la differenza che il carabiniere dormiva della grossa: «Signor maresciallo, mi scusi ma c'è qualcuno che chiede di lei. Le passo la telefonata? Ha insistito e io non so...». «Ha detto chi è?» «Signornò, signor maresciallo. Io ho insistito, ma...» «Va bene, Gargiulo, va bene, passamela.» La comunicazione tarda a arrivare nella stanza di Santovito. Gargiulo non si è ancora impratichito della derivazione telefonica e di come funziona e il maresciallo sta per scendere a rispondere direttamente dal centralino quando... «Sono io, scusa l'orario...» «Raffaella! Che c'è? Cos'è successo?» «Niente... Solo che non riesco a dormire.» Be', anche Santovito... «Non riesco a dormire se non ti parlo della cassaforte...» Questa è nuova. «Quale cassaforte, Raffaella?» «Be', per la verità è una cassetta, ma rinforzata con chiodature e bande di ferro e con un grosso lucchetto. L'ho trovata sotto il letto di Gialdiffa.» Non solo è nuova, ma è un'assurdità: Gialdiffa ha una cassaforte! Cosa potrà mai avere da proteggere o custodire in una cassaforte la bidella? Ma non è finita. «Poi ho un dubbio che mi tormenta...» «Quale?» «Non potresti salire da me? Non mi va di parlarne al telefono.» «Raffaella, sai che ore sono? Che dico qui? Scusate, prendo l'auto e salgo alla Mezzacosta perché Raffaella ha un dubbio? Non ne possiamo parlare un'altra volta?» C'è un silenzio che dura più del normale. «Ci sei ancora?» «Ci sono, ci sono. Va bene: vengo da te domani, dopo la scuola...» «No, non ci sono. Domani ho una quantità di sopralluoghi e rientrerò tardi...» La voce di Raffaella diventa impaziente: «Va bene, va bene! Allora quando?». «Quando... Non lo so. Verso sera. Diciamo le cinque, qui da me in caserma. O salgo io da te?» Santovito non sa se l'incontro avverrà qui, in caserma o alla Mezzacosta, perché Raffaella ha chiuso la comunicazione senza dargli risposta. Gli restano microfono e segnale di via libera all'orecchio.
1960, novembre, alla Ca' Rossa L'acqua Minerale Di Bleblè La camionetta si ferma sull'aia e Santovito scende. Il vento è più teso e più freddo che giù al paese e il maresciallo si stringe addosso il cappotto. Con calma, dà brace a un sigaro e guarda la valle che ha lasciato e poi guarda la casa che ha raggiunto. La Ca' Rossa non ha una crepa. Di sasso e solida come la roccia sulla quale è piantata da chissà quanti anni. Ci si arriva per una mulattiera attaccata al monte e persino la camionetta dei carabinieri ha avuto qualche difficoltà nelle curve troppo strette e nei canaletti che la tagliano di traverso e che Bleblè tiene puliti in modo da scolare l'acqua piovana verso il basso. Se no i temporali si porterebbero via la strada e tutto. Il fumo chiaro, uscito per il camino, non punta in alto. Esce e si rivolta verso terra, schiacciato dal vento e dalla bassa pressione. Attorno, il buon profumo di legna stagionata. Se Bleblè è dentro, non tarderà a uscire. Così è. L'uscio si socchiude, il vecchio mette fuori la testa, spalanca la porta, esce, fa due passi verso il maresciallo. Indossa una berretta di lana e una giaccona, anche questa di lana spessa che non lascerebbe passare un pallino da caccia. Chissà da quanti anni l'una e l'altra fanno il loro mestiere contro il freddo. Il vecchio si ferma abbastanza discosto dal maresciallo e dice: «Ooo, questa non me l'aspettavo davvero.» «Vuol dire che sei l'unico in tutta la montagna a non sapere che sono tornato. Un sigaro, Bleblè?» Il vecchio scuote il capo. Dice: «Sapevo che sei tornato. Non credevo che saresti salito fin quassù. A meno che...». «È così, Bleblè. Sono qui per quella tua grappa...» «Questa è buona, maresciallo. Distillavo grappa anche quando c'eri tu, lo sapevi e non mi hai mai messo dentro per questo. Cos'è 'sta storia?» Indica la porta di casa: «Vieni dentro, vieni dentro che si sta meglio e ti offro una grappa» e si avvia per rientrare. Ma si ferma, si gira e grida: «E vieni dentro anche tu, Chiaffalà che non ce l'ho con te. Ce l'ho con quel tuo carabiniere dell'ostia che mi sta sempre addosso. "E non è stagione di caccia, Bleblè. E fammi vedere la licenza, Bleblè. E prima o poi ti metto dentro, Bleblè..." Ma lasciami in pace, Gargiulo, no?' So io quando è stagione e quando non lo è e non ho mai pagato una licenza che è una!». Al maresciallo: «Neanche per la grappa, se proprio lo vuoi sapere!». Dentro c'è il fuoco acceso e un tepore gradevole. E una pagnotta di pane fresco sul tavolo, accanto a un mezzo formaggio stagionato e con la crosta scura. Senza chiedere, Bleblè affetta pane e formaggio e va a scovare da un canterano nascosto dietro una tenda una bottiglia e tre bicchieri. Posa sul tavolo, riempie per metà i bicchieri e dice: «Acqua minerale per mandare giù il formaggio». Cominciano a mangiare, seduti al tavolo, in silenzio. Al primo sorso di acqua minerale, Santovito schiocca la lingua, guarda Bleblè e gli mormora: «Acqua minerale, eh?». «Maresciallo, che colpa ho io se dietro casa ho una sorgente che butta quella?» e versa ancora per tutti. Anche Chiaffalà sorseggia, annuisce e dichiara: «Un'acqua minerale che vorrei avere anch'io dietro casa. Perché non la imbottigli e ti metti a venderla, Bleblè? Diventi ricco.» «Pare che ci voglia la licenza, appuntato» poi a Santovito: «Allora, maresciallo, che c'è di nuovo? Come mai da queste parti?». «Sono venuto a trovarti, Bleblè. Mi manca la tua Ca' Rossa, il tuo formaggio, la tua acqua minerale...» «Non dire coglionate anche tu, maresciallo, che ne ho sentite troppe da un po' di tempo in qua. So io perché sei salito. Giù non ti dicono quello che vorresti sapere e hai pensato: "Chissà se quel
rimbambito di Bleblè...". È così o no?» Santovito annuisce e poi: «E quel rimbambito di Bleblè che fa?». «Fa come gli altri» e se ne sta tranquillo per un po' assaggiando a turno il formaggio e la strana acqua minerale. «Spiegami una cosa, maresciallo? Perché io?» «Bleblè, sei o non sei la memoria storica del paese?» «Vuol dire anche che sono troppo vecchio» lo interrompe sottovoce Bleblè. Poi: «Se non ti hanno detto niente gli altri, se perfino il sindaco... Ma lasciamo perdere. Perché dovrei farlo io, maresciallo?». Santovito ci pensa su, annuisce, si chiede: «Già, perché?» e poi solleva il bicchiere: «Mi ha fatto piacere rivederti, Bleblè, e assaggiare la tua acqua minerale». Si alza da tavola e a Chiaffalà: «Finisci di bere, appuntato, che si torna in caserma. Porta sfortuna lasciare il bicchiere mezzo pieno». L'appuntato manda giù l'ultimo sorso, si alza anche lui e dice: «Un buon formaggio, Bleblè, davvero un buon formaggio. Mi dici dove lo trovi?». Bleblè sorride: «Io non dico niente ai carabinieri. Neanche dove prendo il formaggio, che con voi non si sa mai come va a finire». Rimette l'acqua minerale nel canterano e torna avvolgendo un mezzo formaggio in un foglio di carta gialla, da macellaio. Che poi consegna a Chiaffalà: «Mangialo alla mia salute. Niente acqua minerale, però. È contro la legge, appuntato». Si calca la berretta in testa, allaccia la giaccona, butta sul fuoco un paio di grosse radici di castagno, che sollevano un turbinio di faville, e dice a Santovito: «Andiamo che ti accompagno». «E dove?» I1 vecchio non risponde, esce di casa, aspetta che gli ospiti lo seguano, chiude la porta e dice: «Così quando torno c'è caldo» e si avvia borbottando: «Se io non ti dico niente, non vuol dire che altri... Maresciallo, ti porto dai Bernardi di adesso, dove c'è chi da dire potrebbe averne eccome...» e monta dietro. Per scendere dalla Ca' Rossa in paese, Chiaffalà tiene la seconda, in certi punti rallenta quasi a fermarsi e borbotta per la strada dissestata. Non è un granché come autista. Bleblè si avvicina alla nuca di Santovito, che gli è seduto davanti, e comincia un suo racconto. La prende alla lontana, non si capisce dove andrà a finire, ma il maresciallo sa che bisogna ascoltarlo, il vecchio. «C'è stato un tempo che da lavorare ce n'era poco da queste parti. Parlo di prima della guerra che se non avevi la tessera del fascio era grama da tirare avanti. Così mi arrangiavo come potevo. Un po' sui monti a tagliare legna o a fare carbone, un po' a fabbricare ghiaccio e portarlo giù, in valle, per i cittadini... Si facevano dei chilometri e si stava via di casa per settimane. Una vita da bestie che se dovessi farla ora... Ma lasciamo perdere. Un bel giorno mi presento dal vecchio... Sai, maresciallo, il Patriarca... Ecco, appuntato, prendi verso l'altra vallata.» Sono arrivati sulla statale, Chiaffalà sterza a destra e la camionetta ronfa sulla salita. Bleblè ricomincia: «Dunque, io avevo saputo che il Patriarca assumeva gente a opera e mi presento anche se non era proprio comodo comodo per me, che abitavo dove abito adesso, su, alla Ca' Rossa. Mi presento, mi assume e mi dà anche da mangiare e da dormire. Nel fienile, assieme agli altri che lavoravano i campi a falciare e a mietere. Poi alle Piane c'erano sempre dei lavori da fare come pulire i fossi, disboscare attorno per farci dei campi e una stallaccia, tagliare legna da vendere o fare carbone... Insomma, una vita decente e un salario» e fa una pausa che Santovito riempie con uno sguardo a Bleblè in attesa del seguito. «Allora? tu mi dirai. Allora è stato in quel periodo che ho conosciuto la Cesira, che sarebbe poi la sorella più piccola del Patriarca...» «E questa Cesira c'entra qualcosa con la storia del partigiano Bob?» lo interrompe Santovito. Il vecchio non risponde e segue il filo dei suoi ricordi. C'è qualche rimpianto, dentro. «Ci ho anche
fatto l'amore... Ooo, nel senso che filavamo. Era quello che si faceva allora. Bei tempi! Chissà, forse l'avrei sposata se le cose non fossero andate come sono andate» e lascia perdere i ricordi. «Ma questa parte della storia la conosci, maresciallo.» Santovito annuisce e mormora: «Sì, la conosco. Va bene, Chiaffalà, ferma qui». Fa cenno ai due di aspettarlo e scende. Ha bisogno di riflettere e si discosta un po' dalla camionetta. Dove lo sta portando Bleblè? E dove vuole arrivare con la sua storia che si perde in un passato più lontano della fucilazione del partigiano Bob? Gli altri due se ne stanno rintanati nella camionetta. Poco più sopra da dove Santovito ha fatto fermare, si stacca una strada, stretta e sterrata, ma ben tenuta. Il primo tratto è dritto e costeggiato da siepi da cui rosseggiano bacche di rosa canina e spuntano alberelli di evonimo, carichi di velenosi frutti violacei. All'incrocio fra la statale e la strada sterrata, un cartello di metallo indica, smaltato nero su bianco, la direzione per le Piane. Il maresciallo comincia a capire e si avvia verso il bivio. Le Piane, da qui, non si vedono ancora. Una quindicina d'anni fa, assieme a Musone, aveva preso la stessa direzione. «Non proprio la stessa» borbotta. «Allora tagliammo per i campi, per paura di imboscate. Altri tempi!» Fa segno a Chiaffalà, che aspetta ordini, di raggiungerlo. L'appuntato esegue, abbassa il finestrino e chiede: «Che facciamo, maresciallo?». «Che facciamo? Andiamo, andiamo» risponde nervoso Santovito. E sale dietro, accanto a Bleblè. Lo guarda in faccia: «Dopo?». «Dopo cosa?» «Dopo aver fatto l'amore con la Cesira?» Bleblè sorride e annuisce. «Allora mi ascolti quando parlo. Sì, dopo ho conosciuto Italo, il figlio zoppo del Patriarca. Era più giovane di me, ma ci si intendeva, noi due. S'andava a caccia assieme, quando stavo da loro, alle Piane, a opera. Era un giovane a posto, prima che un carro pieno di fieno gli finisse sulla gamba. Dopo non è stato più lui. Sempre incarognito, ce l'aveva con tutti. C'ero quando successe. Stava sul carro, io e altri due si dava su il fieno e lui lo sistemava. Il carro prende una brutta buca e si spezza l'assale della ruota, i buoi scartano e lui finisce sotto il pianale con la gamba. Non ci abbiamo messo neanche cinque minuti a scaricare il carro e a tirarlo fuori, ma il disastro era fatto. Poi ha fatto la brutta fine che ha fatto, poveretto.» Guarda fuori e dice: «Be', siamo arrivati». Scendono. Santovito si guarda attorno: «È tutto cambiato». E, prima di avviarsi alla casa, si sforza di ricordare com'era anni prima, quando era arrivato qui per un'inchiesta mai conclusa. Una delle poche, forse l'unica, nella sua vita di carabiniere. L'unica cosa rimasta è il muretto con la fontana e l'acquaio scheggiato. Non c'è più la pompa a mano e, sopra, il sambuco è soppiantato da un giovane noce. La casa è stata ricostruita, intonacata e dipinta in giallino. Alle finestre e alle porte, profilati di alluminio anodizzato sostituiscono i vecchi manufatti di legno. Non c'è più la pergola dell'uva americana, ma c'è la panchina di pietra, vicino alla porta e, di fianco alla stalla e al fienile, entrambi ricostruiti e ingranditi, sorge un silos. Un trattore con attaccato un erpice, giace in un angolo e, sotto una tettoia, una Seicento bianca, ben tenuta. Galline razzolano chiocciando sull'aia e da qualche parte, da una chiesa lontana, arrivano le campane del mezzogiorno. Bleblè dice: «A mezzogiorno, da queste parti, si è sicuri di trovare la gente in casa.» «Perché non ti sei arruolato nell'Arma, Bleblè? Avresti fatto carriera.»
1960, novembre, alle Piane Una Nuova Generazione Sul Podere Del Massacro Un bambino sporge la testa dall'uscio per poi tornare dentro precipitosamente e subito esce un uomo ancora giovane. Dietro, il bambinetto torna a sogguardare e s'intravede anche una giovane donna che si asciuga le mani nel grembiule. «Buongiorno» dice Santovito. «'Giorno» risponde l'uomo sospettoso, guardando i due in divisa. «Cosa...» Poi vede anche Bleblè, appena sceso dalla camionetta. È rinfrancato: «Aaa, sei tu, Bleblè!» e, sempre sulla porta, aspetta che i tre si avvicinino. «Spero di non disturbare.» Santovito la prende alla larga. «Non so, state mangiando?» Il giovane torna sospettoso e risponde guardando Bleblè: «Be', ancora no, fra poco, ma se posso sapere...». «Ooo Filippo!» scherza a voce alta Bleblè. «Il maresciallo non è qui né per te né per i tuoi. Cosa credi? Che ti porto qui i carabinieri per metterti dentro? Allora, ci fai entrare o ci fai stare al freddo?» Santovito ritiene di chiarire: «Niente, Filippo, solo qualche domanda su una storia vecchia, la strage del '44» e vedendo lo stupore del giovane: «Siete gli eredi dei Bernardi, no?». «Sì, ma venite dentro» e finalmente libera la porta e con la mano li invita a entrare. Prima di lasciare l'aia, Santovito ferma Chiaffalà con un gesto: «Aspettami qui». «Ma io, signor maresciallo...» Il signor maresciallo sorride all'espressione contrariata dell'appuntato: «Hai ragione, meglio sulla camionetta, che non prendi freddo». La cucina è spaziosa. C'è un tavolo già apparecchiato, la giovane si dà da fare attorno a un fornello alimentato da una bombola di gas liquido. «Giovanna, mia moglie» dice Filippo. In un angolo c'è una stufa economica e, in fondo, un camino acceso vicino al quale, su una seggiolina, siede una donna avanti con gli anni. Bleblè va diritto da lei, le posa le mani sulle spalle, le sorride e si china per salutarla. Sorride anche lei. «Come va la mia Cesira?» le chiede Bleblè. «Ooo Bleblè, come vuoi che la vada? La va da poveri vecchi.» «E chi sarebbero i poveri vecchi? Io e te siamo ancora giovani, Cesira mia» e, presa per la spalliera una sedia che stava al tavolo, la porta accanto alla donna e siede. L'anziana Io guarda, gli sorride, gli posa la mano sulle ginocchia e fra i due comincia un confidente dialogo sottovoce. Le cose che hanno da dirsi, dopo tanto tempo, forse anni, riguardano solo loro due, giovani di una volta. Intanto Filippo ha detto al maresciallo: «Si accomodi» spostando una sedia dal tavolo apparecchiato. «Un bicchiere?» «Be', grazie, se non disturbo, lo bevo volentieri.» «Disturba il male» dice il giovane. Da un fiasco sul tavolo, versa in tre bicchieri. Uno lo porta a Bleblè che lo posa sul rialzo del camino, accanto alla fiamma, e dice: «Gli faccio prendere un po' di caldo.» «Alla salute» dice Filippo. «Alla salute» dice anche il maresciallo, e bevono in silenzio. Il giovane si pulisce la bocca con il dorso della destra. «Capisco perché siete qui, ma è una storia
morta e sepolta. Che senso ha andare a rimestare...» Santovito lo ferma con un gesto: «Ha senso, Filippo, ha senso, credimi. Ci sono nuovi elementi e sono quasi certo che il responsabile della strage non sia stato Bob». «Bob, Bob... Allora chi sarà mai? Se non lui, che poteva anche avere i suoi motivi, chi è stato?» «Questo lo dobbiamo capire e sono qui per questo.» «Non credo di potervi aiutare, signor maresciallo. Allora io ero troppo giovane e non so bene le cose. Ne ho sentito parlare, tutto qui.» «Che grado di parentela hai con il vecchio Bernardi?» Forse per prendere tempo, Filippo manda giù un altro po' di vino rosso. Il maresciallo lo imita e anche Bleblè, pur continuando a chiacchierare sottovoce con la Cesira, sorseggia. «Dunque, il mio povero babbo era cugino del Patriarca. Insomma, figli di fratelli e così lui ha ereditato. le Piane. Aaa, c'è stato un po' d'intoppi legali, che non so bene, poi ci ha pensato un po' prima di trasferirsi qui con tutta la famiglia... Sapete, per quello che era successo e tutto il resto, ma eravamo su un pezzo di terra che era magra e cattiva che sarebbe meglio che il diavolo se la riprendesse all'inferno. Così sono stato proprio io, anche se ero ancora un ragazzo, a dirgli: "Babbo, lasciamo stare i morti e tutto, quelli sono sepolti e amen, le Piane sono un bel podere, mangiare si deve mangiare ogni giorno" e ci siamo messi qui.» Il maresciallo annuisce e vuota il bicchiere. Prende fuori i sigari: «Disturba se fumo?». Il giovane fa segno di no con il capo. «Sai, Filippo, il sigaro mi aiuta a concentrarmi. Un'idea di sicuro, ma sono anni che ho l'abitudine.» «Fate, fate pure con comodo, maresciallo» e al gesto di offerta di un sigaro, rifiuta agitando le mani. Santovito accende il suo, si concede due tirate e un giretto fino al camino, dove getta il fiammifero ormai spento. Per un poco resta in piedi a guardare il fuoco, poi: «Dunque, tu saresti l'unico erede dei Bernardi». Si gira a Filippo che annuisce. Torna a sedere dinanzi al giovane e indica l'anziana che, di schiena, continua a mormorare con Bleblè. «Allora spiegami questo fatto, Filippo: la Cesira, lì, non era la sorella più giovane del Patriarca e quindi erede naturale dei beni dei Bernardi?» La domanda ha portato nello stanzone un silenzio pesante. La Cesira e Bleblè hanno smesso di parlare e si sono voltati a aspettare il seguito. Filippo versa altro vino, ma solo nel suo bicchiere. Ci guarda dentro, come se la risposta fosse lì, e poi dice: «Be', sì, la Cesira avrebbe dovuto ereditare lei, ma ci sono stati dei fatti...». Non sa bene come spiegare. «Insomma, ci sono stati dei fatti piuttosto brutti. Quando qui c'è stata la strage, mia zia, lì, la Cesira, non abitava più alle Piane. Si era sposata da poco e era andata a stare con la famiglia del marito. Poi è rimasta vedova subito dopo la guerra per via che suo marito è saltato su una mina... Non avevano avuto figli e non se la sentiva di venire a stare da sola alle Piane. Si capisce, dopo quello che ci era successo...» Ha parlato in fretta e fa una pausa per una boccata di rosso e per riprendere fiato. «Insomma, la Cesira, qui, ha rinunciato all'eredità in favore di suo cugino, che era poi mio padre, e così... Insomma, le cose sono andate per quel verso.» «Ho capito» mormora Santovito e poiché il giovanotto non gli aveva riempito il bicchiere, lo fa lui. Offre il fiasco anche a Bleblè, che però non ne vuole e torna a parlottare con la Cesira. «Ho capito» dice ancora Santovito. Un sorso e alcune tirate nel sigaro. «In che rapporti eravate con i Bernardi delle Piane?» Il giovane si stringe nelle spalle: «Noi si era diversi, anche per la politica. Loro eran fascisti e il mio babbo non lo è mai stato, anzi. Non è che ci fosse astio, ma ognuno a casa sua e che le bevute vadano pari». «Tu li hai visti i corpi?» Il ricordo di quei brutti giorni non fa piacere a Filippo. Lo si capisce dall'espressione del viso. «Li ho visti, li ho visti, ma di lontano. Non mi hanno fatto avvicinare» dice poi. «Sa, ero un ragazzo,
avevo tredici, quattordici anni. Ci sono venuti a chiamare... Come ho detto eravamo gli unici parenti...» «Assieme alla Cesira» tiene a sottolineare Santovito. Filippo non capisce dove voglia arrivare il maresciallo, ma annuisce. «Poi cos'è successo?» «Cosa volete che sia successo, maresciallo. Erano tempi... Insomma, c'era ancora la guerra, tante indagini, sapete, non ci sono state, poi abbiamo saputo dai partigiani... Si, voglio dire che era stato Bob, che lo avevano condannato, insomma. Li hanno tirati fuori dalla cisterna e li hanno distesi sull'erba. Così noi li abbiamo messi nelle casse da morto e fatti seppellire al camposanto...» «Tirati fuori dalla cisterna? Cioè?» Filippo è sorpreso. Spiega: «Sì, perché Bob li aveva ammazzati e buttati dentro nella cisterna. C'è ancora, la cisterna c'è ancora e ancora ci prendiamo l'acqua per innaffiare». «Ne deve aver avuto di tempo Bob. Li ha ammazzati, li ha gettati nella cisterna, ha incendiato le Piane...» mormora Santovito, quasi un suo pensiero. «E tu c'eri quando li hanno tirati fuori?» Filippo fa sì con il capo. «Non avete cercato... Che so, guardato com'erano... Come li avevano uccisi... So che è una cosa terribile, ma quando ci sono dei morti ammazzati... Per esempio, si poteva cercare nelle loro tasche...» Vede che Filippo si rabbuia ancor di più. «Insomma, qualcuno doveva pur cercare dei documenti, delle tracce di come fossero stati uccisi...» Il ricordo non è dei più allegri e il giovane si sforza. Dice: «A me non mi hanno fatto avvicinare, ma ho sentito parlare di un foglio scritto che però l'acqua aveva quasi cancellato e si leggeva male o poco e poi ho saputo...». Un foglio scritto! È la cosa più importante che Santovito sia riuscito a sapere da quando è ricominciata una vicenda vecchia di sedici anni. Con un gesto secco interrompe il giovane. Chiede: «E dove l'avrebbero trovato questo foglio? È importante». Filippo si passa una mano sul viso. «Be', io credo nell'acqua della cisterna... No, no, nelle tasche del Patriarca. Invece nelle tasche di Italo, sa, il figlio del Patriarca, ci hanno trovato delle cartucce da caccia.» A Santovito torna in mente un'altra cartuccia, trovata, allora, poco distante dalla fontana. Un foglio e delle cartucce: le cose cominciano a tornare. Pare non ci sia più molto da dire e nello stanzone c'è di nuovo silenzio. Il piccolo se ne sta in disparte e ascolta una favola raccontata dai grandi, la giovane cerca di darsi da fare al fornello, ma ci riesce male, i due anziani hanno esaurito i ricordi. Santovito si alza, ma prima di prendere l'uscio, dice: «Un'ultima cosa: hai detto, sono parole tue, che Bob poteva anche avere i suoi motivi. Quali, secondo te?». Filippo è sempre più a disagio. Avrebbe volentieri fatto a meno della visita. «L'ho detto perché per fare quello che ha fatto, ci doveva avere i suoi motivi. Ma che ne so io?» e nel silenzio che segue, la voce della Cesira è chiara e senza esitazioni. Dice, a voce alta: «Lo so ben io che motivi aveva Roberto!» «Cesira!» dice Filippo. Ma l'anziana va per la sua strada, decisa. «I suoi motivi ce li aveva, eccome se ce li aveva!» Santovito si avvicina alla donna. Guarda in viso Bleblè, che non lo guarda e vuota il bicchiere prima di andare a posarlo sulla tavola. «Che motivi, Cesira?» « È che Roberto Cortesi, quello che voi chiamate Bob, era figlio di mio fratello Pietro» e guarda dritto in faccia il maresciallo. Riprende a voce alta: «Sì, caro voi, il Patriarca si era messo dietro alla Gialdiffa e l'aveva fatta pregna. Ma lui, quella carogna di Pietro, nominandolo da vivo, aveva altre idee per la testa. Si era messo in testa di sposare una, che poi era padrona delle Piane, e ha lasciato Gialdiffa e suo figlio in mezzo a una strada, quella carogna, sempre nominandolo da vivo, che i morti hanno diritto al rispetto. Ooo!». E come se la Cesira si fosse sgravata e adesso respira meglio e aggiunge, tranquilla: «Roberto non ha mai avuto un centesimo che è uno, da suo padre. Lui e la
povera Gialdiffa sono vissuti nella miseria che per mangiare una volta al giorno portavano l'acqua con le orecchie, poveretti». Ha intenzione di concludere e lo fa con cattiveria. «Se Roberto l'ha ammazzato, ha fatto solo bene.» Una pausa e poi: «Non avrebbe dovuto prendersela con gli altri che, poveretti, non c'entravano niente» e, girata la schiena ai presenti, torna a scaldarsi le mani alla fiamma del camino. Alle Piane, oggi, non si sono accorti che mezzogiorno è passato da un po'. E la minestra è rimasta nei piatti, dove la giovane moglie di Filippo l'aveva scodellata e condita, sperando che i due ospiti inattesi e importuni avessero un po' di rispetto. Non ne hanno avuto e le tagliatelle asciutte con abbondante ragù e una spolverata di parmigiano (aveva fatto tutto lei, che al marito e agli altri non restasse che avvolgerle attorno alla forchetta e metterle in bocca), si sono raffreddate e adesso sono immangiabili. Forse, quando il maresciallo e Bleblè se ne andranno, Giovanna le passerà in padella e le servirà di nuovo, croccanti e calde. In ogni caso, alla famiglia resterà l'amaro in bocca.
1960, novembre, alle Piane e in caserma Raffaella Non Ci Sta Non una parola, non un cenno di saluto. Santovito esce dalla grande cucina delle Piane e si avvia alla A.R. Matta. Bleblè, che lo ha guardato uscire, e si era avviato per seguirlo, ci ripensa, torna al camino, si china su Cesira delle Piane e le mormora qualcosa all'orecchio. Poi anche lui esce in silenzio. Chiaffalà, pastrano stretto al petto, bavero alzato, mani appoggiate al volante e capo sullo schienale, sonnecchia. Si scuote al rumore della portiera aperta e cerca di dare una motivazione al suo stato poco marziale: «Mi scusi, signor maresciallo, ma qui fa un freddo che mi sono addormentato». Santovito fa un cenno che significa "non ti preoccupare" e gli siede accanto. Ha una quantità di pensieri che non sa da dove riprendere il ragionamento e così si guarda attorno. Un paesaggio che, in sedici anni, è cambiato di poco. Lui sì, lui è cambiato. Arriva anche Bleblè. Sale dietro e aspetta. Come aspetta Chiaffalà. Che ha dimenticato i guanti in caserma e gli si sono gelate le mani. Le riscalda soffiandoci sopra. Passano minuti, troppi per essere normale e Chiaffalà guarda il superiore e ci prova: «Si va in caserma, signor maresciallo?». Santovito nega con il capo. Riapre la portiera e scende. Solo adesso sente il freddo di un pomeriggio che si è fatto di nebbia. Ma non è nebbia: le nuvole si stanno abbassando e vanno a modificare il paesaggio. Lo rendono insicuro. Il maresciallo accende un sigaro, fa segno di aspettarlo e si allontana dalla A.R. Matta. Perché? Non lo sa. Forse ha solo voglia di consumare un sigaro in pace. Lo fa, la schiena appoggiata a un salice giallo capitozzato, e a occhi chiusi. Qualcosa gli torna da un passato che adesso gli sembra non essere mai passato. Riapre gli occhi e ripercorre un sentiero percorso chissà quanti anni fa, calpesta la stessa erba che il freddo sta indurendo... S'infila nella cavedagna dalla quale era arrivato allora, nel '44. «Dov'è che sono stati ammazzati?» Senza rispondere, Musone si avviò, proseguì per la cavedagna e si fermò poco oltre la fontana, in un piccolo spiazzo dove i montanari sono soliti bruciare i ricci delle castagne. I resti della casa erano nascosti dal sambuco, attorno alla fontana, e dai primi castagni. Indicò lo spiazzo: «Li ha ammazzati lì.» Si chinò: «C'è ancora il sangue» disse e si alzò per andare al limite della piccola spianata, quattro passi dal sangue e ancora indicò. «E qui ci sono i bossoli della raffica.» Salerno rifece il percorso che Musone aveva concluso e anche lui si chinò sulle macchie di sangue rappreso, ormai amalgamato con l'erba appassita dall'autunno. Da dove l'assassino aveva esploso la raffica, Salerno raccolse un bossolo e se lo rigirò fra le mani. «Sten, sì» mormorò «non ci sono dubbi.» Allontanandosi dallo spiazzo, controllò attorno e, poco dentro il bosco e dietro al tronco di un grosso albero, fra l'erba calpestata che l'autunno non era riuscito a far riprendere, raccolse qualcosa che poi andò a mostrare a Musone. «Sì, va bene, una cicca di toscano» borbottò quello, «ma non vuol dire niente. Forse il vecchio dei Bernardi fumava il toscano. Da queste parti, tutti i vecchi fumano il toscano...» «Lo fumo anch'io e non sono ancora vecchio» mormorò Salerno. «Oddio, lo fumo per modo di dire. Di questi tempi ne trovo pochi.» Guardò a lungo il mozzicone, lo annusò: «E del tipo che fumo io. Chissà perché il vecchio dei Bernardi era andato a fumarlo di nascosto, dietro il tronco di un albero?» Alzò il tono: «Cosa fumava Bob?».
Musone si strinse nelle spalle: «O questo poi non lo so. Ooo, Salerno, ho idea che ha ragione Lepre». «Cioè?» «Sei qui per fare dello scompiglio.» Salerno negò con un gesto del capo, fasciò il mozzicone in una foglia di castagno e lo mise in tasca. Un'ultima occhiata attorno e si avviò alla casa continuando a controllare il terreno. Tracce di sangue che pareva spalmato sull'erba e, poco prima di arrivare alla fontana, si chinò ancora. «E questo cos'è?» Musone guardò il palmo che Salerno gli porgeva. «La cartuccia di un fucile da caccia» borbottò. «Ancora da esplodere» precisò Salerno. «Oltre allo Sten, Bob aveva con sé anche un fucile da caccia?» «Bisognerebbe chiederlo a Bob» fece Musone. Il sigaro si è ormai ridotto in cicca e Santovito lo spegne calpestandolo sulle foglie secche e umide dei castagni. Torna verso le Piane. Che rivede come le aveva viste la prima volta, nel '44. Forse è un'illusione che il tempo passi. La casa, che sorgeva su un'ampia spianata del terreno, per questo si chiamava le Piane, apparve improvvisamente dopo l'ultima curva della cavedagna. Un edificio in pietra colombina, giallastra, macchiata nei muri dal fumo del recente incendio. L'edificio era a due piani, più lungo che alto e il tetto crollato lasciava intravedere monconi di lunghe travi di legno. Appoggiata al muro, assurdamente viva, una pergola di uva americana carica di grappoli, davanti a un muro chiazzato dell'azzurrino del verderame. Di fianco alla porta d'ingresso, aperta spalancata col legno semibruciato, una panchina in un unico blocco di pietra, poggiante su due piccoli massi. Al muro alcune anelle di ferro, approntate per legarvi gli animali, o muli o somari. Poco vicino era la stalla con sopra il fienile, ancora intatta, poi una piccola costruzione di fianco, lo stalletto per il maiale e, appoggiata a un lato, la baracchetta del pollaio, con un'asse esterna che portava a una piccola apertura, da dove a sera entravano le galline. C'erano anche alcune gabbie, le conigliere, con gli sportelli spalancati e vuote. Al limitare dell'aia, e prima che la cavedagna dalla quale i due erano arrivati fin lì, proseguisse e si perdesse nel bosco, un muretto con una fontana e grande acquaio sottostante scavato da un enorme blocco di sasso, erano quasi del tutto coperti da un enorme sambuco. Accanto, una pompa a mano con un braccio di legno dipinto di verde, si disperdeva in un tubo sottoterra. La fontana c'è, è lì davanti al maresciallo, e c'è il muretto e l'acquaio scheggiato. Non c'è più la pompa a mano e non c'è più il tubo che andava a pescare nella cisterna. Ma la cisterna deve ancora essere lì, sepolta da qualche parte, se quelli delle Piane ci prendono l'acqua, oggi come allora. E il tubo sarà stato interrato da qualche parte. A fine novembre la sera arriva presto da queste parti. Benedetto Santovito non lo ricordava più, troppo impegnato a cercare qualcosa che avrebbe dovuto trovare sedici anni fa. Come ha dimenticato, nell'ansia dei ricordi e del ritorno sul luogo di un momento maledetto della sua vita, l'appuntamento con Raffaella. E quando i fari della camionetta illuminano la caserma, centrano anche Raffaella, seduta sul muretto di recinzione. Intirizzita. Si stringe addosso il cappotto e metà del viso è nascosta sotto la sciarpa. Porta anche un berrettino che le scende sulla fronte e lascia fuori solo gli occhi. «Accidenti! Che ore sono, Chiaffalà?» chiede Santovito prima di aprire la portiera.
«Le cinque e un quarto, signor maresciallo maggiore.» «E smettila con questo maggiore, te l'ho già detto troppe volte!» «Mi scusi, signor maresciallo...» e sta per aggiungere il resto, ma frena in tempo. Il vento è più aggressivo e più freddo di questa mattina e nell'aria c'è odore di neve. Di ghiaccio è invece il naso di Raffaella. Santovito lo sente mentre la bacia sulla guancia. Dice: «Scusa, ma non sono...». «Lo so, non sei riuscito a liberarti prima.» «Perché non mi hai aspettato in caserma?» «Mezz'ora a chiacchierare di nulla con quell'Amadori? No, grazie, meglio il freddo.» «Andiamo dentro. Un caffè ti riscalderà.» «Ci vuole altro che un caffè» borbotta Raffaella. E, di malumore, precede Santovito. Gargiulo apre il portone, saluta militarmente il superiore e dice buonasera a Raffaella e si fa da parte. Il tepore della caserma è piacevole. Di sotto l'uscio dell'ufficio del maresciallo Amadori filtra la luce. «Gargiulo, due caffè. Con grappa, che così riscaldiamo la signorina.» «Signor maresciallo, il signor maresciallo Amadori ha proibito di tenere grappa in caserma.» «Ho capito» borbotta Santovito. Consegna il suo portafoglio al carabiniere. «Corri al bar e compra due bottiglie di grappa. Fai più presto che puoi, Gargiulo, che abbiamo freddo!» Più presto di così... Il tempo di chiudersi la porta alle spalle e riaprirla subito e il carabiniere rientra spinto avanti dall'appuntato Chiaffalà. «Allora, Gargiulo?» chiede Santovito. Gargiulo esita, non sa che dire e risolve indicando Chiaffalà. Che risponde per lui: «Ci penso io, signor maresciallo. Ho quello che ci vuole per il caffè suo e della signorina. Se intanto vi accomodate...». «Portalo in camera mia, Chiaffalà.» «Agli ordini, signor maresciallo.» Pochi minuti e il gradevole tepore della stufa scongela Raffaella. Si toglie il cappotto, lo posa sulla branda e lei stessa siede sul bordo. Nella stanza-ufficio c'è un'unica sedia e, visto che Raffaella si è sistemata sulla branda, la occupa Santovito. Chiaffalà bussa, entra e serve il caffè. Più grappa che caffè. E posa anche una bottiglia sul tavolino, dinanzi al maresciallo, che sorride, vuota d'un sorso la sua tazzina e la risciacqua con un'abbondante razione di grappa. Che raggiunge il caffè. Più riflessiva, Raffaella sorseggia lentamente e scalda le mani attorno alla tazzina. «Toglimi una curiosità, appuntato» dice Santovito «il maresciallo Amadori non ha vietato di tenere grappa in caserma?» «Signorsì, signor maresciallo, ma io non la tengo in caserma.» «Non ti chiedo dove la tieni, ma mi pare una buona soluzione, Chiaffalà. I miei complimenti» e Santovito accende un sigaro. «Dopo caffè e grappa, è la sua morte.» Guarda Raffaella: «Non dite così da queste parti?». «Non lo so, non sono di queste parti» risponde Raffaella, finalmente riscaldata e meno tesa. «E nemmeno io, signor maresciallo» aggiunge Chiaffalà. «Sappiamo, sappiamo, tu sei ligure, no?» «Quasi, signor maresciallo, quasi. Se desiderate ancora caffè...» Santovito gli fa cenno che terranno presente l'offerta e che lui può uscire. Prima di farlo, aggiunge un pezzo di legna alla stufa. «Ci pensa lei, signor maresciallo, o vuole che io...»
