ROBERT McCAMMON TENEBRE (Swan Song, 1987) Per Sally, il cui viso interiore è bello quanto il viso esteriore. Siamo sopra...
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ROBERT McCAMMON TENEBRE (Swan Song, 1987) Per Sally, il cui viso interiore è bello quanto il viso esteriore. Siamo sopravvissuti alla cometa! Libro primo UNO: il punto dal quale non si torna indietro C'era una volta / Sister Creep / Frankenstein Nero / Scherzo di natura / Cavaliere del Re 1 16 luglio 22,27 - ora legale della Costa orientale Washington, D.C. C'era una volta una relazione amorosa fra noi e il fuoco, pensò il presidente degli Stati Uniti, accostando al fornello della pipa il fiammifero appena acceso. Fissò la capocchia ardente, ipnotizzato dal colore... e mentre la fiammella avvampava, ebbe la visione di un'altissima torre di fuoco che vorticava per il suo amato paese, incendiava città e villaggi, mutava in vapore i corsi d'acqua, passava a grande velocità fra le rovine del cuore agricolo della nazione, scagliava nel cielo nero le ceneri di settanta milioni d'esseri umani. Osservò, inorridito, la fiammella strisciare lungo il fiammifero e capì che lì, in scala minuscola, c'era il potere di creare e di distruggere: un potere che cuoceva il cibo, illuminava le tenebre, fondeva il ferro, bruciava la carne umana. Una sorta di piccolo occhio scarlatto dallo sguardo fisso si aprì al centro della fiammella; il presidente ebbe voglia di urlare. Si era svegliato alle due del mattino, sconvolto dall'incubo dell'olocausto; aveva cominciato a piangere e non riusciva a smetterla; la First Lady aveva provato a calmarlo, ma lui aveva continuato a tremare e a singhiozzare come un bambino. Era rimasto nello Studio Ovale fino all'alba, a esaminare le
carte topografiche e i rapporti segretissimi. Dicevano tutti la stessa cosa: Primo attacco. La fiammella gli bruciò le dita. Il presidente spense il fiammifero e lo lasciò cadere nel posacenere con il sigillo in rilievo, posto davanti a lui. Il sottile filo di fumo si arricciò verso il foro dell'impianto di filtraggio d'aria. «Signore?» disse una voce. Il presidente sollevò lo sguardo: un gruppo d'estranei sedeva con lui nella sala operativa; lo schermo del computer mostrava, ad alta risoluzione, la mappa del mondo; la schiera di telefoni e di televisori formava un semicerchio come nell'abitacolo di un caccia a reazione. Desiderò ardentemente che un altro sedesse al suo posto, desiderò di essere ancora un semplice senatore all'oscuro della verità. «Signore?» Si passò la mano sulla fronte. Aveva la pelle appiccicaticcia. Proprio il momento migliore per beccarsi l'influenza, pensò. Mancò poco che si mettesse a ridere, tanto il pensiero era assurdo. Il presidente non si ammala, si disse, perché un presidente è sempre in buona salute. Cercò di scoprire quale fra gli uomini seduti al tavolo ovale gli avesse rivolto la parola. Tutti guardavano lui: il vicepresidente, nervoso e sornione; l'ammiraglio Narramore, dritto come un fuso nell'uniforme piena di decorazioni; il generale Sinclair, irascibile e attento, con il viso profondamente segnato e occhi simili a pezzetti di vetro azzurro; Hannan, segretario alla Difesa, con l'aspetto da nonnetto bonario, chiamato però "Hans il duro" sia dalla stampa sia dai collaboratori; il generale Chivington, massimo esperto di cose militari sovietiche; il capo di stato maggiore Bergholz, capelli a spazzola, impeccabile nel solito completo blu scuro a righine; altri ufficiali delle forze armate e vari consiglieri. «Sì?» rispose il presidente, rivolto a Bergholz. Hannan bevve un sorso d'acqua. «Signore, le domandavo se desidera che continui a leggere» disse. Batté il dito sulla pagina del rapporto. «Ah.» La pipa è spenta, pensò il presidente; non l'avevo appena accesa? Guardò nel portacenere il fiammifero bruciato, senza riuscire a ricordare se ce l'aveva messo lui. Per un attimo gli venne in mente la faccia di John Wayne, nella scena di un vecchio film in bianco e nero visto da ragazzo: il Duca diceva qualcosa a proposito del punto dal quale non si torna indietro. «Sì» rispose. «Continui pure.» Hannan lanciò una rapida occhiata agli altri. Ciascuno aveva davanti a sé una copia del rapporto, insieme con un fascio di rapporti segretissimi appena giunti dai centri di trasmissione della NORAD e del SAC. «Meno di
tre ore fa» riprese Hannan «l'ultimo nostro satellite SKY EYE ancora attivo è stato accecato mentre prendeva posizione sopra Chatyrka, in Russia. Abbiamo perso sensori ottici e telecamere; ancora una volta, come nel caso degli altri sei SKY EYE, pensiamo che il satellite sia stato distrutto da un laser operante da terra, nelle vicinanze di Magadan. Venti minuti dopo l'accecamento di SKY EYE 7, abbiamo usato il nostro laser Malmstrom AFB per accecare un satellite da ricognizione sovietico che passava sopra il Canada. Secondo i nostri calcoli, i russi dispongono ancora di due satelliti spia, che al momento attuale si trovano uno sopra il Pacifico settentrionale, l'altro sopra la frontiera Iran-Iraq. La NASA cerca di rimettere in funzione gli SKY EYE 2 e 3, ma gli altri ormai sono semplice immondizia spaziale. Ciò significa, signore, che, circa tre ore fa, ora locale...» Hannan lanciò un'occhiata all'orologio digitale sulla parete grigia della sala operativa «siamo diventati ciechi. Le ultime foto sono state scattate alle 18,30 sopra Jelgava.» Azionò un interruttore sulla console davanti a lui e disse: «Ricognizione SKY EYE 7-16, per favore». Il computer impiegò tre secondi per trovare i dati richiesti. Sull'am pio schermo a parete, la carta geografica del mondo lasciò il posto a una fotografia scattata da un satellite d'alta quota, che mostrava la distesa di una fitta foresta sovietica. Al centro della foto c'era un gruppo di puntini collegati da sottili linee di strade. «Ingrandimento dodici» disse Hannan; la foto si riflette sulle lenti degli occhiali dalla montatura di corno. Le centinaia di silos per missili balistici intercontinentali divennero nitide come se lo schermo murale della sala operativa fosse una finestra spalancata. Autocarri percorrevano le strade; le ruote sollevavano nuvole di polvere; erano visibili perfino alcuni soldati, nei pressi dei bunker di cemento della base missilistica e nelle vicinanze delle antenne radar paraboliche. «Come può vedere» continuò Hannan, con il tono calmo e lievemente distaccato della sua precedente professione, ossia insegnamento di storia ed economia militari a Yale «i russi si preparano. Secondo me, portano lì altre apparecchiature radar e armano le testate. Solo in quella base si contano 263 silos in grado di contenere più di seicento testate esplosive. Due minuti dopo avere scattato la foto, lo SKY EYE è stato accecato. Ma la foto conferma quel che già sappiamo: i sovietici sono passati a un grado d'allerta superiore e non vogliono che vediamo le nuove attrezzature in arrivo alla base. A questo punto interviene il rapporto del generale Chivington. Generale?» Chivington, imitato dagli altri, strappò il sigillo della cartellina verde che
aveva davanti a sé: dentro c'erano pagine di documenti, grafici, diagrammi. «Signori» attaccò con voce stridula «negli ultimi nove mesi, la macchina da guerra sovietica si è mobilitata all'ottantacinque per cento della sua potenzialità. Non occorre che vi ricordi PAfganistan, il Sud America, il golfo Persico; ma gradirei sottoporre alla vostra attenzione il documento contrassegnato Sei Sei Tre Tre. Questo diagramma mostra la quantità di rifornimenti incanalati nel sistema sovietico di difesa civile; è superfluo sottolineare quanto il grafico si sia alzato negli ultimi due mesi. Secondo le nostre fonti sovietiche, più del quaranta per cento della popolazione urbana è stato allontanato dalle città o alloggiato in rifugi antiradiazione...» Mentre Chivington parlava della difesa civile sovietica, con il pensiero il presidente tornò indietro di otto mesi, agli orribili ultimi giorni dell'Afganistan e all'impiego bellico di gas nervini e di atomiche tattiche. Una settimana dopo la caduta dell'Afganistan, un ordigno nucleare di dodici kiloton e mezzo era esploso in un condominio di Beirut, mutando quella travagliata città in un paesaggio lunare di macerie radioattive. Quasi metà popolazione era morta sul colpo. Una pletora di gruppi terroristici aveva rivendicato l'esplosione e promesso altri fulmini di Allah. Lo scoppio di quell'ordigno aveva spalancato un vaso di Pandora zeppo d'orrori. Il 14 marzo, l'India aveva attaccato con armi chimiche il Pakistan. Il Pakistan aveva reagito con un attacco missilistico contro la città di Jaipur. Tre missili nucleari indiani avevano raso al suolo Karachi. La guerra si era arenata nelle terre desolate del deserto di Thar. Il 2 aprile, l'Iran aveva scatenato sull'Iraq una pioggia di missili nucleari di fornitura sovietica; nel tentativo di ostacolare l'avanzata iraniana, le forze armate americane erano state risucchiate dal gorgo della guerra. Caccia a reazione sovietici e americani si erano dati battaglia nei cieli del golfo Persico: l'intera regione era pronta a saltare in aria. Guerre di frontiera si erano estese nel Nord Africa e nel Sud Africa. Nazioni piccolissime svuotavano le casse dello stato per comprare da intermediari armi chimiche e nucleari. Le alleanze cambiavano da un giorno all'altro, grazie alle pressioni militari o ai proiettili di tiratori scelti. Il 4 maggio, a meno di dodici miglia al largo di Key West, un pilota americano dal grilletto facile, a bordo di un caccia F-18, aveva lanciato un missile aria-terra contro la fiancata di un sommergibile russo in avaria. Dalla base di Cuba, i Flogger erano giunti sibilando ad abbattere quell'aereo e altri due di una squadriglia di rinforzo.
Nove giorni più tardi, un sommergibile sovietico e uno americano, mentre nell'Artico giocavano a gatto e topo, erano entrati in collisione. Due giorni dopo, i radar della sorveglianza canadese a lunga distanza avevano intercettato i blip di venti velivoli in arrivo. Tutte le basi aeree militari degli Stati Uniti occidentali erano passate all'allarme rosso, ma gli invasori avevano fatto dietro front ed erano fuggiti prima di stabilire il contatto. Il 16 maggio, tutte le basi aeree americane erano passate alla condizione di difesa Defcon One; nel giro di due ore, i sovietici avevano effettuato una mossa analoga. Quello stesso giorno, ad aumentare la tensione aveva provveduto lo scoppio di un ordigno nucleare nello stabilimento FIAT di Torino, in Italia; l'atto terroristico era stato rivendicato dal gruppo comunista Stella Rossa per la Libertà. In maggio e in giugno, nell'Atlantico e nel Pacifico settentrionali si erano susseguiti incidenti fra navi, sommergibili e aerei. Le basi aeree americane erano passate alla Defcon Two, quando un incrociatore era esploso e affondato per cause sconosciute a trenta miglia marine al largo della costa dell'Oregon. Gli avvistamenti di sommergibili sovietici in acque territoriali americane erano aumentati drammaticamente; sommergibili americani furono inviati a mettere alla prova le difese russe. Prima di essere accecati dai laser, i satelliti SKY EYE avevano registrato l'attività delle installazioni UCBM sovietiche e il presidente aveva capito che i russi avevano visto le manovre nelle basi navali americane, prima che fossero messi fuori uso anche i satelliti spia sovietici. Il 13 giugno dell'"Estate nera", come ormai la chiamavano i giornali, una nave da crociera, la Tropic Panorama, che portava settecento passeggeri dalle Hawaii a San Francisco, aveva comunicato via radio d'essere seguita furtivamente da un sommergibile non identificato. Era stato l'ultimo messaggio della Tropic Panorama. Da quel giorno, mezzi navali americani avevano pattugliato il Pacifico, con missili nucleari innescati e pronti all'uso. Il presidente ricordò un film, Prigionieri del cielo, che parlava di un aereo in avaria sul punto di precipitare. Il pilota era John Wayne; e il Duca aveva parlato all'equipaggio del punto dal quale non si torna indietro: una linea, superata la quale l'aereo non poteva fare ritorno, ma doveva procedere indipendentemente dai risultati. Negli ultimi tempi, il presidente era stato turbato molto spesso da quel pensiero: aveva sognato d'essere al comando di un aereo in avaria, in volo sopra un oceano buio e minaccioso, e di cercare le luci della terraferma. Ma i comandi non funzionavano e l'aereo
continuava a perdere quota, mentre le urla dei passeggeri s'alzavano. Voglio tornare a essere bambino, pensò il presidente, mentre tutti, intorno al tavolo, lo guardavano; buon Dio, non voglio reggere io i comandi! Il generale Chivington terminò il rapporto. Il presidente disse: «Grazie», anche se non aveva ascoltato. Sentì su di sé lo sguardo di tutti: aspettavano che parlasse, che si muovesse, che facesse qualcosa. Il presidente — capelli scuri, lineamenti virili — aveva passato da un pezzo la quarantina; era stato pilota anche lui, aveva guidato per la NASA la navetta spaziale Olympian ed era stato uno dei primi a muoversi nello spazio mediante razzi direzionali. Nel contemplare il globo terrestre striato di nubi, si era commosso fino alle lacrime; la sua drammatica frase: «Credo di sapere come Dio si senta, Houston» l'aveva aiutato più di ogni altra cosa, nella corsa alla presidenza. Ma aveva ereditato gli errori di generazioni di presidenti ed era stato ridicolmente ingenuo nel valutare le condizioni mondiali alla vigilia del ventunesimo secolo. L'economia, dopo una rinascita a metà degli anni Ottanta, era sfuggita al controllo. Il tasso di criminalità era sconcertante, le carceri erano mattatoi affollati. Centinaia di migliaia di individui senza casa — "la marmaglia nazionale", li aveva definiti il New York Times — giravano per le strade d'America, incapaci di difendersi o di far fronte alle pressioni di un mondo scatenato. Il programma militare "Guerre stellari", costato miliardi di dollari, si era dimostrato disastroso, perché troppo tardi si era capito che le macchine sono solo in grado di eseguire istruzioni umane e la complessità delle piattaforme orbitali sbalordiva la mente e sballava i preventivi. I mercanti d'armi avevano fornito alle nazioni del Terzo Mondo una rozza e instabile tecnologia nucleare e avevano spinto i leader rabbiosi e assetati di potere nell'attraente e precaria arena mondiale. Bombe da dodici kiloton, circa la potenza dell'ordigno che aveva distrutto Hiroshima, erano adesso comuni quanto le bombe a mano e potevano essere trasportate in una ventiquattrore. L'inverno precedente, le nuove rivolte popolari in Polonia e i combattimenti nella vie di Varsavia avevano gelato i rapporti russoamericani ben al di sotto dello zero; subito dopo, il fallito tentativo d'assassinare i leader del movimento di liberazione polacco aveva coperto d'infamia la CIA. Siamo vicinissimi a raggiungere il punto dal quale non si torna indietro, pensò il presidente. E provò l'orribile impulso di mettersi a ridere, ma si concentrò per tenere serrate le labbra. Era alle prese con una rete intricata
di rapporti e di analisi che portava a una terrificante conclusione: l'Unione Sovietica preparava il primo attacco che avrebbe distrutto completamente gli Stati Uniti d'America. «Signore?» Hannan ruppe il silenzio carico di disagio. «Il prossimo rapporto è dell'ammiraglio Narramore. Prego, ammiraglio.» Ognuno strappò i sigilli di un'altra cartellina. L'ammiraglio Narramore, magrissimo e nerboruto, sui sessantacinque, iniziò a leggere il rapporto segreto: «Alle 19,12, elicotteri da ricognizione inglesi del cacciatorpediniere lanciamissili Fife hanno lanciato boe sonar e accertato la presenza di sei sommergibili non identificati a 73 miglia a nord delle Bermude, rotta tre zero zero. Se questi sommergibili si dirigono verso la costa nordoccidentale, ormai sono a tiro di New York City, di Newport News, delle basi aeree della costa orientale, della Casa Bianca e del Pentagono.» L'ammiraglio aveva occhi grigio fumo, sopracciglia folte e canute. Guardò con insistenza, dall'altra parte del tavolo, il presidente. La sala riunione si trovava quindici metri sotto la Casa Bianca. «Se gli inglesi ne hanno scoperti sei» continuò «là fuori gli Ivan ne hanno di sicuro almeno il triplo. In un periodo di tempo compreso tra cinque e nove minuti dall'ordine di lancio, possono scagliare diverse centinaia di testate.» Girò pagina. «Un'ora fa, i dodici sommergibili sovietici classe Delta II stazionati a 260 miglia a nordovest di San Francisco mantenevano la posizione.» Il presidente si sentì confuso, come se sognasse a occhi aperti. Pensa, si disse; maledizione, pensa! «Dove si trovano i nostri sommergibili?» domandò. Alle sue stesse orecchie la voce parve quella di un estraneo. Narràmore chiese al computer di far comparire sullo schermo a parete un'altra carta geografica: mostrava una fila di puntini di luce intermittente, circa duecento miglia a nordest del porto russo di Murmansk. Una seconda carta geografica mostrò il mar Baltico e un altro spiegamento di sommerigibili nucleari a est di Riga. Una terza carta mostrò la costa orientale sovietica e la posizione di una fila di sommergibili nel mar di Bering, fra l'Alaska e l'entroterra sovietico. «Stringiamo gli Ivan in un cerchio di ferro» disse Narràmore. «Dia l'ordine, e affonderemo qualsiasi cosa cerchi di spezzarlo.» «Mi sembra che il quadro sia abbastanza chiaro» disse Hannan, con voce bassa e ferma. «Dobbiamo costringere i sovietici a fare marcia indietro.» Il presidente rimase in silenzio. Cercò di mettere insieme pensieri logici. Aveva le mani sudate. «E se... se non intendessero attaccare per primi? Se
credessero che vogliamo farlo noi? Uno spiegamento di forze non li spingerebbe a mosse avventate?» Hannan aprì un portasigarette d'argento, si accese una sigaretta. Gli occhi del presidente furono di nuovo attratti dalla fiamma. «Signore» rispose Hannan a bassa voce, come se parlasse a un bambino ritardato «i sovietici non rispettano niente, tranne la forza. Lo sa lei, lo sanno tutti i presenti... in special modo dopo l'incidente del golfo Persico. I russi vogliono territori nuovi, sono pronti a distruggerci e a pagare la loro quota di vittime pur di riuscirci. Diamine, la loro economia va peggio della nostra! Continueranno a fare pressione su di noi, finché non cederemo o non colpiremo... e se a furia di gingillarci finiremo per cedere, Dio ci aiuti.» «No.» Il presidente aveva già discusso la faccenda molte volte; la sola idea gli dava la nausea. «No, non attaccheremo mai per primi!» «I russi» continuò pazientemente Hannan «capiscono solo la diplomazia del pugno. Non dico che dobbiamo distruggere l'Unione Sovietica. Ma sono profondamente convinto che sia giunto il momento di dire loro, senza mezzi termini, che non ci lasceremo pestare i piedi e che non permetteremo ai loro sommergibili nucleari di starsene tranquilli al largo delle nostre coste in attesa dei codici di lancio!» Il presidente si fissò le mani. Gli parve che la cravatta gli serrasse il collo con la forza del cappio del carnefice; sudava sotto le ascelle, lungo la schiena. «Ciò significa?» disse. «Significa intercettare immediatamente quei maledetti sommergibili. E distruggerli, se non se ne vanno. Passare alla Defcon Three, in tutte le basi aeree e in tutte le installazioni ICBM.» Hannan diede una rapida occhiata ai presenti, per vedere chi approvava. Solo il vicepresidente distolse lo sguardo, ma Hannan sapeva che quello lì era un debole e che la sua opinione non aveva alcun peso. «Intercettiamo ogni vascello nucleare sovietico che lasci Riga, Murmansk o Vladivostok. Ci riprendiamo il controllo del mare... e se ciò significa contatto nucleare circoscritto, pazienza.» «Blocco marittimo» disse il presidente. «Non li renderebbe più ansiosi di combattere?» «Signore?» intervenne il generale Sinclair, con la parlata popolaresca e strascicata della natia Virginia. «Secondo me il ragionamento va fatto in questo modo. Gli Ivan devono convincersi che rischieremo il culo pur di ricacciarli all'inferno. E per essere onesti, signore, non credo che qui ci sia un solo uomo che voglia starsene fermo ad aspettare che gli Ivan ci gettino addosso palate di SLBM, senza restituire pan per focaccia. Indipendente-
mente dal tributo in vite umane.» Si sporse, fissando con occhi penetranti il presidente. «Posso mettere in Defcon Three il SAC e la NORAD entro due minuti dalla sua approvazione. Entro un'ora, posso inviare una squadriglia di B-1 nel cortile di casa degli Ivan. Solo per dare loro una spintarella, capisce?» «Ma... penseranno che li attacchiamo!» «Capiranno che non abbiamo paura, questo è il punto.» Hannan batté la sigaretta sul portacenere. «Se è una pazzia, bene. Ma, perdio, i russi rispettano la pazzia più della paura! Se permettiamo senza alzare un dito che portino missili nucleari a un passo dalle nostre coste, firmiamo il mandato di morte degli Stati Uniti d'America!» Il presidente chiuse gli occhi. Li riaprì di scatto: aveva visto città in fiamme e cose carbonizzate che erano state esseri umani. Con uno sforzo, disse: «Non... non voglio essere l'uomo che scatena la terza guerra mondiale. Lo capite?» «È già stata scatenata» replicò Sinclair. «Diavolo, l'intero maledetto mondo è in guerra, tutti aspettano che gli Ivan o noi tirino il colpo del k.o. Forse il futuro del mondo dipende da chi è disposto a essere il più pazzo! Sono d'accordo con Hans: se non facciamo subito una mossa, sul nostro tetto di latta cadrà una pioggia di quelle grosse.» «Faranno marcia indietro» disse Narràmore, in tono reciso. «Come in precedenti occasioni. Se mettiamo in azione un gruppo di navi per la ricerca e la caccia di sommergibili e facciamo saltare i sottomarini sovietici, i russi capiranno dove abbiamo tracciato la linea. Allora, ce ne stiamo ad aspettare o mostriamo i muscoli?» «Signore?» Hannan pungolò il presidente. Diede un'altra occhiata all'orologio, che segnava le 22,58. «Credo che la decisione spetti a lei, adesso.» «Non la voglio!» gridò quasi il presidente. Aveva bisogno di prendere tempo, di andare a Camp David o a una di quelle lunghe battute di pesca che tanto apprezzava quand'era senatore. Ma ormai non c'era più tempo. Tenne davanti a sé le mani strette a pugno. Aveva il viso tesissimo: per un attimo pensò che gli si sarebbe frantumato come una maschera... e non voleva vedere che cosa c'era sotto. Quando sollevò lo sguardo, quegli uomini potenti e vigili erano ancora lì e gli parve di essere sul punto di perdere i sensi. La decisione. Bisognava prendere la decisione. Subito. «Sì.» L'affermazione non aveva mai avuto un suono così orribile, in precedenza. «D'accordo. Passiamo...» Esitò, respirò a fondo. «Passiamo a De-
fcon Three. Ammiraglio, metta in stato d'allerta la task force. Generale, non voglio che quei B-1 sorvolino un solo centimetro di suolo sovietico, chiaro?» «I miei equipaggi potrebbero varcare quella linea a occhi chiusi.» «Batta i codici.» Sinclair si dedicò subito alla tastiera che aveva davanti; poi parlò al telefono per dare l'autorizzazione a voce al SAC, il Comando Strategico dell'Aviazione di stanza a Omaha, e alla sede della NORAD, la Difesa Aerea Nord Americana, una fortezza situata nelle viscere di monte Cheyenne, nel Colorado. L'ammiraglio Narramore prese il telefono che all'istante lo metteva in contatto con la sala Operazioni Navali, al Pentagono. Nel giro di qualche minuto, in tutta la nazione ci sarebbe stato un aumento d'attività nelle basi della marina e dell'aviazione. I codici della Defcon Three avrebbero ronzato nei cavi; ci sarebbe stato un ulteriore controllo di attrezzature radar, sensori, monitor, computer e centinaia d'impianti militari ad alto contenuto tecnologico, nonché delle decine di missili Cruise e delle migliaia di testate nucleari nascoste nei silos disseminati in tutto il Midwest, dal Montana al Kansas. Il presidente si sentì intorpidito. La decisione era presa. Il capo di stato maggiore Bergholz sospese la seduta e si avvicinò a stringere la spalla al presidente per dirgli quanto fosse valida la decisione. Mentre i consiglieri militari e gli ufficiali lasciavano la sala operativa e si dirigevano all'ascensore nel corridoio esterno, il presidente rimase seduto da solo. La pipa era fredda, ma lui non si prese la briga di riaccenderla. «Signore?» Il presidente trasalì. Si girò dalla parte della voce. Hannan era fermo sulla soglia. «Si sente bene?» «A-OK» rispose. Per un attimo gli era tornato in mente il gergo dei suoi giorni gloriosi d'astronauta. Sorrise debolmente. «No. Cristo, non so. Credo di sì.» «Ha preso la decisione giusta. Lo sappiamo, lei e io. I russi devono capire che non abbiamo paura.» «Ma io ho paura, Hans! Una paura maledetta.» «Anch'io. Anche tutti gli altri. Ma non dobbiamo lasciarci dominare dalla paura.» Si accostò al tavolo, sfogliò le pagine di alcune cartelline. Fra qualche minuto, un giovane funzionario della CIA sarebbe entrato a distruggere quei documenti. «Ritengo che sia meglio mandare Julianne e Cory nello Scantinato... stanotte stessa, appena avranno fatto i bagagli. Troveremo una spiegazione per la stampa.»
Il presidente annuì. Lo Scantinato era un rifugio sotterraneo nel Delaware, dove la First Lady, il figlio diciassettenne del presidente, alcuni importanti membri di gabinetto e ufficiali di stato maggiore sarebbero stati al sicuro — ci si augurava — da tutto, tranne il colpo diretto di una testata nucleare da un megaton. Da quando, alcuni anni prima, erano filtrate al pubblico indiscrezioni sullo Scantinato da poco costruito, analoghi rifugi sotterranei erano cominciati a comparire in tutto il paese, alcuni scavati in vecchie miniere, altri sotto le montagne. Il giro d'affari connesso ai "survivalisti" fioriva come non mai. «Resta da discutere un ultimo argomento» disse Hannan. Nei suoi occhiali il presidente vide riflessa l'immagine del proprio viso stanco e degli occhi cerchiati di nero. «Artigli.» «Non è ancora il momento.» Il presidente aveva sentito un gelo allo stomaco. «Non ancora.» «Sì. È il momento giusto. Ritengo che lei sia più al sicuro a bordo dell'Aereo di Comando. Il tetto della Casa Bianca sarà certamente uno dei primi bersagli. Manderò Paula allo Scantinato. Lei ha l'autorità di mandarvi chi vuole, ma a me piacerebbe stare con lei nell'Aereo, se è possibile.» «Sì. Naturalmente. Starà con me.» «E a bordo» continuò Hannan «ci sarà un ufficiale dell'aviazione, con una valigetta assicurata al polso. Ricorda i codici?» «Certo.» Quei particolari codici erano una delle prime cose che aveva imparato a memoria, appena assunta la presidenza. Per la tensione, si sentì stringere la nuca da un cerchio di ferro. «Ma... ma non dovrò usarli, vero, Hans?» disse, in tono quasi supplichevole. «Con ogni probabilità, no. Ma se dovesse usarli... se, ripeto... allora ricordi che a quel punto l'America che amiamo sarà ormai morta. Nessun invasore ha mai messo, né metterà mai, piede sul suolo americano.» Allungò la mano a stringere in un gesto paterno la spalla del presidente. «Giusto?» «Il punto dal quale non si torna indietro» disse il presidente con sguardo velato e remoto. «Prego?» «Stiamo per superare il punto dal quale non si torna indietro. Forse l'abbiamo già superato. Forse è troppo tardi per tornare sui nostri passi. Dio ci aiuti, Hans. Combattiamo nel buio e non sappiamo dove diavolo andiamo.» «Lo scopriremo quando ci saremo arrivati. Come abbiamo sempre fat-
to.» «Hans?» La voce del presidente era sommessa come quella d'un bambino. «Se... se lei fosse Dio... distruggerebbe questo mondo?» Per un istante Hannan non rispose. Poi disse: «Credo che... che me ne starei a guardare. Se fossi Dio, intendo.» «A guardare cosa?» «Chi vince. I buoni, o i cattivi.» «Ormai c'è differenza?» Hannan esitò. Aprì bocca per rispondere, capì che non poteva. «Chiamo l'ascensore» disse. E uscì dalla sala operativa. Il presidente rilasciò le mani intrecciate. Le luci del soffitto brillarono sui polsini con il sigillo presidenziale in rilievo, che lui portava sempre. «Sono A-OK, sto benissimo» si disse. «Tutto funziona alla perfezione.» Dentro di lui, qualcosa si ruppe. Il presidente quasi scoppiò in lacrime. Voleva andare a casa, ma la casa era lontanissima dalla poltrona presidenziale. «Signore?» chiamò Hannan. Con movimenti lenti e rigidi da vecchio, il presidente si alzò e uscì ad affrontare il futuro. 2 23,19 - ora legale della Costa orientale New York City Whack! Qualcuno diede un calcio alla grossa scatola; la donna che vi era rannicchiata si mosse e strinse più forte la sacca di tela. Era stanca, voleva riposare. Una ragazza ha bisogno del primo sonno, pensò; e richiuse gli occhi. «Esci di lì, t'ho detto!» Mani rudi l'afferrarono per le caviglie e la trascinarono senza complimenti sul marciapiede. La donna mandò un grido d'indignazione e si mise a scalciare selvaggiamente. «Bastardo figlio di puttana lasciami in pace bastardo!» «Merda, guarda!» disse una delle due figure in piedi davanti a lei, stagliate contro il neon rosso dell'insegna di una rosticceria vietnamita sul lato opposto della Trentaseiesima Ovest. «È una donna!»
L'altro, che l'aveva afferrata per le caviglie poco sopra le luride scarpe di tela e l'aveva trascinata fuori, brontolò con voce più profonda e più cattiva: «Donna o no, ora la prendo a calci in culo.» Lei s'alzò a sedere, stringendosi al petto la borsa di tela con i suoi averi terreni. La luce rossa del neon metteva in risalto la mascella robusta, nel viso rigato dallo sporco della strada. Gli occhi di un celeste slavato, sprofondati nelle orbite cerchiate di viola, mandavano lampi di paura e di rabbia. La donna portava un berretto azzurro trovato il giorno prima in un sacco d'immondizia squarciato. Indossava una camicetta stampata, a maniche corte, grigio sporco e un paio di calzoni da uomo, con le borse e le toppe alle ginocchia. Era robusta, bene in carne; stomaco e fianchi tendevano la stoffa ruvida dei calzoni; gli abiti e la sacca da viaggio, di tela, li aveva avuti da un gentile funzionario dell'Esercito della salvezza. Sotto il berretto, i capelli castani striati di grigio le scendevano arruffati fino alla spalla, accorciati qua e là a colpi di forbice. Nella sacca erano ammassate alla rinfusa svariate cose: un rocchetto di lenza; uno sbrindellato maglione color arancio vivo; un paio di stivali da cowboy, con i tacchi rotti; un vassoio da mensa, ammaccato; bicchieri di carta e posate di plastica; una copia di Cosmopolitan vecchia d'un anno; un pezzo di catena; alcuni pacchetti di gomma da masticare Juicy Fruit; e altri oggetti, di cui anche lei si era dimenticata, sepolti in fondo alla borsa. Mentre i due uomini la fissavano — uno, con propositi minacciosi — la donna strinse più forte la sacca. Aveva gonfiori e lividi all'occhio e allo zigomo sinistri e un dolore alle costole: tre giorni prima, una collega l'aveva spinta giù dalle scale, al dormitorio; lei si era rialzata, era risalita e le aveva rifilato una sventola di destro che le aveva fatto saltare due denti. «Sei dentro la mia scatola» disse l'uomo dalla voce profonda. Alto e magro, portava solo un paio di jeans; aveva il petto lucido di sudore, la barba, occhi pieni d'ombra. L'altro, più basso e più massiccio, portava una T-shirt macchiata di sudore e calzoni residuati dell'esercito, pieni di bruciature di sigaretta. Aveva capelli scuri e unti, continuava a grattarsi l'inguine. Con la punta dello stivale il primo diede alla donna un colpetto al fianco; lei trasalì, per il dolore alle costole. «Sei sorda, puttana? T'ho detto che sei dentro la mia scatola!» La scatola di cartone giaceva su un fianco, in mezzo al mare di sacchi che perdevano immondizia e ostruivano vie e marciapiedi di Manhattan a seguito dello sciopero degli spazzini in atto da più di due settimane. Nel calore soffocante dei trentotto gradi diurni e trentadue notturni, i sacchi di
plastica si erano gonfiati fino a scoppiare. I topi facevano festa; in alcune vie, le montagne di spazzatura abbandonata bloccavano il traffico. La donna, intontita, guardò i due uomini; aveva nello stomaco il contenuto di mezza bottiglia di Red Dagger; come ultimo pasto, aveva rosicchiato i resti d'ossa di pollo e ripulito il contenitore di una di quelle cene preconfezionate da mangiare guardando la TV. Disse: «Eh?» «La mia scatola!» le gridò sul viso l'uomo con la barba. «Il posto è mio! Sei pazza o cosa?» «Non ragiona» disse il basso. «Suonata come una campana.» «E brutta come l'inferno. Ehi, cos'hai nella borsa? Fammi vedere!» Diede uno strattone alla sacca, ma la donna, con occhi sbarrati di paura, emise un mugolio e si rifiutò di mollarla. «Hai del grano, lì dentro? Roba da bere? Dammi qua, puttana!» L'uomo riuscì quasi a strapparle la sacca, ma lei gemette e vi restò attaccata. Riflessi rossi scaturirono da un ornamento che portava al collo, un piccolo crocifisso di scarso valore appeso a una catenella di graffette colorate. «Ehi!» esclamò il basso. «La conosco. L'ho vista chiedere l'elemosina sui marciapiedi della Quarantaduesima. Si crede una maledetta santa, predica a tutti. La chiamano Sister Creep, perché a guardarla ti vengono i brividi.» «Sì? Be', forse possiamo impegnarci quel suo ciondolo, allora.» Allungò la mano per strapparle il crocifisso, ma lei si scostò, girando la testa. L'uomo l'afferrò per la nuca, ringhiò e strinse il pugno per colpirla. «Ti prego!» supplicò la donna, sul punto di piangere. «Ti prego, non farmi male! Ti darò una cosa!» Si mise a frugare nella sacca. «Tirala fuori in fretta! Dovrei spaccarti la testa perché hai dormito nella mia scatola.» L'uomo la lasciò, ma tenne pronto il pugno. Mentre cercava, lei mandò un gemito. «Era qui» borbottò. «Ce l'ho da qualche parte.» «Metti qui!» L'uomo tese il palmo. «E forse non ti prendo a calci in culo.» La donna strinse la mano intorno all'oggetto delle sue ricerche. «Trovato» disse. «Certo, l'ho trovato.» «Bene, metti qui!» «Subito» rispose la donna. Il piagnucolio era diventato voce dura come cuoio cotto al sole. La donna si mosse con gesti sciolti e rapidissimi: estrasse un rasoio, lo aprì con uno scatto del polso e calò con forza la lama sul palmo dell'uomo barbuto.
Il sangue schizzò dal taglio. L'uomo sbiancò in viso. Si afferrò il polso, contorse le labbra, lasciò uscire un urlo da sirena. Subito la donna si alzò sulle gambe tozze, resse la sacca davanti a sé come uno scudo, vibrò di nuovo la lama in un arco contro i due uomini, che nel ritrarsi si urtarono, scivolarono sul marciapiede ingombro di spazzatura e caddero per terra. Il barbuto, con la mano grondante sangue, si rialzò reggendo un pezzo di legno pieno di chiodi arrugginiti; gli occhi mandavano lampi di furia. «Ti faccio vedere io!» gridò. «Ora ti faccio vedere io!» Menò un colpo, ma lei si chinò a evitarlo e vibrò di nuovo il rasoio. Il barbuto barcollò all'indietro. Fissò, intontito, il filo di sangue che gli colava sul petto. Sister Creep non perse tempo; si girò e si mise a correre, scivolò in una chiazza di melma, riprese subito l'equilibrio, mentre le risuonavano nelle orecchie le grida dei due. «Ti prendo!» gridava il barbuto. «Ti trovo, puttana! Aspetta solo...» Lei non aspettò. Continuò a correre, schiaffeggiando con le scarpe di tela il marciapiede, finché non giunse a una barriera formata da un migliaio di sacchi pieni di spazzatura e squarciati. Vi strisciò sopra e trovò il tempo di raccogliere alcuni oggetti interessanti, come una saliera rotta e una copia bagnata del National Geographic, e di cacciarli nella borsa. Poi fu al di là della barriera, continuò a camminare, ancora con il fiato grosso e in preda al tremito. L'ho scampata per un pelo, pensò. I demoni quasi mi prendevano. Ma sia gloria a Gesù. E quando scenderà dal pianeta Giove, sul suo disco volante, io sarò là sulla riva dorata a baciargli la mano! Si fermò all'angolo fra la Trentottesima e la Settima Avenue, a prendere fiato e a guardare il traffico simile a una mandria in fuga precipitosa. La nebbiolina giallastra di vapori d'immondizia e di scarichi d'auto si muoveva come il velo di spuma sulla superficie di uno stagno. Il caldo umido assalì Sister Creep: goccioline di sudore le colarono sul viso. Aveva i vestiti umidi; rimpiangeva la mancanza di un po' di deodorante, ma aveva terminato il flacone di Secret. Guardò gli sconosciuti che l'attorniavano, con il viso livido come ferite, nel bagliore di luci al neon intermittenti. Non sapeva dove andava, non ricordava chi era. Sapeva soltanto di non potersi fermare su quell'angolo per tutta la notte; se stai lì all'aperto, aveva capito molto tempo prima, i diabolici raggi X ti martellano la testa e ti confondono il cervello. Si mise a camminare, ingobbita, a testa bassa, verso nord e il Central Park. Aveva i nervi scossi per l'esperienza con i due pagani che avevano tenta-
to di derubarla. Il peccato era ovunque! Nella terra, nell'aria, nell'acqua... solo peccato, rigoglioso, nero, malefico! E anche nel viso della gente, oh, sì! Vedevi il peccato strisciare sul viso delle persone, velare gli occhi, distorcere le labbra. Il mondo e i demoni rendevano pazza la gente innocente. Mai prima d'ora i demoni erano così impegnati, né così avidi d'anime innocenti. Pensò al luogo magico, lontano nella Quinta Avenue: la ruga dura e preoccupata s'ammorbidi. Andava spesso in quel luogo, a guardare le magnifiche cose nelle vetrine; i delicati oggetti esposti avevano il potere di consolare la sua anima. Anche se la guardia alla porta non la lasciava passare, lei era contenta di stare fuori a guardare. Una volta in vetrina era esposto un angelo di vetro... una figura energica: i lunghi capelli tirati all'indietro sembravano un sacro fuoco scintillante; le ali del corpo forte e snello erano sul punto di schiudersi. E nel bellissimo viso dell'angelo gli occhi brillavano di meravigliose luci multicolori. Sister Creep era andata a guardare quell'angelo ogni giorno, per un mese, finché non l'avevano sostituito con una balena di vetro che balzava da un tempestoso mare verdazzurro. Naturalmente nella Quinta Avenue c'erano altri luoghi pieni di tesori, e lei ne conosceva il nome... Saks, Fortunoff's, Cartier, Gucci, Tiffany; ma era attratta dalle sculture in vetro esposte da Steuben, il luogo magico di sogni che calmavano l'anima, dove il serico velo di vetro lucido sotto le luci soffuse le faceva pensare quanto sarebbe stato bello il Paradiso. Un urto la riportò alla realtà. Batté le palpebre nella calda luce dei neon. Lì vicino un'insegna proclamava: Ragazze! Ragazze vive!... come se gli uomini ne volessero anche di morte. E una grande insegna cinematografica annunciava: Nato duro. Da ogni nicchia, da ogni vano di porta, pulsavano insegne luminose: Riviste pornografiche! Accessori sessuali! Armi per arti marziali! Da un bar proveniva musica rumorosa; altri ritmi discordi di tamburo scaturivano da altoparlanti posti sopra librerie, bar, locali di spogliarello, cinema porno. Alle undici e mezzo di sera, la Quarantaduesima, quasi all'altezza di Times Square, era un campionario d'umanità. Un ragazzo d'origine spagnola, accanto a Sister Creep, alzò le mani e gridò: «Coca! Pillole! Crack! Proprio qui!» Poco lontano, uno spacciatore rivale scostò i lembi della giacchetta per mostrare le bustine di plastica e gridò: «Ti manda dritto in paradiso e costa poco, poco, poco!» Altri spacciatori lanciavano richiami alle auto che percorrevano lentamente la Quarantaduesima. Ragazze in prendisole, jeans, hot pants o calzoni di pelle, ciondolavano davanti alla porta dei negozi di riviste porno e
dei cinema a luce rossa, oppure invitavano gli automobilisti a fermarsi; e alcuni si fermavano. Sister Creep guardò le ragazzine portate via nella notte da sconosciuti. Il frastuono era assordante; dall'altra parte della via, davanti a un peep shop, un porno-spioncino a gettone, due giovani negri facevano a botte sul marciapiede, circondati da altri che ridevano e li incitavano a picchiarsi più forte. Nell'aria aleggiava l'aroma dolciastro dell'erba, l'incenso dell'evasione. «Coltelli a serramanico!» gridò un altro venditore ambulante. Sister Creep si mosse, con rapide e caute occhiate avanti e indietro. Conosceva quella strada, quel covo di demoni; varie volte era venuta lì a predicare. Ma le prediche non davano risultato, la voce era sommersa dal frastuono della musica e dalle grida di gente con qualcosa da vendere. Inciampò nel corpo di un nero disteso scompostamente sul marciapiede: aveva gli occhi aperti, dalle narici gli era colata una pozza di sangue. Lei continuò: andava a sbattere contro la gente, riceveva spintoni e insulti, era quasi accecata dal bagliore delle luci al neon. Si mise a gridare: «Salvate la vostra anima! La fine è vicina! Dio abbia pietà della vostra anima!» Ma non la guardavano nemmeno. Sister Creep si tuffò nel turbine di corpi umani; all'improvviso si trovò di fronte un vecchio rinsecchito con la camicia macchiata di vomito; il vecchio imprecò contro di lei, cercò con un paio di strattoni di strapparle la borsa e scappò, prima che lei potesse assestargli una buona sventola. «Andrai all'Inferno, brutto figlio di puttana!» gli urlò dietro... e un'ondata di freddo intenso le gelò le ossa, la costrinse a ritrarsi. Nella mente le passò in un lampo l'immagine di un merci che la travolgeva. Non vide chi la colpì, si accorse semplicemente del colpo in arrivo. Una spalla dura, ossuta, la sbatté via con facilità, come se lei fosse diventata di paglia; e nell'istante del contatto, nel suo cervello restò impressa un'immagine indelebile: una montagna di bambole rotte, bruciate... no, non bambole, capì mentre cadeva nella via; le bambole non avevano organi interni che fuoruscivano dalla cassa toracica, né cervello che colava dalle orecchie, né denti snudati nel rictus della morte. Sister Creep colpì il cordolo del marciapiede; un'auto sterzò per evitarla; l'uomo al volante la insulto e premette il clacson. Sister Creep non si era fatta male, era solo senza fiato e sentiva un dolore sordo al fianco ferito; si alzò a fatica per vedere chi l'aveva spinta, ma nessuno badava a lei. Eppure Sister Creep batteva i denti, per il senso di gelo che le era rimasto addosso, lì nella notte più calda dell'estate. Si tastò il braccio: sapeva che le sarebbe rimasto un livido scuro,
nel punto in cui quel bastardo l'aveva urtata. «Eretico di merda!» urlò, a nessuno in particolare; ma la visione della montagna di cadaveri fumanti le rimase nella mente e un artiglio di paura le strinse lo stomaco. Chi l'aveva spinta giù dal marciapiede? Quale sorta di mostro vestito di pelle umana? Più avanti l'insegna di un cinema annunciava doppio spettacolo, La faccia della morte, parte IV e Mondo bizzarro. La locandina di La faccia della morte, parte IV prometteva: "Scene d'autopsia! Vittime d'incidenti d'auto! Morte nel fuoco! Integrale e non censurato!" Un senso di gelo aleggiava nell'aria attorno alla porta chiusa del cinema. "Entrate!", diceva il cartello sul battente. "Aria condizionata!" Ma il gelo non era dovuto solo al condizionatore d'aria, si disse Sister Creep. Era un gelo fetido, sinistro: il gelo delle ombre in cui crescono i funghi velenosi che con il loro colore rossastro invitano il bambino a dare un morso d'assaggio. Il gelo svaniva, ora; si dissipava nell'aria afosa. Sister Creep si fermò di fronte alla porta. Il buon Gesù era la sua missione, il buon Gesù l'avrebbe protetta. Non avrebbe messo piede in quel cinema neppure per una bottiglia intera di Red Dagger... nemmeno per due bottiglie! Indietreggiò d'un passo, urtò un tale che imprecò e la spinse da parte. Andò avanti... dove, non lo sapeva e se ne fregava. Le guance le bruciavano di vergogna. Per un attimo aveva avuto paura, anche se il buon Gesù le era al fianco. Aveva avuto paura di guardare in faccia il male, aveva peccato di nuovo. Due isolati dopo l'orribile cinema, vide un ragazzo nero buttare una bottiglia di birra fra i bidoni traboccanti spazzatura, in fondo all'androne di un edificio cadente. Finse di frugare nella borsa, finché il nero non si fu allontanato; poi entrò nell'androne e si mise a cercare la bottiglia, con la gola riarsa dal desiderio di un sorso, di una goccia di liquido. Topi squittirono e le zampettarono sulle mani, ma lei non vi badò; vedeva topi ogni giorno, ratti anche più grossi di quelli. Un topo, appollaiato sul bordo d'un bidone, emise un furioso squittio di protesta. Lei gli tirò una vecchia scarpa da tennis e l'animale fuggì via. L'immondizia mandava lezzo di putridume, di carne decomposta da tempo. Sister Creep trovò la bottiglia di birra; nella scarsa luce vide con piacere che conteneva ancora qualche goccia. Subito se la portò alle labbra e v'infilò la lingua, alla ricerca del gusto amarognolo della birra. Senza badare al fruscio dei ratti, si sedette contro lo scabro muro di mattoni. Nel posare a terra la mano, toccò un oggetto umido e cedevole. Diede un'oc-
chiata; ma quando capì che cosa aveva accanto a sé, si portò la mano alla bocca per soffocare un grido. L'avevano avvolto in qualche foglio di giornale, ma i ratti avevano strappato via la carta. Poi erano passati a lacerare la carne. Sister Creep non poteva stabilire quanti giorni avesse, né se fosse maschio o femmina; ma il faccino con gli occhi socchiusi dava l'impressione che il neonato stesse per addormentarsi serenamente. Il bimbo era nudo. L'avevano gettato, come un giocattolo rotto, nel mucchio di bidoni e di sacchi d'immondizia. «Oh» mormorò Sister Creep. Ricordò un'autostrada spazzata dalla pioggia e un faro girevole azzurro. Udì di nuovo una voce maschile che diceva: «La dia a me adesso, signora. Deve darla a me». Raccolse il cadaverino e si mise a cullarlo. Da lontano giungevano il tambureggiare della musica insensata e le grida degli spacciatori della Quarantaduesima. Sister Creep cantilenò con voce soffocata: «Fa' la nanna, bel bambino, fa' la nanna, piccolino...» Non ricordava il resto. Il faro azzurro girava, la voce maschile fluttuava attraverso il tempo e lo spazio: «La dia a me, signora, arriva l'ambulanza.» «No» mormorò Sister Creep. Dagli occhi sbarrati una lacrima le colò lungo la guancia. «No, no... non la lascio...» Si strinse al petto il corpicino; la piccola testa ciondolò. Il corpo era freddo. Attorno a Sister Creep, i ratti squittirono di rabbia. «Oh, Dio mio» disse lei, a voce alta. Sollevò la testa verso una fetta di cielo, il viso stravolto in una smorfia. Lasciò uscire la rabbia, gridando: «Dove ti sei cacciato?» La voce echeggiò nella via e fu soffocata dal gaio frastuono dei venditori, un paio d'isolati più avanti. Il buon Gesù è in ritardo, pensò Sister Creep. In ritardo, in ritardo, in ritardo per un importantissimo appuntamento, appuntamento, appuntamento! Cominciò a ridacchiare istericamente e a piangere nello stesso tempo, finché i rumori che le uscivano dalla gola non sembrarono il gemito d'un animale ferito. Molto tempo dopo, capì che doveva andare avanti e che non poteva portare con sé il neonato. Tolse dalla borsa il maglione arancione vivo e vi avvolse con cura il cadaverino; lo calò in un bidone della spazzatura e vi mise sopra tutto quel che poteva. Un grosso ratto grigio le venne vicino, snudò i denti; lei lo colpì in pieno, con la bottiglia vuota. Non aveva la forza d'alzarsi; strisciò fuori dell'androne, a testa bassa; lungo le guance le colavano calde lacrime di vergogna, di disgusto, di rabbia. Non posso continuare, si disse. Non posso più vivere in questo mondo
tenebroso! Caro buon Gesù, scendi nel tuo disco volante, portami via con te! Appoggiò la fronte sul marciapiede, si augurò d'essere morta e in Cielo, dove tutti i peccati sono cancellati. Qualcosa colpì il marciapiede, con un tintinnio musicale. La donna alzò lo sguardo; aveva gli occhi gonfi di pianto, ma vide confusamente una figura allontanarsi, girare l'angolo, scomparire. Per terra, a qualche passo da lei, c'erano alcune monete: tre da un quarto di dollaro, due da dieci centesimi, una da cinque. Qualcuno aveva creduto che lei chiedesse l'elemosina. Sister Creep allungò di scatto la mano a raccogliere le monete prima che altri se ne impadronissero. Si mise a sedere, cercò di pensare al da farsi. Si sentiva nauseata, debole, esausta; aveva paura di restare distesa all'aperto nella via. Doveva trovare un nascondiglio. Un posto in cui nascondersi. Soffermò lo sguardo sulla scalinata che, dall'altra parte della Quarantaduesima, portava alla sotterranea. Già altre volte aveva dormito nella sotterranea; se l'avessero scoperta, gli sbirri l'avrebbero cacciata dalla stazione, o, peggio, l'avrebbero trascinata via e riportata al dormitorio. Ma la sotterranea aveva un mucchio di tunnel di servizio e di gallerie non completate, che si diramavano dalla linea principale e scendevano nelle profondità di Manhattan. Tanto in fondo che nessun demone in pelle umana l'avrebbe trovata: poteva rannicchiarsi nel buio e dimenticare. Strinse fra le dita le monete: bastavano a farle varcare il cancelletto ruotante. Si sarebbe sbarazzata del mondo peccatore che lo stesso buon Gesù evitava. Sister Creep si alzò, attraversò la Quarantaduesima e scese nel mondo sotterraneo. 3 22,22 - ora legale degli Stati centrali Concordia, Kansas. «Uccidilo, Johnny!» «Fallo a pezzi!» «Strappagli le braccia, massacralo!» I falsi puntoni della calda e fumosa palestra della scuola superiore di Concordia vibravano per le grida di quattrocento e passa spettatori; sul ring al centro della palestra, due uomini, un bianco e un nero, si affron-
tavano in un incontro di wrestling. Al momento, il lottatore bianco — un ragazzo del posto, di nome Johnny Lee Richwine — stringeva alle corde il mostro noto come Frankenstein Nero e gli affibbiava una serie di colpi di judo, tra le grida della folla assetata di sangue. Ma Frankenstein Nero, un colosso d'un metro e novanta che superava i 150 chili e portava una maschera color ebano coperta di "cicatrici" di cuoio rosso e di "bulloni" di gomma, gonfiò il torace possente, emise un ruggito, afferrò la mano di Johnny Lee Richwine e gliela torse fino a costringerlo in ginocchio. Ringhiò, con lo stivaletto numero quarantotto lo colpì alla tempia e lo mandò a gambe levate al centro del ring. L'arbitro si dimenava avanti e indietro senza risultati visibili; quando agitò il dito ammonitore sotto il naso di Frankenstein Nero, il mostro lo spinse da parte con la facilità con cui si scaccia una mosca; si accostò al ragazzo disteso, si batté i pugni sul petto, mosse la testa qua e là come un pazzo, mentre la folla urlava di rabbia. Bicchieri accartocciati di Coca e sacchetti di popcorn iniziarono a piovere sul ring. «Branco di stupidi!» gridò Frankenstein Nero, con voce profonda che superò il ruggito della folla. «Guardate che fine fa il vostro ragazzo!» Con un sorriso, il mostro balzò a piedi giunti sul torace di Johnny Lee Richwine. Il giovane si contorse, con una smorfia di profonda sofferenza, mentre l'arbitro cercava di tirare via Frankenstein Nero. Il mostrò diede all'arbitro una spinta e lo mandò a sbattere contro il palo di sostegno. Adesso la folla era tutta in piedi, volavano bicchieri di carta e cubetti di ghiaccio; i poliziotti locali, di servizio all'incontro di wrestling, si agitavano nervosamente intorno al ring. «Volete vedere il sangue di un contadino del Kansas?» gridò Frankenstein Nero, alzando lo stivale per schiacciare il cranio dell'avversario. Ma Johnny tornò di scatto in vita. Afferrò per la caviglia il mostro, gli fece perdere l'equilibrio, con un calcio gli colpì l'altra gamba. Fra un mulinio di braccia, Frankenstein Nero colpì il tappeto con tale forza da far tremare il pavimento. Il ruggito della folla quasi scoperchiò il tetto. Frankenstein Nero si rannicchiò, alzò le mani per supplicare pietà, mentre il giovane avanzava verso di lui. Poi Johnny si girò ad aiutare l'arbitro caduto; mentre la folla mandava un grido, Frankenstein Nero si rialzò di scatto e s'avventò a tradimento contro Johnny, per dargli una mazzata a mani unite. L'urlo frenetico dei tifosi indusse Johnny Lee Richwine a girarsi all'ultimo momento. Il giovane colpì con un calcio il mostro, nel rotolo di
lardo intorno alla cintola. Il rumore dell'aria che uscì dai polmoni di Frankenstein Nero sembrò il fischio d'un vaporetto; il mostro barcollò per il ring, a passi da ubriaco, cercando di sfuggire al suo destino. Johnny Lee Richwine lo afferrò, si piegò e si mise in spalla Frankenstein Nero, per il "giro d'aereo". I tifosi tacquero un secondo, mentre tutto quel peso si sollevava dal tappeto; poi ripresero a gridare, quando Johnny iniziò a far girare in aria il mostro. Frankenstein Nero strillò come un bimbo sculacciato. Si udì un rumore simile a un colpo di pistola. Johnny Lee Richwine mandò un grido e cominciò a cadere. Gli è partita la gamba, ebbe tempo di pensare l'uomo chiamato Frankenstein Nero, prima di gettarsi dalle spalle del giovane. Conosceva assai bene lo schiocco delle ossa che si rompono; era stato contrario al giro d'aereo, ma Johnny voleva impressionare i tifosi di casa. Frankenstein Nero cadde di fianco sul tappeto; quando si alzò a sedere, vide che il giovane lottatore locale giaceva a meno d'un metro, si reggeva il ginocchio e gemeva di dolore stavolta genuino. L'arbitro si era rialzato, ma non sapeva che cosa fare. Il copione prevedeva che Frankenstein Nero finisse al tappeto e che Johnny Lee Richwine vincesse l'incontro clou della serata. E fino a quel momento tutto era filato liscio. Frankenstein Nero si alzò. Sapeva che il ragazzo soffriva da morire, ma doveva restare in carattere con il personaggio. Con le braccia sollevate sopra la testa, attraversò il ring fra una pioggia di bicchieri e di sacchetti di popcorn; si avvicinò all'arbitro intontito e a bassa voce gli disse: «Mi squalifichi e porti il ragazzo dal medico!» «Eh?» «Mi squalifichi, subito!» L'arbitro, uno del posto, proprietario di un negozio di ferramenta nella vicina Belleville, finalmente mosse le mani nel gesto incrociato che indicava la squalifica di Frankenstein Nero. Il gigante si esibì per un minuto buono in una serie di balzi rabbiosi, fra gli ululati e le invettive della folla; poi scese rapidamente dal ring per farsi scortare in camerino da una falange di poliziotti. Nella lunga camminata sopportò pop-corn in viso, una grandinata di gelati e di sputi, gesti osceni da ragazzi e anziani. Aveva particolare paura delle anziane signore dall'aria materna, da quando una di loro l'aveva assalito con uno spillone da cappello, l'anno prima, a Waycross, in Georgia, e per buona misura aveva tentato di colpirlo con un calcio ai genitali. Nel suo "camerino", una panca e un armadietto nella stanza della squa-
dra di football, cercò di sciogliersi i muscoli il più possibile. Alcuni dolori sordi, alcune fitte, erano permanenti; le spalle gli sembravano irrigidite come pezzi di legno pietrificato. Si tolse la maschera di pelle e si guardò nel piccolo specchio incrinato appeso all'anta dell'armadietto. Nessuno l'avrebbe definito un bell'uomo. Portava i capelli tagliati a zero, per far aderire meglio la maschera; aveva il viso segnato da molti incidenti di ring. Ricordava esattamente la provenienza di ogni singola cicatrice: una cintura mal calcolata, a Birmingham; un colpo di sedia troppo convinto, a Winston-Salem; un colpo contro il bordo del ring, a Sioux Falls; un atterraggio sul pavimento di cemento, a San Antonio. Gli errori di scelta di tempo causavano ferite vere, nel wrestling: Johnny Lee Richwine non si era bilanciato abbastanza bene da sopportare il peso, e la gamba ne aveva pagato le conseguenze. A lui dispiaceva, ma non poteva farci niente. Lo spettacolo deve continuare. Aveva trentacinque anni. Gli ultimi dieci li aveva trascorsi nel circuito del wrestling, lungo le strade nazionali e provinciali, fra sale cittadine, palestre di scuole superiori e fiere paesane. Nel Kentucky era conosciuto come Fulmine Jones; nell'Illinois, come Perfido Perkins; e in una decina di stati, con pseudonimi altrettanto terribili. In realtà si chiamava Joshua Hutchins; quella sera era molto lontano dalla natia Mobile? Aveva naso largo e schiacciato, con i segni di tre fratture; l'ultima volta, non si era nemmeno preso la briga di farlo aggiustare. Sotto le sopracciglia nere e folte, aveva occhi incassati, del colore grigio chiaro del fumo di legna. Un'altra piccola cicatrice gli disegnava sul mento un punto interrogativo capovolto; i lineamenti duri e angolosi lo facevano sembrare un re africano stanco delle guerre. Era grande e grosso in modo quasi anormale, caratteristica che attirava gli sguardi incuriositi della gente per strada. Creste di muscoli gli si gonfiavano lungo le braccia, le spalle e le gambe, ma intorno allo stomaco la carne era flaccida, a causa delle troppe scatole di ciambelle glassate, di cui si riempiva in solitàrie camere di motel; ma nonostante uno strato di grasso simile a una gomma di scorta intorno alla pancia, John Hutchins si muoveva con grazia, dava l'impressione di una molla ben compressa e pronta a scattare. Era il residuo della forza esplosiva che aveva avuto, quando era linebacker dei New Orleans Saints, molti anni e un mondo prima. Sotto la doccia, Josh s'insaponò e si tolse di dosso il sudore. La sera dopo, aveva in programma un incontro a Garden City, nel Kansas: comportava un lungo viaggio per attraversare tutto lo stato. Un viaggio soffocante,
inoltre, perché qualche giorno prima il condizionatore d'aria dell'auto si era rotto e lui non poteva permettersi di farlo riparare. Avrebbe avuto il prossimo assegno a fine settimana, a Kansas City, dove partecipava a un incontro libero con sette lottatori. Uscì dalla doccia, si asciugò e si vestì. Mentre faceva i bagagli, l'organizzatore dell'incontro venne a dirgli che Johnny Lee Richwine, portato all'ospedale, non era in gravi condizioni; ma lo invitò a fare attenzione, nel lasciare la palestra, perché i tifosi locali avrebbero potuto scaldarsi. Josh lo ringraziò, con la sua voce tranquilla; chiuse la cerniera della sacca da viaggio e gli augurò la buonanotte. Aveva lasciato l'ammaccata Pontiac grigia di sei anni nel parcheggio di un supermercato Food Giant aperto giorno e notte. Sapeva, per l'esperienza di molte gomme tagliate, che era meglio non lasciare l'auto nei pressi del luogo dell'incontro. Approfittando del supermercato, andò a comprare una scatola di ciambelle glassate, alcuni dolcini Oreo e un cartone di latte. Poi si allontanò in auto, verso sud e la Statale 81, diretto al motel Buon Riposo. La stanza dava sulla statale; il rombo degli autotreni di passaggio sembrava il ruggito di animali selvaggi in cerca di preda nelle tenebre. Josh accese il televisore, si sintonizzò sullo spettacolo "Tonight", si tolse la camicia e si spalmò sulle spalle doloranti un po' di balsamo Ben Gay. Da parecchio tempo non si allenava più in palestra, anche se continuava a dirsi che avrebbe ripreso a fare jogging. Gli addominali erano diventati cedevoli come zucchero filato; si sarebbe fatto male davvero, se gli avversari non avessero trattenuto la forza dei calci e dei pugni. Ma se ne sarebbe preoccupato l'indomani... c'era sempre un domani. Indossò il pigiama rosso vivo e si distese sul letto a consumare lo spuntino e a guardare la tivù. Aveva già mangiato metà delle ciambelle, quando un notiziario della NBC interruppe il ciarlio del personaggio di turno. Comparve un presentatore dall'aria seria, sullo sfondo della Casa Bianca. Cominciò a parlare di una riunione "ad alta priorità" che il presidente aveva appena avuto con il segretario alla Difesa, con il capo di stato maggiore delle Forze Armate, con il vicepresidente e con altri consiglieri; le fonti confermavano che l'incontro riguardava sia il SAC, sia la NORAD. Le basi aeree americane, diceva con tono pressante il presentatore, forse sarebbero passate a un livello di allerta superiore. Altri notiziari avrebbero interrotto lo spettacolo, a seconda delle notizie in arrivo. «Non fate saltare il mondo prima di domenica» disse Josh, con la bocca piena di ciambella. «Devo incassare la paga.»