«Faccio io, faccio io.» L'appuntato se ne va e i due restano in silenzio a godere un momento di calore. La stanza-ufficio fa presto a riempirsi dell'odore di sigaro. «Vuoi che apra la finestra?» Raffaella fa segno di no. «Mi dicevi di un dubbio?» Prima che la ragazza risponda, Santovito aggiunge: «Ah, ti avverto: in questa faccenda, io di dubbi ne ho più di uno e non aspettarti da me...». «Il ragazzo... Come si chiama? Sì, Roberto, che ti ha consegnato la lettera mai spedita!» Si ferma e guarda dritto in faccia il maresciallo, come se le dovesse una risposta. A cosa? «Roberto, sì. Allora?» «Ti ha mentito» e senza aspettare la reazione di Santovito, comincia a parlare in fretta, quasi temesse di perdere il filo. «Nessuna moglie si terrebbe in casa una lettera compromettente come quella che hai letto e mi hai letto... Ma ti rendi conto? Vivere ogni giorno e per anni con il rischio che il marito la trovi, l'apra e la legga... Ooo, c'è di che distruggere una famiglia, in quella lettera! E per... Quanti anni? Un'eternità, maresciallo! E poi dove la nasconde? Fra le sue carte? In una scatola, assieme alle fotografie, ai ricordi della gioventù? In soffitta? No, no, non regge. Io sono una donna e ti assicuro che non correrei mai il rischio. Roberto ti ha mentito e tu, signor maresciallo, ti sei lasciato fregare da un ragazzino... No, no, lasciami finire che c'è dell'altro!» e tende la tazzina vuota, indicando con il capo la bottiglia. Santovito versa, Raffaella ne assaggia un sorso e: «C'è dell'altro. Dunque, la buona madre muore, il figlio e il marito, con le lacrime agli occhi per l'immensa perdita, mettono ordine nelle carte della donna, salta fuori una lettera chiusa con l'indirizzo di un maresciallo dei carabinieri, il piccolo pretende che il padre non l'apra e corre a portarla al destinatario, a te! Ma quale marito accetterebbe? Nemmeno un santo!». Raffaella prende fiato, manda giù un altro sorso di grappa e poi: «Dimmi un po': tu che avresti fatto? Voglio dire: se tu avessi trovato quella lettera e l'avesse scritta tua moglie e tu...». «Io non ho moglie, Raffaella» la interrompe Santovito. «Sì, comodo! Ma sei un uomo. E del Sud oltretutto...» «Non vuol dire...» «Vuol dire, vuoi dire! Tu, come un qualsiasi altro uomo, avresti preso quella lettera, l'avresti aperta, letta, ti saresti incazzato come una bestia e, fatti due conti, ti saresti incazzato ancora di più perché quel ragazzino che ti era stato attorno per quindici anni, forse non era tuo figlio. Una vita distrutta! Anzi tre vite!» Versa nella tazzina, che ancora tiene fra le mani, ma non le riscalda più, una dose abbondante di grappa. Ne manda giù un sorso e si chiede, sottovoce: «Da dove viene quella lettera? Mi piacerebbe tanto saperlo». È da un po' che il sigaro si è spento. E nella stanza-ufficio è tornato il silenzio. Giù, nell'atrio, il maresciallo Amadori sta dando ordini, a voce alta, come sempre. Possibile che abbia chiesto di Santovito e se gli hanno riferito che lui e Raffaella... C'è da vederselo entrare in camera. Ma non è questo che preoccupa Santovito. Come non lo preoccupa il suono del campanello, giù, al portone. Un suono insistito, non da visita di cortesia, sempre che si possa fare una visita di cortesia nella caserma dei carabinieri. Un'occhiata all'orologio da tasca e Santovito scuote il capo. Mormora: «A quest'ora arrivano grane, di solito». E riprende per Raffaella: «Anche a me» dice, ma lei lo guarda e non capisce. «Anche a me piacerebbe sapere da dove viene quella lettera.» «Ti ho convinto?» sorride Raffaella. «Sì, ma faccio fatica a pensare che Roberto, un ragazzino... Serio, sincero, molto addolorato per la morte della madre... Io ci ho parlato, l'ho guardato negli occhi mentre raccontava della lettera...» Una pausa e aggiunge: «Insomma, temo che tu abbia ragione, Raffaella». Si alza e va alla finestra. Con la manica pulisce i vetri, che il calore ha appannato, guarda gli alberi scossi da un vento che deve essere gelido e dice: «Ti faccio accompagnare alla Mezzacosta da Chiaffalà. Prima che
cominci a nevicare...». «Be', io pensavo di dormire qui, da te.» E sorride, Raffaella, che ha recuperato la sua rasserenante allegria. Appoggia le mani sulla branda, la saggia con il peso del corpo e «Meglio di no, troppo scomoda» decide. «E troppo stretta per due.» «Be', quello non sarebbe un gran guaio.»
1960, novembre, in caserma Anche Autiere Non Ci Sta Gargiulo apre la porta e i tre scoprono una sera che si è fatta più scura e il vento più freddo. Fa male alla pelle. Dinanzi al cancello c'è già la A.R. Matta in moto con Chiaffalà al volante. Raffaella s'infagotta nei suoi panni e corre via. «Il signor maresciallo Amadori ha chiesto di lei» dice il carabiniere richiudendo la porta. «Chi è arrivato poco fa?» «Signorsì, il sindaco del paese di sopra, nell'altra vallata. È nell'ufficio del signor maresciallo e aspettano lei.» La finestra non è stata aperta dal mattino e c'è il fumo di una giornata di sigarette troppo dolci e troppo aromatiche, ma sono quelle che brucia il maresciallo Amadori; l'ufficio è suo e nessuno può impedirgli di fumare, nemmeno il sindaco, signor Egidio Olmi, nome di battaglia Autiere, che sta seduto dinanzi alla scrivania con un disagio che Santovito sa di dove gli viene. Dice: «Amadori, il sindaco ha smesso di fumare per problemi ai polmoni...» Amadori schiaccia la sigaretta nel posacenere: «Mi spiace» dice, «non lo sapevo». «Non si preoccupi, maresciallo. Faccia come se io non ci fossi» lo rassicura il sindaco, ma Santovito spalanca la finestra e il freddo della sera si mangia un po' di fumo. «Le sigarette faranno male» ironizza Amadori, felice di prendersi la rivincita, «ma il freddo non fa certo bene ai polmoni del sindaco.» «Cambiamo solo l'aria» rassicura Santovito. Non c'è un'altra sedia e Santovito sgombera l'angolo della scrivania e vi appoggia una chiappa. «Che c'è di nuovo, signor sindaco?» chiede. «Speravo ne aveste voi di novità. Mi dispiace disturbarvi a quest'ora, ma ho avuto il Consiglio e mi sono liberato tardi. Un consigliere di minoranza... Sapete, uno del Movimento Sociale... Insomma, in paese si è saputo delle nuove indagini sul massacro alle Piane e il consigliere del Msi ha posto una mozione d'ordine, una interpellanza che ha sconvolto l'ordine del giorno della seduta. Vuole sapere perché e a che titolo sono state riaperte le indagini e se ci siano dei motivi per dubitare...» Fa una pausa e riprende con il tono grave, richiesto dalle circostanze: «Insomma, il consigliere insinua che, per motivi politici, si voglia riabilitare un partigiano responsabile di un massacro. Mi sono riservato di chiedere informazioni e di rispondere nel prossimo Consiglio comunale». Guarda Santovito. «Scusi, possiamo chiudere la finestra? Sapete, i miei polmoni soffrono l'umidità.» Lo fa Santovito. Che poi riprende il suo posto e aspetta il seguito. «Grazie. Dunque, per rispondere mi servono elementi che, al momento, non ho. E io non ci sto a farmi mettere in croce da un membro del Movimento Sociale. Confido che vogliate collaborare...» «Signor sindaco» comincia Santovito «lei sa che siamo tenuti al segreto istruttorio...» «Il che significa» lo interrompe Autiere «che si tratta di indagini ufficiali?» Ares, che non vuole passare in secondo piano, fa segno a Santovito che risponderà lui. Dice: «Anche questo fa parte del segreto istruttorio, signor sindaco». Prende una sigaretta dal pacchetto, ma non l'accende. Ci gioca. «Se e quando avremo notizie divulgabili, lei sarà il primo a essere informato.» Il sindaco, con il tono ufficiale della carica ricorda che «le persone coinvolte nel massacro alle Piane erano del mio comune e come sindaco ho il diritto di conoscere...» Lo interrompe Santovito: «Lo sappiamo bene, signor sindaco, ma allo stato delle indagini non siamo autorizzati». «Vi ricordo che io sono il rappresentante del Governo...»
«Sappiamo anche questo e proprio per la carica che ricopre, dovrebbe facilitarci le indagini...» Il colloquio si sta facendo difficile e anche il sindaco interrompe Santovito: «Rispondendo alle sue domande, mi pare di essere stato più che disponibile». Il maresciallo Amadori, nella sua qualità di titolare della caserma, si sente a disagio e si dà un contegno accendendo la sigaretta. Spera nell'intervento di Santovito. Che non ci pensa proprio. Così, dopo un paio di tiri, se la cava con: «Forse potrebbe indicarci chi, fra i suoi amministrati, è in grado di collaborare con la giustizia». Si rivolge al collega più anziano e superiore in grado. «Non è vero, Santovito?» «Oppure ci può dare precise informazioni sullo svolgimento del processo che si tenne allora a carico del partigiano Bob. Noi siamo riusciti a avere solo vaghe notizie, mentre lei, se pure non ha partecipato direttamente, era molto vicino e qualcosa di preciso avrà pur saputo.» Per un po' il sindaco sta in silenzio. Poi decide: «Mi risulta che il giovane partigiano Bill abbia tenuto il verbale del processo. All'epoca era studente in legge all'università di Bologna e per questo fu coinvolto direttamente. Ne sa certo più di me». «Il suo nome?» Autiere ci pensa su e poi: «Al momento non so dirvi, ma posso informarmi e...». «Ci farebbe molto comodo» dice il maresciallo Amadori, un po' più rilassato per essere uscito bene dalla situazione. «C'è altro che il sindaco potrebbe dirci, Santovito?» «Sì, per esempio dove possiamo trovare il comandante della brigata, Tango, del quale pare si siano perdute le tracce.» Autiere scuote il capo: «Di lui ne so ancora meno che di Bill. Sparito subito dopo la... i fatti che vi interessano. Si era sparsa la voce che era morto in azione, ma la notizia era falsa. Non l'ha più visto nessuno. Non partecipò nemmeno alla sfilata, subito dopo la Liberazione, e questo mi meravigliò molto. Qualcuno, non ricordo chi, mi ha riferito che lo avrebbero visto al monastero di Noviano, sui monti fra la Romagna e la Toscana. Vestiva in modo strano e scappò appena si accorse di essere stato riconosciuto da un vecchio compagno della lotta di Liberazione. Non so altro». «È già molto, signor sindaco» conclude Santovito. Si alza dal provvisorio appoggio e porge la mano al sindaco. Incontro concluso. «Sì, ma voi non mi avete dato nulla in cambio» si rammarica Autiere, sulla soglia dell'ufficio. «Cosa rispondo al consigliere del Movimento Sociale?» «Che le indagini sono in corso» risponde duro Santovito. «Al consigliere del Movimento Sociale non dobbiamo niente né voi né noi, sindaco.» «Gargiulo!» grida il maresciallo Amadori, e subito il carabiniere è sulla porta. «Accompagna il sindaco.» Prima che esca dall'ufficio, Santovito gli dice: «Ci tenga informati, sindaco». «Oltre a chiedere di Bill, non saprei che altro. Non faccio io le indagini.» «Ma lei è rappresentante del Governo e può sempre chiedere in giro... Chissà, quello che i suoi amministrati non vogliono dire a noi...» «Vedrò che posso fare» mormora il sindaco. E lascia la compagnia. Santovito ha i muscoli indolenziti da una giornata che non ha voglia di finire. L'umidità e il freddo hanno fatto la loro parte. La branda. Adesso ci vuole la branda. Anche se Raffaella ha stabilito che è scomoda. Santovito ha vissuto momenti nei quali avere una branda come quella che lo aspetta in camera, sarebbe stato un lusso. Ma che ne sa Raffaella? Un cenno di saluto al collega e si avvia. «Senti» lo ferma Amadori, «sei fuori da stamattina, hai requisito il mio appuntato, rientri a sera e ti chiudi in camera con Raffaella... Posso sapere cos'hai fatto?» Santovito si ferma sulla soglia, si gira e sorride a Amadori: «Non credi che quello che ho fatto
nella mia camera con la signorina Raffaella Anceschi riguardi solo noi?». «Non fare il furbo, che hai capito bene: cos'hai fatto tutto il giorno in giro con i miei uomini e i miei mezzi.» Santovito non si muove dalla soglia. Dice: «Ci sono novità, ma...». «Sentiamole.» «... ma io ho avuto una giornata infame e adesso mi va solo la branda. Ne parliamo domattina.» «Non mangi qualcosa? Il sabato il rancio ce lo porta il Ciccio del Ristobar...» «Non mangio» e Santovito fa per riprendere la via della branda. «Senti, ho avuto un'idea» lo blocca ancora Amadori. Santovito borbotta sottovoce: «Ci voleva anche questa». «Che dici?» «Dico: sentiamola.» «Ho deciso di chiedere ai pompieri un sopralluogo...» «Un sopralluogo? E dove?» «Cristo, Santovito, questa sera sei proprio suonato! Se il sigaro che ho trovato alla stramaledetta baracca non è il tuo, i pompieri mi potranno almeno spiegare come e perché ha preso fuoco, no?» «Mi pare una buona idea, Amadori» e Santovito si riavvia. «Proprio una buona idea. Falli salire per domani.» «Domani è domenica e la Spal gioca in casa, caro mio!» Non ha capito cosa c'entri la Spal con i pompieri e con la baracca bruciata, ma Santovito non ha nessuna voglia di capire. Non adesso. E va, finalmente, a buttarsi in branda.
1960, novembre, in caserma, in chiesa e dal Frabbone Una Giornata Libera Ieri sera Santovito doveva proprio essere suonato, come aveva assicurato il maresciallo Amadori. Non ha nemmeno socchiuso le imposte della stanza-ufficio e così lo sveglia la luce del giorno. La stufa è spenta e il termosifone non basta a fare una temperatura decente e c'è nell'aria l'odore della neve. Sono passate da poco le otto, da un pezzo Santovito non dormiva tanto e tanto bene. L'erba del cortile della caserma, vista dai vetri appannati, è sotto un velo di nevischio. O forse è solo una brinata. Succede quando la notte è stata umida e la temperatura sotto lo zero. Il che mette ancor più freddo nella stanza di Santovito. Si fa sulla porta. «Chiaffalà!» e torna dentro a infilarsi i calzoni. Borbotta, come gli capita spesso da quando è cominciata questa maledetta inchiesta: «Poteva svegliarmi. E accendere la stufa!». «Agli ordini, signor maresciallo maggiore» dice dalla porta l'appuntato, sull'attenti davanti a un superiore che si sta allacciando i calzoni. «Ancora con il tuo maggiore, Chiaffalà! Vogliamo smetterla?» «Signorsì, signor maresciallo maggiore. Giù c'è pronto il caffè...» «Ho sentito il profumo appena ho aperto la porta. C'è qualcosa da mangiare? Ieri sera non ho cenato. Mentre faccio colazione, accendimi 'sta stufa. O vuoi farmi morire di freddo?» «Agli ordini.» Sulla tavola c'è una macchinetta di caffè bollente e c'è un piatto con del pane a fette e formaggio, lo stesso che Bleblè ha regalato a Chiaffalà. Mentre ne taglia un'abbondante porzione, Santovito continua a borbottare: «Dove lo trovo un altro appuntato così? Merita una promozione» e manda giù di gusto la prima tazzina. «Dov'è il maresciallo Amadori?» grida. Si presenta Gargiulo: « È domenica, signor maresciallo, e la Spal gioca in casa, a Ferrara». «E allora?» «Il signor maresciallo va sempre alla partita quando la Spal gioca in casa.» La stufa del Frabbone va che è una meraviglia e già è confortante il brontolio che fa mangiandosi la legna. Nella stanza-ufficio la temperatura comincia a essere sopportabile. Seduto al piccolo tavolo che l'appuntato è riuscito a procurargli, Santovito butta giù alcuni appunti, telefona a Cleto della Mezzacosta, chiede come va e, senza aspettare il solito "non c'è male, e tu?", continua: «Ho voglia di passare la domenica su da voi, alla Mezzacosta. Ce n'hai da mangiare per due a mezzogiorno e stasera?». «Per il maresciallo e la sua signora, sempre.» Santovito non raccoglie la provocazione. Dice: «Più tardi, perché immagino che adesso dorma, fammi telefonare da Raffaella». È domenica, non ha nessuna voglia di pensare al passato. Né al presente. Dovrà essere una domenica rilassante e che a nessuno, proprio a nessuno, venga in mente di ricordargli perché è tornato qui, in paese! È stata una domenica fredda, ma il camino di Raffaella e la stufa della Mezzacosta hanno fatto il loro dovere. È freddo anche questo lunedì mattina e la spruzzata di neve di sabato è ancora attaccata all'erba, il cielo è chiaro e il sole spunterà, tardi, come al solito per questo paese. E, come al solito, il primo raggio illuminerà la cima sopra il paese, scenderà sulla Mezzacosta e sulla Ca' Rossa e, per ultimo, sui tetti scuri d'ardesia del paese.
Stelio li aspetta davanti al cancello della Mezzacosta, seduto al volante del Millecento e il maresciallo gli chiede: «Sei qui da molto?». Il giovane sorride, nega con il capo e fa segno a Raffaella di sedere accanto a lui. "Come al solito" dice con le mani. «Fatto colazione?» Altro cenno negativo del capo. «Nemmeno noi. Portaci da Ciccio, che offro io.» Stelio applaude, mette la prima e parte con una derapata che, sul terreno ghiacciato, mette in testa coda il Millecento. «Be', Stelio» dice ancora il maresciallo, «se la prendi così, io e Raffaella scendiamo a piedi.» "Tranquillo, maresciallo" fa intendere Stelio. «Tranquillo per niente» e Stelio riduce la velocità, si gira al maresciallo per capire se così va bene. «No che non va bene: guarda la strada.» Sosta al Ristobar, fermata davanti alla scuola e fermata alla caserma dei carabinieri e Stelio riprende la via della Mezzacosta. Santovito entra nell'ufficio del maresciallo Amadori che, seduto alla scrivania, sta leggendo un giornale sportivo e ha già riempito il locale con il profumo troppo dolce delle sue sigarette. «Bene arrivato» dice. Esultante, solleva il giornale. «Visto che roba?» «Non ho ancora aperto il giornale...» «Due a zero al Catania, all'ottantanovesimo splendido gol di Taccola, grande, e un minuto dopo raddoppia Massei. Grande anche Massei e grande Spal.» Atteggia il viso a una falsa tristezza. «Mi spiace per te, ma il tuo Napoli... Immagino che tieni per il Napoli, no?» Non lascia tempo per la risposta. «Avete perso dal Milan: due a uno. Al ventiquattresimo rete di Vernazza, raddoppia Altafini al ventisettesimo e accorcia le distanze, ma invano, Tacchi all'ottantanovesimo...» «Lascia perdere, Amadori, che a me il calcio non interessa...» «Non ti interessa?» e, stupito, guarda il collega. Sorride: «Ho capito, tu ieri hai giocato un'altra partita, su alla Mezzacosta, in campo neutro e senza arbitro...». «Lascia perdere, Amadori, che non sono affari tuoi.» «Lascio perdere, lascio perdere, ma un napoletano che non si interessa di calcio...» «Non sono napoletano, Amadori, e sono qui perché mi pareva che tu fossi interessato alle novità delle Piane...» «... che sono buone o cattive?» «Che vuoi dire buone o cattive? Semplicemente novità» e aggiorna il collega sui risultati del sopralluogo alle Piane. Attento, Amadori ha seguito la veloce esposizione poi, in silenzio, schiaccia la sigaretta nel posacenere e guarda Santovito: «Be', signor maresciallo maggiore, a me che mi frega? Come a te del calcio. Il caso è tuo, no?». «Amadori, a me sembra che ultimamente, viste le... diciamo disposizioni dei superiori, dettate forse da un tuo interessamento, il caso sia diventato più tuo che mio. Questa è la zona di tua competenza, anche se il massacro alle Piane e la fucilazione di Bob sono vecchi di anni. Ma poi...» e qui si prende il tempo per sedere comodo, accendere un sigaro e dare alcune tirate. «Ma poi, non l'hai avuta tu l'idea geniale?» La vittoria della Spal gli ha fatto dimenticare il colloquio di sabato sera e Santovito glielo ricorda. «Sì, chiamare i vigili del fuoco per un sopralluogo alla baracca. Quindi...» «Quindi, cosa? Che c'entrano i pompieri con le tue indagini alle Piane?» Santovito agita la mano che tiene il sigaro: «Be', sai, nel '44 non è che sono riuscito a fare indagini complete. Per esempio, ho saputo che i morti sono stati trovati nella cisterna, ma chi ha avuto il tempo per verificare...». Amadori lo ferma con un gesto. «Lasciami pensare» mormora. E tamburella con le dita il piano della scrivania. Si accende una sigaretta, guarda il suo fumo confondersi con quello più scuro e
denso del sigaro e: «Santovito, ho un'idea!» dice. «Visto che dovranno venire su i pompieri per la baracca, potrei chiedergli di portarsi anche un'idrovora... o quello che è. Faccio svuotare la cisterna, esaminare il fondo e se c'è rimasto qualcosa noi... Che ne dici?» «Dico che va benissimo. Ottima pensata. Anzi, battiamo il ferro finché è caldo e fai venire su i vigili del fuoco oggi stesso. Mangiamo un boccone e andiamo alle Piane con l'autopompa...» «Fai presto tu... Non credo che l'idrovora, o autopompa, come la chiami tu, sia lì a nostra disposizione.» Ci pensa su, poi: «Fammi fare una telefonata». Fruga nei cassetti, brontolando che nessuno lascia mai "la roba al suo posto", trova e sfoglia l'elenco telefonico, fa segno a Santovito che "adesso ci penso io" e comincia una sommessa conversazione in cui affiora "sì, capisco che dovete farvi autorizzare dal comando", "un piacere a un amico che te ne ha fatti eccome", "una mano lava l'altra", e infine un sollevato "grazie e sempre a tua disposizione". Sorride al collega: «Visto? Un po' di buona, vecchia diplomazia e tutto è risolto. Domattina alle dieci l'idrovora sarà davanti alla caserma». Santovito annuisce, si sporge per spegnere il sigaro nel posacenere di Amadori e conviene: «Bene, riconosco che ci sai fare. Ci vediamo domattina alle dieci, per le Piane». Si alza e saluta con un gesto. «Gargiulo!» chiama Amadori. Santovito è ancora sulle scale. «Vuotami questo posacenere puzzolente di toscano!» Nel tepore della sua stanza-ufficio, il maresciallo fa parecchie telefonate, troppe se, dal basso, arriva la richiesta di Amadori: «Ooo, maresciallo maggiore, ce la fai a lasciarmi la linea per qualche secondo?» Di sulla porta Santovito, che stava per uscire, gli rimanda: «È tutto tuo maresciallo! Io ho finito» e passando dinanzi a Gargiulo dice: «Vuota anche il mio di posacenere. Ho fumato molto questa mattina». Più tranquillo di quando ci è entrato, lascia la caserma. Al tenente colonnello Friggerio ha chiesto di rintracciare l'ex partigiano Bill, forse avvocato a Bologna; gli ha raccontato del monastero di Noviano, nell'Appennino fra Toscana e Romagna; lo ha pregato di contattare l'ANPI, perché lui, Santovito, al momento non può lasciare il paese, per notizie su Tango e alla domanda del superiore, ha risposto: «No, colonnello, ancora niente di certo... Solo idee, ma conto sulla tua collaborazione. Conto anche su un paio d'incontri che avrò oggi stesso. Ci vedremo presto a Bologna.» Il primo degli incontri annunciati avviene in chiesa. Don Vincenzo Cioni dedica il lunedì mattina alla confessione dei parrocchiani. Ma solo fino a mezzogiorno. Per lo più sono antiche donne di montagna che ancora si presentano vestite di scuro e con il fazzoletto in testa, chi allacciato sulla nuca e chi sotto il mento. C'è il caso che non lo tolgano nemmeno per andare a letto. Da una parte del confessionale ce ne sono tre, sul lato sinistro quattro. Santovito sceglie la sinistra e arriva presto alla grata perché un maresciallo dei carabinieri che si presenta a confessarsi, vestito da maresciallo dei carabinieri, fa un certo effetto. C'è qualcosa che non va e le antiche signore di montagna non si fidano: si segnano e lasciano la chiesa. Si confesseranno poi. «Nel nome del Padre, del Figliolo e dello Spirito Santo. Da quanto tempo non ti confessi?» «Non lo so, don Vincenzo, ma non sono qui per confessarmi. Ho qualche domanda da farle...» Don Vincenzo ci mette qualche secondo e poi: «Perché non è venuto in canonica, maresciallo?». «Perché in confessionale non si dicono bugie. Don Vincenzo, sua nipote Imelde se ne andò prima o dopo il massacro alle Piane?» «Non mi sembra questo il luogo...» «Don Vincenzo, siamo alla fine di una brutta storia. O mi risponde qui o a Bologna, al comando. E non sarebbe una bella cosa che si presentassero in chiesa due carabinieri a prelevarla.» Il parroco è a disagio e si agita e sbuffa, chiuso nel confessionale. Poi si decide: «Imelde lasciò il paese il giorno prima che accadesse quel brutto fatto. La caricai io stesso sul carro del Frabbone che
andava a Bologna con un carico di rottami di ferro...». «Così lei mi assicura, e lo fa in confessionale e in piena coscienza, che la notte delle Piane, Imelde non era più in paese.» Forse il parroco annuisce, ma Santovito non vede nell'ombra del confessionale. «Cos'ha risposto?» «Glielo giuro sul crocefisso» mormora in un sospiro. Dopo una pausa: «Lo chieda al Frabbone», ma Santovito non lo sente, non è più oltre la grata. Lo chiederà al Frabbone. Ci sta andando. Il fabbro ha appena scolato un tegame di maccheroni. Che scarica in una terrina. Due porzioni abbondanti. Ci sbatte sopra un condimento profumato di prosciutto e sugo di pomodoro, una manciata di formaggio grattugiato e rimescola. «Hai invitati a pranzo?» «No, ma dove mangia uno, possono mangiare in due. Vuoi favorire, maresciallo?» Santovito scuote il capo. «Un bicchiere...» «Non si rifiuta.» Il Frabbone versa, siede, impugna la forchetta, chiede: «Come mai?». «Un paio di domande, Frabbone...» «Sì, io intanto mangio, se non te n'hai a male.» «Fai come a casa tua» e il maresciallo siede al tavolo, davanti al Frabbone, e lo guarda fisso. Un sorso e poi: «Quando se ne andò Imelde dal paese?». Il Frabbone non se l'aspettava. Aveva già messo in bocca una forchettata di maccheroni grondanti sugo. Smette di masticare, la forchetta dritta davanti al viso, e borbotta: «Questa poi...». Posa la forchetta sul bordo della terrina, si appoggia allo schienale, incrocia le braccia sul petto. «Come pretendi che me lo ricordi, eee, maresciallo? Sai quanti anni sono passati?» «Sedici, Frabbone, ma te lo devi ricordare per forza. Un fatto così non capita tutti i giorni...» «Quale fatto, maresciallo?» «Le Piane, Frabbone, le Piane!» «Perdio, sei come un cane che ha preso la faina per il collo, tu. Non la molli.» «No, se posso. Imelde se n'è andata dal paese prima o dopo le Piane?» Il Frabbone non risponde subito. Guarda i maccheroni e ne mette in bocca una forchettata. Mastica lento e borbotta: «Hai ragione, me lo ricordo sì, me lo ricordo perché quando, il giorno dopo, tornai da Bologna, era appena capitato e in paese non si parlava che delle Piane e del Patriarca e della fine che aveva fatto tutta la sua porca famiglia». Si ferma a pensare, poi torna ai maccheroni e ne mastica altre forchettate. Dice: «Mi ricordo anche che, il giorno prima, don Vincenzo mi aveva caricato sul carro quella sua nipote... Come si chiama?». «Imelde...» «Sì, lei. Me la carica sul carro e mi dice: "Frabbone, mi raccomando, portala a Bologna" e mi dà anche l'indirizzo...» Ci pensa su. «Chi se lo ricorda, adesso?» Il maresciallo vuota il bicchiere e si alza: «Non importa, Frabbone. Grazie. Non sai quanto mi sei stato utile, anche se quello che mi hai appena detto mi mette nei guai. E mi dispiace anche perché ero convinto... Ma lasciamo perdere: il mio mestiere è così» e fa per lasciare l'antico fabbro. «Dove vai, maresciallo? Non ho finito.» «Cos'altro?» Il Frabbone allontana la terrina, ancora a metà. Mormora: «Si sono raffreddati e i maccheroni freddi fanno schifo. E mi è anche passata la fame» e butta lì un «Porca maledetta guerra!» che gli viene da chissà dove, dentro. Santovito si rimette a sedere: «Che mi devi dire?». «Ti devo dire che non l'ho portata a Bologna! Arrivati alla curva della Leona, Imelde mi fa:
"Frabbone, ferma qui". Mi fermo perché penso che debba pisciare. Succede alle donne. Ne ho portate tante a Bologna e mi facevano fermare la bestia ogni dieci chilometri. Imelde mi fa: "Frabbone, ferma qui" e scende dal carro e mi dice: "Non vengo a Bologna con te, ma promettimi che non lo dirai a don Vincenzo". Io non so cosa fare né cosa dire e lei mi guarda con quegli occhi... Insomma, ho promesso e lei si è alzata sulla punta dei piedi e mi ha dato un bacio. Le dico solo: "Come ci arrivi poi a Bologna? Di questi tempi è pericoloso. Ci sono gli aerei che bombardano la Porrettana e la ferrovia e prendono più spesso le case e i birocci che quello che devono prendere". "Troverò un altro biroccio. Ne passano, ne passano" e mi manda un altro bacio e s'infila di corsa per la strada che porta giù, al molino del Turco.» Il Frabbone sorride al ricordo. Poi: «L'ha trovato un altro biroccio. Anzi, ha trovato di meglio che una mula o un somaro. Ha trovato il camioncino di un certo Milcaretto. Un bel tipo. Siccome non trovava più benzina per far marciare il suo macinino, l'aveva messo a carbonella e una volta la settimana portava a Bologna farina di castagne e carbonella per i fornelli. L'ho incrociato, questo Milcaretto, alla curva delle Doccioline mentre tornavo su. Lo incrocio, questo Milcaretto, e vedo Imelde che si sporge dal finestrino e mi saluta. Sorrideva. Mi sono tranquillizzato perché con Milcaretto non c'erano pericoli. Magari li avrebbe trovati giù, a Bologna, i pericoli. La stavano bombardando che avevo sentito gli scoppi quand'ancora ero verso Sasso, saranno state le nove e mezza, dieci». Sorride al fabbro, Santovito, e si versa un altro bicchiere che manda giù d'un fiato. «Ci vuole» spiega, «per festeggiare, anche se non ci sarebbe niente da festeggiare.» Sull'uscio si gira e chiede: «Chiudo?». Con il capo il Frabbone fa segno di no e lo guarda allontanarsi. Poi guarda i maccheroni rimasti nella terrina. Non ha più voglia di mangiarli e finiranno al gatto. Beve. In caserma va diretto nella sua stanza-ufficio. Anche lui non ha voglia di mangiare, eppure mezzogiorno è passato da un pezzo. Con qualcuno deve sfogarsi, deve tirare fuori il magone che gli chiude lo stomaco. Lo fa al telefono. «Friggerio, ho appena avuto la prova che il ragazzo, Bob, era innocente. Hanno ammazzato un disgraziato e chi l'ha fatto se la ride ancora alle nostre spalle...» Il colonnello lo interrompe: «Non ce l'avevi già la prova? La scritta nella baracca...». «Colonnello, poteva averla fatta chiunque, quella scritta. E anche anni dopo, non credi?» Friggerio non risponde, ma Santovito è sicuro che sta annuendo. «E adesso?» Ancora silenzio e Santovito sente il rumore della matita battuta sulla scrivania. Fa così, il tenente colonnello, quando riflette. Gli lascia il tempo che gli serve perché poi gli darà gli ordini. Che arrivano: «Un brutto affare Santovito, un bruttissimo affare. Ti rendi conto che, qualunque cosa ne venga fuori, ci sarà qualcuno che ci accuserà di voler rimestare nel torbido per buttare fango sulla Resistenza? Con il clima di questi giorni, poi...» Un'altra pausa. «Sai che si fa, Santovito? Si va avanti, che è il nostro dovere, ma con discrezione, mi raccomando. Non deve uscirne nulla fino a quando...» Si ferma il tempo di un respiro e poi: «Sì, appena li hai, fammi avere i tuoi risultati che ne parleremo con chi di dovere. Decideremo poi» e chiude la comunicazione. Piuttosto arrabbiato. Come lo è il maresciallo maggiore Santovito.
1960, novembre, alle Piane e alla baracca Indizi Importanti Il gelo non si è allentato. Alle dieci precise l'autopompa sta davanti alla caserma assieme a una camionetta dei pompieri. Convenevoli di rito con i quattro della squadra addetti alla macchina e poi Chiaffalà mette in moto la A.R. Matta e Amadori sta pensando alla posizione da prendere a bordo: se guida Chiaffalà, a uno dei due marescialli toccherà sedersi dietro. Decide: «Chiaffalà, siedi dietro che guido io!» e anche Santovito ha l'onore di sedere davanti, di fianco all'autista. Davanti la Matta, poi la camionetta dei pompieri e, a chiudere, l'autopompa. Un viaggio silenzioso per Santovito e Chiaffalà, che si sente a disagio. Il suo compito, quando viaggia con i superiori, è guidare. Amadori è il solo allegro e canticchia un motivetto difficilmente riconoscibile, ritmando con colpetti di mano sul volante. Ogni tanto Santovito indica la strada da prendere. La carovana si ferma sull'aia delle Piane, i carabinieri scendono, i pompieri restano a bordo in attesa di disposizioni e le due donne, la sposa e la Cesira, escono di casa e guardano con curiosità, e anche timore, gli arrivati. «Giovanna» la saluta Santovito con leggero inchino. Amadori si porta la mano alla visiera in un accenno di saluto militare. Si fa coraggio la sposa e si rivolge all'unico della brigata che ha già incontrato, Santovito: «Guardate, signor maresciallo, che mio marito non c'è, è a lavorare nei campi con il piccolo. Cosa volete ancora da noi?» «Non si preoccupi, Giovanna, siamo qui solo per dragare la cisterna. Le informazioni che Filippo mi ha dato l'altro giorno...» «Dragare la cisterna? O Santa Madonna! E mio marito non c'è! E adesso cosa faccio?» «Niente, facciamo tutto noi» e Santovito indica l'autopompa. Giovanna non si tranquillizza: «Cosa pensate poi di trovarci là dentro? È passato tanto di quel tempo...». «Be', Giovanna, non lo sappiamo, ma dobbiamo farlo per nostra e vostra tranquillità. Forse non troveremo niente e forse qualche indizio importante.» «Be', io... io non so cosa dire» poi crede di avere l'idea giusta. Dice: «Ma ce l'avete il permesso?». Amadori è rimasto in secondo piano per troppo e si fa avanti: «I1 permesso lo do io» e porge la mano a Giovanna. «Maresciallo Amadori, piacere.» La donna stringe di malavoglia quella mano. «Se poi non basta» e Amadori guarda Santovito, «qui c'è un altro maresciallo!» «Non so che dire... Ooo, se avete i permessi, fate pure» si rassegna Giovanna. Amadori fa segno ai pompieri e il capo scende dalla camionetta e si avvicina: «Buongiorno, signora. Sa dirmi se la cisterna prende acqua da una sorgente o se raccoglie solo la piovana?». «Sorgente, sorgente, ma la cisterna deve anche essere quasi a secco perché ultimamente è piovuto poco...» «Quant'è grande?» «Be', non lo so di preciso» sembra scusarsi Giovanna. Si avvia alla cisterna. La seguono e Giovanna indica uno spazio abbastanza vago. «Be', sarà larga da qui a qui, più o meno...» «Profonda?» chiede ancora il capo. «Oddio, un paio di metri. Così ho sentito che diceva mio marito... Ah, c'è la ribalta proprio lì dietro... Voglio dire la botola.»
Il capo saggia con i piedi la zona indicata e trova la botola coperta da foglie secche e erba stenta, dure di gelo. Prova a scoprirla con le mani, ma si gela e lo fa con gli anfibi. Poi tenta di sollevarla. Niente da fare. «Si è saldata. Il gelo.» «Ve l'avevo detto che non l'adoperiamo più» dice Giovanna. «Busi» chiama il capo, «vieni qui con il palanchino. Porta anche la torcia.» «Mah, cosa sperate poi di trovarci lì dentro...» borbotta Giovanna. «Cosa vuoi mai!» dice il capo. «Non lo so, ma ci sono degli ordini...» Busi lavora con il palanchino, bestemmia perché la botola non ne vuoi sapere e, quando riesce a smuoverla, dice al capo: «Io la tengo su con il palanchino e tu cerca di spostarla». «E tu cerca di non farmici rimettere le dita...» «Tranquillo, con Busi vai tranquillo.» La botola finisce sull'erba, rovesciata, e scopre un foro buio. I due si sono gelate le mani e se le scaldano con il fiato. Busi borbotta: «Bel giorno per mettere le mani nel ferro, proprio il giorno giusto». Il capo s'inginocchia, mette dentro la torcia e cerca di capirci: «C'è acqua, sì, ma non tanta...». «Ve l'ho anche detto» borbotta Giovanna. «Brunetti» grida il capo. «Ci arriva il tubo da lì?» «Facile, capo, ci arriva facile.» «Va bene, ma devi voltare il camion o se no l'acqua gli allaga tutto davanti a casa; la facciamo andare lì di sotto, che non dà noia a nessuno» e visto che il Brunetti non si muove e continua a soffiarsi nelle dita: «Dai mo' che mettiamo in azione la pompa, vuotiamo 'sta cisterna e ci guardiamo dentro. Dai mo' che fa un freddo cane e è quasi l'ora di "tafiare" e l'aria dei monti mi ha messo una fame...». Si muovono tutti: tubo di aspirazione nella cisterna, tubo di scarico in una canaletta verso il basso, acqua nella presa per riempire i tubi e pompa in moto. Odore di nafta tutt'attorno e acqua fuori a fiotti. Poi il getto diminuisce, termina in un rivoletto fangoso e il tubo di aspirazione raschia e succhia il vuoto. «Ecco fatto» dice il capo. «Busi, vai giù tu. Scala e...» «E ti pareva» borbotta il Busi. «... e torcia e vai dentro te. Ooo, Busi, mi raccomando, se senti esalazioni chiama subito che ti veniamo a prendere. C'era dell'acqua, ma non si sa mai.» Brunetti tira su il tubo e Busi s'infila nella botola. Lo si sente borbottare e il capo grida: «Cosa dici? Parla forte che non si sente niente!». «Dico che qui è pieno di fango e mi sto immerdando gli anfibi che fanno schifo!» Una pausa e poi: «Come si fa a cercare qualcosa se non si sa cosa. Ooo, datemi giù un rastrello o una pala o qualche accidente...». Il capo gli allunga dentro un rastrello: «Fai con comodo che qui non abbiamo fretta». «Ma se hai appena detto...» e Busi lascia perdere. Da sopra sentono raschiare sul fondo della cisterna e poi: «Ooo, c'è qualcosa qui!». Il primo a correre sulla botola, è Santovito. Grida: «Busi, cos'hai trovato?». La risposta è un oggetto grondante fanghiglia che spunta dalla botola. Subito dopo esce la testa del pompiere che lo regge. «Ecco cosa c'era lì sotto» dice, e getta il reperto sull'erba. Esce del tutto e si preoccupa degli anfibi, e che del reperto si occupino i carabinieri! Lui, il suo dovere l'ha fatto. L'erba è gelata, dura e non pulisce gli anfibi: «Non hai uno straccio da prestarmi?» chiede Busi a Giovanna. «Guarda qui come mi sono conciato» e accompagna la donna che va verso casa per recuperare lo straccio.
Gli altri sono chini sull'oggetto uscito dalla cisterna. È coperto di fango, ma non c'è da sbagliarsi. La prima a parlare è l'antica Cesira. «Ooo cos'è 'sta roba che stava nella cisterna?» dice e, con le mani, pulisce un po' l'oggetto. «Ooo, ma è uno schioppo.» Santovito le slaccia il grembiule e con quello comincia a pulire l'arma dal fango di sedici anni. «Oh, un bel modo di fare, proprio un bel modo, con il mio grembiule» si lamenta la Cesira. «Te ne compro uno nuovo, la mia Cesira. Anzi, te ne compro due se mi dici di chi è questo» e le porge lo schioppo ripulito il giusto. «E come faccio a saperlo? Potrebbe essere quello della buon'anima di mio nipote...» «Quale nipote, Cesira?» «Come quale? Italo, no? Il figlio del Patriarca. Se fosse quello, mi ricordo che glielo regalò il Patriarca quando Italo tornò a casa dall'ospedale dopo la disgrazia che gli aveva massacrato la gamba. Glielo regalò per vedere se usciva di casa. Italo si era chiuso in casa e non voleva più uscire, ridotto come uno sciancato, poveretto. Be', sai cosa ti dico? Quel delinquente del Patriarca ci aveva preso e Italo cominciò a uscire e a tirare con lo schioppo. Mi ricordo che ci tirò a tre volpi. Si appostò per tre notti di fila e ne ammazzò una per notte. Tirò tre colpi e ne ammazzò tre. Ooo, da allora davanti al pollaio non s'è più vista una volpe. Le volpi si passano la voce» e continuerebbe a raccontare chissà cosa sulle volpi, ma il racconto non interessa più Santovito che, consegnato il fucile a Amadori, la lascia ai suoi ricordi e raggiunge il capo dei vigili. «Un buon lavoro, capo. Grazie. Prima di andare al molino del Turco per il sopralluogo» gli dice, «vi offro uno spuntino da Ciccio, in paese. Lo meritate» e sulla camionetta racconta al collega, che guida anche al ritorno, la storia delle cartucce. Di quella trovata da lui nel sopralluogo di sedici anni fa e della manciata trovata nelle tasche di Italo al momento del recupero del corpo dalla cisterna, sempre sedici anni fa. «Non me lo spiegavo. Almeno fino a questa mattina» conclude. A giudicare dalla sua espressione, il maresciallo Amadori non se lo spiega ancora, ma è troppo presuntuoso per chiedere spiegazioni e annuisce fingendo convinzione. Da Ciccio, la pattuglia dei quattro vigili del fuoco si fa fuori un salame, un mezzo formaggio, due pagnotte di pane toscano, un fiasco e mezzo di rosso, sempre toscano. Al vino ha contribuito anche Santovito. Al maresciallo Ares Amadori, un intruglio a base di Martini secco e altro. «Da mangiare?» gli ha chiesto Ciccio. Amadori ha mostrato la faccia schifata, ma prima che i vigili sgombrassero il tavolo da ogni ben di Dio, ha mangiato le ultime fette di salame e un buon pezzo di formaggio. "Giusto per arrivare al rancio di questa sera." Niente pane, che ingrassa. Il sentiero per il molino del Turco è gelato e scendono, uno dietro l'altro, stando bene attenti a dove posano gli anfibi. Le scarpe lucide eleganti, per Amadori. Davanti ai resti della baracca, il capo si ferma e guarda. Poi: «Hanno girato in molti qua attorno, dopo il falò?». «Io e il maresciallo Amadori.» «Sarebbe stato meglio che non fosse passato nessuno. Mi dice cos'ha sentito prima e dopo il fuoco?» Santovito dice dell'improvvisa ventata di aria tiepida che lo ha investito lassù, mentre fumava il sigaro seduto su un sasso. «Come durante la guerra, quando mi esplodeva una bomba poco lontano.» «Poi?» «Poi il bagliore e lingue di fuoco...» «Alte o basse?» «Alte. Illuminavano la sera e il riverbero arrivava fin lassù.» C'è un'altra cosa: «Quando sono
arrivato qui, c'era ancora odore di benzina». Il capo annuisce e comincia il sopralluogo. Passeggia attorno ai resti, raccoglie e annusa un pezzo di legno bruciacchiato, cambia posizione e ne annusa un altro... «C'è un'altra cosa» dice Amadori. «Ho trovato un mozzicone di sigaro...» «Dove?» Amadori si allontana un poco dai resti, cerca il punto esatto, lo trova e lo indica. È da lì che il capo parte in linea retta e arriva di nuovo ai resti. Saranno dieci metri, poco più. Si china, raccoglie un altro legno bruciacchiato, lo annusa, annuisce e, con quello, fruga lì attorno, trova e dice: «Ci dovrebbe essere una tanica!» e mentre gli uomini si disperdono, pulisce meglio il terreno e indica ai due marescialli. «Ecco qua.» È un grumo verdastro liscio e cotto dalle fiamme. Fuso dalle fiamme che Santovito guarda per un attimo e poi solleva il capo e grida attorno, ai vigili: «Se trovate qualcosa chiamatemi. Mi raccomando, non toccate niente!». «Trovato, maresciallo!» gli rimanda uno. Corrono tutti e sul greto del fiume, a cinquanta, sessanta metri dai resti della baracca, nascosta sotto un cespuglio, c'è la tanica. Una di quelle che stavano attaccate ai fianchi delle jeep alleate durante e dopo la guerra. Di ferro e con la chiusura a leva. Santovito, che indossa guanti di pelle, la raccoglie e spiega a Amadori: «Chissà, qualche impronta... Non si sa mai... Ci tornerebbero utili una volta arrivati al delinquente...» e si avvia per risalire il sentiero. «Santovito!» gli urla dietro Amadori. «Ti dispiace farmi capire...» ma Santovito non lo ascolta. «Posso spiegarle io» fa il capo. «La ventata che il suo collega ha sentito fin lassù, è classica di un incendio provocato da benzina, quasi uno scoppio. Come pure le fiamme alte... Ci hanno vuotato tutta la tanica. Chi l'ha fatto voleva essere sicuro.» Amadori impreca fra sé. Poi: «Se quello parlasse... Che ne sapevo io della ventata! Che ne sapevo delle fiamme alte e della benzina! Se quello non parla, cazzo!». Sono ancora davanti ai resti del rogo e il capo continua l'esposizione: «Ci sono poi i resti della bottiglia... Quei grumi che le ho mostrato: vetro fuso. Io ho pochi dubbi: incendio doloso. Chi lo ha appiccato ha vuotato una bella quantità di benzina attorno a questo punto, si è allontanato... Là, dove lei ha trovato il sigaro. Forse lo ha usato per dare fuoco alla molotov». Un'altra occhiata in giro e conclude: «Chi procede in quel modo, di solito poi si disfa del contenitore molto presto. Per non correre il rischio di essere visto. Non si sa mai». Alla baracca non c'è più nulla da decifrare e il capo s'appresta alla salita. Grida ai suoi: «Ooo, gente, qui abbiamo finito! Si torna a casa!». Il maresciallo Amadori, ultimo della fila di vigili del fuoco e carabinieri, affronta il sentiero bestemmiando fra sé. Giura che, appena potrà, la farà pagare a Santovito. Nonostante gli ordini superiori, quello continua a tenere per sé l'indagine. A non metterlo al corrente dei particolari.
1960, dicembre, in giro per il paese Santovito Chiede Aiuto Gli serve una tregua. Gli avvenimenti si sono attorcigliati in una treccia a tre capi e lo hanno portato fuori pista. Non accade spesso. Il maresciallo Santovito è sempre riuscito a mettere in fila gli indizi e analizzarli con sufficiente distacco. Qui e oggi non ce la fa, ha perso il capo e, per quanto ci abbia ragionato sopra una notte intera, una notte da cani che gli ha fatto mandare in fumo tutti i sigari disponibili, si è perduto nel groviglio di una storia cominciata troppi anni fa. Alle undici bussano alla porta della sua stanza-ufficio e Santovito è ancora sdraiato sul letto e con gli occhi fissi al soffitto. La scatola dei sigari è vuota. «Sì» dice a voce alta e seccata. «Cosa c'è?» «Mi chiedevo se un caffè...» azzarda Chiaffalà senza aprire la porta. È Santovito che apre. Ha la barba lunga, gli occhi pesanti, la bocca impastata dal fumo dei sigari e una quantità di pensieri che lo tormentano. Chiaffalà lo guarda e ci rimane male. Accenna a un saluto poco regolamentare e dice: «Lei ha bisogno di un buon caffè, signor maresciallo. La rimetterà a posto» e prende deciso le scale. «Lascia stare, Chiaffalà, che se mando giù qualcosa, vomito.» «Chissà cos'ha mangiato, signor maresciallo. Lo dico sempre io che da Ciccio si mangiano solo delle porcherie...» «Chiaffalà, non mangio da ieri mattina.» «Allora ha bisogno di sostanza, signor maresciallo. Ho quello che fa per lei» e di nuovo prende le scale. «Vado a fare due passi. Ho bisogno di aria fresca.» È anche troppo fresca l'aria che taglia le stradine del paese. Scende dai monti e si porta dietro l'odore della neve che copre le cime. Anni fa, uscendo dalla caserma vecchia in una mattina come questa, Santovito si sarebbe subito infilato nell'osteria di Parsuès, si sarebbe seduto al tavolo del maresciallo, la schiena contro la stufa, e la Serafina gli avrebbe servito, senza che lui ordinasse, un bicchiere di rosso, pane e prosciutto. Una colazione che ha ricordato a lungo, lontano dal paese e negli anni che poi sono seguiti. Altri tempi e un altro mondo che non somigliano a quelli del Ristobar di Ciccio. La strada per il tabaccaio passa dinanzi alla porta di casa di Gialdiffa. Bussa. La bidella dovrebbe essere a scuola. Bussa ancora e gli risponde il silenzio del paese. L'uscio, come capita da queste parti, non è chiuso a chiave, ma Santovito non ce la fa a entrare. Non ha il mandato di perquisizione e maledice la sua etica che non gli permette di prendersi certe libertà. Che il maresciallo Amadori si prenderebbe senza problemi. Se ne va con la curiosità per una cassetta rinforzata che sta sotto il letto. Chissà che non ci siano dentro altri capi della treccia. Tutto moderno, tutto plastica e luci e, dietro il banco della tabaccheria, il giovane in jeans e giubbetto di pelle scura, o forse plastica, mastica una gomma americana e muove il capo e le spalle al ritmo di un rock che esce dalla radiolina sullo scaffale, accanto ai pacchetti di sigarette. Il buon profumo di legno antico e di trinciato che c'era nella bottega del vecchio Tarquinio! Ancora rimpianti: brutto, bruttissimo segno. Santovito chiede una scatola di toscanelli e il giovanotto, continuando a masticare e a scuotersi a ritmo di rock, ne posa un paio sul banco perché il cliente scelga a suo gusto. «Anche due scatole di svedesi» chiede il maresciallo e le due scatole volano sul banco, accanto ai sigari.
Il meglio, adesso, sarebbe andare a sedersi nel caldo dell'osteria di Serafina, accendersi un sigaro e fumarlo lentamente, sorseggiando un rosso toscano. Mancando l'osteria, mancando Serafina e mancando il rosso, Santovito esce dalla tabaccheria e, fermo in mezzo alla via, accende un sigaro. Più che la voglia, è l'abitudine, perché ha ancora in bocca l'amaro dei troppi sigari consumati nella notte. Il fumo della prima boccata se lo porta il vento. Senza un'idea che sbatta nell'altra, Santovito fuma e ciondola per le strade strette del paese fino a quando non gli resta che bere un caffè. Almeno passeranno il tempo e il freddo che gli è entrato nelle ossa. Lo ordina da Ciccio, ma la bocca resta impastata e lo stomaco fuori fase. Ordina anche un grappino e le cose cominciano a rimettersi a posto. Poco dopo i ragazzi, escono gli insegnanti e Santovito, appoggiato al muretto di recinzione della scuola, aspetta Raffaella. Che lo vede subito e gli corre incontro. «Come mai?» dice lei, ironica. «È un po' che non ti vedo...» «È vero, scusami, ma...» «So, so: troppo lavoro» lo interrompe lei. Lo prende sottobraccio e si avviano. «Novità?» «Sì, molte, ma nessuna decisiva.» Quando ne ha voglia, Raffaella fa una buona cucina, la cantina di Stelio è ben fornita e la camera da letto riscaldata da una stufa a legna che lavora meglio del termosifone. Il letto è comodo e accogliente. A mezzanotte sono ancora svegli e hanno parlato e parlano. E Santovito conclude così il lungo monologo finale: «Sono sicuro che la madre di Bob sappia molte cose e molte di quelle cose che sa potrebbero essere fondamentali per capire. Non ho alternative: o riesco a far parlare Gialdiffa, a farle dimenticare l'odio che ha accumulato in tanti anni di dolore, o posso chiudere qui le mie indagini. La conclusione è sconfortante: impresa impossibile, almeno per me.» «Vuoi dire che altri potrebbero farlo.» «Sì, Gialdiffa si è tenuta dentro un dolore e un segreto per sedici anni. È arrivato il momento, per lei, di dividere dolore e segreto con qualcuno che la capisca.» Raffaella si solleva, appoggia il gomito al letto e guarda in viso Santovito: «Scommetto che hai in mente qualcuno». Lui annuisce. «E scommetto di sapere a chi pensi.» «Sei l'unica che potrebbe farlo. Vive e lavora con te... Un poco di comprensione scalfirebbe la corazza della sua solitudine. Sono passato attraverso tanti drammi, conosco abbastanza il genere umano per sapere che lei non aspetta altro.» «Insomma, vuoi che diventi una spia.» «No, voglio che mi aiuti ad aiutare quella povera donna. Se suo figlio è innocente, come sono ormai sicuro, lei ha il diritto di saperlo. E prima degli altri.» Amadori lo infastidirebbe con una quantità di domande stupide e risentite. Non ha nessuna voglia di incontrarlo. Per la verità non ha voglia di nulla se non restare a letto per tentare di smaltire così i pensieri e l'inutilità del suo girare a vuoto attorno al nulla che gli hanno costruito attorno. Già vestita, Raffaella sale in camera. Dice: «Aspetti la colazione a letto, maresciallo? Non ti conoscevo per poltrone. Guarda che io ho scuola e si fa tardi». «Vai pure. Scendo più tardi e a piedi. Una camminata da qui al paese mi farà bene. Quando ero qui di stazione, niente camionetta e salivo spesso a piedi per trovare la contessa...»
«La contessa e il maresciallo. Un bel titolo per un romanzo rosa» e Raffaella si butta sul letto. «Io vado, ciao.» Gli stampa un bacio sulle labbra, si alza, si sistema l'abito e se ne va borbottando: «Sento spesso parlare di una misteriosa contessa». Sulla soglia della stanza si gira. «Sai che comincio a esserne gelosa? Un giorno mi parlerai di questa misteriosa contessa. A quanto capisco la conoscevi bene.» Santovito, dal letto, annuisce. «Anche... anche intimamente?» Altro cenno d'assenso. «Sei un gran figlio... Bell'esempio di tutore dell'ordine» dice lasciando la stanza. «Guarda che anche alla Mezzacosta c'era da tutelare l'ordine!» ribatte Santovito. «E se proprio vogliamo essere onesti, non è che tu e io stiamo dando al paese un bell'esempio di moralità. Un maresciallo dei carabinieri e un'insegnante...» «Lo so, lo so, c'è chi ci chiama concubini» dice Raffaella dalla soglia della stanza. «Fa nulla, maresciallo, a me va bene così» e scende le scale. «Ti preparo il pranzo!» le grida dietro il maresciallo. E si gira su un fianco. Sente chiudersi le portiere dell'auto di Stelio e il rumore del motore che si allontana. Poi, lentamente e senza rendersene conto, si riaddormenta. In cucina Santovito non è mai stato un granché, specialmente se nella dispensa c'è poco o nulla: una pagnotta di pane, un pezzo di salsiccia, scatole di fagioli, cipolla, pomodori appassiti, di quelli che i contadini mettono a conservare sulle arelle del solaio. Trova anche un tubetto di concentrato di pomodoro e una treccia di aglio. Gli fa venire in mente un certo sugo che sua madre gli preparava per cena. «Va bene anche per il pranzo» borbotta. Taglia a fettine sottili una buona quantità di aglio, lo mette a soffriggere nell'olio toscano e subito il profumo si spande per la cucina. In attesa che l'aglio appassisca bene, apre una scatola di fagioli... Sua madre sarebbe inorridita. Lei usava fagioli secchi messi a bagno la sera precedente. Nessuno saprà mai che ha usato fagioli in scatola. Scioglie in un bicchiere d'acqua un cucchiaio abbondante di concentrato, fa a spicchi alcuni pomodori appassiti, taglia a pezzetti la salsiccia e ne bucherella la pelle. Intanto l'aglio ha preso colore e Santovito butta tutto nel tegame. «Per il tocco finale ci vorrebbe il peperoncino» continua a borbottare. Non ce n'è traccia. «Cleto ne avrà.» Fra la casa di Stelio e la Mezzacosta, sono quattro passi. Santovito s'infagotta nel pastrano e lo fa sorridere la faccia di Cleto quando entra nel ristorante. Ancor più stupito alla richiesta del peperoncino. Rientra in cucina con una collana di peperoncini secchi. Una buona dose finisce nel sugo che ancora bolle sul fornello, aggiunge il sale e si affida alla fortuna sia per la quantità di peperoncino che di sale. Per capire quando il sugo è pronto e ha la giusta densità, taglia alcune fette sottili di pane toscano e di tanto in tanto le inzuppa. Al momento giusto spegne il fornello a gas liquido e apparecchia per tre. L'una è passata da poco e l'auto si ferma davanti a casa, ma entra solo Stelio. Annusa il profumo, guarda l'apparecchiatura per tre, allarga sconsolato le braccia e scuote il capo. «Niente Raffaella?» Stelio annuisce. «Come mai?» Il giovane fa segno che è rimasta in paese e unisce ripetutamente gli indici. «Incontri, ho capito. Con chi?» Stelio allarga le braccia. Poi indica la tavola apparecchiata e scuote il capo. «Che si fa, dici? Si mangia noi e poi si racconta a Raffaella. Scendi in cantina a prendere il vino, Stelio, che oggi facciamo baldoria.» Santovito aspetta che Stelio assaggi e chiede: «Com'è?». Il giovane gira l'indice contro la guancia. Assaggia anche il maresciallo. «Sì» dice, «non c'è male. Credevo peggio. Sai che ti dico, Stelio? Peggio per Raffaella.»
Mangiano e bevono. Vuotano il fiasco e per un po' Santovito riesce a non pensare ai suoi problemi. Non accadeva dal giorno del suo ritorno in paese.
1960, dicembre, a scuola Il Pomeriggio Di Raffaella La scuola si vuota e si passa dal chiasso di una mandria di ragazzini scatenati al silenzio. In aula e seduta alla cattedra, Raffaella sente le ultime colleghe calpestare il corridoio e andarsene. È rimasta indietro con il lavoro e il trimestre sta per finire. Adesso, con calma, riepiloga le assenze, fa l'elenco di chi deve essere ancora interrogato e poi si mette alla correzione dei compiti in classe. Da qualche parte, nei corridoi, la bidella apre e chiude porte, fa scorrere acqua nei bagni, vuota cestini di carta, borbotta il suo scontento per la negligenza dei ragazzi. E anche delle insegnanti che non li educano come si dovrebbe. Senza bussare entra nell'aula di Raffaella e rimane male. «Non si preoccupi, Gialdiffa, faccia come se io non ci fossi» la rassicura l'insegnante. «Sono indietro con il lavoro e preferisco restare qui per un po'. A casa lavoro male e c'è sempre qualcosa che mi distoglie. Se non le dispiace...» «Fate con comodo, professoressa, che io me la sbrigo alla svelta» e comincia dal cestino. Dice ancora: «Anch'io oggi non vado a casa. Voglio fare una visita al mio Roberto». «Il giorno dei morti sono stata anch'io al cimitero...» Gialdiffa si ferma e guarda l'insegnante: «Ci avete qualcuno sepolto qui?». «No, i miei stanno nel cimitero di Ferrara, ma il giorno dei morti faccio sempre una visita...» «Fate bene, professoressa. I morti meritano rispetto.» Raffaella posa la matita rossa e blu: «Senta, Gialdiffa, visto che anche lei non va a casa, che ne direbbe di due fette di pane con dentro qualcosa di buono? Ce le mangiamo qui, assieme». La bidella ci pensa un po'. «Non è una cattiva idea» dice. Posa la scopa contro la parete. «Vado da Ciccio e torno.» «Offro io o non se ne parla» decide Raffaella. Mette sulla cattedra una banconota. «Ci stanno anche due birre.» «Cosa ci volete dentro, professoressa?» chiede la bidella ormai in corridoio. «Perché, da Ciccio c'è scelta?» La bidella non risponde, ma poco dopo si mostra dalla soglia e ha uno scialle nero in capo e sulle spalle. Dice: «C'è scelta sì. O prosciutto o ciccioli o pancetta arrotolata o coppa o mortadella o tonno...». «Basta, basta che sono già piena. Per me quello che prende per lei.» Per lei prende pancetta arrotolata: «Quella magra che mi hai dato ieri l'altro, Ciccio. Fammene due». «Uno è per il tuo amore, Gialdiffa?» «Sì, hai qualcosa da dire? Dammi anche due birre.» «Oggi si festeggia. Qualche volta dovresti invitare anche me, Gialdiffa.» «Lo farò, lo farò» e Ciccio incarta i panini con fogli di carta spessa e gialla. Sulla stessa carta spessa e gialla distesa sulla cattedra, insegnante e bidella mangiano in silenzio. Raffaella ha tolto di mezzo i compiti. Bevono dalle loro bottiglie e quando Raffaella vorrebbe togliere di mezzo carta e bottiglie per rimettersi ai compiti, Gialdiffa dice: «Lasciate stare, professoressa, che è lavoro mio. Voi fate quello che dovete fare» e mentre la bidella va a mettere i rifiuti nel bidone e sta per riprendere il lavoro nell'aula di Raffaella, Raffaella butta lì un «Cosa fa, Gialdiffa, quando non è a scuola?» che fa voltare la bidella. «Perché?» «Ooo, mai che io la veda in giro. Non starà tutto il giorno chiusa in casa?»
«Ci sto spesso.» «Amiche?» «Sono arrivata qui che ero già grande e le mie amiche, se ne avevo, sono rimaste al paese dell'altra vallata. Qui mi sono trovata sola.» «Dov'è esattamente il suo paese?» «Si scende a valle, si attraversa l'acqua e si sale per l'altra valle. Non è vicino» e Gialdiffa torna a occuparsi di pulizie. Che però sospende subito per chiedere: «Posso farvi una domanda anch'io, professoressa?». «Sono qui.» Gialdiffa torna alla cattedra e chiede: «Com'è che vi siete messa con quello là? Una bella ragazza come voi...». «Grazie Gialdiffa, ma anche il maresciallo non è da buttare, no?» e si sente sollevata perché non trovava il modo adatto per entrare in argomento. «Non è questo che voglio dire. È un carabiniere!» e per lei, come per molti di qui, basta e avanza per togliere di mezzo ogni discussione. «I carabinieri non sono tutti uguali» dice sottovoce Raffaella. «Santovito, per esempio: è uno che rispetta il prossimo, non l'ho mai sentito alzare la voce, non mette mai davanti la sua divisa... Insomma, per dire, non assomiglia al maresciallo Amadori. Lo conosce, no?» Con una smorfia, la bidella annuisce. «Bene, allora ha capito cosa voglio dire.» «Sì, ma è sempre un carabiniere. Sarà perché da quella gente lì, né io né i miei abbiamo mai avuto rispetto. Poi c'è un altro fatto...» ma lascia perdere e torna alle pulizie. «Quale?» insiste Raffaella. «Niente, niente.» Impugna la scopa e considera chiuso il discorso. «Credo di sapere a cosa si riferisce» e anche se Gialdiffa non l'ascolta più, continua. «Guardi che non gli fa piacere rimettersi a una storia così... così...» «Sporca? Vigliacca? Cattiva?» e Gialdiffa alza il viso verso l'insegnante. I suoi occhi non sono quelli di poco fa. «Io sono ignorante e conosco poche parole. Ditemelo voi, professoressa, come si può chiamare quella storia.» Raffaella non sa che rispondere. «Mi dispiace» mormora solo. Si alza e lascia la cattedra. I compiti possono aspettare. Si avvicina alla bidella che continua a fissarla con uno sguardo duro. «Le dico una cosa che non dovrei. Le racconto perché il maresciallo è tornato in paese e perché ha voluto riprendere le indagini sulla strage delle Piane» e parla delle veloci indagini di Santovito, durante la guerra, per la strage delle Piane e per suo figlio Roberto. Parla della lettera scritta da Imelde, indirizzata al maresciallo Santovito e mai spedita... Va a frugare nella borsetta e torna dalla bidella. Dice: «Ho ricopiato la lettera di Imelde e gliela leggo. Non deve saperlo nessuno, mi raccomando, Gialdiffa. Me lo promette?». La bidella è immobile, dura e ha i muscoli tesi e gli occhi stretti. Le labbra non ci sono quasi più. «Me lo promette?» Gialdiffa annuisce impercettibilmente. E le costa un grande sforzo. Raffaella legge e Gialdiffa lentamente si rilassa e quando la lettura arriva a: "... Io non c'ero e non ho potuto assisterlo in quelle ore disperate, ma so che è morto innocente. Com'erano innocenti quelle povere creature che un delinquente ha assassinato. Non Roberto, il mio Roberto! Roberto non lo ha fatto, mi creda Signor Maresciallo, glielo giuro davanti all'altare della Madonna di San Luca", chiude gli occhi. La toccano altri brani. Come: "La cosa che mi fa stare peggio, che mi perseguita adesso che sono viva e mi perseguiterà da morta, la mia disperazione, è che io avrei potuto salvarlo, il mio Roberto. Se avessi saputo in tempo, Roberto sarebbe ancora vivo". E poi: "Oppure faccia qualcosa perché la gente sappia che Roberto non ha ucciso. E se glielo dico
è perché lo so. Quella tragica notte dell'anno scorso, quando hanno ucciso quelli delle Piane, Roberto era con me e siamo rimasti assieme dalla sera precedente fino al primo pomeriggio del giorno dopo". Quando Raffaella conclude con: "Imelde Lenzi in Gandolfi. Bologna, 20 ottobre 1945", il gelo che induriva il corpo di Gialdiffa si è sciolto, i muscoli si sono distesi. Piange. Si è asciugata gli occhi e adesso, più tranquilla e seduta in un banco, ricorda. Per sé, ma anche per la professoressa: «L'anno prima che andasse nei partigiani, lo sentii arrivare di lontano perché fischiava. Roberto fischiava solo quando era contento e non succedeva spesso. Entrò in casa e mi sorrise. "Sai Imelde?" mi disse subito, "sì, la nipote di don Vincenzo. Se n'è andata, tornata a Bologna, ma ha promesso che mi scriverà. Mi ha anche detto che se mai capiterò a Bologna..." Ma non capitò a Bologna, non quell'anno. Ci andò la primavera dopo e tornò su che fischiettava». Guarda la professoressa e riesce perfino a tentare un sorriso. «Voi mi avete... Voi mi avete...» Non trova la parola. L'aiuta Raffaella: «Io le ho solo raccontato come stanno le cose.» «No, no» e scuote il capo. «Voi mi avete tolto anni di disperazione. Potete regalarmi la lettera?» «Sì, ma è solo una copia. L'ho scritta io e...» «Va bene, la voglio rileggere ogni sera...» Raffaella le passa la lettera, che subito la bidella infila in seno. Si asciuga ancora gli occhi con il grembiule. «Stavano bene assieme lui e Imelde. Anche quando stava sui monti, Roberto mi veniva a trovare... Ogni tanto si faceva vedere. Di notte. Entrava... Io lascio sempre la porta aperta. Chi non ha niente da mantenere, non ha paura dei ladri. Entrava, io sentivo il cigolio della porta, saltavo dal letto e gli preparavo qualcosa da mangiare. Era dimagrito, poverino. Chissà cosa mangiava lassù, in montagna. Roberto mi era venuto a trovare e io gli ho preso le misure per l'abito che avrebbe messo il giorno delle nozze. "Appena finirà la guerra ci sposeremo" diceva. Gli presi le misure e lui a dire: "Ma cosa vuoi misurare? Quando sarà finita, chissà come sarò ridotto". "Tu non ti preoccupare che ci penso io a farti rimettere su qualche chilo"». Il ricordo si porta dietro rimpianto e tristezza. «La guerra è finita e io non ho più rivisto né Roberto né Imelde. Roberto lo hanno ammazzato e di Imelde non ho saputo più niente... Come sta?» Raffaella si stringe nelle spalle. «Ho capito, è morta.» La professoressa annuisce. «Be'» dice alzandosi, «ho ancora da pulire. Sarà meglio che mi sbrighi.» «Se fossi in lei, oggi lascerei perdere le pulizie e me ne andrei a casa.» «No, no che non si può. Guardate qui, professoressa, come hanno ridotto l'aula, quei maialini.» Raffaella torna ai compiti da correggere. «Se vedete il maresciallo ditegli che mi dispiace per come l'ho trattato...» e Gialdiffa esce dall'aula.