Ogni notte i notiziari erano pieni di fatti e di voci di guerra. Quando poteva, Josh guardava i notiziari e leggeva i giornali; capiva che le nazioni erano invidiose, paranoiche e completamente pazze, ma non riusciva a capacitarsi perché i leader sani di mente non prendessero il telefono e non si parlassero. Come mai era tanto difficile discutere? Cominciava a credere che tutta la faccenda somigliasse molto al wrestling professionistico: le superpotenze si mettevano la maschera e battevano i piedi, urlavano minacce e rifilavano sventole, ma era solo un bluff maschio e gigionesco. Non riusciva a immaginare come sarebbe stato il mondo, dopo la caduta delle bombe nucleari; ma sarebbe stato assai difficile trovare fra le ceneri una scatola di ciambelle glassate: ne avrebbe di certo sentito la mancanza. Aveva cominciato i dolcini Oreo, quando notò il telefono sul comodino e pensò a Rose e ai figli. Sua moglie aveva chiesto il divorzio, quando lui aveva lasciato il football professionistico ed era passato al wrestling, e aveva ottenuto l'affidamento dei due figli. Viveva ancora a Mobile; Josh faceva loro visita, ogni volta che il circuito lo portava da quelle parti. Rose aveva un buon impiego come segretaria in uno studio legale; l'ultima volta che Josh l'aveva vista, lei aveva detto che alla fine d'agosto aveva in programma di sposare un procuratore legale nero. Josh sentiva moltissimo la mancanza dei due figli e a volte, nella folla di spettatori, dava una rapida occhiata al viso di ragazzi che glieli ricordavano, ma ogni volta quelli lanciavano grida di scherno contro di lui. Non ci si guadagnava niente a pensare troppo alla gente che si amava. Augurava a Rose ogni bene; a volte aveva voglia di telefonarle, ma temeva che rispondesse un uomo. "Be'" si disse, mentre apriva un altro pasticcino per succhiare il ripieno cremoso, "tanto non ero tagliato per fare il padre di famiglia. Nossignore! Amo troppo la mia libertà e, perdio, non ho altro!" Era stanco, aveva dolori dappertutto, l'indomani sarebbe stata una giornata lunghissima. Forse faceva bene a telefonare all'ospedale, prima della partenza, per domandare come stava Johnny Lee Richwine. Il ragazzo si sarebbe fatto più furbo, dopo l'esperienza di quella sera. Josh lasciò accesa la tivù, perché gli piaceva sentire il suono di voci; piano piano scivolò nel sonno, con la scatola di Oreo in equilibrio sulla pancia. Gran giornata, domani, pensò mentre si addormentava; sarò di nuovo forte e cattivo. E poi si addormentò, russando leggermente; sognò il vociare di una folla che chiedeva la sua testa. Venne l'ora del programma religioso. Un ministro del culto parlò di ri-
cavare vomeri dalle spade. Poi la musica di "Star Spangled Banner", l'inno nazionale americano, risuonò sullo sfondo di maestose montagne incappucciate di neve, ampi e ondeggianti campi di grano e di granturco, ruscelli gorgogliami, foreste verdi e maestose città; il programma terminò con l'inquadratura della bandiera americana, tesa e immobile sull'asta piantata nella superficie della Luna. L'immagine rimase per qualche secondo. Poi la statica riempì lo schermo, mentre la stazione locale chiudeva le trasmissioni. 4 23,48 - ora legale degli Stati centrali Dintorni di Wichita, Kansas Litigavano di nuovo. La bambina serrò gli occhi e nascose la testa sotto il guanciale, ma le voci giungevano ugualmente, attutite e distorte, quasi inumane. «Sono stufo delle tue stronzate! Non rompermi i coglioni!» «Cosa devo fare? Sorridere, quando te ne vai a bere e a giocarti i soldi che guadagno io? Quei soldi servivano per pagare il noleggio di questa maledetta roulotte e per comprare un po' di provviste, tu invece, perdio, sei andato a buttarli via, proprio a buttarli via...» «Non rompermi i coglioni, t'ho detto! Ma ti sei guardata? Sembri una vecchia puttana in pensione! Mi sono rotto il cazzo d'averti fra i piedi e di farmi riempire di merda ogni momento!» «Forse dovrei trovare un rimedio, eh? Fare i bagagli e togliere il culo di qui!» «Avanti, allora! Vattene e portati via quello scherzo di natura di tua figlia!» «Me ne vado, eccome! Non credere che resti!» La discussione continuò di questo passo, le voci divennero più forti e il tono più cattivo. La bambina fu costretta a tirare fuori la testa per respirare, ma tenne chiusi gli occhi e cercò di pensare solo al suo piccolo giardino, proprio sotto la finestra della minuscola cameretta. La gente veniva da tutte le roulotte a guardare i fiori e a commentare come crescevano bene. La signora Yeager, della roulotte accanto, diceva che le viole erano bellissime, ma non aveva mai saputo che sbocciassero così tardi e in un clima così caldo. Tromboncini, bocche di leone e campanule crescevano bene, ma per un poco la bambina li
aveva sentiti morire. Li aveva innaffiati, aveva impastato con le dita il terriccio, era rimasta seduta nel giardinetto, sotto il sole del mattino, e aveva guardato i suoi fiori, con occhi celesti come uova di pettirosso; finalmente i suoni di morte erano svaniti. Adesso il giardino era un vivo splendore di colori; perfino l'erba intorno alla roulotte era di un ricco verde scuro. L'erba della signora Yeager era marrone, per quanto lei la bagnasse ogni giorno; la bambina aveva sentito quell'erba morire molto tempo prima, ma non voleva dirlo alla signora Yeager, per non rattristarla. Forse con le prime piogge sarebbe rinata. Una profusione di piante in vaso riempiva la cameretta, sugli scaffali intorno al letto. La stanza aveva l'inebriante profumo della vita: perfino un piccolo cactus, in un vaso di ceramica, aveva fatto un fiore bianco. Alla bambina piaceva pensare al giardino e alle piante, quando Tommy e la madre litigavano; visualizzava il giardino con tutti i suoi colori e i suoi petali, sentiva sotto le dita il terriccio, e queste cose l'aiutavano a distrarla dalle voci. «Non mi toccare!» gridò sua madre. «Brutto bastardo, prova ancora a picchiarmi!» «Ti piglio a calci in culo, se ne ho voglia!» Seguirono rumori di zuffa, altre imprecazioni, un ceffone. La bambina si ritrasse; le lacrime bagnarono gli occhi chiusi dalle ciglia bionde. Smettetela di litigare, pensò, tutta agitata; vi prego, smettetela! «Stammi lontano!» Un oggetto colpì la parete e andò in mille pezzi. La bambina si turò le orecchie, sul punto di urlare. Una luce. Una luce soffusa, che palpitava contro le palpebre. La bambina aprì gli occhi e si alzò a sedere. Dall'altra parte della stanza, contro la zanzariera alla finestra, c'era una massa pulsante di luce, un bagliore giallino simile a mille candeline sulla torta del compleanno. La luce si mosse, come le volute di un dipinto incandescente; la bambina la fissò, incantata, dimenticando i rumori del litigio che parvero diminuire e farsi più lontani. La luce le si riflesse negli occhi spalancati, si mosse sul visetto appuntito, danzò sui capelli biondi lunghi alla spalla. Tutta la stanza fu illuminata dal bagliore contro la zanzariera. Lucciole, capì la bambina. Centinaia di lucciole posate sulla rete. Ne aveva già viste, alla finestra, ma mai in tale quantità, mai lampeggiare tutte insieme. Pulsavano come stelle che cercassero di aprirsi con il fuoco un varco nella rete; mentre le guardava, non sentiva più le orribili voci di sua madre e di "zio" Tommy. Le lucciole dominavano la sua attenzione, il disegno delle luci la ipnotizzava.
Il linguaggio luminoso cambiò, assunse un ritmo diverso, più veloce. La bambina ricordò la sala degli specchi al luna park e le luci che l'avevano abbagliata riflettendosi sulle superfici lucide; le pareva d'essere dentro un cerchio di mille lampadine. Il ritmo divenne sempre più rapido, le luci sembrarono roteare intorno a lei, con velocità abbagliante. Parlano, si disse la bambina. Parlano nel loro linguaggio. Parlano di una cosa molto, molto importante... «Swan! Tesoro, sveglia!» ...parlano di una cosa che sta per verificarsi... «Mi senti, amore?» ...una cosa terribile, che accadrà... prestissimo... «SWAN!» Qualcuno la scuoteva. Per alcuni secondi la bambina rimase perduta nella sala degli specchi, abbagliata dallo sfolgorio. Poi ricordò dove si trovava e vide le lucciole lasciare la zanzariera, alzarsi in volo, sparire. «Quei maledetti scarafaggi coprono tutta la finestra.» La voce di Tommy. Swan staccò lo sguardo dalle lucciole, con uno sforzo che la costrinse a tendere il collo. La madre era china su di lei; nella luce che entrava dalla porta, Swan vide il gonfiore violaceo intorno all'occhio destro. La donna era magra e scarmigliata; i capelli biondi, arruffati, mostravano la radice castana. Mosse più volte lo sguardo dal viso della figlia agli ultimi insetti che volavano via dalla zanzariera. «Cosa c'è che non va in te?» disse. «È uno scherzo di natura» intervenne Tommy; con le spalle muscolose bloccava il vano della porta. Era tarchiato e sciatto; la barba castana e arruffata gli copriva la mascella ossuta e parte del viso grassoccio dai tratti marcati. Portava berretto rosso, T-shirt e tuta. «Sbracata in testa» continuò; bevve un sorso da una bottiglia di Miller High Life. «Mamma?» La bambina era ancora abbagliata, le luci le pulsavano ancora dietro le palpebre. «Amore, devi alzarti e vestirti. Lasciamo immediatamente questo schifo di buco, capisci?» «Sì.» «Tanto non te ne vai» la sfotté Tommy. «Dove andresti?» «Il più lontano possibile! Sono stata una stupida a trasferirmi qui con te innanzi tutto. Salta giù, tesoro. Mettiti i vestiti. Andiamo via al più presto possibile.»
«Torni da Rick Dawson? Ma sì, vai da lui! Ti ha già buttata via a calci, scemo io che t'ho raccolta! Vai a farti sbattere via di nuovo!» Lei si girò dalla sua parte e disse freddamente: «Togliti di mezzo! Altrimenti, Dio m'aiuti, ti ammazzo!» Tommy aveva Io sguardo velato, pericoloso. Bevve dalla bottiglia un altro sorso, si leccò le labbra, rise. «Ma certo!» Indietreggiò di lato, mosse il braccio in un ampio gesto radente «Passa pure! Credi di essere una regina, passa, passa!» La donna lanciò alla bambina un'occhiata, per spingerla ad affrettarsi; passò davanti all'uomo e uscì. Swan scese dal letto; vestita della camicia da notte formato bambina di nove anni, con la scritta Wichita State University, andò di corsa alla finestra a scrutare fuori. Le luci della roulotte vicina, quella della signora Yeager, erano accese; Swan pensò che i rumori della lite l'avevano svegliata. Poi alzò gli occhi e rimase a guardare a bocca aperta, con timore reverenziale Il cielo era pieno di stelle che si muovevano a ondate e palpitavano. Ruote di luce rotolavano nelle tenebre sopra il campeggio di roulotte, scie di fuoco giallastro zigzagavano nella foschia che oscurava la luna. In alto passavano migliaia di migliaia di lucciole, simili a galassie in movimento; i loro segnali formavano catene di luce che andavano da ovest a est, fin dove Swan riusciva a vedere. In un punto del parcheggio, un cane cominciò a ululare; l'invito fu raccolto da un secondo cane, da un terzo, poi da altri cani nel terreno lottizzato al di là della Statale 15. Altre luci si accendevano nelle roulotte, la gente usciva a vedere che cosa stava succedendo. «Dio santissimo, che casino!» Tommy era di nuovo nel vano della porta. Gridò: «Piantatela!» Con un'ultima sorsata rabbiosa terminò la birra. Fissò Swan, con occhi minacciosi e offuscati. «Sono felice di liberarmi di te. Guarda che stanza, piena di piante di merda! Cristo! È un caravan, non una serra!» Con un calcio rovesciò un vaso di gerani; Swan sobbalzò. Ma gli tenne testa, decisa, e aspettò che se ne andasse. «Vuoi sapere di che forza è tua madre?» chiese lui furbescamente. «Vuoi sapere in quale bar balla sui tavolini e si lascia toccare le tette dai clienti?» «Sta' zitto, bastardo!» gridò la donna. Tommy si girò in tempo per parare il colpo. La spinse via. «Su, forza, Darleen! Mostra alla bambina di che pasta sei fatta! Dille quanti uomini ti sei passata... dille chi è suo padre! Dille che eri talmente partita di LSD e PCP e Dio sa cos'altro che non ricordi neppure il nome di chi ti scopava!» Il viso di Darleen Prescott era una maschera di rabbia. Anni prima, lei
era una bella ragazza, con zigomi forti e occhi blu scuro che lanciavano a ogni uomo una sfida sessuale; ma ora aveva la faccia stanca e cadente, profonde rughe sulla fronte e agli angoli della bocca. Aveva solo trentadue anni, ma sembrava almeno sulla quarantina; indossava blue jeans troppo stretti e una blusa gialla da cowgirl, con lustrini sulle spalline. Girò la schiena a Tommy e andò nella camera da letto principale della roulotte, pestando sul pavimento gli stivali di lucertola da cowgirl. «Ehi» disse Tommy, ridacchiando. «Non t'incazzare!» Swan cominciò a togliere i vestiti dal cassetto del comò; ma sua madre tornò portando una valigia già piena di abiti vistosi e di stivaletti, e vi cacciò dentro tutti gli abiti di Swan che ci stavano. «Ce ne andiamo immediatamente!» disse alla figlia. «Vieni via.» Swan esitò, guardò i fiori e le piante che riempivano la stanzetta. No, pensò, non posso lasciare i miei fiori! E il mio giardino! Chi lo bagnerà? Darleen si chinò sulla valigia, premette il coperchio, la chiuse. Poi afferrò la mano di Swan e si girò per andare via. Swan ebbe solo il tempo di prendere al volo la bambola Cookie Monster, prima di essere trascinata fuori della stanza, nella scia della madre. Tommy seguì a ruota, un'altra birra in mano. «Sì, vattene! Domani sera sarai di nuovo qui, Darleen! Aspetta e vedrai!» «Aspetto» replicò lei. Varcò la porta a rete. Fuori, nella notte umida, l'ululato dei cani giungeva da ogni direzione. Striscioni luminosi rigavano il cielo. Darleen diede un'occhiata in alto, ma si diresse a grandi passi, senza la minima esitazione, verso la Camaro rosso vivo ferma lungo il marciapiede dietro il camioncino scoperto Chevy, dal motore truccato, di Tommy. Gettò la valigia sul sedile posteriore e si mise al volante, mentre Swan, ancora in camicia da notte, si sedeva accanto a lei. «Bastardo» mormorò Darleen, frugando in cerca delle chiavi. «Gli faccio vedere io.» «Ehi, guardami!» gridò Tommy. Swan rimase inorridita nel vedere che l'uomo saltellava nel giardino, prendeva a calci le zolle di terra, schiacciava sotto i tacchi i fiori e li uccideva. Si turò le orecchie, perché udiva i suoni di dolore alzarsi come le vibrazioni d'una corda di chitarra pizzicata. Tommy rideva e ballava; si tolse il berretto, lo lanciò in aria. Una rabbia ardente si scatenò dentro Swan; la bambina si augurò che zio Tommy morisse, perché faceva male al giardino... ma il lampo d'ira passò, le lasciò un senso di nausea. Swan lo vide chiaramente per quel che era: uno sciocco, grasso e calvo, che possedeva solo una roulotte scassata e un camioncino. Lì sarebbe invecchiato e morto, senza l'amore di nessuno... perché, come
sua madre, aveva paura d'accostarsi troppo all'amore. Vide e capì tutto in un istante, seppe che il piacere di distruggere il giardino sarebbe finito con lui come al solito in ginocchio nel bagno, chino sul water; e poi, finito di vomitare, zio Tommy avrebbe dormito da solo e sarebbe stato da solo al risveglio. Ma lei poteva sempre far crescere un altro giardino... e l'avrebbe fatto, là dove andavano, dovunque fosse. Disse: «Zio Tommy?» Lui smise di ballare, le rivolse un'occhiata di traverso, pronto a imprecare. «Ti perdono» disse piano Swan. E lui la fissò come se avesse ricevuto un ceffone in piena faccia. Ma Darleen Prescott gli gridò: «Vaffanculo!» Il motore della Camaro si accese con rombo da cannone. Darleen schiacciò l'acceleratore, sgommò per dieci metri, prima che le ruote facessero presa sul terreno e li portassero fuori dal parcheggio della Statale 15, per sempre. «Dove andiamo?» disse Swan, coccolando Cookie Monster, cessato lo stridio di pneumatici. «Be', troveremo un motel per la notte. Domattina passerò dal bar e cercherò di farmi dare da Frankie un po' di soldi.» Si strinse nelle spalle. «Forse mi darà cinquanta sacchi. Forse.» «Tornerai con zio Tommy?» «No» rispose con fermezza Darleen. «Con lui ho finito. È l'uomo più ignobile che abbia mai conosciuto. Perdio, non so proprio cosa ho visto, in lui!» Swan ricordò che sua madre aveva detto la stessa cosa di "zio" Rick e di "zio" Alex. Esitò, pensierosa, incerta se porre o no la domanda; poi si decise. «È vero quel che ha detto Tommy, mamma?» domandò. «Che non sai chi è mio papà?» «Non dirlo mai più!» rispose lei, brusca. Si concentrò sul lungo nastro della strada. «Non pensare nemmeno una cosa simile, signorina! Te l'ho già detto: tuo papà è una famosa stella del rock. Ha ricci biondi e occhi azzurri, come te. Gli occhi azzurri d'un angelo sceso sulla terra. E come suona la chitarra, come canta! Ti ho detto mille volte che appena divorzia andremo a vivere con lui a Hollywood. Non sarà magnifico? Tu e io nel Sunset Strip?» «Sissignora» rispose Swan, senza prestarle attenzione. Aveva giù udito questa storia. Ma si sarebbe accontentata di abitare in uno stesso posto per più dei soliti quattro o cinque mesi, in modo da farsi degli amici senza la paura di doverli perdere e di andare alla stessa scuola un anno intero. Inve-
ce non aveva amici; allora si dedicava tutta ai fiori e alle piante, passava ore intere a creare giardini nella terra dura dei campeggi di roulotte, dei cortili di camere ammobiliate e di motel a buon mercato. «Sentiamo un po' di musica» disse Darleen. Accese la radio: dagli altoparlanti sgorgò rock a tutto volume. Il frastuono le permise di non pensare alla bugia detta e ripetuta a sua figlia; a dire il vero, lei sapeva che il padre di Swan era un fusto alto e biondo il cui preservativo si era sfondato durante l'uso. Non ci avevano badato, al momento: la festa era al massimo, nella stanza vicina facevano un casino d'inferno, Darleen e il fusto erano pieni fino agli occhi di una mistura di LSD, polvere d'angelo e anfetamine. Era successo nove anni prima, quando lei stava a Las Vegas e come lavoro distribuiva le carte del blackjack; da allora, con Swan, Darleen aveva girato per tutto l'ovest, seguendo uomini con cui pensava di divertirsi per un poco o lavorando come ballerina topless dovunque trovava una scrittura. Ora, però, Darleen non sapeva dove sarebbe andata. Era stufa di Tommy, ma ne aveva anche paura; quell'uomo era uno svitato, cattivo d'animo. Facile che venisse a cercarla, fra un paio di giorni, se lei non andava abbastanza lontano. Forse Frankie, proprietario dell'High Noon Saloon dove lei ballava, le avrebbe anticipato una parte di paga. Ma dopo? A casa, pensò. Casa era un paesino chiamato Blakeman, su nella Rawlins County, nell'angolo nordovest del Kansas. Era scappata da lì a sedici anni, dopo che sua madre era morta di cancro, quando suo padre si era fatto prendere dalle manie religiose. Il vecchio la odiava: per questo lei se n'era andata. Chissà che effetto avrebbe fatto, tornare a casa adesso. Suo padre sarebbe rimasto a bocca aperta, scoprendo d'avere una nipotina. Diavolo, no! Non poteva tornare a casa! Ma già calcolava il percorso che avrebbe seguito, se fosse andata a Blakeman: a nord, sulla 135, fino a Salina; a ovest, fra le distese di grano e di granturco, sulla Statale 70; poi di nuovo a nord, per strade di campagna dritte come frecce. Da Frankie si sarebbe fatta dare soldi sufficienti a pagare la benzina. «Ti piacerebbe fare un bel viaggetto domani?» «Dove?» Swan abbracciò più forte la bambola Cookie Monster. «Oh, da qualche parte. Un paesino che si chiama Blakeman. Niente d'eccezionale, l'ultima volta che ci sono stata. Magari andiamo lì a riposarci per qualche giorno. E a meditare sul da farsi. Giusto?» Swan si strinse nelle spalle. «Penso di sì» rispose. Ma non gliene importava niente, in un senso o nell'altro. Darleen abbassò la radio e circondò le spalle della figlia. Alzando lo
sguardo, credette di scorgere nel cielo uno scintillio luminoso che però sparì subito. Strinse le spalle di Swan. «Tu e io sole, contro tutto il mondo, piccolina» disse. «E sai una cosa? Vinceremo noi, se continuiamo a picchiare forte.» Swan guardò la madre e desiderò... desiderò con tutte le sue forze... di crederle. La Camaro continuò a correre nella notte, lungo la statale che si snodava davanti a loro; fra le nubi, centinaia di metri più in alto, vive catene di luce si collegavano nel cielo. 5 23,50 - ora legale delle Montagne Rocciose Monte Blue Dome, Idaho Un camper Ford Roamer grigio metallizzato risaliva la strada stretta e tortuosa che portava in cima al monte Blue Dome, tremila metri sopra il livello del mare e novanta chilometri a nordovest di Idaho Falls. Ai lati della strada, fitte foreste di pini si abbarbicavano ai costoni rocciosi. I fari del camper foravano la bassa nebbia; le luci verdi del cruscotto si riflettevano sul viso teso dell'uomo di mezz'età seduto al volante. Accanto a lui, nel sedile con lo schienale inclinato, la moglie dormiva tenendo in grembo una cartina aperta dell'Idaho. Alla curva seguente, i fari illuminarono un cartello che diceva, in lettere arancione fosforescenti: PROPRIETÀ PRIVATA. SPARIAMO A VISTA SUGLI INTRUSI. Phil Croninger rallentò; ma nel portafogli aveva il tesserino di riconoscimento speditogli per posta, quindi passò davanti al minaccioso cartello e continuò a risalire la strada di montagna. «Papà, lo farebbero sul serio?» gli domandò con voce stridula suo figlio, dal sedile posteriore. «Farebbero cosa?» «Sparare agli intrusi. Sparerebbero davvero?» «Lo sai. Quassù non vogliono nessuno che non abbia il diritto di venirci.» Diede un'occhiata al retrovisore: il viso del figlio, illuminato dai riflessi verdastri, si librava sopra il sedile, simile a una maschera di Halloween. Padre e figlio si assomigliavano molto; portavano entrambi occhiali dalle lenti spesse, avevano capelli sottili e lisci, erano magri e ossuti. I capelli di
Phil, ormai brizzolati, si diradavano rapidamente; quelli castano scuro del figlio tredicenne erano tagliati a frangetta sulla fronte alta. Il viso del ragazzo, come quello della madre, era una serie d'angoli acuti; il naso, il mento, gli zigomi sembravano sul punto di tagliare la pelle pallida, come se, sotto la prima, ci fosse una seconda faccia in attesa di venire alla luce. Gli occhi, ingranditi dalle lenti, erano color cenere. Il ragazzo portava una T-shirt stampata a colori mimetici militari, calzoncini cachi, scarponi da escursionista. Elise Croninger si mosse. «Non siamo ancora arrivati?». «Quasi. Dovremmo vedere qualcosa, fra pochissimo.» Il viaggio da Flagstaff era stato lungo ed estenuante; Phil aveva insistito per viaggiare di notte: secondo i suoi calcoli, la temperatura più fresca rovinava meno gli pneumatici e aumentava la resa chilometrica per litro di benzina. Era un uomo accurato, che non correva rischi inutili. «Scommetto che già ci tengono d'occhio con il radar» disse il ragazzo. Guardò i boschi. «Che ci analizzano da tutte le parti.» «Può darsi» convenne Phil. «Quassù hanno quasi tutto. È un posto fantastico, aspetta di vederlo!» «Speriamo che sia fresco!» disse Elise, con irritazione. «Non ho fatto tutta questa strada per morire di caldo in un pozzo di miniera.» «Non è un pozzo di miniera» le ricordò Phil. «Comunque, è fresco di natura; e poi hanno ogni sorta d'apparecchiature di condizionamento dell'aria e di sicurezza. Vedrai.» «Ci osservano» disse il ragazzo. «Me lo sento.» A tentoni infilò la mano sotto il sedile e tirò fuori una .357 Magnum. «Bum!» disse, premendo il grilletto verso i boschi di destra. «Bum!» ripeté, verso i boschi di sinistra. «Roland, metti giù quell'affare!» lo rimproverò la madre. «Mettila via, figliolo. Non è bene mostrarla in giro.» Roland Croninger esitò, sorrise furbescamente. Puntò la rivoltella alla nuca della madre, tirò il grilletto e disse piano: «Bum». Seguirono un «Bum» e uno scatto a vuoto contro il cranio del padre. «Roland» disse Phil, in quello che passava per tono severo. «Smettila di giocare, ora. Metti via la rivoltella.» «Roland!» ammonì la madre. «Uffa!» Il ragazzo rimise sotto il sedile la rivoltella. «Volevo solo divertirmi un poco. Con voi non si può mai scherzare!» Ci fu un sobbalzo brusco, quando Phil Croninger piantò il piede sul pedale del freno. In mezzo alla strada erano comparsi due uomini in elmetto
verde e tuta mimetica. Impugnavano fucili mitragliatori Ingram e portavano una .45 alla cintura. Gli Ingram erano puntati in pieno sul parabrezza del camper. «Cristo!» mormorò Phil. Un soldato gli indicò di abbassare il vetro; si spostò dalla sua parte, gli puntò in viso la luce di una pila tascabile. «Tesserino d'identità, prego» disse. Era giovane, con il viso duro, occhi blu elettrico. Phil estrasse il portafogli, tese il tesserino al giovane, che esaminò attentamente la fotografia. «In quanti siete, signore?» «Ah... tre. Io, mia moglie e mio figlio. Era previsto.» Il giovanotto passò il tesserino al suo collega, che staccò dalla cintura un walkie-talkie. Disse: «Centrale, qui Posto Controllo. Ne abbiamo fermati tre, su un camper grigio. Nome sul tesserino: Philip Austin Croninger, numero di computer 0-671-4724. Attendo conferma.» «Uau!» disse sottovoce Roland, tutto eccitato. «Proprio come nei film di guerra!» «Zitto» lo ammonì il padre. Roland ammirò l'uniforme dei due soldati: gli stivali, notò, erano lucidissimi e i calzoni della tuta mimetica sembravano appena stirati. Sul petto della camicia c'era un riquadro di stoffa con un simbolo: un guanto d'armatura che stringeva un fulmine; sotto, la scritta "Casa Terra" ricamata in oro. «D'accordo, grazie, Centrale» disse nel walkie-talkie il soldato. Passò il tesserino al collega, che lo tese a Phil. «Vada pure, signore. Il suo arrivo era previsto per le 22,45.» «Ci scusi.» Phil ripose nel portafoglio il tesserino. «Ci siamo fermati a cenare sul tardi.» «Segua la strada» spiegò il giovanotto. «Fra circa quattrocento metri, vedrà un cartello di stop. Si assicuri che le ruote siano in perfetta corrispondenza con i segni per terra, capito? Vada pure.» Accompagnò con un rapido gesto le parole. Mentre il secondo soldato si scansava, Phil si allontanò dal posto di controllo. Un'occhiata allo specchietto laterale gli mostrò i due che rientravano nella foresta. «Papà, danno a tutti l'uniforme?» domandò Roland. «No, non credo. Solo chi lavora qui porta l'uniforme.» «Non li ho nemmeno visti» disse Elise, ancora nervosa. «Ho alzato gli occhi e me li sono trovati davanti. Ci puntavano i mitra! E se uno avesse sparato?» «Sono professionisti, tesoro, altrimenti non sarebbero qui. Senza dubbio
sanno benissimo come si maneggiano le armi da fuoco. Il controllo dimostra solo quanto saremo al sicuro nelle prossime due settimane. Non entra nessuno, se non ne ha il diritto. Giusto?» «Giusto!» disse Roland. Aveva provato un brivido d'eccitazione, nel guardare la canna dei due Ingram. Se avessero voluto, pensò, con una sola raffica ci avrebbero spazzati via. Una lieve pressione sul grilletto e addio tutti. La sensazione lo lasciò sorprendentemente rinvigorito, come se gli avessero gettato in viso acqua fredda. Ottimo, si disse; ottimo davvero. Un Cavaliere del Re sapeva affrontare i pericoli. «Ecco lo stop» disse Phil. I fari illuminarono, proprio davanti a loro, il cartello affisso alla parete di roccia scabra contro cui finiva la strada di montagna. Intorno c'erano solo boschi scuri e pareti di roccia: nessun segno del luogo che si aspettavano di trovare e per il quale si erano sobbarcati il viaggio da Flagstaff. «Come entriamo?» chiese Elise. «Vedrai. Una delle cose più fantastiche che m'hanno mostrato.» Phil era stato lì in aprile, dopo avere letto un avviso pubblicitario di Casa Terra, sulla rivista Soldier of Fortune. Spinse avanti il camper, alla velocità minima; le ruote anteriori affondarono in due scanalature e azionarono una coppia di ganci a pressione. Quasi immediatamente si udì un brontolio profondo, il rumore di macchinario pesante, d'ingranaggi e di catene in movimento. Una fessura di luce al neon comparve alla base della parete rocciosa; una sezione di roccia risaliva fluidamente come la porta del garage di casa dei Croninger. Ma a Roland Croninger parve che ad aprirsi fosse l'enorme saracinesca d'una fortezza medievale. Il cuore gli batteva all'impazzata, mentre la fessura di luce si allargava e gli si rifletteva sempre più luminosa sugli occhiali. «Dio mio!» esclamò piano Elise. Sollevandosi, la parete di roccia lasciò scorgere un parcheggio dal fondo in cemento, occupato da automobili e da altri camper. Una fila di lampadine pendeva dalla griglia di travi d'acciaio posta sul soffitto. Nel vano dell'apertura c'era un soldato in uniforme, che segnalò a Phil di andare avanti; Phil procedette lentamente, guidato dalle scanalature giù per la rampa di cemento e nell'area di parcheggio. Appena le ruote rilasciarono i ganci a pressione, il battente cominciò a chiudersi. Il soldato indicò a Phil uno spazio fra due altri camper e si passò il dito sulla gola. «Cosa significa?» domandò Elise, a disagio. Phil sorrise. «Ci dice di spegnere il motore.» Lo spense. «Bene, siamo
arrivati.» La parete di roccia si chiuse con un tonfo rumoroso, tagliandoli fuori dal mondo esterno. «Eccoci arruolati nell'esercito!» disse Phil al figlio. Il ragazzo aveva un'aria sognante e stupita. Mentre uscivano dal camper, arrivarono due carrelli elettrici. Nel primo c'era un giovanotto sorridente, capelli color sabbia tagliati a spazzola, uniforme blu scuro con l'emblema di Casa Terra sul taschino della giacca. Il secondo carrello portava due uomini ben piantati, in tuta da ginnastica blu scuro, e si trascinava un rimorchietto basso per bagagli, del tipo in uso negli aeroporti. Il giovanotto sorridente, i cui denti candidi sembravano riflettere le luci al neon, controllò il foglio pinzato al portablocco, per essere sicuro del nome. «Salve, gente!» disse in tono allegro. «Il signore e la signora Croninger?» «Esatto» disse Phil. «E nostro figlio Roland.» «Ciao, Roland. Avete fatto buon viaggio da Flagstaff?» «Lungo, più che altro» disse Elise. Guardò a bocca aperta il parcheggio e calcolò che conteneva ben più di duecento macchine. «Dio mio, sembra che ci sia un mucchio di gente.» «Siamo al novantacinque per cento della capienza, signora Croninger. Per il fine settimana pensiamo di essere al completo. Signor Croninger, se vuole essere così gentile da dare loro le chiavi, questi due signori le porteranno i bagagli a destinazione.» Phil consegnò le chiavi ai due, che iniziarono a scaricare dal camper borse e valigie. «Mi sono portato il computer» disse Roland al giovanotto sorridente. «Va bene, vero?» «Certo. Salite sul carrello e vi condurrò al vostro alloggio. Caporale Mathis?» aggiunse, rivolto a uno dei portabagagli. «Questa roba va alla Sezione C, numero 16. Siamo a posto?» concluse. Phil si era accomodato sul sedile a fianco del guidatore, Elise e Roland in quelli posteriori. Il giovanotto attraversò il parcheggio e imboccò un corridoio — pavimentazione in cemento, fila di lampadine — che scendeva in lieve pendenza. Di tanto in tanto una brezza fresca proveniva da ventilatori posti sul soffitto. Altri corridoi si diramavano dal principale; le frecce indicavano le Sezioni A, B e C. «Sono il sergente Schorr, addetto all'accettazione.» Il giovanotto tese la mano, Phil gliela strinse. «Lieto di avervi con noi. Se avete domande, chiedete pure.»
«Be', ho già fatto il giro, in aprile, e conosco Casa Terra» spiegò Phil. «Ma non credo che mia moglie e mio figlio abbiano ricevuto dai dépliant il pieno impatto. Elise si preoccupava del sistema d'areazione, qui sotto.» Schorr si mise a ridere. «Non ha niente di cui preoccuparsi, signora Croninger. Abbiamo due moderni impianti di ventilazione, uno operante e uno di riserva. Quest'ultimo scatta nel giro di un minuto, se si verifica una situazione Codice Rosso... ossia quando... ah... ci aspettiamo d'essere colpiti e sigilliamo i condotti. Al momento, però, i ventilatori aspirano aria dall'esterno e le garantisco che quella di Blue Dome è probabilmente l'aria più pulita che abbia mai respirato. Abbiamo tre zone di soggiorno, le Sezioni A, B e C, su questo livello; più in basso, ci sono il centro di comando e il reparto manutenzione. E a quindici metri sotto di noi, la sala del generatore, le scorte di armi e di razioni d'emergenza, la riserva idrica, la sala radar, gli alloggi degli ufficiali. A proposito, seguiamo la prassi di conservare in magazzino tutte le armi da fuoco in arrivo. Per caso siete armati?» «Ah... ho una .357 Magnum» disse Phil. «Sotto il sedile posteriore. Non sapevo che ci fosse questa regola.» «Le sarà sfuggita, nel leggere il contratto al momento della firma. Ma è opportuno, ne converrà, che si sappia dove si trovano le armi, per la sicurezza degli ospiti di Casa Terra. Dico bene?» Sorrise a Phil, che annuì. «La schederemo e le daremo una ricevuta. Quando fra due settimane ve ne andrete, gliela restituiremo, lucida e pulita.» «Che armi avete lì sotto?» domandò Roland, molto interessato. «Oh, pistole, carabine automatiche, mitra, mortai, lanciafiamme, granate, mine antiuomo e anticarro, razzi... quasi tutto quel che può venirle in mente. E anche maschere antigas e tute antiradiazione, mi sembra ovvio. Il colonnello Macklin voleva che questa fosse una fortezza inespugnabile; e lo è, infatti.» Il colonnello Macklin, pensò Roland. Colonnello James "Jimbo" Macklin. Roland aveva letto di lui, sulle riviste di "survivalismo" e d'armi a cui suo padre era abbonato. Il colonnello Macklin aveva una lunga lista di successi, come pilota di 105-D Thunderchief nel Vietnam del Nord; era stato abbattuto nel 1971 ed era stato prigioniero fino al termine della guerra; poi era tornato in Vietnam e in Indocina, alla ricerca di dispersi, e aveva combattuto con i mercenari in Sud Africa, Ciad e Libano. «Incontreremo il colonnello Macklin?» domandò. «La presentazione si terrà alle 8 precise, nel salone del municipio. Ci sarà anche lui.»
Videro un cartello con la scritta SEZIONE C e una freccia rivolta a destra. Il sergente Schorr svoltò dal corridoio principale; le gomme del carrello sobbalzarono sopra frammenti di cemento e di pietra che ingombravano il pavimento. Dal soffitto l'acqua gocciolava in una pozza sempre più larga e bagnò tutti, prima che Schorr riuscisse a frenare. Schorr si girò e fermò il carrello, perdendo per un attimo il sorriso. Una sezione del soffitto, grossa quanto un tombino stradale, era crollata. Il foro lasciava vedere sbarre di ferro e rete metallica. Dal cruscotto del carrello Schorr prese un walkie-talkie, lo accese e disse: «Qui Schorr, nelle vicinanze dell'intersezione dei corridoi Centrale e C. C'è un guaio di drenaggio, occorre subito una squadra di pulizia. Chiaro?» «Chiaro» rispose una voce, debole per la statica. «Di nuovo guai?» «Ah... ho con me alcuni ospiti, caporale.» «Scusi, signore. La squadra di pulizia è già per strada.» Schorr spense il walkie-talkie. Gli tornò il sorriso, ma negli occhi castano chiaro c'era un'espressione di disagio. «Un guaio da nulla, gente. Casa Terra possiede un sistema di drenaggio di prima categoria, ma a volte ci sono perdite secondarie. Se ne occuperà la squadra di pulizia.» Elise indicò l'intrico di crepe sul soffitto. «Non sembra molto sicuro. E se crolla?» Fissò con tanto d'occhi il marito. «Mio Dio, Phil! Dobbiamo stare per due settimane sotto una montagna che perde?» «Signora Croninger» disse Schorr, in tono calmo. «Casa Terra non sarebbe piena al novantacinque per cento, se non fosse davvero sicura! Ammetto che il sistema di drenaggio non è perfetto, ma ci adoperiamo per metterlo a posto e non c'è assolutamente alcun pericolo. Abbiamo fatto ispezionare Casa Terra da ingegneri edili e specialisti di sollecitazioni: tutti hanno dato il benestare. Il nostro è un condominio survivalista, signora Croninger. Non saremmo qui, se non volessimo sopravvivere all'olocausto in arrivo. Giusto?» Elise spostò lo sguardo dal marito al giovanotto e viceversa. Suo marito aveva pagato cinquantamila dollari per la partecipazione a scadenza fissa al progetto Casa Terra: due settimane all'anno, vita natural durante, in quella che il dépliant definiva "una lussuosa roccaforte survivalista fra le montagne dell'Idaho meridionale". Naturalmente anche lei era convinta che l'olocausto sarebbe arrivato fra breve. Phil aveva scaffali interi di libri sulla guerra nucleare ed era convinto che sarebbe scoppiata entro un anno e che l'invasione sovietica avrebbe messo in ginocchio gli Stati Uniti. Aveva cercato un posto dove "opporre l'ultima resistenza". Ma lei aveva ten-
tato di fargli cambiare idea, sostenendo che in pratica era una scommessa da cinquantamila dollari sul fatto che il disastro si sarebbe verificato proprio in uno dei loro periodi di due settimane all'anno e che le sembrava un'idea davvero folle. Phil le aveva spiegato che la clausola Protezione Casa Terra, con una spesa extra di cinquemila dollari all'anno, consentiva alla famiglia Croninger di rifugiarsi lì in qualsiasi momento, entro ventiquattro ore dallo scoppio di un missile nemico sul territorio continentale degli Stati Uniti. Un'assicurazione contro l'olocausto, l'aveva definita. Tutti sapevano che le bombe sarebbero cadute, si trattava solo di stabilire quando. E Phil Croninger conosceva benissimo l'importanza delle assicurazioni, perché possedeva una delle più grandi agenzie assicurative indipendenti dell'Arizona. «Penso di sì» disse infine. Ma era turbata da quelle crepe e dalla vista della misera rete di fil di ferro che sporgeva dal nuovo buco. Il sergente Schorr accelerò il carrello elettrico. Passarono davanti a porte metalliche su due lati del corridoio. «Sarà costato un mucchio di soldi costruire un posto così» disse Roland. «Alcuni milioni» ammise Schorr. «Senza contare gli spiccioli. Un paio di fratelli texani ha messo i soldi; sono survivalisti pure loro e si sono arricchiti con i pozzi di petrolio. Qui, negli anni Quaranta e Cinquanta, c'era una miniera d'argento; ma il filone si esaurì e rimase chiusa finché gli Ausley non la comprarono. Siamo quasi arrivati.» Rallentò il carrello e lo fermò di fronte a una porta metallica con il numero 16. «La vostra casa dolce casa per le prossime due settimane, gente.» Aprì la porta, con una chiave appesa a una catenella con il simbolo di Casa Terra; allungò la mano dentro il locale e accese le luci. Prima di seguire marito e figlio all'interno, Elise Croninger udì uno sgocciolio d'acqua e vide un'altra pozza allargarsi nel corridoio. Il soffitto perdeva in tre punti e mostrava una lunga crepa frastagliata, larga cinque centimetri. Cristo, si disse, nervosa. Varcò lo stesso la soglia. La sua prima impressione fu di trovarsi in una caserma spartana. Le pareti erano in prefabbricati di cemento, tinteggiate marrone chiaro e decorate con alcuni quadri a olio. La moquette era abbastanza folta, di un'accettabile tonalità rosso ruggine, ma il soffitto le parve fin troppo basso, anche se superava di quindici centimetri l'altezza del marito... e Phil era alto un metro e ottanta. L'evidente mancanza di spazio nel "soggiorno" della suite, come la chiamava il dépliant, la faceva sentire quasi... sì, pensò, quasi chiusa in una tomba! Un tocco grazioso, però, era costituito dalla parete
opposta, rivestita per intero da un poster di montagne incappucciate di neve, che dava al locale un'ampiezza maggiore, anche solo per illusione ottica. C'erano due stanze da letto e un'unica stanza da bagno che le univa. Il sergente Schorr passò qualche minuto a mostrare la toilette ad aspirazione che si svuotava nel serbatoio in alto in modo da scaricare i rifiuti sul terreno della foresta e favorire la crescita della vegetazione. Le camere da letto erano anch'esse di blocchi prefabbricati dipinti di beige; i soffitti erano di pannelli di sughero che presumibilmente nascondevano l'intelaiatura di travi metalliche e di travetti di rinforzo. «Magnifico, no?» disse Phil. «Un vero schianto.» «Non ne sono ancora convinta» rispose Elise. «Ho sempre l'impressione d'essere in un pozzo di miniera.» «Oh, passerà» intervenne amabilmente Schorr. «I primi giorni alcuni ospiti soffrono un poco di claustrofobia, ma passa in fretta. Ecco, tenga.» Diede a Phil una pianta di Casa Terra, sulla quale mostrò dove si trovavano la cafeteria, la palestra, l'infermeria e la sala giochi. «Il municipio è questo» disse, posando il dito sulla cartina. «A dire il vero è solo un salone, ma ci riteniamo una comunità, qui sotto, giusto? Adesso vi mostro il percorso più rapido per arrivarci da qui...» Nella sua camera da letto, la più piccola delle due, Roland aveva acceso la lampada del comodino e cercava una presa adatta al computer. La stanza era piccola, ma per lui andava bene: quel che contava era l'atmosfera; e non vedeva l'ora di partecipare alle lezioni su "armi improvvisate", "sostentamento con i prodotti della terra", "governi nel caos" e "tattiche di guerriglia", promesse dal dépliant. Trovò una presa adatta, abbastanza vicino al letto da permettergli di stare appoggiato al guanciale mentre programmava al computer il gioco del Cavaliere del Re. Nelle prossime due settimane, pensò, avrebbe immaginato prigioni sotterranee e mostri scatenati in grado di far tremare anche un Cavaliere del Re esperto e smaliziato come lui. Aprì l'armadio per vedere quanto spazio aveva per la sua roba. Il rivestimento interno non era granché; dall'asta pendevano alcune grucce di fil di ferro. Ma dal fondo dell'armadio qualcosa di piccolo e di giallo svolazzò come una foglia d'autunno. Istintivamente Roland allungò la mano e l'afferrò nel pugno. Poi s'accostò alla luce e aprì cautamente le dita. Sul palmo della mano vide una fragile farfalla giallina, con striature verdi e oro sulle ali. Gli occhi erano capocchie di spillo verde scuro, simili a
smeraldi lucenti. La farfalla agitò le ali, debole e intontita. Roland si domandò da quanto tempo fosse chiusa lì dentro. Forse era arrivata nell'auto o nel camper di un ospite, o nei suoi vestiti. Sollevò la mano e fissò più da vicino gli occhi minuscoli della creatura. E poi strinse con forza la farfalla nel pugno, la sentì spiaccicarsi. Stirata, pensò; superstirata! Non aveva certo fatto tutta quella strada da Flagstaff per dividere la stanza con un maledetto insetto giallo! Gettò nel cestino dei rifiuti i resti maciullati della farfalla, si pulì sui calzoncini cachi la patina iridescente rimasta sul palmo e tornò in soggiorno. Schorr augurava la buonanotte; i due uomini erano appena arrivati a consegnare i bagagli e il computer di Roland. «Presentazione alle 8 precise, gente» disse Schorr. «Ci vediamo lì!» «Grande» commentò Phil Croninger, entusiasta. «Grande» lo imitò Elise, con sarcasmo. Il sergente Schorr, sorriso sempre incollato sulle labbra, lasciò la numero 16. Ma diventò serio, non appena salì sul carrello elettrico; le labbra formarono una linea serrata, torva. Schorr girò il carrello, andò rapidamente nella zona cosparsa di detriti e disse alla squadra di pulizia di muovere il culo per rappezzare le crepe... e di fare in modo che il rappezzo reggesse, stavolta!... prima che tutta la maledetta sezione cadesse a pezzi. DUE: lance di fuoco L'appassionato di film / Il giorno del giudizio / Benvenuto /1 ragazzi del sottosuolo / Disciplina e autocontrollo ti rendono uomo / Charter 6 17 luglio 4,40 - ora legale della Costa orientale New York City «È ancora lì dentro, vero?» disse la nera dai capelli arancione; il ragazzo d'origine spagnola, dietro il banco delle bibite, annuì. «Non lo senti?» replicò il ragazzo, Emiliano Sanchez, spalancando gli occhi neri. Da dietro la tenda color rosso sbiadito che chiudeva la sala del cinema
Empire State, nella Quarantaduesima, provenne una risata. Sembrava il grido di una persona a cui avessero tagliato la gola. Divenne più intensa e più acuta. Emiliano si turò le orecchie: la risata gli ricordava il fischio di una locomotiva e lo strillo di un bambino. Per qualche secondo tornò indietro nel tempo, a quando aveva otto anni, viveva a Città del Messico e aveva visto un treno merci travolgere e uccidere il fratellino. Cecily lo fissò; nella risata che cresceva di volume udì il grido di una ragazza, lei stessa a quattordici anni, distesa sul tavolo a fare un aborto clandestino. La visione sparì in un istante e la risata cominciò ad affievolirsi. «Gesù Cristo!» riuscì a dire Cecily, in un sussurro. «Cosa fuma, quel bastardo?» «Da mezzanotte non faccio che sentirlo» disse il ragazzo. Il suo turno durava fino alle otto. «Hai mai udito niente di simile?» «È solo, lì dentro?» «Già. Entra poca gente, ma nessuno lo sopporta. Dovresti vedere che faccia, quando escono! Fa venire la pelle d'oca!» «Merda!» disse Cecily. Lei vendeva i biglietti e lavorava nel botteghino all'esterno. «Non resisterei due minuti, a guardare quel film e tutti quei morti! Signoriddio, gli ho venduto il biglietto tre spettacoli fa!» «È uscito, ha comprato una Coca grossa e popcorn imburrato. M'ha dato un dollaro di mancia. Quasi non volevo toccarlo, te lo giuro. Sembrava... unto, o una cosa del genere.» «Il bastardo probabilmente se ne spara una, là dentro. Guarda tutti quei morti, quelle facce rovinate, e se lo mena! Bisognerebbe entrare a dirgli di...» La risata salì di nuovo. Emiliano sobbalzò; adesso gli ricordava il gemito del ragazzo a cui aveva piantato il coltello nella pancia, durante una zuffa. La risata si spezzò e gorgogliò, divenne un tubare morbido che indusse Cecily a pensare ai mugolii emessi dai drogati che frequentava. Non mosse un muscolo del viso, finché la risata non smise. Allora disse: «Io avrei da fare». Si girò e tornò di corsa nel botteghino, ma chiuse la porta a chiave. Aveva pensato subito che quel tipo si sarebbe fatto qualche numero, quando l'aveva visto: un tizio grande e grosso, dall'aria scandinava, con capelli biondi e ricci, pelle lattea e occhi simili a bruciature di sigaretta. Mentre comprava il biglietto, l'aveva trapassata con lo sguardo, ma non aveva detto parola. Quel tipo non è a posto, pensò Cecily, e prese la copia di People; ma le tremavano le mani. Fossero già le otto, si lamentò Emiliano. Controllò l'ora. Fra qualche mi-
nuto, La faccia della morte, parte IV sarebbe terminato; di sopra, quel vecchio ubriacone di Willy, l'addetto al proiettore, avrebbe cambiato le pizze con quelle di Mondo bizzarro, che mostrava scene di schiavitù e cose del genere. Forse, cambiando film, il tipo se ne sarebbe andato. Seduto sullo sgabello, Emiliano continuò a leggere i fumetti di Conan e cercò di scacciare i brutti ricordi evocati dalla risata. La tenda rossa si mosse. Emiliano ingobbì le spalle, come chi s'aspetta una mazzata. La tenda si scostò; nell'atrio sporco comparve l'appassionato di film. Se ne va, pensò Emiliano. Quasi sorrise, senza staccare gli occhi dai fumetti. Finalmente esce! Ma l'appassionato di film disse, con voce bassa e quasi fanciullesca: «Per favore, vorrei una Coca grossa e una vaschetta di popcorn imburrato». Emiliano sentì un nodo allo stomaco. Senza guardare in viso l'uomo, scese dallo sgabello, spillò la Coca in un bicchiere di carta preso dal distributore e schizzò di burro il popcorn. «Ancora un po' di burro, per favore» disse l'appassionato di film. Emiliano lasciò colare sul popcorn un altro po' di burro; spinse sul banco popcorn e Coca. «Tre dollari» disse. L'uomo mise sul ripiano una banconota da cinque: «Tenga il resto». Stavolta la voce aveva l'inflessione del Sud. Con un sobbalzo, Emiliano alzò gli occhi. L'appassionato di film era alto circa un metro e novanta, portava una Tshirt gialla e calzoni verdi di tela. Sotto le sopracciglia nere e folte, aveva occhi di un verde ipnotico, contro la pelle color ambra. Quando l'aveva visto entrare, Emiliano aveva pensato che l'uomo fosse sudamericano, forse con un po' di sangue indio. Aveva capelli neri e ondulati, tagliati molto corti. Guardò con fissità Emiliano. «Voglio vedere di nuovo il film» disse piano; la voce aveva di nuovo una cadenza che poteva sembrare brasiliana. «Ah... fra un paio di minuti c'è Mondo bizzarro. L'operatore avrà già messo nel proiettore la prima pizza...» «No» disse l'appassionato di film, con una traccia di sorriso. «Voglio vedere di nuovo l'altro film. E subito.» «Già. Be', senta... voglio dire, non prendo io le decisioni, qui, giusto? Lavoro al banco, non ho voce in capitolo nella scelta...» Allora l'uomo allungò la mano e gli toccò il viso, con dita fredde e unte di burro; le mascelle di Emiliano si bloccarono, come congelate. Per un secondo credette che il mondo gli girasse intorno; le sue ossa erano una gabbia di ghiaccio. Poi batté le palpebre, tutto tremante; si ritrovò
in piedi dietro il banco, ma l'appassionato di film era sparito. Maledizione, pensò; il bastardo m'ha toccato! Prese un tovagliolo di carta e si pulì il viso, ma sentiva ancora il senso di gelo che le dita vi avevano lasciato. La banconota da cinque dollari era rimasta sul ripiano. Emiliano la intascò, si avvicinò alla tenda e scrutò nella sala. Sullo schermo, in una fantasmagoria di colori sanguinosi, dei vigili del fuoco estraevano da rottami d'automobili cadaveri anneriti. La voce fuori campo diceva: «La faccia della morte colpisce sodo. Tutto quel che vedrete è realmente accaduto. Se siete troppo delicati, a quest'ora dovreste essere già usciti...» L'appassionato di film sedeva in prima fila. Il profilo della testa si stagliava contro lo schermo. La risata iniziò. Ritraendosi dalla tenda, Emiliano guardò l'orologio da polso e capì che quasi venti minuti della sua vita erano un buco nero. Varcò una porta, salì la scala ed entrò nello stanzino del proiettore, dove Willy, spaparanzato sulla brandina, leggeva Hustler. «Ehi!» disse Emiliano. «Cosa combini, amico? Perché proietti di nuovo quella merda?» Per un momento Willy lo fissò da sopra il bordo della rivista. «Dai i numeri, ragazzo? Tu e il tuo amico siete appena saliti a chiedermi di proiettarlo di nuovo. Nemmeno un quarto d'ora fa. Per questo l'ho rimesso. Non dare la colpa a me. E poi, non mi piace discutere con i vecchi pervertiti.» «Vecchi pervertiti? Ma di chi parli?» «Del tuo amico. Avrà almeno settant'anni. Con quella barba, assomiglia a Rip Van Winkle. Chissà da dove spuntano, questi pervertiti.» «Sei... pazzo» mormorò Emiliano. Willy scrollò le spalle e riprese a leggere. Cecily alzò gli occhi nel vedere Emiliano correre in strada. Il ragazzo si girò a gridare: «Lì dentro non ci resto! Me ne vado!» Corse via nella Quarantaduesima e sparì nel buio. Cecily si fece il segno della croce, controllò il chiavistello della biglietteria e pregò che venisse l'alba. Nella poltrona in prima fila, l'appassionato di film tuffò la mano nel popcorn imburrato e si riempì la bocca. Davanti a lui c'erano scene di corpi maciullati, estratti dalle macerie di un edificio londinese fatto saltare in aria da terroristi irlandesi. L'uomo piegò di lato la testa, apprezzando lo spettacolo delle ossa fracassate e del sangue. L'immagine era poco nitida; poi la telecamera malferma mise a fuoco il viso sconvolto di una giovane donna che cullava un bambino morto.
L'appassionato di film scoppiò a ridere come se assistesse a una commedia. In quella risata c'era il sibilo di bombe al napalm, di razzi incendiari, di missili Tomahawk; echeggiò nella sala, e se ci fossero stati altri spettatori, ciascuno avrebbe trasalito al ricordo di un terrore privato. E nella luce riflessa dello schermo, il viso dell'uomo subiva una trasformazione. Non sembrò più scandinavo, né brasiliano; e neppure aveva la barba grigia alla Rip Van Winkle; i lineamenti si mescolavano come nella lenta fusione d'una maschera di cera, le ossa si muovevano sotto la pelle. Le fattezze di centinaia di facce comparivano e scomparivano, come piaghe in suppurazione. Mentre lo schermo mostrava in primo piano un'autopsia, l'uomo batté le mani, estasiato. È quasi ora, pensò; è quasi ora che lo spettacolo abbia inizio! Aveva atteso a lungo che il sipario si alzasse, aveva indossato molte pelli e molte facce, e il momento era vicino, vicinissimo. Aveva guardato attraverso molti occhi la sbandata verso la distruzione, aveva annusato nell'aria fuoco e fumo e sangue, come profumi inebrianti. Il momento era vicino, e sarebbe stato tutto suo. Oh, sì! Era quasi ora che lo spettacolo iniziasse! Lui era una creatura paziente, ma ormai quasi non resisteva alla voglia di mettersi a ballare. Forse una piccola sarabanda nel corridoio della sala s'imponeva; e poi avrebbe ballato sulla pancia dello scarafaggio dietro il banco delle bibite. Gli sembrava l'attesa d'una festa di compleanno: accese le candeline, avrebbe spinto indietro la testa e riso con tanta forza da far barcollare Dio. Quasi ora! Quasi ora! Ma dove sarebbe iniziato, lo spettacolo? Chi avrebbe premuto per primo il pulsante? Non importava; quasi udiva la miccia sfrigolare, la fiammella farsi più vicina. Era la musica delle alture del Golan, di Beirut e di Teheran, di Dublino e di Varsavia, di Johannesburg e del Vietnam... ma questa volta si sarebbe conclusa con un ultimo, assordante crescendo. Si cacciò una manciata di popcorn nell'avida bocca che gli si aprì nella guancia destra. Avanti con la festa, pensò. E ridacchiò con un rumore che ricordava la smerigliatura di vetri. Quella sera era sceso dal pullman Trailways proveniente da Filadelfia; nel percorrere la Quarantaduesima, aveva visto che davano questo film. Non perdeva mai l'occasione d'ammirare la sua recita in La faccia della morte, parte IV, dovunque poteva. Lui vi compariva soltanto dì sfuggita, ovviamente: faceva sempre parte della folla, ma ogni volta si riconosceva.