1960, dicembre, a Bologna Le Bugie Di Roberto E La Vigliaccheria Di Giuliana Ha un appuntamento a Bologna e lascia la Mezzacosta che Raffaella non è ancora rientrata. Si raccomanda a Stelio di salutarla da parte sua. Anche questa volta Roberto ha preferito un incontro serale. Chissà perché, con tutto il pomeriggio che ha disponibile. Dopo quello delle sei e trenta di sera, quello che riporta gli operai ai paesi seminati lungo il fiume, non ci sono altri treni e gli toccherà dormire a Bologna, da Stupai che tiene l'albergo Tre Gobbi. All'epoca nella quale Santovito teneva la caserma del paese, alloggiava ai Tre Gobbi ogni volta che scendeva in città per i consueti rapporti con i superiori. In Broccaindosso, una vecchia strada del centro storico vicina a porta San Vitale e alla Legione. Strada popolare e tranquilla, con i suoi portici bassi e silenziosi, la sua atmosfera d'antico, la sua penombra che in estate manteneva una temperatura accettabile in una Bologna che è sempre troppo calda in estate e troppo fredda in inverno. C'erano trattorie e osterie, frequentate dagli abitanti della zona e dagli studenti, dov'era ancora possibile mangiare decentemente senza spendere una fortuna. Vi si respirava un po' del passato e capitava che qualche anziano entrasse per un bicchiere e finisse con la chitarra che si era portato dietro. C'erano vecchi negozi che vendevano un po' di tutto, dalle sedie impagliate agli abiti usati, e dai quali uscivano umidità e profumo di legno lavorato e di vernicetta per lucidare i mobili. Insomma, una parte di città rimasta indietro con il calendario e che a Benedetto Santovito piaceva assai. I Tre Gobbi glielo aveva indicato un collega: «È pulito e tranquillo, non costa molto e ti trattano bene. Abbiamo un accordo non ufficiale con il proprietario» gli aveva detto «che è un nostro confidente». Non importava telefonare per la prenotazione: «Per voi c'è sempre posto» ripeteva soddisfatto il titolare. Così si parava le spalle per una certa clientela occasionale che veniva dai viali di circonvallazione, a pochi passi. Non era mai successo che richiedesse l'intervento delle forze dell'ordine e quando c'era da buttare in strada un rompipalle, lo faceva di persona e senza problemi. Aveva il fisico. L'albergo aveva preso nome dagli originari proprietari, negli ultimi anni dell'Ottocento, marito, moglie e un fratello di questa, tutti e tre gobbi. I clienti abituali, gli abitanti, i bottegai e i passanti, chiamavano Stupai l'ultimo proprietario e signor Stupai lo chiamava anche Santovito, sforzandosi di pronunziarlo decentemente. Di tanto in tanto Stupai buttava lì una frase in dialetto, specie quando era arrabbiato. Accadeva con i fornitori che non lo servivano come voleva lui, o per la situazione politica, per gli amministratori locali, ma soprattutto per la donna delle pulizie "ch'l'a 'nin fa mai ónna dal bóni". Passava buona parte delle giornate dietro al bancone. Incassata nel muro alle sue spalle, c'era una macchina per il caffè sempre in pressione e una piccola vetrina con alcune paste e brioches per la colazione dei clienti, che la donna serviva sull'unico tavolo dinanzi al bancone. E se per caso i clienti che facevano colazione erano più di quattro, si aspettava il turno. Una scala stretta e senza finestre saliva ai piani superiori e da una porta, sempre nell'atrio, si scendeva in cantina. Un'altra porta, in fondo al corridoio dell'ingresso, immetteva nel cortile interno. In tutto dieci camere su tre piani, più tre stanzette a piano terra, riservate notte e giorno alle signore dei viali. Con pochi comodi, queste: una piccola finestra, un lavandino, un cesso e un bidè, questi ultimi divisi dalla stanza da una tenda di plastica, un letto e una specchiera. Tanto bastava per quello che ci si doveva fare. Nelle foto appese ai muri e lungo le scale si riconosceva uno Stupai giovane, in costume da
lottatore di greco-romana. Sopra il banco, incorniciata e protetta da un vetro, una medaglia d'oro vinta in chissà quale gara. Stupai non aveva più il fisico delle foto, ma aveva mantenuto la struttura del lottatore, forse un mediomassimo, pelato, con collo e testa che facevano un unico blocco, senza interruzioni. Quella parte del corpo assomigliava a un tappo, grosso sopra e leggermente rastremato verso le spalle e gli aveva procurato il soprannome: Stupai, tappo. Le orecchie erano piene, senza i canali, gli avvallamenti e le pieghe e Stupai sosteneva che gli si erano ridotte così a forza di lottare. Alla stazione lo accoglie di nuovo la nebbia di Bologna, tutto avvolgente, tutta fagocitante. Per rivedere altre parti della città, decide di non fare le stesse vie dell'altra volta e, arrivato a porta Galliera, prende per Indipendenza e fiancheggia il Liberty della Montagnola, i cui fanali, resi fiochi dalla caligine, lasciano scorgere le generose forme di quell'immagine femminile che i bolognesi, argutamente e con malizia, chiamano "la moglie del Gigante" di modo che anche il Nettuno del Giambologna, per simpatia ruffianesca dei "grassi" concittadini, ha trovato una compagna. Con calma si fa tutta la dritta arteria fermandosi a guardare le vetrine, tanto ha tempo, e si rituffa un poco nella città, dopo il suo esilio sui monti. Una vita totalmente immerso nella frenesia urbana non gli piacerebbe, ma semel in anno, si dice, non gli dispiace del tutto. Un'occhiata alle vetrine illuminate, ma soprattutto gli piace guardare le facce e i modi delle persone che lo sfiorano di fretta per andare dove ciascuno ha una meta, importante o frivola. All'incrocio con Ugo Bassi e Rizzoli, l'antica via Emilia, si ferma per uno sguardo a piazza Maggiore, oltre la fontana del Nettuno. Poi attraversa e lo coglie, come sempre gli accade, la maestà della piazza, e soprattutto la bellezza incompiuta di San Petronio, resa ancor più affascinante dalla fumana bucata dalla luce dei lampioni. Guarda l'orologio: è ora di affrettarsi all'incontro. Attraversa Rizzoli dinanzi al palazzo Re Enzo e arriva sotto le due Torri, svolta a sinistra, in via dei Giudei, e si trova davanti alla birreria Lamma. Questa volta il giovane Roberto Gandolfi è in anticipo; lo aspetta, le mani affondate nelle tasche del solito montgomery, batte i piedi per scaldarsi e il fiato gli esce condensato. «Già qua? Bene» dice Santovito, e si danno la mano. «Ti ho fatto aspettare? No, non credo, sono in perfetto orario.» «Sono io che son venuto un po' in anticipo perché, sa, dovrei andare presto...» «Allora sbrighiamoci, ma non stiamo qui fuori al freddo.» Dentro c'è la solita confusione: clienti che vociano, camerieri che passano rapidi fra sedie e tavoli reggendo boccali di birra e piatti... Trovano un posto libero e Santovito si guarda attorno sorridendo. «Bene» dice «la solita simpatica atmosfera. Senti, mi è sembrato che tonno, cipolla e fagioli dell'altra volta fossero piuttosto buoni. Che ne dici se ripetiamo la prova?» Il ragazzo sta togliendosi il montgomery. «Per me va bene» e sorride impacciato. Santovito ferma un cameriere in acrobazia fra i tavoli e ordina per due. Le birre, una grande e una piccola per Roberto, arrivano subito e il maresciallo dà una grande sorsata. Si asciuga la bocca con la mano: «Aaa, la prima sorsata di birra» esclama. Anche il ragazzo porta il bicchiere alle labbra. «Senti» attacca di colpo Santovito. «Perché mi hai mentito l'altra volta?» Il ragazzo resta con il bicchiere a mezz'aria, senza bere: «Io? Mentito? Come...». Mette giù il bicchiere. «Sì, in poche parole, mi hai raccontato un mucchio di balle. La lettera di tua madre trovata nella scatola di cioccolatini, tu e tuo padre che ne avete parlato e poi deciso di consegnarmela... Insomma, non mi tornano i conti. È tutto fasullo, capisci? Se tuo padre avesse saputo della lettera, per prima cosa l'avrebbe aperta. Non tanto per sfiducia, ma per legittima curiosità, non credi? Io non conosco tuo padre, ma mi sembra così evidente... Poi non avrebbe mandato te a consegnarla al mio
superiore. Sarebbe andato lui, non ti pare? Magari assieme a te.» Per prendere tempo e pensare qualcosa, Roberto beve. Poi: «No, maresciallo, si sbaglia. E tutto come ho raccontato» ma il suo viso arrossito e gli occhi spaventati dicono il contrario. «Allora facciamo così: adesso mangiamo e poi mi porti da tuo padre.» Roberto sbianca e non sa cosa dire, ma per sua fortuna arriva il cameriere con l'ordinazione, che nessuno dei due pensa di assaggiare. Santovito beve un altro sorso di birra e accende il toscano per dar tempo al giovane di riflettere. Sbuffa poi fuori il fumo: «Facciamo così?» e si alza. Il ragazzo mette le mani avanti, come per fermarlo: «No, maresciallo, no, per favore». Santovito torna a sedersi. «D'accordo, allora raccontami come sono andate le cose.» Si sistema comodo sulla sedia, prende il boccale e aspetta. Roberto cincischia con il tovagliolo, gioca con la forchetta rimestando nel tonno e fagioli e poi decide: «Be', sì, ha ragione, maresciallo. La storia della scatola e del babbo me la sono inventata io... non so neppure perché. È che dopo la morte della mamma, qualche giorno dopo... Il babbo era appena uscito e hanno suonato alla porta. C'era una signora che ogni tanto mia mamma andava a trovare e che io conoscevo appena. Mi sorride e mi dice: "Sei solo in casa, vero? Lo so perché ho aspettato che tuo padre uscisse..." e senza dire altro, entra in casa e chiude la porta...». «Come si chiama?» lo interrompe Santovito. «È proprio necessario?» mormora Roberto. «Mi ha fatto giurare di non dire niente a nessuno...» Santovito annuisce e il suo viso serio e deciso lo convince. «Si chiama... Si chiama Giuliana Conversi...» Di nuovo Santovito lo interrompe. «Che ne dici se andassimo a trovarla quest'amica di tua mamma?» Ha una sua idea da verificare. Roberto, ancor più stupito, quasi grida: «Come? A quest'ora?». Il maresciallo indica i piatti. Dice: «Visto che né io né te abbiamo fame... Poi sono appena le nove e mi risulta che i bolognesi tirano tardi la sera...». Fa segno al cameriere. «Il conto per favore.» Il cameriere guarda i piatti: «Qualcosa non va? Ci avete trovato dentro una mosca o cosa?». «Va tutto bene. Ci è appena venuto in mente che abbiamo da fare. Grazie.» Sono passate le nove di sera e la signora Giuliana si trova dinanzi il figlio di Imelde, quasi in lacrime, e un distinto signore che non conosce. Lei è sui quaranta, forse qualcuno in più, ancora piacente, ha capelli in ordine e veste con proprietà, anche se è in casa. È una che tiene all'impressione che fa sugli altri. La sua sorpresa è più che comprensibile. Chiede, preoccupata: «Che ci fai qui, Roberto. A quest'ora? E chi è questo signore?». «Non si preoccupi, signora Giuliana. Sono il maresciallo Santovito. Credo che lei sappia di cosa si tratta...» «Sì, credo di sì... Venite dentro» e precede i due in tinello. Guarda Roberto agitando l'indice. «Però tu, Roberto... Mi avevi giurato...» I bolognesi hanno fama di essere dei biasanót, ma il marito non deve essere di queste parti visto che è già a letto. Infatti, dalla camera arriva uno sgarbato: «Chi c'è a quest'ora?». «Niente, niente» risponde lei. «È Roberto, il figlio di Imelde... Dormi, dormi che adesso vengo anch'io» e sottovoce agli ospiti: «Posso offrirvi qualcosa?». «No, grazie, un paio di informazioni e ce ne andiamo» poi Santovito dice a Roberto: «Grazie per quello che hai fatto. Sono sicuro che tua madre lo sa e ti è riconoscente. Adesso torna a casa e non pensarci più. Io e la signora Giuliana abbiamo da parlare». Il ragazzo ci mette un po' prima di decidersi e solo quando Giuliana lo prende per mano, si convince, si lascia accompagnare alla porta ma dice: «Mi dirà qualcosa, maresciallo Santovito?».
«Sì, quando questa storia sarà finita, verrò a trovarti.» Si presenta ai Tre Gobbi e Stupai è dietro il bancone, la schiena appoggiata alla poltroncina e la testa ciondolante. Sonnecchia e lo sveglia il campanello appeso sulla porta a vetri. Fa per bestemmiare, ma riconosce il maresciallo. «Guarda, guarda. Il nostro maresciallo maggiore...» «Vedo che le notizie volano, vero signor Stupai? Sono maresciallo maggiore da poco e già lei ne è al corrente.» «Csa vólel, s'gnaur maresiàl, a i ho una zérta... ho una certa frequentazione con la Benemerita... È qui per una camera, immagino.» «Spero che ne abbia una libera.» Ce l'ha. Ma Santovito non riesce a dormire. C'è l'incontro con la signora Giuliana che lo fa pensare. C'è il ricordo di Imelde e i tormenti che l'hanno accompagnata dalla giovinezza, dall'incontro con Bob, fino all'ultimo giorno di vita. Ma soprattutto lo fa pensare la decisione che Imelde non è mai riuscita a prendere. La capisce e la giustifica. Capisce il dolore alla notizia della morte del suo Roberto, nel momento stesso nel quale pensava di rivederlo, e l'impulso che, sulla spinta di quel dolore, la indusse a scrivere una lettera, poi mai spedita eppure arrivata a destinazione sedici anni dopo. E la lotta con se stessa per trovare un coraggio che avrebbe distrutto la sua vita, quelle del marito e del figlio. Ancora, la speranza che un giorno quel coraggio l'avrebbe trovato e i continui rinvii: la spedirò domani, la spedirò domani, la spedirò domani... Un domani che non arrivava e, nel frattempo, la lettera era presso l'amica Giuliana, che sapeva e con lei ne parlava ogni giorno, poi ogni settimana, poi ogni mese e infine il falso oblio. Rotto, un giorno, per farsi promettere dall'amica che, nel caso che lei, Imelde, fosse morta, Giuliana avrebbe fatto avere la lettera al maresciallo Santovito. E la vigliaccheria di Giuliana che non se l'era sentita e aveva affidato il compito a un ragazzo di quindici anni. «Per non essere coinvolta in una brutta storia che chissà come finirà» si era giustificata lei con il maresciallo. Piangeva. «Inutile e stupido piangere adesso» l'aveva ripresa Santovito prima di andarsene. Forse il marito, nella stanza accanto, si era addormentato. Come gli aveva consigliato Giuliana.
1960, dicembre, nella casa di Gialdiffa Il Segno Degli Anni Non sapeva come Gialdiffa l'avrebbe accolta, anche se il pomeriggio precedente qualcosa fra loro due era cambiato. Gialdiffa aveva covato il suo dolore da troppi anni per riuscire a dimenticarlo con le quattro chiacchiere scambiate in aula. Per questo Raffaella aveva bussato con ritegno. La porta si socchiude e appare il viso duro e sospettoso, ma ancora bello, soprattutto negli occhi grigi che scrutano Raffaella; Gialdiffa resta in silenzio aspettando una parola, un segno. «Buongiorno Gialdiffa» dice Raffaella, «Stamattina non era a scuola...» «Oddio, c'è qualche problema con i ragazzi?» «No, no, nessun problema» sorride Raffaella. «È che volevo fare ancora due chiacchiere con lei. Le cose che ha detto mi hanno... Ma posso entrare?» Dopo l'incontro a scuola, la bidella è tornata a essere la donna dura che Raffaella e tutti, in paese, conoscono. Rimane ferma, guarda la ragazza alzando il viso, come per vederla meglio, poi decide e apre del tutto il battente. «Accomodatevi pure, professoressa» dice. Fa strada fino alla cucina e indica una sedia. «Sedetevi. Purtroppo non ho molto da offrirvi, ma se volete, un caffè posso farvelo.» «Grazie, se non è molto disturbo, lo prendo volentieri. C'è un bel caldino qui...» La bidella indica la stufa accesa e va all'armadietto. Parla il necessario per non essere scortese e ci vorrà un po' per farla tornare la Gialdiffa dell'altro pomeriggio, a scuola. Raffaella la guarda mentre lei, in silenzio, apre lo sportello dell'armadietto, prende una vecchia caffettiera napoletana, mette l'acqua, la richiude con l'apposito tappo bucherellato e posa tutto sulla piastra rovente della stufa economica. Gialdiffa resta accanto alla stufa a controllare la caffettiera. Appena sente l'acqua bollire, rovescia la macchinetta e va a prendere dall'armadietto due tazzine, i piattini e una zuccheriera d'alluminio. Dal cassetto estrae due cucchiaini e torna alla stufa. Appena il caffè è filtrato tutto, lo versa, siede e allunga lo zucchero verso l'ospite: «Prego, servitevi» dice. Raffaella zucchera e gira a lungo il cucchiaino nella tazzina, una chicchera antica, di porcellana, con un motivo forse liberty di tenue viola mammola disegnato sopra. "Chissà di dove viene" pensa la professoressa. Sorseggia e guarda Gialdiffa. «Buono, grazie» dice. La donna alza le spalle: « È caffè». Raffaella finisce e posa la tazzina. «Lei sa perché sono qui, vero?» «Io? Cosa volete mai che sappia, io. Comunque...» ma non prosegue. «Comunque?» «Comunque ho ripensato alle cose che vi ho già detto, l'altro pomeriggio e ho...» Sospende ancora. «Io vorrei che lei parlasse senza problemi, Gialdiffa.» «Ho pensato che non serve a niente, dopo quello che è successo, dopo tanti anni. L'altro giorno, quando mi sono decisa e sono andata a trovare quelli che l'hanno... Quelli che l'hanno... Insomma, ci sarei andata con lo schioppo e li avrei ammazzati.» Fa una pausa e poi, sottovoce, commenta così: «Insomma, ho paura che il segno del tempo sia arrivato anche da me». «Cosa vuol dire, Gialdiffa?» «Cosa vuoi dire, cosa vuol dire!» alza la voce l'anziana. «Vuol dire che mi sto rassegnando anch'io e e è così, allora lasciamo le cose come stanno e amen.» «Non si può. Santovito è sicuro dell'innocenza di Roberto e io ci credo, ma ha bisogno di sapere.,. Capisco che sono ricordi dolorosi per lei, ma dica quello che sa. Per Roberto, per togliergli di dosso
un'infamia ». Gialdiffa sospira, batte una mano sul tavolo e si gira di lato. «O preferisce che un delinquente continui a girare per la strada? Sarebbe contento Roberto?» Adesso l'anziana si passa la mano sugli occhi, come per asciugarsi una lacrima, poi si gira di nuovo a Raffaella. Non sta piangendo. «La vita è proprio infame, delle volte.» Sospira ancora, appoggia le braccia sul tavolo e comincia, sottovoce: «Da giovane ero bella, proprio bella, a quanto dicevano tutti. Ooo no!». Ferma con un gesto Raffaella che, lo sa, sta per dire: "Ma anche adesso... . «No, non scherziamo. Oggi è diverso. Allora avevo poco più di vent'anni, ma la mia non era certo la bellezza dell'asino, come si dice dalle nostre parti.» Si alza per Prendere un bicchiere d'acqua dal fiasco vicino all'acquaio. Beve e si rimette a sedere. «Ma ero povera, povera allora e povera adesso, ma almeno ero giovane.» Sorride, forse senza accorgersene. «Allora mi davo da fare per lavorare dove si trovava. D'estate, a volte, a servizio coi signori, come qui chiamavano i villeggianti, ma durava da 1uglio a agosto. Andavo a opera se mi chiamavano, non so, per le castagne, il grano, come quella fine di luglio che cercavano opere per mietere in quel gran podere là.» La mente segue la memoria e si perde. «Quale podere?» «Aaa sì, voi non potete saperlo: le Piane. C'era il fattore che girava attorno, era il fattore ma lavorava assieme a noi. Qui si usava così. Quell'anno lui si metteva a maneggia sempre di fianco a me... Noi diciamo maneggia quando uno si mette a segare il grano, noi si segava a mano col segolo, il falcetto. Si partiva da un punto e si andava fino alla fine, questo era la maneggia. Allori lui si metteva di fianco a me e "Alda di qua, Alda di là". Alda mi chiamava. Non so proprio dove siano andati a tirarlo fuori, i miei, questo nome, Gialdiffa. Be', niente, e, insomma, sapete come vanno certe cose, e mi portava il mezzo vino da bere...» Chiarisce perché una professoressa che viene da Ferrara, forse non sa, non capisce. «Il mezzo vino perché quando si lavora sotto il sole e picchia, non si beve vino schietto, se no, addio. E "bevi se hai sete, riposati un po' se sei stanca...". Lui era proprio un bell'uomo...» «Come si chiama?» «Come si chiamava. Bernardi Pietro, si chiamava. Quello che il mio Roberto avrebbe ammazzato.» Gialdiffa vede lo stupore di Raffaella. «Sì, proprio lui. Era un bell'uomo, un bel giovanotto. Alto, robusto, capelli neri e denti bianchissimi, e a quei tempi, sapete, i denti... O, era anche un discreto partito, ma io, a quell'età, non ci pensavo a queste cose. Pietro mi piaceva, io piacevo a lui... Insomma, così è successo il patatrac.» « È rimasta incinta.» «Lì per lì sembrava che tutto andasse per il verso giusto. "Alda, non ti preoccupare, io sono un uomo che ha una parola sola, presto ci sposiamo, Aldina" e sgnif e sgnaf e poi comincia che non si fa più vedere, un impegno qua, comprare un vitello là... Insomma, mille scuse. Allora una sera l'ho preso e gli ho detto in faccia: "Sentite Pietro...". Pensate che buffo, aspettavo un figlio da lui e gli davo ancora del voi. "Sentite bene, mi sembra che vi facciate sempre più di fumo. Ditemi che intenzioni avete una buona volta."» La donna torna a bere. «E lui?» «Eee, lui! Lui mi fa: "Senti, Alda, è un po' che te lo volevo dire. Qua la situazione è questa: io qui sono solo il fattore, oggi ci sono, ma domani? Un capriccio del padrone e via! Non è facile trovare un altro posto come questo, sai. Ecco, ci sarebbe la figlia del padrone che si è innamorata di me e se io la sposassi...". Capito? Così ha avuto il coraggio di dirmi: "Se io la sposassi"» e Gialdiffa guarda Raffaella. «E lei?» «Io ho alzato la mano per dargli uno schiaffo, ma lui mi fermò. "Alda, non fare la stupida" mi fa. "Guarda che di lei non mi frega niente perché è a te che voglio bene. Se la sposo ci sistemiamo tutti e due e vedrai che non mi dimentico di te e del bambino"» e adesso Gialdiffa, scossa da singhiozzi,
ha bisogno di riprendersi. Si copre il viso con le mani. Anche Raffaella sta in silenzio per un po'. Poi: «Mi spiace» mormora. «Non è niente, scusate lo sfogo, ma era tanto che non ci tornavo sopra a questi fatti. Dunque, l'ho coperto di insulti, che era un gran vigliacco, un uomo da niente e di qua e di là e lui mi fa: "Guarda che se vai a dire qualcosa, io nego tutto" e io a gridargli che stesse pure tranquillo, che nessuno avrebbe saputo, che non lo avrei detto ai miei neanche se mi ammazzavano di botte... Che stessero tutti tranquilli, lui, la sua futura moglie, e il suo podere, che non avevo bisogno della sua elemosina e di nessuno, e l'ho mandato all'inferno. Be'» e qui Gialdiffa ha un sorriso triste, «non proprio all'inferno, devo dire. Sapete, ero giovane.» Anche Raffaella sorride. Pensa che Gialdiffa, nonostante i drammi sopportati, ha una forza d'animo straordinaria. Non è ancora vecchia, se pure molto segnata, e si intuiscono, nella figura dritta, nella schiettezza e nella foga del racconto, il carattere e l'antica bellezza. «Allora se l'è tenuto da sola, il figlio.» «Me lo sono tenuto sì, nonostante le malelingue, la fatica di tirare avanti, la mancanza di lavoro, che quando si fa un illegittimo, nessuno ti vuole più a mano, sei una donna da poco. Per fortuna i miei, riposino in pace, mi hanno tenuto in casa, ma sapete, a quei tempi, sempre con il muso e "dicci chi è stato, dicci il nome di quel disgraziato, che ci pensiamo noi..." Io zitta. In paese mi guardavano storto, Roberto cresceva ma gli altri ragazzi lo prendevano in giro... Insomma, lo so io cos'abbiamo passato. A un certo punto non ce l'ho fatta più, ho mollato tutto e sono venuta via dal paese, sono venuta a abitare qui.» «E lui, Bernardi, s'è più fatto vivo?» «Per un po' s'è visto, poi ha cominciato a farmi avere dei soldi attraverso un intermediario. Le prime tre volte glieli ho rimandati indietro facendogli riferire che preferivo morire di fame piuttosto. Poi sono venuta a stare qua e non c'erano più i miei a darmi una mano, ci sono stati dei momenti che mi sono davvero disperata. Avevo proprio bisogno e non mi vergogno a dire che li ho presi. In fondo, no, in fondo il padre di Roberto era lui e era giusto che contribuisse a mantenerlo. Roberto è diventato grande e ha cominciato a lavorare e mi ha detto, me lo ricorderò sempre, mi ha detto: "Guarda mamma che da quell'uomo non devi più prendere una lira, che a te adesso ci penso io".» «Quindi Roberto sapeva chi era suo padre.» «Lo sapeva sì. Continuava a dirmi: "Chi è quel delinquente di mio padre, chi è quel delinquente di mio padre" e un giorno gliel'ho detto.» Dopo l'ultima frase di Gialdiffa, Raffaella ha una domanda da fare, la più cattiva. «Mi scusi se glielo chiedo, ma da quello che diceva Roberto di suo padre... Insomma, lo chiamava delinquente. Vuol dire che Io odiava?» Gialdiffa se l'aspettava. Chissà quante volte se l'era posta quella domanda. Dice: «Non credo lo odiasse. Lo disprezzava, ma niente odio. Negli occhi di Roberto non l'ho mai visto. Poi, pensate un po' professoressa, per uccidere chi ti ha dato la vita ce ne vuole di pelo sullo stomaco. Poi Roberto aveva quella ragazza, Imelde, e non avrebbe mai rovinato la sua vita con un atto così... Peggio di Caino». Una pausa e poi: «Per un certo tempo non ho saputo più nulla del Patriarca, poi, un bel giorno mi arriva una lettera. Per posta. Avrebbe fatto prima a venire lui da me...». «Una lettera?» Gialdiffa annuisce. «E che le scriveva Pietro?» La donna non risponde. Fa segno di aspettare e va in camera. Torna con la famosa cassetta rinforzata, che Raffaella conosceva già, la posa sul tavolo, l'apre e ne tira fuori una lettera. Con movimenti cauti per non sciupare un antico documento al quale, evidentemente, tiene molto se lo conserva nella cassetta, prende la lettera dalla busta e guarda Raffaella. Dice: «Voi mi avete letto la lettera di Imelde e io ve ne leggo un'altra». Legge. Cara la mia Alda,
avrai saputo che mia moglie è morta e da quel giorno che se n'è andata non ho fatto che ripensare alla mia vita senza di te. Ho capito il male che ho fatto a te e a mio figlio e me ne pento. Adesso che il nostro tempo sta diventando poco, sento il dovere di chiederti scusa e di chiedere il tuo perdono. Non so se mio figlio potrà perdonarmi, ma farebbe un gran bene a un povero vecchio se lo facesse. Non so se potrà servire, ma appena la guerra sarà finita, ti giuro che provvederò a te e a nostro figlio. Ho per le mani un grosso affare, assieme a un socio al quale ho affidato gran parte del mio danaro liquido che avevo. Questo mi procurerà molti soldi, più di quanti ne abbia bisogno la mia famiglia, e sono intenzionato a provvedere a te e a nostro figlio. Se Dio non mi farà arrivare a tempo, che con quello che succede oggi nel mondo, non si sa mai, stai pure tranquilla che farò in modo che non vi manchi il necessario. Farò in modo che abbiate una parte del mio patrimonio e così non dobbiate maledirmi.
Ti saluto e aspetto il tuo perdono, se non posso avere quello di mio figlio. Pietro Bernardi Un lungo silenzio, che non ci sono commenti da fare. Come se il Patriarca avesse avuto una premonizione. Non ha visto la fine della guerra. Poi Raffaella dice: «Se vuoi un mio consiglio, Gialdiffa, non mostrare a nessuno questa lettera». La donna è sorpresa, ma non chiede. È Raffaella che indica la lettera, adesso distesa sul tavolo, e spiega. «Lì dentro c'è quello che gli inquirenti chiamano movente.» Ma la donna ancora non capisce. «L'eredità, Gialdiffa. Il giudice penserebbe che Roberto ha ucciso il proprio padre naturale per l'eredità promessa. Quindi, Gialdiffa, non mostrarla a nessun altro.» In silenzio Gialdiffa annuisce, ripiega la lettera, la rimette nella busta, poi nella cassetta, che va a riporre sotto il letto. «Roberto non lo sapeva nemmeno di quella lettera» dice. «Sì, ma dovresti convincere il giudice. Lascia perdere.» Poi Raffaella chiede: «Chi era il socio con il quale aveva un grosso affare?». «Non lo so di preciso, ma lo immagino. Conosco una sola persona al mondo che ha trafficato alla pari con Bernardi Pietro.» «Allora tu sai...» «No» dice forte e decisa Gialdiffa, «io non so! Se fossi sicura, quel delinquente non sarebbe più vivo. Aspetto che il maresciallo Santovito venga qui da me e mi dica: "Gialdiffa, ecco chi ti ha ammazzato il figlio".» Non c'è altro da dire. Raffaella gioca con la tazzina, Gialdiffa, braccia sul tavolo e mento contro le mani, a pensare alle ultime cose che ha raccontato. «Be'» dice Raffaella, «è ora che me ne vada. Grazie per aver parlato con me.»
1960, dicembre, nel paese di Furci Incontri Inquietanti Gli sta sfuggendo qualcosa. Dall'inizio di questa inquietante indagine, ha incamerato dei dati, li ha catalogati e collocati dove, secondo logica, dovrebbero stare. Dovrà poi verificare e si vedrà. Possono sempre essere spostati, quei dati, e messi in relazione con altri che scoprirà andando avanti nelle ricerche... Dunque, qualcosa gli sta sfuggendo. Come se in un angolo del suo inconscio fosse nato e si fosse poi sviluppato un pensiero su cose che lui sa, ma non sa di sapere. Come se informazioni recepite ma non utilizzate perché ritenute inutili, e quindi accantonate, fossero diventate un pensiero che si è elaborato da solo e adesso fa di tutto per essere preso in esame. Preme per essere preso in considerazione dalla ragione, ma non ha ancora forza sufficiente per imporsi. In anni e anni di mestiere e di situazioni, lui sa come in un'indagine le suggestioni, che poi, forse, altro non sono se non l'istinto, siano importanti. E sempre in passato, quando le suggestioni lo sollecitavano, ha fatto di tutto per prenderle in considerazione, per renderle razionali. Non sempre c'è riuscito. In questo momento non ci riesce. Sente, sa che deve tornare su, al paese di Lepre, di Remo e di Autiere e di tutti gli altri, presenti o lontani che siano. Tornare lassù e guardare meglio e cercare ancora, e chiedere e cercare attorno, perché è fra i vicoli freddi di quel paese, è dentro alle reticenze degli abitanti, è nelle loro diffidenze che ci sono risposte che gli servono. Di queste sue sensazioni, naturalmente, non fa cenno al maresciallo Amadori. Se gli parlasse di suggestioni, o anche solo d'intuito, che nel mestiere dell'investigatore è importante quanto gli indizi, il giovanotto si metterebbe a ridere. «Basiamoci sui fatti» gli direbbe. Come gli hanno insegnato alla scuola sottufficiali. Ma sono fatti anche le idee, quando hanno un riscontro nella realtà. Non gli spiega i suoi pensieri e fa cenno all'appuntato di indossare il pastrano e seguirlo. Anche Chiaffalà gli fa cenno che sarebbe il caso di avvertire il maresciallo Amadori, ma Santovito si stringe nelle spalle, solleva il capo e fa una smorfia che significa "lascia perdere, non importa". O ancora meglio: "Chi se ne frega". Gli ordini non si discutono e Chiaffalà esegue. Con una punta d'orgoglio per essere stato scelto dal maresciallo maggiore Santovito come suo collaboratore nelle indagini. Privilegio che sarebbe dovuto toccare al maresciallo Amadori. Ma l'appuntato non ha capito bene e infatti: «Va al bar e bevi qualcosa, quando voglio tornare, passo a prenderti io» gli dice appena la camionetta si ferma sulla piazza del paese. «Ma signor maresciallo, come? Al bar? Vengo con lei, posso aiutarla nell'indagine...» «Ma quale indagine, Chiaffalà, se non so cosa sono venuto a cercare!» gli risponde Santovito, quasi stizzito. Ma con se stesso per dover ammettere la sua incapacità, se pure momentanea, a andare avanti. «Ho solo bisogno di controllare alcune cose... Vai, vai che poi ti raggiungo.» Non deve controllare nulla. Segue il corso dei suoi pensieri, si guarda attorno oziosamente, come se quelle case, quegli alberi, potessero suggerirgli l'idea, lo spunto che gli sta sfuggendo. Anche se sente che c'è qualcosa, qui, che lo può portare a risolvere la questione, ma è ancora nebuloso, non chiaro. Si ferma per accendere il sigaro e poi, una mano in tasca, riprende a vagare e a guardarsi attorno, ma è come se non vedesse niente. O forse non c'è niente da vedere e il suo istinto si è sbagliato a portarlo qui, davanti all'officina di Lepre. La luce è accesa, dentro, la vetrata è chiusa e leggermente appannata e non esce alcun rumore; parcheggiate dinanzi all'officina ci sono due vetture, forse da riparare. Appoggiata al muro c'è anche una bicicletta da donna. Attorno, un paese deserto. O forse è il freddo che tiene in casa gli abitanti. Sta pensando a cosa dire a Lepre, una volta entrato, quando la vetrata piccola, quella per i clienti a
piedi, si socchiude e resta socchiusa. Santovito si tira da parte e aspetta. La porta si richiude ma, vicino, s'intravede un'ombra. Parla con qualcuno all'interno e la porta si apre del tutto. Gialdiffa Cortesi chiude la porta, si guarda attorno, siede sulla bicicletta, si tira lo scialle sulla testa, se lo stringe sulle spalle e attorno al corpo e si allontana pedalando lenta lungo la leggera salita verso il centro del paese. «Che ci fa qui?» borbotta Santovito. La bidella è l'ultima persona che si sarebbe aspettato. È andata a trovare uno di quelli che gli hanno ammazzato il figlio! Perché? La segue e le sorprese non sono finite. Dopo Lepre, Gialdiffa si ferma davanti al bar di Osvaldo Barsetti, scende dalla bicicletta, l'appoggia al muro e prima di entrare abbassa lo scialle e si sistema i capelli. Resta nel bar il tempo che basta a Santovito per finire il sigaro. All'uscita la bidella ripete il rito della bicicletta e dello scialle e questa volta la destinazione è il palazzo comunale. Anche qui si trattiene e quando esce, ha finito le sue visite in paese. Infatti questa volta s'intabarra per bene e indossa anche grossi guanti di lana grezza. Gira la bici verso valle, monta in sella e prende la discesa che la riporterà al paese. Il ritorno lo farà tutto da seduta e con i freni quasi sempre tirati. L'andata l'ha fatta in gran parte a piedi, con la bici a mano e pedalando nei falsipiani e nei tratti di leggera salita. Un tempo lo facevano gli operai che la mattina scendevano per la canapiera di fondo valle e la sera risalivano. In inverno proteggevano le mani dal freddo infilandole dentro pelli di coniglio legate al manubrio. Uno strano pellegrinaggio quello di Gialdiffa. Lo stesso del maresciallo Santovito, qualche giorno dopo il suo ritorno in paese: Lepre, Remo e infine il sindaco. Appoggiato al muretto di piazza, verso valle, Santovito segue con lo sguardo la bicicletta fino a quando la prima curva fuori dal paese non gliela nasconde. Riappare per un attimo e poi non la vede più. Fa freddo, ha il naso gelato, si passa le mani sul viso e borbotta: «Ci vuole un caffè bollente.» «A cosa sta pensando, maresciallo?» Si volta e a pochi passi dietro di lui c'è il sindaco Olmi che lo guarda. «Come sta, sindaco?» ma non aspetta la risposta. Indica la strada, sotto di loro: «L'ha vista anche lei?» chiede. Il sindaco annuisce. Dice: «Sì, è anche venuta a trovarmi». «Non è strano?» «Perché? Voleva certe informazioni...» «Gliele ha date?» «Sono tenuto a rispondere ai miei amministrati...» «Non mi risulta che la signora Cortesi Gialdiffa sia una sua amministrata. Abita giù, al paese di sotto che è di un altro comune...» Il sindaco lo interrompe: «Abita giù, ma non ha mai rinunciato alla residenza in questo comune, quindi...» e continua a sorridere anche se Santovito non ne capisce il motivo. Per ora. «E posso sapere cosa le ha chiesto, sindaco?» «Certamente. E buffo, ma è venuta a chiedermi cosa è venuto a chiedermi lei, maresciallo.» «E lei glielo ha detto?» «Non avrei dovuto? Non c'è niente di segreto nelle sue domande, no?» Santovito non risponde. «Poi mi ha fatto le stesse sue domande, maresciallo: come si svolse il processo a carico del figlio, chi faceva parte del plotone d'esecuzione e così via.» «E lei ha risposto...» «Esattamente come che ho risposto a lei, maresciallo.» «Ho capito. E non trova strano che quella donna le faccia certe domande dopo sedici anni? Ne ha avuto di tempo per pensarci e per farle prima, non crede?» «Non so che dirle. Forse il fatto che lei sia tornato per indagare...»
«E la donna ha reagito?» «Ha preso atto e se n'è andata.» «Sa che prima di lei ha visitato anche Lepre e Remo?» «No, non lo sapevo. Ma non restiamo qui al freddo. Posso offrirle qualcosa, andiamo al bar, che so, un caffè, un bicchiere?» «No, grazie, niente» e Santovito siede sul muretto. «Come mai qui?» chiede il sindaco. «Seguiva la madre di Bob?» «No, semplicemente facevo due passi, cercando di riordinare le idee quando l'ho vista uscire dall'officina di Lepre» e fruga nelle tasche per la scatola dei sigari. Il sindaco gli siede accanto: «Devo confessarle, maresciallo, che il nostro incontro non è casuale. L'ho vista dalle finestre del comune e ho pensato di raggiungerla». «Il motivo di questo interessamento?» chiede Santovito, che finalmente è riuscito a trovare un sigaro. L'accende. «Lei è fortunato, maresciallo...» «Cioè?» «Lei può ancora fumare il sigaro. Sapesse cosa darei io per farlo ancora. Meglio non pensarci. Il motivo del mio interessamento, lei dice. Semplice: sono il sindaco e mi interessa tutto quello che succede in paese. Se lei è qui, avrà il suo motivo e se posso aiutarla... Poi...» e allarga le braccia. «Lei sa che nella faccenda sono stato coinvolto anch'io, conoscevo Roberto e il fatto che sia stato accusato di quell'orribile delitto mi è sempre rimasto qui.» Si tocca la gola. «In tutta onestà, non mi è mai sembrato il tipo capace...» Lascia la frase incompleta. «Insomma, mi ha capito.» «Si, ma non ho ancora capito perché, improvvisamente e dopo tanti anni, la madre di Bob senta il bisogno di contattare chi le ha ammazzato il figlio.» «Be', glielo chieda, maresciallo. Lei ne ha il potere.» «Lo farò, lo farò, ma non è facile mettere assieme i fatti dopo tanti anni» e per un poco fra i due c'è silenzio. Santovito tira lento nel sigaro e il sindaco saluta alcuni paesani che passano sulla piazza. Evidentemente è ben visto dalla sua popolazione. «O, Giovanni» dice a uno «Per quella cosa che mi hai chiesto, passa su da me, diciamo domattina.» Poi al maresciallo: «Per quanto mi riguarda, sono a sua disposizione. Anzi, come le ho promesso l'ultima volta, ho fatto anch'io alcune indagini... Riguardo a Bill...» e sorride al maresciallo, che si è tolto il sigaro di bocca e guarda interessato il sindaco. «Ho chiesto qua e 1à, e ho saputo... Insomma, qualche tempo dopo la Liberazione arrivò in paese... C'era una commemorazione... Si chiama Guglielmo Borghetti Strozzi. Come vede maresciallo, è di nobile famiglia. Si è laureato e oggi è un avvocato importante di Bologna. Ma c'è dell'altro, maresciallo» e il sindaco fa una pausa per dare più rilievo a quello che dirà. «Ho saputo anche che i suoi genitori, anche suo padre era un famoso avvocato, erano sfollati qui in tempo di guerra, è da qui che Bill è entrato nella Resistenza. A guerra finita, i suoi hanno comperato la casa dov'erano sfollati... Sa, forse per nostalgia. I vecchi sono morti, ma ho saputo che ogni tanto, in estate, non spesso, il nostro Bill fa una visitina alla casa. Ho qui...» e prende dalla tasca il portafoglio. Lo apre, estrae un cartoncino e lo porge al maresciallo. «Per una fortunata coincidenza sono riuscito a venire in possesso del suo biglietto da visita.» Santovito lo legge, lo mette in tasca e riprende con il sigaro. Chiede solo: «E di Tango?». «Si chiama Cattani, Vasco Cattani e prima di darsi alla macchia era ufficiale nell'esercito. Spero di aver fatto un buon lavoro, maresciallo.» Santovito si alza, dà un'altra occhiata alla strada che serpeggia verso il fiume, laggiù, molto in fondo. Nel freddo di un dicembre che ha indurito l'asfalto, non transita anima viva. Annuisce, forse ha un'idea. «Sì, proprio un buon lavoro.» Gli tende la mano. «Lei non immagina quanto» e lascia il sindaco seduto sul muretto.
Passa dinanzi al bar e, attraverso i vetri appannati, vede l'appuntato Chiaffalà seduto a un tavolino. Legge un giornale sportivo. Dati i suoi precedenti, non ci sarebbe niente di strano se tenesse per la Sampdoria. O per il Genoa. Gli altri clienti, non molti data l'ora, si tengono a distanza. Qui i carabinieri non sempre sono benvoluti. Anche la vetrata dell'officina è leggermente appannata e lascia passare il lampeggio della fiamma ossidrica. «Arrivo!» grida Lepre da dentro la buca, sotto un'auto, appena Santovito apre la porta. «Fai con calma, Lepre. Io ho tempo.» Gli risponde una bestemmia. Poi la fiamma ossidrica si spegne e spunta la testa di Lepre. Ha le mani e il viso sporchi di grasso. «Ancora! Tu non molli mai, vero Salerno?» Si issa a forza di braccia e esce del tutto dalla buca. «Cos'è oggi, il giorno delle visite?» «Pare di sì. Come stai?» «Stavo meglio quando tu non mi eri fra i coglioni, ma che ci posso fare?» Va dinanzi al maresciallo, lo guarda in faccia e intanto cerca il pacchetto nelle tasche della parte superiore della tuta. «Allora, cosa c'è stavolta?» «Un sigaro?» «Te l'ho detto che non fumo più quella porcheria.» Ha trovato una sigaretta sciolta nel taschino sinistro, la sporca con il grasso delle mani, la mette in bocca e cerca i fiammiferi. O l'accendino. Fa prima Santovito. Accende un fiammifero e glielo mette sotto la sigaretta. Lepre aspira e quando ha preso bene sbuffa una boccata di fumo sul viso del maresciallo e gli sorride. Il tiro seguente gli dà un attacco di tosse. Si calma e dice: «Vuoi mettere con questa porcheria qui?». Come l'altra volta, sul pavimento c'è una quantità di cicche. «Allora, cosa vuoi adesso?» «Sono passato per un saluto. Manca poco a Natale...» «Mi prendi per il culo? Mancano più di venti giorni...» «Sì, ma può essere che non ci vediamo più.» «Fosse vero, farei una novena alla Madonna» dice Lepre. La sigaretta nell'angolo della bocca, va a scaldarsi le mani alla parigina sistemata in un angolo dell'officina. Toglie i cerchi e sbatte dentro un legno che solleva una ventata di faville. Santovito lo raggiunge. Chiede: «Cos'è venuta a fare?». «L'hai seguita! E il massimo. Adesso te la prendi con quella povera donna. Non ne ha avuto abbastanza?» «Non sono stato io a ucciderle il figlio. E commettendo un vero e proprio omicidio. Adesso ne sono sicuro, Lepre. E anche tu.» Lepre solleva il cerchio più piccolo della stufa e ci sbatte dentro il resto della sigaretta. Grida: «Va bene, forse abbiamo sbagliato. E allora? Lo sai come si viveva, no? Non c'era tanto da andare per il sottile! Guarda che se hai ragione tu, e non è detto, nessuno riporterà in vita quel povero ragazzo. E le cose non cambiano». Tranquillo, Santovito annuisce. «Vero, sacrosanto. Cosa voleva da te?» «Quello che volevi tu, Salerno! Hai sollevato un casino che chissà dove ci porterà! La povera donna se n'è stata con il suo dolore per tanti anni e forse aveva trovato la sua pace. Nossignore, arrivi tu e rimesti nelle ferite. Cosa cazzo credi di risolvere?» Si calma. «Ho da fare» dice sottovoce. «Fra due ore viene a prendere l'auto e ho ancora da saldare la marmitta. Ti saluto» e va a infilarsi nella buca. La voce di Lepre arriva dalla tomba, proprio mentre Santovito sta uscendo dall'officina: «Mi ha anche detto che sa chi ha massacrato quelli delle Piane». «Cos'hai detto?» chiede il maresciallo, chino sulla buca. Fra la parete della buca e l'auto spunta la faccia sporca di Lepre. «È sicura di sapere chi è stato. Puoi andarglielo a chiedere, se ci tieni tanto.»
«Tu non gliel'hai chiesto?» «Per me la storia è finita quel brutto mattino d'ottobre del '44» borbotta Lepre, e s'infila di nuovo nella buca. Mentre Santovito se ne va, là sotto la fiamma ossidrica riprende a sibilare e manda fuori dei lampi che illuminano la penombra dell'officina.
1960, dicembre, in paese L'Ommo Salvadgo «Appuntato, passa dalla scuola e lasciami lì. Torna pure in caserma che non ho più bisogno di te.» Per quanto a conoscenza dell'appuntato Chiaffalà, il maresciallo maggiore Santovito non si è servito molto di lui né questa né altre mattine. Anzi, pare che sia utile solo per portare in giro la camionetta su e giù per i paesi della montagna. Cosa che potrebbe fare benissimo anche un carabiniere semplice come Gargiulo Angelo. Il fatto, poi, che Santovito lo abbia chiamato appuntato, a Chiaffalà non piace. Sa troppo di gerarchico e il maresciallo maggiore non è mai stato per le gerarchie rigorose. Contrariato, Chiaffalà risponde: «Come vuole lei, signor maresciallo maggiore» e si preoccupa di tenere 1'A.R. Matta in strada. Guida in silenzio fin davanti alla scuola. Ferma la camionetta e, prima che Santovito scenda, dice: «Signor maresciallo maggiore, che dirò al maresciallo Amadori qualora mi chiedesse conto della mattinata?». «Qualora ti chiedesse conto, tu gli risponderai che lo ragguaglierò al mio rientro in caserma.» «Agli ordini, signor maresciallo maggiore» dice Chiaffalà portandosi la mano al berretto. Fa per scendere e aprire la portiera al superiore, ma Santovito lo ferma mettendogli la mano sulla spalla e costringendolo così a restare seduto al volante. «Appuntato Chiaffalà, forse non te ne rendi conto, ma mi sei di grande aiuto e se questa brutta storia si concluderà come io spero, parlerò bene di te al comando.» Piuttosto sorpreso dalla battuta del superiore, Chiaffalà balbetta un «Grazie, signor maresciallo maggiore» che fa sorridere Santovito mentre scende dalla camionetta. «Ah, Chiaffalà, una volta per tutte, smettila con questo maresciallo maggiore che non ha senso.» «Agli ordini, signor maresciallo.» Aspetta che il "signor maresciallo" chiuda la portiera e poi mette dentro la prima e sgomma felice verso la caserma masticando una sequela di belin da perfetto lucano trapiantato in Liguria. «Avanti» dice a voce alta la preside. Si aspettava un'insegnante o un allievo e si trova in ufficio un maresciallo dei carabinieri. È sorpresa e non sa che dire. Comincia Santovito: «Mi scusi se arrivo senza preavviso, signora preside.» «Niente, niente... Prego, si accomodi. E accaduto qualcosa? Una disgrazia...» Santovito sorride. «Non sempre i carabinieri portano disgrazie.» «Scusi, ma non capita spesso che i carabinieri... Prego, sieda.» «Non resto. Cercavo la signora Gialdiffa...» «Ha fatto qualcosa di...» Ricorda l'assicurazione di poco fa del maresciallo e rettifica: «Volevo dire: è cosa urgente? Sì, perché non saprei dove indirizzarla. La nostra brava bidella oggi non si è presentata...». «Ho capito» dice Santovito. «Capita spesso che la signora non si presenti al lavoro?» La signora preside ricomincia a preoccuparsi: «No, anzi, sono rimasta sorpresa... Non è da lei... Insomma, non era mai capitato prima. Una bidella esemplare, sempre presente, sempre disponibile con gli allievi e con gli insegnanti, sempre...». «Non deve convincermi, signora preside. Ho la massima stima per la signora Gialdiffa.» «Allora, mi scusi, allora come mai...» «Solo alcune informazioni. Passerò da casa della bidella...» «Guardi, maresciallo, che domani la nostra Gialdiffa sarà qui. Ne sono sicura...» «Grazie» l'interrompe Santovito. Prima di uscire dice ancora: «Mi saluti la professoressa
Anceschi». "Passerò da casa della bidella" ha detto alla preside, ma non lo farà. La tensione di una mattinata troppo lunga e piena di avvenimenti incomprensibili, lo ha stancato. E non succede spesso. Lentamente si avvia alla caserma. Si butterà sulla branda, ma prima c'è un'altra fatica: aggiornare Amadori. Non aspetta altro, quello. Lo farà velocemente e poi, senza mangiare, si butterà sulla branda. E farà un altro dispetto a Chiaffalà e alla sua cucina. L'A.R. Matta parcheggiata davanti alla caserma non è quella di Chiaffalà. È più impantanata, con ammaccature sulle fiancate e sui paraurti. Chiaffalà ci sta più attento. L'ufficio è chiuso e Santovito si illude di poter sparire nella sua stanza-ufficio. Amadori ha buon orecchio e si presenta nelle scale che Santovito è al primo pianerottolo. Grida: «Giusto te, Santovito. Senti un po' cos'ha da dire il maresciallo Furci.» Furci è il maresciallo del paese di sopra, nell'altra vallata, quello del "sugo molto semplice, ma gustoso. Salsiccia locale, perché purtroppo la mia calabrese è finita da un pezzo, ma aggiungo tanto peperoncino e verso fine cottura la tiro con un po' di vino bianco e aggiungo un cucchiaio di conserva sciolta nell'acqua". Le cose non vanno come Santovito le aveva programmate e la branda dovrà attendere. Furci è qui perché alcuni abitanti gli hanno segnalato la presenza nelle strade del paese, ma soprattutto nei boschi che lo circondano, di uno strano personaggio. Dice: «Accade solo di notte e pare che porti a tracolla un mitra. Ma vai te a sapere cosa vedono questi montanari e cosa ne sanno di armi. Una vecchia, poi, si è presentata in caserma e mi ha fatto un discorso che non ho capito su un certo omo selvadigo o come accidente lo ha chiamato, e che lei lo aveva già visto da giovane... Può darsi che ci sia un povero matto capitato qui chissà da dove e si diverte a spaventare questi montanari superstiziosi». «Quanto a superstizione» dice Amadori, «anche voi napoletani non scherzate. Fra te e Santovito non saprei...» «Non sono napoletano» precisa Santovito. «Fra la mia gente e i napoletani c'è una bella differenza, caro ferrarese.» «Sì, sì, lasciamo perdere. Santovito, tu che conosci meglio di me questi posti e questi montanari, hai qualche idea su quest'omo... Com'è che si chiama?» chiede a Furci. Gli risponde Santovito: «Ómmo salvadgo. Così lo chiamano da queste parti» e non aggiunge che una sua idea sull'ómmo salvadgo ce l'avrebbe. È una storia vecchia che questi due piangiani, come i montanari chiamano sia Amadori che Furci e forse anche lui che viene dal Sud, non capirebbero. Anche perché non può essere quell'ómmo salvadgo di cui ha memoria lui. «No, nessuna idea. Furci ha ragione: qualche squilibrato...» «Be', io vi ho avvertito, fate un po' voi» conclude il maresciallo Furci. «Adesso me ne vado che ho qualcosa da fare...» «In cucina, Furci?» scherza Santovito. «Anche, anche.» Un saluto poco militare e via. Nel corridoio continua a voce alta: «A proposito, sento un odore di rancio poco invitante. Se verrete a trovarmi vi farò annusare altri profumi! E sì, via! Ve li farò anche assaggiare». «Se lo sente Chiaffalà, lo arresta per oltraggio alla sua cucina» dice sottovoce Amadori. «È convinto di essere il miglior cuoco della zona e dintorni.» Poi a Santovito, che sta per lasciare l'ufficio: «Novità?» chiede. «Sì, ma sono stanco e vorrei buttarmi sulla branda per un paio d'ore...» «Senza mangiare?» Santovito annuisce. «Be', ne ho anch'io di novità. Hai presente il fucile da caccia?» Certo che l'ha presente. «E la tanica?» Anche. Santovito non dimentica indizi importanti.
«Vuoi sentirle adesso o vai a riposare?» «Le sento adesso» e torna alla scrivania e siede e ascolta. Il maresciallo Amadori, una volta tanto, ha fatto la cosa giusta. Che avrebbe fatto anche Santovito se ne avesse avuto il tempo. L'aveva rimandata di qualche giorno, la cosa giusta. Amadori si sistema bene sulla poltrona, accende una sigaretta e dice, sornione: «Ho le impronte digitali dell'assassino» e aspetta l'applauso. «Sono contento. E come sai che sono dell'assassino?» Un sorriso d'intesa, per complimentarsi con se stesso, e poi: «Perché sono le ultime che risultano impresse sulla tanica recuperata alla baracca. L'esperto del nostro laboratorio è riuscito a rilevarle fra le tante e poiché, come ti ho detto, sono le ultime impresse, ergo... Insomma, deduci tu». «Deduco, deduco. E il fucile da caccia?» Franchi calibro 12, Imperiale Montecarlo, canne affiancate, non molto comune, ma particolarmente diffuso nell'Appennino tosco-emiliano. Lo comprava chi aveva soldi, diciamo la gente un po' facoltosa. Lo comprava e se ne vantava in giro. Esemplari che le incisioni sul corpo del fucile rendevano unici. E Amadori sospende la descrizione per mostrare una foto al collega. È soddisfatto del suo lavoro. Dice: «Adesso viene il bello. Ho mandato la foto delle incisioni della nostra doppietta agli archivi della Franchi e mi hanno risposto... mi hanno risposto...» Cerca fra i fogli sul tavolo e legge: «"Confermiamo trattarsi di una nostra arma" eccetera, eccetera. Aaa, ecco qua. "Dai registri ancora in nostro possesso tale arma fu venduta nell'aprile del 1939 al signor Bernardi Pietro residente..." Eccetera, eccetera». Guarda soddisfatto il collega e conclude: «Ergo, si tratta senza dubbio del fucile che il Patriarca aveva regalato al figlio Italo. Ricordi il racconto della vecchia?». Santovito ricorda. «Allora, che ne dici?» «Che non si capisce come sia finito nella cisterna assieme agli ammazzati. Forse se l'era preso per difendersi da chi ha poi fatto la strage. Non c'è riuscito. Impronte?» Il maresciallo Amadori fa ancora sfoggio di grande preparazione che gli deriva da una lezione imparata a memoria. Lo si capisce dal modo di esporre. Sul fucile non è stato possibile rilevare impronte perché la lunga permanenza nella cisterna ha sciolto la loro parte acquosa, mentre la parte grassa è stata attaccata e cancellata dai batteri, presenti numerosi nelle acque di sorgente. Quanto alla tanica, non ci sono dubbi: il tecnico ha potuto rilevare le impronte per asportazione, il che significa che sono le ultime impresse, ergo, di nuovo, non possono che essere dell'ultimo che l'ha impugnata e cioè di chi ha dato fuoco alla baracca e quindi dell'assassino delle Piane. «Impronte per asportazione?» chiede Santovito. «Spiego» pontifica Amadori, felice per il momento di gloria. «La tanica è rimasta molto tempo inutilizzata e di conseguenza si è coperta di un leggero strato di normale polvere. Ma anche di residui di combustione provenienti da uno scarico di automobile.» «Probabilmente l'assassino l'ha tenuta a lungo in un'autorimessa e le particelle dei gas di scarico potrebbero venire dalla messa in moto della sua auto.» Il delinquente l'ha presa, i suoi polpastrelli hanno asportato lo strato di polvere e residui di combustione e le impronte sono rimaste stampate in negativo in varie parti della tanica. Chiaro? Chiarissimo. Adesso si tratta solo di trovare l'assassino e confrontare le sue impronte con quelle rilevate sulla tanica. Una cosa da nulla. Santovito si alza e dice: «Un'altra prova che Bob è innocente. Significa che abbiamo in giro e a portata di mano un criminale... E significa una quantità di altre cose e tutte spiacevoli.» «Perché spiacevoli?» Santovito non risponde e si avvia. Ha una voglia disperata di branda. «Un buon lavoro, Amadori, davvero. A indagini concluse ne informerò i superiori.»
«È tutto quello che hai da dire?» «Cos'è Amadori, vuoi anche l'applauso?»
1960, dicembre, in paese Una Brutta Sorpresa Oggi ha un motivo in più per incontrare Gialdiffa: il dialogo fra lei e Raffaella e la convinzione della bidella di conoscere il nome dell'assassino delle Piane. «Mi dispiace, signor maresciallo, ma anche oggi la bidella non c'è. E passata stamattina e ha chiesto di prolungare il permesso.» La preside è dispiaciuta. «Se è urgente, la troverà di certo a casa. O al camposanto. Ci va spesso a trovare il figlio.» Santovito guarda l'orologio sulla parete, sopra la testa della preside. Dice: «È tardi, ormai. Torno in caserma a mangiare qualcosa, poi nel primo pomeriggio passerò... Se la dovesse rivedere, le dica che la sto cercando». Saluta e se ne va. È la seconda volta in due giorni che rimanda la visita a casa di Gialdiffa. Non è sua abitudine. Se deve fare una cosa, la fa e prima possibile. Ieri era stanco, oggi ha fame. Anche perché l'ultima volta che ha mangiato qualcosa è stata la colazione del mattino precedente. Niente a mezzogiorno. Poi ha passato il pomeriggio chiuso nella sua stanza-ufficio con Raffaella che gli ha parlato del suo incontro con Gialdiffa. Niente neppure la sera e ha passato buona parte della notte a buttare giù appunti per una relazione che non sa quando finirà. Intanto ha messo sulla carta le cose più importanti. Nell'atrio c'è un odore stuzzicante che viene dalla cucina. «Chi è di corvé oggi?» grida appena dentro. Dalla porta della cucina spunta la testa di Chiaffalà. «E chi vuole che sia, signor maresciallo maggiore! Qui, se non ci pensa Chiaffalà, o non si mangia o si mangia male!» «Vediamo, vediamo» dice Santovito. «Non mi dirà che oggi ha fame.» «Da lupi, appuntato, da lupi» e toglie il coperchio al tegame che borbotta sul fornello. «Bene, polpette al sugo. Avevi del lesso avanzato da riciclare?» «Ma cosa dice?» sbotta l'appuntato quasi offeso. «Qui non resta niente da riciclare. Anche se, dovrei dire, le polpette col lesso avanzato sono più buone.» Sempre col coperchio in mano, Santovito si riempie i polmoni dell'aroma: «Ricetta ligure o della Lucania?». «No, no, ricetta locale, locale di qui. Macinato di prima scelta, trito di aglio e prezzemolo, uova, sale quanto basta, un po' di salsiccia per insaporire, impastare il tutto, fare le polpette poi passarle nel pane grattugiato. Ma il vero segreto sta nel sugo, e qui entra in ballo la Lucania... Faccio sciogliere la conserva in un bicchiere d'acqua, poi aggiungo...» «Va be', va be', Chiaffalà» lo ferma Santovito. Non sa dove posare il coperchio e lo consegna all'appuntato. Prende una fetta di pane e lo immerge nel sugo. Assaggia. «Non è ancora perfetto. Io aggiungerei un po' di peperoncino e farei tirare il sugo ancora un poco. Poi ti dirò se le tue polpette sono davvero buone.» Sono buone e la caserma, Santovito, Chiaffalà e Gargiulo (Amadori se n'era andato "per problemi urgenti", aveva detto), le spazza via e ripulisce anche il tegame con delle fette di pane. «Quando andrai in pensione, Chiaffalà» dice Santovito in attesa del caffè, «ti consiglio di aprire un ristorante. Sarò un tuo cliente assiduo.» «Da qui alla pensione, signor maresciallo maggiore» sorride l'appuntato porgendo la tazzina. «Un po' di grappa per renderlo potabile? So che Amadori avrebbe proibito di tenere superalcolici in caserma, ma so che tu non sempre obbedisci agli ordini.» «Vuol scherzare, signor maresciallo maggiore? Io obbedisco agli ordini e non tengo grappa in caserma. Infatti la tengo nel garage» e va a prelevare la bottiglia.
Non è più il caso di chiedere a Chiaffalà di lasciar perdere quel "maggiore". Lascia perdere lui. Caffè corretto, un sigaro, alcune soddisfatte boccate e Santovito si alza: «È ora di andare» dice. La porta della casa di Gialdiffa è socchiusa e appoggiata al muro non c'è la bicicletta. Bussa e mette dentro la testa. «C'è nessuno?» Entra. «Gialdiffa?» Qualcosa non va. Intanto c'è una sedia in mezzo al corridoio e la piccola cassapanca è aperta e discosta dalla parete. «Gialdiffa!» Entra in cucina e qui il disordine è fin troppo evidente. Come per una veloce e affrettata perquisizione. Chissà perché Santovito pensa a Amadori e ai suoi problemi urgenti. Ma non è possibile, lui non sa di Gialdiffa. A meno che... Cassetti, armadietto e vetrina spalancati, posate e altri oggetti sparsi a terra, saliera aperta col contenuto versato sul tavolo. In camera da letto è peggio. Armadio spalancato, vestiti gettati a terra, letto disfatto con i due materassi, uno di crine e l'altro di lana, sventrati. Accanto al letto la famosa cassetta rinforzata ha la serratura scardinata e il contenuto è sparso sul pavimento. Sono fotografie, lettere, documenti... che hanno segnato la vita di una povera donna. Manca la lettera del Patriarca! Una lettera che deve essere importante se si sono scomodati a fare quello che hanno fatto nella casa di Gialdiffa. Anche la stanzetta che era stata del figlio Roberto è nelle stesse condizioni. Il cimitero è troppo lontano per andarci a piedi. Santovito torna di corsa in caserma, ordina a Chiaffalà di tirare fuori la camionetta e partono. Il cimitero, o camposanto, come lo chiamano i paesani, è fuori dal paese, al termine di una salita. «C'è» borbotta Santovito appena vede la bicicletta di Gialdiffa appoggiata al muro, di fianco al cancello. Come tutti qui, la bidella fa la salita spingendo la bicicletta a mano per poi montarci in discesa. «Aspettami qui!» ordina all'appuntato e varca il cancello. Sembra che dentro faccia più freddo e Santovito istintivamente rabbrividisce. Non c'è nessuno attorno. Si aggira fra le lapidi, alcune più ricche, molte con foto d'altri tempi, uomini e donne e bambini vestiti all'antica; altre più recenti, con tracce di un concetto di scultura funeraria meno sobria. I pochi cognomi testimoniano l'annoso intreccio familiare del paese. Altre, invece, hanno solo povere croci di ferro, senza nemmeno il nome del defunto. Santovito gira l'angolo della parte del cimitero con le cappellette dei loculi e guarda attentamente per trovare dove giace Roberto. Inutile. Torna indietro e vede un bastone che spunta sopra le altre lapidi. E un grosso pollone di castagno, tagliato da poco e ripulito dai rametti che lo completavano, infisso a forza sulla fossa fra la lapide e il vaso. Benedetto Santovito ne ha visto un altro di bastone come questo. Era piantato sulla fossa di Bob, alla piana di Santino, un poco più sopra il caniccio d'Edgarda. Ma lassù non c'era il vaso di fiori freschi che c'è qui e che indica un cura assidua. Questa, come quella, è la tomba del partigiano Bob. La foto sulla lapide è pulita e chiara e non ci sono dubbi: questo Roberto è il padre dell'altro Roberto, il ragazzo incontrato a Bologna. Santovito si guarda ancora attorno. Gialdiffa non c'è. Forse sta pregando nella piccola cappella mortuaria, contro il muro in fondo al camposanto, che infatti ha la porta socchiusa. «Gialdiffa!» chiama. Va alla cappella e nel sentiero fra le tombe trova una scarpa. L'altra è a poca distanza dalla cappella. Santovito spinge lentamente il portone e entra. Gialdiffa c'è. Santovito va fuori. «Chiaffalà!» urla. «Chiaffalà, corri in caserma e fai venire qui il maresciallo Amadori! Prendi anche la macchina fotografica!» «Ci sono novità, signor...» «Di corsa, perdio, e senza far domande!» e mentre la camionetta di Chiaffalà solleva sassi e terra e prende la via del paese, lui torna nella cappelletta. Sì, per esserci, Gialdiffa c'è. Penzola da una corda attaccata a un tirante di ferro teso fra le due pareti laterali, sopra al piccolo altare in pietra. Santovito soffoca un'imprecazione e corre là, dove la donna dondola ancora. Le mani di Gialdiffa, all'altezza del viso di Santovito, sono contratte. Il
maresciallo le sente il polso. Fermo, ma ancora caldo. I calzini di lana penzolano dai piedi e le parti scoperte sono graffiate. Altro sangue cola dalla nuca della donna e le macchia il collo e il cappotto. Lo sgabello a terra, sotto il corpo, fa pensare al suicidio, ma Santovito ha troppi elementi per dubitarne. Le scarpe perdute lungo il percorso, per esempio, e i calzini in parte sfilati dai piedi, fanno pensare al corpo trascinato, come lo fanno credere i graffi. Santovito lascia lo sgabello dove si trova, prende una sedia, lì vicino, e vi sale per controllare la ferita alla nuca. «Potrebbe aver sbattuto contro il muro» si dice il maresciallo, ma nessuna traccia di sangue c'è sulla parete vicina. «L'hanno ammazzata» dice. Aspetta appoggiato alla parete esterna della cappella, rinfrancata da un sole che si fa sentire appena. Aspetta, accende un sigaro e pensa che in questa tristissima vicenda, per la seconda volta è arrivato tardi. «Avrei dovuto passare subito da casa sua, accidenti! Questo non sarebbe successo. L'avrei convinta a parlarmi dei suoi sospetti, accidenti!» Di buon passo il maresciallo Amadori, sigaretta in bocca e seguito dall'appuntato, si dirige alla cappella dove Santovito sta ancora appoggiato, sigaro fra i denti. È lontano e già comincia a parlare. «Che accidenti c'è di così urgente? Con tutto il lavoro che ho da fare... Spero ci sia un buon motivo...» «Il buon motivo è lì, nella cappella» dice Santovito. «Vai dentro a vedere.» Amadori non entra subito. Si prende tempo a guardare in faccia il collega, forse per capire in anticipo. Poi getta a terra la sigaretta, la schiaccia con la suola e entra. «Cazzo!» impreca. «Potrei essere d'accordo» gli dice sottovoce Santovito, che lo ha seguito. «Porca puttana!» e Amadori gira attorno al corpo appeso. «La conosco, è Gialdiffa. Ma perché cazzo si è suicidata? Che motivo poteva...» «Se è per questo, di motivi ne avrebbe avuti più d'uno, ma l'hanno suicidata. Credo che l'abbiano colpita alla nuca mentre era sulla tomba del figlio, l'abbiano trascinata fin qui e l'abbiano appesa...» Amadori lo interrompe: «Che senso ha? Gialdiffa fa la bidella alla scuola e non...». Anche Santovito lo interrompe: « È la conclusione, l'ultimo atto del massacro alle Piane». «Cosa c'entra Gialdiffa con il massacro alle Piane, scusa?» «Gialdiffa è... era la madre di Bob.» Amadori la prende male e comincia a smaniare. «Ma cazzo! A me queste cose non si dicono. Io, dico io, sono il titolare responsabile di questa stazione, tu hai ricevuto la lettera d'ordine del Comando e tutto il resto e mi nascondi...» «Non ti nascondo niente. Te ne avrei parlato appena possibile. Ti avrei anche spiegato che questa povera donna è andata in giro raccontando di sapere chi è il vero assassino delle Piane...» «Raccontando? A chi?» «Be', per esempio a Lepre...» «E chi sarebbe questo Lepre, cazzo!» «Ne parliamo in caserma, va bene? Adesso fai scattare delle foto da Chiaffalà e poi bisogna tirare giù quella poveretta e chiamare il medico condotto per un primo esame... Insomma, abbiamo da fare.» Fanno tutto in silenzio e quando il povero corpo di Gialdiffa è disteso sul pavimento, i due marescialli verificano la ferita alla nuca. Un taglio netto, verticale e lungo parecchi centimetri. Niente botta contro la parete, quindi. «Ma perché simulare il suicidio se poi sono evidenti le prove dell'omicidio?» chiede Amadori. «Io credo che non abbia potuto finire l'opera. Forse l'assassino è stato disturbato dal mio arrivo. È
probabile che intendesse sbattere più volte la nuca della donna contro il muro poi andare a raccogliere le scarpe perdute durante il trascinamento... Insomma, se avesse avuto il tempo, adesso noi penseremmo al suicidio, magari per il dolore o la disperazione di questa poveretta. Diamoci da fare e vediamo se nella fretta ha anche abbandonato il corpo contundente.» Cercano all'interno del camposanto. Nessun corpo contundente. Dice Amadori: «Chiaffalà, tu resti a piantonare il corpo, io e Santovito andiamo a avvisare chi di competenza e torniamo...». «Io resto» dice Santovito. «Guardo ancora in giro.» Amadori saluta portandosi due dita alla visiera e se ne va. Santovito esce dalla cappella e si accende un altro sigaro. «Chiaffalà» dice, «quel delinquente non può andare in giro con l'arma del delitto fra le mani. Diamoci da fare, Chiaffalà, e cerchiamo meglio, anche fuori dal cimitero.» La trovano, l'arma del delitto, appena fuori dal cancello, nel mucchio di rusco, fiori avvizziti, corone sfatte con scritte ormai illeggibili, resti di rossi ceri consumati... Poveri resti della pietà umana per i defunti. Semicoperta da un cuscino di fiori marciti, spunta una croce di ferro arrugginita, di quelle che ha visto prima, senza indicazione di nome e data. Rimette i guanti che aveva tolto per fumare e raccoglie la croce. Sangue ancora fresco, con tracce di capelli grigi, macchia la ruggine di un braccio della croce. Santovito mormora: «Ecco, l'ultima croce per la povera Gialdiffa».
1960, dicembre, in caserma Notizie Di Tango Nell'ufficio c'è fumo. In tutti i sensi. Fumo di sigarette e di sigaro e fumo di tensione e di rabbia impotente. Il maresciallo Santovito ha appena terminato una carrellata, finalmente completa, degli avvenimenti e Amadori viene a sapere, per la prima volta, certi particolari che il collega più anziano non gli aveva ancora rivelato. Non è il momento di rinfacciargli le reticenze perché Santovito è arrabbiato come Amadori non lo aveva mai visto. L'assassinio di Gialdiffa, che altro non può essere, ha scombinato tutte le ipotesi che aveva costruito e nelle quali non c'era spazio per un altro omicidio. Amadori lo lascia sfogare e, chissà, verrà il momento per chiarire tutto. «Quel delinquente si sbaglia!» grida Santovito. «Se con l'omicidio di quella povera donna crede di aver concluso il massacro cominciato alle Piane nel '44, si sbaglia, si sbaglia e di grosso, perdio! Lo troverò e gli farò vedere io...» «Lo arresteremo e basta» dice sottovoce Amadori. «Adesso calmati, Santovito, e vediamo di ragionare.» Apre la finestra e il freddo della sera, già avanti, spazza via il fumo, quello vero. La tensione e la rabbia restano. «Io credo che abbiamo gli elementi necessari per arrivare...» «No!» lo interrompe Santovito. «Ci manca qualcosa, qualcosa che ci può dare solo Tango. È arrivato il momento di andarlo a stanare, cazzo!» Senza preoccuparsi di quanto sta sulla scrivania di Amadori, si fa spazio sul piano e distende la cartina che si è fatto mandare dal tenente colonnello Friggerio. La zona romagnola, ai confini con la Toscana, è piuttosto dettagliata e precisa e Santovito la scorre con l'indice. «Ecco qua: il monastero di Noviano dovrebbe trovarsi... dovrebbe trovarsi... da queste parti. Si, eccolo. La strada più breve per arrivarci da dove siamo adesso è...» Bussano. «Che c'è ancora?» ringhia verso la porta, come se fosse nel suo ufficio. «Avanti» dice Amadori. Timidamente si presenta Chiaffalà: «Mi scusi, signor maresciallo» dice. Non si capisce a chi dei due si rivolga. « È appena arrivato un motociclista dal comando» e ancora non sa a chi porgere la cartella. Il più vicino è Amadori. Che la prende, scorre il contenuto e commenta: «Lupus in fabula.» Porge il materiale al collega. La cartella viene dal Comando Gruppo Carabinieri di Bologna e più precisamente dal comandante del Comando Operativo, tenente colonnello Friggerio. Stazione dei carabinieri di Noviano. Noviano, lì 30 novembre 1960 Oggetto: ricerche e informazioni relative al segnalato Cattani Vasco, detto Tango. Come da ordini ricevuti dal Comando in indirizzo, il sottoscritto maresciallo Federzoni Vitruvio, comandante della stazione dei carabinieri di Noviano, ha espletato le opportune ricerche allo scopo di rintracciare il nominato Cattani Vasco, detto Tango e ottenere informazioni sullo stesso. Dai primi accertamenti, poi confermati dalle dichiarazioni del padre superiore del monastero di Noviano, il Cattani Vasco non risulta residente nel comune di Noviano, è senza fissa dimora ma da molti anni è ospitato presso il locale monastero. Come da dichiarazione del padre superiore dello stesso monastero, che si allega in copia...
Santovito sospende la lettura e guarda il collega: «Chi si allega in copia? Il superiore o la dichiarazione?». Scuote il capo e commenta ancora: « È un classico carabiniere». Dall'espressione di Amadori capisce che non ha gradito la battuta. «Naturalmente non sono tutti così» e riprende la lettura. Come da dichiarazione del padre superiore dello stesso monastero, che si allega in copia,
trattasi di persona che molti anni fa ha chiesto e ottenuto l'ammissione in qualità di frate laico. Di solito il Cattani Vasco si contiene in modo civile e segue le regole dettate dall'Ordine partecipando alle funzioni, alle preghiere collettive e ai lavori tutti richiesti dal monastero quali cura dell'orto, pulizia delle celle e della chiesa, addobbi in occasioni di festività religiose e altre cose analoghe. Il sottoscritto comandante la stazione non ha potuto incontrare e interrogare il segnalato in quanto, sempre secondo la dichiarazione del padre superiore, il nominato Cattani Vasco non sarebbe più reperibile da almeno tre giorni, avendo egli abbandonato la propria cella e il monastero e, allo stato, non vi ha più fatto ritorno. A completamento delle informazioni si segnala che già in passato la stazione scrivente aveva avuto occasione di interessarsi al suddetto segnalato in quanto alcuni abitanti del luogo si erano lamentati per le sue intemperanze, per altro solo verbali. Avevo quindi personalmente contattato il Cattani redarguendolo e intimandogli di non importunare gli abitanti. Cosa che, per un certo tempo, si era verificata. In seguito erano pervenute altre segnalazioni a seguito delle quali i frati del monastero avevano fornito assicurazione impegnandosi a controllare il Cattani per far sì che non si ripetessero gli inconvenienti segnalati. Trattasi, come aveva riferito il superiore del monastero e come ho avuto modo di verificare personalmente, di individuo assolutamente innocuo che di tanto in tanto, a causa di disturbi seguiti a traumi psicologici ricevuti durante la guerra, dava in escandescenze che si limitavano a invettive e ingiurie verbali rivolte a persone sconosciute ai frati. In tali invettive ricorrevano spesso nomi o soprannomi di persone che i frati non sono stati in grado di meglio riferire. Tutto ciò segnalato, si resta in attesa di ulteriori eventuali disposizioni. F.to Maresciallo Federzoni Vitruvio
Santovito bestemmia sottovoce e poi: «Ecco, è quello che ci voleva» borbotta. «Adesso siamo sistemati. Ci manca solo di trovarlo morto e chiudiamo il caso.» Amadori gli passa una lettera: «Non è finita, Santovito. Leggi cosa scrive il tenente colonnello Friggerio». Per il maresciallo maggiore Santovito Benedetto e p. c. Al comandante della stazione dei carabinieri maresciallo Amadori Ares Bologna, lì 2 dicembre 1960 Segnalo ai graduati in indirizzo che, dopo indagini e informazioni assunte, si è potuto arrivare all'identificazione della persona che durante la guerra di Liberazione era nota con il nome di battaglia di Bill. Trattasi di Borghetti Strozzi Guglielmo di anni trentacinque qui residente e qui esercitante la funzione di avvocato. Nell'ambiente forense e cittadino in genere è considerato persona nota e influente per cui si ritiene che contro di lui si debba procedere, se eventualmente si dovrà, con le precauzioni del caso e solo dopo aver accertato i fatti. Non è stato possibile contattarlo di persona in quanto, stando alle dichiarazioni del personale del suo ufficio, il nominato avvocato Borghetti Strozzi si è assentato dall'ufficio stesso senza dare alcun preavviso. Lo stesso dicasi per i familiari i quali, a richiesta, hanno dichiarato di non ritenere di denunciarne la scomparsa almeno per il momento. L'assenza dell'avvocato sia dall'ufficio che dalla propria famiglia risalirebbe, secondo il personale dell'ufficio e stando a quanto dichiarato dai familiari, al giorno 27 novembre c.a. Lo scrivente resta in attesa di informazioni relative alla pratica di cui i due graduati si stanno attualmente occupando. F.to il comandante del Gruppo Operativo tenente colonnello Friggerio
I due marescialli si guardano. Nessun commento per un po'. Poi Santovito dice: «Mi andrebbe un caffè». «Chiaffalà!» «Lascia stare l'appuntato. Andiamo a prenderlo da Ciccio. Facciamo due passi e chissà che l'aria
fresca non ci schiarisca le idee.» L'aria gelida che spazza il paese non schiarisce le idee a nessuno dei due che, i gomiti appoggiati al bancone del Ristobar di Ciccio, aspettano le tazzine. «Il mio correggilo con la grappa» ordina Santovito «che ne ho bisogno. Anche per te?» «No, il caffè mi piace che sappia di caffè.» «Anche a me, ma oggi è una giornata storta e...» Bevono e poi ancora Santovito: «L'avvocato è sparito il 27 novembre e, stando alla data del rapporto da Noviano che è del 30 novembre, Tango è sparito tre giorni prima e quindi anche lui il 27. Ho idea che ne vedremo ancora delle belle, Amadori». Al rientro in caserma li aspetta quella che sperano sia l'ultima sgradita sorpresa di una giornata storta, come l'ha definita Santovito. L'appuntato Chiaffalà li vede arrivare, apre loro la porta e prima ancora che entrino in caserma, porge un foglio strappato da un quaderno a righe e piegato in due. Dice: «Qualcuno l'ha infilato sotto la porta poco dopo che siete usciti». Tre righe scritte a biro, in stampatello, senza punteggiatura e senza firma. C'è scritto: "Salerno questa notte i compari si riuniscono nel bar di Remo se vuoi saperne di più vai a trovarli". «E chi sarebbe questo Salerno?» chiede Amadori. «Uno che conoscevo tanti anni fa.» L'altro rilegge la lettera anonima. «Non mi risulta che in paese ci sia un bar di Remo...» «In paese no, ma vedrai che lo troviamo» e compone un numero al telefono. «Sei il carabiniere Zanetti? Passami il maresciallo Furci. Sono il maresciallo Santovito.» Prima che il collega del paese dell'altra vallata arrivi al telefono, Amadori gli dice: «Perché cazzo coinvolgi quel coglione. Questa è una nostra inchiesta e non...». «Interveniamo in territorio non di nostra competenza. Metti che si faccia irruzione in questo bar di Remo... Con Furci che ci supporta, possiamo farlo, è competenza sua.» «Dovremo spiegargli...» «Niente, non gli spiegheremo niente. Furci è un tipo che meno problemi ha, meglio sta. Lascia fare a me.»