C'era un'ottima inquadratura che lo mostrava davanti a un mucchio di cadaveri, dopo il bombardamento di uno stadio di calcio in Italia; e aveva l'aria adeguatamente sconvolta. Un'altra breve immagine lo mostrava, con una faccia diversa, fra gli spettatori di un massacro all'aeroporto di Parigi. Negli ultimi tempi aveva visitato l'America girando in pullman di città in città. In Europa i gruppi di terroristi e di agitatori armati erano tanto numerosi da rendere superflua la sua influenza; ma a Beirut aveva collaborato con piacere a piazzare quella graziosa bomba atomica. Si era fermato per qualche tempo a Washington, ma lì nessuna sala cinematografica proiettava La faccia della morte, parte IV. Tuttavia Washington presentava un mucchio di opportunità. E quando, in una festa, ti ritrovi insieme a ragazzi del Pentagono e membri di Gabinetto, non sai mai che cosa puoi provocare. Ora si arrivava al dunque. In tutto il mondo dita nervose indugiavano su pulsanti rossi. Piloti d'aviogetti si agitavano, comandanti di sommergibili ascoltavano il sonar, vecchi leoni non vedevano l'ora di azzannare. E, cosa sorprendente, facevano tutto da soli. Gli davano quasi la sensazione d'essere inutile... ma avrebbe assunto presto il suo ruolo di protagonista. Aveva un'unica preoccupazione: non ci sarebbe stata la fine, neppure con tutti quei fulmini pronti a colpire. Forse sarebbero rimaste sacche d'esseri umani, forse piccole comunità avrebbero lottato per sopravvivere nel buio, come ratti fra le macerie d'una cantina. Le tempeste di fuoco, i turbini di radiazioni, le piogge contaminate avrebbero distrutto la maggior parte dei sopravvissuti e i rimanenti avrebbero rimpianto migliaia di volte d'essere ancora vivi. E alla fine lui avrebbe ballato anche sulla loro tomba. Era quasi l'ora. Tic tac, tic tac, pensò. Niente ferma l'orologio! Lui aveva pazienza, ma l'attesa era stata lunga. Qualche ora in più gli avrebbe solo stuzzicato l'appetito e lui aveva tanta, tanta fame. Per il momento, poteva concedersi il piacere di guardare se stesso in questo magnifico film. Il sipario sta per alzarsi, si disse. E la bocca al centro della fronte sghignazzò, prima di sparire nella carne, come un verme grigio nel terreno molle. È l'ora dello spettacolo! 7
10,16 - ora legale della Costa orientale New York City Una luce azzurra roteava. Cadeva una pioggia gelida. Un giovanotto in impermeabile giallo tese le braccia. «La dia a me, signora» disse con voce così sorda che sembrava provenire dal fondo di un pozzo. «Su, forza. La dia a me.» «No!» gridò Sister Creep. Il viso dell'uomo si frammentò in mille pezzi come uno specchio in frantumi. Lei sollevò le mani a spingerlo via, ma poi si ritrovò ad alzarsi a sedere e l'incubo turbinò via in coriandoli simili a pipistrelli argentati. Il grido echeggiò fra le pareti di mattoni grigi e scabri; per un momento Sister Creep rimase seduta a fissare il vuoto, con il corpo scosso da uno sfrigolio di nervi. Oh, pensò, quando la testa le si schiarì, stavolta è stato proprio uno di quelli brutti! Si toccò la fronte appiccicaticcia e le dita le rimasero umide. C'è mancato poco, pensò. Il giovane demone con l'impermeabile giallo era di nuovo lì, assai vicino, e quasi le aveva preso... Corrugò la fronte. Le aveva preso che cosa? Il pensiero, quale che fosse, ormai era svanito, si era rifugiato nella zona buia della sua memoria. Sognava spesso il demone in impermeabile giallo; e ogni volta lui voleva che gli desse una cosa. Nel sogno, lampeggiava sempre una luce azzurra che le feriva gli occhi, e la pioggia la colpiva in viso. A volte l'ambiente le sembrava orribilmente noto; a volte sapeva quasi — solo quasi — che cosa lui volesse; ma lui era un demone, forse il Diavolo in persona, che cercava di strapparla a Gesù... e la testa le pulsava dolorosamente, alla fine del sogno. Non sapeva che ore fossero, né se fosse giorno o notte; ma lo stomaco le brontolava per la fame. Aveva provato a dormire sopra una panchina della sotterranea, ma si era spaventata per le grida di alcuni giovinastri e allora, tenendosi stretta la borsa, era andata in cerca di un posto più sicuro. L'aveva trovato in fondo alla scala a pioli che portava in una zona buia del tunnel. Circa nove metri sotto la galleria principale c'era una tubatura di drenaggio, larga abbastanza da permettere il passaggio, se si teneva piegata. Un rivolo d'acqua sporca le scorreva intorno alle scarpe di tela; di tanto in tanto il tunnel era illuminato da una lampada azzurra di servizio che mostrava la rete di cavi e di tubature più in alto. Il tunnel tremò per il rombo di un treno in transito. Sister Creep capì di trovarsi sotto le rotaie. Ma quando s'inoltrò nel tunnel, il rombo dei treni si affievolì fino a diventare un garbato brontolio lontano. Presto trovò i segni che quel posto era fre-
quentato dai membri della "marmaglia nazionale": un materasso vecchio e malridotto, in un angolo; un paio di bottiglie di vino, vuote; escrementi umani secchi. Non ci badò, aveva visto di peggio. E così dormì sul materasso, finché non fu svegliata dall'incubo del demone in impermeabile giallo. Era affamata. Decise di tornare nella stazione della sotterranea per frugare nei bidoni dei rifiuti, in cerca di qualche avanzo; forse avrebbe trovato un giornale, anche, e avrebbe scoperto se, mentre lei dormiva, Gesù era venuto. Sister Creep si alzò, si mise a tracolla la borsa e lasciò il rifugio. Iniziò a percorrere il tunnel illividito dall'azzurro delle lampadine di servizio e si augurò di trovare un hot dog. Le erano sempre piaciuti, gli hot dog con tanta buona sena... All'improvviso il tunnel tremò. Sister Creep udì il rumore del cemento che si crepava. La luce azzurra tremolò, svanì, tornò a brillare. Ci fu un rumore simile all'ululato del vento o d'un treno in corsa sfrenata. La luce azzurra aumentò d'intensità, divenne quasi abbagliante. Sister Creep socchiuse gli occhi. Avanzò ancora di tre passi, malferma sulle gambe; le lampadine cominciarono a scoppiare. Alzò le mani per ripararsi il viso, fu colpita alle braccia da schegge di vetro; in un lampo di lucidità, pensò: "Farò causa a qualcuno, per questo!" L'attimo dopo, l'intero tunnel si piegò violentemente sul fianco e Sister Creep finì nel rivolo d'acqua sporca. Pezzi di cemento e polvere caddero dal soffitto. Il tunnel rimbalzò nell'altra direzione, con la violenza e la rapidità d'un colpo di frusta. Sister Creep pensò che i suoi organi interni se ne andassero per conto loro; fu colpita alla testa e alle spalle da una pioggia di cemento, sentì le narici piene di sabbia. «Gesù mio!» gridò, sul punto di soffocare. «Oh, Gesù mio!» In alto, dai cavi troncati scaturirono scintille. Sister Creep sentì il calore umido del vapore e udì una serie di tonfi simili ai passi di un mostro enorme. Mentre il tunnel ondeggiava qua e là, Sister Creep si aggrappò alla borsa, procedette in quel terremoto ondulatorio, serrò i denti per reprimere un grido. Un'ondata di calore l'avvolse e le rubò il fiato. Dio mio aiutami, gridò nella mente, lottando per respirare. Udì uno schiocco, sentì il gusto del sangue che le colava dal naso. Non respiro, buon Gesù, non riesco a respirare! Si artigliò la gola, spalancò la bocca, udì il suo stesso gemito soffocato disperdersi nel tunnel vibrante. Infine con i polmoni straziati aspirò una boccata d'aria rovente e giacque nel buio, rannicchiata sul fianco, con il corpo squassato da spasimi e il cervello intontito dallo choc. Le contorsioni violente del tunnel erano cessate. Sister Creep continuò a
passare dalla lucidità all'incoscienza; nella confusione mentale udì di nuovo il rombo del treno. Ma questa volta diventava più intenso. In piedi, si disse; in piedi! È il giorno del giudizio, il Signore è giunto nel Suo carro a portare in cielo i giusti! Ma una voce più calma, più chiara, che forse proveniva dall'angolo buio della sua memoria, disse: «Stronzate! È successo qualcosa di brutto!» In cielo, in cielo, in cielo, pensò lei, sforzandosi di scacciare la voce maligna. Si mise a sedere, si pulì il sangue dal naso, inalò boccate d'aria umida e soffocante. Il rombo del treno scatenato era più vicino. Sister Creep s'accorse che l'acqua in cui sedeva era bollente. Afferrò la borsa, piano piano si tirò in piedi. Buio dappertutto. Tastò le pareti del tunnel, sentì sotto le dita una pazzesca trapunta di crepe e di fessure. Il rombo era molto più intenso, l'aria si scaldava. Sotto le dita, il cemento sembrava l'asfalto della città in un mezzogiorno d'agosto, caldo da friggere le uova. Lontano, nel tunnel, comparve un tremolio di luce arancione, simile al faro di testa d'un treno in corsa. Il tunnel aveva ripreso a tremare. Sister Creep fissò, tesa in viso, l'avvicinarsi della luce arancione, che diventava sempre più luminosa e mostrava screziature di rosso e di viola. Capì infine di che cosa si trattava e gemette come un animale in trappola. Una cortina di fuoco avanzava ruggendo nel tunnel e lei già sentiva le folate dell'aria risucchiata come nel vuoto. In meno d'un minuto le fiamme l'avrebbero raggiunta. Sister Creep uscì di colpo dallo stato di trance. Si girò e fuggì, sciaguattando con le scarpe di tela nell'acqua fumante. Scavalcò a salti tubature rotte, spinse via cavi penzolanti, con la frenesia di chi si sente ormai condannato. Le fiamme lanciavano filamenti rossi che schioccavano nell'aria come fruste. Il risucchio l'attirava, cercava di spingerla sui suoi passi e dentro le fiamme; quando urlò, l'aria le soffocò le narici e la gola. Sentì puzza di capelli bruciati, vesciche le incresparono la pelle della schiena e delle braccia. In trenta secondi avrebbe raggiunto il suo Signore e Padrone; Sister Creep notò con stupore di non sentirsi pronta né ansiosa d'andare a Lui. Con un grido di sorpresa e di terrore, d'un tratto inciampò e cadde a capofitto. Nel rialzarsi, vide che era inciampata nella grata in cui scorreva l'acqua
di scolo. Sotto la grata c'era solo tenebra. Sister Creep guardò l'avanzata del fuoco che le bruciacchiò le sopracciglia e le coprì il viso di vesciche trasudanti siero. Non aveva il tempo di fuggire, il fuoco l'aveva quasi raggiunta. Diede uno strattone alle sbarre della grata. Una vite arrugginita si spezzò, ma l'altra resse. Le fiamme erano a una decina di metri. I capelli di Sister Creep presero fuoco. Dio mi aiuti, gridò lei mentalmente. Tirò la grata verso l'alto, con tanta forza da slogarsi quasi le spalle. La seconda vite si spezzò. Sister Creep scostò la grata, sprecò un secondo per afferrare la borsa, si buttò a capofitto nel buco. Cadde per un metro e si ritrovò in uno spazio stretto come una bara, dentro venti centimetri d'acqua. Le fiamme passarono sopra di lei, le strapparono l'aria dai polmoni, le ustionarono ogni centimetro di pelle esposta. I vestiti presero fuoco e lei si rotolò freneticamente nell'acqua. Per qualche secondo ci fu solo il ruggito delle fiamme e una sofferenza atroce. E il profumo di hot dog bolliti nel carretto del venditore ambulante. La muraglia di fuoco passò con la rapidità d'una cometa; nella sua scia tornò il sibilo d'aria che portava con sé l'intenso odore di carne bruciata e di metallo fuso. Nel buco che alimentava con l'acqua di drenaggio la tubazione di una fogna, il corpo di Sister Creep fu scosso dagli spasimi. Otto centimetri d'acqua, evaporando, avevano attutito l'intensità delle fiamme. Sotto gli abiti a brandelli, il corpo ustionato lottò per respirare. Sister Creep ansimò e farfugliò, senza staccare dalla sacca di tela fumante le mani coperte di vesciche. Poi giacque immobile. 8 8,31 - ora legale delle Montagne Rocciose Monte Blue Dome, Idaho Il ronzio costante del telefono sul comodino strappò l'uomo da un sonno senza sogni. Smettila, pensò lui, lasciami in pace. Ma il ronzio continuò. Alla fine l'uomo si girò senza fretta, accese la lampada, socchiuse gli occhi alla luce improvvisa e prese il ricevitore. «Macklin» disse, con voce con-
fusa e assonnata. «Ah... colonnello?» Era la voce del sergente Schorr. «Alcuni nuovi ospiti in sala conferenze attendono di conoscerla, signore.» Il colonnello James "Jimbo" Macklin guardò la piccola sveglia verde posta accanto al telefono: era in ritardo di oltre mezz'ora per la conferenza e il saluto. Vadano tutti all'inferno, pensò; avevo messo la sveglia alle 6,30 precise. «Bene, sergente. Li tenga lì ancora quindici minuti» rispose. Agganciò il telefono e controllò la parte posteriore della sveglia: la levetta era ancora abbassata. O non aveva puntato la suoneria, oppure l'aveva spenta senza svegliarsi. Si sedette sul bordo del letto, cercò di radunare l'energia necessaria ad alzarsi, ma si sentiva lento e gonfio. Anni prima, rifletté torvamente, non avrebbe avuto bisogno della sveglia per destarsi; si sarebbe svegliato di colpo al rumore di un passo sull'erba bagnata e nel giro di qualche secondo sarebbe stato all'erta come un lupo. Il tempo passa, si disse. E non torna. Si costrinse ad alzarsi, ad attraversare la stanza dalle pareti decorate con fotografie di aerei Phantom e Thunderchief in volo. Entrò nello stanzino da bagno, accese la luce, lasciò scorrere l'acqua: era rugginosa. Si lavò il viso, si asciugò, rimase a fissare con occhi stanchi l'estraneo riflesso nello specchio. Macklin era alto uno e ottantacinque; fino a cinque o sei anni prima, era stato magro e scattante, torace coperto di muscoli, spalle dritte e robuste, petto in fuori come la corazza Chobham sul muso di un carro armato M-1. Ma ora i contorni del corpo erano resi incerti dalla pelle flaccida, la pancetta resisteva alle cinquanta flessioni che faceva ogni mattina... cioè, le mattine in cui ne aveva il tempo. Le spalle curve parevano cedere sotto un peso invisibile e c'erano fili bianchi nei peli del petto. I bicipiti, un tempo duri come pietra, erano diventati flosci. Una volta Macklin aveva spezzato il collo a un soldato libico, con una stretta nell'incavo del braccio; ora gli pareva di non avere la forza di schiacciare con un maglio una noce. Attaccò alla presa il rasoio elettrico e se lo passò sulla mascella ispida. I capelli castano scuro, rigorosamente tagliati a spazzola, mostravano alle tempie i primi fili grigi; sotto la fronte dritta e ampia, gli occhi blu ghiaccio erano incavati e cerchiati dalla stanchezza, come minuscoli iceberg su acque fangose. Mentre si radeva, Macklin pensò che il suo viso ormai sembrava una qualsiasi delle centinaia di carte topografiche di campi di battaglia studiate attentamente anni prima: la scogliera sporgente del mento portava alla scoscesa forra della bocca, poi su fino agli altopiani degli
zigomi e alla cresta rocciosa del naso e giù di nuovo alle paludi degli occhi e, con un balzo, alle scure foreste delle folte sopracciglia. Il viso aveva anche tutti i segni caratteristici del terreno: i crateri butterati, ricordo dell'acne giovanile; la piccola trincea della cicatrice che gli segnava a zigzag il sopracciglio sinistro, per la quale doveva ringraziare una pallottola di rimbalzo, ai tempi della guerra in Angola. Inoltre, lungo la scapola sinistra, c'era una cicatrice più profonda e più lunga, dovuta a una pugnalata, in Iraq; e un ricordino delle pallottole vietcong gli increspava la pelle nella parte destra del torace. Macklin aveva quarantaquattro anni, ma a volte appena sveglio si sentiva come se ne avesse settanta, per le fitte di dolore alle braccia e alle gambe, causate dalle fratture riportate nel corso di battaglie in lidi lontani. Finì di radersi, scostò la tendina della doccia per aprire l'acqua; si fermò a metà del gesto, perché il pavimento della piccola doccia era disseminato di piastrelle cadute dal soffitto e di calcinacci. Da una serie di fori gocciolava acqua, nei punti dove il soffitto aveva ceduto. Mentre fissava lo sgocciolio, si rese conto all'improvviso che se avesse fatto la doccia non sarebbe arrivato puntuale e fu assalito da una rabbia improvvisa, ardente come ferro fuso in un forno ad arco; batté il pugno contro la parete, una volta, due; la seconda volta, la forza del colpo lasciò una ragnatela di crepe sottili. Macklin si chinò sul lavandino e aspettò che la rabbia sbollisse, come di solito succedeva. «Calma» si disse. «Disciplina e autocontrollo. Disciplina e autocontrollo.» Ripeté ancora la formula, come se fosse un mantra; trasse un respiro lungo e profondo, raddrizzò la schiena. Ora di andare, pensò; mi aspettano. Si passò sotto le ascelle lo stick deodorante e andò all'armadio della camera da letto, per scegliere l'uniforme. Prese un paio di calzoni blu scuro dalla piega perfetta, una camicia celeste e il giubbotto di volo in popeline beige, con le toppe di pelle ai gomiti e la scritta MACKLIN sul taschino. Allungò la mano sullo scaffale in alto, dove teneva una custodia con il mitra Ingram e i caricatori; amorevolmente tolse dal ripiano il berretto da colonnello dell'Aviazione; tolse un immaginario granello di polvere dalla visiera lucida, si mise in testa il berretto. Si diede un'occhiata di controllo nello specchio dell'anta: bottoni lucidi, a posto; piega dei calzoni, a posto; scarpe lucide, a posto. Si sistemò meglio il colletto e fu pronto a uscire. Il suo carrello elettrico personale era fermo all'esterno del suo alloggio, nel livello del centro di comando. Con una delle varie chiavi appese a una
catenella, Macklin chiuse la porta; poi salì sul carrello e percorse il corridoio. Più in là c'erano la porta metallica sigillata dell'armeria e quella del magazzino con le scorte di viveri e d'acqua per i casi d'emergenza. All'altro capo del corridoio, dopo gli alloggi di altri tecnici e funzionari di Casa Terra, c'erano la sala del generatore e i comandi dell'impianto filtraggio aria. Macklin passò davanti alla porta della sala controllo perimetrale, che conteneva gli schermi dei piccoli radar portatili di sorveglianza, sistemati in modo da sorvegliare l'entrata di Casa Terra, e lo schermo principale del riflettore parabolico radar puntato al cielo, posto sulla cima di monte Blue Dome. Nella sala controllo perimetrale c'era anche l'impianto idraulico che sigillava le prese d'aria e l'ingresso foderato di piombo, nel caso d'attacco nucleare; i diversi schermi radar erano controllati giorno e notte. Macklin guidò il carrello su per il piano inclinato fino al livello superiore e puntò alla sala del municipio. Passò davanti alla palestra, dov'era in corso la lezione di ginnastica aerobica. Nel corridoio passarono alcuni ospiti mattinieri che praticavano jogging; Macklin li salutò con un cenno, mentre li oltrepassava. Poi si trovò nell'ampio corridoio della piazza del municipio di Casa Terra; la piazza era un incrocio di corridoi con al centro un giardino di roccia. Intorno c'erano diversi "negozi" la cui facciata era fatta a imitazione di quella delle botteghe di una cittadina di campagna. Sulla piazza del municipio si aprivano anche il salone per abbronzature, la sala cinematografica in cui si proiettavano film su videocassetta, la biblioteca, il posto di pronto soccorso che s'avvaleva di un medico e di due infermiere, la sala giochi e la cafeteria. Nel passare davanti a quest'ultima, Macklin colse il profumo di uova e pancetta e rimpianse di non avere il tempo di fare colazione. Non era da lui essere in ritardo. Disciplina e autocontrollo, pensò; sono queste le due cose che ti rendono uomo. Ma era ancora arrabbiato per il soffitto della doccia. Negli ultimi tempi, a quanto pareva, in varie zone di Casa Terra le pareti e il soffitto si crepavano e cedevano. Lui aveva telefonato varie volte ai fratelli Ausley; ma, a sentire loro, i rapporti degli ingegneri edili indicavano che era logico aspettarsi un certo assestamento. Assestamento le palle, aveva ribattuto Macklin; qui c'è un bel problema di drenaggio. L'acqua si raccoglie sul soffitto e filtra! «Non si agiti, colonnello» aveva detto Donny Ausley, da San Antonio. «Se diventa nervoso lei, anche gli ospiti diventeranno nervosi, giusto? E non c'è motivo d'innervosirsi. Quella montagna sta in piedi da migliaia d'anni e non crollerà di sicuro.»
«Non è la montagna!» aveva ribattuto Macklin, stringendo con forza il ricevitore. «Sono i tunnel! La squadra di manutenzione scopre nuove crepe ogni giorno!» «Assestamento, tutto qui. Ora, stia a sentire, Terry e io abbiamo impegnato dieci milioni in quel posto e l'abbiamo fatto costruire in modo che duri! Se non dovessimo mandare avanti gli affari, saremmo lì con lei. Ora, a quella profondità sotto terra, è normale che ci siano assestamenti e infiltrazioni d'acqua. Impossibile evitarli. E le diamo centomila dollari all'anno per sostenere Casa Terra e viverci, dato che lei è un grande eroe di guerra eccetera. Allora pensi a sistemare le crepe e faccia felici tutti quanti.» «Mi stia a sentire lei, signor Ausley! Se entro una settimana non viene un ingegnere edile a fare un sopralluogo, me ne vado. Me ne frego del contratto. Non incoraggio la gente a stare qui sotto, se non è sicuro!» «Meglio che si calmi, colonnello» aveva replicato Donny Ausley; la sua voce con la cadenza strascicata dei texani era diventata più gelida di vari gradi. «Non può piantare in asso un affare. Non è corretto. Ricordi solo come Terry e io l'abbiamo trovata e rimessa in quadro, prima di andare su tutte le furie, d'accordo?» Disciplina e autocontrollo, aveva pensato Macklin, con il cuore che gli martellava; disciplina e autocontrollo! Donny Ausley gli aveva promesso di mandare da San Antonio un ingegnere, nel giro di due settimane; avrebbe passato al pettine fitto Casa Terra. «Ma nel frattempo» aveva concluso «lei è il capo supremo. Se ha un problema, lo risolva da solo. Chiaro?» La telefonata risaliva quasi a un mese prima. L'ingegnere edile non si era visto. Il colonnello Macklin fermò il carrello davanti a una porta a due battenti, sopra la quale un'iscrizione all'antica, piena di svolazzi, diceva: MUNICIPIO. Prima di entrare, strinse di un altro buco la cintura, anche se i calzoni erano già fin troppo stretti in vita; raddrizzò le spalle ed entrò nella sala. Una decina di persone occupava le sedie di vinile rosso di fronte al podio, dove il capitano Warner rispondeva alle domande e metteva in evidenza alcune caratteristiche di Casa Terra, sulla cartina appesa alla parete alle sue spalle. Il sergente Schorr, pronto ad affrontare le domande più difficili, vide entrare il colonnello e si accostò in fretta al microfono. «Mi scusi, capitano» disse, interrompendo una spiegazione riguardante l'impianto idraulico e il sistema di filtraggio dell'acqua. «Gente, voglio farvi conoscere una persona che certo non ha bisogno di presentazioni: il colonnello James Barnett Macklin.»
Il colonnello percorse a passo brioso il varco centrale fra i sedili, mentre il pubblico applaudiva. Prese posto dietro il podio, fra la bandiera americana e quella di Casa Terra, e guardò gli spettatori. L'applauso continuò; un uomo di mezz'età, in giacca mimetica, si alzò in piedi, imitato dalla moglie vestita come lui; in breve erano tutti in piedi ad applaudire. Macklin lasciò che continuassero per quindici secondi, prima di ringraziare e d'invitarli a sedersi. Il capitano "Teddybear" Warner, l'Orsacchiotto, un robusto ex berretto verde che in Sudan aveva perso l'occhio sinistro per colpa di una granata e ora portava una benda nera, si sedette, con Schorr a fianco, alle spalle del colonnello. Macklin esitò, ripassando mentalmente il discorsetto; di solito rivolgeva sempre lo stesso benvenuto a tutti i nuovi ospiti di Casa Terra, diceva loro quanto fosse sicuro il posto e come rischiasse di essere l'ultima roccaforte americana dopo l'invasione sovietica. Al termine, rispondeva alle domande, stringeva la mano a tutti e firmava qualche autografo. I fratelli Ausley lo pagavano per questo. Macklin guardò negli occhi i presenti. Erano abituati a letti comodi e puliti, a stanze da bagno profumate, al roast beef a pranzo la domenica. Parassiti, pensò. Vivevano per procreare, mangiare e fare merda; e pensavano di conoscere tutto sulla libertà, sulla fedeltà, sul coraggio... e non sapevano nemmeno dove stessero di casa. Passò in rassegna ogni faccia, non vide altro che gente molle e debole. Erano individui che pensavano di sacrificare mogli e mariti, figli appena nati, casa e tutto quel che possedevano... il prezzo da pagare per mantenere la sporcizia sovietica lontano dalla nazione; ma non ci sarebbero riusciti, perché il loro spirito era debole e il loro cervello era corrotto dalle porcherie mentali di cui si cibavano ogni giorno. Ed eccoli lì, come tutti gli altri, ad aspettare di sentirsi dire da lui che erano dei veri patrioti. Voleva aprire bocca e gridare che se ne andassero subito da Casa Terra, che il posto non era affatto sicuro e che loro — i deboli e perdenti! — dovevano starsene a casa e rincantucciarsi in cantina. Cristo, pensò, che cazzo ci faccio qui io? Poi una voce mentale, simile allo schiocco di una frusta, lo apostrofò: «Disciplina e autocontrollo! Nervi a posto, soldato!» Era la voce del Soldato Ombra. Macklin chiuse gli occhi per un secondo. Quando li riaprì, fissava in viso un ragazzo pelleossa, dall'aria fragile, seduto in seconda fila, fra padre e madre. Una raffica di vento un po' forte l'avrebbe sbattuto a terra, si disse Macklin; ma si soffermò a studiare gli
occhi grigio chiaro del ragazzo. Credette di riconoscere, in quegli occhi, determinazione, astuzia, forza di volontà... che ricordava nelle sue stesse foto a quell'età, quando era uno zoticone grasso e goffo che suo padre, capitano d'aviazione, prendeva a calci nel sedere appena ne aveva il minimo motivo. Fra tutti quelli seduti davanti a me, pensò, forse questo pelleossa avrebbe una possibilità. Gli altri sono solo spazzatura. Si decise finalmente a iniziare il discorsetto introduttivo, con lo stesso entusiasmo che avrebbe messo a scavare una latrina. Mentre il colonnello Macklin parlava, Roland Croninger lo esaminò con attenzione e con interesse. Il colonnello era molto più corpulento di quanto non apparisse sulle fotografie di Soldier of Fortune e aveva un'aria assonnata e annoiata. Roland ne rimase deluso; s'aspettava un eroe di guerra magro e famelico, non un venditore d'auto usate, in panni militari. Non sembrava proprio lo stesso uomo che, per salvare l'aereo danneggiato di un compagno, aveva abbattuto tre Mig sopra il ponte di Than Hoa e poi si era buttato giù dall'aereo ormai a pezzi. Una fregatura, si disse Roland. Il colonnello Macklin era una fregatura e forse Casa Terra era un'altra fregatura. Quel mattino, svegliandosi, aveva trovato sul guanciale una macchia scura e umida: acqua filtrata da una fessura del soffitto larga cinque centimetri. Nella doccia mancava l'acqua calda, quella fredda era rugginosa e sabbiosa. Sua madre aveva fatto una scenata perché non poteva lavarsi i capelli e suo padre aveva detto che avrebbe riferito l'inconveniente al sergente Schorr. Roland aveva paura di accendere il computer, perché l'aria della camera da letto era troppo umida; la prima impressione di Casa Terra, l'idea che fosse una fantastica roccaforte di tipo medievale, cominciava a svanire. Certo, si era portato qualche libro da leggere — volumi su Machiavelli e su Napoleone, un saggio sui sistemi d'assedio nel medioevo — ma aveva contato di programmare, mentre si trovava lì, alcune nuove prigioni sotterranee per il gioco del Cavaliere del Re. Quel gioco era una sua creazione, 128K di mondo immaginario frazionato in regni feudali in guerra fra loro. Ma, a quanto pareva, avrebbe dovuto leggere per tutto il tempo! Osservò il colonnello. Gli occhi di Macklin erano indolenti; il viso, grasso. Sembrava un vecchio toro mandato al pascolo perché incapace ormai di fare il suo mestiere. Ma quando lo sguardo di Macklin incrociò il suo e si soffermò per qualche secondo prima di passare oltre, Roland ricordò una vecchia foto di Joe Louis, dei tempi in cui il grande campione di pugilato
accoglieva i clienti in un albergo di Las Vegas. In quella foto, Joe Louis sembrava fiacco e stanco; con la grossa mano stringeva quella bianca e fragile di un turista; i suoi occhi erano duri, scuri, un po' remoti... forse rivedevano il ring e ricordavano la sensazione di un colpo affondato nello stomaco dell'avversario fin quasi a toccare la spina dorsale. Roland pensò che lo stesso sguardo remoto era negli occhi del colonnello Macklin; e, come tutti sapevano che Joe Louis con una rapida stretta avrebbe potuto stritolare le ossa della mano del turista, così Roland intuì che dentro il colonnello Macklin il guerriero non era ancora morto. Mentre Macklin continuava il discorsetto, il telefono a parete accanto alla mappa emise un ronzio. Il sergente Schorr andò a rispondere; rimase in ascolto per qualche secondo, riagganciò, si mosse verso il colonnello. Roland pensò che il viso di Schorr avesse cambiato espressione, mentre ascoltava al telefono. Ora Schorr pareva invecchiato, aveva il viso un poco più rosso. Disse: «Mi scusi, colonnello». Con la mano coprì il microfono. Macklin girò di scatto la testa, infuriato per l'interruzione. «Signore» disse piano Schorr «il sergente Lombard riferisce che occorre la sua presenza nella sala controllo perimetrale.» «Cosa c'è?» «Non ha voluto dare spiegazioni, signore. Ma sembrava molto scosso.» Stronzate, pensò Macklin. Lombard sembrava "scosso" ogni volta che il radar intercettava uno stormo d'anatre o un aereo passeggeri. Una volta avevano sigillato Casa Terra perché Lombard aveva scambiato per paracadutisti nemici un gruppo di deltaplani. Comunque, Macklin doveva controllare. Indicò al capitano Warren di seguirlo e disse al sergente Schorr di terminare la lezione orientativa, appena loro due fossero usciti. «Signore e signori» spiegò poi, al microfono «purtroppo devo lasciarvi per risolvere un piccolo problema, ma mi auguro d'incontrare ciascuno di voi nel pomeriggio, al ricevimento in onore dei nuovi venuti. Grazie dell'attenzione.» Percorse il corridoio centrale, con il capitano Warner alle calcagna. Seguirono nel carrello elettrico la strada fatta da Macklin all'andata; per tutto il tempo il colonnello brontolò contro la stupidità di Lombard. Quando entrarono nella sala controllo perimetrale, Lombard scrutava lo schermo che mostrava il segnale di ritorno del radar piazzato in cima a monte Blue Dome. In piedi accanto a lui, il sergente Becker e il caporale Prados fissavano anche loro lo schermo. La sala conteneva attrezzature elettroniche, altri schermi radar e il piccolo computer che gestiva gli arrivi e le partenze degli ospiti di Casa Terra. Sul ripiano sopra la fila di schermi radar, da una radio a onde corte usciva una voce quasi soffocata dal crepitio delle
statiche. La voce, in preda al panico, parlava con tale rapidità che Macklin non capì che cosa dicesse. Ma al colonnello il tono non piacque; all'istante tese i muscoli, mentre il cuore gli batteva all'impazzata. «Spostatevi» disse agli altri. Si piazzò davanti allo schermo. Aveva la bocca arida. Gli parve di udire lo sfrigolio dei circuiti del suo stesso cervello che si metteva al lavoro. «Dio del cielo!» mormorò. Dalla radio a onde corte, la voce confusa diceva: «New York centrata... spazzata via... i missili arrivano su tutta la costa orientale... colpita Washington... Boston... da qui vedo gli incendi...» Altre voci sovrastarono la tempesta di statiche, frammenti di notizie che correvano lungo la rete dei radioamatori per tutti gli Stati Uniti ed erano raccolti dalle antenne di monte Blue Dome. Un'altra voce, con l'inflessione degli stati meridionali, intervenne gridando: «Atlanta ha appena smesso di trasmettere! Credo che Atlanta sia stata colpita!» Le voci si sovrapponevano, s'intensificavano e si affievolivano, miste a singhiozzi e a grida, a deboli sussurri; i nomi delle città americane erano ripetuti come una litania di morte: Filadelfia... Miami... Newport... Chicago... Richmond... Pittsburgh... Ma l'attenzione di Macklin era fissa sull'immagine mostrata dallo schermo radar. Non potevano esserci dubbi sulla natura dei puntini. Il colonnello guardò il capitano Warner. Aprì bocca, ma per un secondo non riuscì a trovare la voce. Poi disse: «Fate rientrare le guardie nel perimetro. Sigillate le porte. Siamo assaliti. Muovetevi!» Warner prese un walkie-talkie e corse fuori. «Fate scendere Schorr» disse Macklin; il sergente Becker — un sottufficiale fedele e affidabile che era stato alle dipendenze di Macklin nel Ciad — prese immediatamente il telefono e cominciò a premere pulsanti. Dalla radio a onde corte, una voce frenetica disse: «Qui KKTZ di St. Louis! A chiunque sia in ascolto! Vedo fuoco nel cielo! Dappertutto! Dio onnipotente, non ho mai visto uno...» Un'assordante scarica e altre voci lontane riempirono il vuoto lasciato da St. Louis. «Ci siamo» mormorò Macklin. Gli brillavano gli occhi, aveva sul viso un velo di sudore. «Pronti o no, ci siamo.» Dentro di lui, nel profondo pozzo in cui per un tempo lunghissimo nessuna luce aveva brillato, il Soldato Ombra gridò di gioia. 9 10,46 - ora legale degli Stati centrali
Sulla Statale 70 Contea di Ellsworth, Kansas Trentacinque chilometri a ovest di Salina, la vecchia Pontiac ammaccata di Josh Hutchins emise un sibilo, come un vecchio con i polmoni pieni di catarro. L'ago del termostato scattò verso la linea rossa. I finestrini erano abbassati, ma l'interno dell'auto sembrava una sauna; Josh aveva la camicia bianca di cotone e i calzoni blu scuro appiccicati al corpo, tanto era sudato. Perdio, si disse, guardando l'ago salire; adesso scoppia! Sulla destra era in arrivo un'uscita; un'insegna ammaccata diceva: "Da PawPaw! Benzina! Bibite fresche! A 1500 metri!" e inalberava il disegno esagerato di un vecchio bislacco con in bocca una pipa di tutolo, in groppa a una mula. Speriamo che regga ancora un chilometro e mezzo, pensò Josh, imboccando la rampa d'uscita. L'auto continuava a fremere e l'ago era nella zona rossa, ma il radiatore resisteva. Josh si diresse a nord, seguendo il cartello di PawPaw; davanti a lui, fino all'orizzonte, si estendevano immensi campi di granturco già alto un paio di metri che seccava al terribile caldo di luglio. La provinciale a due corsie tagliava dritta in mezzo ai campi; non un alito di vento muoveva le foglie; gli steli di granturco si alzavano ai lati della strada come pareti impenetrabili; per quanto Josh ne sapeva, potevano continuare per centinaia di chilometri a est e a ovest. La Pontiac gemette e sobbalzò. «Forza!» disse Josh, con il sudore che gli colava sul viso. «Forza, non piantarmi proprio ora!» Non ci teneva a camminare per un chilometro sotto il sole, con una temperatura di trentotto gradi; l'avrebbero trovato fuso sull'asfalto come una macchia d'inchiostro. L'ago continuava a salire e sul cruscotto lampeggiavano spie rosse. All'improvviso Josh udì uno scricchiolio che gli ricordò i Rice Krispies che tanto gli piacevano da bambino. L'attimo dopo, una massa scura di creature striscianti coprì il parabrezza. Una nuvola marrone penetrò nella Pontiac dal finestrino aperto di destra e Josh si trovò coperto di creature che strisciavano, battevano le ali, frinivano, che gli entravano nel collo della camicia, in bocca, nelle narici, negli occhi. Josh sputò, con una mano si pulì gli occhi mentre con l'altra teneva stretto il volante. Era il frinire più orribile che avesse mai udito, un rombo assordante d'ali in movimento. Il parabrezza e l'interno dell'auto brulicavano di migliaia di cavallette che sciamavano su di lui da tutte le parti e attraversavano l'auto per uscire dal finestrino di sinistra. Josh mise in fun-
zione i tergicristalli, ma il peso stesso delle cavallette bloccava il movimento delle spazzole. Negli istanti successivi, le cavallette si staccarono dal parabrezza e volarono via, prima cinque sei alla volta, poi tutte insieme, in un turbine marrone. Le spazzole scattarono avanti e indietro, schiacciarono le sfortunate che non erano state abbastanza veloci. Poi dal cofano si alzò una nube di vapore e la Pontiac Bonneville sbandò in avanti. Josh guardò il termostato: una cavalletta era attaccata al vetro, ma l'ago era molto al di là della linea rossa. Non è certo la mia giornata, pensò Josh, cupo, mentre si spazzava dalle braccia e dalle gambe le ultime cavallette. Anch'esse uscirono ronzando dall'auto e seguirono lo sciame gigantesco che si muoveva sopra il granturco riarso dal sole, in direzione nordovest. Una cavalletta gli volò dritta in viso, prima di schizzare fuori del finestrino dietro le altre. Solo una ventina rimasero nell'auto e strisciarono pigramente sul cruscotto e sul sedile del passeggero. Josh si concentrò sulla strada pregando che il motore resistesse ancora qualche centinaio di metri. Attraverso la nuvola di vapore vide arrivare sulla destra un piccolo edificio dal tetto piatto, costruito con pannelli di cemento prefabbricati. Davanti all'edificio, sotto un telone verde, c'erano alcune pompe di benzina; sul tetto, un vecchio carro Conestoga, autentico, sul cui fianco era dipinta in rosso, a grandi lettere, la scritta: DA PAWPAW. Con un sospiro di sollievo, Josh svoltò nel vialetto di ghiaia; ma prima di raggiungere le pompe, di benzina e la manichetta dell'acqua, la Pontiac tossì, borbottò ed ebbe un ritorno di fiamma nello stesso tempo, Il motore emise un rumore simile a quello d'un secchio vuoto preso a calci; poi rimase soltanto il sibilo del vapore. Be', si disse Josh, è andato. In un bagno di sudore uscì dall'auto e contemplò il pennacchio di vapore. Allungò la mano per sollevare il cofano, ma si scottò le dita come se la lamiera gliele avesse morsicate. Indietreggiò di un passo, sotto il sole che picchiava, in un cielo quasi bianco per la foschia di calore. Si disse che la sua vita aveva toccato il punto più basso. Una porta a rete sbatté. «È nei guai?» chiese una voce avvizzita. Dall'edificio era uscito un vecchietto ingobbito, con un cappello a tesa larga macchiato di sudore, tuta e stivaletti da cowboy. «Proprio così» rispose Josh.
L'ometto, alto forse meno di uno e sessanta, si fermò. Il cappello da cowboy — completo di banda di pelle di serpente e di penna d'aquila — quasi gli inghiottiva il viso marrone come l'argilla cotta dal sole, con occhi neri e lucenti. «Uehi!» gracchiò il vecchio. «Lei è un vero colosso, sa? Cielo, non ho più visto nessuno grande e grosso come lei, da quando il circo è passato da queste parti!» Sogghignò, mettendo in mostra denti piccoli e macchiati di nicotina. «Com'è il tempo, lassù?» La frustrazione di Josh si mutò in una risata. «Uguale a giù» rispose il gigante. «Un forno.» L'ometto scosse la testa, con stupore reverenziale; girò intorno alla Bonneville. Cercò anche lui di sollevare il cofano, ma si scottò le dita. «È partito il manicotto» sentenziò. «Già. Il manicotto del radiatore. Succede spesso, ultimamente.» «Ne ha uno di ricambio?» L'ometto piegò il collo per guardare Josh in viso, evidentemente ancora impressionato dalla sua mole. «No» disse. «Neppure uno. Ma posso procurarglielo. Lo ordino a Salina. Dovrebbe arrivare in... oh, due ore, tre.» «Due o tre ore? Ma Salina dista solo una quarantina di chilometri!» L'ometto scrollò le spalle. «Giornata calda. Ai ragazzi di città non piacciono le giornate calde. Sono troppo abituati all'aria condizionata. Sì, ci vorranno proprio due o tre ore.» «Maledizione! Devo arrivare a Garden City!» «Un bel pezzo di strada» commentò l'ometto. «Be', meglio lasciarla raffreddare. Ho bibite fresche, se ne vuole una.» Indicò a Josh di seguirlo e si avviò all'edificio. Josh s'aspettava una confusione di lattine d'olio, vecchie batterie e una parete tappezzata di coprimozzi; ma, entrando, si stupì di trovarsi in una linda e ordinata drogheria di paese. Una passatoia arrivava fin sulla soglia e dietro il bancone con il registratore di cassa c'era una piccola rientranza dove poco prima l'ometto se ne stava seduto su una sedia a dondolo a guardare le trasmissioni tivù in un Sony portatile. Adesso però lo schermo mostrava solo statiche. «M'ha piantato proprio prima che arrivasse lei» disse l'ometto. «Guardavo quel programma con i medici e l'ospedale dove c'è un guaio dopo l'altro. Dio buono, da questi parti ti metterebbero sotto la galera, per uno solo di quei tiri mancini!» Ridacchiò e si tolse il cappello. Dal cranio pallido spuntavano ciuffi di capelli bianchi, irti e bagnati di sudore. «Anche gli altri canali non funzionano, perciò mi sa che ci tocca chiacchierare, eh?»
«Già.» Josh si fermò davanti al ventilatore sul bancone e lasciò che la deliziosa aria fresca gli staccasse dalla pelle la camicia bagnata. L'ometto tolse dal frigorifero due Coca-Cola in lattina. Ne porse una a Josh, che strappò subito la linguetta e bevve di gusto. «Offre la ditta» disse l'ometto. «Ha la faccia di chi ha passato una brutta mattina. Mi chiamo PawPaw Briggs... be', PawPaw non è il mio vero nome. I ragazzi mi chiamano così. Per questo c'è anche sull'insegna.» «Josh Hutchins.» Si strinsero la mano. L'ometto ridacchiò di nuovo e finse una smorfia di dolore, alla stretta di Josh. «I suoi ragazzi lavorano qui con lei?» «Oh, no» ridacchiò PawPaw. «Hanno la loro stazione, sei o sette chilometri più avanti.» Josh era contento di non essere più sotto il sole torrido. Girò per il negozio, si rotolò sul viso la lattina fresca e sentì la carne rassodarsi. Per essere una drogheria sperduta fra i campi di granturco, il negozio di PawPaw conteneva sugli scaffali una sorprendente varietà d'articoli: pagnotte di grano, pane di segale, panini all'uva passa e alla cannella; scatole di fagioli verdi, bietole, zucchine, pesche, ananas e tutti i tipi di frutta; una trentina di tipi di minestra in lattina; scatolame di stufato di manzo, polpettone di carne salata, maiale, roast beef; uno spiegamento di utensili, compresi coltelli da sbucciare, grattugie per formaggio, apriscatole, torce e batterie; mezzo scaffale di succhi di frutta in lattina, Hawaiian Punch, Welch's Grape Juice e acqua minerale in bottiglie di plastica. La rastrelliera contro la parete conteneva badili, picconi e zappe, un paio di cesoie da giardino e un tubo per innaffiare. Accanto al registratore di cassa erano esposte riviste come Flying, American Pilot, Time e Newsweek, Playboy e Penthouse. Il negozio sembrava il supermercato delle botteghe di campagna! «C'è molta gente, da queste parti?» chiese Josh. «Poca.» PawPaw diede un pugno al televisore, ma la statica rimase. «Non molta.» Josh sentì qualcosa strisciargli sotto il colletto; tirò fuori una cavalletta. «Sono una maledizione, eh?» disse PawPaw. «S'infilano dappertutto. Negli ultimi due o tre giorni volavano a migliaia sui campi. Non è normale.» «Già.» Josh tenne con due dita l'insetto e andò a gettarlo fuori della porta. La cavalletta gli girò intorno alla testa per qualche secondo, con un ronzio smorzato, poi volò via verso nordovest. All'improvviso una Camaro rossa lasciò la strada, sterzò intorno alla
Bonneville di Josh e si fermò davanti alle pompe di benzina. «Clienti» annunciò Josh. «Bene, bene. Oggi c'è un'assemblea in piena regola, eh?» PawPaw girò dietro il bancone e venne a fermarsi accanto a Josh; gli arrivava appena allo sterno. Le portiere della Camaro si aprirono; una donna e una bambina bionda scesero dall'auto. «Ehi!» chiamò la donna, rivolgendosi verso la porta a rete; indossava un prendisole e jeans attillati dall'aria scomoda. «Ha benzina senza piombo?» «Ma certo!» PawPaw uscì a manovrare la pompa di benzina. Josh terminò di bere la Coca, schiacciò la lattina e la buttò nel cestino dei rifiuti. Quando tornò a guardare dalla porta a rete, la bambina, che indossava una tuta da ginnastica blu elettrico, stava ferma in pieno sole a fissare la nube di cavallette. La donna, con i capelli malamente tinti di biondo, arruffati e madidi, prese per mano la bambina e la condusse nel negozio di PawPaw. Josh si scostò per lasciarle entrare; la donna, che aveva un livido all'occhio destro, gli lanciò un'occhiata sospettosa e andò a piazzarsi davanti al ventilatore per rinfrescarsi. La bambina fissò Josh, come se scrutasse verso i rami più alti di una sequoia. Era una creaturina graziosissima, pensò Josh; aveva occhi di una sfumatura d'azzurro tenue e luminosa. Gli ricordavano il cielo estivo di quando anche lui era bambino, con tutti i domani davanti a sé e nessun posto dove andare con particolare fretta. Il viso della bambina, a forma di cuore, sembrava fragile, con l'incarnato quasi trasparente. La bambina disse: «Sei un gigante?» «Zitta, Swan!» la rimproverò Darleen Prescott. «Noi non parliamo agli sconosciuti!» Ma la bambina continuò a fissare Josh, in attesa della risposta. Josh sorrise: «Penso di sì.» «Sue Wanda!» Darleen prese Swan per la spalla e la girò dalla sua parte. «Giornata torrida» disse Josh. «Dove siete dirette?» Darleen rimase in silenzio per qualche secondo, lasciando che l'aria fresca le giocasse sul viso. «Da qualsiasi parte, tranne qui» rispose, a occhi chiusi, con la testa piegata all'insù per offrire la gola all'aria. PawPaw rientrò, asciugandosi con un fazzoletto troppo usato il sudore dalla fronte. «Ho fatto il pieno, signora. Quindici dollari e settantacinque.» Darleen infilò la mano in tasca per prendere i soldi; Swan le diede un colpetto. «Devo andarci subito!» disse sottovoce. Darleen posò sul banco una banconota da venti. «C'è una toilette per signore?» domandò.
«No» rispose PawPaw. Guardò Swan, che mostrava evidenti segni di disagio, e scrollò le spalle. «Be', può usare il mio gabinetto. Aspetti un minuto.» Si abbassò a scostare la passatoia davanti al banco. Sotto c'era una botola. PawPaw tirò il chiavistello e la sollevò. Dal riquadro spalancato si difuse il profumo di terra ricca e grassa; una serie di scalini di legno portava nello scantinato. PawPaw scese alcuni gradini, accese la lampadina appesa al soffitto e tornò su. «Il bagno è la porticina a destra» disse a Swan. «Vai pure.» La bambina diede un'occhiata alla madre, che si strinse nelle spalle e le indicò di scendere; Swan scese nella botola. Lo scantinato aveva pareti di terra battuta, il soffitto era sorretto da grosse travi incrociate. Il pavimento era in cemento e il locale — lungo circa sei metri, largo tre e alto circa due e mezzo — conteneva una brandina, un giradischi e una radio, uno scaffale di tascabili con le orecchie — romanzi di Louis L'Amour e di Brett Halliday — e un poster di Dolly Parton appeso alla parete. Swan trovò la porta ed entrò nello sgabuzzino dotato di lavabo, specchio e water. «Lei abita lì sotto?» domandò Josh al vecchio, dopo un'occhiata dentro la botola. «Certo. Una volta abitavo in una fattoria a circa tre chilometri a est di qui; ma dopo la morte di mia moglie, l'ho venduta. I ragazzi mi hanno aiutato a scavare lo scantinato. Non è granché, ma è sempre casa. «Puah!» Darleen arricciò il naso. «Puzza di cimitero!» «Perché non va a stare con i suoi figli?» chiese Josh. PawPaw lo guardò curiosamente, inarcando le sopracciglia. «Figli? Non ho figli.» «Non ha detto che i suoi ragazzi l'hanno aiutata a scavare lo scantinato?» «I miei ragazzi, sì. I ragazzi del sottosuolo. Hanno detto che m'avrebbero fatto un bel posto per abitarci. Sa, vengono sempre qui a rifornirsi, perché sono il negozio più vicino.» Josh non ci capiva un accidente. Provò di nuovo: «Vengono qui da dove?» «Da sottoterra» rispose PawPaw. Josh scosse la testa. Il vecchio era sbiellato. «Senta, non potrebbe dare un'occhiata al radiatore, ora?» «Direi di sì. Solo un minuto e andiamo a vedere.» PawPaw andò dietro il banco, registrò l'acquisto di benzina di Darleen, le diede il resto dei venti dollari. Swan cominciò a salire i gradini; Josh raccolse le forze per affrontare il caldo esterno e uscì, dirigendosi alla Bonneville che ancora fumava.
L'aveva quasi raggiunta, quando sentì la terra tremare. Si fermò di colpo. Che diavolo era? Un terremoto? Già, sarebbe stata la ciliegina sulla torta di quella giornata nata male! Il sole era tremendo. La nuvola di cavallette era scomparsa. Dall'altra parte della strada, il campo di granturco era immobile come se fosse dipinto. Gli unici rumori erano il sibilo del vapore e il crepitio del motore fuso. Socchiudendo gli occhi nella luce violenta, Josh guardò il cielo: bianco, privo di segni, uno specchio annebbiato. Il cuore gli batteva più forte. Sobbalzò, quando alle sue spalle la porta a rete si chiuse con un tonfo. Darleen e Swan erano uscite e andavano alla Camaro. A un tratto anche Swan si bloccò, ma Darleen continuò per qualche passo, prima di accorgersi che la figlia non le era più a fianco. «Su, andiamo, tesoro. Rimettiamoci in strada.» Swan fissava il cielo. È così silenzioso, pensò; così silenzioso. L'aria pesante quasi la opprimeva, le rendeva difficile il respiro. Per tutta la mattinata aveva notato stormi d'uccelli in volo, cavalli che correvano agitati nei pascoli, cani che abbaiavano al cielo. Intuiva che stava per accadere qualcosa... qualcosa di molto brutto, proprio come la notte prima, quando aveva visto le lucciole. Ma la sensazione si era fatta più intensa per tutta la mattina, da quando avevano lasciato il motel nei pressi di Wichita, e ora le faceva venire la pelle d'oca alle braccia e alle gambe. Sentiva il pericolo nell'aria, il pericolo nella terra, il pericolo dappertutto. «Swan!» Darleen era irritata e nervosa. «Vieni subito qui!» La bambina fissò i campi scuri di granturco che si estendevano fino all'orizzonte. Sì, pensò, c'era il pericolo anche lì. Soprattutto lì. Il sangue le martellò nelle vene; fu quasi sopraffatta dall'impulso di piangere. «Pericolo» mormorò. «Pericolo... nel granturco...» Il terreno tremò di nuovo. Josh credette di sentire sotto i piedi un rombo cupo simile allo sferragliare di macchinario pesante venuto in vita. Darleen urlò: «Swan! Vieni via!» Che diavolo..., pensò Josh. Risuonò un gemito acuto sempre più intenso. Josh si turò le orecchie e si chiese se sarebbe vissuto abbastanza da vedere l'assegno paga. «Dio onnipotente!» urlò PawPaw, fermo sulla soglia. Verso nordovest, nel campo di granturco, una colonna di polvere si alzò per quattrocento metri e centinaia di piante s'incendiarono. Da terra emerse una lancia di fuoco, con lo sfrigolio di pancetta in padella; si avventò nel cielo per alcune centinaia di metri, curvò drammaticamente verso nordo-
vest e svanì nella foschia. Un'altra lancia saettò a meno di un chilometro dalla prima e la seguì. Più lontano, altre due lance si avventarono contro il cielo e nel giro di due secondi sparirono alla vista. Poi lance di fuoco spuntarono da tutto il campo di granturco, la più vicina a circa trecento metri, le più lontane, semplici puntini infuocati, a sette, otto chilometri dall'altra parte dei campi. Sgorgarono geyser di terriccio, mentre le lance s'innalzavano a velocità incredibile, con la scia fiammeggiante che s'imprimeva nella retina. Il granturco era in fiamme; il vento ardente delle lance spingeva il fuoco verso il negozio di PawPaw. Ondate di calore nauseante sommersero Josh, Darleen e Swan. Darleen urlava ancora a Swan di salire in macchina. La bambina, inorridita, guardava con stupore reverenziale le decine di lance di fuoco che continuavano a scaturire dal campo di granturco. La terra rabbrividì per le onde d'urto. Con i sensi che vorticavano, Josh capì che le lance di fuoco erano missili che uscivano ruggendo dai silos nascosti in un campo di granturco del Kansas, in mezzo al nulla. I ragazzi del sottosuolo, pensò Josh. E di colpo capì a che cosa PawPaw Briggs si era riferito. Il negozio di PawPaw sorgeva ai margini di una base missilistica mimetizzata e i "ragazzi del sottosuolo" erano i tecnici dell'aviazione che ora, nei loro bunker, premevano i pulsanti. «Dio onnipotente!» gridò PawPaw, con voce che si perse nel ruggito. «Guardate come volano!» I missili emergevano ancora dal campo di granturco; ciascuno seguiva gli altri verso nordovest e svaniva nell'aria tremolante. Russia, pensò Josh; santiddio, vanno in Russia! Gli tornarono alla mente i notiziari e gli articoli che aveva ascoltato e letto negli ultimi mesi; in quel terribile istante capì che la terza guerra mondiale era iniziata. I turbini d'aria ardente strappavano granturco in fiamme che pioveva sulla strada e sul tetto del negozio di PawPaw. Il tendone verde già fumava e la tela bianca del Conestoga bruciava. Una tempesta di granturco ardente avanzava nel campo devastato; e mentre le onde d'urto si scontravano con raffiche di vento a cento all'ora, le fiamme formavano una solida, mobile muraglia di fuoco alta sei metri. «Vieni qui!» urlò Darleen, afferrando Swan. Gli occhi azzurri della bambina erano sbarrati, fissi, ipnotizzati dallo scenario di fuoco. Darleen si mise a correre verso l'auto, stringendo fra le braccia Swan; un'onda d'urto
la mandò a gambe levate, mentre i primi tentacoli ardenti si protendevano verso le pompe di benzina. Josh capì che il fuoco stava per superare la strada. Le pompe sarebbero scoppiate. Allora si ritrovò nel campo di football davanti alla folla ruggente della domenica pomeriggio: correva verso la donna e la bambina cadute a terra, carro armato umano, mentre l'orologio dello stadio scandiva il passare dei secondi. Fu raggiunto da un'onda d'urto, perdette l'equilibrio, fu colpito da granturco in fiamme; ma già raccoglieva la donna, stringendola alla cintola. Lei non si staccava dalla bambina, la cui faccia era impietrita di terrore. «Mi lasci!» urlò Darleen; ma Josh si girò di scatto e corse a razzo verso la porta del negozio, dove PawPaw era fermo a guardare a bocca aperta il volo delle lance di fiamma. Aveva quasi raggiunto la porta, quando ci fu un lampo incandescente simile all'accensione simultanea di cento milioni di watt di lampadine. Josh volgeva le spalle al campo, ma vide la sua stessa ombra proiettata contro PawPaw Briggs... e in un millesimo di secondo i bulbi oculari di PawPaw scoppiarono in fiamma azzurrina. Il vecchio mandò un grido, si artigliò il viso, cadde all'indietro contro la porta, strappandola dai cardini. «Oddio, buon Gesù, oddio!» gemeva Darleen. La bambina era muta. La luce divenne ancora più abbagliante. Josh sentì un'ondata di calore contro la schiena... gentile, sulle prime, come il sole in una bella giornata d'estate. Ma poi il calore aumentò, raggiunse il livello di forno; prima di arrivare alla porta, Josh sentì sfrigolare la pelle della schiena e delle spalle. La luce intensa non gli consentiva di vedere dove andava; il viso gli si gonfiò con tale rapidità che lui temette di vederlo scoppiare come un palloncino da spiaggia. Barcollò avanti, inciampò in qualcosa... il corpo di PawPaw, che si contorceva in agonia sulla soglia. Josh sentì il lezzo di capelli bruciati e di carne ustionata. Sono l'unico figlio di puttana fatto alla griglia, pensò in un lampo di follia. Riusciva ancora a vedere, attraverso le fessure degli occhi gonfi; il mondo era d'un biancazzurro soprannaturale, il colore dei fantasmi. Davanti a lui c'era la botola spalancata. Josh allungò la mano libera, afferrò per il braccio il vecchio e lo trascinò, insieme con la donna e la bambina, verso il riquadro aperto. Un'esplosione schizzò schegge contro la parete esterna... le pompe di benzina, capì Josh, mentre un frammento di metallo arroventato gli sfiorava la tempia destra. Il sangue gli colò sulla guancia, ma lui pensava solo a raggiungere lo scantinato, perché dietro di sé udiva la lamentosa cacofonia del vento, simile a una sinfonia d'angeli caduti, e non
osava guardarsi indietro per vedere che cosa usciva dal campo di granturco. L'intero edificio tremava, scatolame e bottiglie cadevano dagli scaffali. Josh buttò PawPaw Briggs giù dagli scalini, come un sacco di grano; poi saltò anche lui, spelandosi il didietro contro il legno, ma senza lasciare la donna e la bambina. Rotolarono tutti insieme sul pavimento. La donna gridava, con voce rotta e soffocata. Josh risalì a chiudere la botola. Colse l'occasione per guardare fuori. Arrivava un tornado di fuoco. Riempiva il cielo, scagliava frastagliate lance di fulmini rossi e blu, portava con sé tonnellate di terra annerita strappata ai campi. In quell'attimo Josh capì che il tornado di fuoco avanzava verso la drogheria di PawPaw portando con sé mezzo campo. Li avrebbe colpiti nel giro di secondi. E loro sarebbero sopravvissuti o sarebbero morti. Semplicemente. Josh si tirò sulla testa la botola e saltò giù dagli scalini. Cadde di fianco sul cemento. Forza, pensò, digrignando i denti, le mani sopra la testa. Forza, maledizione! Una soprannaturale mescolanza del possente ruggito di vento turbinoso, del crepitio di fiamme e dello schianto rumoroso di tuoni riempì lo scantinato; scacciò dalla mente di Josh ogni pensiero e lo lasciò in preda al terrore assoluto. Il pavimento dello scantinato tremò, si alzò d'un metro, si crepò in due come un piatto spezzato, piombò giù con forza brutale. Josh si sentì rimbombare i timpani. Aprì la bocca, urlò, non udì niente. Il soffitto dello scantinato cedette, le travi si spezzarono come ossa strette da dita fameliche. Josh fu colpito di traverso sulla nuca; gli parve che lo sollevassero e lo facessero ruotare come un aereo nella classica presa del wrestling, e intanto gli turassero le narici, con tamponi di cotone bagnato; voleva solo scendere da quel maledetto ring e andare a casa. Perdette conoscenza. 10 10,17 - ora legale delle Montagne Rocciose Casa Terra «Altri missili a ore dieci!» disse Lombard, mentre il radar terminava il giro e i puntini verdi lampeggiavano sullo schermo. «Dodici, rotta sud-est,
quattordicimila piedi. Cristo, sono veloci!» Nel giro di trenta secondi i puntini erano usciti dallo schermo radar. «Ne arrivano altri cinque, colonnello» annunciò Lombard, con voce tremante d'orrore e d'eccitazione; rosso in viso, spalancò tanto d'occhi dietro lenti stile aviatore. «Rotta nordovest, diciassette zero tre. Sono nostri. Dateci dentro, belli!» Il sergente Becker mandò un evviva e si batté il pugno sul palmo della mano. «Spazzate gli Ivan dalla carta geografica!» gridò. Dietro di lui, il capitano Warner fumava un sigaro dal bocchino di sughero; con l'unico occhio guardava impassibile lo schermo radar. Altri due tecnici in uniforme controllavano il radar perimetrale. Dalla parte opposta della sala, il sergente Schorr sedeva scompostamente in una poltroncina, con occhi spenti e increduli; di tanto in tanto rivolgeva piano piano lo sguardo allo schermo radar principale e poi lo spostava in fretta su un punto della parete di fronte. Il colonnello Macklin, a braccia conserte, fissava da sopra la spalla destra di Lombard i puntini verdi che passavano sullo schermo ormai da una quarantina di minuti. Era facile distinguerli: i missili sovietici puntavano a sudest lungo traiettorie che li avrebbero portati sulle basi aeree del Midwest e sui deposti di ICBM. I missili americani correvano verso nordovest, ai letali appuntamenti con Mosca, Magadan, Tomsk, Karaganda, Vladivostok, Gorky e un centinaio di altri bersagli, città e basi missilistiche. Il caporale Prados seguiva in cuffia i deboli segnali che giungevano sulle onde corte dagli operatori sparsi per la nazione. «Il segnale da San Francisco è appena scomparso» disse. «Le ultime parole erano di KXCA, da Sausalito. Qualcosa su una palla di fuoco e un fulmine azzurro... il resto era tutto confuso.» «Sette missili a ore undici» disse Lombard. «Dodicimila piedi. Rotta sudest.» Altri sette, pensò Macklin. Mio dio! Con questi ultimi, arrivava a sessantotto, il numero di "pacchi in arrivo" intercettati dal radar di Blue Dome... e Dio solo sapeva quante centinaia, forse migliaia, erano sciamati fuori portata dell'antenna. Dai comunicati di atterriti operatori radio a onde corte, le città americane venivano incenerite da un attacco nucleare in grande scala. Però Macklin aveva contato quarantaquattro "pacchi in partenza" diretti in Russia e sapeva che migliaia di ICBM, di missili Cruise, di bombardieri B-1 e di testate nucleari dislocate su sommergibili venivano impiegate contro l'Unione Sovietica. Non importava chi avesse iniziato: non era più tempo di chiacchiere.
Contava solo chi era tanto forte da sopportare più a lungo le mazzate atomiche. Casa Terra era stata sigillata, non appena Macklin aveva visto sullo schermo radar i primi puntini di missili sovietici. Le guardie perimetrali erano state fatte rientrare, la porta di pietra era stata abbassata e bloccata, nei condotti d'aerazione era stato attivato l'impianto di diaframmi simili a persiane, per impedire l'entrata di polvere radioattiva. Restava da fare ancora una cosa: comunicare ai civili di Casa Terra che la terza guerra mondiale era iniziata, che le loro case e i loro parenti forse erano già stati vaporizzati, che tutto ciò che conoscevano e che amavano forse era ormai scomparso in una palla di fuoco. Macklin aveva provato il discorso parecchie volte, fra sé. Avrebbe riunito i civili nella sala del municipio, avrebbe spiegato con calma che cosa succedeva. Tutti avrebbero capito che dovevano restare lì, nel cuore del monte Blue Dome, e che non sarebbero tornati a casa mai più. Allora avrebbe insegnato loro la disciplina e l'autocontrollo, avrebbe modellato una robusta armatura su quei corpi molli e pigri, avrebbe insegnato loro a pensare da soldati. E dalla sua inespugnabile roccaforte avrebbero tenuto a bada gli invasori sovietici, fino all'ultimo respiro e all'ultima goccia di sangue, perché lui amava gli Stati Uniti d'America e nessuno l'avrebbe mai costretto a inginocchiarsi a supplicare. «Colonnello?» Un giovane tecnico alzò lo sguardo dallo schermo radar perimetrale. «Ho intercettato un veicolo in avvicinamento. Sembra un camper, risale la montagna a tutta velocità.» Macklin si avvicinò per guardare il puntino che percorreva la strada di montagna. Il camper andava così veloce che rischiava di ribaltare giù dal Blue Dome. Macklin poteva ancora far aprire l'ingresso principale e far entrare il camper, usando un codice che avrebbe annullato il sistema computerizzato di chiusura. Immaginò che nel veicolo ci fosse una famiglia in preda al panico, forse proveniente da Idaho Falls o da una delle comunità più piccole ai piedi della montagna. Vite umane, pensò Macklin, restio a sacrificarli. Guardò il telefono. Bastava comporre il numero d'identificazione e pronunciare il codice: il computer di sicurezza avrebbe annullato il programma di chiusura e avrebbe fatto alzare la porta. In questo modo, avrebbe salvato la vita a quella gente. Allungò la mano verso il telefono. Ferrrmo! Il sussurro del Soldato Ombra parve il sibilo della miccia di un candelotto di dinamite. Pensa al cibo! Più bocche, meno cibo!