1960, dicembre, nel bar di Remo Una Riunione Clandestina Il maresciallo Furci li aspetta appoggiato al portone della caserma. È solo e abbigliato come se dovesse fare una visita di cortesia e non sia in corso una possibile irruzione. Niente armi, quindi. Non ritiene che i suoi tutelati possano opporre resistenza. O li conosce bene o non li conosce affatto. Fasciato nel pastrano e con una sciarpa attorno al collo, appena la camionetta spunta dalla curva della statale, lascia l'appoggio e si porta davanti al cancello. Santovito e Amadori scendono e Furci si esibisce in un saluto d'ordinanza che non eseguiva da anni. Non ha capito molto della telefonata del collega Santovito, ma ritiene che l'occasione speciale richieda un saluto come si deve. È la sola cosa che concede alla straordinarietà dell'azione. Attacca subito: «Ho mandato Zanetti a controllare la situazione» e indica in alto, verso la piazza. «Sono tutti là dentro, la saracinesca è abbassata e non starei a formalizzarmi per il mandato. Qui non sanno nemmeno cosa sia...» «Be', se mi permetti, Furci, non è questione di sapere cosa sia o non sia. È questione, come ho ricordato a Santovito, ma non mi sta a sentire, di regolarità e di rispetto per la legge...» «Non farla tanto lunga» lo interrompe Santovito. «Non mi piace citarlo, ma ti ricordo che il famigerato codice Rocco, di triste memoria fascista, non è mai stato abrogato e quindi è tutt'ora vigente. Il che significa che le forze dell'ordine sono autorizzate a fare irruzione in qualsiasi luogo quando si abbiano fondati motivi che in detto luogo si stia commettendo o stia per commettersi un reato. In flagranza, si chiama, come sai. Inoltre, sempre il codice Rocco, autorizza l'irruzione quando ci sia il sospetto che più persone si siano radunate in un unico luogo per motivi illegali. Si chiama radunata sediziosa. Lascia perdere i tuoi scrupoli. Oppure aspettaci qui che poi ti ragguagliamo.» «Sono del parere di Santovito» assicura Furci avviandosi. E siccome l'azione si svolgerà nel paese sotto la sua giurisdizione, anche Amadori si adegua e li segue mentre salgono verso il bar. Il carabiniere Zanetti, appostato a poca distanza dal bar, va loro incontro e dice al suo capo, sottovoce: «Sono tutti dentro. Li ho contati e sono entrati in sette. Dovrebbero essere otto con il Barsetti, il titolare, e poi hanno tirato giù la saracinesca. Maresciallo, è entrata anche una donna». «La conosci?» chiede subito Santovito. «Nossignore, signor maresciallo maggiore. L'indiziata non risulta essere del luogo» e poi si rivolge al suo diretto superiore. «Devo farmi aprire, signor maresciallo?» «Sì, Zanetti, chiedi anche permesso così l'effetto sorpresa se ne va al cesso!» Il carabiniere Zanetti è disorientato. «Allora... Non abbiamo possibilità di scardinare...» «Non scardiniamo niente, Zanetti. Sbaglio o c'è un'entrata sul retro?» «Signorsì, c'è.» «Allora facciamo così: tu, Furci, e il tuo carabiniere restate davanti all'ingresso principale e io e Amadori entriamo dal retro. Non credo che abbiano intenzione di scappare, non ce n'è motivo, ma non si sa mai. In questa storia c'è un personaggio sfuggente che non mi è ben chiaro.» La porta sul retro non è chiusa a chiave e immette in un corridoio ingombro di casse, scatoloni, bottiglie di vino e bibite, vuote e piene, e finisce contro un'altra porta. Anche questa non chiusa a chiave. «Si sentono tranquilli» mormora Santovito. E entra. «Buonasera a tutta la compagnia» dice a voce alta. I presenti, sorpresi, si girano a guardare i due marescialli. Sono seduti attorno a tavolini messi a formare una lunga tavola e il locale è avvolto nel fumo di sigari e sigarette e sui piani ci sono posacenere per tutti, bicchieri e un fiasco di vino.
Lepre si alza di scatto ma il gesto di Santovito lo ferma. «Che c'è, Lepre» dice Santovito. «Non ti piacciono le visite di cortesia? Sono qui per salutare quelli della Garibaldi.» A capotavola siede uno, più giovane degli altri, distinto, elegante, che dice, tranquillo: «A nessuno di noi piacciono certe improvvisate, maresciallo. Ora vorremmo sapere se ha l'autorizzazione per irrompere e soprattutto il motivo». Santovito si gira a guardarlo. «Ma certo, ecco Bill, al secolo il giovane avvocato Guglielmo Borghetti Strozzi. Be', intanto irrompere è una parola grossa. Lei è avvocato e quindi dovrebbe sapere che in certi casi non c'è bisogno di autorizzazione. Per cosa, poi? Per entrare in un bar, anche se è chiuso?» Va alla saracinesca e grida: «Furci, raggiungici dentro!». Poi si avvicina alla tavolata. «Parliamo d'altro. Abbiamo già avuto il piacere di incontrarci, in tempo di guerra? Si, mi sembra di sì. Io ero con il povero Musone, su, al caniccio d'Edgarda.» Guarda in giro. «Poi conosco Lepre, Remo, Autiere...» Punta uno che se ne sta a capo chino e tira in una sigaretta fatta a mano, disinteressato agli eventi. «Ma tu... tu, per esempio, non mi sembra...» «Io sono Ennio, Legno nella Resistenza.» Sorride. «Sa, mi chiamo Ennio, da qui l'Ennio, L'Egno, Legno. Facile, no? Anche perché faccio il falegname.» Entra Furci, dà un'occhiata attorno e dice: «Tutto in ordine, bene». Entra anche il carabiniere Zanetti che subito ha un attacco di tosse per il fumo. Santovito gli ordina: «Zanetti, vedi che non abbiano armi.» Il carabiniere comincia con il più vicino. Poi viene la donna e non sa dove mettere le mani. «Lascia perdere la signora» dice Santovito. «E speriamo che lo sia.» Uno, grande e grosso che ha appena finito di bere e si è asciugato le labbra con la manica, posa con forza il bicchiere, guarda dritto in faccia Santovito e fa, con ira: «Si può sapere cosa vuoi da noi, maresciallo? Altro che Legno o Ennio e Bill e Lepre e un cazzo che t'ammazza!». «Ma che maresciallo e maresciallo. Oggi qui per voi sono Salerno della Matteotti, tanto per chiarire. E tu chi sei?» «Lo sai, ci siamo incontrati. Ballerina, te lo ricordi? Ti ho anche tirato fuori dai guai, assieme al tuo Musone. E ti ricordi cosa t'ho detto quel giorno?» «Ne hai dette tante...» «Ti rinfresco io la memoria. T'ho detto "Maresciallo, noi non ci fidiamo di nessuno. Dei carabinieri meno di tutti", t'ho detto, e mi sa che ci avevo ragione.» «Ballerina, già. Suppongo per quel tipo di bomba a mano, non certo per la tua abilità nella danza, a vederti. Non offenderti, ma allora eri più magro» e per non continuare un dialogo inutile, si gira alla donna. «Poi abbiamo una signora. Dall'età direi che allora era una staffetta...» La donna non apre bocca. Lo fa Bill: «Basta con le chiacchiere, maresciallo. O Salerno, come preferisce. Noi ci siamo riuniti qui perché le sue indagini stanno sollevando un polverone che non ci piace. E non ci sembra il caso, o il momento giusto. C'è gente in giro interessata per vari motivi, soprattutto politici, a denigrare quello che abbiamo fatto. La Resistenza, se non mi sono spiegato bene». «Si è spiegato, si è spiegato, avvocato.» «E allora continuo a spiegarmi: se l'Italia ha avuto libertà e una Costituzione democratica, lo deve anche a noi e ai nostri morti. Loro, i fascisti, erano nel torto e noi nella ragione. Anche se oggi come oggi certe speranze d'allora sono rimaste...» Con la destra fa un gesto nell'aria a significare qualcosa volato via. «Vogliamo parlare del governo Tambroni, governo con i fascisti che ci eravamo illusi di aver cacciato fuori dall'Italia? Vogliamo parlare dei morti di Reggio Emilia? Mi dica una cosa, maresciallo: qualche suo collega sta indagando per trovare chi ha ammazzato quei disgraziati e i mandanti? Tutti operai e alcuni di loro forse avevano fatto la Resistenza!» Santovito ha chinato il capo e cerca una risposta. Dice: «Io sono stato incaricato di indagare sulla strage delle Piane». «Una risposta che non risponde. Voglio farle una domanda: lei da che parte sta? Sì, era nella
Matteotti, ma oggi? A cosa serve, o a chi, tutta la, diciamo, agitazione che sta provocando?» «Prima di tutto alla verità. Poi, non dubiti, avvocato, io sono sempre quello d'allora, anzi, ci ho messo sopra un poco più di maturità e di coscienza politica. Ma una serie di circostanze, o di informazioni, se preferisce, mi stanno a dimostrare che il partigiano Bob era innocente» e, al brusio che si è sollevato attorno, guarda tutti. «Sissignori, il massacro alle Piane non l'ha fatto lui e qui c'è qualcuno che lo sa ma se l'è tenuto per sé.» Torna a Bill, il più agguerrito. «Questo non c'entra con la Resistenza, avvocato. Anzi, scoprire la verità vorrebbe dire rendere onore, visto che nessuno può restituirgli la vita, al povero Bob. E vuol anche dire che noi, che nella Resistenza eravamo, non abbiamo paura della verità e aggiungerebbe più valore alla nostra lotta d'allora.» Fa una pausa e poi conclude la sua tirata: «Può sembrare retorica, ma è solo la verità e, se non sbaglio, qualcuno ha detto che la verità è rivoluzionaria». Nel silenzio di tutti, Santovito versa vino nel primo bicchiere a portata di mano e manda giù un sorso. Il falegname, quello che da Ennio è diventato Legno nella Resistenza, dice sottovoce ai compagni di bevuta e riunione: «Io ve l'avevo detto. Vi avevo detto: "Ragazzi, non serve a niente che c'incontriamo, che discutiamo". Avevo ragione sì o no?». Indica i quattro carabinieri. «Io lo so come ragionano quelli. Se hanno deciso di metterci nella merda, ci mettono nella merda. Inutile che stiamo a perdere tempo. Io me ne vado» e si alza per lasciare la compagnia. «È un po' presto, Legno, per lasciarci. O un po' tardi, dipende. Abbiamo ancora tante cose da dirci e...» Seduto attorno al tavolo c'è uno, che, fin qui, ha guardato in silenzio il maresciallo e tirando in un sigaro, ormai arrivato alla fine. Scrolla la cenere a terra e dice: «Be', ci vorrebbe un buon motivo per tenerci qui contro la nostra volontà». Santovito lo guarda: «Tu! Chi sei e che parte hai avuto allora?». L'uomo ghigna, dà l'ultima tirata, schiaccia il mozzicone nel posacenere, tossisce a spaccapolmoni, ghigna ancora e dice: «Se tu non fossi della Benemerita, ti avrei applaudito, giuro. Soprattutto quando hai parlato di verità rivoluzionaria. Perché io la verità, in quel massacro, l'ho cercata. Mi chiamo... Mi chiamavano il Calabrese e sono stato l'accusa nel processo al povero Bob...». «Indubitabile, il Calabrese, sì» lo interrompe Santovito. «Parli come se avessi le adenoidi gonfie, l'accento ti qualifica, ma...» e si rivolge a Lepre «costui non doveva essere morto? Lepre, Lepre, da te non me l'aspettavo...» «Rispondo io, Salerno» interrompe il Calabrese. «Se ti può consolare, maresciallo, ci sono andato vicino, ma sono ancora qui. Sai, l'erba cattiva...» «E così tu eri l'accusa. Hanno scelto la persona adatta, direi.» Il Calabrese fa per obiettare, ma un attacco di tosse pare lo stia strozzando. Si calma e dice: «Sì, l'accusa, perché, caro Salerno, con la situazione che c'era allora, noi le cose non le facevamo tanto per farle. Per dire, durante l'inchiesta, io, il Calabrese, ho mandato uno dei nostri giù, al paese, a cercare la ragazza... Come si chiamava?». Non lo chiede agli altri, lo chiede a se stesso. E intanto si accende un altro sigaro. Offre la scatola a Santovito. «Mi pare di ricordare che anche tu fumi il sigaro, no?» Santovito ne prende uno, lo rigira fra le mani, lo annusa: «Sì, e fumo proprio questi». «Sono contento» dice il Calabrese. Accende per sé e passa la scatola di svedesi al maresciallo. «Grazie» dice Salerno. Ai suoi che sono ancora in piedi, attorno. «Mettetevi comodi, ragazzi, che qui andremo per le lunghe. Amadori, fumati una delle tue sigarette che così addolciamo l'aria del bar.» Al titolare del locale: «Offri qualcosa ai miei colleghi, Remo». «Sì, scusate. Cosa vi servo? Caffè, birra...» dice Remo avviandosi al banco. Intanto il Calabrese riprende: «Dov'ero rimasto? Alla ragazza. Si chiamava Imelde e il povero Bob giurava e spergiurava di aver passato tutto il tempo assieme a lei, non ricordo dove, ma piuttosto
lontano dalle Piane. Bene, l'ho mandata a cercare e suo zio prete mi ha mandato a dire che aveva spedito Imelde a Bologna, dai suoi, proprio il giorno prima della strage...». «Risulta così anche a me...» conferma Salerno. «Allora, tutto in regola, no? Addio all'alibi di Bob. Ma c'è dell'altro. Quando abbiamo ripescato quei disgraziati dalla cisterna, nelle tasche del vecchio abbiamo trovato un biglietto praticamente illeggibile, ma si riusciva a capire un nome, Roberto Cortesi, che per noi era poi Bob. Anzi» ma sospende per non lasciar spegnere il sigaro. Ne approfitta anche per un sorso di vino. Ridà brace al sigaro e continua: «Anzi, posso ripeterti quello che siamo riusciti a leggerci. C'era scritto...». Fa una pausa per raccogliere il ricordo e poi, a memoria: «Cominciava con un "Caro" e il nome era illeggibile. Dunque: "Caro... è il momento di metterci d'accordo perché...". Due o tre righe incomprensibili e poi: "ci possiamo incontrare alle Piane...". Altre due righe illeggibili e le ultime parole comprensibili erano "per Cortesi Roberto". Ooo, Salerno, io venivo da fuori, ma quelli di qui» e indica gli altri, attorno al tavolo «sapevano che Bob si chiamava Cortesi Roberto, che era figlio del morto, che il vecchio non l'aveva riconosciuto come l'altro figlio. E sapevano pure che aveva lasciato lui e la madre nella merda... Insomma, c'era abbastanza e di più, non ti pare?». «Ci vuole altro per ammazzare un uomo, Calabria!» «Fai presto tu a parlare adesso. C'era la guerra, avevamo un'arma in mano e ammazzavamo, ammazzavamo sì. Ma far fuori un fascista o un tedesco non era come ammazzare dei civili, anche politicamente ambigui come quelli delle Piane. A noi che volevamo ristabilire una giustizia giusta, toccava il compito di farla quella giustizia, anche se era un nostro compagno di lotta. Ooo, Salerno, non eravamo contenti, ma dovevamo! Hai sentito di Lupo? Dico Musolesi, della Stella Rossa di Marzabotto? Fece restare un suo uomo per un giorno intero appeso a un palo perché aveva rubato una bottiglia di liquore da una casa. Una bottiglia di liquore, pensa! E nella bassa bolognese, mi pare dalle parti di Minerbio, il presidente del tribunale partigiano fece fucilare due, diciamo così, partigiani, perché avevano rubato da un negozio due fiaschi d'olio e un po' di salumi. Aspetta...» Posa il sigaro, fruga nelle tasche della giacca, estrae dei fogli piegati in quattro, li apre e «Dunque, sta a sentire» dice. Scorre le righe e legge fra sé: «Regolamento di disciplina.. Subordinazione... Armi... Ecco». Legge a voce alta: «Rapporti con la popolazione civile. È considerato reato ogni atto di violenza, di minaccia a mano armata, di rapina eccetera a danno della popolazione civile eccetera, eccetera... Poi, sono proibiti: Violazione di domicilio e perquisizioni. Qualsiasi requisizione o prelievo individuale di denari e generi vari... Punizioni. Le punizioni sono: a) richiamo; b) biasimo; c), d)... g) pena di morte...». Il Calabrese ripiega con cura i fogli, li rimette in tasca e commenta sottovoce: «Me lo porto sempre dietro questo regolamento, per quelli di memoria corta come te, caro Salerno». Riprende il sigaro, ma non c'è più brace e lo schiaccia nel posacenere. Anche Santovito finisce di fumare. Dice: «La mia memoria è buona, Calabria, e te ne accorgerai. Piuttosto, in questa riunione non vedo un vostro compagno, personaggio importante nella nostra vicenda. Non l'avete invitato?». E Autiere, il sindaco finora silenzioso, che risponde. «Immagino che alluda a Tango, maresciallo, no?» Santovito annuisce. «L'abbiamo mandato a cercare, l'abbiamo chiamato, ma non s'è visto. Mi dicono che sia diventato strano e non ci sarebbe stato di aiuto...» «Un'altra cosa: sulla fossa di Bob, lassù in montagna, alla piana di Santino, avevate piantato un bastone di castagno. Ne ho visto uno uguale sulla sua tomba, giù, al cimitero del paese. Piantato da poco. Che significa?» I presenti si guardano e nessuno parla, poi Lepre prende una sigaretta dal pacchetto che sta sul tavolo, dinanzi a lui, l'accende, dà un tiro e borbotta qualcosa. «Ho sentito bene, Lepre?» chiede Santovito. «Hai detto Tango?»
Lepre non risponde e fuma, di nuovo in silenzio. C'è chi si versa del vino, chi beve e chi fuma. Sono tutti nervosi, Amadori più degli altri. Si trova in una situazione scomoda: sa poco o nulla di quanto accaduto allora, non era sui monti. Può solo fare lo spettatore, e gli piacerebbe tanto essere protagonista, in una tragedia che si è consumata tanti anni fa. Anche Furci è estraneo, ma si adegua e aspetta il seguito. Che viene da Lepre, l'unico, pare, a conoscere certi particolari.
1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda La Fucilazione Di Bob Erano in tre e salivano il sentiero per il caniccio d'Edgarda, uno dietro l'altro, in silenzio. Una leggera e fredda nebbia inumidiva l'erba e gli abiti. Conduceva Tango, seguiva Autiere e chiudeva Remo. Tango era armato solo di pistola, una Luger strappata a un togno, un ufficiale che, sebbene morto, pareva non la volesse lasciare quella pistola, come se potesse ancora servirgli. Non gli era servita nemmeno prima, quand'era ancora vivo. Autiere aveva a tracolla un mitra Breda e Remo uno Sten. Da quando avevano lasciato la Dogana, che era la sede del comando, nella testa di Tango rimbalzava di continuo un pezzo di frase: condannandolo alla pena di morte... condannandolo alla pena di morte... Accompagnava ogni suo passo: con-dan-nan-do-lo... con-dan-nan-do-lo... Riuscì a togliersi il pensiero per sostituirlo con un altro: il pianto di Bob davanti al suo primo ammazzato, un tedesco che stava per tirare a Tango e Bob gli aveva piantato una raffica nella schiena. Poi era rimasto lì, inchiodato davanti al suo primo morto a lacrimare come un bambino e se Tango non lo avesse strappato via a forza, ché un'altra pattuglia tedesca stava arrivando, sarebbe rimasto lì, a piangere, fino a quando uno della pattuglia non lo avesse ucciso. E nessuno dei togni avrebbe pianto la sua morte. «Via, via che ne stanno arrivando troppi!» e se l'era trascinato dietro, di peso. Solo quando furono sicuri di essersi sganciati, Tango aveva mormorato: «Grazie, Bob». «Grazie, Bob» mormorò ancora mentre saliva verso il caniccio d'Edgarda. «Che dici?» chiese, dietro di lui, Autiere. Tango scosse solo il capo. Dal basso del castagneto spuntò Tango assieme al suo gruppo. Il sole era ormai abbastanza alto sull'est, e aveva spazzato via la nebbiolina, regalando una temperatura gradevole. Lepre e Bill si alzarono e andarono loro incontro. Dal caniccio uscì anche Motore, che li aveva sentiti arrivare. Si salutarono a bassa voce. «Com'è?» chiese Tango. «È com'è, porca la guerra» Lepre rispose per tutti. «E lui?» «Un po' si è agitato, ma adesso pare che stia calmo. Dov'è che...?» «In là, alla piana di Santino, penso che sia il posto adatto. Andatelo a prendere.» Lepre e Bill si mossero, andarono alla costruzione poco discosta dal caniccio, aprirono la porta e guardarono dentro. «Bob, vieni fuori!» fece Lepre. Bob uscì, sbattendo gli occhi alla luce. «Cosa c'è?» chiese. «Cosa volete fare ancora? Non ne ho avuto abbastanza solo per aver disobbedito a un ordine?» «Vieni senza fare storie» e Lepre lo afferrò per un braccio e lo spinse fuori, ma Bob si divincolò. «Cosa volete ancora?» urlò. «Volete smetterla con questa storia? Va bene, mi sono allontanato e non dovevo. Gli ordini sono ordini, ma adesso smettetela e lasciatemi andare!» Tango fece un gesto e altri due partigiani afferrarono e trascinarono Bob seguendo poi Tango, che aveva già preso il sentiero per la piana di Santino. Tango si fermò e guardò il gruppo che li seguiva. Puntò l'indice sul giovane Bill e ordinò: «Tu no, tu resti al caniccio, di guardia. Non c'è bisogno di te, lassù. Bastiamo noi e avanza!» e riprese il sentiero. Arrivarono alla piana di Santino. Bob urlava quasi, ma la voce gli si incrinava. «Non sono stato io, come ve lo devo dire? Non potete ammazzarmi per una cosa che non ho fatto! Non potete!» Urlava e si dimenava, ma Remo e Autiere e Lepre lo tenevano fermo, reggendolo per le braccia. Tango indicò un grosso castagno. Disse:
«Appoggiatelo contro quel tronco» e Bob smise di urlare, smise di dimenarsi e sembrò smettere di vivere, le gambe che lo reggevano appena e le braccia tese davanti a lui. Cercò di sorridere e mormorò: «È uno scherzo, ditemelo, no? Una punizione per aver lasciato il posto di guardia. Ecco, è così! Una punizione, vero? Vi ho già spiegato perché me ne sono andato. Imelde... Quando la guerra sarà finita, io e Imelde ci sposiamo. Imelde, sono stato tutta la notte con Imelde! Lei può testimoniare...» Tango gli si avvicinò: «Imelde ha lasciato il paese il giorno prima della strage, Bob...». Bob tornò vivo. Urlò: «Non è vero! Quella notte è stata con me! Andate a chiederglielo!». «Già fatto, Bob. Don Vincenzo ci ha detto che la nipote se n'era andata...» «Don Vincenzo è un bugiardo...» Tango si allontanò di qualche passo. «Il tribunale partigiano ti ha processato per gli omicidi commessi contro i membri della famiglia Bernardi per motivi personali e senza giustificazioni politiche o per motivi di guerra partigiana, ti ha giudicato colpevole e ti ha condannato a morte mediante fucilazione.» L'urlo di Bob si perse nelle gole della montagna. Tese le mani quasi a volerli fermare. «Fuoco.» Due brevi raffiche. Bob sobbalzò, respinto all'indietro fin contro il tronco; con gli occhi sgranati li guardò per l'ultima volta. Mulinò le braccia, poi scivolò a terra segnando con il sangue la corteccia ruvida del castagno. Tango gli si avvicinò, lo guardò, estrasse la pistola e sparò il colpo di grazia. «Svelti, seppellitelo» riuscì a ordinare ai suoi, ma la voce non era quella che i compagni avevano imparato a conoscere nei mesi di montagna. Remo e Lepre cominciarono a scavare la fossa, Tango s'imboscò e Autiere, che in Dio credeva più degli altri, tagliò due polloni da un castagno e cominciò a legarli assieme, a croce, con uno sterpo resistente. Subito fuori dalla vista dei compagni, Tango sedette sull'erba del sottobosco, ancora bagnata dell'umidità della notte e si prese la testa fra le mani: quel povero ragazzo aveva poco più di vent'anni! Si rialzò quando non sentì più il lavoro delle vanghe dei compagni alla fossa di Bob. Con un velo sugli occhi, trasse di tasca il coltello e lo aprì. Scelse un grosso pollone di castagno, lo tagliò, lo sbroccò e scortecciò, lo appuntì dalla parte più sottile e, a capo chino, tornò verso i suoi. Stavano scendendo e li incontrò all'imbocco del sentiero. Disse: «Andate che vi raggiungo». Il segnale sulla tomba di Bob c'era già, la croce che ci aveva messo Autiere. «Bob non era credente» borbottò Tango. E tolse la croce e la sostituì con il bastone che aveva preparato. «Così i suoi potranno venirlo a prendere quando questa maledetta guerra sarà finita.» Spinse con il peso del corpo sul bastone piantato sulla fossa, ne saggiò la consistenza, diede un'ultima occhiata alla tomba e si avviò per scendere. Mormorò: «Poca consolazione per quei poveretti». Tango non lo sapeva, ma Bob aveva solo la madre. A guerra finita, lei sarebbe salita alla piana di Santino, avrebbe fatto recuperare il suo Roberto e lo avrebbe pianto per i sedici anni a venire. Fino alla sua morte.
1960, dicembre, nel bar di Remo Di Qui Non Si Esce Ci sono avvenimenti che feriscono dentro e la ferita resta aperta per tutti gli anni a venire. Ci sono avvenimenti che tolgono la parola. E nel bar di Remo resta un lungo, pesante silenzio che Bill, per primo, tenta di rompere. Si schiarisce la voce e mormora: «Nessuno avrebbe voluto farlo, Salerno. Spero che almeno questo lo crederai.» Salerno annuisce. «E qui nessuno vuole che Bob torni a passare quel tormento. Anche se è morto. Tu puoi avere cento ragioni per essere qui, ma non potrai cambiare le cose. Smettiamola e andiamocene tutti a casa.» «Non è così» dice Santovito. «Mi hanno tirato dentro questa vecchia storia e voglio uscirne con la coscienza pulita. Voi potete fingere di dimenticare, di non sapere, di non ricordare, io no.» «Ma cosa cazzo vuoi sapere che già non sappiamo tutti?» grida il Calabrese. «Guarda, Salerno, che una coscienza ce l'abbiamo anche noi! Cosa cazzo vuoi sapere!» Santovito gli va dinanzi. «Voglio sapere chi c'era al caniccio d'Edgarda, oltre al povero Bob. Voglio sapere che fine ha fatto lo Sten di Bob, visto che il vostro testimone lo ha incontrato e Bob era disarmato...» Il Calabrese fa per interromperlo, ma Santovito alza l'indice e lo blocca. «So bene cosa vuoi dire, Calabria, ma io non credo che Bob, se era sceso con il mitra, lo avrebbe nascosto. Si sarebbe nascosto lui proprio perché non doveva essere visto mentre andava a fare una strage» e alza la voce. «Non ti pare, accusa, non ti pare?» Si calma. «Poi voglio sapere chi fumava il sigaro nella vostra brigata. O tu sei il solo che allora fumava sigari?» Dà un'occhiata a tutti e aspetta qualche risposta. Che non viene e Santovito afferra una sedia per la spalliera e la gira in modo da sedersi con il petto contro la stessa spalliera. Lo facevano, nell'osteria di Serafina, anni e anni fa, gli spettatori delle partite a carte. «Bene, se le cose stanno così, nessuno uscirà da qui fino a quando non avrò le risposte.» « È sequestro di persona, maresciallo» dice sottovoce Bill. «Chiamala come ti pare, avvocato. Si resta qui, si mangia e si beve quello che Remo metterà a disposizione, sotto scorta si va al cesso, che è nel cortiletto qua fuori, e per il resto ci si guarda in faccia. Intanto, perché abbiate qualcosa su cui riflettere, vi comunico che la scientifica ha rilevato le impronte sulla tanica che è servita per l'incendio alla baracca. Impronte che, come giustamente mi ha comunicato il collega, maresciallo Amadori, sono dell'assassino.» Fa ancora una pausa e poi: «Mi basterebbe portarvi tutti al comando, giù a Bologna, prendere le impronte a tutti e finire così la storia. Ma io voglio, capite? io voglio che chi ha fatto la strage delle Piane, chi ha lasciato fucilare Bob, chi ha ucciso sua madre, si senta il verme che è, venga fuori dallo schifoso buco dove sta rintanato da sedici anni e si mostri. Questo io voglio, mi avete capito bene?». Lo hanno capito bene, ma resta il silenzio nel bar di Remo. Lo rompe, il silenzio, la sedia che Remo sposta per alzarsi. «Visto che dobbiamo fare mattina qui» dice Remo, «Vediamo di mangiare qualcosa.» Sta dietro il banco il tempo per affettare una pagnotta di toscano e un salamino. Porta in tavola su alcuni piatti e serve anche il vino. Sottovoce dice: «Servitevi, compagni, offre la ditta». Si serve il Calabrese, per primo. Arrivato chissà da dove, dall'altro mondo, a sentire Lepre, pare non abbia problemi, pare che i morti di questa storia non lo coinvolgano. Mastica una fetta di salame senza pane: «Tanto per sentire com'è» dice. Poi: «Buono». Un'altra fetta e adesso il pane. Mangiano tutti, tranne Santovito. Gli basta un sigaro per studiare, uno dopo l'altro, i provvisori compagni di bar. Adesso e qui, nel bar di Remo, è convinto che fra loro ci sia l'assassino. Mangiano tutti e parlano sottovoce, fra loro, e quando i piatti sono vuoti e sono vuoti i bicchieri, Santovito si avvicina a Lepre e gli mormora all'orecchio: «Tu lo sai, vero, che le impronte sulla tanica sono tue?».
Lepre guarda i presenti. Non hanno sentito. Beve l'ultimo sorso di rosso, si asciuga le labbra con la manica della tuta e poi, anche lui sottovoce: «Ma se hai appena detto che...». «... che basterebbe portarvi tutti a Bologna, ma a me non serve: io so che le impronte sono tue, Lepre.» Lo guarda da troppo vicino e Lepre è a disagio. «Perché tu ce l'avevi una tanica, vero?» Lepre non risponde. «Nella tua officina voglio dire. Ce l'avevi?» S'è fatto silenzio nel bar e tutti guardano i due. Non è più il caso di parlare sottovoce e Lepre alza il tono: «Ce l'ho ancora, Salerno, ce l'ho sì una tanica, ma non mi serve per andare in giro a incendiare baracche. Mi serve per rifornire quei coglioni di montanari come me quando si scordano di fare il pieno di benzina. Li vedo arrivare con la faccia dei pentiti e capisco subito. "Zagatti..." Qui nessuno mi chiama Lepre. "Zagatti, sai che mi sono dimenticato di fare rifornimento, giù, al distributore. Ci avresti micca un po' di benzina?" "Sì che ce l'ho, il mio coglione" e gli consegno la tanica». «Bene, che ne diresti di andarla a prendere?» Lepre si alza e dice: «Ci metto due minuti» e si avvia alla porta. Santovito lo ferma per un braccio: «Non da solo, Lepre. Ti accompagna il maresciallo Amadori.» I due lasciano il fumo del bar e si piantano nell'umidità e nel buio di una notte fredda di montagna. Dentro, un silenzio nel quale il rumore dello svedese acceso dal Calabrese, fa un certo effetto. Come l'attacco convulso di tosse che, alla prima boccata, scuote i polmoni e tutto il corpo del Calabrese. L'attacco raggiunge il massimo, si calma e il Calabrese borbotta a se stesso: «Prima o poi smetterai di abbaiare». Questa volta non ha offerto il sigaro a Santovito. Restano fuori una decina di minuti. Nel bar sono saliti la tensione e il brusio di chi cerca di parlarsi, ma non sa di cosa. Si aspetta un evento che potrebbe modificare la prospettiva della storia. Si aspetta il ritorno di Lepre e Amadori. Con la tanica. Torna improvviso il silenzio quando i due rientrano. Senza tanica. Lepre guarda i compagni, scuote il capo, borbotta qualcosa che nessuno capisce e torna a sedere al suo posto. Il maresciallo Amadori prende sottobraccio Santovito e insieme si avviano all'uscita. «Andiamo fuori che devo parlarti da solo.» «Furci, tienili d'occhio e che nessuno lasci il bar» ordina Santovito. Santovito si stringe addosso il pastrano e, alla luce che filtra dalla vetrata del bar, guarda il collega. «Allora?» chiede. «Niente» dice Amadori, «la tanica non c'è. In officina, Lepre è andato dritto in un angolo e io l'ho seguito. C'è rimasto male, ha bestemmiato, mi ha indicato un punto sul pavimento e ha detto "Cazzo, è sempre stata qui!" Ha ragione: c'è ancora l'impronta nella polvere del pavimento.» Accende una sigaretta e aspetta. Ma Santovito non parla. «Che si fa adesso?» Niente. «Mi sa che ti sei sbilanciato un po' troppo con la storia delle impronte...» Santovito lo interrompe: «Che altre impronte ci possono essere sulla tanica, secondo te? È sua, la usa lui, ci sono le sue impronte. Questo ho detto». «Non capisco dove vuoi andare a parare...» «Voglio vedere fin dove può arrivare un assassino» e anche lui accende un sigaro. Si riempiono i polmoni di fumo e di aria fredda. «Comincio a preoccuparmi, Santovito. C'è un avvocato, là dentro. Ricordi cosa ci ha raccomandato Friggerio? Procedere con le precauzioni del caso e solo dopo aver accertato i fatti. Questo ha scritto Friggerio. Il tuo Bill è uno che va trattato con i guanti.» «Lo sto trattando con i guanti, Amadori...» «Non mi pare proprio» lo interrompe il collega. Tranquillo, Santovito dà un paio di boccate e poi: «Sai che ti dico, Amadori? Che io lascerò il bar solo accompagnato dall'assassino in manette».
«Sei così sicuro che il responsabile sia fra quelli...» «Ne sono sicuro, ma se mi sbaglio e non fosse fra loro, mi devono dare il suo nome. Tu sei padrone di andartene. Te ne torni in caserma e così le responsabilità sono tutte mie. D'accordo?» «Non t'incazzare. Io non dico questo...» «Va bene, io torno dentro» e Santovito schiaccia sotto la suola la metà di sigaro che ancora gli rimane da fumare. Il maresciallo Amadori ci pensa un poco e lo segue. Non si sa mai: il collega potrebbe riuscirci e allora lui ci deve essere. È un rischio da correre. «Qualcuno ricorda il mio arrivo alla Garibaldi?» chiede Santovito appena dentro. Silenzio. «Sì, lo ricordate tutti. Mi piacerebbe sapere, oggi, come è andata che avete scoperto i corpi di quelli delle Piane. Chi vi ha indicato il posto e come...» «È una curiosità che posso soddisfare io, maresciallo» lo interrompe l'avvocato.
1944, ottobre, alle Piane e alla Dogana Gli Ammazzati Erano partiti che l'alba non era ancora spuntata. Il rumore delle raffiche era arrivato fino al campo e le aveva sentite solo Lepre, abituato ai silenzi e ai suoni, anche i più morbidi, della montagna. Le aveva portate su un vento dolce che saliva da valle. Il riverbero dell'incendio, invece, lo avevano visto tutti. Li guidava Tango. C'era Bill, il più giovane; c'erano Lepre perché conosceva i posti e li guidava sicuro, il Calabrese che teneva un mozzicone di sigaro in bocca perché, sosteneva, era l'unico modo per non tossire, Legno e Ballerina, entrambi, come sempre, piuttosto silenziosi. Prima di lasciare il campo Tango si era raccomandato di far sapere a quelli del caniccio d'Edgarda di stare in orecchio e occhi avanti, che se era successo qualcosa di grave, come pareva, forse ci sarebbero stati dei movimenti, giù, in valle, sulla statale. Lepre li aveva guidati verso le Piane restando il più possibile sui sentieri dentro i boschi, ma l'ultimo tratto, subito dopo la curva della cavedagna, era allo scoperto e bisognava decidere. Stavano in cerchio attorno a Tango, ancora nascosti dagli ultimi alberi, e aspettavano. L'odore della casa bruciata era ancora nell'aria e arrivava fin lì. Tango disse: «Tu cosa dici, Lepre?» «Dico che se vogliamo arrivare alle Piane non c'è altra strada che quella lì. Dall'altra parte siamo ancor più scoperti. Qui, con un po' di culo, possiamo arrivare fino alla fontana, nascosti alla meglio dal sambuco, e vedere se c'è ancora qualcuno. Dal silenzio direi che non c'è nessuno, ma non si sa mai...» Tango ci pensò su ancora un po', diede un'altra occhiata in giro e disse: «Andiamo io e te, Lepre». Agli altri: «Voi quattro tenete d'occhio la casa e se vedete muoversi, tirate che ci coprite alla meglio». Controllò il mitra, si chinò pronto a scattare, guardò Lepre e mugolò un «ci sei?» che si sentì appena. Anche Lepre impugnò il mitra. Poi annuì. «Allora, via!» e i due scattarono, uno a destra e l'altro a sinistra della cavedagna. Tenendosi bassi il più possibile, fecero la curva, uscirono nel tratto scoperto e, prima Lepre e poi Tango, si appiattirono sotto il muretto della fontana, protetti anche dal sambuco. Tango ansimava più di Lepre e disse: «Direi che non c'è nessuno. Io faccio l'ultimo tratto di corsa...». «Cosa vuoi correre, che non hai più fiato. Vado io» e senza aspettare l'ordine, scattò avanti e arrivò e si appiattì contro il muro, accanto alla porta spalancata e bruciacchiata. L'odore dei travi andati in fumo era qui molto intenso. Lepre mostrò la testa nel vano della porta e subito la ritrasse. Da dentro non venne segno di vita. Si chinò e si sporse di nuovo, questa volta più a lungo. Tranquillo, si alzò e fece segno che potevano venire avanti. Ci misero un po' per capire com'erano andate le cose. E, con il sole che faceva impallidire le ultime braci fra la cenere, Tango disse: «Può darsi che l'incendio sia scoppiato per disgrazia, se no non si capisce dove siano andati gli abitanti...». «E le raffiche?» lo interruppe Lepre. «Le raffiche. Chissà cos'hai sentito...» e fu proprio allora che Ballerina gridò: «Qui ci sono dei bossoli!». Stava frugando poco distante dalla fontana. Corsero tutti. «Sono di Sten» constatò Tango. «Il che vuoi dire...» «... che probabilmente ha sparato uno dei nostri» completò Lepre. «Non vuol dire. Anche i repubblichini hanno qualche Sten. Preso ai nostri.» «E qui c'è anche del sangue» disse ancora Ballerina. Restarono ancora per cercare di capire. Non ci riuscirono e alla fine, quando presero la strada della
montagna, il sole era già alto e faceva caldo per essere ottobre. Bill restò indietro per bere alla fontana prima di mettersi in viaggio. Mise la bocca sotto la canaletta di ghisa, manovrò il braccio di legno della pompa e il primo fiotto d'acqua gli finì direttamente in gola. Il sapore schifoso lo fece sputare subito, ma una buona parte gli era già finita nello stomaco. Manovrò ancora il braccio della pompa e guardò sgorgare un'acqua dal colore della ruggine e di un odore sgradevole che Bill immaginò di sapere da dove veniva. Annusò meglio e seppe che non si era sbagliato. Gridò, chiamò gli altri che tornarono di corsa, i mitra pronti, e gli furono accanto. «In quest'acqua c'è...» riuscì appena a balbettare Bill e si chinò di lato e vomitò. Il primo corpo quasi ostruiva la botola della cisterna e non lo si poteva riconoscere perché spuntava solo la schiena, ma non c'era dubbio che fosse di donna. L'acqua della cisterna era color ruggine per il sangue. I parenti arrivarono verso sera. La sorella del Patriarca, la Cesira, che si era sposata e non era più tornata alle Piane; un cugino del Patriarca, tale Gionata Bonfigli, che teneva un podere dove più sudava e buttava sangue e meno gli dava frutti. Arrivò con la moglie, Clementina Veronesi, e con il figlio di dodici anni, Filippo. Questi fecero venire anche il parroco del paese di sopra, che all'epoca era don Clemente Viaggi, per dare l'estremo saluto cristiano ai poveri ammazzati. Appena don Clemente vide il ragazzo, se la prese con i genitori. «Son cose queste da mostrare a un piccolo come il vostro Filippo? Non vi vergognate? Tenetelo almeno lontano, che non veda di cosa sono capaci gli uomini di questi tempi.» «Abbiate pazienza, don Clemente» si giustificò la Clementina, «non sapevamo a chi lasciarlo e così...» e ordinò al figlio di andare alla cerca degli animali, conigli, maiale, galline, che erano stati fatti scappare dalle gabbie. Filippo si allontanò quel tanto ché sua madre non Io riprendesse, ma non cercò gli animali. Restò con gli occhi fissi alla botola della cisterna. Li tirò su Legno. Ballerina e il Calabrese, Tango li aveva messi di guardia, uno alla curva della cavedagna e l'altro sotto casa, verso i campi. Bill se ne stava in disparte a smaltire la nausea. Li tirò su Legno, in silenzio, che non aveva mai molto da dire anche in occasioni più allegre di quella. Si fece dare un grappino, arnese di ferro con molti ganci uniti a grappolo che si usava quando un secchio cadeva nel pozzo e bisognava recuperarlo. Si fece dare un grappino e con quello arpionò gli abiti dei disgraziati, li tirò su dalla cisterna uno dopo l'altro e con l'aiuto di Ballerina, un altro di poche parole, e di Gionata, li distese sull'erba: Pietro Bernardi, suo figlio Italo e la moglie Nerina, come li riconobbe la Cesira, la sorella del Patriarca. Tango aspettò che don Clemente borbottasse le sue orazioni per i morti e li benedicesse, poi esaminò i corpi da vicino. I due uomini li aveva uccisi una raffica; niente ferite da arma da fuoco per la donna. Probabilmente l'aveva uccisa un colpo alla testa, ma il viso e il ventre gonfi facevano pensare che l'avessero gettata ancora viva nella cisterna e fosse morta per annegamento. Nelle tasche di Italo trovò alcune cartucce; nelle tasche del Patriarca, un foglio di carta strappato da un quaderno a righe. L'acqua aveva cancellato gran parte della scritta a inchiostro. Passò il foglio a Bill: «Vedi cosa riesci a leggerci. Con calma» gli disse, «quando ti sarai ripreso con lo stomaco.» I familiari, con l'aiuto di altri arrivati dal paese a vedere cosa restava delle Piane e dei suoi abitanti, caricarono i tre corpi su delle scale e li trasportarono nella chiesa di don Clemente dove ebbero tutti i riguardi riservati ai morti e degna sepoltura. Il comando della brigata di Tango si era stabilito alla Dogana, una vecchia casa di contadini che, chissà in quale antico passato, doveva essere servita come sede delle guardie di confine fra il Granducato di Toscana e lo Stato Pontificio. Spariti i due stati, l'aveva abitata una famiglia di contadini fino alla Prima guerra mondiale, quando i quattro uomini, compreso il più piccolo richiamato alle armi a diciassette, diciotto anni per difendere, ancora, i sacri confini della patria, non
erano rimasti sul Piave. O sul Carso. I familiari non l'avevano mai capito bene. E poi, dov'erano questo Piave e questo Carso? Gli avanzi della famiglia, privati in modo vigliacco, come sono vigliacche tutte le guerre, del padre e di quasi tutti i fratelli che potevano mandare avanti la baracca, avevano abbandonato il fondo. La Dogana stava nel punto più alto del valico e la strada, che un tempo la collegava alla valle, era sparita, mangiata dalle sterpaglie e dalle piogge e era rimasto un sentiero per le lepri che solo chi conosceva quella montagna poteva seguire. Il posto era il massimo per nascondere uomini alla macchia: difficile da raggiungere, lasciava molte possibilità di ritirata sia di qua che di là del crinale, verso la Toscana o verso l'Emilia, e chi avesse voluto salire, avrebbe dovuto marciare in fila indiana. E niente blindati per quel sentiero. Era ridotta male, la Dogana, ma il tetto teneva e al piano terra aveva una grande sala dove, forse, le guardie di confine mangiavano, tenevano le armi e sbrigavano le pratiche con i pochi che transitavano per o dal Granducato. In quella sala si tenne il processo. Per fare le cose con la serietà che era possibile in quei momenti, Tango incaricò alcuni dei suoi perché si dessero da fare, ma in fretta, sia per capire come erano andate le cose alle Piane, che per sostenere l'accusa. Aveva previsto anche un difensore e incaricato Bill, in quanto studente in legge, di tenere gli appunti sullo svolgimento del processo e sulla sentenza. Chissà, in seguito, forse, quando le cose fossero cambiate, si sarebbe potuto stilare un vero e proprio verbale.
1944, ottobre, in tribunale Processo Stare alla macchia e istruire un processo non era agevole, per i tempi e per i luoghi, ma la strage aveva lasciato un'impressione troppo violenta sulla gente del luogo e Tango non se la sentiva di rimandare la giustizia a dopo la Liberazione. Voleva arrivare in fretta al responsabile e ci voleva arrivare in modo chiaro e senza che restassero dubbi. In fretta, ma con coscienza. I due partigiani incaricati delle indagini e della formulazione dell'accusa, si diedero da fare e quando i sospetti finirono sul partigiano Bob, Tango ne discusse con i superiori. Si decise: il presidente del tribunale sarebbe arrivato da una brigata Garibaldi che stava in territorio già liberato, nei pressi di Pistoia. Un commissario politico che non conosceva gli uomini di Tango. Attraversò le linee durante la notte, Tango gli andò incontro e lo accompagnò alla Dogana che l'alba non era ancora spuntata. Aveva fatto sgomberare, per quanto possibile, il salone al piano terreno della Dogana. Erano rimaste la radio e le poche armi di scorta non ancora assegnate agli uomini. Il procedimento contro Bob iniziò prima del sorgere del sole. Gli incaricati, tranne forse il commissario politico che non aveva mai avuto rapporti con Bob, avrebbero voluto essere altrove, magari a sparare ai togni rischiando la vita, piuttosto che essere lì a giudicare uno di loro. E fu con un tono di voce piuttosto basso che il partigiano incaricato di istruire il processo spiegò che Bob: aveva abbandonato per due giorni e una notte il posto di guardia che gli era stato assegnato, contravvenendo agli ordini ricevuti e mettendo in grave pericolo le vite di tutta la formazione partigiana; era andato al podere denominato le Piane e aveva ucciso il proprietario, tale Bernardi Pietro conosciuto come il Patriarca; aveva poi ucciso suo figlio Italo e la moglie di Italo, Gravelli Nerina; dopo il delitto aveva gettato i corpi dentro una cisterna che stava vicina alla casa; aveva dato fuoco alla casa per far sparire eventuali tracce del suo delitto; per commettere gli omicidi si era servito dello Sten che la brigata partigiana gli aveva assegnato. Un altro partigiano sostenne la colpevolezza di Bob sulla base di elementi e indizi risultati dalle indagini eseguite alle Piane e dalle testimonianze che, se pure nella fretta e nel disagio del momento, era riuscito a ottenere. Spiegò che: sul luogo del delitto erano stati trovati i bossoli dello Sten, arma in dotazione del partigiano Bob; il mitra di Bob, immediatamente sequestrato per ordine del comandante Tango, era stato trovato mancante di un caricatore e Bob non aveva saputo giustificarne la scomparsa; un contadino del luogo, tale Cioni Bartolomeo, aveva confermato di aver incontrato, il giorno precedente la notte della strage, l'imputato lungo la cavedagna che conduce alle Piane; di essersi fermato per riposare e per fumare in sua compagnia e di aver poi ripreso la sua strada mentre l'imputato proseguiva in direzione delle Piane; che l'imputato non aveva con sé lo Sten, ma si poteva supporre che Bob se ne fosse momentaneamente liberato nascondendolo nei pressi, per non suscitare sospetti nell'uomo incontrato e che lo avesse poi ripreso non appena il testimone si era allontanato. C'era poi la testimonianza dei partigiani che stavano con Bob, di guardia al caniccio d'Edgarda. Infatti: il partigiano addetto alla cucina degli uomini distaccati al caniccio d'Edgarda, di ritorno da un suo viaggio al comando per il rifornimento di alimentari, aveva trovato sul posto di guardia solo il secondo partigiano comandato a fare coppia con l'imputato; il secondo partigiano di guardia aveva dichiarato di essersi assentato, per pochi minuti e per motivi
corporali, dal posto di guardia e, al suo ritorno, non aveva più trovato il compagno. Bob, rientrato al caniccio la sera del giorno successivo, non gli aveva fornito una giustificazione per la sua prolungata assenza; interrogato anche dal partigiano incaricato delle indagini, Bob aveva chiamato in causa non meglio precisati impegni personali. «Mi manca un buon motivo che giustifichi la strage... Insomma, il movente» disse il presidente. Il partigiano che sosteneva l'accusa, non rispose subito. Guardò Bob, seduto a capo chino e occhi chiusi. Prima dell'inizio del processo e appena portato nel salone della Dogana, Bob si era affannato per convincere i compagni dello sbaglio che stavano facendo. Ma quelli che erano stati suoi compagni, non lo guardavano e gli parve che neppure l'ascoltassero. Si sbracciò e gridò. «Adesso taci!» ordinò il presidente. «Siedi e comportati con dignità. Avrai il tempo per raccontarci le tue ragioni.» In silenzio, Bob lo guardò, sedette, chinò il capo, chiuse gli occhi e non parlò più. Forse neppure ascoltò. «Allora?» sollecitò impaziente il commissario politico. Prima di lasciare Pistoia e attraversare le linee, aveva detto chiaro a chi lo stava incaricando, che il compito era una inutile perdita di tempo. «Sono momenti questi di andare per il sottile? Se lo ritengono colpevole, sanno anche cosa fare.» «Sto aspettando il movente» disse impaziente il commissario politico. «C'è o non c'è un movente per questa strage?» «C'è, purtroppo c'è» rispose, sempre a voce bassa, il partigiano accusatore. «Si sa di un forte risentimento di Bob contro il vecchio, quello che chiamano il Patriarca...» «Motivo?» «Pare che Bob sia figlio del Patriarca...» «Pare o è?» L'accusatore alzò la voce: «Non ho avuto modo di andare all'anagrafe del paese d'origine di Bob, commissario. Riporto le voci che circolano». Il commissario indicò Bob. «E lui che dice?» «Prova a chiederglielo tu.» Il commissario presidente guardò Bob. Aprì bocca, ma rinunciò. Ordinò: «Andiamo avanti». «Dicevo che si sa di un forte risentimento di Bob contro il vecchio perché, non essendo stato riconosciuto, né lui né sua madre avevano mai ricevuto aiuti e, alla morte del vecchio, non avrebbero avuto diritto all'eredità...» Di colpo Bob sollevò il capo. Gridò: «Non ho mai chiesto niente al Patriarca!». Lo sguardo cattivo del commissario lo bloccò. Abbassò il tono per dire: «Se mi avesse regalato le Piane, gliele avrei sbattute in faccia! Né io né mia madre vogliamo cose da quel poco di buono!». «Ti faccio notare» disse il presidente «che le tue parole non fanno che peggiorare la tua situazione. Stai dimostrando l'odio che hai contro tuo padre...» «Non è mio padre!» gridò Bob. «Non urlare, partigiano!» gridò anche il presidente. Poi: «Va bene, va bene. Tocca a te parlare». Bob non parlò subito. Cercò di calmarsi e poi: «Sono colpevole di aver abbandonato il posto di guardia» mormorò «e mi assumo la responsabilità della colpa...» e si giustificò con la necessità di andare a incontrare la fidanzata che forse non avrebbe più rivisto per molto tempo a causa delle insistenti voci che davano per imminente un
attacco degli Alleati che li avrebbe divisi per chissà quanto tempo... Lentamente e senza rendersene conto, ricominciò a urlare la sua difesa. Gridò l'innocenza e gridò la disperazione di essere incapace di uccidere. «Quando sono stato costretto a ammazzare uno per difendere i miei compagni, sono stato male e non ho dormito per notti e notti e mi sveglio bagnato di sudore e non riesco a togliermi dagli occhi quello che ho ucciso! Volete dirmi come avrei potuto fare quelle cose alle Piane?» Quanto allo Sten, Bob giurò di averlo lasciato al caniccio d'Edgarda perché, se avesse incontrato pattuglie nemiche, sarebbe stato fucilato sul posto, come prevedevano le leggi fasciste contro i partigiani. Disarmato, avrebbe rischiato l'arresto e la deportazione in un campo di concentramento. Confermò l'incontro con il contadino, che conosceva di vista; di avergli offerto una sigaretta; di aver fumato assieme e di avergli chiesto notizie della madre. Giurò ancora che non era andato alle Piane, ma a una baracca dove aveva dato appuntamento alla fidanzata... «E dov'è finito il caricatore del tuo Sten?» Bob chinò il capo e mormorò solo: «Non lo so, io non lo so». «Hai altro da dire?» «Sì, che sono innocente e che state facendo un errore gravissimo. Se condannate me, chi ha massacrato quei disgraziati alle Piane se la caverà e se ne starà tranquillo ridendo alle mie spalle, ma anche alle vostre.» Il presidente fece segno a Bob che era tutto. «Vorrei capire bene» disse «come mai è così importante la presenza di uomini a quello che chiamate caniccio... caniccio...» «Caniccio d'Edgarda» disse Tango. « È una postazione che domina la vallata e che deve sempre essere presidiata perché è di là che partono i rastrellamenti e ogni movimento dei tedeschi.» «Quindi una posizione strategica di importanza vitale per la sopravvivenza della brigata, e il solo fatto di averla abbandonata merita una punizione esemplare.» La difesa parlò del passato di buon partigiano di Bob e del suo contegno sempre rispettoso del regolamento di disciplina. «Bob non era mai stato insubordinato, fino all'episodio dell'abbandono del posto di guardia. Qualunque ordine gli sia stato dato, lo ha eseguito e ha sempre tenuto ottimi rapporti con la popolazione civile. Ho avuto personalmente modo di apprezzare il suo coraggio in azioni di guerra e più d'una volta è stato citato all'ordine del giorno del distaccamento per il suo comportamento. Una volta è stato addirittura citato all'ordine del giorno della brigata per aver salvato un compagno. Io credo, anzi, sostengo l'innocenza di Bob. Una strage come quella delle Piane è stata commessa da qualcuno con un'esperienza, una determinazione e una cattiveria che non sono di Bob. Purtroppo molti indizi gli sono contro e io non ho niente da contrapporre se non la sua età e i suoi precedenti di combattente. Nella brigata lo conosciamo bene e se chiedessimo ai suoi compagni di giudicarlo per come lo apprezziamo, nessuno lo condannerebbe se non per aver abbandonato il caniccio, cosa questa certa anche per la stessa ammissione di Bob. Se avessimo avuto la fortuna di arrivare alla fine della guerra senza questo feroce delitto, Bob avrebbe avuto i riconoscimenti che si merita. Vorrei che se ne tenesse conto, anzi, vorrei che fossero determinanti in una vicenda che, comunque vada a finire, ci lascerà insoddisfatti e con la coscienza inquieta.»
1960, dicembre, nel bar di Remo Quello Che Mancava Altre sequenze sono tornate alla memoria e hanno riproposto un periodo che sarebbe da dimenticare, se dimenticare non fosse male peggiore. E questa notte le persone riunite nel bar del paese hanno tutte un ricordo che le tormenta. Tranne forse, per la loro età, il maresciallo Amadori e il carabiniere Zanetti. Remo va a mettere legna nella grossa stufa di terracotta e Ballerina borbotta: «Sono stati tempi infami». «Sì, tempi infami» rimanda il Calabrese, «ma se non li avessimo vissuti noi, a quest'ora...» Anche Bill ha la sua da dire, ma vuole che Salerno ci rifletta sopra bene. Per ciò gli va vicino: «Sa, maresciallo, perché ricordo con tanta precisione quei giorni? Perché Tango mi chiese... Meglio, mi ordinò di prendere appunti per stendere poi un verbale del processo. Studiavo legge e poco tempo dopo mi mandarono in missione a Bologna. Ne approfittai per dare un esame...». «Un bel rischio.» «Rischiavo meno degli altri. Intanto perché conoscevo la città e poi perché ero quasi un ragazzo. Dimostravo meno degli anni che avevo. Ma questo non c'entra. Fu proprio l'aver tenuto i verbali del processo a Bob che mi diede l'idea di preparare la mia tesi sui tribunali partigiani, sulle leggi che regolavano la loro vita, sui regolamenti... Lo dissi al professore e volle sapere... Era dei nostri, era fra quelli che spararono ai fascisti che volevano occupare l'università per stanare e arrestare i professori sovversivi. C'erano armi dentro l'università e i professori e gli studenti le hanno usate. Nel salutarmi mi disse: "L'aspetto per la sua tesi. Ci conto. Qui, a guerra finita". È stato uno di quelli che hanno rischiato la vita per nascondere l'uranio dell'istituto di Fisica per non consegnarlo ai tedeschi che l'avrebbero portato in Germania. Insomma, nella mia tesi c'è anche il processo a Bob. E anche qui» e si tocca la fronte. «Ero più giovane di Bob d'un paio d'anni e ci legava l'amicizia dell'età. Lei crede che la sua condanna e la sua fucilazione non mi abbiano fatto male?» Torna al tavolo, si ferma e finisce: «Ah, fra le mie carte c'è ancora il biglietto trovato in tasca al Patriarca, nel caso volesse controllare». I continui attacchi di tosse del Calabrese sono ossessivi e drammatici. Approfitta di una pausa per dire: «Qui si sta piangendo sul passato e non è più il caso, credetemi. Piuttosto è il piatto che piange, Remo. E anche il bicchiere». Remo tira fuori un formaggio da sotto il banco e altro pane e vino. Affetta l'uno e l'altro e porta in tavola. Non tutti mangiano, ma approfittano della pausa per fare gruppo e discutere fra loro sottovoce. La cosa non piace al maresciallo Furci. Si avvicina a Santovito e, con un cenno del capo, lo invita a seguirlo. Va a mettersi vicino alla porta che mette nel cortile e dice, sottovoce e di schiena agli altri: «Non dovresti lasciarli parlare. Quelli si mettono d'accordo...» «Va bene, va bene, Furci, forse ci fa comodo. Lasciamoli fare. Vedremo.» Infatti l'avvocato, Bill, dopo un'ultima occhiata con i compagni, torna da Santovito. «Maresciallo, ci siamo consultati e abbiamo deciso: nessuno di noi risponderà più alle sue domande. Siamo disposti a restare suoi sequestrati fino a quando non ci libererà. E prima o poi dovrà farlo...» «Puoi darmi del tu, Bill. Siamo stati o no compagni di lotta?» «Come vuoi, Salerno. Una volta fuori di qui, ognuno di noi agirà nei tuoi confronti come crederà. Per conto mio, aspettati una denuncia per una bella serie di reati: abuso di potere, sequestro di persona, violazione di domicilio, false accuse, vilipendio e tutto quello che riuscirò a mettere assieme sfogliando il codice penale. Non te la caverai facilmente.» Gli altri li guardano, in silenzio e seduti attorno al tavolo. Tranne il Calabrese che va dinanzi al
maresciallo: «Io non ti accuserò di niente, Salerno. Per quello che m'interessa... Ma tu devi lasciarmi andare a pisciare» e, visto che il maresciallo non parla: «O pisciare lo consideri reato?». Salerno fa cenno al carabiniere Zanetti di accompagnarlo. «Grazie, maresciallo.» Ancora silenzio e il Calabrese, rientrato, si guarda attorno e commenta: «Siamo in una tomba, compagni. Sapete cos'ho pensato mentre pisciavo sotto scorta?». Si rivolge a Santovito. «Sai cos'ho pensato mentre pisciavo? Mi sono detto: cazzo, un polmone me l'ha già mangiato la tisi, l'altro se lo sta mangiando. Camperò ancora due giorni. Cosa ci metto a dire che il massacro alle Piane l'ho fatto io?» «Bella pensata, Calabria. Tu confessi e ce ne andiamo tutti a casa, in pace con Dio e con gli uomini» risponde Santovito. «Ooo, sai che ero deciso? Tanto non sarei arrivato al processo. Ma mentre mi abbottono i calzoni, mi sono detto: no, a quel coglione di maresciallo non gliela voglio dare vinta.» «Calabria, non la daresti vinta a me, faresti un gesto dignitoso, una volta nella vita...» Non finisce la frase. Si trova contro i denti la canna della pistola e davanti agli occhi il ghigno del Calabrese che dice, sottovoce e deciso: «Non discutere sulla mia dignità, Salerno. Ne ho da vendere». I compagni del Calabrese si sono alzati e aspettano, tesi. Il maresciallo Furci fa segno al suo carabiniere di non fare sciocchezze. Amadori mette mano sulla fondina... «Lascia perdere, giovane» ordina il Calabrese, «che così non faccio male al tuo collega.» Il ghigno si rilassa, la pistola si allontana dai denti e il Calabrese torna a sorridere. «Cosa ci mettevo a fare un'altra strage, Salerno? Poi mi tiravo un colpo in bocca e fine.» Porge la pistola al maresciallo. «Un brutto scherzo, vero? E non te la prendere con il carabiniere che mi ha perquisito. L'avevo nascosta nel cesso. Un presentimento, chissà...» Santovito soppesa l'arma, controlla il caricatore, la consegna a Amadori, si alza, va dal sindaco e, come se non fosse accaduto nulla, dice: «Non ho ancora sentito la voce del signor sindaco. Anche lei ha intenzione di denunciarmi, come farà l'avvocato Guglielmo Borghetti Strozzi?». Il sindaco beve un sorso di vino e poi: «Non so cosa farò, dovrò pensarci, signor maresciallo. Ora come ora so che sono un pubblico ufficiale e funzionario del governo sottoposto a sequestro; che a casa ho una famiglia che mi aspetta; che domani mattina l'attività del comune riprenderà e forse io non ci sarò... Davvero non lo so, signor maresciallo. Dipende da cosa farà lei». «Più che dal sottoscritto, signor sindaco, dipende da quello che lei e i suoi compagni mi direte. Lei, per esempio, non ha niente da dirmi?» «Guardi che anch'io ho votato la proposta dell'avvocato Guglielmo Borghetti Strozzi. Credo che dovrà rassegnarsi e lasciarci andare.» «Bene, tutti d'accordo» e Santovito passa in rassegna la compagnia. Ferma lo sguardo sulla donna. «Posso sapere il suo nome, signora, o rientra nelle cose alle quali non intendete rispondere?» La donna guarda Bill che le fa un lieve cenno con il capo. È difficile capire quanti anni abbia. A volte ha espressioni che la invecchiano, a volte sembra più giovane. Di statura sopra la media per le donne di qui; porta i capelli, castani, dietro la nuca, raccolti in crocchia; ha occhi chiari e profondi e zigomi pronunciati. È snella di costituzione, quasi magra e pallida di viso, delicata. Anche la voce è delicata, come se temesse qualcosa. Dice: «Irma è il mio nome, di cognome faccio Tonarelli. Le basta, signor maresciallo?» «No, per la verità vorrei sapere altro di lei. Non credo di averla incontrata quando feci visita alla Garibaldi.» «No. Allora ero staffetta e andavo e venivo da Pistoia, oltre le linee alleate...» «Un bel viaggio. E andava e veniva spesso da Pistoia?» Irma sorride. Anche il sorriso è triste, come il volto. «Non le ho mai contate. Andavo quando c'erano da portare ordini o informazioni. O da prenderne.»
«Grazie, Irma» dice Santovito. Poi guarda l'avvocato. «Pensi che possa dirmi se ha conosciuto Bob?» Questa volta Irma non aspetta l'autorizzazione di Bill e con voce più alta, quasi orgogliosa, dice: «L'ho conosciuto sì, e mi piaceva. Era un bel ragazzo. Quando salivo alla brigata facevo di tutto per incontrarlo. Gli portavo delle sigarette, se ne trovavo al mercato nero». Al ricordo torna a sorridere. «Diceva che non ne poteva più delle Navy Cut e quando al mercato nero trovavo delle Africa...» Si rivolge a tutti: «Sapete, quelle che avevano il pacchetto arancione con la figura di una negretta nuda...». La cosa non interessa nessuno e torna al racconto. «Le Africa, sì. Quando ne trovavo, gliele portavo e mi sorrideva e mi ringraziava, Bob.» Intristisce e mormora: «Della fucilazione... della morte di Bob ho saputo dopo la guerra». Nessuno si occupa della stufa che va spegnendosi. Il vento s'infila nelle troppe fessure di vecchi infissi, ma pare che lo senta solo Santovito: «Non c'è modo di fare un po' di fuoco?» chiede a Remo. «Guarda che dobbiamo restare ancora a lungo.» In silenzio, il barista apre lo sportello della stufa. Ci sono ancora braci e i legnetti che Remo ci mette sopra prendono subito. Mette dentro anche un po' di legna grossa. Il maresciallo Furci si avvicina a Santovito, gli fa segno di seguirlo e in cortile dice: «Davvero vuoi tenerli qui ancora?» e, al cenno di assenso di Santovito, «Non stai esagerando? Da questi montanari non ricaverai niente se continui così. È gente che va trattata in altro modo. Vuoi che ci provi io?» «Furci, e cosa gli chiedi? Dovrei raccontarti tutto dall'inizio e non è il momento. Guarda che ho passato anni fra questi montanari e so come vanno presi.» Gli mette una mano sulla spalla. «Non preoccuparti: non avrai grane» e fa per rientrare. «Aaa, Furci, se non te la senti, puoi tornare in caserma che poi t'informo.» Furci non torna in caserma. I due marescialli rientrano e Santovito dice: «Una cosa, però, me la potete rivelare, vero avvocato?». «Cioè?» Comincia a diffondersi un po' di calore, ma per Santovito è poca cosa. Si porta dietro il bicchiere, trascina la sedia vicino alla stufa e vi si sistema, la schiena a due dita dalla parete calda. Sorseggia, posa il bicchiere sul pavimento e dice: «Cioè: chi è stato il genio che ha avuto l'idea di organizzare questa bella riunione clandestina?». Una violenta pedata spalanca la porta del cortile che, assieme a una ventata di freddo, fa passare un «Sono stato io, Salerno!» e la canna di uno Sten, forse l'ultimo in circolazione dalla guerra di Resistenza. Poi un uomo e il suo mitra. «Salerno, tu e i tuoi uomini mettetevi oltre la tavolata, in modo che io vi possa vedere bene. Vediamo di non farci male, ragazzi!» Santovito esegue per primo e fa segno ai suoi di imitarlo; lascia a malincuore la stufa e, assieme agli altri dell'Arma, va a mettersi oltre la tavolata e quindi alle spalle dei borghesi. In questo modo tutti sono sotto la minaccia del mitra. «Ti ricordi di me, Salerno? Ti ricordi ancora?»
1960, dicembre, nel bar di Remo 1944, ottobre, alla Dogana e al caniccio d'Edgarda La Staffetta Si ricorda. Non per i tratti del viso che vagamente riesce a trovare frugando fra la barba incolta e i capelli lunghi sulle spalle e davanti agli occhi. Si ricorda per la voce ferma, decisa come un tempo, quando gli ordini che dava non si dovevano discutere. Si ricorda per un altro "Vediamo di non farci male, ragazzi!" gridato dal bosco su, alla piana del Falchetto, dopo un lancio alleato. Si ricorda per un sigaro offerto, desiderato da tanto e per questo più che gradito. «L'idea della riunione l'ho avuta io, Salerno. Quando il sindaco mi ha fatto cercare e mi ha mandato a dire che tu avevi ricominciato di nuovo a rompere i coglioni con la storia di Bob, ho capito che stava per arrivare la resa dei conti. Potevo mancare io? Eccomi qua. E con lo Sten di Bob che non vede l'ora di ricominciare.» «È stata una buona idea, Tango, così ci guardiamo tutti in faccia e ci diciamo quello che dobbiamo dirci» interviene Santovito-Salerno. «Meno buona l'idea di presentarti armato.» «Tu non cambi mai, maresciallo. Lascia decidere a me cos'è buono e cosa no. Intanto saluto tutti i compagni di un tempo» e fra i peli della barba esce una sorta di ghigno. Interviene il sindaco: «Cosa ti salta in mente, Tango? Cos'è questa mascherata? Guarda che la Resistenza è finita da sedici anni». «Eh no, non è ancora finita.» Guarda fisso il sindaco. «Sai che ti vedo bene, Autiere, in gran forma? Giacca, camicia, cravatta... Vedo bene anche gli altri. Il messo peggio, compagni, come vedete, sono io, il comandante Tango. Barba, capelli lunghi e spettinati, stracciato e puzzolente. Sarà per le colpe che mi porto addosso. Che ne dite?» Un altro calcio chiude la porta. «Fa freddo, qua dentro, Remo. Facciamo fuoco?» e agita la canna dell'arma, sempre puntata sul gruppo. «Un'altra strage, Tango?» chiede Salerno. «Cos'hai capito, maresciallo? Dicevo la stufa. Remo fai fuoco, scaldaci un po'.» La canna segue Remo mentre riempie la stufa e fino al suo ritorno al tavolo, poi: «Sapete perché mi sono ridotto così?». La risposta non viene. «Capito, non vi interessa...» Salerno lo interrompe: «A me interessano i nomi dei due che stavano al caniccio d'Edgarda assieme al povero Bob...». Adesso è Tango che interrompe. «Ma come, Salerno? Non ci sei ancora arrivato?» «Ci sono arrivato, Tango, ci sono arrivato eccome! Ma io voglio prove e testimonianze sicure da portare in tribunale...» «In tribunale? Ancora qui stiamo? Speri ancora, alla tua età e con la tua esperienza, in una giustizia che giustizia non l'ha mai fatta? Ha fatto giustizia il nostro tribunale partigiano?» Alza la voce. Quasi un grido. «Sai cosa ti consiglio? Prendi fuori la pistola, se ci riesci, e risolviamo tutto qui e adesso. Avanti, Salerno, la pistola, la pistola e un po' di coraggio!» Tranquillo, Santovito scuote il capo: «Io non ce l'ho il coraggio che hai avuto tu, Tango, quando hai sparato il colpo di grazia a un innocente...». «Smettila, smettila!» e la canna del mitra, che ora non è più sicura come poco fa, prende minacciosa la direzione del maresciallo Santovito. Poi Tango cambia idea e abbassa leggermente arma e tono. «Credi che mi sia divertito? Te lo hanno detto, no, che me ne sono andato, che non ho nemmeno partecipato alla sfilata del 25 aprile, alla nostra festa, alla Liberazione! Per l'ultimo che avevo ucciso nella mia Resistenza!»
«Tango!» dice a voce alta il Calabrese «se sei qui per un'altra strage, fammi fumare l'ultimo sigaro! Me lo sono meritato, no?» «Te lo sei meritato, Calabrese. Fuma e consumati pure l'ultimo pezzo di polmone. Fumate tutti, se ne avete voglia, che non sono qui per farvi soffrire.» A volte una sigaretta stempera un po' la tensione. Lepre accende la sua, e le mani gli tremano; Bill lo fa con più sicurezza; Ballerina e Legno hanno finito il pacchetto e accettano quello di Lepre; la staffetta dice no con il capo; Furci pensa al casino nel quale è andato a piantarsi; Amadori apre il prezioso portasigarette e profuma l'aria con il dolciastro delle sue bionde; il carabiniere Zanetti ha troppi pensieri per occuparsi di fumo; il Calabrese dà fuoco al sigaro e offre l'ultimo a Santovito. «È proprio l'ultimo, Calabria...» gli dice il maresciallo prima di accettarlo. «Fa nulla, Salerno, prendilo, che forse non avrò la possibilità di fumarne un altro.» Adesso nel salone del bar di Remo si mescolano il calore della stufa, il fumo delle sigarette e dei sigari e l'odore acido dell'adrenalina che circola in quantità nei corpi sotto pressione e che trova sfogo nel sudore. Tango non fuma e, di lontano, Lepre gli porge il pacchetto. «Ce ne sono ancora due» dice, «se vuoi...» «Ho smesso, Lepre, ho smesso.» È dimagrito, Tango. Dimagrito e stanco, ma gli occhi sono gli stessi, duri. Appoggia la schiena alla porta e per un attimo abbassa lo Sten. Poi, come se i muscoli si fossero già rilassati, lascia l'appoggio e punta l'arma. Dice a Santovito: «Ho sentito che la nostra brava staffetta, Irma, ti ha detto di aver saputo della fucilazione di Bob solo a guerra finita. Vero, Salerno, io l'ho incontrata durante una mia missione oltre le linee e non le ho detto che avevamo giustiziato Bob». Pare che sorrida. «Giustiziato. Non fa ridere? L'ho incontrata e non ho avuto il coraggio di dirglielo e anche questo fa ridere. Ma lei ha detto a me qualcosa che mi ha fatto riflettere e capire.» Guarda la donna: «Diglielo, digli quello che raccontasti a me quella notte nella Cirenaica». La Cirenaica, quartiere di Porta San Marco, malfamata per ladri, prostitute, banditi... sta subito oltre le mura, a due passi dal carcere. Detenuti e parenti potevano darsi la voce. Non si sa bene se le famiglie si siano stabilite nella Cirenaica per essere a pochi passi dai parenti in carcere o se abbiano costruito il carcere da quelle parti per essere più comodi a mettere dentro gli abitanti. Stradine strette, voltoni, case basse e ondulate che somigliano a una biscia pigra stesa al sole. Via Tomba, via del Ceppo, via dei Macelli... L'ospedale del Ceppo, con i fregi di Luca della Robbia. La chiesa di San Bartolomeo in Pantano. E il carcere, Santa Caterina in Brana, che ha l'aspetto di un castello con le torrette d'angolo e i merli, tutto di sasso grigio, recente eppure tetro come nel Medioevo. Dal carcere si vedono le mura della città vecchia e, subito oltre, il torrente Brana, la Cirenaica e i monti sulla valle che tanto piacevano a Irma. Fu proprio su quei monti, e prima che gli Alleati liberassero Pistoia l'8 settembre del '44 che Irma aveva avuto i primi contatti con i partigiani della Resistenza toscana. L'avevano mandata oltre il valico per portare ordini e informazioni alla Garibaldi, nell'Appennino emiliano. Lì aveva poi incontrato Bob. Terreni impervi o località con nomi da brividi: Torre di Catilina, Forra Sanguinaria, la misteriosa villa Philipson dal colore di sangue rappreso, bovindo e tapparelle sempre chiuse, e l'altrettanto misteriosa casa del custode che, dicevano, porta male a chi l'abita e a chi la guarda troppo a lungo. La giovane Irma tirava via, da quelle parti, senza alzare gli occhi. Anche il paesaggio è suggestivo e terribile. Prima che gli Alleati bombardassero la ferrovia che da Pistoia sale sull'Appennino per raggiungere l'Emilia, Irma faceva il tragitto in treno: gallerie, gallerie, gallerie. Gole strettissime, il Reno, tutto curve e massi e pareti ripide di roccia che pare finiscano sui binari. Qua e là antichi ponti a schiena d'asino, lasciano passare solo un asino e
sembrano essere nati assieme alla roccia e non da mano d'uomo. Case attaccate al monte. Entri in galleria che il fiume è a destra, esci che è a sinistra. I torrenti spuntano dalle gole e si scaricano nel fiume. Acqua ripida e scura che nasconde la Borda, che devia e torna a deviare perché va a sbattere contro le pareti di roccia. Ma era soprattutto il viaggio di ritorno che affascinava Irma. Forse perché stava tornando a casa. Borghi in fondo a valli che si fanno più ampie, dove il sole arriva per poche ore e non si capisce come si possano raggiungere. Stazioncine che servono solo ai somari immobili, legati ai muri. Poi, di colpo, la visione si allarga su distese di ulivi e sai di essere a casa, in Toscana. E allora la neve, che si era gelata ai vetri del treno, si scioglie. O quella che, poco più sopra, seccava gli sterpi, lascia il posto alle foglie bicolori degli ulivi che stendono un velo d'argento sul paesaggio. L'8 settembre del '44 gli Alleati liberarono Pistoia, ma la staffetta Irma continuò a tenere i collegamenti fra il comando della Resistenza al seguito degli Alleati e le brigate partigiane che ancora combattevano alla macchia nei territori sotto il controllo dei tedeschi e dei repubblichini di Salò. Il viaggio andava così: con mezzi di fortuna, autocarri degli Alleati o di privati che si spostavano fra l'Appennino e la pianura, fino a dove si poteva arrivare, e poi a piedi fino a una casa di contadini, alla fine di un sentiero nei boschi. L'aspettava una bicicletta e, con quella, via, fino alla brigata Garibaldi, su mulattiere. Dove non c'era pericolo, si metteva su strade malamente asfaltate e bombardate. Una sfacchinata che faceva volentieri perché avrebbe incontrato Bob. L'ultima missione rischiò di finire male. Alla Dogana, dove c'era il comando della brigata Garibaldi, consegnò a Tango le mappe aeree con l'ubicazione delle postazioni dove resistevano ancora gruppi ben equipaggiati di tedeschi, e una relazione sui prevedibili futuri spostamenti di truppe naziste e fasciste. Chiese: «C'è niente che mi devi dare per quelli di là?». Tango stava controllando le carte appena ricevute e si limitò a scuotere il capo. «Allora ti saluto» e fece per uscire dalla Dogana. Ma chiese: «Sai dove posso trovare Bob? L'ultima volta mi aveva dato dei soldi per delle sigarette e dei sigari...». Tango la guardò, sorpreso. Gli arrivava nuova che Bob avesse, primo, dei soldi da spendere in sigarette; secondo, che fumasse sigari. Chiese: «E dove li ha presi Bob dei soldi? Per i sigari, poi...». Irma arrossì. Aveva sbagliato, ma ormai... Spiegò: «Be', non erano proprio suoi, i soldi. Glieli aveva dati un compagno perché gli procurassi dei sigari, ma mi è capitato di trovare le Africa, che a Bob piacciono, e allora ne ho spesi anche per lui. Quello, il suo compagno, non se ne accorgerà nemmeno. Se non glielo dici tu...». Tango sorrise. «Tranquilla che non glielo dirò. Lascia qui sigari e Africa che darò tutto io a Bob.» «Be', veramente... Insomma, mi piacerebbe salutarlo. Pare che questa sia la mia ultima missione di qua dal fronte e allora...» «Capito, capito. Lo trovi su, al caniccio d'Edgarda. Sai dov'è?» Sempre più rossa in viso, Irma annuì, salutò Tango con un gesto e partì. Al caniccio d'Edgarda non c'era nessuno. Lo cercò nella piccola costruzione di pietre a secco e coperta da lastre d'arenaria, uno di quei ripari usati dai montanari per riporre attrezzi, poco distante dal caniccio, e non ci trovò nessuno. «Saranno in giro d'ispezione» si disse. E li aspettò. Passò del tempo e quando aspettare ancora avrebbe fatto diventare pericoloso il viaggio di ritorno per via del buio, posò sigari e sigarette sul ripiano sotto la feritoia. "Li troveranno di sicuro e Bob capirà che le Africa sono per lui" e, triste, lasciò il caniccio illudendosi che "lo vedrò un'altra volta".