Macklin esitò, le dita a qualche centimetro dal telefono. Più bocche, meno cibo! Disciplina e autocontrollo! Nervi a posto, soldato! «Devo farli entrare» disse Macklin ad alta voce. In sala comando, i presenti lo fissarono. Non rimbeccarmi, soldato! Più bocche, meno cibo! E sai benissimo che cosa succede, quando un uomo ha fame, no? «Sì» mormorò Macklin. «Signore?» chiese il tecnico radar. «Disciplina e autocontrollo» rispose Macklin, con voce indistinta. «Colonnello?» Warner afferrò Macklin per la spalla. Macklin sobbalzò, come se l'avessero strappato a un incubo. Guardò gli altri, poi di nuovo il telefono; lentamente abbassò la mano. Per un secondo si era ritrovato di nuovo in fondo al pozzo, nel fango, nella merda, nelle tenebre; ma adesso era a posto. Ora sapeva dove si trovava. Certo. Disciplina e autocontrollo avevano funzionato. Con una scrollata di spalle Macklin si liberò del capitano Warner; a occhi socchiusi guardò di nuovo il puntino sullo schermo del radar perimetrale. «No» disse. «No. Troppo tardi. Troppo tardi. Casa Terra resta sigillata.» E si sentì maledettamente orgoglioso di sé, perché aveva preso la sola decisione da uomo. C'erano più di trecento persone, a Casa Terra, senza contare ufficiali e tecnici. Più bocche, meno cibo. Era sicuro d'avere preso la decisione giusta. «Colonnello!» esclamò Lombard, con voce rotta. «Guardi!» Macklin fu subito accanto a lui e scrutò lo schermo. Un gruppo di quattro missili passava nel raggio del radar... ma uno sembrava più lento degli altri: mentre esitava, gli altri tre uscirono dallo schermo, sorvolando monte Blue Dome. «Cosa c'è?» disse Macklin. «Quello lì è a ventiduemila e quattro. Qualche secondo fa era a venticinquemila. Pare che cada!» «Non può cadere! Non ci sono bersagli militari nel raggio di centocinquanta chilometri!» intervenne, brusco, il sergente Becker, facendosi avanti. «Controlli meglio» disse Macklin a Lombard, nel tono più calmo che riuscì a trovare. Con lentezza dolorosa, il braccio del radar compì il giro. «Ventimila e due, signore. Forse si tratta di cattivo funzionamento. Il bastardo viene giù!» «Merda! Calcoli il punto d'impatto!» Lombard spiegò una cartina plastificata della zona intorno a monte Blue
Dome e si mise al lavoro, con compasso e goniometro; calcolò e ricalcolò angoli e velocità. Gli tremavano le mani e fu costretto a cominciare da capo più d'una volta. Alla fine disse: «Passerà sopra il Blue Dome, signore, ma non so quali effetti ha la turbolenza, lassù. Ho calcolato che cadrà qui.» Batté il dito su un punto a una quindicina di chilometri a ovest di Little Lost River. Controllò di nuovo lo schermo. «È sceso sotto i diciottomila, signore. Cade dritto come una freccia rotta.» Il capitano Teddybear Warner grugnì. «Ecco la tecnologia degli Ivan» disse. «Un casino.» «Nossignore.» Lombard si girò sulla poltroncina girevole. «Non è russo. È nostro.» Nella sala scese un silenzio carico d'elettricità. Il colonnello Macklin lo ruppe lasciando uscire l'aria dai polmoni. «Lombard, che cazzate sono?» «È nostro» ripeté Lombard. «Andava a nordovest, prima di uscire di rotta. Dalla grandezza e dalla velocità, si direbbe un Minuteman III, forse un Mark 12 o 12A.» «Oh... Cristo» mormorò Ray Becker; il suo viso rubizzo si era fatto color cenere. Macklin fissò lo schermo radar. Gli parve che il puntino sbandato diventasse più grande. Si sentì stringere le viscere da un cerchio di ferro. Sapeva che cosa sarebbe successo se un Minuteman III Mark 12A fosse caduto in un raggio di settantacinque chilometri da monte Blue Dome: il Mark 12A portava tre testate nucleari da 335 kiloton... una potenza sufficiente a radere al suolo settantacinque Hiroshima. Ma anche un Mark 12, che portava un carico utile di tre testate da 170 kiloton, sarebbe stato altrettanto micidiale. D'un tratto Macklin pregò che si trattasse di un semplice Mark 12, perché forse, forse, la montagna avrebbe sopportato un colpo di quel genere senza ridursi in ciottoli. «Sotto i sedicimila, colonnello.» Cinquemila piedi sopra monte Blue Dome. Macklin sentì che gli altri l'osservavano, aspettavano di vedere se era fatto di ferro o d'argilla. Non poteva fare niente, ora, se non pregare che il missile cadesse molto al di là di Little Lost River. Un sorriso amaro gli increspò le labbra. Il cuore gli batteva all'impazzata, ma la mente era ferma. Disciplina e autocontrollo, si disse. Sono queste le cose che ti rendono uomo. Casa Terra era stata costruita lì sotto perché nella zona non c'erano bersagli per i sovietici e tutti i grafici governativi indicavano che i venti radioattivi si sarebbero diretti verso sud. Nemmeno nei sogni più sfrenati
Macklin aveva immaginato che Casa Terra potesse essere colpita da un missile americano. Non era giusto! Quasi si mise a ridacchiare. Oh, no, non era proprio giusto! «Tredicimila e tre» disse Lombard, con voce tesa. Eseguì rapidamente sulla cartina un altro calcolo, ma non disse che cosa aveva trovato e Macklin non glielo domandò. Si sarebbero beccati un bel colpo; e lui pensava alle crepe nei soffitti e nelle pareti di Casa Terra... le crepe, e le zone di scarsa resistenza, che quei figli di puttana dei fratelli Ausley avrebbero dovuto preoccuparsi di sistemare, prima di aprire al pubblico quella prigione sotterranea. Ma ormai era tardi, troppo tardi. Macklin fissò lo schermo; si augurò che i fratelli Ausley avessero sentito la propria carne friggere, prima di morire. «Dodicimila e due, colonnello.» Schorr emise un sospiro di panico e si raggomitolò con le ginocchia contro il petto; fissò il vuoto, come un uomo che veda in una sfera di cristallo il momento, il luogo e le circostanze della propria morte. «Merda» disse piano Warner. Trasse ancora una boccata dal sigaro e lo schiacciò nel posacenere. «Meglio metterci comodi, immagino. I poveri bastardi di sopra saranno sbattuti da tutte le parti come bambole di pezza.» Si cacciò in un angolo, puntellandosi con mani e piedi contro il pavimento. Il caporale Prados si tolse la cuffia radio e s'incollò alla parete; sulle guance gli luccicavano goccioline di sudore. Becker rimase in piedi accanto a Macklin, che guardava sullo schermo di Lombard l'avvicinarsi del puntino luminoso e contava i secondi che mancavano all'impatto. «Undicimila e due.» Lombard ingobbì le spalle. «Ha superato il Blue Dome! È passato a nordovest! Credo che arriverà al fiume! Vai, bastardo, vai!» «Vai!» mormorò Becker. «Vai!» disse Prados e serrò gli occhi. «Vai, vai!» Il puntino svanì dallo schermo. «L'abbiamo perso, colonnello! È sceso sotto la portata del radar!» Macklin annuì. Ma il missile continuava a cadere verso la foresta lungo il Little Lost River e Macklin continuava a contare. Udirono tutti un ronzio simile a quello di un enorme e lontano sciame di calabroni. Poi, silenzio. Macklin disse: «Impa...» E l'istante successivo lo schermo radar esplose di luce; gli uomini gri-
darono, con le mani si ripararono gli occhi. Macklin per un momento rimase accecato dal bagliore; capì che il radar in cima a monte Blue Dome era stato appena incenerito. Gli altri schermi radar s'illuminarono come soli verdi e andarono in corto quando captarono il lampo. Il ronzio di calabroni risuonava nella stanza, scintille bluastre schizzavano dai quadri di comando mentre i cavi elettrici si fulminavano. «Tenete duro!» gridò Macklin. Il pavimento e le pareti tremarono, nel soffitto si aprì una serie di crepe frastagliate. Polvere di roccia e ciottoli caddero nella stanza, le pietre più grosse rimbalzarono sui quadri comando come chicchi di grandine. Il pavimento subì una scossa così violenta da sbattere in ginocchio Macklin e Becker. Le luci tremolarono e si spensero; nel giro di qualche secondo, l'impianto elettrico d'emergenza entrò in funzione e la luce tornò, più cruda, più vivida, e gettò ombre più scure di prima. Ci fu un'ultima scossa più debole, un'altra pioggia di polvere e di pietrisco; poi il pavimento rimase immobile. Macklin aveva i capelli bianchi di polvere, la faccia piena di sabbia e di graffi. Ma l'impianto filtraggio aria pulsava, già aspirava la polvere nei condotti. «Tutti bene?» gridò Macklin, cercando di mettere a fuoco la vista e di scacciare il lampo verdastro che gli era rimasto negli occhi. Udì colpi di tosse; qualcuno singhiozzava... doveva essere Schorr, si disse Macklin. «State bene tutti?» ripeté. Risposero tutti, tranne Schorr e un tecnico. «È finita!» disse Macklin. «Ce l'abbiamo fatta. Siamo a posto!» Ci sarebbero state ossa rotte, commozioni cerebrali, casi di choc fra i civili del livello superiore. E tutti erano in preda al panico. Ma le luci erano accese, l'impianto d'aerazione funzionava e Casa Terra non era stata spazzata via come un castello di carte nel vento. Era finita! Ce l'avevano fatta! Battendo ancora le palpebre per eliminare la foschia verdastra, Macklin si tirò in piedi. Una risata breve e sorda gli uscì dai denti serrati... e poi gli sgorgò dalla gola, sempre più alta, perché lui era vivo e la roccaforte aveva resistito. Il sangue era caldo, cantava di nuovo, come nelle giungle umide e nelle piane aride di campi di battaglia stranieri; in quei campi di fuoco, il nemico aveva la faccia da demone e non la nascondeva dietro la maschera di psichiatri dell'aviazione, di esattori, di ex mogli intriganti, di soci truffatori. Lui era il colonnello Jimbo Macklin e camminava come una tigre, scattante e maligno, con il Soldato Ombra a fianco. Ancora una volta aveva sconfitto morte e disonore. Sogghignò, con labbra incrostate di polvere biancastra.
Ma poi ci fu un rumore simile a quello di stoffa strappata da mani crudeli. La risata del colonnello si bloccò di colpo. Macklin si sfregò gli occhi, aguzzò la vista nella foschia verdastra, riuscì infine a vedere da dove proveniva il rumore. La parete di fronte a lui mostrava un labirinto di piccole crepe. Ma in alto, dove la parete si univa al soffitto, una crepa più grossa si allargava a scatti, a zigzag, e lasciava entrare rivoli d'acqua nera e puzzolente che colavano lungo la parete come sangue da una mostruosa ferita. Il rumore di lacerazione raddoppiò, triplicò d'intensità. Per terra, una seconda crepa, enorme, strisciava sul pavimento. Una terza si aprì nella parete opposta. Becker gridò qualcosa, con voce confusa e lenta, come in un incubo. Caddero blocchi di roccia e strapparono mattonelle del soffitto, da dove si riversarono altri rivoli d'acqua. Macklin sentì un nauseabondo lezzo di fogna; mentre l'acqua gli gocciolava addosso, capì la verità: chissà dove, nella rete di tubi, il sistema di fognature era scoppiato — forse settimane o mesi prima — e i liquami sì erano raccolti non solo sopra il primo livello, ma anche fra il primo e il secondo, collaborando a erodere maggiormente la roccia instabile e troppo sollecitata che teneva insieme la conigliera di Casa Terra. Il pavimento s'inclinò. Macklin perdette l'equilibrio. Lastre di roccia strofinarono l'una contro l'altra, con il rumore di mascelle digrignanti. Quando le crepe a zigzag si congiunsero, un torrente d'acqua lurida e di pietrisco precipitò dal soffitto. Macklin cadde per terra addosso a Becker. Udì Ray Becker urlare; si girò e lo vide cadere nel crepaccio frastagliato che si era aperto nel pavimento. Le dita di Becker artigliarono il bordo; gli orli del crepaccio si rinchiusero con un colpo secco. Macklin guardò, inorridito, le dita esplodere come salsicce troppo piene. L'intera sala era in preda a scosse violente, come la stanza di un bizzarro parco dei divertimenti. Tratti di pavimento sprofondavano, lasciavano crateri spalancati che si perdevano nelle tenebre. Schorr urlò e balzò verso la porta, scavalcando il buco che si era aperto davanti a lui; mentre il sergente saettava nel corridoio, Macklin vide che anche lì le pareti erano venate da profonde crepe. Grosse lastre di roccia precipitavano. Schorr scomparve in un turbine di polvere, lasciandosi il grido alle spalle. Il corridoio tremò e si scosse, il pavimento si sollevò e si abbassò, come se i rinforzi di ferro si fossero mutati in gomma. E tutt'intorno, contro le pareti, il soffitto, il pavimento, c'era un martellare continuo, come se un fabbro impazzito battesse l'incudine, unito al digrignare della roccia e allo
schiocco dei tondini di ferro che si spezzavano come corde di chitarra. Sopra la cacofonia, un coro di urla spazzava su e giù il corridoio: nel livello superiore i civili venivano sbatacchiati a morte. Macklin si rannicchiò in un angolo, in mezzo al frastuono e al caos. Le onde d'urto del missile sbandato, simili a colpi d'ariete, facevano a pezzi Casa Terra. Una doccia d'acqua lurida inzuppò il colonnello. Una tempesta di polvere e di sassi irruppe nel corridoio portando con sé quello che poteva essere un corpo umano maciullato; i detriti bloccarono la porta della sala comando. Qualcuno — Warner, forse — tirava Macklin per il braccio e cercava di farlo alzare. Lombard guaiva come un cane ferito. Disciplina e autocontrollo, si disse il colonnello. Disciplina e autocontrollo! Le luci si spensero. I condotti d'aerazione esalarono un ansito di morte. Un attimo dopo, il pavimento sotto Macklin crollò. Il colonnello precipitò con un grido. Colpì con la spalla una sporgenza rocciosa, poi toccò il fondo. La forza dell'urto gli tolse il fiato e gli bloccò il grido. Nell'oscurità assoluta i corridoi e i locali di Casa Terra cedevano l'uno dopo l'altro. I corpi erano intrappolati e maciullati da tenaglie di roccia. Lastre di pietra crollavano, sprofondavano nel pavimento indebolito. Fiumi di liquami alti fino al ginocchio ruscellavano nelle sezioni ancora intere di Casa Terra; nel buio, la gente si calpestava per cercare una via di fuga. Grida, urla, invocazioni a Dio, si mescolavano nella voce infernale del pandemonio, mentre le onde d'urto continuavano a colpire monte Blue Dome che franava e distruggeva l'inespugnabile roccaforte scavata nelle sue viscere. 11 13,31 - ora legale della Costa orientale A bordo dell'Aereo di Comando Il presidente degli Stati Uniti, con occhi incavati come crateri violacei nel viso color cenere, guardò dal finestrino ovale di plexiglas alla sua destra: sotto il Boeing E-4B si estendeva un mare turbolento di nubi nere. Lampi gialli e arancione brillavano trentacinquemila piedi più sotto e le nubi ribollivano di fulmini mostruosi. L'aereo vibrò, fu risucchiato in basso per un migliaio di piedi; poi, fra il gemito dei quattro motori a turboelica, riguadagnò quota. Il cielo era diventato color fango, il sole era bloccato dalle enormi nubi turbinanti. Fra queste nubi, scagliati a trentamila piedi
da terra, c'erano i detriti della civiltà: alberi bruciati, case intere, sezioni di edifici, tratti di ponti, di autostrade, di linee ferroviarie, che splendevano di rosso incandescente. Ribollivano come vegetazione imputridita sollevata dal fondo di uno stagno nero e poi venivano risucchiati per essere sostituiti da una nuova ondata di spazzatura d'umanità. Il presidente non sopportava quella vista; ma, per quanto si sforzasse, non riusciva a distogliere lo sguardo. Vittima di un orribile fascino ipnotico, guardava le striature azzurrine dei fulmini trafiggere le nubi. Il Boeing tremò, s'inclinò sull'ala di sinistra, si raddrizzò, fu sbattuto su e giù come se corresse sulle montagne russe. Un oggetto enorme e ardente saettò davanti al finestrino; il presidente pensò che fosse un pezzo di treno scagliato in aria dalle tremende onde d'urto e da turbini più violenti delle trombe d'aria che ululavano sulla terra bruciata. Qualcuno allungò la mano e abbassò lo schermo di vetro affumicato davanti al finestrino del presidente. «Non credo che debba continuare a guardare, signore.» Per qualche secondo il presidente si sforzò di riconoscere l'uomo seduto davanti a lui nella poltroncina di cuoio nero. Hans, pensò; il segretario alla Difesa, Hannan. Si guardò in giro, con la mente che a tentoni cercava l'equilibrio. Si trovava nel Boeing del centro di comando, nel suo alloggio in coda al velivolo. Hannan era seduto davanti a lui; dall'altra parte del corridoio c'era un uomo nell'uniforme di capitano del servizio segreto dell'aviazione: un tipo dritto come un fuso, con spalle quadrate e un paio di occhiali che nascondevano gli occhi. Attorno al polso destro aveva una manetta, alla cui catenella era agganciata una piccola ventiquattrore posata sul piano di formica del tavolino. Fuori dello stanzino personale del presidente, il velivolo era un centro nevralgico irto di schermi radar, di computer per l'analisi dei dati, d'apparecchiature di telecomunicazione collegate al Comando Strategico dell'Aviazione, alla Difesa Aerea del Nord America, al comando SHAPE in Europa e a tutte le forze aeree, navali, ICBM e missilistiche degli Stati Uniti. I tecnici addetti alle apparecchiature erano stati selezionati dalla DIA, cioè il servizio segreto della Difesa, che aveva anche scelto e addestrato l'uomo con la valigetta nera. A bordo dell'aereo c'erano anche ufficiali della DIA e alcuni generali dell'aviazione e dell'esercito, assegnati a compiti operativi speciali, cui toccava creare un quadro aggiornato della situazione utilizzando i rapporti in arrivo dai vari teatri del conflitto. L'aviogetto girava sopra la Virginia fin dalle sei del mattino; alle 9,46
erano giunti i primi sconvolgenti rapporti dal Comando navale: contatto fra la task force di cacciasommergibili e una numerosa squadra di sottomarini nucleari sovietici, a nord di Bermuda. Secondo i primi rapporti, alle 9,58 i sommergibili sovietici avevano lanciato missili balistici; ma rapporti successivi indicavano che probabilmente il comandante di un sottomarino americano, per la tensione del momento, aveva lanciato di sua iniziativa i missili Cruise. Era difficile stabilire ora chi avesse iniziato: ormai non aveva importanza. Il primo attacco sovietico aveva colpito Washington: tre testate erano cadute sul Pentagono, una quarta aveva colpito il Campidoglio e una quinta la base aeronautica di Andrews. In due minuti i missili lanciati contro New York avevano colpito Wall Street e Times Square. In rapida successione gli SLBM sovietici erano avanzati lungo la costa orientale; ma intanto i bombardieri B-1 volavano verso il cuore della Russia, i sommergibili americani dislocati intorno all'Unione Sovietica effettuavano i lanci, i missili della NATO e del Patto di Varsavia sibilavano sopra l'Europa. I sommergibili sovietici in agguato al largo della Costa occidentale avevano colpito con testate nucleari Los Angeles, San Francisco, San Diego, Seattle, Portland, Phoenix e Denver; poi gli ICBM sovietici a testata multipla e a lungo raggio — i bastardi veramente pericolosi — erano sciamati sopra l'Alaska e il polo, per colpire le basi dell'aeronautica e le installazioni missilistiche del Midwest; nel giro di qualche minuto avevano annientato le città dell'interno. Omaha era stata uno dei primi bersagli, e con essa il quartier generale del Comando Strategico dell'Aviazione. Alle 12,09 gli ultimi confusi segnali della NORAD avevano raggiunto le cuffie radio dei tecnici: «Liberati ultimi uccelli». E con questo messaggio, il cui significato era che l'ultimo quantitativo di missili Minuteman III o Cruise era stato lanciato da silos nascosti chissà dove nell'America occidentale, la NORAD aveva cessato le trasmissioni. Hannan aveva gli auricolari, attraverso i quali aveva controllato i rapporti man mano che arrivavano. Il presidente si era tolto la cuffia quando la NORAD aveva smesso di trasmettere. Aveva in bocca il sapore di cenere e non sopportava di pensare al contenuto della valigetta nera dall'altra parte del corridoio. Hannan ascoltava la voce remota di comandanti di sommergibili e di bombardieri che davano ancora la caccia ai bersagli o cercavano di evitare la distruzione in rapidi e furibondi scontri in giro per mezzo mondo. La task force navale d'entrambe le parti era stata spazzata; ora l'Europa occidentale era martellata dalle truppe di fanteria. Hannan si concentrò sulle
voci spettrali e remote che si libravano fra la tempesta di disturbi radio, perché pensare a qualcosa di diverso rischiava di farlo impazzire. Non per niente lo chiamavano "Hans di ferro": non poteva lasciarsi indebolire da ricordi e rimpianti. L'Aereo di Comando fu colpito dalla turbolenza che sollevò con violenza il velivolo e poi lo lasciò cadere con velocità impressionante. Il presidente si aggrappò ai braccioli. Capì che non avrebbe più rivisto sua moglie, suo figlio. Washington era un panorama lunare di macerie ardenti, la Dichiarazione d'Indipendenza e la Costituzione erano cenere negli archivi distrutti, i sogni d'un milione di menti erano morti nell'inferno della Biblioteca del Congresso. Ed era successo così in fretta... così in fretta! Avrebbe voluto piangere, avrebbe voluto urlare, ma era il presidente degli Stati Uniti. Nei suoi gemelli da polso era impresso il sigillo presidenziale. Ricordò, come da enorme e terribile distanza, d'avere chiesto a Julianne se la camicia celeste a quadretti andava bene con il completo marrone chiaro. Non era stato capace di scegliere una cravatta, perché era una decisione troppo impegnativa. Non riusciva più a pensare, a connettere; si sentiva al posto del cervello un grumo di sostanza informe. Julianne aveva scelto per lui la cravatta intonata, gli aveva infilato i gemelli nei polsini. E lui l'aveva baciata, aveva abbracciato il figlio; e gli uomini del servizio segreto avevano condotto la sua famiglia, e altri membri del suo staff, nello Scantinato. Tutto finito, pensò; mio Dio... è tutto finito. Aprì gli occhi, sollevò la schermatura del finestrino. Nubi nere, in cui ardevano nuclei centrali rossi e arancione, si stagliavano intorno all'aereo, emettevano getti di fuoco e fulmini che s'innalzavano per centinaia di metri. C'era una volta, pensò, una relazione amorosa fra noi e il fuoco. «Signore?» disse piano Hannan, togliendosi gli auricolari. Il viso del presidente era grigiastro, un tic violento gli deformava la bocca. Hannan pensò che stesse per avere un attacco di mal d'aria. «Si sente bene?» Nel viso livido, gli occhi spenti si mossero. «A-OK» mormorò il presidente. Sorrise a denti stretti. Hannan ascoltò altre voci. «L'ultimo B-1 è stato appena abbattuto sopra il Baltico» riferì. «Otto minuti fa i sovietici hanno colpito Francoforte. Sei minuti fa Londra è stata centrata da un ICBM a testata multipla.» Il presidente era immobile come pietra. «È possibile fare una stima delle perdite?» domandò stancamente. «Non ancora. Le voci sono così confuse che neppure i computer rie-
scono a depurarle di tutti i disturbi.» «M'è sempre piaciuta Parigi» mormorò il presidente. «Julianne e io ci siamo andati in luna di miele, sa? Che fine ha fatto, Parigi?» «Non so. Dalla Francia non arriva niente.» «E la Cina?» «Tutto tace. Credo che i cinesi attendano il momento opportuno.» L'aereo sobbalzò di nuovo. I motori urlarono nell'aria polverosa, lottarono per raggiungere una quota più alta. Il riflesso di un fulmine bluastro striò il viso del presidente. «D'accordo» disse lui. «Siamo qui. E da qui dove andiamo?» Hannan aprì bocca per rispondere, ma non seppe che cosa dire. Aveva la gola bloccata. Allungò di nuovo la mano a oscurare il finestrino, ma il presidente disse con fermezza: «No, lasci. Voglio guardare». Girò lentamente la testa verso Hannan. «È finita, vero?» Hannan annuì. «Quanti milioni sono già morti, Hans?» «Non so, signore. Non mi preoccuperei di...» «Eviti quell'aria di condiscendenza!» gridò all'improvviso il presidente, a voce così alta da far trasalire anche il rigido capitano dell'aviazione. «Le ho rivolto una domanda e voglio una risposta... una stima, un'ipotesi, qualsiasi cosa! Non ha smesso un attimo d'ascoltare i rapporti. Risponda!» «Nel... nell'emisfero settentrionale» disse, scosso, il segretario della difesa, mentre la sua facciata di ferro cominciava a incrinarsi come plastica da quattro soldi «fra i trecento e i cinquecento. Milioni.» Il presidente chiuse gli occhi. «E quanti ne moriranno fra una settimana? Fra un mese? Fra sei mesi?» «Probabilmente... altri duecento milioni nel prossimo mese, a seguito di ferite e a causa delle radiazioni. Dopo... lo sa solo Iddio.» «Dio» ripeté il presidente. Una lascrima gli colò lungo la guancia. «Dio in questo momento guarda me, Hans. Sento il Suo sguardo su di me. Sa che ho assassinato il mondo. Io. Ho assassinato il mondo.» Si coprì il viso, emise un gemito. L'America è morta, pensò; morta. «Oh...» singhiozzò. «Oh... no...» «Credo che sia ora, signore.» La voce di Hannan era quasi gentile. Il presidente alzò lo sguardo. Gli occhi bagnati e vitrei si mossero verso la valigetta nera dall'altra parte del corridoio. Si spostarono bruscamente a guardare dal finestrino. Il presidente si domandò quanti fossero rimasti in vita dopo quell'olocausto. No, la domanda migliore era un'altra. Quanti a-
vrebbero voluto essere ancora vivi. Le documentazioni e le ricerche sulla guerra nucleare gli avevano fatto capire con chiarezza una sola cosa: i milioni e milioni di morti nelle prime ore di guerra erano i fortunati. Sarebbero stati i superstiti, a sopportare mille forme diverse di dannazione. Sono ancora il presidente degli Stati Uniti d'America, si disse. Sì. E ho ancora una decisione da prendere. L'aereo vibrò come se percorresse una strada di ciottoli. Per alcuni secondi nubi nere avvilupparono il velivolo: in quel regno di tenebra, il fuoco e il fulmine balzarono contro i finestrini. Poi l'aereo virò a dritta e continuò a girare in cerchio, ondeggiando fra i pennacchi neri. Il presidente pensò a sua moglie e a suo figlio. Morti. Pensò a Washington e alla Casa Bianca. Morte. Pensò a New York City e a Boston. Morte. Pensò alle foreste e alle autostrade della terra sotto di lui, pensò ai campi e alle praterie e alle spiagge. Morto, tutto morto. «Avanti» disse. Hannan sollevò un bracciolo e mise in mostra la piccola console di comando sistemata all'interno. Premette il pulsante che apriva la linea intercom fra lo stanzino e la cabina di pilotaggio, poi trasmise il nome di codice e ripeté le coordinate della nuova rotta. L'aereo virò e si diresse verso l'interno, lasciandosi indietro le rovine di Washington. «Saremo a portata in quindici minuti» disse Hannan. «Le dispiace... pregare con me?» mormorò il presidente. Insieme chinarono la testa. Terminata la preghiera, Hannan disse: «Capitano? Ora siamo pronti». Cedette il posto all'ufficiale con la valigetta. L'uomo si sedette di fronte al presidente, si posò sulle ginocchia la valigetta. Sbloccò la manetta mediante un piccolo laser che sembrava una torcia tascabile. Poi, dalla tasca interna della giacca, trasse una busta sigillata, strappò un lembo e ne tolse una piccola chiave d'oro. Inserì la chiave in una delle due serrature, la girò verso destra. La serratura scattò con un acuto ronzio elettronico. L'ufficiale girò la valigetta dalla parte del presidente, che dalla tasca interna della giacca trasse anche lui una busta, la strappò, ne tolse una chiave d'argento. La infilò nella seconda serratura, la girò verso sinistra e ottenne di nuovo un ronzio acuto, lievemente diverso dal primo. Il capitano dell'aviazione sollevò il coperchio della valigetta. All'interno c'era una piccola tastiera di computer e uno schermo piatto che si sollevò insieme con il coperchio. Alla base della tastiera c'erano tre piccoli cerchi: verde, giallo e rosso. Quello verde iniziò a lampeggiare.
Accanto al sedile del presidente, fissato alla paratia di dritta dell'aereo, sotto il finestrino, c'era una piccola scatola nera da cui uscivano due cavi arrotolati, uno rosso, uno verde. Con gesti lenti e decisi il presidente svolse i cavi; all'estremità di ciascuno c'era uno spinotto che fu infilato nell'apposita presa sul fianco della tastiera. La scatola nera collegava ora la tastiera a un'antenna telescopica, lunga sette chilometri e mezzo, nella scia dell'Aereo di Comando. Il presidente esitò solo un paio di secondi. La decisione era presa. Batté le tre lettere del codice d'identificazione. BUON GIORNO, SIGNOR PRESIDENTE, comparve sullo schermo del computer. Il presidente si dispose ad aspettare, un tic nervoso all'angolo della bocca. Hannan guardò l'ora. «Siamo a portata, signore.» Lentamente, con cura, il presidente batté: E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce, la Dama delle situazioni. Il computer rispose: ECCO QUI L'UOMO CON LE TRE ASTE, ECCO LA RUOTA. L'aereo fu squassato. Qualcosa sfregò sulla fiancata sinistra del jet, con rumore d'unghia sulla lavagna. Il presidente batté: E qui il mercante con un occhio solo e questa carta... CHE NON HA FIGURA, È QUALCOSA CHE PORTA SUL DORSO, rispose il computer. E che a me non è dato vedere, scrisse il presidente. Il cerchio giallo s'illuminò. Il presidente trasse un respiro profondo, come se fosse sul punto di saltare in acque nere e insondabili. Scrisse: Non trovo l'Impiccato. TEMETE LA MORTE PER ACQUA, fu la risposta. Il cerchio rosso s'accese. Immediatamente lo schermo divenne vuoto. Poi il computer riferì: ARTIGLI ARMATI, SIGNORE. DIECI SECONDI PER ANNULLARE. «Dio mi perdoni» mormorò il presidente, muovendo il dito verso il tasto della N. «Oddio!» esclamò all'improvviso il capitano d'aviazione. A bocca aperta fissava il finestrino. Il presidente seguì il suo sguardo. In un tornado di case ardenti e di macerie bruciacchiate, una sagoma infuocata si muoveva come una meteora verso l'Aereo di Comando. Il presi-
dente impiegò due preziosi secondi a capire che cosa fosse: un pullman Greyhound, schiacciato e maciullato, con le ruote in fiamme; dai finestrini rotti e dal parabrezza penzolavano cadaveri carbonizzati. La targa di destinazione, sopra il parabrezza, diceva: CHARTER. Il pilota dell'aereo l'aveva certo visto in quello stesso istante, perché i motori rombarono come se fossero spinti al limite e il muso sobbalzò con tale violenza che l'accelerazione schiacciò contro il sedile il presidente, come se pesasse duecento chili. La valigetta e la tastiera del computer volarono via dalle ginocchia del capitano, i due spinotti si staccarono; la valigetta scivolò nel corridoio e andò a incastrarsi sotto un sedile. Il presidente vide il rottame di pullman rotolare sul fianco e seminare dai finestrini cadaveri che caddero come foglie ardenti. E poi, con uno schianto orribile, il pullman colpì l'ala di destra. Il motore più all'esterno esplose. Metà dell'ala fu strappata via, il secondo motore schizzò pennacchi di fiamma come fuochi di Bengala morenti. Strappati dall'urto, pezzi di pullman ricaddero nel gorgo e furono risucchiati fuori vista. Mutilato, l'Aereo di Comando sbandò sull'ala di sinistra; i due motori restanti vibrarono sotto la tensione, parvero sul punto di staccarsi dai bulloni d'ancoraggio. Il presidente urlò. L'aereo precipitò per cinquemila piedi, mentre il pilota lottava con ipersostentatori e timoni. Una corrente ascensionale afferrò l'aviogetto e lo sollevò di mille piedi; poi l'aereo precipitò rombando per altri diecimila. Ruotò su se stesso e puntò infine contro la terra distrutta. Le nubi nere si chiusero nella sua scia. TRE: spegnere le luci Giro giro tondo / Non ancora tre / Pagamento in natura / L'ascia sacra / Il campione mondiale di vomito / Che capitombolo / Il primo passo 12 Sono all'inferno, pensò Sister Creep, isterica. Sono morta, sono all'inferno, a bruciare con i peccatori! Fu travolta da un'altra ondata di dolore acutissimo. «Aiutami, Gesù!» cercò di gridare, ma riuscì solo a emettere un gemito rauco, animalesco. Singhiozzò, serrò i denti, finché il dolore non calò di nuovo. Giaceva nel
buio assoluto, credeva di udire le urla dei peccatori che bruciavano nelle lontane fosse dell'inferno... deboli e orribili lamenti, strilli che l'aria portava fino a lei come la puzza di zolfo, di vapore e di carne bruciata, che l'aveva fatta rinvenire. Buon Gesù, salvami dall'inferno, supplicò. Non lasciarmi bruciare per l'eternità! Il dolore atroce tornò a tormentarla. Si rannicchiò nella posizione fetale; l'acqua le lambì il viso e le entrò nelle narici. Lei gridò e sputacchiò, aspirò una boccata d'aria umida e acre. Acqua, pensò. Acqua. Sono distesa nell'acqua. E nella sua mente febbricitante i ricordi iniziarono a brillare come carboni ardenti sotto la griglia. Sì alzò a sedere, il corpo pesante e gonfio; quando si portò la mano al viso, le vesciche sulle guance e sulla fronte si ruppero e la inondarono di siero. «Non sono all'inferno» gracchiò. «Non sono morta... ancora.» Adesso ricordava dov'era, ma non capiva che cos'era successo, né da dove il fuoco fosse venuto. «Non sono morta» ripeté a voce più alta. Udì l'eco nel tunnel e gridò ancora: «Non sono morta!», con labbra screpolate e piene di vesciche. Eppure sentiva atroci dolori in tutto il corpo. Un istante bruciava l'attimo dopo gelava; era stanca, stanchissima, voleva distendersi di nuovo nell'acqua e dormire, ma aveva paura di non svegliarsi più. Allungò la mano nel buio in cerca della borsa, provò un attimo di panico quando non riuscì a trovarla. Poi con le dita toccò la tela bruciacchiata, zuppa d'acqua; tirò a sé la sacca e la tenne stretta come un figlio. Provò ad alzarsi. Le gambe le cedettero quasi subito. Allora restò seduta nell'acqua e sopportò il dolore, cercando di recuperare le forze. Sul viso le vesciche s'incresparono di nuovo, le tiravano la pelle come una maschera. Lei si passò la mano sulla fronte, nei capelli; non aveva più il berretto, i capelli sembravano al tatto le stoppie di un prato che non avesse avuto una goccia di pioggia per tutta una torrida estate. Sono calva per le bruciature, pensò Sister Creep, con un lamento che era una via di mezzo fra una risatina sciocca e un singhiozzo. Sulla pelle del cranio sentì scoppiare altre vesciche; si affrettò a togliere la mano, non voleva sapere altro. Provò di nuovo a reggersi in piedi e questa volta ci riuscì. Toccò il bordo del pavimento del tunnel, proprio a livello dello stomaco. Avrebbe dovuto tirarsi su con la sola forza delle braccia. Aveva ancora male alle spalle per lo sforzo di strappare la grata, ma quel dolore era niente, in confronto alle ustioni. Gettò nel tunnel la borsa di tela: prima o poi
avrebbe trovato la forza di arrampicarsi a riprenderla. Posò sul cemento le mani aperte e si tese per darsi la spinta, ma sentì evaporare la forza di volontà; rimase lì a pensare che qualcuno della manutenzione sarebbe sceso laggiù fra un paio d'anni e avrebbe trovato uno scheletro dove un tempo c'era una donna viva. Si diede la spinta. Sotto la tensione, i muscoli delle spalle urlarono di dolore, un gomito minacciò di cedere. Ma mentre stava per cadere all'indietro nel buco, riuscì a sollevare un ginocchio e a posarlo sul bordo, facendolo seguire subito dopo dall'altro. Sulle braccia e sulle gambe le vesciche scoppiarono con piccoli schiocchi umidi. Sister Creep si arrampicò come un granchio e giacque bocconi sul pavimento del tunnel, intontita, con il fiatone, ma stringendo di nuovo la borsa. In piedi, si disse. Muoviti, sacco di sporcizia, altrimenti morirai qua sotto. Si alzò, tenne la borsa davanti a sé come uno scudo, avanzò barcollando nelle tenebre. Aveva le gambe rigide come pezzi di legno; varie volte cadde sopra macerie o cavi rotti. Ma si fermava solo il tempo indispensabile a riprendere fiato e a respingere il dolore; poi si rialzava e proseguiva. Urtò contro una scala a pioli e vi si arrampicò; ma il pozzo era bloccato da cavi, pezzi di cemento e di tubazioni. Ritornò nel tunnel e continuò a cercare la via per uscirne. In alcuni punti l'aria era calda e rarefatta; respirò ad ansiti brevi, per non perdere i sensi. Proseguì a tentoni nel tunnel, si trovò in vicoli ciechi ostruiti da mucchi di macerie, fu costretta a tornare sui suoi passi, trovò altre scalette che portavano a pozzi bloccati o terminavano in tombini che non riusciva a sollevare. I suoi pensieri andavano su e giù come animali in gabbia. Un passo alla volta, si disse. Un passo alla volta, e il passo seguente ti porta dove volevi andare. Vesciche si gonfiavano e scoppiavano sul viso, sulle braccia, sulle gambe. Sister Creep si fermò, si sedette un poco a riposare, con i polmoni che sibilavano nell'aria densa. Non c'erano rumori di treni sotterranei, né di auto, né di peccatori che bruciavano. Lassù è accaduta una cosa tremenda, pensò. Non l'Assunzione in cielo, non il Secondo avvento... una cosa tremenda. Sister Creep si costrinse a continuare. Un passo alla volta. Un passo, poi l'altro. Trovò un'altra scaletta. A circa mezzo metro, in cima al pozzo, c'era una mezzaluna di luce livida. S'arrampicò fin quasi a sfiorare il tombino: la stessa onda d'urto che aveva fatto vibrare il tunnel l'aveva strappato di cin-
que centimetri dall'alveolo. Infilò le dita fra il ferro e il cemento e spinse via il tombino. La luce aveva il colore del sangue rappreso, era confusa come se filtrasse attraverso strati di garza fitta. Eppure Sister Creep fu costretta a socchiudere gli occhi, finché non si abituarono di nuovo alla luce. Guardò il cielo, ma un cielo come non ne aveva mai visti: nubi marrone sporco turbinavano sopra Manhattan, mandavano lampi bluastri e rumorosi. Un vento aspro e ardente la colpì in faccia, con tanta forza da sbatterla quasi giù dalla scaletta. In lontananza c'era il rombo del tuono, ma un tuono diverso da quelli normali, simile a un maglio contro il ferro. Il vento ululava infilandosi nel tombino, la spingeva indietro; ma Sister Creep trascinò se stessa e la borsa su per gli ultimi due pioli e strisciò di nuovo nel mondo esterno. Il vento le soffiò in viso una tempesta di sabbia che per qualche secondo la rese cieca. Quando la vista le si schiarì, Sister Creep vide che dal tunnel era sbucata in quello che sembrava un deposito di robivecchi. Tutt'intorno c'erano carcasse schiacciate di automobili, di taxi, di camion, alcune fuse insieme a formare bizzarre sculture metalliche. Gli pneumatici di alcuni veicoli fumavano ancora, mentre altri si erano liquefatti in pozze nere. Nell'asfalto si spalancavano fenditure, ampie anche un paio di metri; da alcune di esse sgorgavano getti di vapore o d'acqua, simili a geyser. Intontita, Sister Creep guardò da tutte le parti, senza capire, con gli occhi socchiusi per difenderli dal vento sabbioso. In alcuni punti la terra era sprofondata, in altri s'ergevano montagne di macerie, piccoli Everest di metallo, di pietra, di vetro. Fra di esse il vento ululava, vorticava, sbatacchiava pezzi d'edifici, molti dei quali erano ridotti al solo scheletro di ferro, contorto e piegato come bastoncini di liquirizia. Cortine di fumo denso, proveniente da edifici e cumuli di macerie in fiamme, ondeggiavano al vento furioso; fulmini scaturivano dal cuore nero di nubi immense e torbide e s'avventavano sulla terra. Il sole non si vedeva, era impossibile perfino stabilire se ci fosse, nel cielo turbolento. Sister Creep cercò con gli occhi l'Empire State Building, ma non c'erano più grattacieli; tutti gli edifici visibili erano distrutti, ma lei non poteva stabilire se l'Empire State fosse ancora in piedi, a causa della polvere e del fumo. Quella non era più Manhattan, ma un deposito di robivecchi, una devastazione di montagne di macerie e di burroni pieni di fumo. Il giudizio universale, pensò. Dio aveva raso al suolo una città malefica, aveva sbattuto i peccatori a bruciare per l'eternità nell'inferno! Dentro di lei
risuonò una risata folle; e mentre sollevava il viso verso le nubi polverose, il siero delle vesciche scoppiate le colò lungo le guance. Un fulmine colpì l'ossatura d'un vicino edificio; le scintille danzarono selvaggiamente nell'aria. Al di là di una montagna di macerie si scorgeva in lontananza l'imbuto di una tromba d'aria; un'altra turbinava più a destra. Fra le nubi, oggetti infuocati venivano sbatacchiati come palle rosse fra le mani di un giocoliere. Tutto sparito, distrutto, pensò Sister Creep. La fine del mondo. Lode a Dio! Lode a Gesù benedetto! La fine del mondo e tutti i peccatori nelle fiamme dell'... Si tappò le orecchie e urlò. Qualcosa, nel suo cervello, s'incrinò come uno specchio da luna park che rifletta solo un mondo distorto; e mentre cadevano, i frammenti di quello specchio lasciavano posto ad altre immagini: una Sister Creep più giovane, più bella, che spingeva il passeggino nella via fiancheggiata di negozi; una casa di periferia, di mattoni, con il piccolo giardino e la station wagon nel viale d'accesso; una cittadina con il corso e con la statua nella piazza centrale; facce, alcune scure e indistinte, altre proprio ai margini della memoria; e poi la luce blu intermittente e la pioggia e il demone in impermeabile giallo, che allungava la mano e diceva: "La dia a me, signora. Va tutto bene, adesso la dia a me..." Tutto svanito, distrutto. "Adesso la dia a me..." No, pensò. No! Tutto svanito, distrutto! I peccatori fra le fiamme dell'inferno! No! No! No! E allora spalancò la bocca e urlò, perché ogni cosa era svanita, distrutta nel fuoco e nella rovina; in quell'istante capì che nessun Dio creatore avrebbe distrutto il suo capolavoro in un solo scoppio di fiamma, come un bambino irascibile. Quello non era il Giorno del giudizio, né l'Assunzione, né il Secondo avvento: non aveva niente a che fare con Dio; era una distruzione completa, malvagia, priva di senso, di scopo, di spiegazione logica. Per la prima volta, da quando era strisciata fuori dal tombino, Sister Creep si guardò le mani e le braccia coperte di vesciche, i vestiti a brandelli. La pelle era punteggiata di crudeli macchie rosse, le vesciche erano gonfie di siero giallastro. La sacca era tenuta insieme a malapena da stracci di tela, le sue cose cadevano dagli squarci delle bruciature. E poi, intorno a sé, nel turbine di polvere e di fumo, vide altre cose che la mente non le aveva permesso di vedere: cose appiattite e carbonizzate, remotamente riconosci-
bili come resti umani. Una pila di quelle cose giaceva quasi ai suoi piedi, come ammucchiata da qualcuno che avesse ramazzato in un angolo il contenuto del secchio per il carbone. Quelle cose ingombravano la via, mezzo dentro mezzo fuori delle macchine schiacciate e dei taxi; qui ce n'era una, ancora avvolta a resti di bicicletta; là un'altra, con denti d'un bianco abbagliante nel viso raggrinzito e informe. Centinaia di quelle cose giacevano intorno a lei, con le ossa saldate in figure d'orrore surrealistico. Il fulmine lampeggiò, il vento ululò con la voce spettrale dei morti. Sister Creep corse via. Il vento la colpì in viso, l'accecò con il fumo, la polvere, le ceneri. Lei chinò la testa, barcollò su per una montagnola di macerie, si accorse d'avere abbandonato la borsa, ma non trovò il coraggio di tornare in quella valle di morti. Inciampò nelle macerie, provocò una valanga di robaccia che le scivolò intornò alle caviglie... televisori fracassati e impianti stereo, masse fuse di computer da casa, mangianastri, radio, stracci bruciati di completi da uomo in seta e di abiti da donna d'alta moda, frammenti di porcellane, libri carbonizzati, argenteria antica ridotta a grumi di metallo. E dappertutto c'erano veicoli schiacciati, cadaveri sepolti fra i rottami... centinaia di corpi e di parti di corpo, braccia e gambe che sporgevano dalle macerie con la rigidità di manichini. Sister Creep arrivò in cima alla montagnola, dove il vento caldo soffiava con tanta forza da costringerla a mettersi in ginocchio per non farsi portare via. Guardando in tutte le direzioni vide la portata del disastro. A nord, i pochi alberi rimasti in Central Park bruciavano e il fuoco si estendeva in quella che era stata l'Ottava Avenue, che splendeva come rubino rosso sangue dietro la cortina di fumo. A est, non c'era segno del Rockefeller Center né della Grand Central Station: resti di edifici schiantati sporgevano come denti guasti da gengive malate. A sud, anche l'Empire State sembrava svanito e l'imbuto di una tromba d'aria danzava dalle parti di Wall Street. A ovest, creste di macerie s'allungavano fino all'Hudson. Lo scenario di distruzione portò al culmine l'orrore e nello stesso tempo lo smussò: la mente di Sister Creep raggiunse il limite della capacità d'accettare ed elaborare lo choc; cominciò a generare rapide immagini di fumetti e di spettacoli visti da bambina: i Jetsons, Huckleberry Hound, Mighty Mouse e i Three Stooges. S'acquattò in cima alla montagnola, nella stretta del vento furioso, a fissare ammutolita le rovine, mentre un orribile sorriso le torceva le labbra e un solo pensiero razionale le attraversava la mente: Oh, Gesù mio, cos'è accaduto al negozio magico? E la risposta era: Tutto svanito, distrutto.
«In piedi» disse a se stessa, anche se il vento portò via le parole. «In piedi. Vorresti restare qui? Non puoi stare qui! Alzati, fai un passo alla volta. Un passo, e quello seguente ti porta dove volevi andare.» Ma impiegò un bel po' di tempo, prima di riuscire a muoversi di nuovo. Come una vecchia, scese incespicando e borbottando l'altro lato della montagnola. Non sapeva dove andava, né ci teneva particolarmente a saperlo. L'intensità dei fulmini aumentò, il tuono scosse il terreno; prese a cadere una pioggerella nera e maligna, gocce pungenti come aghi sotto la spinta del vento. Sister Creep barcollò da una montagnola di macerie all'altra. In lontananza credette di udire il grido di una donna; urlò un richiamo che rimase senza risposta. La pioggia cadde con forza maggiore, il vento le schiaffeggiò il viso. E poi — non sapeva quanto tempo dopo — scese una cresta di macerie e si fermò di colpo accanto ai resti accartocciati di un taxi giallo. Lì vicino, un cartello stradale piegato fin quasi a formare un nodo, indicava la Quarantaduesima. Di tutti gli edifici della strada, solo uno era ancora in piedi. L'insegna luminosa sul cinema Empire State faceva ancora pubblicità a La faccia della morte, parte IV e Mondo bizzarro. Ai lati del cinema, gli edifici erano ridotti a gusci bruciati, ma la sala cinematografica non era nemmeno bruciacchiata. Un velo di fumo si frappose fra lei e il cinema; forse, l'istante dopo, l'edificio sarebbe scomparso come un miraggio; ma quando il fumo volò via, il cinema era sempre lì e l'insegna lampeggiava ancora allegramente. Vattene via, si disse Sister Creep. Scappa di corsa! Ma avanzò di un passo; e poi il passo seguente la portò dove voleva andare. Ferma davanti alla porta del cinema, sentì provenire dall'interno il profumo di popcorn imburrato. No, pensò, non è possibile! Ma non era nemmeno possibile che nel giro di qualche ora la città di New York si fosse ridotta a un deserto spazzato da trombe d'aria. Nel fissare la porta del cinema, Sister Creep capì che le regole di questo mondo erano state repentinamente e drasticamente cambiate da una forza che lei non poteva nemmeno immaginare. «Sono impazzita» disse. Ma il cinema era reale, ed era reale il profumo di popcorn imburrato. Scrutò dentro il botteghino dei biglietti: vuoto. Allora raccolse le forze, toccò il crocifisso che portava al collo e varcò la porta. Non c'era nessuno, dietro il banco delle bibite; ma la proiezione era in corso, dietro la scolorita tenda rossa; ci fu lo schianto di uno scontro d'au-
tomobili, la voce fuori campo declamò: "E qui, davanti ai vostri occhi, ecco i risultati di un urto frontale a novanta chilometri all'ora". Sister Creep allungò la mano sopra il bancone, arraffò due tavolette di Hershey e stava per mangiarne una, quando udì un ringhio d'animale. Il ringhio aumentò di volume, raggiunse il registro di una risata umana. Ma in esso Sister Creep udì il gemito di pneumatici sull'asfalto bagnato, l'urlo acutissimo e straziante di una bambina: "Mamma!" Si tappò le orecchie finché il grido non svanì; rimase a tremare finché non si affievolì pure il ricordo. Anche la risata era svanita; ma chi l'aveva emessa, chiunque fosse, era ancora seduto là dentro, a guardare un film nel bel mezzo d'una città distrutta. Sister Creep s'infilò in bocca mezza tavoletta di Hershey, masticò e inghiottì. Dietro la tenda rossa, la voce fuori campo parlava di stupri e di omicidi, con freddo, clinico distacco. La tenda la chiamava. Sister Creep mangiò il resto della tavoletta, si leccò le dita. Se quella terrificante risata si fosse ripetuta, pensò, sarebbe impazzita; ma doveva vedere chi rideva in quel modo. Si accostò alla tenda e lentamente, lentamente, la scostò. Sullo schermo c'era il viso illividito di una giovane donna senza vita; ma un simile spettacolo non aveva più il potere di sconvolgere Sister Creep. Distinse il contorno di una testa: qualcuno era seduto in prima fila, il viso alzato verso lo schermo. Tutti gli altri posti erano vuoti. Sister Creep fissò quella testa: non vedeva la faccia, e non voleva vederla, perché a chiunque — a qualsiasi cosa — appartenesse, non poteva essere umana. All'improvviso la testa si girò verso di lei. Sister Creep si ritrasse. Le gambe volevano darsi alla fuga, ma lei non lo permise. La figura in prima fila si limitò a fissarla, mentre il film continuava a mostrare primi piani di persone sui tavoli del coroner. E poi la figura si alzò. Sister Creep udì lo scricchiolio di popcorn sotto le suole. Scappa, le gridò una voce interiore; esci di qui! Ma lei rimase ferma lì e la figura si arrestò prima che la luce del bancone ne rivelasse il viso. «Ma lei è tutta ustionata!» disse la voce bassa e piacevole d'un uomo giovane. Lo sconosciuto, magro e alto, circa uno e novanta, indossava un paio di calzoni di tela verde scuro e una T-shirt gialla. Ai piedi aveva lucidi stivali militari. «Ormai fuori sarà tutto finito, no?» «Tutto svanito» mormorò lei. «Distrutto.» Provò una sensazione di gelo fetido, la stessa che aveva avuto davanti al cinema la notte prima e che era subito scomparsa. Scorgeva, sul viso dell'uomo, una debole traccia di lineamenti; pensò che sorridesse, ma era un sorriso orribile: la bocca non sem-
brava nel punto giusto. «Credo... che siano morti tutti» disse. «Non tutti» la corresse lui. «Lei è viva, no? E credo che ce ne siano altri, là fuori. Nascosti da qualche parte, forse. In attesa di morire. Ma non ci vorrà molto. Nemmeno per lei.» «Non sono ancora morta» disse Sister Creep. «È come se lo fosse.» Gonfiò il petto, inspirando a fondo. «Senta il profumo dell'aria! Non è meraviglioso?» Sister Creep iniziò ad arretrare. «No» disse l'uomo, in tono quasi gentile; e lei si fermò, come se la cosa più importante del mondo — l'unica cosa importante — fosse ubbidirgli. «Arriva la mia interpretazione migliore» continuò lui. Indicò lo schermo, sul quale le fiamme sgorgavano da un edificio e corpi martoriati giacevano sulle barelle. «Quello sono io! In piedi accanto all'auto! Be', non ho detto che era una interpretazione lunga.» Tornò a interessarsi a lei. «Oh» disse piano. «Che bella collana.» La mano pallida, dalle dita lunghe e sottili, si mosse verso la gola di Sister Creep. Lei avrebbe voluto ritrarsi, perché non sopportava di lasciarsi toccare da quella mano, ma era paralizzata dalla sua voce, che le echeggiava avanti e indietro nel cervello. Trasalì, quando le dita gelide toccarono il crocifisso. L'uomo diede uno strattone, ma il crocifisso e la catenella di graffette erano saldati alla pelle. «È incollato» disse l'uomo. «Provvediamo subito.» Con un rapido movimento del polso, strappò crocifisso e catena, insieme con un brandello di pelle. Sister Creep fu percorsa da una fitta di dolore simile a una scossa elettrica, che nello stesso tempo spezzò l'eco dell'ordine di quell'uomo e le schiarì la mente. Lungo le guance, le lacrime le lasciarono scie ardenti. L'uomo tese la mano a palmo in su; crocifisso e catenella dondolarono davanti al viso di Sister Creep. Con voce infantile lui si mise a canticchiare: «Giro giro tondo, giro giro tondo...» Il palmo della mano prese fuoco, le fiamme strisciarono lungo le dita. Mentre la mano diventava un guanto di fuoco, il crocifisso e la catenella si fusero e gocciolarono per terra. «Giro giro tondo, casca il mondo!» Sister Creep lo guardò in viso. Alla luce della mano fiammeggiante, vide le ossa cambiare posizione, le guance e le labbra sciogliersi, occhi di colori diversi emergere dove non c'erano orbite. L'ultima goccia di metallo fuso si spiaccicò per terra. Una bocca si aprì
di traverso sul mento dell'uomo, simile a una ferita dai bordi rossi. La bocca sogghignò. «È ora di spegnere le luci!» mormorò. Il film s'interruppe, il fotogramma bruciò sullo schermo. La tenda rossa, che Sister Creep reggeva ancora per un lembo, prese fuoco; la donna gridò, scostò di colpo le dita. Un'ondata di calore nauseante spazzò il cinema, dalle pareti colarono fiamme. «Tic tac tic tac!» continuò l'uomo, in un'allegra cantilena. «Niente ferma l'orologio!» Il soffittò in fiamme si deformò. Sister Creep alzò le braccia a ripararsi la testa, barcollò all'indietro attraverso la tenda ardente, mentre l'uomo avanzava verso di lei. Rivoli di cioccolata colarono dal banco delle bibite. Sister Creep corse alla porta e la creatura alle sue spalle ragliò: «Scappa! Scappa, scrofa!» Era uscita di tre passi, quando la porta divenne una cortina di fuoco; allora corse come una pazza lungo la Quarantaduesima. Quando osò guardarsi alle spalle, vide che il cinema era avvolto dalle fiamme; il tetto dell'edificio crollò come colpito da un pugno brutale. Sister Creep si gettò al riparo di un blocco di pietra, mentre si scatenava una tempesta di vetri e di mattoni. Nel giro di qualche secondo terminò, ma Sister Creep rimase rannicchiata, tremante di terrore, finché tutti i mattoni non furono caduti. Allora scrutò dal riparo. Le macerie del cinema non si distinguevano più dagli altri mucchi di cenere. L'edificio era sparito e con esso, grazie al cielo, la creatura dalla mano fiammeggiante. Sister Creep si toccò il cerchio di carne viva intorno alla gola; ritrasse le dita macchiate di sangue. Le occorse ancora un istante per capire che crocifisso e catenella erano svaniti davvero. Non ricordava dove li avesse presi, ma ne era stata orgogliosa. Pensava pure che la proteggessero; ora si sentiva nuda e indifesa. Aveva guardato in faccia il male, lì in quel cinema da quattro soldi. La pioggia nera cadeva con maggiore intensità. Sister Creep si rannicchiò, la mano stretta alla gola insanguinata; chiuse gli occhi e pregò di morire. Gesù Cristo non sarebbe giunto nel Suo disco volante, dopotutto. Il giorno del giudizio aveva distrutto gli innocenti nelle stesse fiamme che avevano annientato i colpevoli, e l'Assunzione in cielo era il sogno di una svitata. Un singhiozzo d'angoscia le uscì dalla gola. Pregò: Gesù, per favore, portami a casa, ti supplico, subito, ora stesso, ti supplico... Ma quando ria-
prì gli occhi, cadeva sempre la pioggia nera. Il vento divenne più forte, ora portava un gelo invernale. Sister Creep era inzuppata, aveva la nausea, batteva i denti. Stancamente si alzò a sedere. Per oggi Gesù non sarebbe venuto. Sarebbe morta più tardi, si disse. Inutile stare distesa sotto la pioggia come una pazza. Un passo, pensò. Un passo, e il passo seguente ti porta dove volevi andare. Dove, non lo sapeva. Ma d'ora in poi avrebbe fatto molta attenzione, perché quella creatura malvagia, senza faccia e con tutte le facce, poteva essere in agguato dovunque. Dovunque. Le regole erano cambiate. La Terra Promessa era un cimitero, l'inferno stesso era scaturito sulla terra. Non sapeva che cosa avesse causato una simile distruzione, ma le venne in mente un pensiero orribile: E se fosse stato così dappertutto? Lasciò che il pensiero svanisse, prima che le bruciasse il cervello. Si tirò faticosamente in piedi. Barcollò sotto la spinta del vento. La pioggia cadeva con tale violenza da non permetterle di vedere a più di un metro. Decise di andare dalla parte che pensava fosse il nord: forse nel Central Park c'era un albero sotto cui riposare. Con la schiena piegata per resistere meglio alla furia degli elementi, iniziò a camminare, un passo alla volta. 13 «La casa è crollata, mamma!» urlò Josh Hutchins, liberandosi a fatica del terriccio, dei detriti e dei pezzi di travatura che l'avevano coperto. «Il tornado è passato!» Sua madre non rispose, ma lui ne udiva il pianto. «Stai tranquilla, mamma! Siamo...» Il ricordo — una tromba d'aria nell'Alabama della sua infanzia, che l'aveva spinto a rifugiarsi con madre e sorella nello scantinato di casa — volò via all'improvviso, rimpiazzato, con chiarezza terrificante, dal campo di granturco, dalle lance di fiamma, dal tornado di fuoco. La donna in lacrime, capì Josh, era la madre della bambina. Era buio. Josh si sentiva ancora schiacciare da un peso; mentre lottava per liberarsi dei detriti, in gran parte terriccio e pezzi di legno, il peso scivolò via. Josh si drizzò a sedere, il corpo ridotto a un'unica pulsazione di dolore sordo.
Il viso gli dava la sensazione bizzarra di pelle tesa fino a lacerarsi. Josh si toccò la fronte: una decina di vesciche scoppiò, il siero gli colò sul viso. Altre vesciche scoppiarono, sulle guance e sulla mascella; lui si toccò la carne intorno alle orbite, scoprì che a causa del gonfiore gli occhi erano ridotti a fessure. Il dolore diventava più intenso; aveva l'impressione che gli avessero gettato sulla schiena secchi d'acqua bollente. Sono tutto ustionato, pensò; bruciato come un dannato appena uscito dall'inferno. Sentì odore di pancetta fritta: quasi vomitò, ma era troppo impegnato a fare l'inventario delle ferite. All'orecchio destro aveva un dolore diverso. Si sfiorò il lato della testa: toccò un residuo di cartilagine e una crosta di sangue. Quando i serbatoi di benzina erano esplosi, una scheggia di metallo arroventato gli aveva portato via di netto quasi tutto l'orecchio. Ma stava abbastanza bene. Il pensiero quasi gli strappò una risata. Era pronto a sfidare il mondo! Se mai avesse rimesso piede in un ring di wrestling, non avrebbe avuto bisogno della maschera da Frankenstein per sembrare un mostro. A quel punto vomitò e si contorse negli spasimi, con le narici piene dell'odore di pancetta fritta. Passata la nausea, strisciò lontano dalla pozza di vomito. Sotto le mani sentì terriccio, pezzi di legno, cocci di vetro, lattine ammaccate, steli di granturco. Il gemito di un uomo gli ricordò i globi oculari bruciati di PawPaw; il vecchio giaceva da qualche parte alla sua destra: Josh lo udiva anche se da quel lato aveva l'orecchio chiuso. A giudicare dai singhiozzi, la donna era davanti a lui, poco lontano; la bambina, ammesso che fosse ancora viva, stava in silenzio. L'aria era ancora calda, ma almeno respirabile. Josh posò le dita su un manico di legno: una zappa da giardino. Scavando nel terriccio intorno a sé, trovò una varietà di oggetti: una serie di scatolette, alcune squarciate e mezzo vuote; un paio di grumi fusi che forse erano stati contenitori di plastica pieni di latte; un martello; alcune riviste e pacchetti di sigarette, carbonizzati. L'intera drogheria era crollata e aveva riversato ogni cosa nel rifugio antiatomico di PawPaw. Si trattava proprio di un rifugio, ragionò Josh: i ragazzi del sottosuolo certo sapevano che un giorno o l'altro il vecchio ne avrebbe avuto bisogno. Cercò di alzarsi, ma sbatté la testa prima di riuscire a distendere le gambe. A un metro e mezzo dal pavimento dello scantinato toccò una massa compatta formata di terriccio, di assi e forse di centinaia di piante di granturco. Oddio, pensò, ci saranno tonnellate di terra, sopra di noi! Si trovavano in una sacca d'aria. Finita quella...