1960, dicembre, nel bar di Remo Una Notte All'inferno «Non l'ho più rivisto» dice Irma, sottovoce. Poi a Tango: «E quando ci siamo incontrati, te lo ricordi, Tango? È stato nella Cirenaica, sul sagrato di San Bartolomeo, una notte di fine ottobre... E tu nemmeno hai sentito il bisogno di dirmelo che Bob era morto. Eppure ti ho chiesto: "Come sta Bob?". "Bene" mi hai risposto, "Bob sta bene." Eppure lo sapevi che mi... Insomma, non sei stato onesto». «Chi poteva permettersi il lusso dell'onestà in quei giorni, Irma?» dice Tango. Continua a tenere tutti sotto la minaccia dello Sten. Guarda Santovito. «Capito com'è andata? La staffetta mi ha detto che al caniccio non c'era nessuno e ho capito. Una notte di fine ottobre, sul sagrato di san Bartolomeo, ho capito l'enormità del nostro errore. Nostro, Salerno! Ma non sono riuscito a capire come il vero criminale delle Piane abbia potuto lasciarci fucilare un innocente. Salerno, ci ho messo tre giorni per tornare alla mia brigata. Giorni d'inferno. Giustizia, giustizia, mi rintronava nel cervello. Che giustizia se hai fucilato un innocente? "Aspetto la fine della guerra" cercavo di convincermi, "che adesso non c'è tempo per un altro processo. Sarebbe solo un altro danno. Aspetto la fine della guerra e poi..." E poi, cosa? Il fronte finalmente si è mosso, è arrivata la Liberazione, ho parlato con il commissario politico che era stato presidente al processo... "Lascia stare, Tango, che servirebbe solo a gettare discredito sulla Resistenza." Lascia stare?» Con la sinistra abbandona il mitra e se la passa sul viso, sugli occhi. Torna a stringere l'arma. «Ho lasciato stare e sono scappato a nascondermi. Nemmeno alla sfilata del 25 aprile ho partecipato. Avevo da festeggiare solo la mia sconfitta» e, stanco, si appoggia alla parete e chiude gli occhi. Adesso o mai più! E il maresciallo Amadori mette mano alla fondina e sta per partire di scatto, ma tre colpi singoli di Sten gli passano sopra la testa e vanno a schiacciarsi contro la parete del bar. Pioggia d'intonaco, odore di polvere, fumo, paura. Amadori è sul pavimento e Santovito gli corre sopra e grida. Grida anche Tango. «Tranquillo, Salerno, che non l'ho preso, il tuo collega. Digli che non faccia l'eroe.» Non l'ha preso, ma Amadori è pallido, prova a dire qualcosa e non ce la fa. Santovito lo rialza di peso e lo mette su una sedia. Il fumo e l'odore della raffica hanno fatto del bar un inferno. E, dopo gli spari, è calato il silenzio pesante della paura. Salerno guarda Tango e gli grida: «Cosa cazzo credi di risolvere? Ammazzare altri innocenti non ti toglierà il tuo senso di colpa». Immobile, la schiena sempre contro la parete, forse sotto la barba, Tango sorride. Dice: «Anche, Salerno, anche, ma solo se il delinquente che ha lasciato che ammazzassi Bob, si alza e urla: "Sono stato io"». Salerno guarda, uno dopo l'altro, i suoi compagni d'inferno: Lepre, Bill, Remo, Autiere, il Calabrese, Ballerina, Legno, Irma e finisce su Tango. Gli dice: «Non l'ha fatto fino a qui, credi lo faccia adesso?». Tango risponde con altre domande. «Tu sai di chi parlo, vero?» Salerno annuisce. «Allora perché non l'hai arrestato?» «Mi servono prove certe o...» «... o la sua confessione.» «O la sua confessione, sì. O anche la testimonianza di chi conosce il nome del fumatore di sigari, che è poi lo stesso che era al caniccio d'Edgarda con Bob. Che è poi l'unica persona a questo mondo che ha dato una mano alla povera Gialdiffa quand'era ancora in vita, ma le ha dato anche una mano a crepare.» «I sigari, sì» mormora Tango. «Salerno, ricordi il sigaro che ti ho offerto su, alla piana del
Falchetto? Ci fu un lancio degli Alleati e da buoni fratelli ci dividemmo le armi e il resto.» «Da buoni fratelli? Mi avresti fatto fuori assieme ai miei.» «Non esserne così sicuro, Salerno. Non ero quello che sembravo. Bene, quel sigaro me lo aveva regalato il delinquente. Erano per lui i sigari che la staffetta aveva lasciato al caniccio. E io saprò bene chi avevo comandato di guardia.» «Sei pronto a dirlo al giudice, Tango?» Tango scuote la testa, lento ma determinato. «No, no, Salerno. Voglio che ci vada lui stesso a raccontarlo al tuo giudice. Se mi presento io, uno che ha ucciso e fatto la Resistenza e poi è sparito, un mezzo matto che va in giro con un mitra... Chi mi crederebbe? Ti sarai accorto che non sono tempi buoni per gente come noi. Ti sarai accorto che abbiamo avuto i fascisti al governo. No, no, ci va lui, si presenta dal giudice e gli dice "sono stato io" in modo che non possa poi inventarsi chissà cosa o mettere in mezzo chissà chi e venirne fuori pulito. O al massimo con qualche anno di carcere.» Tango è stanco, forse malato, ma è deciso a arrivare alla fine della storia e arrivarci come vuole lui. Si stacca dalla parete e fa due passi verso quelli che tiene sotto tiro. Dice, non si sa a chi: « È il tuo momento. O ti alzi in piedi e dici "sono stato io" o ti sego a metà con una raffica di mitra. E lo farò, per il tuo dio se lo farò! Non ho più niente da perdere». Anche Santovito guarda quelli della Garibaldi. Nessuno si muove. Tango arma il mitra e lo mette in linea di tiro. La canna passa da uno all'altro dei suoi antichi compagni. Sceglie il bersaglio e si ferma. Le mani del comandante Tango sono bianche per la forza con la quale stringono lo Sten. Il dito sul grilletto è fermo, pronto. Basterebbe una lieve contrazione... Tango guarda fisso il suo assassino: «Stai per crepare, figlio di puttana» dice sottovoce. «Non ti lascio neanche il tempo di dire amen.» «Tango, ti ordino di consegnare il mitra!» grida Santovito. «Lo farò, Salerno, lo farò appena sistemato questo maiale.» Santovito abbassa il tono: «Un altro delitto, Tango? Quanti morti vogliamo ancora portarci dietro? Non bastano quelli delle Piane, Bob e sua madre?» Tango non lo ascolta. Il dito si muove sul grilletto. Nel gruppo, qualcuno mormora: «Li ho uccisi io» ma il mitra, sempre in linea con l'assassino, lascia partire la raffica. All'ultimo istante la canna dello Sten si è spostata dal suo bersaglio e le pallottole si schiacciano contro il soffitto, rimbalzano e ronzano attorno, impazzite. Sui presenti, che si sono gettati a terra, piovono brandelli di calcinaccio. In piedi è rimasto chi ha parlato e aspettava la sua raffica. La canna dell'arma torna sull'obiettivo; Tango ansima e grida: «Non ho sentito! Più forte, più forte!». «Li ho uccisi io.» Tango ansima, e ancora si appoggia alla parete. Guarda il maresciallo e dice, duro: «È fatta, Salerno! Ma ricordati bene quello che ti dico adesso: se non avrà l'ergastolo, quando uscirà di galera, fosse anche da qui a trent'anni, io sarò là a aspettare e questo mitra, che è lo Sten del povero Bob, sparerà la sua ultima raffica». Tango non ha più fiato nei polmoni e riesce solo a mormorare: «È il minimo che devo a quel povero ragazzo». Sempre con il mitra puntato, si stacca dalla parete, rincula verso la porta del cortile, esce e se la richiude alle spalle. Il primo a rialzarsi è il maresciallo Amadori. Estrae la pistola e fa per rincorrere Tango. Santovito lo blocca: «Lascialo andare. Non farà male a nessuno.» «Ma è armato...» «Lascialo andare!» grida Santovito. È un ordine e Amadori non se la sente di discuterlo. Borbotta solo: «Stava per ammazzarmi... È matto e ha un mitra...»
La lunga notte nell'inferno del bar è finita. In silenzio e uno dopo l'altro, i convenuti lasciano il bar di Remo. Riprendono le strade che, per un momento, avevano abbandonato per venire a incontrare antichi compagni. Uno di loro non torna da dov'era venuto. Gli uomini dell'Arma lo scortano alla camionetta. «Viene con noi giù, alla caserma di Amadori. Niente in contrario, Furci?» dice Santovito all'anziano collega. Furci guarda Santovito e annuisce in silenzio. È stata la più brutta esperienza della sua lunga carriera di carabiniere. Fra poco sarà l'alba. Lo dice il chiarore sulle cime dei monti, dall'altra parte della valle. L'aria fredda entra nei polmoni e li netta dal fumo di sigari e di sigarette. E dall'odore pungente dell'ultima raffica. Domani mattina alle dieci, giù in paese, dalla chiesa di don Vincenzo Cioni, partirà il corteo funebre. Forse non saranno in molti a accompagnare l'ultimo viaggio di Gialdiffa Cortesi verso il cimitero, verso la tomba del figlio Bob. Forse solo il parroco e due chierici. E i rintocchi a morto. Gialdiffa non aveva amici in paese.
1960, dicembre, in paese Il Funerale La notte nel bar di Remo lo ha massacrato e la giornata che è venuta dopo ha completato il massacro. Eppure, di notti e di giorni infami, Santovito ne ha passati... In Russia soprattutto, ma là, in quel mondo fatto di bombe, di cadaveri e di gelo, non gli restava nemmeno il tempo per pensarci, alle notti brutte e ai giorni che non finivano mai e che lo accompagnavano verso... Non sapeva nemmeno verso dove. Se la stanchezza ha un senso, ma Santovito non sa più se ce l'abbia, arrivato alla sera di una notte e di un giorno come quelli appena passati, avrebbe dovuto buttarsi sulla branda, addormentarsi e dormire come un sasso per ore e ore. Non sta andando così. Non dorme e i pensieri viaggiano senza che riesca a guidarli. Raffaella. È da un bel po' di giorni che non vedo Raffaella. La vedrò domattina al funerale di Gialdiffa. Non so cosa dirle. Le dirò: "Ti racconterò come sono andate le cose. Non adesso". Forse non mi resterà il tempo per farlo e ancora dovrò deluderla. C'è da preparare il rapporto... E non sarà una cosa semplice. Poi giù, al comando e poi altri interrogatori e poi ancora sopralluoghi e poi altre testimonianze e poi e poi e poi... Gli impegni burocratici non finiscono mai, nel mio mestiere, anche se adesso sappiamo tutti, e con certezza, come sono andati i fatti. Ma si devono convincere i superiori e con prove, non con il sentimento. I giudici, gli avvocati, l'opinione pubblica vuole sapere di Tango e gli altri. Di Bob, di Lepre... Poi di Motore, della staffetta... A proposito, com'era il nome di battaglia della staffetta? Ma le staffette non avevano nome di battaglia. O ce l'avevano? Dunque: Motore, la staffetta... E Imelde? Un'altra disperata in un mondo che di disperati ne contava troppi. Soprattutto Gialdiffa. Domattina è il giorno che la mettono sottoterra... Se non fosse morta, ieri, per lei, sarebbe stato un bel giorno. Per prima cosa l'avrei convocata qui, in caserma e le avrei detto: "Ecco chi ha massacrato alle Piane. Ecco chi ha fatto ammazzare tuo figlio. Se vuoi, sputa in quella faccia... Ecco la mia pistola. Se vuoi, metti una pallottola nel suo cuore". No, non le avrei mai dato la pistola. Ma l'avrei capita se avesse sputato. Gialdiffa: domattina la metteranno sottoterra e io non posso mancare. Sarebbe bello se don Vincenzo la facesse seppellire accanto alla tomba di Bob, di suo figlio. Magari pianterò un bastone sulla tomba, come Tango ha fatto sulla tomba del figlio. In questa storia c'è anche Roberto, il figlio di Bob. Qualcuno dovrebbe raccontargli di suo padre, quello vero, quello che è stato fucilato per una strage che non ha commesso. Nessuno deve raccontare a Roberto che suo padre non è suo padre... La vita di un ragazzo non va rovinata. Si può continuare a vivere come se niente fosse, accanto a Bob, ammazzato innocente? Era giovane e il suo desiderio era vedere la fine della guerra. Come tutti noi. Lui non c'è riuscito. Pietro Bernardi detto il Patriarca, il figlio Italo e la moglie... Come si chiamava? Sì, Nerina Gravelli. Dentro la cisterna e lei, la povera donna, non era nemmeno morta. Affogata. Mi auguro per lei che non abbia ripreso conoscenza. Sarebbe stata una morte orrenda. Riprendersi dentro la cisterna e avvinghiata ai suoi morti...
È stata la notte dei fantasmi. Il Tango dei giorni della Resistenza è morto e ha mandato il suo fantasma a fare giustizia. E gli altri. Cino e Franco? Chissà che fine hanno fatto. Fantasmi anche loro. Eppure stavano facendo la Resistenza. Come me. Santovito conta tutte le ore che il campanile gli comunica. Poi, verso l'alba, quando il campanaro tira la corda per la prima volta, conta anche i rintocchi a morto. Per Gialdiffa. Don Vincenzo Cioni non ha dovuto ordinare al campanaro di cominciare presto a suonare a morto per Gialdiffa. È usanza, qui, che i rintocchi comincino alle prime luci dell'alba e il campanaro lo sa da una vita passata fra la sacrestia, la chiesa e il podere della curia. Gialdiffa è in chiesa, chiusa nella cassa e con quattro ceri attorno. Spenti. Li accenderà il sagrestano, che è sempre il campanaro, pochi minuti prima che cominci la funzione. L'hanno portata su, la bara, ieri pomeriggio due con il carro funebre della Medicina Legale. Hanno chiesto, senza tanti complimenti: «Dove la mettiamo questa qui?» come se avessero da scaricare un pacco. In silenzio don Vincenzo ha indicato la chiesa e si è avviato. «Ooo, don Abbondio, non c'è nessuno a darci una mano?» gli ha gridato dietro quello che aveva guidato il carro da Bologna al paese. «Questa qui pesa come un'ostia! Scusi padre... Volevo dire che in due non ce la facciamo.» Ci si sono messi il sagrestano e lo stesso don Vincenzo. In chiesa, e fin dalla mattina, il catafalco era pronto a ricevere la bara. Forse non saranno in molti a accompagnare l'ultimo viaggio di Gialdiffa Cortesi verso il cimitero, verso la tomba del figlio Bob. Forse solo il parroco e due chierici. E i rintocchi a morto che continueranno fino alla sepoltura. E invece sono in molti al funerale di Gialdiffa. Tanti sono in chiesa e tanti l'aspettano sul sagrato. C'è silenzio davanti alla chiesa e in tutto il paese, così i rintocchi sembrano più cupi e il vento freddo di un Natale che sta arrivando, li porta sulla montagna e giù, verso l'acqua, e di là dall'acqua. Per oggi la scuola ha chiuso e i ragazzi sono schierati a destra e a sinistra dell'altare, assieme agli insegnanti. C'è anche il sindaco del paese, ai piedi della bara, e ci sono due vigili con il gonfalone del comune. Le parole di don Vincenzo Cioni hanno un senso solo per i credenti. Dicono di un altro luogo dove Gialdiffa incontrerà suo figlio e dove avrà finalmente la pace che questo mondo le ha sempre negato. «La tragica vicenda che si è conclusa dopo anni di attesa e che ha ridato onore a un figlio della nostra montagna, ingiustamente macchiato da un'infamia senza nome, ci fa sperare che sia arrivato il momento di dimenticare gli odi e ritrovare la concordia degli animi. Gialdiffa, dal paradiso dov'è certamente andata, ci aiuterà in questa impresa. Preghiamo per lei. Amen.» La bara, portata a spalle da quattro montanari, esce dalla chiesa e incontra chi in chiesa non è entrato. Incontra quelli della brigata di Bob. Ci sono anche quelli che hanno fatto l'alba nel bar di Remo e che non sono tornati a casa, come sarebbe stato normale. Di loro, manca solo chi lo ha fatto fucilare: poi mancano quelli della brigata che non si è riusciti a avvertire. La processione si snoda per il paese. Davanti il carro funebre e dietro don Vincenzo, assieme a due chierici, che intona le litanie dei morti. Poi due file di uomini e, ancora dietro, le donne. Santovito è ultimo, assieme a Raffaella. Nessuno dei due ha voglia di parlare. Don Vincenzo ha fatto scavare la fossa per Gialdiffa accanto alla fossa di Bob. La bara è appena stata calata nella fossa e Santovito mormora all'orecchio di Raffaella: «Andiamo.
Non me la sento di tornare assieme agli altri. Chiacchiere, chiacchiere... So come vanno i funerali». Scendono da soli verso il paese. Fra poco la folla si sperderà lungo la strada del cimitero, alcuni faranno soste per discutere di una tragedia accaduta chissà quanti anni fa, altri se ne torneranno a casa e altri, al Ristobar, ci berranno sopra. «Così è finita» mormora Raffaella. «E adesso?» «Adesso comincia un altro calvario. Non ho nemmeno avuto il tempo per ringraziarti...» «Di cosa?» lo interrompe Raffaella. «Senza di te, senza il tuo intervento, non ci sarei riuscito... Mi spiace solo che nessuno lo saprà mai. Non posso farti dare un encomio come se tu fossi un mio collaboratore.» Raffaella si stringe al braccio di Santovito. «Fa freddo» dice. Poi: «Ci saresti riuscito, ci saresti riuscito. Io ti conosco: sei un mastino che non molla la presa». Lo guarda e abbozza un sorriso. «Magari ci avresti messo qualche anno e saresti stato costretto a rimanere in paese.» Si ferma. «Ti sarebbe dispiaciuto restare ancora qui, con me?» Santovito riprende la strada. Dice: «Ci eravamo già salutati a settembre, ricordi?». Che vuol dire?» «Vuol dire che ci eravamo già salutati.» «Così, nessun rimpianto per la nuova partenza?» Per un po' il maresciallo non risponde. Poi: «Tanti. Per quello che è successo anni fa, per quello che allora non sono riuscito a fare, per quello che si poteva evitare e nessuno ha evitato, per i morti, per quelli che sono rimasti con i loro rimorsi...». Adesso è lui che si ferma e guarda Raffaella. «Poi, per doverti lasciare ancora una volta.» «Be', a questo c'è rimedio, no?» Di nuovo si stringe a Santovito e i due riprendono a scendere. «Io resto qui a insegnare. Ormai è il mio paese. Quando vuoi, sai dove trovarmi.»
1944, ottobre, al caniccio d'Edgarda e alle Piane La Strage Non entrava volentieri nella baracca del caniccio, non gli piaceva quel buco, e per fortuna il suo lavoro era di provvedere al cibo e niente turni di guardia dentro la baracca. Provvedere al cibo? Quando ce n'era. Per esempio, il giorno prima aveva finito la magra scorta e aveva deciso di scendere alla Dogana: per vedere cosa riusciva a mettere assieme per lo stomaco suo e dei compagni. Senza entrare, Motore gridò: «Allora io vado!». Nessuno gli rispose. Mise dentro la testa. «Ooo, si dorme invece di fare la guardia?» gridò ancora. «Siamo qui, siamo qui» rispose il più giovane dei due. «E allora si risponde, cazzarola» si arrabbiò Motore. «Non abbiamo voglia di parlare. Si può o è vietato dal regolamento del partigiano?» intervenne l'altro. Mise la mano in tasca e mostrò quello che restava di un sigaro. «Lo vedi questo? È l'ultimo, rimando sempre di accenderlo e dovrei avere voglia di parlare? Portami su dei sigari e mi metterò a cantare...» e lo prese un attacco di tosse. «Due coglioni» borbottò Motore. «Senti come ti hanno ridotto i tuoi sigari. Una tosse della madonna» e si avviò per scendere il sentiero. «Ooo, Motore!» gridò da dentro quello dei sigari, e si fece sulla porta. «Motore, chiedi un po' giù che fine ha fatto la staffetta. Aveva dei miei soldi per i sigari e sono qui che aspetto da quindici giorni...» Motore riprese il sentiero e agitò alta una mano per rassicurare che aveva capito, che avrebbe chiesto. Anche Bob uscì dalla baracca, guardò Motore fino a quando non sparì alla curva del sentiero e poi tornò dentro. Un'ultima occhiata verso dove era sparito il compagno, per essere certo che non sarebbe tornato, chiuse la porta, riprese lo Sten, tornò a sedere accanto alla feritoia sulla vallata con il fiume, la strada e il paese e cominciò sottovoce: «Senti, io avrei da chiederti un grande favore...» e sospese, indeciso, per guardare il compagno. Gli aveva sempre messo soggezione, forse perché parlava poco. Bob preferiva fare i turni al caniccio con altri della brigata. Magari con Bill, che aveva circa la sua età, ma Tango abbinava sempre un giovane a uno con più esperienza. «Cos'è? Credi che io non faccia favori?» «No» riprese Bob, «è che il piacere che ti chiedo sarebbe piuttosto grosso.» «Che sarà mai? Tu chiedi e vedrò io.» Bob poggiò lo Sten alla parete, lasciò la feritoia e andò dinanzi al compagno. «Dovrei... Avrei da... Insomma, ho un impegno che per me è piuttosto importante, giù, al paese di don Vincenzo, e se tu mi tenessi la cavezza fino a domani pomeriggio... Insomma, io andrei, starei giù fino a domani e nel pomeriggio sarei qui di nuovo.» Aspettò un cenno, ma l'altro lo guardava con un sorrisino sulle labbra che non voleva dire niente. «Lo so che non si dovrebbe, che Tango si raccomanda, ma resti tu e di te ci si può fidare...» Dal compagno ancora niente e Bob alzò la voce: «Insomma, non ti è mai capitato di avere una cosa importante...». Sempre col sorrisino sulle labbra, l'altro continuava a guardarlo in silenzio. «Ho capito» disse Bob. Tornò allo Sten, lo riprese, sedette e piantò la faccia nella feritoia. Il compagno lo toccò sulla spalla. Disse: «Mi è capitato, mi è capitato, giovane. Va dove devi e torna appena puoi. Nessuno lo saprà mai». Bob sorrise al compagno. «Grazie, tu non sai...» «Lo so, tranquillo che lo so. Ho avuto anch'io i tuoi anni e non è poi passato tanto tempo da
allora» e mentre Bob allacciava il suo squinternato pastrano, gli tolse di mano lo Sten e disse: «Niente armi, però, che se ti intercettano, ti sparano senza darti il tempo di un amen». Uscito che fu Bob, prese il suo posto alla feritoia. Non gli poteva andare meglio: Motore via per rifornimento, il giovane dalla sua ragazza... E anche lui aveva un appuntamento e stava ragionando su come lasciare il caniccio. Per qualche ora non sarebbe successo niente. Gli Alleati non avrebbero perso la guerra per questo. Calcolò l'ora, ci pensò su, s'arrotolò nella capparella, si mise a tracolla lo Sten di Bob, dalla feritoia diede un'ultima occhiata alla valle. Il sole era tramontato e anche il cielo si era messo d'accordo con lui: molte nubi e una notte senza stelle. Arrivò alla porta della casa e sollevò il batacchio. Tre colpi secchi che risuonarono nella notte. Dall'interno non usciva nessuna luce. Dopo un po', dei passi e il vecchio Bernardi aprì la porta. Aveva una lumiera in mano. «Ah, sei tu» disse. «Certo che sono io, anche se ho fatto una gran fatica a venire.» Mise la mano in tasca e tirò fuori un foglietto. «Questo me lo hai fatto avere tu, no? Dovresti saperlo che è pericoloso, nella mia posizione. Avrebbero potuto beccarlo e incominciare a chiedersi chissà cosa. Sai quanto sono severi e sospettosi...» «Potevi sempre dire che andavi a trovare qualche donna...» «Sì, e secondo te nei partigiani c'è la libera uscita? È quasi impossibile muoversi, e per fare quello che devo fare, ci vuole il suo tempo e molta cautela. Che fretta c'è? Che sfrùmmia c'hai, addosso?» Il vecchio strappò il foglio dalle sue mani, fece luce, ci diede una veloce occhiata e lo mise in tasca. Disse: «Allora sarà meglio che lo tenga io». «Per me... Allora, torno a dire, che fretta c'era?» «Fretta o non fretta, è il momento di chiarire molte cose» e indicò con il capo, dentro, la moglie del figlio che sistemava l'acquaio e sembrava in tutt'altre cose interessata. «È meglio se andiamo fuori, a parlare» e rientrò per lasciare il lume in casa. «Questa è nuova. Cos'è? Pietro Bernardi detto il Patriarca ha paura di dire a una donna di prendere su e andare a letto?» «Non ho paura di nessuno, io, e nemmeno del tuo mitra. Perché poi te lo sei portato dietro?» «Perché me lo sono portato dietro?» lo canzonò, imitandone la voce. «Lo sai o non lo sai che c'è una guerra, in giro, e a muoversi di notte si potrebbero fare brutti incontri? Cosa gli dico? Lasciatemi passare, vado da quel fascista di Pietro Bernardi, uno dei vostri?» «Sì, perché sei buono tu, che sei dei loro. Dai, dai che andiamo» e si allontanarono dalla casa. «E tuo figlio dov'è?» Bernardi indicò con la mano un punto vago: «In giro, a controllare alcune cose. Sono tempi questi...» e intanto andava e si avvicinava alla fontana. «Fermati bene. Dove credi d'andare?» Bernardi si fermò, si appoggiò all'acquaio di pietra, sotto alla fontana. Sopra, un muretto di sassi quasi coperto da un enorme cespuglio di sambuco. Disse: «Da nessuna parte, mi fermo qua» e si accomodò meglio contro l'acquaio. «Allora, a che punto sei, come va l'affare del vagone di pepe?» Si trattava di un vagone pieno di pepe, scatole e scatole di granelli che, in quei tempi di guerra, valevano oro. Era arrivato con un treno merci tedesco carico di armi e munizioni e viveri, e chissà da dove veniva quel singolo vagone, e perché era lì, assieme alle armi. Il treno si era fermato alla stazione del paese grosso, a valle, e i tedeschi avevano scaricato subito quello che li interessava di più. I continui bombardamenti degli aerei alleati avevano interrotto la linea ferroviaria e così i tedeschi avevano staccato il vagone e l'avevano lasciato fermo su un binario morto, dimenticandolo. I militi fascisti di guardia alla stazione ne erano venuti a conoscenza, e sapevano anche il valore di tutta quella droga. Al mercato nero avrebbe fruttato e come! Ma come fare? Pensarono al Patriarca,
uno dei loro, uno fidato. Gli proposero l'affare e il vecchio pensò a uno dei suoi tanti soci nei suoi discutibili commerci, uno che si era messo con i partigiani e, proprio per questo, il più adatto. «Come va la cosa?» ripeté il Patriarca. L'altro non rispose. Tenendo lo Sten sotto il braccio, infilò una mano nella tasca della giacca, ne trasse l'ultimo mezzo toscano e lo infilò in bocca. Strisciò uno zolfanello contro il sasso della vasca, aspettò che lo zolfo svanisse del tutto, accese e aspirò, tossì e disse: «L'ultimo e poi dio vede, dio provvede.» Aspirò ancora. «Come va la cosa, dici. Va che è più complicata di quanto pensavi.» «In che senso? Ma se ho già pagato, e profumatamente, quelli della Milizia. Si tratta di andare a prendere il pepe, portarlo da qualche parte e poi aspettare...» «La fai comoda tu. Andare a prendere il pepe, come? Con cosa? Ci vorrebbe un carro. Poi, dove lo mettiamo? Qui, alle Piane, da te? Va bene che quelli della Milizia sono d'accordo, ma i tedeschi? Sai quanto si fidano degli italiani. Potrei organizzare un assalto dei partigiani per finanziare la Resistenza, ma poi come glielo porto via, il pepe?» Con soddisfazione diede un altro paio di tiri. «Poi c'è che i militi ci hanno ripensato e vogliono di più.» «Ma che beghe sono queste? I militi li ho già pagati io e erano d'accordo! Anche tu mi avevi assicurato... Eravamo d'accordo sul tuo venticinque per cento di quello che si riusciva a tirare su. Insomma, mi pare che stai a menare nel manico.» «Bernardi, è troppo rischioso e io mi gioco la pelle. Tu te ne stai qui, bello e sicuro, e a me tocca rischiare per una miseria» e ancora tirò nel sigaro. «Facciamo il cinquanta o lascio andare l'affare.» «Figlio d'un cane! Sai dove te lo do io il cinquanta?» Il Patriarca era ancora forte e vigoroso. Si staccò dall'acquaio e, con aria minacciosa, andò verso il compare. Che alzò lo Sten. «Fermo là, Bernardi. Cosa credi di fare?» «Fermo là, tu!» Dal cespuglio di sambuco era spuntato Italo, il figlio del Patriarca. Con la doppietta spianata all'altezza dell'uomo con il mitra, Italo avanzò zoppicando. «Cosa sono tutte le balle che ho sentito?» L'uomo con il mitra gli rispose: «Stiamo fermi tutti e diamoci una calmata. Si ragionava, con tuo padre... Parlare si può sempre, no?». Pareva calmo, ma teneva lo Sten puntato. «Hai sentito quello che gli stavo dicendo: che la faccenda è più complicata di quanto sembrava all'inizio, che i rischi sono tanti, per me, e per meno del cinquanta io non mi muovo. Cercate di capire...» Con la sinistra portò il sigaro alla bocca e diede un'altra sbuffata. Italo era furioso e lo si capiva da come stringeva e agitava la doppietta. «Ho capito benissimo! Ho capito quali sono le tue balle. Non ne hai abbastanza e vuoi fare ancora la cresta, ma l'affare l'abbiamo montato noi, abbiamo già sborsato un mucchio di soldi e il venticinque è più che giusto, per quello che devi fare tu!» «Allora sai che vi dico? Che il vostro pepe ve lo portate via voi!» Italo sogghignò, sputò a terra e poi: «Ah, sì? Vorrà dire che noi faremo sapere ai partigiani che fai il doppio gioco, in che affari sei immischiato e che uomo sei davvero. Te lo daranno loro il tuo cinquanta». Agitò la doppietta. «Pensaci su, se ti conviene.» L'uomo con il mitra si tolse lentamente il sigaro dalla bocca, sbuffò fuori il fumo e guardò quanto rimaneva ancora da tirare. Poco, quasi niente. A malincuore diede un'ultima tirata e gettò il mozzicone a terra. Chissà quando avrebbe potuto accendere un altro sigaro. «No» disse, «non mi conviene.» Abbassò il capo come se stesse ancora pensando e lasciò partire, improvvisa, la prima raffica. Il lampo squarciò il buio e abbatté Italo. «Cos'hai fatto, disgraziato! Hai ammazzato mio figlio...» La seconda raffica stese il Patriarca e grandinò contro la pietra della fontana e del muretto.
Si avvicinò ai due corpi a terra e li guardò. Scosse il capo: «No» mormorò, «proprio non mi conviene». Agli spari, la porta delle Piane si spalancò e la donna corse verso la fontana. Correva e urlava: «Italo! Pietro! Cos'è successo? Chi ha sparato?». Arrivata accanto all'uomo con il mitra, guardò i due uomini che non aveva più, si portò le mani alla bocca e poi, come artigli, al viso dell'uomo «Cos'hai fatto, disgraziato? Li hai ammazzati, li hai...» Non finì. Il mitra, brandito come una clava, la colpì alla testa e scaraventò la donna sul corpo del marito, Italo. Un gemito e fu tutto. «Anche lei qui fra le balle» borbottò l'uomo del mitra. «È morta o no?» Si chinò, ma non la toccò. Decise: «Morta o no, bisogna toglierla di mezzo. E anche gli altri due» e si guardò attorno. Sollevò la botola della cisterna che raccoglieva l'acqua per la fontana e gettò dentro il corpo di Italo e poi, trascinandolo perché pesava, il vecchio Bernardi. Ultima, la donna. La doppietta era là, a terra accanto al cespuglio di sambuco. Gettò anche quella nella cisterna e risistemò la botola. "Se do fuoco alla casa penseranno che sono stati i tedeschi. Quelli non guardano se sono fascisti o no, quelli ammazzano e bruciano senza chiedere come la pensi." Nella grande cucina delle Piane, il lume a petrolio era appoggiato a un mensola, acceso. Lo scaraventò sul tavolo, si ruppe e il petrolio prese subito fuoco. Fuori, aspettò che le fiamme prendessero bene i legni dei soffitti e i mobili, e poi liberò gli animali: aprì il pollaio e le galline starnazzarono in giro, disperate; aprì la gabbia dei conigli e lo stalletto del maiale. «Così penseranno a una razzia dei togni.» Al riverbero delle fiamme che divoravano le Piane, guardò gli animali che non sapevano dove andare e correvano attorno. «Quanta grazia di dio dispersa.» Si avviò verso il bosco. Sull'erba, vicino alla cisterna, il riverbero dell'incendio faceva luccicare il fondello di una cartuccia inesplosa della doppietta calibro dodici, uscita dalle tasche di Italo Bernardi. Prima che le Piane sparissero dalla sua vista, dietro la curva, l'uomo dal mitra si fermò di colpo e si girò. Borbottò: «Accidenti, il biglietto del Patriarca!». Fece per tornare indietro, ma si fermò. «Da qui a quando li troveranno, l'acqua della cisterna avrà fatto sparire l'inchiostro. E anche se riusciranno a leggerlo, il mio nome non c'è. Tutt'al più troveranno quello di Roberto Cortesi» e lo fece sorridere l'idea che il vecchio Patriarca si fosse preoccupato che una buona quota del ricavato dalla vendita del pepe andasse al suo figlio illegittimo. Gli tornò in mente la frase scritta sul biglietto: "Ricordati la promessa che mi hai fatto di aiutare Roberto, il figlio della Gialdiffa. Per questo, quando l'affare sarà concluso, mi farai anche il favore di consegnare a Roberto la cifra che ti darò...". L'ultima occhiata al falò e riprese la strada per il caniccio d'Edgarda. Ci sarebbe arrivato prima che Bob tornasse dall'incontro con la sua innamorata.
1960, antivigilia di Natale, in un luogo qualunque della montagna La Firma Sotto La Confessione Il maresciallo Amadori e il maresciallo Santovito hanno aspettato, in silenzio e fumando il sigaro, che terminasse la lettura del verbale. Adesso è Santovito che si alza e porge la biro. Dice: «Hai letto con comodo... Firma qua: nome, cognome e nome di battaglia.» Continua a porgere la biro. Impaziente, batte l'indice della sinistra sul foglio, nel punto esatto dove va firmata la confessione. Niente. «Qualcosa non torna?» chiede. Nessuna reazione. Poi, senza rispondere alla domanda, il titolare della confessione guarda il maresciallo. Aspetta ancora. Scuote il capo, prende la biro, la tiene sospesa a mezz'aria, come se un qualche ripensamento lo tormentasse. Finalmente la posa sul foglio, subito dopo le ultime parole scritte che sono: ... letto, confermato e sottoscritto. In fede. e accompagna la sfera tracciare, lenta ma sicura: Egidio Olmi, detto Autiere Guarda la firma, sta per riconsegnare la biro al maresciallo, ci ripensa e, sotto la firma, aggiunge, in bel carattere da dipendente dell'anagrafe: Il Sindaco.
RINGRAZIAMENTI Gli autori ringraziano la signora Patrizia Pastore per le ricerche; per la consulenza ringraziano Francesco Berti Arnoaldi Veli (classe 1926, partigiano Checco, brigata Giustizia e Libertà), Dino Cipollani (classe 1924, capitano Marco, formazione garibaldina) ed Egidio Errani (classe 1921, comandante Gim, 28a brigata Garibaldi "Mario Gordini").
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