«Signora, la smetta di piangere» disse. «Le ferite del vecchio sono più gravi delle sue.» La donna ansimò, come sorpresa per la presenza di altri superstiti. «Dov'è la bambina? Sta bene?» continuò Josh. Le vesciche sulle labbra scoppiarono. «Swan!» gridò Darleen. Mosse le mani nel buio, cercando Sue Wanda. «Non la trovo! Dov'è la mia bambina? Dov'è Swan?» Poi con la sinistra toccò un braccino. «Eccola qui! Oddio, è sepolta!» Si mise freneticamente a scavare. Josh strisciò accanto a lei; a tentoni trovò il corpo della bambina. Ma solo le gambe e il braccio sinistro erano bloccati dai detriti; la faccia era libera e la bambina respirava. Josh la estrasse dal mucchio di terriccio. Darleen abbracciò la figlia. «Swan, stai bene? Di' qualcosa, Swan! Su, parla alla mamma!» Continuò a scuotere la bambina, finché Swan non sollevò la mano e le diede una debole spinta. «Smettila» disse, in un mormorio rauco, confuso. «Lasciami dormire... finché non siamo arrivate.» Josh strisciò in direzione dei lamenti del vecchio. PawPaw era rannicchiato, semisepolto. Josh lo liberò con cautela. La mano di PawPaw s'impigliò nei brandelli della camicia di Josh; il vecchio borbottò qualcosa. Josh non capì. «Come?» disse, chinandosi su di lui. «Il sole» ripeté PawPaw. «Oddio... ho visto il sole esplodere.» Riprese a borbottare, qualcosa a proposito delle sue ciabatte da riposo. Josh capì che il vecchio non sarebbe durato a lungo; tornò da Darleen e da Swan. La bambina piangeva... un pianto silenzioso, ferito. «Buona» disse Darleen. «Buona, tesoro mio. Ci troveranno. Non preoccuparti. Ci tireranno fuori di qui.» Ancora non si rendeva conto dell'accaduto. I suoi ricordi erano confusi e nebulosi, a partire dal momento in cui Swan aveva indicato l'insegna PAWPAW sulla strada statale dicendole che non ce la faceva più a resistere senza andare in gabinetto. «Mamma, non ci vedo» si lamentò Swan, agitata. «Andrà tutto a posto, bambina mia. Ci troveranno davvero...» Aveva allungato la mano per lisciare i capelli di Swan, ma la ritrasse di scatto: le dita avevano trovato solo peli corti e ispidi. «Oh, mio Dio. Oh, Swan, bambina mia...» Aveva paura di toccare i propri capelli, il proprio viso, anche se il dolore che provava era quello di una moderata scottatura di sole. Sto bene, si disse. E anche Swan sta bene. Ha solo perso qualche capello, ecco tutto. Ci riprenderemo subito!
«Dov'è PawPaw?» chiese Swan. «Dov'è il gigante?» Sentiva un dolore sordo in tutto il corpo e il profumo di colazione sul fuoco. «Sono qui» rispose Josh. «Il vecchio è qui vicino. Siamo nello scantinato. Il locale ci è crollato...» «Usciremo presto!» lo interruppe Darleen. «Non ci vorrà molto, prima che ci trovino!» «Signora, forse non accadrà tanto presto. Cerchiamo di stare calmi e di risparmiare aria.» «Risparmiare aria?» Il panico tornò ad avvampare. «Respiriamo, no?» «Per il momento. Non so quanto spazio abbiamo, ma l'aria prima o poi verrà a mancare. Forse ci toccherà restare qua sotto per... per parecchio tempo» si decise a dire. «Lei è pazzo! Non dargli retta, tesoro. Scommetto che già scavano per tirarci fuori.» Cominciò a cullare la figlia, come se Swan fosse una bambina di pochi mesi. «No, signora. Non credo che verranno a tirarci fuori. Erano missili, quelli che si alzavano dal campo. Missili nucleari. Forse ne è esploso uno. Non so cosa sia accaduto, ma c'è una sola ragione che spieghi il lancio di quei maledetti affari. Forse in questo momento il mondo intero si spara addosso.» La donna scoppiò a ridere, sull'orlo della crisi isterica. «Dio le ha dato meno cervello di una formica! Qualcuno avrà certo visto tutte quelle fiamme! Manderanno soccorsi! Noi dobbiamo andare a Blakeman!» «Va bene» disse Josh. Era stanco di parlare e consumava aria preziosa. Si allontanò di qualche centimetro, si scavò un buco nel quale sistemarsi. Era tormentato da una sete intensa, ma aveva anche bisogno di andare di corpo. Dopo, si disse, troppo stanco per muoversi. Il dolore aumentava di nuovo. Con la mente vagò oltre lo scantinato di PawPaw, oltre il campo di granturco in fiamme; si domandò che cosa restava là fuori, se davvero era scoppiata la terza guerra mondiale. Forse era già terminata. Forse i russi già invadevano l'America, oppure gli americani avanzavano in Russia. Pensò a Rose e ai suoi figli; erano ancora vivi? Forse non l'avrebbe mai saputo. «Oh, Dio santo» mormorò nel buio; si rannicchiò e rimase a fissare il nulla. «Ah... ah... ah...» PawPaw emetteva balbettii soffocati. Poi disse a voce alta: «C'è un geomio nel buco! Amy! Dove sono le mie ciabatte?» La bambina emise un altro lamento doloroso. Josh serrò i denti per trattenere un urlo di rabbia. Una bambina così graziosa, pensò; destinata a mo-
rire presto... come moriremo tutti noi. Siamo già nella tomba. Siamo già composti come cadaveri in attesa. Aveva l'impressione d'essere inchiodato al tappeto da un avversario che non aveva avuto intenzione d'incontrare. Quasi sentiva la mano dell'arbitro colpire il tappeto, nel conteggio: Uno... due... Josh spostò le spalle. Non ancora tre. Presto, ma non ancora. E sprofondò in un sonno tormentoso, con il cuore ossessionato dal lamento della bambina. 14 «Disciplina e autocontrollo» disse il Soldato Ombra, con voce simile allo schiocco di una cinghia contro le gambe di un bambino. «Sono queste le cose che ti rendono uomo. Ricorda... ricorda...» Il colonnello James Macklin si rannicchiò nel pozzo fangoso. C'era solo una fessura di luce, sei metri più in alto, fra il terreno e il bordo del coperchio di lamiera ondulata che ricopriva il pozzo. La fessura bastava a far entrare le mosche che gli ronzavano intorno al viso e sfrecciavano sui mucchi d'immondizia. Non ricordava da quanto tempo era lì sotto; se i Charlie, le guardie, venivano una volta al giorno, si trovava nel pozzo da trentanove giorni. Ma forse venivano due volte al giorno e allora il calcolo era sbagliato. Forse saltavano un giorno o due. Forse venivano tre volte nello stesso giorno e saltavano i due seguenti. Forse... «Disciplina e autocontrollo, Jimbo.» il Soldato Ombra sedeva a gambe incrociate contro la parete del pozzo, a un metro e mezzo da lui. Indossava la tuta mimetica; sul viso olivastro e mobile aveva pitture mimetiche da combattimento, verde scuro e nero. «Nervi a posto, soldato.» «Sì» disse Macklin. «Nervi a posto.» Alzò la mano scarna a scacciare le mosche. Allora iniziarono i colpi. Con un gemito Macklin si strinse contro la parete. I Charlie, là sopra, colpivano il coperchio metallico, con canne di bambù e randelli. Il rumore echeggiava nel pozzo, raddoppiato, triplicato, finché Macklin non si turava le orecchie; il martellare continuava, più forte, più forte. Macklin sentì che un urlo stava per scappargli di gola. «No» lo ammonì il Soldato Ombra, con occhi simili ai crateri sulla faccia della luna. «Non devono sentirti gridare.» Macklin raccolse una manciata di fango e si tappò la bocca. Il Soldato Ombra aveva ragione. Il Soldato Ombra aveva sempre ragione.
Il martellare cessò. Il coperchio di lamiera fu spinto di lato. La confusa luce del sole pugnalò gli occhi di Macklin; ma lui li vedeva, lassù, chini sul pozzo, a ridere, «'nello Macreen!» gridò uno di loro. «Tu fame, 'nello Macreen?» Con la bocca piena di fango e di sporcizia, Macklin annuì e si alzò a sedere, come un cane che mendicasse un avanzo. «Attento» gli sussurrò il Soldato Ombra. «Attento.» «Tu fame, 'nello Macreen?» «Per favore» disse Macklin, con il fango che gli colava dalla bocca. Sollevò verso la luce le braccia emaciate. «Prendi, 'nello Macreen!» Qualcosa cadde nel fango, a un paio di passi da lui, accanto al cadavere in decomposizione di un soldato di fanteria, un certo Ragsdale. Macklin strisciò sopra il cadavere e raccolse la focaccia di riso fritto e untuoso. Cominciò a mangiare con avidità, gli occhi bagnati di lacrime di gioia. In alto i Charlie ridevano. Macklin strisciò sopra i resti del capitano d'aviazione noto con il nomignolo di "Mississippi" perché parlava con cadenza strascicata; ora Mississippi era un silenzioso fagotto di stracci e di ossa. Nell'angolo più lontano c'era un terzo cadavere, un altro fante, un ragazzo dell'Oklahoma, di nome McGee, che si scioglieva lentamente nel fango. Macklin si acquattò accanto a McGee e continuò a mangiare il riso, quasi singhiozzando di piacere. «Ehi, 'nello Macreen! Tu sporco! Ora di bagno!» Macklin gemette, si ritrasse, incassò la testa fra le spalle, perché sapeva che cosa sarebbe accaduto. Un Charlie rovesciò nel pozzo un secchio di liquami, che ruscellarono su Macklin e gli colarono sulla schiena, le spalle, la testa. I Charlie scoppiarono a ridere, ma Macklin si dedicò alla focaccia di riso. Schizzi di sostanze nauseabonde l'avevano colpita; Macklin la ripulì con i brandelli del giubbotto di volo. «Ecco!» gridò il Charlie che aveva svuotato il secchio. «Tu ora pulito!» Le mosche gozzovigliavano attorno alla testa di Macklin. Oggi pranzo grasso, pensò il colonnello. La focaccia gli avrebbe allungato la vita. Mentre lui la masticava, il Soldato Ombra disse: «Giusto, Jimbo. Mangia tutto, fino all'ultima briciola». «Tu stai pulito ora!» disse il Charlie. Il coperchio metallico, rimesso a posto, escluse la luce del sole. «Disciplina e autocontrollo.» Il Soldato Ombra era strisciato più vicino. «Sono queste le cose che ti rendono uomo.»
«Signorsì» rispose Macklin. Il Soldato Ombra lo fissò, con occhi che nel buio ardevano come napalm. «Colonnello!» Una voce lontana lo chiamava. Era difficile concentrarsi su quella voce, perché il dolore gli si diffondeva nelle ossa. Qualcosa di pesante lo schiacciava, quasi gli spezzava la spina dorsale. Un sacco di patate, pensò Macklin. No, no. Più pesante. «Colonnello Macklin!» insistette la voce. Vattene via, supplicò fra sé Macklin. Per favore, vattene via. Cercò di sollevare la testa per scacciare dal viso le mosche, ma una fitta atroce gli attraversò il braccio, la spalla e gli strappò un gemito continuando lungo la spina dorsale. «Colonnello! Sono Ted Warner! Mi sente?» Warner. Teddybear Warner. «Sì» disse Macklin. Il dolore gli trafisse il torace. Sapeva di non avere parlato a voce abbastanza alta. Perciò tentò di nuovo. «Sì. La sento.» «Grazie a Dio! Ho una torcia, colonnello!» Un tenue raggio di luce filtrò sotto le palpebre di Macklin. Il raggio della torcia sondò l'oscurità da un'altezza di circa tre metri. La polvere di roccia e il fumo erano ancora densi, ma Macklin capì di giacere in fondo a un pozzo. Girò lentamente la testa, quasi svenne di nuovo per il dolore; l'apertura permetteva a stento il passaggio. Macklin si domandò come ci fosse finito dentro. Aveva le gambe ripiegate sotto di sé, la schiena piegata dal peso non di un sacco di patate, ma di un corpo umano. Un morto. Non poteva dire chi fosse. Sopra di lui, un intrico di cavi e di tubi rotti era incastrato nel pozzo. Cercò di spingere via il peso spaventoso per dare almeno un po' di spazio alle gambe, ma sentì di nuovo il dolore lancinante alla mano. Girò la testa da quella parte, approfittando della luce. Capì subito di essere nei guai grossi. La destra era rimasta schiacciata dentro una fessura larga forse tre centimetri, dalla quale colavano sulla pietra lucicanti rivoli di sangue. La mia mano, pensò Macklin, stordito. Ricordò le dita di Becker che scoppiavano. Capì che, mentre cadeva lì dentro, la mano gli si era infilata nella fenditura e poi, quando la roccia si era assestata... Un dolore intenso gli serrava come un ceppo il polso, ma non sentiva nient'altro: mano e dita erano carne morta. Diventerò mancino, si disse. E poi fu quasi tramortito da un pensiero: aveva perso il dito del grilletto.
«Colonnello, il caporale Prados è qui con me» gridò Warner. «Ha una gamba rotta, ma non ha perduto conoscenza. Gli altri stanno peggio... o sono morti.» «E lei?» domandò Macklin. «Dolori terribili alla schiena.» Warner parlava come se avesse difficoltà a respirare. «Non mi spacco in due solo perché le palle mi tengono unito. Ho anche sputato un po' di sangue.» «C'è qualcuno a cui chiedere un resoconto dei danni?» «L'intercom è fuori uso. Dai condotti dell'aria entra fumo. Si sentono delle urla da qualche parte, quindi alcuni ce l'hanno fatta. Cristo, colonnello! Si sarà mossa tutta la montagna!» «Devo uscire di qui» disse Macklin. «Ho il braccio inchiodato, Teddy.» Il pensiero della mano maciullata gli riportò il dolore e lo costrinse a serrare i denti, finché non fu passato. «Può aiutarmi a uscire?» «E come? Non posso raggiungerla. E se ha il braccio inchiodato...» «Ho la mano maciullata» spiegò Macklin, in tono calmo; si sentiva in un mondo di sogno in cui tutto è mobile e irreale. «Mi procuri un coltello. Il più affilato che trova.» «Un coltello? Per fare cosa?» Macklin sogghignò selvaggiamente. «Me lo procuri e basta. Poi accenda un fuoco e bruci per me un pezzo di legno.» Provava un bizzarro senso di distacco, come se quel che doveva fare riguardasse la carne d'un altro. «Il legno dev'essere incandescente, Teddy. Per cauterizzare un moncherino.» «Un... moncherino?» Warner esitò. Cominciava a capire. «Forse possiamo tirarla fuori in un altro...» «Non ci sono altri modi.» Per uscire da quel buco, doveva lasciarci la. mano. Un pagamento in natura, si disse. «Teddy, ha capito?» «Sissignore» rispose Warner, sempre ubbidiente. Macklin scostò il viso dal raggio di luce. Warner si allontanò strisciando dall'orlo del pozzo che si era aperto nel pavimento della sala comando. L'intero locale era inclinato a un angolo di trenta gradi, per cui lui strisciava in leggera discesa, sopra attrezzature distrutte, pezzi di roccia, corpi umani. Il raggio della torcia inquadrò il caporale Prados, seduto contro la parete inclinata e piena di crepe; aveva il viso stravolto, l'osso luccicante gli spuntava dalla coscia. Warner continuò fra le macerie del corridoio. Enormi buchi si erano spalancati nel soffitto e nelle pareti, l'acqua si riversava sulla confusione di pietre e di tubature. In lontananza si udivano ancora delle grida. Warner doveva trovare qualcuno
che lo aiutasse a liberare il colonnello, perché senza la guida di Macklin erano tutti finiti. La schiena ferita non gli avrebbe permesso di strisciare nel pozzo in cui il colonnello era intrappolato. No, doveva trovare un altro... uno tanto magro da infilarsi nel pozzo, ma anche tanto duro da fare il lavoro. Ma non aveva idea di che cosa avrebbe trovato, una volta al Livello Uno. Il colonnello contava su di lui. E lui non l'avrebbe lasciato nei pasticci. Lentamente, dolorosamente, strisciò fra le macerie, in direzione delle urla. 15 Roland Croninger, rannicchiato sul pavimento sconquassato fra le macerie della cafeteria di Casa Terra, ascoltava, al di sopra dei gemiti e delle grida, una sinistra voce interiore: Un Cavaliere del Re... Un Cavaliere del Re... Un Cavaliere del Re non piange mai... Il buio era totale, a parte le lingue di fiamma che di tanto in tanto guizzavano dove c'era stata la cucina. Quella luce capricciosa illuminava pezzi di roccia, rottami di tavoli e di sedie, corpi umani maciullati. Qua e là delle forme barcollavano nel buio, simili a dannati nelle bolge dell'inferno; corpi schiacciati spuntavano da sotto grossi massi che avevano sfondato il soffitto. Tutto era iniziato con una scossa che aveva sbattuto giù dalle sedie la gente. L'illuminazione principale era saltata, ma quasi subito era entrata in funzione quella di riserva. Roland si era ritrovato per terra, con i fiocchi d'avena della colazione sul davanti della camicia. Sua madre e suo padre erano finiti lunghi e distesi accanto a lui; in quel momento nel locale c'erano forse altri quaranta ospiti; alcuni già gridavano aiuto, ma la maggior parte era ammutolita e sotto choc. Sua madre, con succo d'arancia che le colava dai capelli e dal viso, l'aveva guardato e aveva detto: «L'anno venturo andiamo al mare». Roland si era meso a ridere, imitato da suo padre. E poi anche sua madre aveva riso: per un attimo la risata li aveva uniti. Phil era riuscito a dire: «Grazie al cielo questo posto non l'ho assicurato io! Avrei dovuto fare causa alla mia stessa...» Le parole erano state soffocate da un rombo mostruoso e dal rumore di roccia che si schianta; il pavimento si era sollevato, si era inclinato pazzescamente, con tanta forza da scagliare Roland lontano dai genitori e da
mandarlo a sbattere contro altri corpi. Dal soffitto era precipitato uno sbarramento di pietre e di mattonelle. Roland era stato colpito con violenza alla testa. Ora, seduto con le ginocchia tirate fin sotto il mento, si portò la mano all'attaccatura dei capelli e tastò il sangue appiccicoso. Sanguinava pure da un taglio al labbro inferiore e si sentiva pieno di lividi interni: gli pareva che gli avessero stirato il corpo come un elastico e poi l'avessero brutalmente spezzato. Non sapeva quanto era durato il terremoto, come mai fosse lì rannicchiato come un bambino, dove fossero i suoi genitori. Voleva piangere, aveva gli occhi gonfi di lacrime. Ma un Cavaliere del Re non piange mai; era scritto nel manuale del gioco, una delle regole da lui stesso concepite per stabilire il corretto comportamento d'un guerriero: un Cavaliere del Re non piange mai... rende la pariglia. Nella destra stringeva qualcosa: gli occhiali, con la lente sinistra incrinata e privi della destra. Quando si era ritrovato sotto il tavolo, gli pareva di ricordare, se li era tolti per pulirli dagli schizzi di latte. Tornò a inforcarli e cercò di alzarsi, ma impiegò qualche istante a coordinare il movimento delle gambe. Appena in piedi, urtò la testa contro il soffitto incurvato, alto almeno due metri più di lui, prima che iniziasse il terremoto. Ora doveva chinarsi per evitare cavi penzolanti, tubature, tondini di rinforzo spezzati. «Mamma! Papà!» gridò; ma, sopra le urla dei feriti, non udì risposta. Si aggirò incespicando fra le macerie e continuò a chiamare i genitori; calpestò una cosa che cedette come spugna bagnata: sembrava un'enorme stella marina schiacciata fra due lastre di pietra; il corpo non aveva più alcuna somiglianzà, anche remota, con un essere umano, a parte i brandelli di camicia insanguinata. Roland scavalcò altri corpi; i cadaveri li aveva visti solo nelle illustrazioni di Soldier of Fortune; questi erano diversi, maciullati al punto da essere irriconoscibili e asessuati, se non per gli stracci dei vestiti. Ma nessuno era il cadavere dei suoi genitori. No, si disse Roland; suo padre e sua madre erano vivi, chissà dove. Ne era sicuro. Continuò a cercare. In un'altra occasione si fermò appena in tempo per non cadere nell'abisso frastagliato che divideva in due la cafeteria; vi scrutò dentro, ma non riuscì a scorgere il fondo. «Mamma! Papà!» gridò, verso l'altra metà della sala; ma nemmeno ora ebbe risposta. Rimase in piedi, tremante, sull'orlo della fenditura. Una parte di lui era ammutolita dal terrore; ma un'altra, più intima, sembrava rinvigorita, proiettata alla superficie: tremava non di paura, ma di una fredda eccitazione allo stato puro, superiore a qualsiasi sensazione provata in preceden-
za. Circondato dalla morte, Roland sentì nelle vene una pulsazione vitale che lo stordiva e lo inebriava. Sono vivo, pensò. Vivo. All'improvviso le macerie della cafeteria parvero incresparsi e mutare: Roland si trovava ora in mezzo a un campo di battaglia disseminato di morti; in lontananza le fiamme s'alzavano dall'incendio di una roccaforte nemica. Lui reggeva lo scudo ammaccato e la spada insanguinata, stava quasi per cadere in preda allo choc, ma era ancora in piedi, ancora vivo, dopo l'olocausto della battaglia. Aveva guidato alla guerra una legione di cavalieri, in quel campo di pietrisco; adesso era l'unico in piedi, perché era l'unico Cavaliere del Re rimasto. Da terra, un guerriero martoriato gli afferrò la caviglia. «Per favore» gracchiò la bocca insanguinata. «Per favore, aiuto...» Roland batté le palpebre, stordito. Guardava una donna di mezz'età, con la parte inferiore del corpo imprigionata sotto una lastra di pietra. «Per favore aiuto» implorò la donna. «Le gambe... oh, le mie gambe...» Non dovrebbero esserci donne, sul campo di battaglia, pensò Roland. Oh, no! Ma poi ricordò dove si trovava; con uno strattone si liberò la caviglia e s'allontanò dall'orlo del baratro. Continuò a cercare, ma non riuscì a trovare suo padre e sua madre. Forse erano rimasti sepolti... o erano precipitati nelle tenebre di quell'abisso. Forse aveva visto i loro cadaveri, ma non li aveva riconosciuti. «Mamma! Papà!» urlò. «Dove siete?» Nessuna risposta, solo singhiozzi e lamenti d'atroci sofferenze. Un raggio di luce brillò nel fumo, lo colpì in viso. «Tu» disse una voce, in un mormorio tormentato. «Come ti chiami?» «Roland» rispose lui. E il cognome? Per qualche secondo non riuscì a ricordarlo. «Roland Croninger» disse poi. «Mi serve il tuo aiuto, Roland» dichiarò l'uomo con la torcia. «Sei in grado di camminare bene?» Roland annuì. «Il colonnello Macklin è imprigionato di sotto, nella sala comando. Nei resti della sala comando» si corresse subito Teddybear Warner. Si reggeva in piedi come un gobbo, appoggiandosi a un pezzo di tondino di ferro che fungeva da bastone. Alcuni corridoi erano completamente bloccati dalle frane, mentre altri erano inclinati ad angoli pazzeschi oppure tagliati in due da abissi spalancati. Grida e invocazioni echeggiavano per Casa Terra; le pareti erano coperte di sangue, dove le onde d'urto avevano sbatacchiato a
morte corpi umani. Fra le rovine Warner aveva trovato solo sei civili in discrete condizioni; ma solo due di loro, un uomo anziano e una bambina, non erano completamente impazziti. Però il vecchio aveva un polso spezzato, dal quale fuorusciva l'osso; e la bambina non voleva lasciare il posto dove suo padre era scomparso. Allora Warner era andato avanti fino alla cafeteria, in cerca di qualcuno che lo aiutasse; aveva anche pensato che in cucina c'era un assortimento di coltelli. Ora mosse il raggio di luce sul viso di Roland. Il ragazzo aveva un taglio sulla fronte e gli occhi gonfi per lo choc, ma per il resto sembrava illeso. A parte il sangue, il viso era pallido e impolverato; la camicia di cotone blu scuro, a brandelli, lasciava vedere altri tagli sul torace olivastro e magro. Non è un granché, pensò Warner, ma devo accontentarmi. «I tuoi genitori?» domandò. Roland scosse la testa. «Va bene, allora ascolta: siamo stati colpiti da una bomba atomica. Tutta la nazione è stata bombardata. Non so qui quanti morti ci siano, ma noi due siamo vivi, e anche il colonnello Macklin. Ma, per restare vivi, dobbiamo mettere le cose a posto meglio che possiamo e aiutare il colonnello. Capisci cosa dico?» «Credo di sì» rispose Roland. Bombardati con le atomiche, pensò. Atomiche... atomiche... atomiche. Si sentì vacillare. Fra un minuto, pensò, mi risveglio nel mio letto, in Arizona. «Bene. Ora, Roland, voglio che tu stia attaccato a me. Andremo in cucina a cercare un coltello affilato: un arnese da macellaio, una mannaia, qualsiasi cosa. Poi torniamo alla sala comando.» Se riesco a ritrovare la strada, si disse; ma non osò esprimere il dubbio a voce. «Mamma e papà» protestò debolmente Roland «sono qui... da qualche parte.» «Non se ne andranno. Al momento, il colonnello Macklin ha bisogno di te più di loro. Capisci?» Roland annuì. Cavaliere del Re, pensò. Il Re era intrappolato in una prigione sotterranea e aveva bisogno del suo aiuto! I suoi genitori erano morti, spazzati via dal cataclisma; la roccaforte del Re era stata colpita da una bomba atomica. Ma io sono vivo, pensò Roland. Sono vivo, e sono un Cavaliere del Re. Socchiuse gli occhi nel raggio luminoso. «Devo diventare soldato?» chiese all'uomo. «Certo. Stammi vicino. Cerchiamo la strada per la cucina.» Warner doveva muoversi piano, appoggiando tutto il peso sul bastone di ferro. Si aprirono la strada fino alla cucina, dove sacche di fuoco ardevano ancora voracemente. Bruciavano i resti della dispensa; decine di scatole
erano scoppiate, il contenuto in fiamme aderiva alle pareti. Tutto era rovinato: latte in polvere, uova, pancetta e prosciutto, tutto. Ma rimaneva il magazzino con le scorte d'emergenza... e Warner sentì un nodo allo stomaco, al pensiero che avrebbero potuto restare intrappolati lì sotto nel buio, senza cibo né acqua. Gli utensili erano sparpagliati dappertutto, l'urto li aveva spazzati via dai mobili della cucina. Con la punta del bastone di fortuna Warner disseppellì una mannaia a lama dentellata. «Prendila» disse al ragazzo. Roland la raccolse. Lasciarono la cucina e la cafeteria. Warner condusse Roland alle rovine della piazza del municipio. Lastre di pietra erano crollate dal soffitto, l'intera zona era dissestata e piena di profonde fenditure. La sala dei videogiochi bruciava ancora, l'aria era piena di fumo. «Qui» disse Warner, muovendo il raggio luminoso in direzione dell'ospedale. All'interno scoprirono che gran parte dell'attrezzatura era inutilizzabile; ma Warner continuò a cercare, finché non trovò una scatola di lacci emostatici e una bottiglia di plastica piena di alcol disinfettante. Disse a Roland di prendere un laccio emostatico e la bottiglia; poi frugò fra i resti dell'armadietto dei medicinali. Pillole e capsule scricchiolarono sotto i piedi, come grani di popcorn. La torcia illuminò il viso di un'infermiera, fracassato da una pietra grossa come un'incudine. Non c'era traccia del dottor Lang, il medico interno di Casa Terra. Il bastone portò alla luce boccette intatte di Demerol e di Percodan. Warner disse a Roland di raccoglierle e se le ficcò in tasca per portarle al colonnello. «Sei sempre con me?» disse. «Signorsì» rispose Roland. Fra un minuto mi sveglio, pensò. Sarà sabato mattina, uscirò dal letto e accenderò il computer. «Dobbiamo fare un bel pezzo di strada» annunciò Warner. «In alcuni punti ci toccherà strisciare. Ma stammi vicino, capito?» Roland lo seguì fuori dell'ospedale. Voleva tornare indietro a cercare i genitori, ma il Re aveva bisogno di lui. Era un Cavaliere del Re, doveva sentirsi onorato per il fatto d'essere così indispensabile. Di nuovo, una parte di lui si ritrasse alla vista dell'orrore e della distruzione che lo attorniavano e gli gridò: Sveglia! Sveglia!, con la voce lamentosa di uno scolaro ansioso; ma l'altra parte, che diventava sempre più forte, diede un'occhiata ai corpi illuminati dal raggio della torcia e capì che i più deboli devono morire perché i più forti sopravvivano. Percorsero i corridoi, scavalcarono i cadaveri, ignorarono le grida dei fe-
riti. Roland non si rese conto del tempo necessario a raggiungere le macerie della sala comando. Alla luce di un cumulo di detriti in fiamme guardò l'orologio da polso: ma il cristallo si era crepato e le lancette erano ferme sulle dieci e trentasei. Warner strisciò in salita fino al pozzo e vi diresse il raggio luminoso. «Colonnello!» chiamò. «Le porto aiuto! La tireremo fuori!» Tre metri più in basso, Macklin si agitò e girò il viso madido verso la luce. «Sbrigatevi» ansimò e richiuse gli occhi. Roland strisciò fino all'orlo del pozzo. Vide due corpi, in basso, uno sopra l'altro, incastrati in uno spazio non più largo di una bara. L'uomo sul fondo respirava; la sua mano spariva in una crepa della parete. Di colpo Roland capì a che cosa serviva la mannaia; nella lama vide riflesso il proprio viso... ma era un viso distorto, non quello che ricordava. Gli occhi ardevano di luce selvaggia, sulla fronte il sangue si era raggrumato in una crosta a forma di stella. Tutto il viso era segnato da lividi e gonfiori, come quello di un rospo; era conciato, si disse, perfino peggio del giorno in cui Mike Armbruster gliele aveva suonate di santa ragione perché non gli aveva lasciato copiare il compito in classe di chimica. «Brutto finocchio! Brutto finocchio con gli occhiali!» aveva sbraitato Armbruster; e i compagni che formavano cerchio intorno a loro ridevano e sfottevano, mentre lui cercava di scappare e Mike continuava a sbatterlo a terra. Roland si era messo a piangere, rannicchiato nella polvere; Mike Armbruster si era chinato a sputargli in faccia. «Sai legare un laccio emostatico?» chiese il gobbo con la benda sull'occhio. Roland scosse la testa. «Te lo spiegherò quando sarai di sotto.» Warner mosse in giro il raggio della torcia: c'erano parecchie cose che avrebbero fatto un buon fuoco... pezzi di scrivania, le sedie, gli abiti dei cadaveri. Per accenderlo potevano prendere tizzoni ardenti dai detriti in fiamme nel corridoio, e poi lui aveva ancora in tasca l'accendino. «Sai cosa bisogna fare?» «Credo... credo di sì» rispose Roland. «Bene. Allora, stai attento. Io non posso infilarmi nel buco fino a lui. Ma tu, sì. Dovrai legargli il braccio ben stretto, poi ti passerò l'alcol. Versalo su tutto il polso. Probabilmente è fracassato, non sarà difficile tagliare le ossa. Ora ascoltami bene, Roland! Non menare colpi per cinque minuti! Colpisci forte e falla finita in fretta. Una volta iniziato, non pensare nemmeno di fermarti, prima d'avere finito! Mi senti?»
«Sissignore» mormorò Roland. E pensò: Sveglia! Devi svegliarti! «Se hai stretto bene il laccio, avrai tempo di cauterizzare la ferita prima che si metta a sanguinare. Ti darò qualcosa con cui bruciare il moncherino... e bada bene di cauterizzarlo, mi senti? Altrimenti, morirà dissanguato. Da come è incastrato, non si dibatterà troppo; e comunque sa anche lui che bisogna farlo. Guardami, Roland.» Roland fissò la luce. «Se fai tutto per bene, il colonnello Macklin sopravviverà. Se pianti casino, morirà. Tutto qui. Capito?» Roland annuì. Era confuso, ma anche eccitato. Il Re è imprigionato, si disse. Fra tutti i suoi Cavalieri, sono l'unico che può liberarlo! Ma no, no... non era un gioco! Era la realtà, sua madre e suo padre giacevano chissà dove, Casa Terra era stata colpita da un'atomica, l'intera nazione era stata bombardata, ogni cosa era distrutta... Si portò la mano alla fronte insanguinata e strinse finché i pensieri cattivi non furono scomparsi. Cavaliere del Re! Ser Roland è il mio nome. E ora, armato di fuoco e di ferro, sarebbe sceso nella più profonda e più buia prigione sotterranea, a salvare il Re. Teddybear Warner si allontanò strisciando dal pozzo, per accendere un fuoco. Roland lo seguì, come un automa. Ammassarono in un angolo pezzi di scrivania, le sedie, gli indumenti tolti ai cadaveri; e usarono dei pezzi di cavo in fiamme, presi nel corridoio, per accendere il fuoco. Teddybear, muovendosi lentamente e dolorosamente, vi ammassò sopra pannelli del soffitto e aggiunse alle fiamme un po' d'alcol. Sulle prime ci fu solo un mucchio di fumo, ma poi il bagliore rosso del fuoco si rinforzò. Il caporale Prados, ancora seduto contro la parete opposta, li guardava lavorare. Aveva il viso madido, continuava a farfugliare come in preda alla febbre, ma Warner non gli badò. Ora i pezzi di scrivania e di sedia cominciavano a bruciare, il fumo acre scompariva nei buchi e nelle fessure del soffitto. Warner si accostò al fuoco, ne tolse una gamba di sedia. L'estremità ardeva vivacemente, il legno era passato dal nero al grigio cenere. Warner la infilò di nuovo tra le fiamme e si girò verso Roland. «Bene» disse. «Procediamo.» Stringendo i denti per lo sforzo che gli martoriava la schiena, afferrò la mano di Roland e lo aiutò a calarsi nel buco. Roland posò i piedi sul corpo del morto. Warner puntò il raggio luminoso sul braccio intrappolato di Macklin e spiegò a Roland come legare attorno al polso del colonnello il
laccio emostatico. Roland fu obbligato a distendersi di traverso sul cadavere, per arrivare al braccio ferito. Il polso del colonnello era diventato nero. D'un tratto Macklin cambiò posizione, cercò di guardare in alto, ma non poteva sollevare la testa. «Più stretto» riuscì a dire. «Fagli nodi, al bastardo!» Occorsero a Roland quattro tentativi per stringere bene il laccio. Warner gli tirò la bottiglia dell'alcol e Roland bagnò il polso annerito. Con la mano libera Macklin prese la bottiglia e finalmente girò la testa verso l'alto a guardare Roland. «Come ti chiami?» «Roland Croninger, signore.» Macklin capì che era un ragazzo, dal peso e dalla voce, ma non riusciva a distinguere il viso. Scorse un luccichio e piegò la testa per guardare la mannaia impugnata dal ragazzo. «Roland» disse «tu e io ci conosceremo davvero bene, nei prossimi due minuti. Teddy! Dov'è il fuoco?» La luce di Warner svanì per un minuto. Roland rimase nel buio con il colonnello. «Brutta giornata» disse Macklin. «Non ne hai mai viste di peggiori, vero?» «Nossignore.» La voce di Roland tremava. La luce tornò. Warner reggeva la gamba fiammeggiante della sedia come se fosse una torcia. «Ecco qui, colonnello! Roland, adesso te la butto. Sei pronto?» Roland afferrò la torcia e si chinò di nuovo sopra il colonnello. Macklin, con gli occhi confusi dal dolore, scorse alla luce tremolante il viso del ragazzo e pensò di averlo già visto da qualche parte. «Dove sono i tuoi genitori, figliolo?» domandò. «Non so. Li ho perduti.» Macklin guardò l'estremità ardente del pezzo di sedia e pregò che bruciasse abbastanza da cauterizzare. «Non preoccuparti» disse. «Ci penserò io.» Spostò lo sguardo dalla torcia alla lama della mannaia. Il ragazzo si accucciò goffamente su di lui, a cavallo del cadavere; fissò il punto in cui il polso si congiungeva alla parete di roccia. «Bene» disse Macklin «è ora. Forza, Roland: procedi, prima che uno di noi due se la faccia sotto. Terrò duro più che posso. Sei pronto?» «È pronto» disse Teddybear Warner, dall'orlo del pozzo. Macklin sorrise, torvo; una goccia di sudore gli colò sul naso. «Dai il primo colpo alla svelta, Roland» lo incitò. Roland strinse nella sinistra la torcia e alzò la mannaia fin dietro la testa. Sapeva esattamente dove colpire... proprio nel punto in cui la fenditura in-
ghiottiva la carne annerita. Forza, si disse; ora! Macklin trasse un respiro rumoroso. Roland strinse con forza la mannaia, che rimase a perpendicolo sulla sua testa. Ora! Il braccio s'irrigidì come una sbarra di ferro. Ora! La mannaia calò sul polso del colonnello Macklin. Scricchiolio d'ossa. Macklin sobbalzò, ma non emise suono. Roland pensò che la lama avesse attraversato il polso da parte a parte, ma vide con nuovo orrore che era penetrata solo per tre centimetri. «Vai avanti!» gridò Warner. Roland liberò la mannaia. Gli occhi di Macklin, cerchiati di viola, si chiusero e si riaprirono di scatto. «Vai avanti!» mormorò. Roland alzò il braccio e colpì di nuovo. Il polso non si staccò ancora. Roland colpì una terza volta, una quarta, sempre più forte. Il gobbo con un occhio solo gli gridò di sbrigarsi, ma Macklin restò muto. Roland liberò la mannaia e colpì per la quinta volta. Ora c'era un mucchio di sangue, ma i tendini resistevano. Roland cominciò a muovere la mannaia avanti e indietro come un seghetto. Il viso di Macklin s'era fatto livido e giallastro, le labbra erano grigie come terra di cimitero. Bisognava finire il lavoro prima che il sangue sgorgasse come acqua da una manica antincendio. Altrimenti il Re sarebbe morto. Roland alzò la mannaia sopra la testa, con la spalla dolorante per lo sforzo... e a un tratto non fu più una mannaia, fu un'ascia sacra, e lui era ser Roland del Regno, convocato a liberare il Re imprigionato in quella segreta soffocante. Solo lui, in tutto il reame, poteva riuscirci: questo era il suo momento. Sentì pulsare in sé il potere dei giusti; mentre calava la lucente ascia sacra, mandò un grido, con voce rauca, quasi inumana. L'ultimo pezzo d'osso si ruppe. I tendini cedettero al potere dell'ascia sacra. E poi il Re si contorse. Una grottesca cosa sanguinante con la superficie bucherellata come una spugna fu spinta sotto il naso di Roland. Il sangue gli schizzò sulle guance e la fronte, quasi l'accecò. «Brucialo!» urlò Warner. Roland accostò la torcia al moncherino sanguinante e spugnoso, che si ritrasse di scatto; ma lui l'afferrò e lo tenne fermo, mentre Macklin si dibatteva selvaggiamente. Premette la torcia sulla ferita, nel punto in cui c'era stata la mano del colonnello. Inorridito e affascinato, guardò il moncherino bruciare, la ferita annerirsi e gonfiarsi; udì il sibilo del sangue di Macklin che sfrigolava. Sentì il lezzo di carne bruciata, lo aspirò a fondo nei polmoni, come incenso purificatore, e continuò a cauterizzare la ferita, a pre-
mere il fuoco sulla carne. Finalmente Macklin smise di dibattersi ed emise un gemito sordo, innaturale, che parve uscire dalla gola di una belva ferita. «Bene!» gridò Warner, da sopra. «È fatta!» Roland era ipnotizzato alla vista della carne che si scioglieva. La manica strappata del giubbotto di Macklin aveva preso fuoco, il fumo turbinava su per il pozzo. «Basta così!» gridò Warner. Il ragazzo non si fermava! «Roland! Basta così, maledizione!» Roland fu riportato alla realtà. Lasciò andare il braccio del colonnello. Il moncherino era nero e lucente, come ricoperto di catrame. Le fiamme sulla manica del giubbotto si estinguevano da sole. È finita, capì Roland. Finita. Sbatté contro la parete del pozzo il pezzo di legno, fino a spegnerlo, poi lo lasciò cadere. «Vado a cercare un pezzo di corda per tirarvi fuori!» gridò Warner. «Stai bene?» Roland non si sentì di rispondere. La luce si allontanò, lo lasciò al buio. Roland udiva il respiro rauco del colonnello; strisciò all'indietro sul cadavere incastrato fra loro due, fino a trovarsi con la schiena contro la roccia; allora si rannicchiò e strinse al petto l'ascia sacra. Sul viso macchiato di sangue aveva un ghigno fisso, ma gli occhi erano stravolti. Il colonnello gemette e borbottò qualcosa che Roland non riuscì a capire. Poi ripeté le parole, con voce tesa per la sofferenza: «Nervi a posto.» Una pausa, poi di nuovo: «Nervi a posto... nervi a posto... soldato...» La voce era delirante, aumentava di volume, poi si affievoliva in un sussurro. «Nervi a posto... signorsì... fino in fondo... signorsì... signorsì...» Ora la voce del colonnello Macklin sembrava quella di un bambino che si ritraesse davanti alle frustate. «Signorsì... per favore... signorsì... signorsì...» Terminò con un suono che era per metà un gemito, per metà un singhiozzo tremante. Roland aveva ascoltato con attenzione. Quella non era la voce vittoriosa d'un eroe di guerra; sembrava piuttosto quella di un servo supplicante. Roland si domandò che cosa ci fosse nella mente del Re. Un re non dovrebbe supplicare. Neppure negli incubi peggiori. Era pericoloso, per un re, mostrare segni di debolezza. Qualche tempo dopo — quanto, non sapeva — Roland si sentì toccare il ginocchio. Mosse a tentoni la mano, trovò un braccio. Macklin aveva ripreso conoscenza. «Sono in debito con te» disse il colonnello Macklin. Ora sembrava di
nuovo il duro eroe di guerra. Roland non rispose... ma intuì all'improvviso che avrebbe avuto bisogno di protezione, per sopravvivere nel prossimo futuro. Forse suo padre e sua madre erano morti... probabilmente, anzi; e il loro corpo era perduto per sempre. Lui aveva bisogno di uno scudo contro i pericoli del futuro, non solo all'interno di Casa Terra, ma anche all'esterno... cioè, si disse, se mai avesse rivisto il mondo esterno. Decise di stare vicino al Re, d'ora in avanti; forse era l'unico modo per uscire vivo da quelle prigioni sotterranee. E lui, se mai, voleva vivere per vedere che cosa restava del mondo al di là di Casa Terra. Un giorno alla volta, si disse... e se avesse superato il primo giorno, avrebbe potuto superare anche il secondo e il terzo. Era sempre stato il tipo che sopravvive... qualità indispensabile, per essere Cavaliere del Re. Ora avrebbe fatto tutto il necessario per mantenersi in vita. Il vecchio gioco è terminato, pensò; il nuovo sta per iniziare! E forse sarebbe stato il più grande gioco di Cavaliere del Re che avesse mai tentato, perché era reale. Roland cullò l'ascia sacra e attese il ritorno del gobbo con un occhio solo; gli parve di udire l'acciottolio di dadi in un bicchiere d'osso scolorito. 16 «Signora, non berrei di certo, se fossi in lei.» Sorpresa dalla voce, Sister Creep alzò lo sguardo dalla pozza d'acqua nerastra su cui era china. A qualche metro da lei c'era un uomo basso e paffuto, che indossava una pelliccia di visone, ridotta a straccio bruciacchiato, sopra un pigiama di seta rossa; le gambe, magre come zampe d'uccello, erano nude, ma ai piedi aveva un paio di scarpe nere a punta larga. Il viso pallido da luna piena era butterato di ustioni; anche i capelli erano bruciati, ma rimanevano i favoriti grigi e le sopracciglia. La faccia era orribilmente gonfia: il naso e le guance, dilatati come se l'uomo trattenesse il fiato, mostravano venature bluastre di capillari rotti. Nelle orbite ridotte a fessure, gli occhi castani si mossero dal viso di Sister Creep alla pozza d'acqua nera e viceversa. «Quella merda è veleno» disse l'uomo, con la pronuncia del Michigan. «La farà morire di sicuro.» Sister Creep rimase accucciata sopra la pozza, come un animale che difenda la sua acqua. Per ripararsi dalla pioggia battente si era rifugiata dentro la carcassa di un taxi e aveva cercato di dormire lì, in quella lunga notte
di sofferenza; ma i pochi minuti di riposo erano stati turbati da allucinazioni in cui rivedeva la creatura con la faccia che cambiava forma, il mostro incontrato nel cinema. Appena il cielo nero si era schiarito assumendo il colore dei fiumi fangosi, aveva lasciato il rifugio — imponendosi di non guardare il cadavere sui sedili anteriori — ed era andata a cercare cibo e acqua. La pioggia si era ridotta a occasionali scrosci di acquerugiola pungente, ma l'aria diventava più fredda; il gelo sembrava quello d'inizio novembre e lei tremava, negli stracci inzuppati. L'acqua piovana nella pozza a un palmo dal suo viso aveva odore di cenere e di zolfo, ma lei era così disidratata e assetata che era stata sul punto di tuffarvi dentro il viso e di aprire la bocca. «Dalla conduttura principale, laggiù, schizza un geyser» disse l'uomo, indicando una direzione che a Sister Creep parve il nord. «Sembra quasi l'Old Faithful.» Sister Creep si scostò dalla pozzanghera contaminata. In lontananza, il rombo del tuono parve un merci in transito; era impossibile scorgere il sole, fra le nubi basse e scure. «Hai trovato qualcosa da mangiare?» domandò all'uomo, muovendo a fatica le labbra gonfie. «Un paio di panini alla cipolla, in quella che era una panetteria, credo. Ma non li ho digeriti. Mia moglie dice che sono il campione mondiale di vomito.» Si posò sul ventre la mano piagata. «Ulcera e stomaco delicato.» Sister Creep si alzò. Lo superava di quasi dieci centimetri. «Ho sete» disse. «Ti spiace condurmi all'acqua?» Lui guardò il cielo, con la testa piegata verso il rombo del tuono, poi rimase a fissare in silenzio le rovine circostanti. «Cerco un telefono» disse. «O un poliziotto. Ho cercato per tutta la notte. Non se ne trova mai uno, quando serve. Vero?» «È accaduta una cosa terribile» rispose Sister Creep. «Non credo che telefoni e sbirri esistano ancora.» «Ma io devo trovare un telefono!» protestò l'uomo, in tono pressante. «Mia moglie si domanderà cosa m'è successo! Devo telefonarle, farle sapere... che sto... bene...» La voce morì a poco a poco, mentre lui fissava il paio di gambe irrigidite che sporgeva da una catasta d'acciaio contorto e di lastre di cemento. «Oh» mormorò, mentre gli occhi gli si velavano come vetri appannati dalla nebbia. Suonato come una campana, pensò Sister Creep; si avviò verso nord, arrampicandosi sopra un'alta cresta di macerie. Dopo qualche minuto, sentì il respiro ansante del piccoletto che ar-
rancava per raggiungerla. «Vede, non sono di queste parti» disse l'uomo. «Vengo da Detroit. Ho un negozio di scarpe nell'Eastland Shopping Center. Sono qui per un convegno, capisce? Se mia moglie sente la notizia alla radio, si preoccuperà da morire!» Sister Creep rispose con un borbottio. Pensava solo a trovare dell'acqua. «Mi chiamo Wisco» riprese l'uomo. «Arthur Wisco. Artie. Devo trovare un telefono! Vede, ho perso il portafogli, i vestiti, tutto! Con un gruppo di colleghi sono rimasto fuori fino a tardi, l'altro ieri notte. E la mattina vomitavo per tutta la stanza. Ho saltato le prime due riunioni di vendita e sono rimasto a letto. Avevo le coperte sulla testa A un tratto c'è stata una luce spaventosa e un fragore terribile, il letto è sprofondato dritto nel pavimento! Diavolo, l'albergo ballava e cadeva a pezzi. Sono piombato nell'atrio e poi giù nello scantinato, con tutto il letto! Quando sono riuscito a tirarmi fuori, l'albergo era sparito.» Ridacchiò piano. «Cristo, l'isolato intero era sparito!» «Non è stato l'unico a sparire.» «Già. Be', mi ero tagliato malamente i piedi. Ma ci pensa? Io, Artie Wisco, senza scarpe! Così ho dovuto toglierne un paio a un...» La voce morì di nuovo. Si arrampicarono fin quasi sulla cima del costone. «Le bastarde mi vanno un po' strette» disse. «Ma ho anche i piedi gonfi. Le scarpe sono importanti, glielo dico io! Dove andrebbe, la gente, senza le scarpe? Ecco, prenda le scarpe di tela che ha addosso. Sono a buon mercato e non le dureranno a lungo...» Sister Creep si girò. «Ma vuoi startene zitto?» gli disse. Riprese ad arrampicarsi. Lui resistette circa quaranta secondi. «Mia moglie diceva che non dovevo fare questo viaggio. Che avrei rimpianto la spesa. Non sono ricco. Ma le ho detto, diavolo, una volta all'anno! Una volta all'anno nella Grande Mela non è troppo...» «Non c'è più niente!» gli urlò Sister Creep. «Pazzo rimbambito! Guardati intorno!» Artie Wisco rimase immobile a fissarla. Quando riaprì bocca, il viso teso e gonfio parve sul punto di lacerarsi. «Per favore» mormorò. «Per favore, non...» Si tiene aggrappato solo con le unghie, pensò Sister Creep; inutile mozzargli le dita. Scosse la testa. Era importante non andare a pezzi. Non esisteva più niente, ma lei aveva ancora una scelta: o si sedeva lì fra le macerie ad aspettare la morte, oppure cercava l'acqua. «Scusa» disse. «Non ho
dormito molto bene, stanotte.» A poco a poco Artie parve tornare in vita. «Comincia a fare freddo» osservò. «Guardi! Il fiato si condensa!» Esalò un alito spettrale. «Tenga, ne ha più bisogno di me.» Cominciò a togliersi la pelliccia. «Se mia moglie scopre che portavo un visone, sono inguaiato per sempre!» Con un gesto Sister Creep rifiutò, ma Artie insistette. «Oh, non si preoccupi! Ce ne sono quante ne vuole, dove l'ho presa.» Alla fine, solo per indurlo a riprendere il cammino, Sister Creep si lasciò mettere sulle spalle la pelliccia lacera; passò la mano sul visone bruciacchiato. «Mia moglie dice che so essere un vero gentiluomo, quando voglio» riprese Artie. «Oh, cosa s'è fatta al collo?» Sister Creep si toccò la gola. «Un tale mi ha strappato una cosa che m'apparteneva» rispose; poi si strinse nella pelliccia, per proteggersi dal freddo, e riprese a camminare. Non aveva mai portato un visone. Quando raggiunse la sommità della cresta, provò il folle impulso di gridare: «Ehi, miserabili peccatori morti! Giratevi a faccia in su e ammirate una signora!» In ogni direzione, la città era distrutta. Sister Creep iniziò a scendere il pendio opposto della cresta, con Artie Wisco alle calcagna. L'uomo borbottava ancora di Detroit, di scarpe, di trovare un telefono, ma Sister Creep lo ignorò. «Mostrami l'acqua» disse, quando raggiunsero la base della cresta. Lui rimase a guardare per un minuto, come se cercasse di decidere dove prendere al volo un autobus. «Da questa parte» disse infine; e furono costretti ad arrampicarsi di nuovo sopra una montagnola accidentata di macerie, auto schiacciate, metallo contorto. Sotto i loro piedi c'erano tanti di quei cadaveri, sfigurati in vario modo, che Sister Creep smise di trasalire quando ne calpestava uno. In cima, Artie puntò il dito. «Laggiù» disse. Nella sottostante vallata di detriti, una fontana d'acqua scaturiva da una fenditura nel cemento. In alto, una rete di fulmini rossatri attraversò le nubi, seguita dall'eco di una esplosione. Scesero nella valle e camminarono sopra mucchi di quelli che due giorni prima erano stati tesori della civiltà: quadri bruciati ancora nella loro cornice dorata; televisori e apparecchi stereo mezzo fusi; resti ammaccati di caraffe da ponce, tazze, coltelli e forchette, candelieri, scatole armoniche, secchielli da champagne, d'argento sterling e d'oro; cocci di ceramiche di valore inestimabile, vasi antichi, statue Art Déco, sculture africane, cristalli Waterford Il fulmine si ripeté, più vicino questa volta; il bagliore rossastro brillo
sopra migliaia di pezzi di gioielleria sparpagliati fra i detriti, collane e bracciali, anelli e spille. Sister Creep vide un cartello stradale sporgere dalle macerie... e quasi si mise a ridere; ma temeva che, se avesse iniziato, avrebbe continuato fino a farsi scoppiare il cervello. Il cartello diceva: Quinta Avenue. «Vede?» Artie alzò a piene mani pellicce di visone. «Le avevo detto che ce n'erano altre!» Sprofondava fino al ginocchio nella pellicceria annerita: mantelli di leopardo, cappotti d'ermellino, giacche di foca. Scelse la pelliccia migliore e l'indossò. Sister Creep si soffermò a frugare tra una catasta di borse di pelle e di valigie. Trovò un'ampia borsa con una solida cinghia e se l'appese alla spalla. Ora si sentiva un po' meno nuda. Sulla facciata annerita dello stabile da cui erano schizzati fuori gli articoli di pelle riuscì a distinguere a malapena i resti di un'insegna: GUCCI. Senza dubbio quella era la borsa migliore che avesse mai avuto. Avevano quasi raggiunto il getto d'acqua, quando un fulmine illuminò i detriti sparsi per terra, facendoli sembrare braci ardenti. Sister Creep si fermò, si chinò a raccogliere un pezzo di vetro grosso quanto il suo pugno, fuso in un grumo nel quale era incastrata una manciata di piccole pietre preziose... rubini, che nel buio risplendevano di rosso cupo. Altri grumi di vetro erano disseminati tutt'intorno, sagomati dal calore in forme bizzarre, come creati da un vetraio impazzito. Non rimaneva niente, dell'edificio davanti a lei, a parte un frammento di parete di marmo verde. Ma Sister Creep guardò le macerie degli edifici più a sinistra e aguzzò gli occhi nel crepuscolo. Sopra un arco di marmo abbattuto c'erano alcune lettere: TIF ANY. Tiffany, capì Sister Creep. E se lì c'era Tiffany... allora lei si trovava proprio davanti a... «Oh, no» mormorò, con le lacrime agli occhi. «Oh, no... oh, no...» Era davanti a quello che era stato il suo posto magico... il negozio di cristalli Steuben: i grumi deformi ai suoi piedi erano tutto quel che restava dei magnifici tesori scolpiti. Il negozio dove lei andava a sognare davanti alle vetrine con le sculture di freddo cristallo era svanito, strappato dalle fondamenta, disseminato tutt'intorno. La vista di quella distruzione, contrapposta ai suoi ricordi, la sconvolse come se le avessero chiuso in faccia le porte del paradiso. Sister Creep rimase lì immobile, mentre le lacrime le colavano sulle guance coperte di vesciche.
«Guardi questo!» esclamò Artie. Raccolse un ottagono deforme di vetro pieno di brillanti, di rubini, di zaffiri. «Ha mai visto una cosa simile? Guardi! Ce ne sono dappertutto, in questo posto maledetto!» Frugò fra i detriti, raccolse manate di vetro fuso, tempestato di pietre preziose. «Ehi!» rise, con un raglio da mulo. «Siamo ricchi, signora mia! Cosa compriamo prima?» Sempre ridendo, gettò in aria pezzi di vetro. «Qualsiasi cosa desidera, signora!» gridò. «Le comprerò tutto quel che vuole!» Il fulmine arrossò il cielo. L'unico muro del negozio di Steuben esplose di colori abbaglianti: rosso rubino, verde smeraldo, zaffiro blu notte, topazio affumicato, vivido brillante. Sister Creep si avvicinò al muro, con le scarpe che scricchiolavano sul pietrisco; allungò la mano a toccarlo. Il muro era pieno di pietre preziose. Sister Creep capì che i tesori di Tiffany, Fortunoff e Cartier erano stati spazzati via dalle vetrine, in un fantastico turbine di gemme lungo la Quinta Avenue... e si erano mischiati con le sculture di cristallo che si fondevano nel negozio magico. Le centinaia di gemme nel muro bruciato di marmo verde trattennero la luce per alcuni secondi, poi il bagliore si affievolì come se lampadine multicolori si spegnessero una alla volta. Che spreco, pensò Sister Creep; oh, che orribile, orribile spreco... Arretrò d'un passo, in lacrime; il piede le scivolò sopra un pezzo di vetro. Cadde a sedere e rimase lì, senza più voglia di rialzarsi. «Sta bene?» Artie s'avvicinò con circospczione. «S'è fatta male, signora?» Lei non rispose. Era stanca, esaurita; sarebbe rimasta lì fra le macerie del posto magico e forse si sarebbe riposata un poco. «Non si alza? L'acqua è proprio laggiù.» «Lasciami in pace» rispose lei, irritata. «Vattene via.» «Via? Signora, dove diavolo vuole che vada?» «Me ne frego. Non m'importa un accidente. Un solo... maledetto... accidente.» Raccolse una manciata di vetro fuso e di ceneri, la lasciò scorrere fra le dita. A che cosa serviva fare un altro passo? L'ometto aveva ragione. Non c'era nessun posto dove andare. Tutto era morto, bruciato, rovinato. «Non c'è più speranza» mormorò, infilando più a fondo la mano nella cenere. «Non c'è più speranza.» Chiuse le dita su altre cianfrusaglie di vetro, le portò alla luce per vedere in che genere d'immondizia i suoi sogni erano stati mutati. «E quello che diavolo è?» chiese Artie. Nella mano di Sister Creep c'era un cerchio di vetro, una sorta di ciam-
bella con un foro centrale d'una decina di centimetri. Il contorno era spesso circa cinque centimetri, con un diametro di quindici, forse. Lungo la parte superiore sporgevano a intervalli irregolari cinque punte di vetro; una era sottile come la punta d'uno scalpello per ghiaccio; la seconda, larga come lama di coltello; la terza, a uncino; le altre due, brutte e basta. Imprigionati nel vetro c'erano ovali e quadrati scuri, di varia grandezza, a centinaia. Bizzarre ragnatele s'intrecciavano nelle profondità del vetro. «Una stronzata» borbottò Sister Creep. Stava per buttarlo di nuovo nel mucchio di ciarpame, quando balenò un altro lampo. Di colpo il cerchio di vetro esplose di luce infuocata. Per un istante Sister Creep pensò che avesse preso fuoco lì sulla sua mano. Mandò un gemito e lo lasciò cadere. Artie gridò: «Gesummio!» La luce si spense. Sister Creep si guardò il palmo e le dita della mano tremante, per vedere se si era bruciata. Non aveva sentito calore, aveva solo visto il lampo accecante. Allungò la mano per riprendere il cerchio di vetro, la ritrasse. Artie s'avvicinò a guardare. Sister Creep sfiorò con le dita il vetro, prima di ritirare bruscamente la mano un'altra volta. Il vetro era liscio, simile a velluto gelido. Lei vi soffermò le dita, poi lo strinse nella mano e lo tolse dalla cenere. Il cerchio di vetro rimase scuro. Sister Creep lo fissò, sentì il cuore batterle forte. Nella profondità del cerchio di vetro c'era un guizzo cremisi. Cominciò a crescere come fiamma, a propagarsi ad altri punti, a pulsare, pulsare, più intenso e più luminoso di secondo in secondo. Un rubino grosso come l'unghia del pollice avvampò di rosso; un altro, più piccolo, s'accese di luce come un fiammifero nel buio. Un terzo rubino bruciò come cometa; poi un quarto e un quinto, incassati profondamente nel vetro freddo, presero vita. Il bagliore rosso pulsò, pulsò... e Sister Creep si rese conto che il ritmo di quel pulsare andava a tempo con i battiti del suo cuore. Altri rubini luccicarono, s'illuminarono, s'infiammarono come tizzoni. Un brillante all'improvviso splendette di chiara luce biancazzurra, uno zaffiro di quattro carati esplose in un accecante fuoco color cobalto. Il cuore di Sister Creep batté più rapidamente, imitato dall'esplosione di luce nelle centinaia di gemme imprigionate nel cerchio di vetro. Uno smeraldo sfolgorò di gelido verde, un brillante a pera bruciò di bianca incandescenza, un
topazio pulsò di uno scuro marrone rossastro; ora i rubini, gli zaffiri, i brillanti e gli smeraldi si risvegliavano a decine. La luce s'increspava, percorreva le ragnatele che s'intessevano nel vetro. Le linee erano fili di metalli preziosi — oro, argento e platino — fusi e imprigionati anch'essi; e mentre s'accendevano come micce sfrigolanti, provocavano altre esplosioni di smeraldo, di topazio, del viola intenso dell'ametista. Il cerchio di vetro ardeva come un anello di fuochi multicolori, eppure non scaldò le dita di Sister Creep. Adesso pulsava rapidamente, come il cuore di lei; e i colori vibranti e sbalorditivi divennero più luminosi. Sister Creep non aveva mai visto niente di simile... mai, nemmeno nelle vetrine della Quinta Avenue. Gemme d'incredibile colore e purezza erano imprigionate nel vetro, alcune grosse cinque sei carati, altre minuscole come puntini che tuttavia bruciavano con selvaggia energia. Il cerchio di vetro pulsò... pulsò... pulsò... «Signora?» mormorò Artie, con riflessi luminosi negli occhi gonfi. «Posso... tenerlo?» Sister Creep era riluttante a cederlo, ma lui lo fissava con tale meraviglia e desiderio che non poteva rifiutarglielo. Le dita bruciate di Artie si strinsero intorno al cerchio; quando il vetro lasciò la stretta di Sister Creep, la luce cambiò ritmo, si adeguò ai battiti del cuore di Artie. Anche i colori mutarono sottilmente: azzurri e verdi crebbero di luminosità, lo sfolgorio dei brillanti e dei rubini si attenuò. Artie accarezzò il vetro; la superficie vellutata gli ricordò la pelle di sua moglie quand'era giovane... quando, sposini, iniziavano la vita in comune. Pensò a quanto amava sua moglie, a quanto la desiderava. Si era sbagliato, capì in quell'istante. C'era un luogo dove andare. A casa, pensò; devo tornare a casa. Dopo qualche secondo, restituì il cerchio a Sister Creep. Il vetro cambiò di nuovo luce, mentre lei lo stringeva fra le mani e scrutava le fantasmagoriche profondità. «Casa» mormorò Artie, e la donna sollevò lo sguardo. La mente di Artie non abbandonava il ricordo della pelle morbida della moglie. «Devo tornare a casa» disse Artie, con voce più forte. D'un tratto batté le palpebre, come se l'avessero schiaffeggiato. Gli occhi luccicarono di lacrime. «Qui... non ci sono più telefoni, no? E neppure agenti di polizia.» «No» disse Sister Creep. «Non credo.» «Oh.» Artie annuì, la guardò, tornò a fissare i colori pulsanti. «Anche lei... dovrebbe andare a casa.»
Sister Creep sorrise torvamente. «Non ho un posto dove andare.» «Perché non viene con me, allora?» Lei rise. «Venire con lei? Signore, non ha notato che gli autobus e i taxi sono leggermente in ritardo, oggi?» «Ho scarpe ai piedi. E lei pure. Le mie gambe funzionano ancora, e le sue pure.» Strappò lo sguardo dal cerchio pieno di luci infuocate e scrutò la distruzione che lo circondava, come se la vedesse con chiarezza solo allora. «Buon Dio» disse. «Buon Dio, perché?» «Non credo che Dio abbia molto a che fare con questo» disse Sister Creep. «Ricordo... pregavo per l'assunzione in cielo, pregavo per il giorno del giudizio... ma non ho mai pregato per una cosa simile. Mai!» Artie annuì in direzione del cerchio di vetro. «Dovrebbe aggrapparsi a quello, signora. L'ha trovato lei, quindi penso che sia suo. Potrebbe valere qualcosa, un giorno o l'altro.» Scosse la testa, colto da stupore reverenziale. «Non è ciarpame, signora. Non so cosa sia, ma di sicuro non è ciarpame.» All'improvviso si alzò, si strinse nella pelliccia. «Be'... le auguro di passarsela bene, signora.» Rivolse al cerchio di vetro un'ultima occhiata carica di desiderio, si girò e cominciò ad allontanarsi. «Ehi!» Anche Sister Creep si alzò. «Dove credi di andare?» «Gliel'ho detto» replicò lui, senza girarsi. «Devo andare a casa.» «Sei pazzo? Detroit non è dietro l'angolo!» Artie non si fermò. È pazzo, pensò Sister Creep; più pazzo di me! Mise il cerchio di vetro nella sua nuova borsa di Gucci; quando staccò la mano, la luce pulsante si spense e i colori svanirono all'istante, come se l'oggetto se ne tornasse a dormire. Sister Creep andò dietro Artie. «Ehi! Aspetta! Cosa farai, senza cibo e senz'acqua?» «Li troverò, credo, quando ne avrò bisogno. Se non li trovo, ne faccio a meno. Ho scelta, signora?» «No» convenne lei. Artie si fermò, si girò a guardarla. «Giusto. Diavolo, non so se ci arriverò. Non se neppure se uscirò da questo maledetto deposito di rottami! Ma questa non è casa mia. Se uno deve morire, dovrebbe tornare a casa da qualcuno che ama, non crede?» Scrollò le spalle. «Forse troverò altre persone. Forse troverò un'auto. Se vuole restare qui, sono affari suoi. Ma Artie Wisco ha scarpe ai piedi, e Artie Wisco cammina.» Salutò con il braccio e si avviò di nuovo. La pazzia gli è passata, pensò lei. Iniziò a cadere una pioggia gelida, fatta di gocce nere e untuose. Sister
Creep aprì di nuovo la borsa e sfiorò con un dito l'informe cerchio di vetro, per vedere che cosa sarebbe accaduto. Un solo zaffiro s'accese di vita. Le ricordò la luce girevole azzurra che le lampeggiava sul viso. F un altro ricordo, vicino, vicinissimo... che, prima di lasciarsi afferrare, scivolò di nuovo via. Una cosa che non era ancora pronta a ricordare. Tolse il dito. Lo zaffiro si oscurò. Un passo, si disse. Un passo, e il passo seguente .ti porta dove volevi andare. Ma se non sai dove volevi andare? «Ehi!» gridò ad Artie. «Almeno trova un ombrello. E una borsa come la mia, per metterci il cibo e il resto.» Cristo, pensò. Questo qui non resisterà nemmeno mille metri. Doveva andare con lui, se non altro per impedirgli di lasciarci le penne. «Aspettami!» gridò. E poi percorse i pochi metri che la separavano dal geyser della tubatura centrale rotta e si fermò sotto il getto d'aqua, lasciando che la pulisse dalla polvere, dalle ceneri, dal sangue. Spalancò la bocca e bevve finché non si sentì lo stomaco gonfio. Ora la fame prese il posto della sete. Forse avrebbe trovato qualcosa da mangiare, forse no. Ma almeno aveva calmato la sete. Un passo, pensò. Un passo alla volta. Artie l'aspettava. L'istinto spinse Sister Creep a raccogliere alcuni cocci di vetro incastonati di pietre preziose; li avvolse in un fazzoletto azzurro a brandelli e li mise nella borsa. Frugò tra i detriti, il paradiso di una accattona, e trovò una graziosa scatola di giada; ma quando sollevò il coperchio, la scatola suonò una musichetta e quel motivo dolce, in mezzo a tanta desolazione, le mise tristezza. Restituì la scatola alle macerie di cemento. Poi cominciò a camminare verso Artie Wisco, sotto la pioggia gelida, e si lasciò alle spalle le rovine del suo posto magico. 17 «C'è un geomio nel buco!» delirò PawPaw Briggs. «Signore Iddio, che capitombolo!» Josh Hutchins non sapeva che ore fossero, né da quanto tempo stessero là sotto; aveva dormito parecchio, sognato cose orribili, Rose e i ragazzi che correvano davanti a un tornado di fuoco. Si stupì di respirare ancora: l'aria era viziata, ma sembrava respirabile. Presto avrebbe chiuso gli occhi e non si sarebbe più svegliato. Se restava immobile, riusciva a sopportare il
dolore delle ustioni. Ascoltò i borbottii del vecchio. Morire per mancanza d'aria, pensò, forse non sarebbe stato poi tanto brutto, un po' come avere il singhiozzo prima di andare a dormire, e in realtà non ci si accorgeva che i polmoni stentavano a trovare ossigeno. Gli dispiaceva di più per la bambina. Era così giovane, pensò. Così giovane. Non aveva nemmeno avuto la possibilità di crescere. Bene, si disse, adesso torno a dormire. Forse sarà l'ultima volta. Pensò alla gente nell'arena di wrestling a Concordia e si domandò quanti di loro, in quello stesso momento, fossero già morti o moribondi. Povero Johnny Lee Richwine! Un giorno si rompe la gamba, il giorno dopo gli succede questo! Merda. Non c'è giustizia... non c'è proprio giustizia... Si sentì tirare la camicia. Il movimento mandò piccole fitte di dolore a percorrergli i nervi. «Signore?» disse Swan. La bambina l'aveva udito respirare ed era strisciata nel buio accanto a lui. «Mi senti, signore?» Per buona misura lo tirò di nuovo per la camicia. «Sì» rispose Josh. «Ti sento. Cosa c'è?» «Mamma sta male. Puoi aiutarla?» Josh si tirò a sedere. «Che cos'ha?» «Respira in modo strano. Per favore, aiutala.» La bambina aveva il pianto nella voce, ma non cedeva alle lacrime. Aveva carattere, pensò Josh. «Va bene. Prendimi per mano e guidami da lei.» Tese la mano, dopo qualche secondo, la bambina la trovò nel buio e strinse nella sua tre dita di Josh. Carponi, Swan lo guidò dall'altra parte dello scantinato, dove la madre giaceva nel terriccio. Mentre dormiva rannicchiata accanto a lei, Swan era stata svegliata da un suono simile al raspare di cardini arrugginiti. Darleen scottava, era tutta sudata, eppure tremava. «Mamma?» mormorò Swan. «Mamma, ho chiamato il gigante ad aiutarti.» «Ho solo bisogno di riposare, tesoro» disse la donna, con voce assonnata. «Sto bene. Non preoccuparti per me.» «È ferita?» domandò Josh. «Merda, che domanda! Ho male dappertutto. Cristo, chissà cosa m'ha colpito. Poco fa mi sentivo bene... come se mi fossi scottata al sole, nient'altro. Però, merda, già altre volte mi sono scottata anche peggio!» Deglutì rumorosamente. «Mi farei una bella birra adesso.» «Può darsi che ci sia qualcosa da bere.» Josh si mise a cercare, disseppellì altre lattine ammaccate. Senza luce, però, non sapeva che cosa
contenessero. Anche lui aveva sete e fame. E la bambina era certo nelle stesse condizioni. Pure PawPaw avrebbe gradito un po' d'acqua. Trovò una lattina che perdeva, assaggiò il liquido. Pesche sciroppate. Una scatola di pesche sciroppate. «Prenda» disse. Accostò la lattina alla bocca della donna per permetterle di bere. Darleen bevve con avidità, poi scostò debolmente la lattina. «Cosa vuol fare, avvelenarmi? Ho detto che mi ci va una birra!» «Mi scusi, è il meglio che ho trovato, per il momento.» Diede la lattina a Swan e le disse di bere. «Quando vengono a tirarci fuori da questo buco di merda?» domandò Darleen. «Non so. Forse...» Esitò. «Forse presto.» «Cristo! Mi sento come... come se mi arrostissero da una parte e mi congelassero dall'altra. È cominciato all'improvviso.» «Si riprenderà presto» disse Josh. Una frase assurda, ma non sapeva che cosa dire. Sentiva accanto a sé la bambina, silenziosa e attenta. La piccola ha capito, pensò. «Cerchi solo di riposare. Riprenderà le forze.» «Vedi, Swan? T'ho detto che stavo bene.» Josh non poteva fare altro. Prese la scatola di pesche e strisciò accanto al vecchio, che delirava. «Che capitombolo!» borbottò PawPaw. «Oh, Dio mio... hai trovato la chiave? Come metto in moto il camion, senza la chiave?» Josh mise il braccio sotto la testa del vecchio, la sollevò, gli accostò alle labbra la scatola. PawPaw tremava e bruciava di febbre. «Beva» disse Josh; e il vecchio ubbidì come un neonato davanti al biberon. «Signore? Usciremo di qui?» Josh non si era accorto che la bambina era accanto a lui. Swan conservava la calma e parlava in un sussurro per non farsi udire dalla madre. «Certo» rispose Josh. Là bambina rimase in silenzio; nuovamente Josh ebbe l'impressione che anche nel buio gli avesse letto in faccia la bugia. «Non so» si corresse. «Può darsi. Può darsi di no. Dipende.» «Dipende da che cosa?» Non vuoi mollarmi, eh? «Dipende da quel che è rimasto fuori. Hai capito che cos'è successo?» «Qualcosa è saltato in aria» rispose lei. «Giusto. Ma può darsi che molti altri posti siano saltati in aria. Città intere. Potrebbe esserci...» Esitò. Continua. Tanto vale dirlo una volta per tutte. «Potrebbero esserci milioni di morti, o di persone imprigionate come
noi. Allora non resterebbe nessuno per tirarci fuori.» La bambina tacque per qualche secondo. Poi replicò: «Non è quel che volevo sapere. Avevo domandato se usciremo di qui.» Voleva sapere, capì Josh, se avrebbero tentato d'uscire, anziché aspettare che qualcuno venisse ad aiutarli. «Be'» rispose «se avessimo a portata di mano un bulldozer, ti direi di sì. Ma non credo che ci muoveremo di qui, per il momento.» «Mamma sta male davvero» disse Swan; e stavolta la voce s'incrinò. «Ho paura.» «Anch'io» ammise Josh. La bambina mandò un unico singhiozzo, poi si fermò, come se si fosse ripresa, grazie a un'incredibile forza di volontà. Josh allungò la mano, trovò il braccio di Swan. Sentì le vesciche scoppiare. Trasalì, tolse subito la mano. «E tu come stai?» domandò. «Hai male?» «Mi fa male la pelle. Come il formicolio. E mi fa male lo stomaco. Ho rimesso, un po' di tempo fa, ma l'ho fatto nell'angolo.» «Già, anch'io ho una specie di nausea.» Sentiva anche un bisogno urgente di orinare; avrebbe dovuto mettere insieme un impianto igienico di fortuna. Avevano una buona quantità di cibo in scatola e di succhi di frutta; quasi certamente c'era dell'altra roba sepolta nel terriccio. Basta così, si disse, perché si era concesso un guizzo di speranza. L'aria finirà presto! Non possiamo sopravvivere qui sotto. Ma capì pure che si trovavano nell'unico posto che avesse potuto ripararli dall'esplosione. Sotto tutto quel terriccio, forse le radiazioni non sarebbero filtrate. Josh era stanco, aveva male alle ossa, ma non provava più l'impulso di distendersi ad aspettare la morte. Se l'avesse fatto, avrebbe segnato anche la sorte della bambina. Ma se avesse respinto la stanchezza e organizzato il recupero delle scatole di cibo, forse sarebbe riuscito a mantenere tutti in vita per... per quanto? Ancora un giorno? Tre giorni? Una settimana? «Quanti anni hai?» domandò alla bambina. «Nove» rispose Swan. «Nove» ripeté lui, piano, e scosse la testa. Rabbia e compassione gli agitarono l'anima. Una bambina di nove anni avrebbe dovuto giocare nel sole d'estate. Una bambina di nove anni non avrebbe dovuto trovarsi in uno scantinato buio, con un piede nella fossa. Non era giusto! Maledizione, non era giusto! «Tu come ti chiami?» Gli occorse un minuto, prima di trovare la voce. «Josh. E tu sei Swan, il
Cigno, no?» «Sue Wanda. Però mamma mi chiama Swan. Come hai fatto a diventare gigante?» Josh aveva gli occhi pieni di lacrime, ma riuscì a sorridere lo stesso. «Sarà stato il pane di granturco di mia mamma, che mangiavo quando avevo più o meno la tua età.» «Il pane di granturco ti ha fatto diventare gigante?» «Be', sono sempre stato grande e grosso. Giocavo a football... prima all'Auburn University, poi con i New Orleans Saints.» «Giochi ancora?» «No. Sono... ero un wrestler. Wrestling professionistico. Io ero il cattivo.» «Oh.» Swan meditò su quelle parole. A uno dei suoi tanti zii, zio Chuck, piaceva andare agli incontri di wrestling a Wichita e anche guardarli alla tivù. «E a te piace? Fare il cattivo, voglio dire.» «In realtà è una specie di gioco. Facevo solo finta d'essere cattivo. E non so se mi piaceva. Ho cominciato a farlo...» «C'è un geomio nel buco!» disse PawPaw. «Oddio, guarda come se ne scappa!» «Perché continua a parlare di un geomio?» chiese Swan. «Sta male. Non sa cosa dice.» PawPaw borbottò, vaneggiò di ciabatte che non trovava più e della necessità di pioggia sul raccolto, poi scivolò di nuovo nel silenzio. Il corpo del vecchio irradiava calore come un forno spalancato. Josh capì che non sarebbe durato molto. Dio solo sapeva che cosa gli era successo dentro il cranio, quando aveva guardato l'esplosione. «Mamma ha detto che andavamo a Blakeman» disse Swan, sforzandosi di non pensare al vecchio: sapeva che era moribondo. «Ha detto che andavamo a casa. Tu dove andavi?» «A Garden City. Dovevo sostenere un incontro.» «È lì casa tua?» «No, casa mia è giù nell'Alabama... molto, molto lontano da qui.» «Mamma diceva che andavamo a trovare mio nonno. Vive a Blakeman. La tua famiglia vive nell'Alabama?» Josh pensò a Rose e ai due figli. Ma ormai facevano parte della vita di un altro... se erano ancora vivi. «Non ho famiglia» rispose. «Non hai nessuno che ti vuole bene?» «No. Non credo.» Udì il gemito di Darleen e aggiunse: «Farai meglio a badare alla mamma, eh?»
«Sissignore.» Swan cominciò a strisciare via, poi girò la testa nel buio, dalla parte del gigante. «Sapevo che sarebbe successa una cosa terribile» disse. «L'ho saputo la notte che abbiamo lasciato la roulotte di zio Tommy. Ho cercato di dirlo a mamma, ma lei non ha capito.» «Come lo sapevi?» «Me l'hanno detto le lucciole. L'ho visto nella loro luce.» «Sue Wanda?» chiamò debolmente Darleen. «Swan? Dove sei?» «Qui, mamma.» Swan strisciò accanto alla donna. Gliel'hanno detto le lucciole, pensò Josh. Giusto. Almeno la bambina ha una fantasia vivida. Bene: a volte la fantasia è un buon rifugio, quando la vita si fa dura. Ma all'improvviso ricordò lo sciame di cavallette che aveva attraversato la sua auto. «Volavano via dai campi a migliaia di migliaia, negli ultimi due o tre giorni» aveva detto PawPaw. «Non è normale.» Chissà se le cavallette sapevano che in quei campi stava per accadere qualcosa. E se avessero intuito il disastro, fiutandolo nel vento o nella terra stessa? Lasciò perdere quei pensieri e si dedicò a faccende più importanti. Doveva trovare un angolo dove pisciare, prima che gli scoppiasse la vescica. Non gli era mai capitato di pisciare accoccolato. Ma se l'aria non mancava, e se resistevano per un poco, bisognava fare qualcosa per i rifiuti. Non gli piaceva l'idea di strisciare sopra i suoi, e tanto meno su quelli degli altri. Il terremoto aveva squassato il pavimento e frantumato lo strato di cemento; ricordava d'avere toccato una zappa da giardino, in mezzo ai detriti: poteva servirgli per scavare una specie di latrina. E doveva frugare lo scantinato da un capo all'altro, anche a quattro zampe, per raccogliere tutte le scatole e qualsiasi cosa trovasse. Il cibo non mancava, era chiaro; e le scatole contenevano liquidi sufficienti a tenerli in vita per un poco. Ma, più di tutto, voleva la luce: solo ora capiva quanto gli sarebbe mancata l'elettricità. Strisciò in un angolo lontano per svuotarsi. Ne passerai, di tempo, prima di fare di nuovo il bagno, si disse; e non ti serviranno più nemmeno gli occhiali da sole. Sussultò. L'urina bruciava come acido di batteria. Ma sono vivo, pensò. Certo, non sarà rimasto molto per cui vivere. Ma sono vivo. Forse domani sarò morto, ma oggi sono vivo e mi piscio addosso. Per la prima volta dall'esplosione, si concesse di sognare che in qualche
modo — chissà come — sarebbe vissuto per vedere ancora il mondo esterno. 18 Il buio venne all'improvviso. Nell'aria di luglio c'era il freddo di dicembre; una pioggia nera e gelida continuava a cadere sulle rovine di Manhattan. Sister Creep e Artie Wisco, fermi sulla sommità di una cresta, guardavano verso occidente. Gli incendi ardevano ancora, al di là dell'Hudson, nelle raffinerie di Hoboken e di Jersey City: ma, a parte le fiamme arancione, l'ovest era buio. Le gocce di pioggia tamburellavano sull'ombrello dai colori vivaci che Artie aveva trovato fra le macerie d'un negozio d'articoli sportivi. Il negozio aveva offerto anche altri tesori... uno zaino DayGlo di naylon arancione, ora sulle spalle di Artie, e un nuovo paio di scarpe da ginnastica, ora ai piedi di Sister Creep. Adesso la borsa di Gucci conteneva una forma bruciacchiata di pane di segale, due scatolette di acciughe munite di chiavetta per l'apertura, una confezione di prosciutto affettato che si era già cotto nella plastica, una bottiglia miracolosamente intatta di ginger ale Canada Dry, tutte cose che avevano resistito alla distruzione di una rosticceria. Erano occorse alcune ore per percorrere il tratto fra la parte alta della Quinta Avenue e la loro prima destinazione, il Lincoln Tunnel. Ma il tunnel era crollato e il fiume si era alzato fino ai cancelli di pedaggio, in un'ondata di auto schiacciate, lastre di cemento, cadaveri. Senza una parola, avevano girato le spalle al tunnel. Sister Creep aveva guidato Artie verso sud, in direzione dell'Holland Tunnel, un'altra via sotto il fiume. Il buio era sceso prima che vi arrivassero; adesso dovevano aspettare il mattino, per scoprire se anche l'Holland era crollato. L'ultimo cartello stradale che Sister Creep aveva visto era quello della Ventiduesima Ovest, ma giaceva su un fianco fra la cenere e forse era stato scagliato fin lì, dalla posizione originaria della via. «Be'» disse piano Artie, lo sguardo puntato al di là del fiume. «Non sembra la casa di qualcuno, vero?» «No.» Sister Creep rabbrividì e si strinse nella pelliccia di visone. «Fa sempre più freddo. Dobbiamo trovare un riparo.» Nel buio guardò le sagome indistinte di alcuni edifici parzialmente in piedi. Ognuno di essi poteva crollare loro sulla testa, ma a Sister Creep non piacque il rapido abbassarsi della temperatura. «Andiamo» disse. Si avviò verso un edificio.
Artie la seguì senza protestare. Durante il percorso fin lì, avevano trovato solo quattro superstiti: tre erano gravemente feriti, prossimi alla morte; il quarto, un uomo orrendamente ustionato, in completo a righine, si era messo a ululare come un cane, quando si erano avvicinati, ed era corso a rintanarsi in un crepaccio. Sister Creep e Artie avevano proseguito, calpestando tanti di quei cadaveri che l'orrore della morte aveva perso il suo impatto; adesso rimanevano sconvolti solo quando udivano un lamento fra le macerie oppure, come era accaduto in un caso, una risata e un grido in lontananza. Erano andati in direzione della voce, ma non avevano visto esseri viventi. La risata folle sconvolse Sister Creep: le ricordava la risata udita dentro il cinema, quella dell'uomo con la mano ardente. «Ci sono altri, là fuori, ancora vivi» aveva detto quell'uomo. «In attesa di morire. Non dovranno aspettare molto. E tu neppure.» «Staremo a vedere, stronzo» sbottò Sister Creep. «Cosa?» disse Artie. «Oh. Niente. Così... pensavo.» Pensavo, si rese conto. Pensare non era cosa che facesse spesso. Gli ultimi anni erano un ricordo confuso; prima ancora, c'era una tenebra interrotta solo dalla luce girevole azzurra e dal demone nell'impermeabile giallo. Il mio vero nome non è Sister Creep, pensò all'improvviso. Il mio vero nome è... Ma non sapeva quale. E non sapeva chi era, né da dove veniva. Come sono arrivata qui?, si domandò; ma non seppe che cosa rispondersi. Entrarono nei resti di un edificio di pietra grigia, passando da una breccia nella parete, dopo avere scalato un cumulo di macerie. L'interno era nero come la pece, l'aria era umida e piena di fumo, ma almeno non erano esposti al vento. Avanzarono a tentoni sul pavimento inclinato, fino a trovare l'angolo. Una volta sistemati, Sister Creep tolse dalla borsa la pagnotta e la bottiglia di ginger ale. Con le dita sfiorò il cerchio di vetro, avvolto in un pezzo bruciacchiato di camicia a righe tolta a un manichino. «Tieni.» Staccò un pezzo di pane e lo porse ad Artie, poi ne prese un pezzo per sé. Aveva solo sapore di bruciato, ma era meglio di niente. Svitò il tappo della bottiglia di ginger ale; il liquido gassato formò uno schizzo di schiuma che si riversò da ogni parte. Lei si portò subito la bottiglia alla bocca e bevve alcune sorsate, prima di passarla ad Artie. «Odio il ginger ale» disse Artie, dopo. «Ma questo è la cosa migliore che abbia bevuto in vita mia.» «Non berlo tutto.» Decise di non aprire la scatola di acciughe, perché e-
rano salate e avrebbero solo aumentato la sete. Le fette di prosciutto erano troppo preziose per mangiarle subito. Diede ad Artie un altro pezzetto di pane, ne prese uno per sé e mise via la pagnotta. «Sai cosa ho mangiato a cena, la sera prima che accadesse?» disse Artie. «Una bistecca. Una grossa bistecca con l'osso, in un locale della Cinquantesima Est. Poi con altri amici ho fatto il giro dei bar. Che sarata, credimi. Ci siamo divertiti da pazzi.» «Buon per te.» «Già. E tu cosa facevi, quella sera?» «Niente di speciale» rispose lei. «Giravo.» Per un po' Artie continuò a mangiare in silenzio. Poi disse: «Telefonai a mia moglie, prima di uscire dall'albergo. Le raccontai una balla; le dissi che uscivo a cena, ma che sarei andato a letto presto. Mi disse di fare attenzione. E che mi amava. Le risposi che anch'io l'amavo e che sarei tornato in un paio di giorni». Rimase in silenzio; e quando sospirò, sembrò che il fiato gli rimanesse impigliato in gola. «Gesù» mormorò ancora. «Sono felice d'averle telefonato. Sono felice d'avere udito la sua voce, prima che succedesse. Ehi, signora... e se anche Detroit se l'è beccata?» «Beccata? Che significa, se l'è beccata?» «La bomba atomica» spiegò lui. «Cosa vuoi che abbia causato una simile rovina? Una bomba atomica! Forse più di una. Probabilmente le bombe sono cadute in tutto il paese. Hanno colpito tutte le città, e anche Detroit.» Il tono di voce rasentò l'isteria. Artie tacque, finché non riuscì di nuovo a dominarsi. Poi aggiunse: «I maledetti russi ci hanno bombardato, signora. Non leggi i giornali?» «No. Non li leggo.» «Cosa facevi? Vivevi su Marte? Chiunque leggeva i giornali e guardava la tivù sapeva che sarebbe successo. I russi ci hanno bombardati... e penso che anche noi abbiamo bombardato loro.» Una bomba atomica?, pensò Sister Creep. Quasi non ricordava che cosa fosse. La guerra nucleare era un problema di cui si era preoccupata in un'altra vita. «Spero... se hanno beccato Detroit... che lei sia morta subito. Voglio dire, è una speranza giusta, vero? Che sia morta in fretta, senza soffrire.» «Sì. Penso che sia giusta.» «È giusto... è giusto che le abbia raccontato una bugia? Era una bugia pietosa, non volevo che stesse in pensiero per me. Lei si preoccupa che beva troppo, e che dopo faccia brutte figure. Non reggo bene l'alcol. È giu-
sto che le abbia detto una bugia pietosa, quella sera?» La supplicava di assicurargli che era giusto. «Certo» disse Sister Creep. «Un mucchio di gente ha fatto cose peggiori, quella sera. È andata a dormire serena, non...» Un oggetto acuminato le toccò la guancia. «Non muoverti» l'ammonì una voce femminile. «Non respirare neppure.» La voce tremava; chiunque fosse, era spaventata a morte. «Chi c'è?» disse Artie, con un sussulto di sorpresa. «Ehi, signora! Tutto bene?» «Sto bene» rispose Sister Creep. Si portò la mano alla guancia, sentì un pezzo di vetro frastagliato, tagliente come un coltello. «Ho detto di non muoverti!» Il vetro la punzecchiò. «Quanti sono con te?» «Solo uno.» «Artie Wisco. Mi chiamo Artie Wisco. E lei chi è?» Una lunga pausa. Poi la donna disse: «Avete da mangiare?» «Sì.» «Acqua.» Una voce maschile, questa volta, proveniente un po' più da sinistra. «Avete acqua?» «Acqua, no. Ginger ale.» «Guardiamo che faccia hanno, Beth» disse l'uomo. Scaturì una fiammella d'accendino, così luminosa nel buio che per un secondo Sister Creep chiuse gli occhi per difenderli dal bagliore. La donna accostò la fiamma al viso di Sister Creep, poi a quello di Artie. «Mi sembrano a posto» disse all'uomo, che si spostò nel cerchio di luce. Sister Creep distinse i tratti della donna accovacciata accanto a lei. Aveva il viso gonfio e un taglio alla radice del naso, ma sembrava giovane, forse sui venticinque; i resti di riccioli castano chiaro le penzolavano dal cuoio capelluto coperto di vesciche. Le sopracciglia erano bruciate; gli occhi azzurro scuro, gonfi e iniettati di sangue. La ragazza era magra, indossava un vestito a righe blu, macchiato di sangue. Le braccia lunghe e snelle erano coperte di vesciche. Attorno alle spalle portava un pezzo di stoffa che pareva strappato da una tenda color oro. L'uomo indossava gli stracci d'una divisa da poliziotto. Era più anziano, forse sulla trentina. Sul lato destro della testa aveva ancora gran parte dei capelli scuri tagliati a spazzola; sul sinistro c'era solo una bruciatura. Era alto e robusto; aveva il braccio sinistro fasciato e sostenuto da una benda fatta della stessa tela grezza color oro.
«Dio mio» disse Artie. «Signora, abbiamo trovato un poliziotto!» «Voi due da dove venite?» domandò Beth a Sister Creep. «Da là fuori. Da dove, se no?» «Cosa c'è nella borsa?» La ragazza la indicò con la testa. «Vuoi saperlo o vuoi derubarmi?» La ragazza esitò, lanciò un'occhiata al poliziotto, tornò a guardare Sister Creep e abbassò la scheggia di vetro. Se l'infilò in una fascia intorno alla cintola. «Voglio solo saperlo.» «Pane bruciato, due scatolette d'acciughe e qualche fetta di prosciutto.» Sister Creep quasi vide l'acquolina in bocca alla ragazza. Tirò fuori il pane. «Mangiate un boccone e che buon pro vi faccia.» Beth staccò un pezzo e passò la pagnotta sempre più piccola al poliziotto, che la imitò e si cacciò in bocca il pane come se fosse manna caduta dal cielo. «Per favore» disse Beth, allungando la mano verso la bottiglia di ginger ale. Sister Creep gliela offrì; quando Beth e il poliziotto ebbero bevuto, forse restavano ancora tre sorsate. «Tutta l'acqua è contaminata» disse Beth. «Uno di noi si è dissetato a una pozzanghera, ieri. La notte ha cominciato a vomitare sangue. Ha impiegato quasi sei ore a morire. Ho un orologio che funziona ancora, vedi?» Con orgoglio mostrò a Sister Creep un Timex; il vecchio orologio mancava del vetro, ma ticchettava. Segnava le otto e ventidue. Uno di noi, aveva detto la ragazza. Sister Creep domandò: «Ce ne sono altri, con voi?» «Due. Be', a dire il vero, una. La sudamericana. Ieri sera abbiamo perduto il signor Kaplan... ha bevuto l'acqua. Anche il ragazzo è morto ieri. E la signora Ivers è morta nel sonno. Siamo rimasti in quattro.» «Tre» disse il poliziotto. «Sì, giusto. Tre. La sudamericana è giù nello scantinato. Non riusciamo a farla muovere, né lui né io parliamo spagnolo. E voi?» «No, purtroppo.» «Mi chiamo Beth Phelps. Lui è Jack...» Non riuscì a ricordare il cognome, scosse la testa. «Jack Tomachek» disse il poliziotto. Artie si presentò di nuovo, ma Sister Creep disse: «Perché non state quassù, anziché nello scantinato?» «Là sotto fa più caldo» rispose Jack. «Ed è anche più sicuro.» «Sicuro? Come sarebbe a dire? Se l'edificio si muove di nuovo, vi cade sulla testa.»
«Eravamo quassù, ieri» spiegò Beth. «Il ragazzo... aveva una quindicina d'anni, penso... era il più robusto di noi. Era etiope, o di quelle parti, sapeva solo qualche parola d'inglese. È uscito a cercare cibo; ha portato delle scatolette di manzo salato, di cibo per gatti, una bottiglia di vino. Ma loro... l'hanno seguito fin qui. Ci hanno trovati.» «Loro?» disse Artie. «Loro chi?» «Tre di loro. Così ustionati che non si sapeva se erano uomini o donne. L'hanno seguito fin qui; impugnavano martelli e bottiglie rotte. Uno aveva un'ascia. Volevano il nostro cibo. Il ragazzo li ha affrontati e quello con l'ascia...» Non riuscì a continuare, lo sguardo perso sulla fiammella arancione dell'accendino. «Erano pazzi» riprese. «Erano... non erano umani. Uno mi ha tagliato la faccia. Credo d'essere stata fortunata. Siamo scappati e loro si sono presi il nostro cibo. Non so dove siano andati. Ma ricordo che... che puzzavano come... come cheeseburger bruciati. Non è buffo? M'hanno fatto venire in mente proprio questo: cheeseburger troppo cotti. Allora ci siamo nascosti nello scantinato. Chissà quali altre... cose girano là fuori.» Non hai visto ancora niente, pensò Sister Creep. «Ho cercato d'affrontarli» disse Jack. «Ma non sono più in condizioni di fare a pugni, immagino.» Si girò dall'altra parte: Artie e Sister Creep sobbalzarono. La schiena di Jack Tomachek, dalle spalle alla cintola, era una massa in suppurazione di tessuti ustionati. Il poliziotto tornò a girarsi. «La più brutta scottatura solare che questo vecchio polacco si sia mai preso.» Sorrise amaramente. «Vi abbiamo uditi, quando siete entrati» disse Beth. «Sulle prime, pensavamo che fossero tornati. Siamo saliti a origliare, vi abbiamo sentiti mangiare. Sentite, la sudamericana non ha mangiato niente neanche lei. Posso portarle un po' di pane?» «Accompagnaci nello scantinato.» Sister Creep si alzò. «Aprirò il prosciutto.» Beth e Jack li guidarono in un corridoio. L'acqua colava dal soffitto e formava una pozza per terra. In fondo al corridoio, una rampa di scale senza ringhiera scendeva nel buio. I gradini vibrarono pericolosamente sotto i piedi. Lo scantinato sembrava davvero più caldo, forse solo di cinque gradi, ma il fiato si condensava ugualmente. Le pareti di pietra e il soffitto erano intatti, a parte alcuni buchi che lasciavano entrare la pioggia. Lo stabile è vecchio, pensò Sister Creep; non li costruiscono più così robusti. A inter-
valli regolari, colonne di pietra sostenevano il soffitto; alcune erano piene di crepe, ma nessuna aveva ceduto. Per il momento, si disse Sister Creep. «È lì.» Beth andò verso una figura rannicchiata ai piedi d'una colonna. Un rivolo d'acqua nera colava proprio sulla testa della donna, che sedeva in una pozzanghera d'acqua contaminata e stringeva fra le braccia qualcosa. L'accendino si spense. «Scusate» disse Beth. «Diventa troppo caldo e poi non voglio consumare tutto il gas. Era del signor Kaplan.» «Cosa ne avete fatto, dei cadaveri?» «Li abbiamo lasciati in fondo a un corridoio. Qui sotto è pieno di corridoi. Volevo... volevo recitare una preghiera, ma...» «Ma cosa?» «Non ricordo più come si prega» rispose la ragazza. «Pregare... non mi sembra che abbia senso, ormai.» Sister Creep brontolò qualcosa, infilò la mano nella borsa per prendere il prosciutto. Beth si chinò a offrire alla donna la bottiglia di ginger ale. Gocce di pioggia le schizzarono sulla mano. «Ecco» le disse «qui c'è qualcosa da bere. El drink.» La donna emise un gemito cantilenante, ma non rispose. «Non si sposta da lì» disse Beth. «L'acqua la bagna, ma non si sposta di un metro per stare all'adulto. Vuoi da mangiare?» chiese alla donna. «Gnam gnam? Cristo, come puoi vivere a New York senza conoscere neppure una parola d'inglese?» Sister Creep pelò la plastica incollata alle fette di prosciutto. Strappò un pezzo di carne e si piegò sulle ginocchia accanto a Beth Phelps. «Accendi di nuovo. Forse se vede che abbiamo da mangiare riusciamo a tirarla via di qui.» L'accendino illuminò il viso piagato ma ancora grazioso di una ragazza sudamericana forse non ancora ventenne. I lunghi capelli neri erano strinati in punta, c'erano chiazze vuote qua e là, dov'erano bruciati. La ragazza non badò alla luce. Gli occhi grandi e limpidi erano fissi su quel che cullava fra le braccia. «Oh» disse piano Sister Creep. «Oh... no.» Il bambino aveva forse tre anni... una femminuccia, con i capelli neri e lustri della madre. Sister Creep non vedeva il viso della bambina. E non voleva vederlo. Ma la manina arricciata come se volesse stringere la madre e la rigidità del corpicino rivelavano che la bambina era morta da qualche tempo. L'acqua colava da un foro nel soffitto, scorreva come lacrime nere fra i
capelli della ragazza e sul suo viso. La giovane si mise a canterellare piano, a cullare amorevolmente il cadaverino. «È impazzita» disse Beth. «È così da quando la bambina è morta, ieri sera. Se non si toglie dall'acqua, morirà anche lei.» Sister Creep udì Beth vagamente, come da lontano. Tese le mani verso la sudamericana. «Qua» disse, in una voce che le parve quella di un'estranea. «La prendo io. Lasciala a me.» La pioggia le colò sulle mani e sulle braccia, in rivoli color ebano. La nenia della sudamericana divenne più intensa. «Lasciala a me. La prendo io.» La ragazza si mise a cullare con violenza il cadaverino. «Lasciala a me.» Sister Creep udì la propria voce echeggiare follemente e d'un tratto negli occhi ebbe il lampo azzurro di luci girevoli. «La... prendo... io...» La pioggia cadeva, il tuono rombava come la voce di Dio: Tu! Tu, peccatrice! Peccatrice ubriaca, l'hai uccisa tu, e ora dovrai pagare... Sister Creep abbassò lo sguardo. Fra le braccia aveva il cadavere d'una bambina. C'era sangue, nei capelli biondi della bimba; gli occhi erano aperti e pieni di pioggia. La luce azzurra della macchina della polizia girava e l'agente con l'impermeabile giallo, accoccolato sulla strada davanti a lei, disse piano: «Su, la dia a me, adesso.» Poi si girò a dare un'occhiata all'altro agente che disponeva segnali luminosi accanto ai rottami di un'auto rovesciata. «È fuori di testa. Puzza d'alcol, anche. Ti toccherà aiutarmi.» E poi tutt'e due allungavano le mani verso di lei, tutt'e due i demoni in impermeabile giallo cercavano di strapparle la sua bambina. Lei si ritrasse, si ribellò, gridando: «No! Non toccatela! Non ve la lascio!» Ma il tuono ordinò: Lasciala, peccatrice, lasciala! E quando lei urlò e si strinse le mani sulle orecchie per non udire più la voce del giudizio, loro le portarono via la bambina. E dalla mano della bimba cadde una boccia di vetro, uno di quei giocattoli che contengono un minuscolo paesaggio invernale coperto di neve, un finto villaggio del paese delle fate. «Mamma!» aveva esclamato la bambina, piena d'entusiasmo. «Guarda cosa ho vinto alla festa! Sono stata la più brava ad appuntare la coda all'asino!» La bambina aveva agitato la boccia di vetro e per un istante — solo per un istante — lei aveva distolto lo sguardo dalla strada, per mettere a fuoco la vista incerta sulla finta neve che cadeva sopra i tetti d'una terra remota e
perfetta. Vide la boccia di vetro cadere con lentezza orribile, e gridò perché sapeva che sul cemento si sarebbe rotta e allora tutto sarebbe finito, distrutto. La boccia toccò terra davanti a lei; mentre si schiantava in mille frammenti scintillanti, il suo grido si bloccò in un gemito soffocato. «Oh» sussurrò. «Oh... no.» Sister Creep fissò la bimba priva di vita, fra le braccia della ragazza. La mia bambina è morta, ricordò; ero ubriaca, sono andata in macchina a prenderla a una festicciola di compleanno, sono finita fuori strada, in un fosso. Oh, Dio... oh, buon Gesù. Sono una peccatrice. Una malvagia, ubriaca peccatrice. L'ho uccisa io. Ho ucciso la mia bambina. Oh, Dio... oh, Dio, perdonami... Le lacrime le bruciarono gli occhi, le corsero lungo le guance. Nella mente le turbinarono frammenti di ricordi simili a foglie morte nel vento impetuoso: il marito pazzo di rabbia, che imprecava contro di lei e diceva di non volerla più vedere; la sua stessa madre, che la guardava con orrore e compassione e le diceva che non avrebbe mai dovuto mettere al mondo un figlio; il medico della casa di cura, che annuiva e controllava l'ora; i corridoi dell'ospedale, dove donne grottesche, dinoccolate, folli, chiacchieravano, strillavano, s'azzuffavano per un pettine; l'alta recinzione che aveva scavalcato nel cuore della notte, sotto turbini di neve, per fuggire nei boschi. La mia bambina è morta, pensò. Morta e sepolta, molto tempo fa. Le lacrime quasi l'accecarono, ma vide quanto bastava per capire che sua figlia non aveva sofferto come la bimba fra le braccia della ragazza. Sua figlia riposava ora sotto l'ombra d'un albero in cima a una collina; quest'altra sarebbe rimasta per sempre in uno scantinato freddo e umido, in una città di morti. La ragazza sollevò la testa, guardò con occhi tormentati Sister Creep. Batté le palpebre, lentamente allungò la mano, fra le gocce di pioggia, a toccarle la guancia; una lacrima rimase per un secondo in equilibrio sulla punta del dito, prima di cadere. «Lasciala a me» mormorò Sister Creep. «La prendo io.» La donna guardò ancora, con desiderio, il cadaverino; poi le lacrime le sgorgarono e si mescolarono con la pioggia nera che le cadeva sul viso. Baciò la fronte della morta, la cullò ancora un momento... e tese il cadaverino a Sister Creep. Lei lo prese come se accettasse un dono e cominciò a rialzarsi.
Ma l'altra allungò di nuovo la mano, toccò la piaga a forma di crocifisso sul collo di Sister Creep. Disse, con aria stupita: «Bendito. Muy bendito». Sister Creep si alzò. La ragazza lentamente strisciò lontano dall'acqua e giacque per terra, rannicchiata e tremante. Jack Tomachek prese il cadaverino e si allontanò nel buio. «Non so come hai fatto» disse Beth «ma ci sei riuscita.» Si chinò a porgere alla ragazza la bottiglia di ginger ale; lei la prese e bevve fino a vuotarla. «Mio Dio» disse Artie Wisco, in piedi dietro Sister Creep. «Solo adesso mi accorgo che non so neppure come ti chiami.» «Mi chiamo...» Come?, si domandò. Come mi chiamo? Da dove vengo? Dov'è quell'albero che fa ombra alla mia bambina? Non le venne in mente nessuna risposta. «Puoi chiamarmi...» Esitò. Sono un'accattona, pensò. Sono solo un'accattona senza nome e non so dove vado... ma almeno so come sono venuta qui. «Sister» disse. «Chiamami... Sister.» E le venne in mente, come un grido: Non sono più pazza. «Sister» ripeté Artie. «Non sembra neppure un nome, ma va bene lo stesso. Piacere di conoscerti, Sister.» Lei annuì, ancora persa in un turbine di ricordi. Il dolore era sempre dentro di lei e vi sarebbe rimasto; ma l'incidente era accaduto molto tempo prima, a una donna più debole, più indifesa. «Cosa facciamo ora?» disse Beth. «Non possiamo starcene qui e basta.» «No. Non possiamo. Domani Artie e io attraverseremo l'Holland Tunnel, se non è crollato. Andiamo a ovest. Se volete venire con noi, siete benvenuti.» «Lasciare New York? E se... e se non c'è niente, là fuori? Se tutto è morto?» «Non sarà facile» disse Sister, decisa. «Anzi, sarà maledettamente difficile, maledettamente pericoloso. Non so che tempo troveremo... ma facciamo il primo passo, è l'unico modo per andare da qualsiasi parte. Giusto?» «Giusto» confermò Artie. «Hai un buon paio di scarpe, Beth. Queste scarpe ti faranno fare molta strada.» «D'accordo» decise Beth. «D'accordo. Vengo con voi.» Spense di nuovo l'accendino, per risparmiare gas. Ma stavolta il buio non sembrò così intenso come prima.
QUATTRO: terra dei morti La tomba più grande del mondo / Il ventre della bestia / La luce più splendente / L'estate è finita /I troll dei tunnel / Proteggi la bambina / Il sentiero del sogno / Svolta nuova nel gioco 19 L'uomo con strisce insanguinate di camicia intorno al moncherino del polso destro avanzò con prudenza fra le macerie del corridoio. Non voleva cadere, perché un urto rischiava di riaprire la ferita e il moncherino aveva gocciolato sangue per ore, prima di fare la crosta. Si sentiva debole e intontito, ma continuava ad avanzare perché doveva vedere con i suoi stessi occhi. Il cuore gli martellava, il sangue gli ronzava nelle orecchie. Ma era infastidito soprattutto dall'intenso prurito fra il pollice e l'indice della destra che non aveva più: quel prurito fantasma rischiava di farlo impazzire. Accanto a lui c'era il gobbo con un occhio solo; davanti a lui, con la torcia elettrica in pugno, apriva la strada il ragazzo con gli occhiali rotti, che nella sinistra stringeva una mannaia con la lama macchiata del sangue rappreso del colonnello Jimbo Macklin. Roland Croninger si fermò; il raggio della torcia forò la nebbiolina davanti a lui. «Eccolo lì» disse Teddybear. «Eccolo lì. Vede? Gliel'avevo detto, no? Gliel'avevo detto!» Macklin avanzò di qualche passo e tolse a Roland la torcia. Mosse il raggio luminoso sulla muraglia di sassi e di lastre di roccia che ostruiva completamente il corridoio; cercò una fessura, un punto debole, una zona su cui fare leva, qualsiasi cosa. Ma nemmeno un topolino sarebbe riuscito a passare da lì. «Dio ci aiuti» mormorò. «Gliel'avevo detto! Vede? Non gliel'avevo detto?» borbottò ancora Teddybear Warner. La scoperta dello sbarramento gli aveva fatto saltare l'ultimo briciolo di forza di volontà che lo teneva insieme. Al di là della muraglia c'era la sala con le attrezzature e le provviste d'emergenza di Casa Terra. Così erano tagliati fuori da tutto... torce di riserva e batterie di ricambio, carta igienica, razzi di segnalazione, ogni cosa. «Siamo fottuti» ridacchiò scioccamente Teddybear. «Oh, siamo fottuti davvero!»
Il raggio della torcia illuminava la polvere che continuava a cadere dalle crepe frastagliate che rigavano il soffitto del corridoio. Da un momento all'altro poteva verificarsi un nuovo crollo. Qua e là penzolavano cavi e fili elettrici; le travi di rinforzo in ferro, che in teoria avrebbero dovuto permettere a Casa Terra di resistere a un attacco nucleare, erano tranciate di netto. La risatina sciocca di Teddybear si mescolava a singhiozzi. Quando capì appieno la portata del disastro, Macklin s'accorse di non riuscire a sopportare nessuna manifestazione di debolezza umana. Digrignò i denti, con il viso stravolto dalla rabbia, e si girò con l'intenzione di prendere a schiaffi Teddybear, con quella stessa mano che tanto gli prudeva. Ma non aveva più mano destra; mentre tirava indietro il braccio, sentì una fitta lancinante. Sangue fresco prese a gocciolare dalla fasciatura. Macklin si strinse al petto il braccio ferito e serrò gli occhi. Assalito dalla nausea, fu sul punto di vomitare o di perdere i sensi. Disciplina e autocontrollo, pensò. Nervi a posto, soldato! Nervi a posto, maledizione! Quando riapro gli occhi, si disse, la muraglia di roccia non ci sarà più. Andremo dritti al magazzino viveri e saremo a posto. Ti prego, Signore... rimetti tutto a posto. Aprì gli occhi. La muraglia era sempre lì. «Chi ha un po' di plastico?» disse Macklin. La voce echeggiò nel corridoio: una voce folle, la voce di un uomo in fondo al pozzo di fango, circondato da cadaveri. «Moriremo tutti» disse Teddybear, ridacchiando e singhiozzando, una luce di follia nell'unico occhio buono. «Abbiamo la tomba più grande del mondo!» «Colonnello?» La voce del ragazzo. Macklin illuminò il viso di Roland: una maschera impolverata, insanguinata, impassibile. «Abbiamo le mani» disse Roland. «Mani. Certo. Io ho una mano. Tu nei hai due. Teddybear, altre due che non valgono un cazzo. Certo, abbiamo le mani.» «Non le nostre» replicò Roland, calmo. Aveva un'idea, chiara e precisa. «Le loro. Quelli ancora vivi lassù.» «I civili?» Macklin scosse la testa. «Non troveremo nemmeno dieci uomini in grado di lavorare! E guarda il soffitto. Vedi le crepe? Sta per crollare tutto. Chi vuoi che lavori, con questa spada sulla testa?» «Che distanza c'è dalla muraglia al cibo?» «Non so. Forse sei metri. Forse nove.» Roland annuì. «E se diciamo che ci sono tre metri? E se non sapranno
del soffitto? Lavoreranno o no?» Macklin esitò. È solo un ragazzino, si disse. Cosa ne sa, lui? «Noi tre moriremo» continuò Roland «se non arriveremo ai viveri. E non ci arriveremo, se non faremo fare il lavoro ad altri. Forse il soffitto crollerà, forse no. Ma se crolla, meglio non esserci sotto, giusto?» «Capiranno che il soffitto è indebolito. Basterà alzare gli occhi e guardare quelle maledette crepe!» «Nel buio non le vedranno» disse piano Roland. «Lei ha l'unica luce, no?» Un sorriso gli sfiorò le labbra. Macklin batté lentamente le palpebre. Credette di scorgere un movimento sopra la spalla di Roland Croninger. Spostò di qualche grado il raggio della torcia. Accoccolato sui talloni, c'era il Soldato Ombra, con la tuta mimetica e l'elmetto con la reticella verde; sotto il nero e il verde della pittura di guerra, la faccia era color fumo. «Il ragazzo ha ragione, Jimbo» sussurrò il Soldato Ombra. Si drizzò in piedi. «Metti al lavoro i civili. Mettili al lavoro nel buio, spiega che solo tre metri li separano dai viveri. Merda, di' pure due metri. Ci metteranno più impegno. Se aprono un varco, bene. Altrimenti... sono semplici civili. Parassiti. Bestie da riproduzione. Giusto?» «Signorsì» rispose Macklin. «Eh?» Roland vide che il colonnello sembrava fissare un punto proprio sopra la sua spalla destra e usava la stessa voce servile di quando delirava nel pozzo. Si guardò intorno, ma naturalmente non c'era niente da vedere. «Parassiti» disse Macklin. «Bestie da riproduzione. Giusto.» Spostò l'attenzione dal Soldato Ombra al ragazzo. «D'accordo. Andremo su a vedere se ne troviamo tanti da formare una squadra di lavoro. Forse anche alcuni dei miei uomini sono ancora vivi.» Ricordò che il sergente Schorr era fuggito all'impazzata dalla sala comando. «Schorr. Che diavolo gli è successo?» Teddybear scosse la testa. «E il dottor Lang? È ancora vivo?» «Nell'ospedale non c'era» rispose Teddybear, cercando di non guardare la muraglia di roccia. «Non ho controllato il suo alloggio.» «Lo controlleremo, allora. Avremo bisogno di lui e di tutti gli analgesici che riuscirà a ramazzare. E mi serviranno anche altre bende. E ci occorrono bottiglie... bottiglie di plastica, se ne troviamo. Possiamo attingere acqua dalle toilette.» «Signor colonnello?» Roland ottenne subito l'attenzione di Macklin. «Ancora una cosa: l'aria.» «L'aria?»
«Il generatore è fuori uso. L'impianto elettrico è guasto. Come faranno i ventilatori ad aspirare aria nei condotti?» Macklin aveva cominciato a nutrire una speranza, per quanto fievole, di sopravvivere. Quelle parole la distrussero di colpo. Senza ventilatori l'aria non circolava. Avevano a disposizione solo l'aria puzzolente che Casa Terra conteneva in quel momento; e non appena l'anidride carbonica avesse raggiunto il livello adeguato, sarebbero morti. Ma lui non sapeva quanto ci sarebbe voluto. Ore? Giorni? Settimane? Non poteva permettersi di pensare ai problemi futuri: e il problema attuale era quello di trovare acqua potabile, cibo, una squadra di lavoro. «Abbiamo aria in quantità» disse. «Sufficiente per tutti. Prima che cominci a scarseggiare, avremo trovato il modo d'uscire di qui.» Roland voleva credergli, e annuì. Dietro di lui, anche il Soldato Ombra annuì e disse a Macklin: «Bravo ragazzo». Il colonnello controllò il proprio alloggio, poco più avanti nel corridoio. La porta era stata strappata dai cardini, il soffitto era crollato; nel pavimento si era aperto un baratro che aveva inghiottito letto e comodino. Anche il gabinetto era ridotto in macerie, ma la tazza della toilette conteneva ancora qualche decilitro d'acqua. Macklin si dissetò, imitato a turno da Teddybear e da Roland. L'acqua non aveva mai avuto un gusto così buono. Macklin aprì l'armadio e vide che il contenuto era ammucchiato sul fondo. Si mise in ginocchio, tenne la torcia nel cavo del gomito e cominciò a frugare, cercando una cosa che sapeva essere lì. Impiegò un po' di tempo, per trovarla. «Roland» disse poi. «Vieni qui.» Il ragazzo si fermò dietro di lui. «Signore?» Macklin gli diede il piccolo mitra Ingram che una volta era sul ripiano in alto. «Ne sei tu responsabile.» Si riempì di caricatori le tasche del giubbotto di volo. Roland s'infilò nella cintura il manico dell'ascia sacra e tenne l'Ingram con tutt'e due le mani. Non era pesante, ma sembrava... giusto. Sì. Giusto e importante, come un vitale sigillo dell'impero, di cui un Cavaliere del Re dovesse prendersi la responsabilità. «Sai niente di armi da fuoco?» gli domandò Macklin. «Papà mi porta...» Roland si bloccò. No, così non andava bene. Non andava affatto bene. «Andavo a sparare al poligono» rispose. «Ma non ho mai adoperato un'arma come questa.» «T'insegnerò quel che ti serve sapere. Sarai il mio dito del grilletto, quando me ne occorrerà uno.» Illuminò Teddybear, fermo poco lontano ad
ascoltare. «D'ora in poi questo ragazzo sta vicino a me» disse a Teddybear; l'altro annuì, ma non rispose. Macklin non si fidava più di lui: Teddybear era troppo vicino a saltare. Ma il ragazzo no, lui era deciso, astuto; ci voleva un gran bel fegato, a strisciare in quel pozzo per fare quel che aveva fatto lui. Sembrava uno smidollato di quaranta chili, ma se aveva resistito fino a quel momento, non sarebbe più saltato. Roland si passò sulla spalla la cinghia del mitra e la regolò in modo che fosse ben stretta, ma consentisse un rapido utilizzo. Adesso era pronto a seguire il Re in qualsiasi posto. Due facce emersero dalle acque fangose dei ricordi — un uomo e una donna — ma lui le ricacciò sotto. Non voleva più ricordare quei visi. Non gli servivano più, l'avrebbero solo indebolito. Macklin era pronto. «Bene» disse. «Andiamo a vedere cosa troviamo.» E il gobbo con un occhio solo e il ragazzo con gli occhiali rotti Lo seguirono nel buio. 20 «Signora mia» disse Jack Tomachek «se pensi che possiamo attraversare questa roba, sei da ricoverare.» Sister non replicò. Dall'Hudson un vento pungente le soffiava in viso; socchiuse gli occhi per proteggerli dagli aghi di ghiaccio che turbinavano dalle nubi nere estese da orizzonte a orizzonte, simili a un sudario. Malaticci raggi di sole trovavano squarci nelle nubi, si muovevano come proiettori durante un'evasione in un film di quarta serie e si spegnevano, quando gli squarci tornavano a chiudersi. Il fiume era torbido per i cadaveri, l'immondizia galleggiante, gli scafi bruciati di barche e di chiatte, tutta roba che scendeva pigramente a sud verso l'Atlantico. Al di là dell'orrendo fiume, le raffinerie continuavano a bruciare: un fumo denso e nero turbinava in gorghi sopra la spiaggia del Jersey. Dietro Sister c'erano Artie, Beth Phelps e la sudamericana, tutti avviluppati in tende e soprabiti, per tenere lontano il freddo. La sudamericana aveva pianto per gran parte della notte, ma ora aveva gli occhi asciutti: ormai aveva esaurito le lacrime. Alla base della montagnola su cui si trovavano, c'era l'ingresso dell'Holland Tunnel, ostruito da veicoli il cui serbatoio era esploso. Ma il peggio era che le carcasse di queste auto sprofondavano fino alle ruote nell'acqua fangosa dell'Hudson. In qualche punto del tunnel lungo e buio il soffito si era aperto e il fiume vi si riversava... non ancora al punto da farlo crollare come il Lincoln Tunnel, ma abbastanza da
rendere la traversata una faticaccia in una palude di auto bruciate, di cadaveri e Dio solo sapeva di che cos'altro ancora. «Non me la sento di nuotare» disse Jack. «E neppure di affogare. Se il bastardo ci crolla in testa, ciao culo!» «Va bene. Suggerimenti?» «Andiamo a est, al ponte di Brooklyn. Oppure attraversiamo il ponte di Manhattan. Qualsiasi posto, ma non qui.» Sister rifletté un momento. Teneva stretta al fianco la borsa di pelle e sentiva all'interno il contorno del cerchio di vetro. Qualche volta, durante la lunga notte, aveva sognato la creatura con la mano ardente, che si aggirava fra le macerie, cercando lei. Aveva più paura di quel mostro che del tunnel mezzo allagato. «E se i ponti non ci sono più?» «Eh?» «E se quei ponti non esistono più?» ripeté, calma. «Guarda in giro e dimmi se quei ponti filiformi hanno potuto resistere alla forza che ha fatto saltare in aria il World Trade Center e l'Empire State Building.» «Può darsi che abbiano resistito. Per saperlo dobbiamo vedere.» «Un altro giorno perduto. Forse fra un giorno il tunnel sarà allagato del tutto. Non so voi, ma io me ne frego di bagnarmi i piedi.» «Ah-ha.» Jack scosse la testa. «Lì dentro non ci vado, signora! Ed è pazza, se ci va! Senta, perché vuole lasciare Manhattan, alla fin fine? Qui possiamo trovare cibo, possiamo tornare allo scantinato. Non siamo obbligati ad andarcene.» «Tu forse no» concesse Sister. «Ma io sì. Qui non c'è niente.» «Vengo con te» disse Artie. «Non ho paura.» «Chi dice che io ho paura?» replicò Jack. «Non ho paura! Ma non sono pazzo, ecco!» «Beth?» Sister si rivolse alla ragazza. «Tu che ne dici? Vieni con noi o no?» Beth fissò impaurita l'ingresso intasato del tunnel. Alla fine rispose: «Sì. Vengo con voi». Sister toccò il braccio della sudamericana, indicò l'Holland e mosse due dita nel gesto del camminare. L'altra era ancora troppo sconvolta per rispondere. «Dovremo stare vicini l'uno all'altro» disse Sister a Beth e ad Artie. «Non so quanto sarà profonda l'acqua. Direi di tenerci per mano, così nessuno si perderà. D'accordo?» Gli altri due annuirono. Jack sbuffò. «Lei è pazza! Siete tutti fuori di testa!»
Sister, Beth e Artie iniziarono a scendere la montagnola, diretti all'ingresso del tunnel. La sudamericana li seguì. Jack gridò: «Non riuscirà mai ad attraversare qui, signora!» Ma gli altri non si fermarono, né si guardarono indietro; dopo un momento, Jack scese a sua volta e li seguì. Sister si fermò quando l'acqua gelida le arrivava già alle caviglie. «Dammi l'accendino, Beth» disse. Ma non l'accese subito. Prese Beth per mano, Beth strinse la mano di Artie, quest'ultimo tenne la mano della sudamericana. Jack Tomachek completò la catena. «Bene.» Sister si accorse che c'era una traccia di paura, nella sua stessa voce: doveva compiere il passo successivo prima di perdere coraggio. «Andiamo.» Girò intorno alle carcasse dei veicoli nell'Holland Tunnel; piano piano l'acqua le arrivò alle ginocchia. Ratti morti vi ballonzolavano come sugheri. Percorsi meno di tre metri, l'acqua le arrivò alle cosce. Sister accese l'accendino. La fiammella stenta rivelò una fantasmagoria d'incubo di metalli intrecciati: auto, camion e taxi, mutati in sagome semisommerse d'aspetto innaturale. Le pareti del tunnel, nere e bruciacchiate, sembravano inghiottire la luce, anziché rifletterla. Lì sotto si era certo scatenato un inferno, quando i serbatoi dei veicoli erano esplosi. In lontananza, molto più avanti, si udiva un rumore di cascata. Sister continuò a tirare la catena umana. Intorno a lei galleggiavano cose che evitava di guardare. Beth mandò un breve ansito di terrore. «Non fermarti» le disse Sister. «Non guardarti intorno. Tira dritto.» L'acqua le strisciò più su delle cosce. «Ho pestato una cosa!» gridò Beth. «Oddio... ho una cosa sotto il piede!» Sister aumentò la stretta e la guidò avanti. Prima di un'altra decina di passi, l'acqua le era già arrivata alla cintola. Sister girò la testa verso l'ingresso del tunnel, ormai distante una ventina di metri: una chiazza di luce fosca che l'attirava. Ma rivolse l'attenzione a quel che c'era più avanti e subito si sentì mancare il cuore. La fiammella dell'accendino si rifletté su un gigantesco nodo di metallo straziato, che bloccava quasi completamente il tunnel: un cumulo di quelle che erano state vetture, fuse insieme dal calore. Sister trovò uno stretto passaggio per girarvi attorno, scivolò su qualcosa di viscido. Ora dal soffitto cadevano rivoli d'acqua e Sister pensò solo a non bagnare l'accendino. Più avanti c'era sempre il rumore di cascata. «Adesso crolla!» gridò Jack. «Dio mio... ci cade addosso!» «Continua a camminare!» gli gridò Sister. «Non fermarti!»
Dinanzi a loro, a parte il piccolo bagliore della fiamma, c'era l'oscurità totale, insondabile. E se il tunnel è bloccato? pensò Sister, con un brivido di panico. E se non riusciamo ad attraversarlo? Calma, calma. Un passo alla volta. Un piccolo passo. L'acqua le arrivò più su della cintola e continuò a salire. «Ascolta!» esclamò a un tratto Beth. Si fermò di colpo. Artie andò a sbatterle addosso e rischiò di scivolare nell'acqua fetida. Sister non udì niente, a parte il rombo sempre più intenso della cascata. Iniziò a tirare Beth... e poi udì in alto un suono cupo e lamentoso. Siamo nel ventre della bestia, pensò. Inghiottiti vivi, come Giona. Qualcosa cadde nell'acqua davanti a lei. Altri oggetti colpirono rumorosamente le carcasse, con un rumore di magli al lavoro. Pezzi di pietra, capì Sister. Buon Dio... il soffitto sta per crollare! «Crolla tutto!» gridò Jack, quasi soffocando per il terrore. Sister lo sentì sguazzare nell'acqua e capì che i nervi del poliziotto avevano ceduto. Si girò, lo vide dibattersi selvaggiamente per tornare al punto di partenza. Jack scivolò nell'acqua, riemerse singhiozzando. «Non voglio morire!» gridò. «Non voglio morire!» E le sue grida si persero lontano. «Nessuno si muova!» ordinò Sister, prima che anche gli altri si dessero alla fuga. Intorno a loro, le pietre continuavano a cadere. Sister afferrò la mano di Beth con tanta forza da far schioccare le nocche. La catena umana tremò, ma resse. Finalmente le pietre smisero di cadere e anche il suono lamentoso cessò. «State tutti bene? Beth? Artie, la donna sta bene?» «Sì» rispose lui, con voce tesa. «Me la sono fatta addosso, però.» «La merda la so affrontare. Il panico, no. Continuiamo, o torniamo indietro?» Beth aveva lo sguardo spento. È partita, pensò Sister. Forse era meglio così. «Artie? Sei pronto?» disse. Artie riuscì solo a risponderle con un grugnito. Procedettero a fatica nell'acqua che arrivava alla spalla. Ancora non si vedeva una luce, un segno dell'uscita. Sister sobbalzò, quando un pezzo di pietra della grossezza di un tombino colpì la carcassa di un camion, a tre metri da lei. Il rumore di cascata era più vicino, sopra di loro il tunnel gemeva per lo sforzo di reggere il peso dell'Hudson. Alle loro spalle, una voce fioca gridava: «Tornate indietro! Vi prego, tornate indietro!» Tra sé, Sister augurò buona fortuna a Jack Tomachek; poi il rombo della cascata sommerse la voce. La borsa era piena d'acqua, i vestiti inzuppati pesavano, ma Sister conti-
nuò a tenere alto l'accendino. Era diventato troppo caldo, ma lei non osava spegnerlo. Il fiato si condensava, l'acqua le intorpidiva le gambe, le irrigidiva le ginocchia. Ancora un passo, si disse, risoluta. Poi ancora uno. Continua a camminare! Oltrepassarono un altro mucchio surrealistico di veicoli fusi insieme; la sudamericana mandò un grido, quando sott'acqua uno spuntone metallico le aprì uno squarcio nella gamba, ma strinse i denti e non esitò. Poco più avanti, Artie s'impigliò con il piede in qualcosa e andò sotto; riemerse sputacchiando e tossendo, ma senza conseguenze. Poi il tunnel curvò e Sister disse: «Alt!» Davanti a loro, scintillante alla fioca luce, un torrente d'acqua si riversava dal soffitto, per tutta l'ampiezza del tunnel. Dovevano attraversare la cascata. Sister capì che cosa significava. «Devo spegnere l'accendino, finché non siamo dall'altra parte» disse. «Teniamoci forte. Pronti?» Sentì la mano di Beth aumentare la stretta; Artie gracchiò: «Pronto». Sister abbassò il coperchio dell'accendino. Le tenebre avvolsero ogni cosa. Sister sentì il cuore batterle all'impazzata. Protesse l'accendino stringendolo nel pugno e avanzò. L'acqua la colpì con tanta forza da sbatterla sotto. Sister perdette la mano di Beth e udì la ragazza urlare. Freneticamente cercò di ritrovare l'appoggio, ma il fondo era scivoloso e viscido. Aveva la bocca e gli occhi pieni d'acqua, non poteva respirare, l'oscurità le distorceva il senso dell'orientamento. Il piede sinistro, impigliato in qualcosa, la teneva sott'acqua. Sister fu sul punto di urlare, ma capì che, se l'avesse fatto, sarebbero stati perduti. Agitò la mano libera, cercò con l'altra di tenere l'accendino fuori dell'acqua... e si sentì afferrare per la spalla. «Ti ho trovata!» gridò Beth, anche lei travolta dalla cascata. Sorresse Sister, che riuscì a liberarsi il piede, con uno strattone che quasi le strappò la scarpa di tela. E allora andò avanti, guidando gli altri lontano dall'insidia. Non sapeva quanto impiegarono a passare al di là della cascata — forse due minuti, forse tre — ma alla fine si trovarono dall'altra parte e riuscì a respirare liberamente. Si sentiva la testa e le spalle ammaccate come se un pugile l'avesse usata come sacco d'allenamento. Gridò: «Ce l'abbiamo fatta!» e li guidò per un tratto, prima di urtare il fianco contro una massa metallica. Provò a far scattare l'accendino. Ne scaturì una scintilla, ma non la fiamma. Gesummio, pensò Sister. Provò di nuovo. Un'altra stellina di scintilla, ma niente fiamma, niente luce.
«Su, forza!» mormorò. La terza volta non fu quella buona. «Accenditi, maledetto!» Ma furono inutili anche il quarto e il quinto tentativo. Sister pregò che l'accendino non si fosse bagnato troppo. Dopo sette tentativi, scaturì una debole fiammella che tremolò e quasi morì di nuovo. Il gas era agli sgoccioli. Dovevano uscire di lì, prima che si esaurisse del tutto: era sorprendente, quanto la sanità mentale dipendesse da una fiammella tremolante. Accanto a lei, la griglia accartocciata del radiatore e il cofano di una Cadillac sporgevano dall'acqua come il muso di un alligatore. Davanti a lei, giaceva un'altra automobile, capovolta, quasi sommersa, con gli pneumatici a brandelli. Si trovavano in un labirinto di rottami, in cui il cerchio di luce mostrava una piccola parte degli oggetti originari. Sister già da un poco batteva i denti: le pareva di avere gelidi pezzi di piombo al posto delle gambe. Andarono avanti, cautamente, un passo dopo l'altro. Sopra di loro, ,| il tunnel riprese a gemere, caddero altri pezzi di pietra... ma d'un tratto Sister si rese conto che l'acqua le arrivava di nuovo solo alla cintola. «Siamo vicini all'uscita!» gridò. «Grazie a Dio, siamo quasi fuori!» Sforzò la vista per scorgere una luce, ma l'uscita non si vedeva ancora. Non fermarti! Ci sei quasi! Inciampò in qualcosa. Un gorgoglio di bolle le esplose sul viso, dall'acqua emerse un cadavere annerito e grinzoso come un pezzo di legno, le braccia irrigidite sopra il viso, la bocca spalancata in un grido silenzioso. L'accendino si spense. Nel buio il cadavere si appoggiò contro la spalla di Sister. Lei rimase impietrita, il cuore sul punto di scoppiare: in quel momento, capì, poteva impazzire oppure... Con un brivido riprese fiato e spinse via i macabri resti. Il cadavere scivolò di nuovo sotto di lei, con un rumore simile a una risatina. «Vi porterò fuori di qui» giurò. Nella voce c'era una forza ostinata che non sapeva di possedere. «Me ne sbatto del buio! Siamo quasi fuori!» Mosse il passo seguente, e poi l'altro ancora. Piano piano l'acqua scese fino al ginocchio. E poi — quanto tempo dopo, quanti passi dopo, non lo sapeva — Sister vide davanti a sé l'uscita dell'Holland Tunnel. Avevano raggiunto la sponda del Jersey.
21 «Acqua... la prego... un po' d'acqua...» Josh aprì gli occhi: la voce di Darleen diventava sempre più debole. Si mise a sedere e strisciò nel punto dove aveva ammucchiato le scatole ritrovate. Ce n'erano decine: la maggior parte, squarciata, perdeva, ma il contenuto sembrava utilizzabile. Il loro ultimo pasto era stato a base di fagioli già cotti accompagnati da V-8. E il compito di aprire lo scatolame era stato facilitato dal cacciavite trovato fra i detriti. Josh aveva trovato anche un badile con la lama spezzata e un piccone, oltre a vari oggetti provenienti dagli scaffali del negozio. Aveva ammucchiato tutto in un angolo e riordinato gli utensili e le lattine grandi e piccole, con la determinazione di un criceto. Trovò la V-8 e strisciò accanto a Darleen. Lo sforzo lo lasciò di nuovo esausto, in un bagno di sudore; il puzzo della latrina scavata nel lato più lontano dello scantinato non favoriva certo il respiro. Josh allungò nel buio la mano, toccò il braccio di Swan. La bambina cullava la testa della madre. «Ecco» disse lui. Accostò la lattina alle labbra di Darleen; la donna bevve rumorosamente per un attimo, poi si ritrasse. «Acqua» supplicò. «La prego... un po' d'acqua.» «Mi spiace. Non ce n'è.» «Merda» mormorò lei. «Scotto.» Josh posò con gentilezza la mano sulla fronte della donna; era come toccare una griglia rovente. Più in là, PawPaw resisteva ancora, di tanto in tanto borbottava del geomio, della chiave scomparsa, di una certa Goldie. «Blakeman» gracchiò Darleen. «Dobbiamo... dobbiamo andare a Blakeman. Swan, tesoro? Non preoccuparti, ci arriveremo.» «Sissignora» rispose piano Swan. Josh glielo lesse nella voce: Swan sapeva che la madre era prossima alla morte. «Appena vengono a tirarci fuori. Ci rimetteremo in viaggio. Signore Iddio, mi sembra già di vedere la faccia di mio padre!» Si mise a ridere, con un gorgoglio nei polmoni. «Gli schizzeranno gli occhi dalla testa!» «Sarà felice di vederci, vero?» disse Swan. «Certo! Maledizione, vorrei che... che fossero già venuti a tirarci fuori. Ma quando vengono?» «Presto, mamma.» La bambina è maturata di dieci anni, dall'esplosione, pensò Josh. «Ho... ho sognato Blakeman» disse Darleen. «Tu e io camminavamo... e
vedevo la vecchia casa... proprio di fronte a noi, al di là del campo. E il sole... il sole così fulgido! Oh, era una bellissima giornata. E al di là del campo vedevo mio padre in piedi sulla veranda... e non mi odiava più. Non... non mi odiava più. E tutt'a un tratto... mia mamma uscì di casa e si fermò sulla veranda accanto a lui... e si tenevano per mano. E lei disse: "Darleen! Darleen! Ti aspettavamo, bambina mia! Su, vieni a casa!"» Tacque. Rimase solo il sibilo liquido del suo respiro. «Ci avviammo... nel campo; e mamma disse: "No, tesoro! Solo tu. Solo tu. Non la bambina. Solo tu". Ma non volevo andare senza il mio angioletto, e avevo paura. E mamma disse: "La piccola deve andare avanti. Andare avanti per una lunga, lunga strada". Oh... volevo proprio attraversare quel campo... lo volevo... ma... non potevo.» Trovò la mano di Swan. «Voglio andare a casa, amore mio.» «Certo, certo» sussurrò Swan e lisciò i resti madidi dei capelli della madre. «Ti voglio bene, mamma. Ti voglio tanto bene.» «Ah... ho rovinato tutto.» Un singhiozzo s'inceppò in gola. «Ho rovinato... tutto quel che ho toccato. Dio mio... chi baderà al mio angelo? Ho paura... tanta paura...» Scoppiò in singhiozzi. Swan le cullò la testa, sussurrò: «Sst, mamma. Sono qui. Sono qui». Josh s'allontanò. Tornò nel suo angolo, si rannicchiò, cercò di non pensare a niente. Qualche tempo dopo — ore, forse — udì un rumore accanto a sé. Si alzò a sedere. «Signore?» La voce di Swan era fioca, ferita. «Penso... Mamma è andata a casa.» Allora la bambina crollò, cominciò a piangere e a gemere. Josh la strinse fra le braccia. Swan gli si aggrappò al collo e pianse. Lui sentiva il cuore della bambina battere furiosamente, voleva gridare, sfogarsi: se avesse messo le mani su uno di quei pazzi esaltati che avevano premuto i pulsanti, gli avrebbe spezzato il collo come un fiammifero. Il pensiero di quanti milioni di persone forse erano morti là fuori gli sconvolse il cervello, come se avesse voluto calcolare quant'è vasto l'universo o quanti milioni di stelle brillano in cielo. Ma in quel momento lì c'era solo la bambina, che singhiozzava fra le sue braccia e non avrebbe mai più visto il mondo come lo vedeva una volta. Qualsiasi cosa accadesse a tutti loro, lei sarebbe stata segnata per sempre da quel momento... e questo valeva anche per lui. Una cosa era sapere che forse là fuori c'erano milioni di morti sconosciuti; ma una cosa tutta diversa era sapere che una donna di nome Darleen, che un
attimo prima respirava e parlava, giaceva morta nel terriccio a meno di tre metri da lui. E in quello stesso terriccio avrebbe dovuto seppellirla, usare il piccone e il badile rotto, scavare la fossa tenendosi ginocchioni. Seppellirla in profondità, in modo che nessuno strisciasse su di lei nel buio. Sentì sulla spalla le lacrime della bambina; quando allungò la mano ad accarezzarle i capelli, trovò vesciche e ispidi peli bruciati. E in quel momento pregò Iddio che, se dovevano morire, la bambina lo precedesse, così non sarebbe rimasta da sola con i morti. Swan esaurì le lacrime; emise un ultimo gemito, si abbandonò contro la spalla di Josh. «Swan?» disse lui. «Voglio che per un poco tu stia qui seduta senza muoverti. Lo farai?» Swan non rispose... poi, finalmente, annuì. Josh la scostò, prese badile e piccone. Decise di scavare la fossa il più lontano possibile dall'angolo in cui Swan era distesa; cominciò a ramazzare steli di granturco, cocci di vetro, schegge di legno. Con la mano sfiorò un oggetto metallico sepolto nel terriccio; pensò dapprima che fosse un'altra scatoletta da aggiungere alla provvista. Ma questa era diversa, era un cilindro sottile. La strinse con tutt'e due le mani, vi passò sopra le dita. Non era una scatoletta. Non era una lattina. Oddio... Gesù santo! Era una torcia elettrica. E il peso lasciava credere che contenesse le pile. Con il pollice Josh trovò l'interruttore. Ma non osò premerlo, non prima di chiudere gli occhi e mormorare: «Ti prego, ti prego! Funziona ancora, ti prego!» Inspirò a fondo e premette l'interruttore. Non avvertì nessun cambiamento, nessuna sensazione di luce contro le palpebre serrate. Aprì gli occhi nel buio. La torcia era inutile. Per un istante pensò che sarebbe scoppiato a ridere. Ma poi contorse rabbiosamente il viso e gridò: «Maledetta!» Sollevò il braccio per scagliare la torcia contro la parete. E quando la torcia si mosse, un attimo prima che lui la lasciasse andare, un fioco raggio di luce giallastra scaturì dalla lampadina... ma a Josh parve la più fulgida, la più splendente luce del creato. Quasi lo accecò. Poi tremolò e tornò a spegnersi. Josh agitò furiosamente la torcia; la luce lo prese in giro maliziosamente, si accese, si spense, ancora e ancora. Josh infilò due dita fra le schegge della lente di plastica e toccò la minuscola lampadi-
na. Cautamente, con dita tremanti, la girò piano piano in senso orario. E questa volta la luce restò accesa: una luce fioca, confusa, certo... ma luce. Josh chinò la testa e pianse. 22 La notte li sorprese in Communipaw Avenue, fra le macerie di Jersey City, proprio a est di Newark Bay. Trovarono un edificio ridotto a carcassa priva di tetto, al cui interno bruciava ancora un cumulo di rottami; Sister decise che si sarebbero riposati lì. Le pareti dell'edificio deviavano il vento gelido e lì intorno c'era una quantità di materiali infiammabili sufficiente a mantenere acceso il fuoco fino al mattino. Si rannicchiarono quasi addosso alle fiamme, perché a due soli metri di distanza sembrava d'essere in un frigorifero. Beth Phelps tese le mani verso il fuoco. «Dio, che freddo! Perché fa così freddo? Siamo ancora a luglio.» «Non sono uno scienziato» azzardò Artie, seduto fra lei e la ragazza sudamericana «ma immagino che l'esplosione abbia scagliato in aria tanto terriccio e tanta robaccia da incasinare l'atmosfera... bloccare i raggi del sole o qualcosa del genere.» «Non... non ho mai avuto così freddo!» Batteva i denti. «Non riesco a scaldarmi!» «L'estate è finita» disse Sister, frugando nella borsa. «Non credo che ci saranno altre estati ancora per molto tempo.» Tirò fuori le fette di prosciutto, l'ultimo pezzo di pane ammollato, le due scatolette d'acciughe. Nella borsa c'erano anche alcuni oggetti che Sister aveva trovato quel giorno: un pentolino di alluminio con il manico rivestito di gomma; un piccolo coltello con la lama dentellata; un barattolo di caffè liofilizzato Folger; un guanto da giardino spaiato, con due dita bruciate. In fondo alla borsa c'era il cerchio di vetro, che Sister non aveva più guardato né toccato, da quando erano usciti dal tunnel. Voleva conservare per dopo il piacere di guardare il suo tesoro e di toccarlo, quasi fosse un dono che si sarebbe fatta al termine della giornata. Non avevano più parlato dell'Holland Tunnel. Preferivano considerarlo un sogno odioso, una cosa da dimenticare. Ma Sister ora si sentiva più forte. Erano sopravvissuti alla traversata del tunnel. Sarebbero sopravvissuti a un'altra notte e a un altro giorno. «Prendete un po' di pane» disse. «Tenete.
Va meglio, con il prosciutto.» Masticò un pezzo di pane zuppo d'acqua e guardò la donna mangiare. «Non hai un nome?» le chiese. La donna le restituì lo sguardo, senza la minima curiosità. «Un nome.» Sister mosse la mano come se scrivesse in aria. «Come ti chiami?» La donna s'impegnò a tagliare a piccoli pezzi una fetta di prosciutto. «Forse è pazza» disse Artie. «Sai, forse la perdita della figlia l'ha fatta impazzire. Non credi?» «Può darsi» convenne Sister. Inghiottì il boccone di pane che sapeva di cenere. «Credo che sia portoricana» disse Beth. «A scuola stavo per scegliere spagnolo, poi ho preferito un corso di musica.» «Cosa fai...» Artie si fermò. Sorrise timidamente, ma tornò subito serio. «Cosa facevi, per vivere?» «Sono segretaria della Forniture Idrauliche Holmhauser, nell'Undicesima Ovest. Secondo piano, ufficio d'angolo, Broward Building. Segretaria del signor Alden, vicepresidente dell'azienda. Cioè... era vicepresidente.» Esitò, cercando di ricordare. «Il signor Alden aveva mal di testa. Mi chiese di andare nella farmacia di fronte a prendergli una boccetta di Excedrin. Ricordo... ero ferma all'angolo fra l'Undicesima e la Quinta, in attesa che il semaforo cambiasse. Un giovanotto simpatico mi chiese se sapevo dov'era un ristorante sushi, ma risposi di no. Il semaforo cambiò, tutti iniziarono ad attraversare. Ma io volevo continuare a parlare con quel giovanotto, perché era proprio un bell'uomo... be', non mi capita spesso d'incontrare uomini con cui mi piacerebbe uscire. Eravamo circa a metà strada, quando lui mi guarda, mi sorride e dice: "Mi chiamo Keith. E tu?"» Beth sorrise tristemente e scosse la testa. «Non riuscii a rispondergli. Ricordo un rombo tremendo. Mi parve che un'ondata di calore mi sbattesse a terra. Poi... mi pare che qualcuno m'abbia afferrata per la mano e m'abbia detto di correre. Mi misi a correre come una disperata, udivo la gente urlare, credo che urlassi anch'io. Dopo, ricordo solo che qualcuno diceva: "È ancora viva" . Impazzii. Pensai, ma certo che sono ancora viva! Perché non dovrei essere viva? Aprii gli occhi. Il signor Kaplan e Jack erano chini su di me.» Beth fissò Sister. «Non siamo... non siamo i soli ad avercela fatta, vero? Cioè... non siamo rimasti solo noi, vero?» «Credo di sì» rispose Sister. «Chi si è salvato, probabilmente si è già diretto a ovest...» Poi aggiunse: «O a nord, o a sud. Non c'è proprio alcun motivo di andare a est!» «Dio mio.» Beth inspirò bruscamente. «Mamma e papà. La mia sorelli-
na. Stanno a Pittsburgh. Credi... credi che anche Pittsburgh sia ridotta così? Voglio dire, Pittsburgh potrebbe essere intatta, giusto?» Sorrise di storto; negli occhi aveva una luce selvaggia. «Cosa c'è da bombardare, a Pittsburgh?» «Niente» convenne Sister. Si concentrò ad aprire con l'apposita chiave una scatoletta d'acciughe. Il sale avrebbe fatto aumentare la sete, ma il cibo era cibo. «Chi ne vuole?» disse. Prese un filetto d'acciuga e se lo cacciò in bocca; il sapore di pesce quasi le arricciò la lingua, ma lei trangugiò il boccone, pensando che il pesce contiene iodio o qualcos'altro che le avrebbe fatto bene. Artie e Beth presero un'acciuga ciascuno, ma la donna sudamericana girò la testa dall'altra parte. Finirono il pane. Sister rimise nella borsa le fette di prosciutto rimaste, versò per terra l'olio della scatoletta d'acciughe ma conservò il vuoto. Prosciutto e acciughe li avrebbero fatti tirare avanti ancora per un paio di giorni, se razionati. L'indomani avrebbero dovuto cercare qualcosa da bere. Rimasero rannicchiati intorno al fuoco, mentre fuori il vento ululava. Quasi ogni momento una raffica entrava nell'edificio e sollevava turbini di cenere prima d'esaurirsi. C'era solo il rumore del vento e delle fiamme agitate. Sister guardò fremere il cuore arancione del falò. «Sister?» Girò il viso verso Artie. «Ti... ti dispiace se lo tengo per un poco?» disse lui, speranzoso. Sister sapeva a che cosa si riferiva. Nessuno dei due l'aveva toccato, da quel giorno fra le macerie del negozio di cristalli Steuben. Sister infilò la mano nella borsa, spinse da parte le cianfrusaglie e strinse la mano intorno all'oggetto avvolto nel pezzo bruciacchiato di camicia a righe. Lo tirò fuori e scostò la stoffa ancora bagnata. Subito il cerchio di vetro con le cinque punte e le gemme incastonate iniziò a splendere, assorbendo la luce del fuoco. Brillò come un fulmine globulare, forse anche più della prima volta. Pulsò a tempo con i battiti del cuore di Sister, come se la forza vitale della donna gli desse energia; i fili d'oro, di platino, d'argento, sfrigolarono di luce. «Oh!» mormorò Beth. La luce delle pietre preziose si rifletteva nei suoi occhi. «Oh... che cos'è? In vita mia... non ho mai visto... non ho mai visto niente di simile.» «L'ha trovato Sister» rispose Artie; il tono di voce era reverente, l'attenzione era inchiodata sul cerchio di vetro. Con fare esitante tese le mani. «Posso... per favore?»
Sister glielo diede. Fra le mani di Artie, le pulsazioni delle gemme cambiarono velocità e ritmo, s'adattarono al battito del suo cuore. Artie scosse la testa, pieno di stupore, con riflessi d'arcobaleno negli occhi. «Tenerlo in mano mi fa sentire bene» disse. «Mi fa sentire come... come se tutta la bellezza del mondo non è ancora morta.» Passò le dita sulle punte, seguì con l'indice il contorno di uno smeraldo grosso come una mandorla. «Così verde» mormorò. «Così verde...» Sentì il profumo fresco e pulito di un bosco di pini. Teneva in mano un sandwich... carne affumicata, due fette di pane di segale, senape calda e piccante. Proprio come piaceva a lui. Sorpreso, sollevò lo sguardo e vide intorno a sé uno scenario di foreste verdeggianti e di prati color smeraldo. Accanto a lui c'era un refrigeratore con dentro una bottiglia di vino; a portata di mano, un bicchiere di carta, pieno. Sedeva sopra una tovaglia a righe verdi. Davanti a lui, un cestino di vimini, aperto, mostrava una quantità di cibarie. Sto sognando, pensò. Mio Dio... sogno a occhi aperti! Ma poi vide le mani, coperte di vesciche e di ustioni. Indossava ancora la pelliccia e il pigiama rosso. Calzava ancora le robuste scarpe nere. Ma non sentiva dolore; la luce del sole era vivida e calda, una serica brezza si muoveva nella foresta di pini. Udì sbattere la portiera di un'auto. A una decina di metri da lui c'era una T-Bird rossa. Una ragazza alta, sorridente, dai riccioli castani, veniva verso di lui reggendo una radio che suonava Smoke Gets in Your Eyes. «Non potevamo desiderare una giornata più bella, vero?» disse la ragazza, facendo dondolare la radio. «Uh... no» rispose Artie, stordito. «Non credo.» Non aveva mai annusato aria così fresca, così pulita. E la T-Bird! Mio Dio, pensò, la T-Bird aveva una coda di volpe appesa all'antenna! Ora la ricordava. La macchina più bella e più veloce che avesse mai avuto e... Un momento, pensò, mentre la giovane donna s'avvicinava. Ferma tutto! Che diavolo... «Bevi il vino» disse la ragazza. «Non hai sete?» «Ah... sì. Sì, ho sete.» Prese il bicchiere e in tre sorsate bevve il vino. La gola gli bruciava di sete. Tese il bicchiere per farselo riempire di nuovo e bevve anche quello, con la stessa rapidità. E allora guardò i miti occhi azzurri della ragazza, la forma ovale del viso, e capì chi era; ma non poteva essere lei! Lei aveva diciannove anni, erano tornati al picnic del giorno in cui le aveva chiesto di sposarlo. «Perché mi guardi fissamente, Artie?» disse la ragazza, stuzzicandolo. «Scusa. Solo che... voglio dire, sei di nuovo giovane e io me ne sto sedu-
to qui come un salame in pigiama rosso. Voglio dire... non è giusto.» Lei aggrottò le sopracciglia, come se non capisse di che cosa parlava. «Sciocchino, non ti piace il sandwich?» «Certo, certo.» Diede un morso, aspettandosi che gli si dissolvesse fra i denti come un miraggio, ma aveva la bocca piena di carne affumicata e se questo era un sogno, allora era il miglior sandwich immaginario che avesse mai mangiato! Si versò un terzo bicchiere di vino, lo tracannò di gusto. Il profumo dolce e pulito dei pini riempiva l'aria. Artie inspirò a fondo. Fissò i boschi verdi, il prato, e pensò, Dio mio, Dio mio, è bello essere vivi! «Ti senti bene?» «Eh?» La voce l'aveva fatto sobbalzare. Artie batté le palpebre: aveva di fronte il viso piagato di Sister. Teneva ancora fra le mani il cerchio di vetro. «Ho chiesto se ti senti bene» disse Sister. «Sarà mezzo minuto che te ne stai lì immobile a fissare quel coso.» «Oh.» Artie vide il falò, il viso di Beth e della sudamericana, le pareti in rovina dell'edificio. Non so dove sono stato, pensò, ma ne sono tornato. Gli parve d'avere ancora in bocca il gusto della carne affumicata, della senape piccante, del vino. Era perfino un po' inebriato, come se avesse bevuto molto e in fretta. Ma ora si sentiva a stomaco pieno e non aveva più sete. «Sì, sto benissimo.» Sfiorò ancora un momento il cerchio di vetro, poi lo restituì a Sister. «Grazie.» Sister lo prese. Per un istante credette di sentire profumo di... Che cos'era? Liquore? Il debole aroma svanì. Artie Wisco s'appoggiò alla parete e ruttò. «Posso tenerlo anch'io?» chiese Beth. «Ci starò attenta.» Lo prese dalle mani di Sister, mentre la donna sudamericana lo ammirava da sopra la sua spalla. «Mi ricorda qualcosa. Qualcosa che ho già visto» disse. «Ma non riesco a stabilire cosa.» Scrutò nel vetro lo scintillio di topazi e di brillanti. «Oddio. Hai idea di quanto varrà?» Sister scrollò le spalle. «Avrà avuto un mucchio di valore, qualche giorno fa. Ora non so. Forse qualche scatoletta di cibo e un apriscatole. Forse una bustina di fiammiferi. Al massimo, un boccale d'acqua pulita.» Acqua, pensò Beth. Erano passate ventiquatt'ore da quando aveva bevuto una sorsata di ginger ale. Aveva la bocca come un campo secco. Un sorso d'acqua — solo un goccio — sarebbe stato meraviglioso. Le sue dita all'improvviso affondarono nel vetro. Ma non era più vetro: era un ruscello che scorreva sopra ciottoli multico-
lori. Ritrasse la mano; dalla punta delle dita gocce d'acqua simili a brillanti ricaddero nel ruscello. Sentiva lo sguardo di Sister, ma aveva anche la sensazione d'essere lontano da lei, lontano dalle macerie della città; sentiva la presenza di Sister, ma come se la donna si trovasse in un'altra stanza del palazzo magico di cui lei avesse appena trovato la chiave del portone. La fresca corrente d'acqua produsse una gorgoglio invitante, mentre passava sui ciottoli colorati. Non è possibile che l'acqua mi scorra proprio in grembo, pensò Beth; per un istante il ruscello tremolò e iniziò a svanire, un rivolo nebuloso inaridito dal sole ardente della ragione. No, esclamò Beth, non ancora! L'acqua continuò a scorrerle sotto le mani, a muoversi da un luogo immaginario a un luogo inesistente. Beth v'immerse di nuovo le mani. Fresca, freschissima. Raccolse nel palmo un po' d'acqua e se la portò alle labbra. Aveva un gusto migliore di qualsiasi bicchiere di Perrier. Bevve di nuovo dal palmo, poi chinò la testa nella corrente e bevve l'acqua che le scorreva intorno alle guance come l'impressione lasciata da un bacio. Sister pensò che Beth fosse caduta in una sorta di trance. Gli occhi della ragazza erano diventati vitrei all'improvviso. Come Artie prima, non si muoveva da più di mezzo minuto. «Ehi!» disse Sister. Le diede un colpetto. «Ehi, che ti succede?» Beth alzò la testa. Gli occhi le tornarono limpidi. «Come?» «Niente. È ora di riposare.» Sister prese il cerchio di vetro per riporto, ma all'improvviso la donna sudamericana lo afferrò e strisciò carponi fra le macerie, stringendolo al petto. Sister e Beth si alzarono... e Beth pensò d'avere la pancia gonfia d'acqua. Sister s'accostò alla donna, che singhiozzava, a testa china. S'inginocchiò accanto a lei e disse con gentilezza: «Su, ridammelo». «Mi niña me perdona» singhiozzò la donna. «Madre de Diós, mi niña me perdona.» «Cosa dice?» chiese Beth, dietro Sister. «Non so.» Sister chiuse le dita attorno al cerchio di vetro e piano piano lo tirò a sé. La donna non lo lasciò, scuotendo la testa. «Su» la esortò Sister. «Lasciamelo...» «Mia figlia mi perdona!» disse all'improvviso la donna. Gli occhi spalancati erano pieni di lacrime. «Madre di Dio, lì dentro ho visto il viso della mia bambina. E ha detto che mi perdona! Sono libera! Madre di Dio, sono libera!»
Sister era stordita. «Non... non credevo che parlassi inglese.» Ora fu l'altra, a battere le palpebre, con aria confusa. «Cosa?» «Come ti chiami? Perché prima non parlavi inglese?» «Mi chiamo Julia. Julia Castillo. Inglese? Non so... non so cosa vuoi dire.» «Una di noi due è pazza» disse Sister. «Su, lascialo.» Diede uno strattone e Julia non oppose resistenza. «Bene. Allora, Julia, come mai prima non parlavi inglese?» «No comprendo» rispose lei. «Buon giorno. Bella giornata. Piacere di conoscerla, signore. Grazie.» Si strinse nelle spalle, con un gesto vago indicò il sud. «Matanzas» disse. «Cuba.» Sister girò la testa verso Beth, che si era scostata d'un paio di passi e aveva un'espressione bizzarra. «Beth, chi è pazza? Julia o io? Sa l'inglese o no?» «Parlava... parlava in spagnolo» disse Beth. «Non ha detto una sola parola d'inglese. Tu... tu la capivi?» «Diavolo, sì, la capivo! Ogni maledetta parola! Non...» S'interruppe. La mano stretta intorno al cerchio le formicolava. Dall'altra parte del fuoco, Artie si mise bruscamente a sedere, con il singhiozzo. «Ehi!» disse, con voce un poco confusa. «Dov'è la festa?» Sister tese di nuovo verso Julia Castillo il cerchio di vetro. La donna lo toccò, con esitazione. «Cos'hai detto di Cuba?» chiese Sister. «Vengo da Matanzas, nell'isola di Cuba» rispose Julia, in inglese perfetto. Gli occhi spalancati avevano una luce di perplessità. «La mia famiglia è arrivata qui in una barca da pesca. Mio padre parlava un po' d'inglese. Siamo venuti a nord per lavorare in una fabbrica di camicie. Come mai tu... tu parli la mia lingua?» Sister guardò Beth. «Che lingua senti? Spagnolo o inglese?» «Spagnolo. Non l'hai sentito anche tu?» «No.» Tolse il cerchio dalle mani di Julia. «Adesso parla. Una frase qualsiasi.» Julia scosse la testa. «Lo siento, no comprendo.» Sister fissò Julia per un attimo, poi lentamente sollevò il cerchio per scrutare meglio all'interno. La mano le tremava; le parve che lungo il braccio, fino al gomito, le corressero piccole scariche elettriche. «È questo coso» disse. «Questo cerchio di vetro. Non so come... ma mi permette di capire le sue parole e anche lei capisce me. L'ho sentita parlare inglese, Beth... e credo che abbia sentito me parlare spagnolo.»
«Che idea pazza!» esclamò Beth. Ma, pensò, poco prima un fresco torrente le scorreva in grembo e ora non aveva più la gola riarsa. «Voglio dire... è solo vetro e pietre preziose, no?» «Tieni» disse Sister, porgendoglielo. «Scoprilo da te.» Con un dito Beth seguì il contorno di una punta. «La Statua della Libertà» disse. «Eh?» «La Statua della Libertà. Mi ricorda la Statua. Non la statua in sé, ma... la corona della donna.» Sollevò il cerchio verso la testa, le punte rivolte in alto. «Vedi? Potrebbe essere davvero una corona, no?» «Non ho mai visto principessa più affascinante» disse una voce maschile, dall'oscurità. All'istante Beth protesse fra le braccia il cerchio di vetro e s'allontanò dalla voce. Sister s'irrigidì. «Chi c'è?» Intuì un movimento: qualcuno camminava lentamente fra le macerie, s'avvicinava al cerchio luminoso del fuoco. L'uomo venne in piena luce. Soffermò lo sguardo a turno su ciascuno di loro. «Buona sera» disse educatamente, rivolto a Sister. Era alto, largo di spalle, con un portamento regale. Indossava un completo nero, impolverato. Una coperta marrone gli avvolgeva spalle e collo, come un serape, uno scialle messicano; nel viso pallido, dal mento aguzzo, aveva le striature rossastre di ustioni profonde, simili a lividi di frusta. Un taglio incrostato di sangue gli scendeva a zigzag dalla fronte, gli attraversava il sopracciglio sinistro e finiva sullo zigomo. Aveva ancora gran parte dei capelli grigiorossicci, ma anche chiazze vuote, della grandezza di un dollaro d'argento. L'alito formava nuvolette bianche attorno alle narici e alle labbra. «Vi dispiace se m'avvicino?» disse con voce esitante e sofferente. Sister non rispose. L'uomo aspettò. «Non mordo» aggiunse. Tremava. Sister non poteva negargli il fuoco. «Vieni avanti» disse, cauta; e indietreggiò quando lui si mosse. L'uomo trasalì, mentre avanzava, impacciato: una scheggia frastagliata di metallo gli attraversava la gamba destra, appena sopra il ginocchio, e fuorusciva di circa otto centimetri dall'altra parte. L'uomo passò fra Sister e Beth, andò dritto al fuoco; tese le mani a scaldarsi. «Ah, magnifico! Ci saranno zero gradi, fuori.» Anche Sister aveva sentito il freddo e si girò verso il fuoco. Julia e Beth, che proteggeva ancora fra le braccia il cerchio di vetro, la imitarono.
«E tu chi diavolo sei?» Dall'altra parte del fuoco Artie fissò con occhi annebbiati lo sconosciuto. «Mi chiamo Doyle Halland» rispose l'uomo. «Come mai non ve ne siete andati con gli altri?» «Con chi?» disse Sister, continuando a tenerlo d'occhio. «Quelli che se ne sono andati. Ieri, mi pare. Centinaia di persone, che lasciavano...» sorrise debolmente «che lasciavano il Garden State. Forse ci sono rifugi, più a ovest. Non so. Comunque, credevo che non fosse rimasto nessuno.» «Siamo venuti da Manhattan» spiegò Beth. «Attraverso l'Holland Tunnel.» «Non credevo che qualcuno fosse sopravvissuto a quel che ha colpito Manhattan. Dicono che fossero almeno due bombe. Jersey City è bruciata in fretta. E il vento... Dio mio, il vento!» Strinse i pugni davanti alle fiamme. «Una tromba d'aria. Parecchie, penso. Hanno strappato come niente gli edifici dalle fondamenta. Ho avuto fortuna, immagino. Sono sceso in uno scantinato e l'edificio è volato via sulla mia testa. Questo me l'ha fatto il vento.» Con cautela sfiorò la scheggia metallica. «Ho sentito dire che i tornado riescono a conficcare senza romperli dei fili di paglia nei pali del telefono. Sarà lo stesso principio, eh?» Guardò Sister. «So di non avere il mio aspetto migliore, ma perché mi fissa a questo modo?» «Da dove viene, signor Halland?» «Da qui vicino. Ho visto il vostro fuoco. Se non volete che resti, ditelo.» Sister si vergognò di quel che aveva pensato. Lo vide trasalire di nuovo: sangue fresco colava intorno alla scheggia. «Non sono la padrona del locale» disse. «Stia pure dove preferisce.» «Grazie. Non è una bella notte, per camminare.» Spostò lo sguardo sul cerchio di vetro che Beth reggeva. «Quell'affare brilla davvero, eh? Che cos'è?» «È...» Beth non trovava la parola giusta. «È magia» sbottò. «Non crederà mai cos'è appena accaduto. Vede quella donna? Non parla inglese, e questo...» «È un pezzo di vetro» la interruppe Sister, togliendolo a Beth. Non si fidava ancora dello sconosciuto e non voleva che sapesse del loro tesoro. «Un coccio scintillante, tutto qui.» Lo cacciò in fondo alla borsa; lo splendore delle pietre si affievolì e si spense. «Le piacciono le cianfrusaglie scintillanti?» domandò l'uomo. «Gliene mostrerò alcune.» Si guardò in giro, zoppicò per qualche metro, si chinò
con fatica. Raccolse un oggetto e lo portò vicino al fuoco. «Vede? Brilla proprio come il suo» disse, mostrandolo. Era un frammento di finestra istoriata, un ricciolo d'azzurro cupo e di viola. «Siete in quella che era la mia chiesa» aggiunse. Si tolse di dosso la coperta e mise in mostra l'imbrattato colletto bianco da prete. Con un sorriso amaro gettò nel fuoco il vetro colorato. 23 Nel buio, sedici civili — uomini, donne e bambini — più tre membri seriamente feriti dell'esercito del colonnello Macklin si adoperavano per districare il groviglio di rocce strettamente incastrate nel corridoio del livello inferiore. Il cibo è solo a due metri, aveva detto loro Macklin. Due metri. Non ci vorrà molto a passare dall'altra parte, una volta praticato un foro. Chi arriva per primo al cibo avrà razione tripla. Lavoravano nel buio completo da quasi sette ore, quando il resto del soffitto crollò su di loro all'improvviso. Roland Croninger, ginocchioni nella cucina della cafeteria, sentì il pavimento tremare. Le urla giunsero fino a lui, attraverso un condotto d'aerazione... poi il silenzio. «Maledizione!» disse, perché sapeva che cos'era accaduto. E ora chi avrebbe sgombrato quel corridoio? Ma c'era l'altra faccia della medaglia: i morti non avrebbero consumato aria. Tornò a dedicarsi al suo compito: raccogliere da terra pezzetti di roba commestibile e metterli in un sacco di plastica del tipo per la raccolta rifiuti. Aveva suggerito al colonnello Macklin di stabilire il quartier generale nella palestra. Avevano trovato un tesoro: un secchio per le pulizie, nel quale conservare l'acqua della toilette. Quando Roland, con lo stomaco tormentato dalla fame, li aveva lasciati per andare a frugare in cucina, Macklin e il capitano Warner dormivano entrambi. Roland portava a spalla il mitra Ingram e infilato nella cintura il manico dell'ascia sacra. Per terra accanto a lui la torcia elettrica illuminava grumi di cibo schizzati dalle scatolette esplose nella dispensa. Anche i secchi d'immondizia della cucina avevano riservato qualche scoperta: bucce di banana, pezzetti di pomodoro, scatolette con degli avanzi, alcune focacce per la prima colazione. Ogni cosa commestibile finì nel sacco di Roland, tranne le focacce, che furono il suo primo pasto dopo il disastro.
Roland raccolse un pezzo di roba nera, ma esitò a metterlo nel sacco: gli ricordava quel che aveva fatto ai criceti di Mike Armbruster, il giorno in cui quest'ultimo li aveva portati nell'aula di biologia. I criceti erano rimasti in fondo all'aula, dopo le lezioni, quando Mike Armbruster era andato al campo di football a fare allenamento. Senza farsi vedere dalla donna delle pulizie, Roland aveva preso la gabbia con i criceti e l'aveva portata di nascosto nel garage-officina della scuola. In un angolo c'era una tinozza metallica contenente un liquido marrone verdastro; sopra la tinozza, un cartello rosso con su scritto: Mettere i guanti. Roland si era infilato un paio di grossi guanti d'amianto e aveva chiamato sommessamente i due piccoli criceti; aveva pensato a Mike Armbruster che rideva e gli sputava in faccia, dopo averlo picchiato e sbattuto per terra. Aveva preso per la maniglia la gabbia e l'aveva calata nella tinozza dell'acido adoperato per lucidare a nuovo vecchi radiatori arrugginiti. Aveva lasciato a bagno i criceti finché le bollicine non erano cessate. Tirata fuori la gabbia, aveva notato che l'acido aveva consumato le sbarrette metalliche fino a renderle lucide e splendenti. Allora si era sfilato i guanti e aveva riportato la gabbia nell'aula di biologia, reggendola con un manico di scopa. Si era spesso chiesto che faccia avesse fatto Mike Armbruster quando aveva trovato due grumi neri al posto dei criceti. Armbruster non si era reso conto, aveva riflettuto Roland in seguito, di quante vie avesse un Cavaliere del Ré per rendere la pariglia. Comunque, Roland buttò nel sacco il pezzo di roba nera. Scoprì una scatola di fiocchi d'avena e — meraviglia delle meraviglie — una mela verde. Finirono tutt'e due nel sacco. Continuò a strisciare nella cucina, alzando le pietre più piccole ed evitando le fenditure. Non doveva allontanarsi troppo dalla torcia. Si alzò. Il sacco da spazzatura adesso aveva un certo peso, il Re sarebbe stato contento. Scavalcando agilmente i morti, Roland si diresse verso la luce. Dietro di sé udì un fruscio. Non forte, solo un fremito d'aria disturbata. C'era qualcuno. Prima che si girasse, una mano gli tappò la bocca. «Prendete il sacco!» disse un uomo. «Sbrigatevi!» Il sacco gli fu strappato di mano. «Il bastardo ha un Ingram!» Anche il mitra gli fu strappato di tracolla. L'uomo tirò via la mano, ma con il braccio gli serrò la gola. «Dov'è Macklin? Dov'è nascosto, il figlio di puttana?»
«Soff... soffoco» gracchiò Roland. Con un'imprecazione l'uomo lo sbatté per terra. Gli occhiali volarono via, uno stivale gli premette la schiena. «Chi vuoi uccidere con quel mitra, ragazzo? Vuoi tenere tutto il cibo per te e per il colonnello?» Uno degli altri recuperò la torcia e gli puntò in viso il raggio. Dalle voci e dai movimenti, Roland pensò che fossero in tre, ma non poteva esserne certo. Trasalì, quando udì scattare la sicura dell'Ingram. «Uccidilo, Schorr!» disse uno. «Fagli saltare le cervella al bastardo!» Schorr. Roland riconobbe il nome. Il sergente addetto alla ricezione.. «So che è vivo, ragazzo.» Schorr incombeva su di lui, gli piantava il piede sulla schiena. «Sono sceso in sala comando, ho trovato quella gente che lavorava nel buio. Ho trovato anche il caporale Prados. Ha detto che un ragazzo ha tirato fuori Macklin e che il colonnello era ferito. Ha lasciato Prados là sotto a morire, eh?» «Il caporale... non poteva muoversi. Non si reggeva in piedi, a causa della gamba. Abbiamo dovuto abbandonarlo.» «Chi c'è con Macklin?» «Il capitano Warner» boccheggiò Roland. «E basta.» «E ti ha mandato qui a cercare cibo? Ti ha dato PIngram e ti ha detto di uccidere tutti gli altri?» «Nossignore.» Le rotelle del cervello di Roland giravano, alla ricerca d'un modo per togliersi da quell'impiccio. «Dov'è nascosto? Quante armi ha?» Roland restò in silenzio. Schorr si chinò accanto a lui e gli puntò la canna alla tempia. «Ci sono altri nove uomini, non lontano da qui; hanno bisogno anche loro di cibo e d'acqua» disse concisamente Schorr. «I miei uomini. Credevo che sarei morto. Ho visto cose...» Si bloccò, sconvolto, e per un istante non riuscì a continuare. «Cose che nessuno dovrebbe vedere e vivere per ricordarle. La colpa è tutta di Macklin. Sapeva che questo posto non stava in piedi... doveva saperlo!» La canna graffiò il cranio di Roland. «Il grande e potente Macklin, con i suoi soldati di latta e le medaglie arrugginite! Buono solo a far marciare i gonzi dentro e fuori di qui! Sapeva cosa sarebbe accaduto! Non è vero?» «Sissignore.» Roland sentì contro lo stomaco i contorni dell'ascia sacra. Piano piano, cominciò a infilare la mano sotto di sé. «Sa che è impossibile arrivare alle scorte d'emergenza, vero? Per questo t'ha mandato a raccogliere gli avanzi, prima che un altro ci pensasse! Piccolo bastardo!» Schorr afferrò Roland per il colletto e cominciò a scuoter-
lo, aiutandolo così a far scivolare la mano più vicino all'ascia sacra. «Il colonnello vuole accumulare riserve di tutto» disse Roland. Devo guadagnare tempo, pensò. «Vuole riunire tutti, razionare cibo e a...» «Sei un bugiardo! Vuole tenere tutto per sé!» «No! Possiamo ancora arrivare alle scorte d'emergenza.» «Stronzate!» ruggì l'uomo, con un'improvvisa nota di follia nella voce. «Ho sentito crollare il resto del Livello Uno. Sono tutti morti! Vuole ucciderci tutti, per tenersi il cibo!» «Finiscilo, Schorr» disse l'altro. «Fagli saltare le palle.» «Non ancora, non ancora. Voglio sapere dov'è Macklin! Dov'è nascosto? Quante armi ha?» Le dita di Roland quasi toccavano la lama. Più vicino... sempre più vicino. «Ha... ha un mucchio d'armi da fuoco. Una pistola. Un altro mitra.» Più vicino, ancora più vicino. «Ha un intero arsenale, là dentro.» «Là dentro? Dove?» «In... in una stanza. Più avanti nel corridoio.» Quasi presa! «Quale stanza, piccola merda?» Schorr lo afferrò di nuovo, lo scosse con rabbia. Roland aproffitto del movimento: tolse dalla cintura l'ascia sacra e vi rimase steso sopra, impugnando bene il manico. Quando decideva di colpire, doveva farlo rapidamente; e se gli altri due avevano armi da fuoco, lui era finito. Piangi, si disse. Riuscì a cavare fuori un singhiozzo. «Per favore... per favore, non fatemi male! Senza occhiali non ci vedo!» Piagnucolò, si agitò. «Non fatemi male!» Finse conati di vomito... e sentì la canna dell'Ingram scostarsi dalla testa. «Brutto merdoso. Bastardo cacasotto! Su, in piedi! Da uomo!» Afferrò Roland per il braccio e cercò di tirarlo in piedi. Ora, pensò Roland... molto calmo, molto deciso. Un Cavaliere del Re non ha paura della morte. Si lasciò tirare in piedi, poi scattò come una molla, girò su se stesso, vibrò un fendente laterale con l'ascia sacra, la cui lama aveva ancora macchie del sangue del Re. Il raggio della torcia brillò sulla mannaia; la lama squarciò la guancia sinistra di Schorr come se trinciasse un tacchino al pranzo del giorno del Ringraziamento. Per un secondo, il sergente rimase troppo sorpreso per reagire; ma poi il sangue schizzò dalla ferita e il dito gli si contrasse involontariamente sul grilletto: una grandinata di proiettili sibilò sopra la testa di Roland. Schorr barcollò all'indietro, la faccia scarnificata fino all'osso. Ro-
land lo assalì menando colpi all'impazzata, prima che il sergente potesse prenderlo di mira. Uno degli altri afferrò Roland per la spalla, ma il ragazzo si liberò, lasciandoci quasi la camicia. Vibrò ancora un fendente contro Schorr e lo colpì al muscolo del braccio che reggeva il mitra. Schorr inciampò in un cadavere, l'Ingram cadde rumorosamente ai piedi di Roland. Il ragazzo lo raccolse. Con il viso contorto in un rictus selvaggio, si girò di scatto verso l'uomo che reggeva la torcia. Piantò i piedi per terra, nella posizione di sparo che il colonnello gli aveva insegnato, e premette il grilletto. Il mitra ronzò come una macchina da cucire, ma il rinculo sbatté Roland contro i detriti e lo mandò a cadere seduto. La torcia esplose nella mano dell'uomo; ci fu un grugnito, poi un acuto grido di dolore. Roland sparò nel buio; le traiettorie rosse dei proiettili traccianti rimbalzarono sulle pareti. Un altro grido si spezzò in una serie di gorgoglii e parve allontanarsi: Roland pensò che uno dei tre era precipitato in uno squarcio del pavimento. Innaffiò di proiettili la cafeteria e smise di sparare quando capì d'essere di nuovo da solo. Tese l'orecchio; il cuore gli batteva all'impazzata. Il dolce profumo di un'arma da fuoco appena usata aleggiava nell'aria. «Venite avanti!» gridò Roland. «Ne volete ancora? Fatevi sotto!» Ma ci fu solo silenzio. Non sapeva se li aveva uccisi tutti, ma era sicuro d'averne colpito almeno uno. «Bastardi» mormorò. «Bastardi, la prossima volta vi uccido tutti.» Rise. Rimase sorpreso, perché gli parve la risata di uno sconosciuto. Si augurò che tornassero. Voleva un'altra occasione per ucciderli. Cercò gli occhiali. Trovò il sacco di plastica, ma gli occhiali erano perduti. D'ora in poi avrebbe visto tutto confuso, ma andava bene lo stesso: tanto, non c'era più luce. A tentoni trovò sangue tiepido e il relativo corpo. Per un paio di minuti prese a calci il cranio del cadavere. Raccolse il sacco di plastica. Tenendo pronto l'Ingram, si mosse con cautela nella cafeteria, in direzione dell'uscita; con le dita dei piedi tastava il pavimento, per scoprire in tempo eventuali fenditure. Arrivò senza inconvenienti nel corridoio. Tremava ancora d'eccitazione. Tutto era nero e silenzioso, a parte un lento sgocciolio d'acqua da qualche parte. Trovò a tentoni la strada per la palestra, portando il sacco con il bottino, ansioso di raccontare tutto al Re: aveva affrontato tre troll dei tunnel e uno di loro si chiamava Schorr. Ma ci
sarebbero stati altri troll! Non avrebbero ceduto facilmente e poi non era sicuro d'avere ucciso il sergente. Roland sogghignò nel buio, faccia e capelli umidi di sudore freddo. Era molto, molto orgoglioso di sé, perché aveva difeso il Re, anche se purtroppo aveva perso la torcia. Nel corridoio calpestò cadaveri che si gonfiavano come palloncini. Era il gioco più bello che avesse mai giocato. Superava di un anno luce la versione al computer! In vita sua non aveva mai sparato a nessuno. E neppure aveva provato questa sensazione di potere. Circondato dalle tenebre e dai morti, reggendo un sacco di rifiuti e un Ingram ancora caldo, Roland Croninger conobbe la vera estasi. 24 Uno squittio proveniente da un angolo dello scantinato indusse Josh ad accendere la torcia. La debole lampadina emise un raggio di luce giallastra; Josh l'indirizzò verso l'angolo per scoprire la causa del rumore. «Cosa c'è?» chiese Swan, seduta a un metro da lui. «Un topo, credo.» Nel raggio luminoso vide solo la confusione di travi e di steli di granturco, la montagnola di terriccio sotto cui giaceva Darleen Prescott. Spostò subito la torcia perché la bambina non vedesse la tomba: aveva appena cominciato a riprendersi dallo choc. «Sì, dev'essere proprio un topo. Forse aveva il nido qua sotto. Ehi, signor Topo! Ti spiace se dividiamo con te lo scantinato per un poco?» «Sembra ferito.» «Penserà che anche noi non siamo in buone condizioni.» Tenne il raggio di luce lontano dalla bambina: l'aveva già vista una volta, in quella luce fioca, e gli era bastato. I bei capelli biondi erano quasi tutti bruciati, il viso era una massa di vesciche rosse e acquose. Gli occhi, che ricordava d'un azzurro sorprendente, erano infossati e velati di grigio. Josh si rendeva conto che l'esplosione non aveva risparmiato neppure lui; il riflesso luminoso della torcia rivelava chiazze grigiastre sulle mani e sulle braccia. Non voleva sapere altro. Forse avrebbe finito per sembrare una zebra. Ma almeno erano ancora vivi, lui e la bambina; non aveva modo di calcolare il tempo, ma pensava che fossero già trascorsi quattro giorni, forse cinque. Il cibo non era più un problema e avevano abbondanza di succhi di frutta in scatola. C'era un certo ricambio d'aria, anche se lo scantinato sapeva sempre di rinchiuso. La cosa peggiore era il puzzo della latrina, ma per il mo-
mento lui non poteva farci niente. Forse più avanti avrebbe escogitato un impianto igienico più pulito, usando per esempio le lattine vuote e sotterrandole. Qualcosa si mosse nel raggio di luce. «Guarda!» disse Swan. «Laggiù!» Un animaletto bruciacchiato, in cima a una montagnola di terriccio. La creatura piegò la testa verso Swan e Josh, squittì di nuovo e scomparve fra i detriti. «Non è un topo» disse Josh. «È un...» «Un geomio!» terminò per lui Swan. «Sembrano un incrocio fra una talpa e un criceto. Ne ho visti moltissimi, scavavano le loro gallerie vicino al parcheggio di roulotte.» «Un geomio» ripeté Josh. Ricordò le parole di PawPaw: "C'è un geomio nel buco!" Swan fu contenta di vedere un altro essere vivente, lì sotto con loro. Lo sentiva annusare la terra, al di là del raggio luminoso e della montagnola dove... Ancora non riusciva a sopportare quel pensiero. Però, almeno, mamma non soffriva. Ascoltò il geomio annusare in giro; conosceva molto bene quegli animali, perché le riempivano di buchi il giardino... Scavavano un mucchio di buchi. «Josh?» «Sì?» «I geomi scavano buchi.» Josh sorrise debolmente a quello che ritenne un semplice commento da bambini; ma tornò serio di colpo, quando capì dove Swan voleva arrivare. Se il geomio aveva il nido là sotto, allora forse c'era davvero un buco che portava fuori! Forse l'aria veniva proprio da lì. Si sentì balzare il cuore. PawPaw sapeva che nello scantinato c'era un buco di geomio, era questo il messaggio che aveva cercato di trasmettere. E loro potevano allargarlo fino a farlo diventare un tunnel. Avevano piccone e badile, forse potevano aprirsi una via d'uscita! Strisciò accanto al vecchio. «Ehi» disse. «Mi senti?» Toccò il braccio di PawPaw. «Mio Dio» mormorò. Il vecchio era freddo. Giaceva irrigidito, con le mani lungo i fianchi. Josh illuminò il viso del cadavere, vide le chiazze di ustioni scarlatte, simili a voglie bizzarre, sulle guance e sul naso. Le occhiaie erano fori spalancati, marrone scuro. PawPaw era morto da parecchie ore. Josh mosse la
mano per abbassargli le palpebre, ma anch'esse erano state incenerite, vaporizzate. Il geomio squittì. Josh lasciò il cadavere e strisciò verso il rumore. Frugando con il raggio di luce fra i detriti, vide il geomio che si leccava le zampe posteriori ustionate. Il roditore scattò all'improvviso sotto un pezzo di legno incuneato nell'angolo. Josh cercò di strapparlo, ma il legno era ben piantato. Con pazienza Josh cominciò a liberarlo. Il geomio protestò furiosamente contro quell'invasione. Poco alla volta Josh liberò il pezzo di legno e lo tirò via. Nella parete di terra vide un piccolo buco rotondo, a circa sette centimetri dal pavimento. «Trovato!» esclamò. Si allungò sullo stomaco e illuminò il foro, che penetrava per mezzo metro nella parete, piegava a sinistra e continuava fuori portata del raggio di luce. «La galleria arriva certo all'esterno!» Era eccitato come un bimbo il mattino di Natale. Riuscì a infilare il pugno nel buco. La terra era assai compatta: anche a quella profondità, il calore l'aveva resa solida come asfalto. Scavarla sarebbe stato un lavoraccio d'inferno, ma seguire la galleria del geomio avrebbe facilitato l'impresa. Ma era giusto uscire dallo scantinato così presto? Forse le radiazioni li avrebbero uccisi subito. Dio solo sapeva com'era il mondo esterno. Avevano il coraggio di scoprirlo? Josh udì un rumore alle sue spalle. Un rantolo rauco, come di polmoni catarrosi che lottassero per respirare. «Josh?» Anche Swan aveva udito quel rumore. Le aveva fatto rizzare i pochi capelli rimasti. Un attimo prima aveva percepito un movimento nelle tenebre. Josh si girò e la illuminò. Il viso piagato di Swan era rivolto a destra. L'orribile rantolo si ripeté. Josh spostò la torcia... e lo spettacolo ebbe su di lui l'effetto di una mano gelida che gli serrasse la gola. Il cadavere di PawPaw tremava e il rumore spaventoso proveniva da lì. È ancora vivo, pensò Josh, incredulo; ma no, no! Era morto, quando l'ho toccato. Morto! Il cadavere sobbalzò. Lentamente, con le mani rigide lungo i fianchi, si alzò a sedere. La testa si girò, un centimetro alla volta, come quella d'un pupazzo meccanico, verso Josh Hutchins; le orbite vuote cercarono la luce. Il viso ustionato s'increspò, la bocca si sforzò di schiudersi... e Josh pensò che, se quelle labbra si fossero aperte, avrebbe perso anche l'ultimo barlume di sanità mentale. Con un sibilo e un rantolo d'aria, la bocca si aprì.
E ne uscì una voce simile al fruscio del vento fra l'erba secca. Sulle prime era un suono incomprensibile, fievole e remoto; ma diventò più forte e disse: «Pro...teggi...» Le orbite fissarono il raggio di luce, come se contenessero ancora i bulbi oculari. «Proteggi» ripeté la voce terrificante. Le labbra grigie sembravano sforzarsi di formare parole. Josh si ritrasse. Il cadavere rantolò: «Proteggi... la... bambina.» Ci fu un debolo sibilo d'aria. Le orbite del cadavere presero fuoco. Josh, come ipnotizzato, udì Swan mandare un fievole «Oh.» La testa del cadavere divenne una palla di fuoco, il fuoco si diffuse ad avviluppare tutto il corpo in un bozzolo fremente color blu rossastro. Un'intensa ondata di calore lambì il viso di Josh, che alzò la mano a proteggersi gli occhi; quando tornò ad abbassarla, il cadavere si dissolveva dentro il sudario infuocato. Sempre in posizione seduta, ardeva in ogni centimetro. Le fiamme continuarono per una trentina di secondi, poi cominciarono a tremolare e a spegnersi; le suole delle scarpe di PawPaw furono le ultime a bruciare. Rimase una figura di cenere biancastra a forma d'uomo seduto. Il fuoco si spense completamente. La figura di cenere crollò. Il cadavere, completamente incenerito, ossa comprese, formò un mucchietto. Quel che restava di PawPaw Briggs era pronto per la pala. Josh rimase impietrito. Granelli di cenere si mossero pigramente nel raggio luminoso. Sono fuori di testa, pensò Josh. A furia di prendere colpi, sono suonato! Dietro di lui, Swan si morse il labbro e cercò di ricacciare le lacrime di paura. Non devo piangere, si disse; ormai non piango più. Girò lo sguardo sconvolto verso il gigante. Proteggi la bambina. Josh aveva udito le parole. Ma PawPaw era morto da un pezzo. Proteggi la bambina. Sue Wanda. Swan. La cosa che aveva parlato per mezzo della labbra del morto, qualsiasi cosa fosse, ormai era svanita. Rimanevano Josh e Swan, soli. Josh credeva nei miracoli, ma in quelli del genere biblico... la separazione delle acque nel mar Rosso, la trasformazione dell'acqua in vino, la moltitudine sfamata con un cesto di pani e di pesci; e fino a quel momento aveva pensato che l'era dei miracoli fosse passata da un pezzo. Ma forse era già un piccolo miracolo che entrambi avessero trovato la drogheria. E certo era un miracolo che fossero ancora vivi. E un cadavere che si mette a sedere e parla non è spettacolo di tutti i giorni.
Dietro di lui, il geomio raspò il terriccio. Fiuta il cibo che cola dalle scatolette, si disse Josh. Forse anche il buco del geomio era un piccolo miracolo. Non riusciva a staccare lo sguardo dal mucchietto di ceneri biancastre: avrebbe continuato a udire quella voce rantolante, per tutta la vita... lunga o breve che fosse. «Stai bene?» disse a Swan. «Sì» rispose la bambina, con voce appena percettibile. Josh annuì. Se una cosa al di là della sua comprensione voleva che lui proteggesse la bambina, maledizione, l'avrebbe protetta. Dopo un poco, passato il gelo che gli attanagliava le ossa, strisciò a prendere il badile e spense la luce per non consumare la batteria; nel buio, coprì le ceneri di PawPaw con terriccio del campo di granturco. 25 «Sigaretta?» Sister prese una Winston dal pacchetto che le veniva offerto. Doyle Halland azionò un accendino a gas, d'oro, con le iniziali RBR su un lato. Accesa la sigaretta, Sister inalò profondamente il fumo — ormai non aveva senso preoccuparsi del cancro — e lo emise dalle narici. Il fuoco scoppiettava nel caminetto della piccola.casa di periferia dall'intelaiatura in legno, dove avevano trovato riparo per la notte. Le finestre non avevano più i vetri, ma loro erano riusciti a trattenere un po' di calore nella stanza d'ingresso, grazie al fortunato ritrovamento di alcune coperte, un martello e dei chiodi. Avevano inchiodato le coperte sulle finestre più grandi e si erano rannicchiati intorno al focolare. Nel frigorifero avevano trovato un recipiente di cioccolata, una caraffa di plastica con un po' di limonata, un cespo di lattuga. La dispensa conteneva solo mezza scatola d'uva passa e alcuni barattoli con degli avanzi. Ma erano sempre cibo: Sister mise tutto nella borsa, che cominciava a gonfiarsi per le cose che aveva recuperato qua e là. Presto avrebbe fatto bene a procurarsene una seconda. Quel giorno, attraversata la Garden State Parkway, avevano camminato per quasi otto chilometri nella distesa silenziosa dei sobborghi orientali del Jersey, diretti a ovest lungo la Statale 280. Il freddo intenso entrava nelle ossa; il sole era solo una chiazza grigia nel basso cielo marrone smorto screziato di rosso. Ma più s'allontanavano da Manhattan, più trovavano edifici ancora intatti, per quanto tutti privi di vetri alle finestre e sbilenchi
come se li avessero scalzati dalle fondamenta. Poi erano arrivati in una zona di case a due piani, strette una accanto all'altra — centinaia di case, cupe e rovinate come piccole ville gotiche — ciascuna con il suo piccolo prato formato francobollo, bruciato, color delle foglie secche. Dagli alberi, dagli arbusti, era scomparsa ogni traccia di verde: tutto aveva il colore spento, grigio e nero, della morte. Avevano visto le prime automobili non ridotte a rottami. Veicoli abbandonati, con la vernice piena di bolle, il parabrezza in frantumi, fermi qua e là nelle vie; ma solo uno di essi aveva la chiave, e anche quella era spezzata nel nottolino dell'accensione. Avevano proseguito, tremando di freddo, mentre il cerchio grigio del sole si muoveva nel cielo. Una donna, con indosso una leggera veste azzurra, il viso gonfio e livido, seduta alla veranda, si era messa a ridere e li aveva sfottuti, mentre passavano. «Siete in ritardo!» aveva gridato. «Sono andati via tutti! Siete in ritardo!» Teneva in grembo una pistola e loro avevano tirato dritto. A un incrocio, un cadavere con la faccia viola e la testa orribilmente deformata, appoggiato al palo d'una fermata d'autobus, sogghignava al cielo, le mani strette a una valigetta. Nella tasca della giacca del morto Doyle Halland aveva trovato il pacchetto di Winston e l'accendino a gas. Erano andati via davvero tutti. I cadaveri giacevano sui prati, sull'orlo dei marciapiedi, sui gradini d'ingresso; ma chi era ancora vivo e ancora in parte sano di mente, era fuggito dalla zona dell'olocausto. Seduta davanti al fuoco a fumare la sigaretta d'un morto, Sister immaginò l'esodo degli abitanti dei sobborghi, che riempivano freneticamente federe e sacchetti di carta, cacciandovi dentro provviste e tutto quel che potevano portare via, mentre Manhattan si scioglieva al di là delle Palisades. Avevano preso i bambini e abbandonato gli animali domestici, per fuggire a ovest davanti alla pioggia nera, come un esercito di barboni e di accattone. Ma avevano lasciato le coperte, perché era la metà di luglio. Non s'aspettavano che facesse freddo. Volevano solo allontanarsi dal fuoco. Dove scappavano? Dove si sarebbero nascosti? Il freddo li avrebbe sorpresi; a quest'ora molti di loro dormivano profondamente nel suo abbraccio. Alle sue spalle, gli altri dormivano rannicchiati per terra, su cuscini di divano, coprendosi con dei tappeti. Sister aspirò un'altra boccata e guardò il profilo spigoloso di Doyle Halland. Il prete, una Winston fra le labbra, fissava il fuoco; con le dita sottili si massaggiava cautamente la gamba attorno alla scheggia conficcata. Era un vero duro, pensò Sister; nemmeno una volta, in tutto il giorno, aveva chiesto che si fermassero a riposare, an-
che se il dolore l'aveva reso livido in viso. «Allora, cosa intendeva fare?» chiese Sister. «Restare per sempre in quella chiesa?» Lui esitò un momento prima di rispondere. «No» disse. «Non per sempre. Solo finché... non so, fino all'arrivo di qualcuno che andasse da qualche parte.» «Perché non è andato con gli altri?» «Sono rimasto a somministrare l'estrema unzione a tutti quelli che potevo. Sei ore dopo l'esplosione, avevo ripetuto il sacramento tante di quelle volte da perdere la voce. Non riuscivo più a parlare, ma c'erano tanti altri moribondi! Mi supplicavano di salvare la loro anima, di farli andare in Paradiso.» Le scoccò una rapida occhiata, ma distolse in fretta lo sguardo. Aveva occhi grigi con macchie verdi. «Mi supplicavano» ripeté piano. «E non potevo nemmeno parlare, così davo loro il segno della croce e... e li baciavo. Davo loro il bacio della buonanotte e tutti avevano fede in me.» Aspirò una boccata, espirò il fumo e lo guardò muoversi verso il focolare. «Per più di dodici anni St. Matthew era stata la mia chiesa. Continuavo a tornare lì e a camminare fra le macerie, cercando di capire cos'era accaduto. C'erano alcune magnifiche statue e finestre con i vetri istoriati. Dodici anni.» Scosse lentamente la testa. «Mi spiace» disse Sister. «E perché? Lei non c'entra. È soltanto... qualcosa che è sfuggito di mano. Forse nessuno poteva impedirlo.» La guardò di nuovo; questa volta soffermò lo sguardo sulla ferita incrostata di sangue, nel cavo del collo. «E quella?» domandò. «Sembra quasi un crocifisso.» Sister toccò la ferita. «Portavo una catenella con una croce.» «Cos'è accaduto?» «Qualcuno...» Si bloccò. Come poteva descrivelo? La sua mente ancora si ritraeva al ricordo: un pensiero su cui non era sicuro soffermarsi. «Qualcuno me l'ha strappata» concluse. Lui annuì, pensieroso; lasciò uscire il fumo dall'angolo delle labbra. Nella nebbiolina azzurrastra, cercò gli occhi di lei. «Crede in Dio?» «Sì, ci credo.» «Perché?» domandò lui, piano. «Credo in Dio perché un giorno Gesù verrà a prendere i meritevoli nell'Assun...» No, si disse. No. Quella era Sister Creep che cianciava cose udite da altre accattone. Esitò, riordinò i pensieri, poi disse: «Credo in Dio perché sono viva e credo che non ce l'avrei fatta fin qui da sola. Credo in
Dio perché credo che vivrò per vedere un altro giorno.» «Crede perché crede» disse lui. «Non è un bell'esempio di logica.» «Vuol dire che lei non ci crede?» Doyle Halland le rivolse un sorriso vacuo, che piano piano gli scivolò via dal viso. «Crede davvero, signora, che Dio tenga l'occhio su di lei? Crede davvero che a Lui importi se vive o non vive ancora un giorno? Cosa la rende diversa dai cadaveri incontrati oggi? Dio s'è forse interessato a loro?» Mostrò sul palmo teso l'accendino con le inziali. «E questo signor RBR? È andato in chiesa, oggi? Non era un bravo figliolo?» «Non so se Dio tiene un occhio su di me» replicò Sister. «Ma spero di sì. Spero di essere abbastanza importante. Spero che tutti noi lo siamo. In quanto ai morti... forse loro erano i fortunati. Non so.» «Forse» convenne lui. Rimise in tasca l'accendino. «Solo, non so quali ragioni ci siano per continuare a vivere. Dove andiamo? Perché ci andiamo? Cioè... qualsiasi luogo è buono, per morire, giusto?» «Non ho intenzione di morire presto. Credo che Artie voglia tornare a Detroit. Andrò lì con lui.» «E dopo? Ammesso che arrivi fino a Detroit.» Sister alzò le spalle. «Come ho detto, non intendo morire. Continuerò finché avrò la forza di camminare.» «Nessuno ha intenzione di morire» replicò lui. «Ero ottimista, molto tempo fa. Credevo nei miracoli. Ma sa cos'è successo? Sono diventato più vecchio! E il mondo è diventato più cattivo. Ero al servizio di Dio e credevo in Lui, con tutto il mio cuore, fino all'ultimo grammo di fede.» Socchiuse leggermente gli occhi, come se guardasse qualcosa al di là del fuoco. «Come le ho detto, sono cose di molto tempo fa. Ero un ottimista... ora sono solo un opportunista, immagino. Sono bravissimo a giudicare da che parte soffia il vento... e devo ammettere che in questo momento giudico molto, molto debole Dio, o il potere che chiamiamo Dio. Una candela agli sgoccioli, se così posso esprimermi, circondata dalle tenebre. E le tenebre si fanno più vicine.» Rimase immobile, a fissare il fuoco. «Non sembrano parole da prete.» «E infatti non mi sento più prete. Mi sento solo... un uomo sfinito, con la veste nera e uno stupido colletto bianco sporco. Le mie parole la sconvolgono?» «No. Non credo che qualcosa possa ancora sconvolgermi.» «Bene. Ciò significa che lei pure diventa meno ottimista, no?» Emise un borbottio. «Mi spiace. Non sembro Spencer Tracy nella Città dei ragazzi,
vero? Ma quelle estreme unzioni... mi uscivano di bocca come cenere e non riesco a togliermi quel maledetto sapore.» Lo sguardo scivolò sulla sacca di Sister. «Cos'è quell'oggetto che ho visto ieri notte? Quel cerchio di vetro.» «Una cosa che ho trovato nella Quinta Avenue.» «Oh. Posso vederla?» Sister la tolse dalla borsa. Le gemme imprigionate nel cerchio di vetro lampeggiarono dei colori dell'arcobaleno. I riflessi danzarono sulle pareti della stanza e variegarono il viso di Sister e di Doyle Halland. L'uomo trattenne il fiato, perché era la prima volta che riusciva a dare una buona occhiata al cerchio di vetro. Spalancò gli occhi e le pupille rifletterono i colori. Allungò la mano per toccarlo, ma la ritrasse all'ultimo istante. «Che cos'è?» «Solo vetro e pietre preziose, fusi insieme. Ma... ieri notte, poco prima del suo arrivo, questo cerchio ha fatto... ha fatto una cosa meravigliosa, una cosa che ancora non so spiegare.» Gli parlò di Julia Castillo e di come si fossero capite, mentre tutt'e due toccavano il cerchio di vetro. Lui ascoltò attentamente. «Beth dice che è magia. Non so se è vero; ma so che è un oggetto assai bizzarro. Guardi come segue il battito del mio cuore. E come brilla! Non so cosa sia, ma di certo non lo butto!» «Una corona» disse lui, piano. «Ho udito Beth dire che potrebbe essere una corona. Sembra un diadema, vero?» «Credo di sì. Diverso dai diademi nelle vetrine di Tiffany, però. Voglio dire... è tutto storto, ha una forma insolita. Ricordo che stavo per cedere, volevo morire. Poi l'ho trovato, e mi ha fatto pensare che... Non so, è un'idea stupida, immagino.» «Continui» la incitò lui. «Mi ha fatto pensare alla sabbia» disse Sister. «La sabbia è forse la roba che vale meno al mondo; eppure guardi cosa può diventare la sabbia, nelle mani giuste.» Passò le dita sulla superficie vellutata del vetro. «Anche la cosa più inutile del mondo può essere bella. Ci vuole il tocco giusto. Ma vedere questo magnifico oggetto, tenerlo fra le mani, mi ha fatto pensare che neppure io ero poi così priva di valore. Mi ha fatto desiderare di muovere il culo e vivere. Fino a quel momento ero una povera pazza, ma da quando ho trovato questo cerchio... sono rinsavita. Forse una parte di me è ancora pazza, non so; ma voglio credere che tutta le bellezza del mondo non è ancora morta. Voglio credere che si può salvare la bellezza.» «Non ne ho vista molta, negli ultimi giorni» replicò lui. «A parte que-
st'oggetto. Ha ragione. È una cianfrusaglia molto, molto bella.» Sorrise debolmente. «Oppure una corona. O quel che le piace credere.» Sister scrutò l'interno del cerchio di vetro. Sotto la superficie, i fili di metalli preziosi brillarono come stelle filanti. Il pulsare d'un grosso topazio marrone scuro attirò la sua attenzione. Sister sentiva che Doyle Halland la guardava, udiva lo scoppiettio del fuoco e il sibilo del vento, ma il topazio marrone e il suo pulsare ipnotico — così morbido, così regolare — le riempiva la vista. Oh, pensò, che cosa sei? Che cosa sei? Che... Batté le palpebre. Non reggeva più fra le mani il cerchio di vetro. E non era più seduta davanti al fuoco nella casa del New Jersey. Sentiva il soffio del vento, l'odore secco e bruciato della terra e... di altro. Di cosa? Sì. Ora lo riconobbe. Odore di granturco bruciato. Si trovava in una vasta pianura; il cielo era una massa turbinante di nubi grigio sporco, squarciate dalle striature blu elettrico dei fulmini. Attorno a lei si estendevano steli carbonizzati di granturco, a migliaia; e l'unica caratteristica di quel deserto orrendo era l'ampia montagnola che sembrava una tomba, un centinaio di metri più avanti. Sto sognando, pensò; sono sempre nel New Jersey. Questo è un paesaggio di sogno, una fantasia della mia mente, nient'altro. Posso svegliarmi quando voglio e mi ritroverò nel New Jersey. Guardò la bizzarra montagnola e si chiese fino a che punto potesse spingere i limiti del sogno. Se avanzo d'un passo, pensò, andrà tutto in pezzi come uno scenario cinematografico? Decise di scoprirlo, mosse un solo passo. Il paesaggio di sogno rimase immutato. Se questo è un sogno, si disse, allora, perdio, cammino in sogno ben lontano dal Jersey, perché sento il vento in faccia! Camminò sulla terra secca e sui gambi di granturco in direzione della montagnola; non sollevava polvere, aveva la sensazione di galleggiare sul paesaggio come un fantasma, non di camminare realmente, pur sapendo che le gambe si muovevano. S'avvicinò alla montagnola di terriccio e di migliaia di steli bruciati, di pezzi di legno e di pannelli di cemento, tutti ammassati insieme. Nelle vicinanze c'era un rottame metallico che forse un tempo era stato un'automobile; un altro, simile, giaceva più avanti, a una quindicina di metri dal primo. Altri pezzi di metallo, di legno e di detriti erano sparpagliati tutt'intorno: qui c'era un oggetto che sembrava l'ugello d'una pompa di benzina, là il coperchio bruciato di una valigia. Brandelli
di vestiti — vestiti da bambino —erano sparsi intorno. Sister passò davanti — camminando lungo il sentiero del sogno, si disse — a una ruota di carro semisepolta nel terreno e ai resti di una insegna con lettere appena decifrabili: P... A... W, Si fermò a circa venti metri dalla montagnola simile a una tomba. Un sogno assai buffo, pensò; sognassi almeno una grossa bistecca e un gelato alla frutta candita. Guardò da ogni parte, vide solo desolazione. No, una cosa, per terra, attirò il suo sguardo... una piccola figura di qualche genere. Sister avanzò in sogno da quella parte. Una bambola, capì, quando si fu avvicinata. Una bambola con un brandello di pelliccia azzurra ancora attaccato al corpo e occhi di plastica con piccole pupille nere che, lo sapeva, si sarebbero mosse se l'avesse raccolta. Sister si fermò davanti alla bambola. Le sembrava d'averla già vista. Pensò a sua figlia, appollaiata davanti alla tivù. Uno dei suoi programmi preferiti era la replica d'un vecchio spettacolo per bambini, "Sesame Street". E Sister rivide sua figlia indicare allegramente lo schermo gridando: «Cooookies!» La Cookie Monster. Sì. Era proprio quella, lì, ai suoi piedi. Qualcosa, nella presenza della bambola in quella pianura desolata, colmò d'orribile tristezza il cuore di Sister. Dov'era la bambina che aveva avuto quella bambola? Soffiata via nel vento? O sepolta, morta, sotto terra? Sister si chinò a raccogliere la Cookie Monster. E la mano attraversò la bambola... come se la scena, o lei, fossero di fumo. È un sogno, pensò Sister. Non è reale. È un miraggio dentro la mia testa, l'attraverso nel sentiero del sogno. Si scostò d'un passo: meglio che la bambola rimanesse lì, casomai la bambina che l'aveva smarrita capitasse un giorno da quelle parti. Sister serrò gli occhi. Ora voglio tornare, pensò; voglio tornare dov'ero, lontano da qui. Molto lontano da qui. Molto lon... «...per i suoi pensieri.» Sister trasalì alla voce: le parve che le avessero mormorato proprio nell'orecchio. Girò la testa. Il viso di Doyle Halland incombeva su di lei, preso fra la luce del fuoco e il bagliore delle gemme. «Cosa?» «Ho detto, un soldo per i suoi pensieri. Dov'era?» Già, dove, si domandò Sister. «Molto lontano da qui» rispose. Tutto era come prima. La visione era svanita, ma le parve di sentire ancora l'odore
del granturco bruciato e il vento sul viso. La sigaretta si consumava fra le dita. Sister ne trasse l'ultima boccata, gettò il mozzicone nel fuoco. Rimise a posto il cerchio di vetro, tenne la borsa stretta a sé. Dietro le palpebre, vedeva ancora la montagnola di terriccio, la ruota di carro, i rottami delle due automobili, la Cookie Monster dalla pelliccia azzurra. Dov'ero?, si domandò... e non trovò risposta. «Domani dove andiamo?» disse Halland. «A ovest. Continuiamo verso ovest. Forse domani troveremo un'auto con la chiave nell'accensione. Forse troveremo altra gente. Per un po' non dovremo preoccuparci del cibo. Ne troveremo strada facendo. Tanto, non sono mai stata schizzinosa nel mangiare.» L'acqua, però, era sempre un bel guaio. Lì in casa i rubinetti della cucina e del bagno erano secchi: quasi certamente le onde d'urto avevano spaccato le condutture d'acqua in tutta l'area metropolitana. «Crede davvero che le cose siano migliori, da un'altra parte?» Halland inarcò le sopracciglia bruciate. «I venti spargeranno le radiazioni per tutto il paese. Se esplosioni, incendi e radiazioni non uccideranno tutti, ci penseranno fame, sete, freddo. Direi che in fin dei conti non c'è posto dove andare, no?» Sister fissò il fuoco. «Come ho già detto, nessuno è obbligato a venire con me, se non vuole» rispose infine. «Ora dormirò un poco. Buonanotte.» Strisciò dove gli altri erano rannicchiati sotto i tappeti e si distese fra Artie e Beth. Cercò di prendere sonno, mentre fuori il vento ululava contro le pareti. Doyle Halland toccò con prudenza la scheggia conficcata nella gamba. Sedeva un po' chino in avanti e continuava a spostare lo sguardo da Sister alla borsa che la donna stringeva come se volesse difenderla da tutto. Borbottò, pensieroso; fumò la sigaretta fino al filtro, buttò il mozzicone nel fuoco. Poi si sistemò in un angolo, davanti a Sister e agli altri; li fissò forse per cinque minuti buoni, con occhi scintillanti nella penombra, prima di appoggiare la schiena contro la parete e addormentarsi seduto. 26 Cominciò con una voce distorta che chiamava da dietro la porta barricata della palestra: «Colonnello? Colonnello Macklin?» Macklin, in ginocchio nel buio, non rispose. Poco lontano, Roland Cro-
ninger tolse la sicura all'Ingram ; udiva, alla sua destra, il respiro rauco di Warner. «Sappiamo che è lì dentro» continuò la voce. «Abbiamo guardato in ogni posto. Si è trovato una bella fortezza, vero?» Appena Roland aveva terminato di riferire l'incidente nella cafeteria, si erano messi al lavoro per barricare la porta della palestra, con pietre, cavi, pezzi d'attrezzature Nautilus. Il ragazzo aveva avuto la buona idea di sparpagliare nel corridoio cocci di vetro, per ferire i predoni, se fossero giunti nel buio strisciando sulle mani e sulle ginocchia. Un attimo prima della voce, Macklin aveva udito imprecazioni e gemiti soffocati: i cocci di vetro avevano fatto il loro dovere. Nella sinistra impugnava un'arma di fortuna ricavata dagli attrezzi ginnici: una sbarra ricurva di metallo, lunga sessanta centimetri, con trenta centimetri di catena e una ruota dentata che pendeva all'estremità come una mazza da guerra. «Il ragazzo è lì dentro?» s'informò la voce. «Cerco te, ragazzo. Mi hai fatto davvero un bel servizio, piccolo bastardo.» Ora Roland sapeva che Schorr se l'era cavata; ma, a giudicare dalla voce, il sergente aveva certo perso mezza bocca. A Teddybear Warner saltarono i nervi. «Andatevene!» gridò. «Lasciateci in pace!» Oh, merda, pensò Macklin; adesso sanno che siamo qui! Ci fu un lungo silenzio. Poi: «Devo dare da mangiare a gente affamata, colonnello. Sappiamo che lì dentro avete un sacco pieno di viveri. Non è giusto che li teniate tutti per voi». Visto che Macklin non rispondeva, la voce distorta di Schorr ruggì: «Dacci il cibo, figlio di puttana!» Macklin sentì una stretta alla spalla: sembrava un artiglio duro e freddo che gli penetrava nelle carni. «Più bocche, meno cibo» sussurrò il Soldato Ombra. «Tu sai cosa vuol dire la fame, vero? Ricordi il pozzo, in Vietnam? Ricordi cosa facevi, per avere un pugno di riso?» Macklin annuì. Ricordava, eccome! Ricordava che sarebbe morto, se non avesse avuto più di un quarto della piccola focaccia di riso, ogni volta che le guardie Cong ne buttavano giù una; e ricordava che anche gli altri — McGee, Ragsdale e Mississippi — già potevano leggere la propria lapide. Un uomo ha una certa luce negli occhi, quando viene spinto contro la parete e spogliato della sua umanità; l'intera faccia cambia, come se la maschera si apra a mostrare il vero animale che c'è dietro. E quando Macklin aveva deciso che cosa doveva fare, il Soldato Ombra gli aveva suggerito il modo.
Ragsdale era il più debole. Era stato semplice premergli la faccia nel fango, mentre gli altri dormivano. Ma un terzo della focaccia non bastava, aveva detto il Soldato Ombra. Macklin aveva strangolato McGee, così erano rimasti in due. Mississippi era stato il più duro da uccidere. Era ancora forte e aveva continuato a respingere i tentativi di Macklin. Però il colonnello aveva perseverato; alla fine Mississippi aveva perso la ragione, si era accucciato in un angolo a invocare Gesù come un bambino isterico. Era stato facile, allora, afferrarlo per il mento e spezzargli il collo, con un violento strattone. Così tutto il riso era suo e il Soldato Ombra aveva detto che aveva agito bene, molto bene. «Mi sente, colonnello?» lo schernì Schorr, al di là della barricata. «Ci dia il cibo e ce ne andremo!» «Stronzate» rispose Macklin. Ormai non serviva più nasconderei. «Abbiamo armi, qui, Schorr.» Desiderò disperatamente di fargli credere che avessero ben più di un solo Ingram, di un paio di bastoni metallici, di una mannaia e di qualche sasso acuminato. «Andatevene!» «Abbiamo portato con noi alcuni suoi giocattoli, colonnello. Non credo che voglia scoprire quali.» «È solo un bluff.» «Ah, sì? Bene, signore, le dico solo questo: ho trovato il modo per andare nel garage. Non c'è rimasto molto. Quasi tutto è fracassato, non si può arrivare alla manovella del ponte levatoio. Ma ho trovato quel che mi serviva, colonnello, e non me ne frega un cazzo di quante armi da fuoco ha lì dentro. Allora: ci dà il cibo, o ce lo prendiamo?» «Roland» disse Macklin in tono pressante. «Pronto a sparare.» Il ragazzo puntò l'Ingram in direzione della voce di Schorr. «Quel che abbiamo, ce lo teniamo» dichiarò Macklin. «Trovatevi il cibo da soli, come abbiamo fatto noi.» «Non ce n'è più!» sbraitò Schorr. «Brutto figlio di puttana, non ammazzerai anche noi come hai ammazzato tutti gli altri in questa maledetta...» «Fuoco» ordinò Macklin. Senza la minima esitazione, Roland premette il grilletto. Il mitra gli saltò fra le mani, mentre i traccianti sibilavano nella palestra come stelle filanti scarlatte. Colpirono la barricata e la parete intorno alla porta, schioccando e sibilando selvaggiamente a ogni rimbalzo. I brevi sprazzi di luce mostrarono un uomo — non Schorr — che tentava di stri-
sciare nello spazio fra il mucchio di macerie e la parte superiore della porta. L'uomo iniziò a ritirarsi, alla prima raffica, ma all'improvviso mandò un grido, perché si era impigliato nel vetro e nei cavi metallici predisposti da Roland. Colpito dai proiettili, si dibatté, impigliandosi maggiormente. Le grida cessarono. Spuntarono delle braccia, afferrarono il corpo e lo spostarono nel corridoio. Roland lasciò il grilletto. Aveva le tasche piene di caricatori e il colonnello l'aveva addestrato-a cambiarli in fretta. Il frastuono del mitra svanì. I predoni tacevano. «Se ne sono andati!» gridò Warner. «Li abbiamo respinti!» «Silenzio!» ammonì Macklin. Scorse nel corridoio un breve bagliore... forse un fiammifero. L'istante successivo, un oggetto ardente superò la barricata. Toccò terra, con rumore di vetro infranto. Macklin ebbe un secondo per sentire odore di benzina, prima che la molotov esplodesse, schizzando nella palestra una pioggia di fuoco. Abbassò la testa, dietro il mucchio di macerie che gli serviva da riparo, mentre schegge di vetro gli ronzavano intorno come calabroni. Le fiamme gli passarono sulla testa. Quando cessarono, una pozza di benzina bruciava a meno di cinque metri da lui. Anche Roland si era tuffato al riparo, ma alcuni frammenti di vetro gli ferirono la guancia e la spalla. Alzò la testa e sparò di nuovo nel vano della porta; i proiettili colpirono la parte alta della barricata e rimbalzarono senza fare danni. «T'è piaciuta, Macklin?» sfotté Schorr. «Abbiamo trovato un po' di benzina, nei serbatoi delle macchine. E anche stracci e bottiglie di birra. Ne abbiamo preparate altre. Contento?» La luce d'un fuoco tremolò sulle pareti della palestra in rovina. Macklin non se l'era aspettato. Schorr e gli altri potevano starsene dietro la barricata e tirare le bastarde molotov, senza esporsi. Un attrezzo metallico grattò contro i detriti che bloccavano la porta e spinse via alcune pietre. Una seconda bottiglia di benzina, con uno straccio ardente infilato nel collo, volò nella palestra ed esplose accanto al capitano Warner, accucciato dietro una montagnola di pietre, di metallo piegato e di pesi da sollevamento. La benzina schizzò come olio bollente dalla padella. Il capitano urlò, colpito dai frammenti di vetro. Roland mitragliò il vano della porta, mentre una terza molotov cadeva fra lui e il colonnello Macklin; fu costretto a saltare di lato, mentre la benzina in fiamme gli schizzava le gambe. Schegge di vetro si conficcarono nel giubbotto di Macklin, una lo colpì sopra il sopracciglio destro e gli piegò la testa, con la forza di un pugno.
I detriti della palestra — materassini, asciugamani, mattonelle del soffitto, tappezzeria, pannelli in legno — prendevano fuoco. Fumo e vapori di benzina turbinavano nell'aria. Quando Roland alzò di nuovo gli occhi, scorse sagome confuse scavare freneticamente sulla barricata Sparò una raffica e quelle si ritirarono in fretta nel corridoio, come scarafaggi nella tana. Una bottiglia di Dr. Pepper, piena di benzina, scoppiò in risposta; la folata di fiamme bruciacchiò il viso di Roland e gli tolse l'aria dai polmoni. Il ragazzo sentì un dolore acuto alla sinistra: la mano era coperta di fiamme; chiazze circolari grosse come un dollaro d'argento gli bruciavano il braccio. Con un grido di terrore barcollò fino al secchio pieno d'acqua della toilette. Le fiamme crescevano, si univano, avanzavano nella palestra. Altri pezzi di barricata crollarono. Macklin vide entrare i predoni. Li guidava Schorr, con uno straccio insanguinato intorno al viso ferito, una luce selvaggia negli occhi. Dietro di lui venivano tre uomini e una donna; impugnavano tutti armi primitive: pietre dai bordi taglienti, bastoni ricavati dai resti del mobilio. Mentre Roland si ripuliva freneticamente dalla benzina in fiamme, Teddybear Warner barcollò fuori del riparo; cadde sulle ginocchia davanti a Schorr, sollevò le mani a implorare pietà. «Non uccidetemi!» supplicò. «Sono con voi. Lo giuro davanti a Dio, sono con...» Schorr conficcò il bastone appuntito nella gola di Warner. Anche gli altri si avventarono sul capitano, picchiando e prendendo a calci il corpo che si dibatteva infilzato nella lancia improvvisata. Le fiamme proiettarono sulle pareti ombre simili a quelle di ballerini infernali. Poi Schorr strappò la lancia dalla gola di Warner e si girò di scatto verso il colonnello Macklin. Roland strinse contro il fianco l'Ingram. Una mano all'improvviso lo afferrò per la nuca, tirandolo in piedi. Scorse la sagoma confusa di un uomo lacero che incombeva su di lui e si apprestava a schiacciargli con una pietra la testa. Schorr caricò Macklin. Il colonnello si alzò barcollando per difendersi con quella sorta di mazza moderna. L'uomo che aveva afferrato Roland emise un suono soffocato. Portava occhiali dalle lenti incrinate, tenuti insieme con un cerotto alla radice del naso. Schorr fintò. Macklin perdette l'equilibrio, cadde, rotolò su se stesso, mentre la lancia gli graffiava il fianco. «Roland, aiuto!» gridò. «Oh... Dio mio» ansimò l'uomo con gli occhiali incrinati. «Roland... sei vivo...»
A Roland parve di riconoscere la voce dell'uomo, ma non ne fu sicuro. Non c'era più niente di sicuro, tranne il fatto che lui era un Cavaliere del Re. Gli eventi accaduti in precedenza erano soltanto ombre confuse, eteree, irreali: la vita reale era questa. «Roland!» disse l'uomo. «Non riconosci tuo...» Roland sollevò l'Ingram. La testa dell'uomo esplose. Lo sconosciuto barcollò all'indietro, mentre denti spezzati tintinnarono in una maschera di sangue, e cadde fra le fiamme. Gli altri si gettarono sul sacco di cibo, lo strapparono con furia selvaggia, lottarono per i rifiuti. Roland si girò verso Schorr e il colonnello Macklin. Schorr tentava con la lancia di trafiggere il colonnello, mentre Macklin usava la mazza per parare i colpi di punta. Ma era spinto costantemente in un angolo, dove il fuoco tremolante rivelava, nella parete piena di crepe, un largo condotto d'aria con la griglia metallica penzolante, trattenuta da una sola vite. Roland si apprestò a sparare, ma il fumo turbinò intorno ai due e lui ebbe paura di colpire il Re. Tese il dito sul grilletto, ma poi qualcosa lo colpì alla base della schiena e lo mandò a cadere faccia a terra, dove giacque cercando di riprendere fiato. Il mitra gli era sfuggito di mano. La donna dagli occhi folli e cerchiati di rosso, che aveva tirato la pietra, strisciò sulle mani e sulle ginocchia per prenderlo. Macklin vibrò la mazza contro la testa di Schorr. Quest'ultimo schivò, inciampando nelle pietre e nei detriti ardenti. «Forza!» gridò Macklin. «Vieni a prendermi!» La donna con gli occhi da pazza strisciò sopra Roland e raccolse il mitra. Roland era intontito, ma capì che lui e il Re sarebbero morti, se lei avesse usato l'arma. Le afferrò il polso; lei strillò e si dibatté, cercando di morderlo in viso. Con la mano libera tentò di cavargli gli occhi. Roland girò la testa per non farsi accecare. La donna si liberò il polso e senza smettere di urlare puntò il mitra. Sparò. I traccianti striarono la palestra. Ma non aveva mirato al colonnello Macklin. I due uomini che lottavano per impossessarsi del sacco con il cibo furono centrati dai proiettili e sobbalzarono come se avessero le scarpe in fiamme. Caddero a terra. La donna strisciò verso gli avanzi, il mitra stretto al seno. Il rumore dell'Ingram aveva fatto girare la testa a Schorr. Macklin si tuffò, lo colpì al fianco. Le costole di Schorr si ruppero con lo schiocco di bastoncini calpestati. Il sergente mandò un grido, cercò di arretrare, inciampò, cadde sulle ginocchia. Macklin sollevò la mazza e gliela calò in piena
fronte: il cranio di Schorr s'incavò come la sagoma di una conchiglia Nautilus. Macklin, in piedi di fronte a lui, lo colpì ancora e ancora. La testa di Schorr cambiò forma. Roland si era rialzato. Poco lontano, la pazza si riempiva la bocca di cibo bruciato. Le fiamme si facevano più alte, il calore aumentava, il fumo denso turbinò al di là di Macklin; ormai il colonnello non aveva più forza, nel braccio sinistro: lasciò cadere la mazza e diede a Schorr un ultimo calcio nelle costole. Si accorse allora del fumo. Lo guardò scivolare nel condotto d'aria, che era alto circa novanta centimetri e largo altrettanto... quanto bastava a strisciarvi dentro. Gli occorse un minuto per schiarisi la mente intontita dalla fatica. Il fumo era risucchiato nel condotto. Risucchiato. Dove finiva? Sulle pendici del Blue Dome? Nel mondo esterno? Ormai se ne fregava del sacco con i rifiuti, se ne fregava di Schorr, della pazza, dell'Ingram. C'era una via per uscire da lì! Strappò la grata e strisciò nel condotto, che saliva a un angolo di quaranta gradi. Trovò con i piedi la testa dei bulloni nella superficie d'alluminio e riuscì a spingersi in su. Non c'era luce, avanti a lui; il fumo rischiava di soffocarlo; ma quella forse era la loro unica possibilità di uscire. Roland lo seguì, avanzando a poco a poco dietro il Re, in questa svolta nuova del gioco. Alle loro spalle, dalla palestra in fiamme provenne la voce della pazza: «Dove ve ne andate? Fa caldo, qui... troppo caldo. Dio sa se sono venuta fin qui per arrostire in un pozzo di miniera!» Qualcosa, in quella voce, toccò il cuore di Roland. Lui ricordava una voce simile a quella, molto tempo prima. Continuò a muoversi; ma quando la pazza urlò e il lezzo di carne bruciata penetrò nel condotto, fu costretto a fermarsi e a tapparsi le orecchie, perché le urla facevano roteare il mondo troppo velocemente e lui ebbe paura di essere sbalzato via. Dopo un poco, le grida cessarono; Roland udì solo lo strisciare costante del Re nel condotto. Fra colpi di tosse, con gli occhi che lacrimavano per il fumo, Roland si spinse avanti. Giunsero in un punto in cui il condotto era schiacciato e bloccato. A tentoni Macklin trovò un altro condotto che si biforcava dal primo: era più stretto e gli serrò le spalle, quando il colonnello vi s'introdusse. Il fumo, sempre soffocante, bruciava i polmoni. Era come arrampicarsi in un camino con il fuoco acceso nel focolare. Roland si domandò se si sentiva così, Babbo Natale. Più avanti, le dita di Macklin toccarono fibra di vetro. Faceva parte del-
l'impianto di filtri e di diaframmi per purificare l'aria che i residenti di Casa Terra avrebbero respirato in caso d'attacco nucleare. Era certo un bell'aiuto, pensò Macklin, torvo. Strappò il filtro e continuò a strisciare. Il condotto curvava gradualmente verso sinistra. Macklin fu costretto a strappare altri filtri e diaframmi simili a persiane, di gomma e di nailon. Aveva difficoltà a respirare, udiva gli ansiti di Roland, alle sue spalle. Il ragazzo era davvero un duro, pensò. Chiunque avesse la voglia di vivere di quel ragazzo, era una persona su cui fare affidamento, anche se sembrava un moscardino di quaranta chili. Macklin si fermò. Aveva toccato metallo, davanti a lui: lame collegate a un mozzo centrale. Uno dei ventilatori che aspiravano aria dall'esterno. «Dobbiamo essere vicini alla superficie!» disse. Nel buio, il fumo gli passava ancora davanti. «Dobbiamo essere vicini!» Piazzò la mano contro il mozzo del ventilatore e spinse finché i muscoli della spalla non scricchiolarono. Il ventilatore, ben imbullonato, non si mosse. Maledizione, imprecò Macklin. Maledizione! Spinse di nuovo, più forte che poteva, ma riuscì solo a sfinirsi. Il ventilatore non li avrebbe lasciati uscire. Macklin posò la guancia contro l'alluminio fresco e cercò di pensare, cercò di ricordare i disegni costruttivi di Casa Terra. Com'era prevista, la manutenzione dei ventilatori? Pensa! Ma nella mente non riusciva a vedere bene i disegni: continuavano a tremolare, a cadere a pezzi. «Ascolti!» esclamò Roland. Macklin tese l'orecchio. Non udì niente, a parte il battito del suo cuore e il movimento doloroso dei polmoni. «Sento il vento!» disse Roland. «Sento il vento muoversi lassù!» Allungò la mano, sentì il passaggio dell'aria. Il debole e stridulo sibilo del vento proveniva direttamente dall'alto. Roland passò la mano sulla parete accartocciata, prima a destra, poi a sinistra... e trovò pioli di ferro. «C'è una via per salire! Un altro condotto, proprio sopra la nostra testa!» Afferrò il piolo più basso e si trascinò in alto, piolo dopo piolo, fino a trovarsi in posizione eretta. «Salgo su» disse a Macklin. E cominciò la salita. L'ululato del vento era più intenso, ma non si vedeva luce. Roland salì per circa sei metri, quando con la mano toccò un volantino metallico proprio sopra di lui. A tentoni trovò una superficie di cemento piena di crepe. Doveva trattarsi del coperchio di un portello, simile a quelli sulla torretta dei sommergibili, che si apriva e chiudeva girando il volantino. Ma in quel punto il forte risucchio dell'aria lasciava supporre che l'esplosione avesse
scardinato il portello, che non era più sigillato ermeticamente. Roland afferrò il volantino, provò a girarlo. Non si muoveva. Attese un minuto, raccogliendo forze e determinazione. Se mai avesse avuto bisogno del potere di un Cavaliere del Re, questa era proprio la volta buona. Attaccò di nuovo il volantino; stavolta gli parve che si muovesse di un centimetro, ma non ne fu sicuro. «Roland» chiamò da sotto il colonnello Macklin. Finalmente era riuscito a raffigurarsi con chiarezza i disegni costruttivi. Il pozzo verticale era usato dagli operai per cambiare i filtri d'aria e i diaframmi di quel particolare settore. «Dovrebbe esserci una botola di cemento, lassù! Sbuca alla superficie!» «L'ho trovata! Cerco di aprirla!» Si sorresse con un braccio attorno al piolo più vicino, afferrò il volante e cercò di girarlo, con ogni grammo di forza rimastogli in corpo. Tremava per la tensione, gli occhi chiusi, goccioline di sudore sul viso. Forza, disse, rivolgendosi al Fato, a Dio, al Diavolo, a qualsiasi cosa fosse responsabile di queste circostanze. Forza! Continuò a impegnarsi, deciso a non cedere. Il volantino girò. Due centimetri. Poi cinque. Dieci. Roland gridò: «Ce l'ho fatta!» e si mise a ruotare in fretta il volantino, con il braccio dolorante. Una catena sferragliò contro i denti di una ruota; ora il vento ululava. Roland capì che il coperchio cominciava a sollevarsi, ma non vide alcuna luce. Aveva fatto compiere al volante quattro giri completi, quando ci fu un gemito acutissimo di vento; l'aria, piena di granelli pungenti, turbinò nel condotto e quasi lo strappò via. Roland si aggrappò con entrambe le mani a un piolo, per resistere al vento. Era stanco e indebolito, ma se avesse mollato la presa, la tempesta l'avrebbe scagliato in alto nel buio come un aquilone e non l'avrebbe più posato a terra. Gridò aiuto, ma non riuscì nemmeno a udire la propria voce. Un braccio senza mano gli si strinse alla cintola. Macklin lo reggeva. Insieme scesero lentamente i pioli e si ritirarono nel condotto laterale. «Ce l'abbiamo fatta!» urlò Macklin, sopra l'ululato del vento. «È l'uscita!» «Ma non possiamo sopravvivere là fuori! C'è un tornado!» «Non durerà molto! Si esaurirà. Ce l'abbiamo fatta!» Iniziò a piangere, ma ricordò che disciplina e autocontrollo fanno l'uomo. Non aveva cognizione del tempo, non aveva idea di quanto ne fosse passato dal primo momento in cui aveva visto i puntini sullo schermo radar. Certo era notte, ma
non sapeva di quale giorno. Con il pensiero andò alle persone ancora nelle viscere di Casa Terra, morte o impazzite o perdute nel buio. Pensò a tutti gli uomini che l'avevano seguito nell'impresa, che avevano avuto fiducia in lui, che l'avevano rispettato. Piegò le labbra in una smorfia. Che pazzia, si disse. Aveva perduto tutti quei soldati esperti, tutti quegli ufficiali leali, e al fianco gli era rimasto solo questo ragazzino pelle e ossa dagli occhi miopi. Che scherzo del destino! Di tutto l'esercito di Macklin rimaneva solo una scamorza di studentello delle medie! Ma ricordò con quale fredda logica Roland avesse suggerito l'impiego dei civili nel tentativo di sbloccare il corridoio, con quanta calma avesse eseguito il compito giù nel pozzo dove lui aveva lasciato la mano. Il ragazzo aveva fegato. Più che fegato: qualcosa, in Roland Croninger, procurava a Macklin un senso di disagio, come quando si sa che una piccola creatura letale si nasconde sotto una pietra sulla quale sei obbligato a passare. L'aveva letta negli occhi di Roland, quando il ragazzo gli aveva raccontato dell'imboscata tesagli da Schorr nella cafeteria; l'aveva udita nella voce di Roland, quando il ragazzo aveva detto: «Le mani le abbiamo». Macklin era sicuro di una sola cosa: preferiva avere il ragazzo al fianco, anziché alle spalle. «Usciremo quando la tempesta si sarà calmata!» gridò. «Vivremo!» E allora gli vennero le lacrime agli occhi, ma rise, così il ragazzo non avrebbe capito. Una mano gelida gli toccò la spalla. Macklin smise di ridere. La voce del Soldato Ombra era molto vicina al suo orecchio. «Giusto, Jimbo. Vivremo.» Roland rabbrividì. Il vento era freddo e lui si strinse contro il Re per scaldarsi. Il Re esitò... poi gli posò sulla spalla il braccio privo di mano. Presto o tardi la tempesta sarebbe cessata, Roland lo sapeva. Il mondo poteva aspettare. Ma sarebbe stato un mondo diverso. Un gioco diverso. Tutto diverso da quello appena terminato. Nel nuovo gioco, le possibilità, per un Cavaliere del Re, sarebbero state infinite: anche se le atomiche avessero raso al suolo tutte le città, ci sarebbero pur stati gruppi di superstiti vaganti nelle terre desolate o rintanati nel sottosuolo. In attesa d'un nuovo capo. In attesa di uno abbastanza forte da piegarli alla sua volontà, da farli muovere a comando nel nuovo gioco appena iniziato. Sì. Sarebbe stato il più grande gioco del Cavaliere del Re. Lo scenario avrebbe compreso città in rovina, città fantasma, foreste carbonizzate, de-
serti dove un tempo c'erano praterie. Anche lui, come ogni altro, avrebbe imparato le regole durante lo svolgimento del gioco. Ma lui era già un passo avanti agli altri, perché sapeva che il più intelligente, il più forte, avrebbe avuto enorme potere. Un potere da usare come un'ascia sacra sospesa sulla testa dei deboli. E forse — solo forse — lui sarebbe stato la mano che reggeva quell'ascia. A fianco del Re, ovviamente. Ascoltò il ruggito del vento: gli parve che gridasse con voce possente il suo nome, che portasse quel nome sulla terra devastata, come una promessa di potere di là da venire. Sorrise nel buio, con la faccia sporca del sangue dell'uomo a cui aveva sparato. E attese il futuro. CINQUE: la ruota gira Cerchio nero / Il suono di dolore / Un bizzarro fiore nuovo / Flaconi Tupperware / Un grosso pugno che bussa / Cittadino del mondo / Pezzi di carta colorata 27 Cortine di gelida pioggia color della nicotina turbinavano sopra le macerie di East Hanover, nel New Jersey, sospinte da un vento a novanta chilometri orari. La tempesta appendeva sporchi ghiaccioli ai tetti barcollanti e ai muri cadenti, spezzava alberi spogli, ricopriva con una patina di ghiaccio contaminato la superficie di ogni cosa. La casa nella quale avevano trovato riparo Sister, Artie Wisco, Beth Phelps, Julia Castillo e Doyle Halland, tremava sulle fondamenta. Per il terzo giorno dall'inizio della tempesta, i cinque se ne stavano raggomitolati davanti alle fiamme che divampavano e guizzavano, quando il vento soffiava giù nel camino. Quasi tutto l'arredamento era scomparso, fatto a pezzi per alimentare il fuoco in cambio di calore vitale. Ogni tanto le pareti schioccavano e scricchiolavano sotto l'ululato incessante del vento e Sister trasaliva, al pensiero che da un momento all'altro la fragile casa poteva schiantarsi come se fosse di cartone... ma la bastarda era solida e teneva duro. Si udivano schianti simili a quelli d'alberi caduti; Sister capì che si trattava di case vicine, abbattute dalla tempesta e disperse dal vento. Chie-
se a Doyle Halland di guidarli nella preghiera, ma il prete le scoccò un'occhiata sinistra e si rincantucciò a fumare l'ultima sigaretta fissando torvamente il fuoco. Avevano terminato il cibo e non avevano più niente da bere. Da un po' di tempo Beth Phelps, gli occhi lucidi di febbre, tossiva e sputava sangue. Quando il fuoco si abbassò, il corpo di Beth divenne ancora più caldo... e, forse senza rendersene conto, gli altri si strinsero più vicino a lei per assorbirne il calore. Beth appoggiò la testa sulla spalla di Sister. «Sister?» disse piano, esausta, «Me lo lasci... me lo lasci tenere un poco? Ti prego.» Sister capì che si riferiva al cerchio di vetro. Lo tolse dalla borsa e le gemme brillarono nella fioca luce arancione del fuoco. Gli altri guardavano, la faccia illuminata dai riflessi delle gemme simili a lampadine multicolori d'un paradiso remoto. Beth lo strinse al petto. Fissò il cerchio e mormorò: «Ho sete. Tanta, tanta sete». Rimase in silenzio, limitandosi a fissare il vetro, i cui colori pulsavano lentamente. «Non c'è più niente da bere» disse Sister. «Mi spiace.» Beth non rispose. Per qualche secondo la tempesta squassò la casa. 1 Sister sentì su di sé uno sguardo penetrante: era quello di Doyle Halland, seduto a qualche passo di distanza, le gambe tese verso il fuoco che si rifletteva sulla scheggia conficcata nella coscia. «Dovrà toglierla, prima o poi» disse Sister. «Non ha mai sentito parlare di cancrena?» «Resisterà» rispose lui. Spostò l'attenzione sul cerchio di vetro. «Oh» mormorò Beth, con aria sognante. Ebbe un brivido, poi disse: «L'avete visto? Era là. L'avete visto?» «Visto cosa?» domandò Arde. «Il ruscello. Mi scorreva fra le dita. Avevo sete, ho bevuto. Nessun altro l'ha visto?» Delira, pensò Sister. O forse... forse anche lei cammina nel sogno. «Ho tuffato le mani nell'acqua» continuò Beth. «Era così fresca. Così fresca! C'è un luogo meraviglioso, dentro il vetro...» «Dio mio!» esclamò Artie all'improvviso. «Sentite, non ho detto niente, prima, perché pensavo d'essere ammattito. Ma...» Guardò tutti, uno dopo l'altro, si fermò su Sister. «Voglio dirvi cos'ho visto io, quando ho guardato in quell'affare.» Raccontò del picnic con la moglie. «Era davvero bizzarro! Voglio dire, era così reale, che dopo sentivo ancora il gusto del cibo. Ave-
vo lo stomaco pieno, non sentivo più fame!» Sister annuì, ascoltandolo con attenzione. «Bene» disse «lasciate che vi racconti dove sono andata io, guardando lì dentro.» Quando terminò, gli altri rimasero in silenzio. Julia Castillo, la testa piegata di lato, guardava Sister; non capiva una parola, ma vedeva tutti gli altri fissare il cerchio e intuiva di che cosa parlassero. «Anche la mia esperienza è stata assai reale» continuò Sister. «Non so che senso abbia. Probabilmente, nessuno. Forse è solo un parto della mia fantasia, non so.» «Il ruscello è reale» disse Beth. «Lo so. Lo sento sotto le dita, lo assaporo.» «Quel cibo mi riempì lo stomaco» disse Artie. «Per un poco non ho più avuto fame. E la possibilità di parlare con lei...» indicò Julia «per mezzo di quell'oggetto? Voglio dire, è maledettamente strano, no?» «È una cosa molto speciale. Lo so. Ti dà quel che vuoi, quando ne hai bisogno. Forse è...» Beth si raddrizzò, scrutò Sister negli occhi. , Emanava a ondate il calore della febbre. «Forse è magia. Una magia mai esistita prima. Forse... forse è stata l'esplosione, a crearla. Le radiazioni , o chissà...» Doyle Halland si mise a ridere. Sobbalzarono tutti, sorpresi dall'asprezza della risata. Doyle sogghignò. «La cosa più pazza che abbia mai udito in vita mia, gente! Magia! Forse creata dall'esplosione!» Scosse la testa. «Ma andiamo! È solo un pezzo di vetro tempestato di pietre preziose. Sì, è bello, d'accordo. Forse è sensibile al calore del corpo e reagisce come una specie di diapason o qualcosa del genere. Ma io dico che vi ipnotizza. I colori influenzano la mente. Forse scatenano la fantasia: e allora credete di mangiare a un picnic, o di bere a un ruscello, o di camminare in un campo bruciato.» «Però io capivo lo spagnolo e lei l'inglese» obiettò Sister. «Un accidente d'ipnotismo, eh?» «Mai sentito parlare di ipnotismo di massa?» replicò Doyle, tagliente. «Quest'oggetto ricade nella stessa categoria delle statue che sanguinano, delle visioni mistiche e delle guarigioni per mezzo della fede. Tutti vogliono crederci, così diventa vero. Sentite, io so! Ho visto una porta di legno che centinaia di persone giuravano avesse un'immagine di Gesù nella grana. Ho visto una vetrina che un intero isolato vedeva come immagine della Vergine Maria... e sapete che cos'era? Un errore. Un'imperfezione del vetro, tutto qui. Non c'è niente di magico, in un errore. La gente vede quel
che vuole vedere, ode quel che vuole udire.» «Lei non vuole credere» replicò Artie, in tono di sfida. «Perché? Ha paura?» «No, sono solo realista. Invece di cianciare d'un pezzo di vetro, sarebbe meglio cercare altra legna per alimentare il fuoco, prima che si spenga.» Sister diede un'occhiata al focolare. Le fiamme divoravano gli ultimi pezzi di una sedia. Con gentilezza prese dalle mani di Beth il cerchio di vetro, caldo per la febbre della donna. Forse i colori e le pulsazioni provocavano davvero immagini mentali, pensò. All'improvviso ricordò un oggetto della fanciullezza lontana: una sfera di vetro piena d'inchiostro nero, che sembrava la palla numero otto del biliardo. Bisognava esprimere un desiderio, concentrarsi, poi capovolgerla. Alla base della palla emergeva un piccolo poliedro bianco con scritte diverse su ciascuna faccia, tipo: Il tuo desiderio sarà esaudito, È una certezza, Pare dubbio e l'irritante Chiedi ancora più tardi. Erano risposte buone a tutti gli usi, per un bambino che voglia a tutti i costi credere alla magia; tiravi fuori quel che volevi, da quelle risposte. E forse il pezzo di vetro era proprio questo: una magica palla numero otto che ti faceva vedere quel che volevi vedere. Eppure, pensò Sister, non aveva desiderato camminare in sogno nella prateria bruciata. L'immagine era comparsa e l'aveva portata con sé. Allora, che cos'era quel vetro? Una magica palla numero otto, oppure una porta nel mondo dei sogni? Sognare cibo e sognare acqua poteva bastare a lenire il desiderio, ma loro avevano bisogno di vero cibo e di vera acqua. Oltre a legna per il fuoco. E l'unico posto dove trovarli era fuori, in una delle altre case. Sister rimise nella borsa il cerchio di vetro. «Devo uscire» disse. «Forse nella casa accanto troverò del cibo e qualcosa da bere. Artie, vieni con me? Puoi aiutarmi a fare a pezzi qualche sedia per avere altra legna.» Artie annuì. «Certo. Non mi fa paura un po' di vento e di pioggia.» Sister guardò Doyle Halland. Lo sguardo del prete scivolò via dalla borsa. «E lei? Viene con noi?» Halland scrollò le spalle. «Perché no? Ma sarà meglio andare in direzioni diverse. Darò un'occhiata alla casa di destra, e voi a quella di sinistra.» «Buona idea.» Sister si alzò. «Cerchiamo qualche lenzuolo in cui avvolgere la legna e il resto. Inoltre, sarà più sicuro strisciare, anziché camminare. Rasente al terreno forse il vento è meno forte.» Artie e Halland trovarono delle lenzuola e le strinsero sotto braccio per
evitare che nel vento si aprissero come paracadute. Sister sistemò Beth in posizione più comoda; a gesti spiegò a Julia di stare vicino alla ragazza. «Stai attenta» disse Beth. «Fuori non sembra niente bello.» «Torneremo» promise Sister. Andò alla porta d'ingresso, l'unica cosa di legno che non fosse ancora finita nel fuoco. Appena l'aprì, la stanza si riempì di freddi turbini di vento e di pioggia gelata. Sister si lasciò cadere carponi e strisciò sulla veranda scivolosa, reggendo sempre la borsa di pelle. La luce era color terra di cimitero; le case battute dal vento erano sbilenche come lapidi trascurate. Seguita da vicino da Artie, Sister strisciò lentamente sui gradini d'ingresso, fino al prato gelato. Si guardò indietro, socchiudendo gli occhi per proteggerli dalle pungenti sferzate del vento: Doyle Halland avanzava piano piano verso la casa di destra, trascinando con prudenza la gamba ferita. Occorsero quasi dieci minuti nel freddo intenso per arrivare alla casa accanto. Il tetto era quasi divelto, il ghiaccio ricopriva ogni cosa. Artie si mise al lavoro: trovò una fessura a cui agganciare il lenzuolo per farne una sacca e raccogliervi i pezzi di legno sparsi dappertutto. Nelle macerie della cucina, Sister scivolò sul ghiaccio e si prese una bella botta al fondo schiena; ma nella dispensa trovò alcune scatole di verdura, delle mele congelate, cipolle e patate; e nel frigorifero, alcuni pasti preconfezionati, duri come la pietra. Mise nella borsa tutto quel che ci stava; a quel punto, aveva già le mani irrigidite come artigli. Si trascinò dietro l'involto con il bottino; intanto Artie aveva raccolto pezzi di legno e riempito il lenzuolo. «Sei pronto?» gli gridò, per superare l'ululato del vento. Artie annuì. Il ritorno fu più rischioso, perché stringevano con forza i loro tesori. E anche se strisciavano carponi, il vento li sferzava. Sister pensò che, se non sì fosse scaldata al più presto davanti a un fuoco, avrebbe perso pezzi di viso e di mani. Lentamente percorsero il tratto di terreno fra le due case. Non c'era segno di Doyle Halland. Se era caduto e si era fatto male, sarebbe morto congelato, si disse Sister. Decise di attendere ancora cinque minuti, poi sarebbe andata a cercarlo. Strisciarono sugli scalini della veranda, coperti di ghiaccio; varcarono la porta ed entrarono nel tepore benedetto. Sister chiuse la porta e tirò il catenaccio. Fuori, il vento infuriava e ululava come una creatura mostruosa a cui avessero strappato il giocattolo. Il velo di ghiaccio sul viso di Sister cominciò a liquefarsi e a colare. Piccoli ghiaccioli penzolavano dai lobi di Artie. «Ce l'abbiamo fatta!» Le mascelle di Artie erano irrigidite dal freddo.
«Abbiamo trovato un po' di...» Si bloccò di colpo. Guardava, inorridito, alle spalle di Sister. Sister si girò di scatto. Si sentì gelare più di quanto non l'avesse gelata la tempesta. Beth Phelps giaceva supina davanti al fuoco morente, con gli occhi sbarrati, mentre una pozza di sangue si allargava intorno alla testa, colando da un'orribile ferita alla tempia, come se le avessero conficcato una lama nel cervello. Teneva una mano alzata a mezzo, irrigidita in aria. «Oh... Gesummio.» Artie si premette la mano sulla bocca. In un angolo giaceva Julia Castillo, raggomitolata e scomposta. Fra gli occhi spenti aveva una ferita analoga a quella di Beth. Sulla parete alle sue spalle, il sangue si era allargato come un ventaglio cinese. Sister strinse i denti per bloccare un urlo. Una figura si mosse, nell'angolo lasciato in ombra dal debole bagliore del fuoco. «Entrate» disse Doyle Halland. «Scusate il disordine.» Era in piedi; gli occhi mandavano riflessi arancione come le pupille d'un gatto. «Avete trovato le vostre chicche, vero?» Parlava con voce pigra, la voce d'un uomo che avesse cenato a sazietà ma non riuscisse a rifiutare il dolce. «Anch'io ho trovato le mie.» «Oddio... oddio, cos'è successo?» Artie si sorresse al braccio di Sister. Doyle Halland alzò il dito, lentamente lo puntò su Sister. «Mi ricordo di te» disse piano. «Sei la donna che entrò nel cinema. La donna con la catenina. Vedi, ho incontrato un tuo amico, in città. Un poliziotto. Mentre vagabondavo, mi sono imbattuto in lui.» Sister vide il lampo dei denti, quando Doyle sorrise; le ginocchia quasi le cedettero. «Abbiamo fatto una bella chiacchierata.» Jack Tomachek. Jack Tomachek aveva avuto paura di attraversare l'Holland Tunnel. Era tornato indietro. E chissà dove, fra le macerie, si era trovato faccia a faccia con... «Mi ha detto che alcuni erano andati via» continuò Doyle Halland. «Che uno di loro era una donna. E sai cosa ricordava, di lei? Che aveva sul collo una piaga a forma di... be', lo sai, di cosa. Mi disse che guidava a ovest un gruppetto di persone.» La mano con il dito teso si agitò su e giù. «Monella, monella. Non sta bene allontanarsi di nascosto, quando giro la schiena.» «Le hai uccise.» La voce di Sister tremava. «Le ho liberate. Una era moribonda; l'altra, mezzo morta. Che speranze avevano? Voglio dire, speranze reali.»
«Mi... mi hai seguita? Perché?» «Sei andata via. Guidavi fuori città altre persone. Neppure questo è bello. Dovresti lasciare i morti lì dove sono caduti. Ma sono contento d'averti seguita... perché hai una cosa che m'interessa moltissimo.» Puntò il dito a terra. «Ora puoi metterlo ai miei piedi.» «Cosa?» «Lo sai. Il cerchio di vetro. Su, non fare tanta scena.» Sister capì che non aveva sentito quel senso di freddo provato nella Quarantaduesima e nel cinema perché tutto era gelido. Adesso lui era lì, voleva l'unica cosa bella rimasta. «Come mi hai trovata?» domandò, cercando disperatamente una via d'uscita. Alle sue spalle, dietro la porta chiusa a catenaccio, il vento gemeva e ululava. «Se riuscivi a passare l'Holland Tunnel, eri obbligata ad attraversare Jersey City. Ho seguito il percorso più facile e ho visto il tuo fuoco. Mi sono fermato ad ascoltare e a guardare. Poi ho trovato un pezzo di vetro colorato e ho capito dove mi trovavo. Ho anche trovato un cadavere e gli ho preso i vestiti. Mi adatto a qualsiasi taglia. Vedi?» D'un tratto le spalle gli si gonfiarono di muscoli, la spina dorsale si allungò. La giacca presa al prete si aprì lungo le cuciture. L'uomo adesso era cinque centimetri più alto di un attimo prima. Artie mandò un gemito, scosse la testa. «Non... non capisco.» «Non devi capire, zuccone. È una faccenda fra la signora e me.» «Chi... chi sei?» Sister resistette all'impulso di ritrarsi da lui: temeva che un solo passo indietro l'avrebbe spinto a precipitarsi su di lei come un turbine tenebroso. «Sono il vincitore. E sai una cosa? Non ho dovuto nemmeno sudare. Mi è bastato starmene disteso, e tutto è venuto a me.» Il sogghigno divenne selvaggio. «È tempo di festa, signora! E la mia festa durerà molto, molto tempo.» Sister indietreggiò. La creatura Doyle Halland scivolò avanti. «Quel cerchio di vetro è proprio bello. Sai cos'è?» Sister scosse la testa. «Neppure io... ma so che non mi piace.» «Perché? Cosa rappresenta, per te?» Lui si fermò, socchiuse gli occhi. «È pericoloso. Per te, voglio dire. Ti dà false speranze. Ho ascoltato tutte quelle stronzate sulla bellezza, sulla speranza, sulla sabbia, qualche sera fa. Ho dovuto mordermi la lingua, per non riderti in faccia. Su... dimmi che in realtà non credi a quella merda e
fammi contento.» «No» disse Sister con fermezza. La voce le tremò solo un poco. «Ci credo.» «Lo temevo.» Senza smettere di sogghignare, allungò la mano verso la scheggia conficcata nella gamba. La punta era macchiata di sangue. Cominciò a estrarla. E Sister capì che cosa aveva causato le ferite. Lui estrasse completamente il pugnale e si raddrizzò. La gamba non sanguinava. «Portalo a me» disse, con voce morbida come velluto nero. Il corpo di Sister sobbalzò. La forza di volontà parve defluire da lei, come se la sua anima fosse diventata un setaccio. Intontita ed esitante, Sister desiderò di andare da lui, d'infilare la mano nella borsa e tirare fuori il cerchio di vetro, di posarlo sulla mano di lui e di offrire la gola al pugnale. Sarebbe stata la cosa più facile da fare: ogni resistenza sembrava incredibilmente, insopportabilmente difficile. Tremante, con gli occhi sbarrati e umidi, Sister frugò nella borsa, fra le scatolette e le confezioni di cibo. Toccò il cerchio. Sotto le sue dita scaturì una luce bianca e brillante. Il bagliore la riportò in sé, le restituì la forza di volontà. Sister irrigidì le gambe, come per radicarle al pavimento. «Vieni da papà» disse l'uomo... ma nella sua voce c'era una nota tesa, aspra. Non era abituato a essere disubbidito, ma percepiva che la donna gli resisteva. Era molto più coriacea del ragazzo nel cinema, che aveva resistito quanto una pagliuzza davanti a una sega circolare. Scrutò in fondo agli occhi della donna e vide immagini nebulose e guizzanti: una luce girevole blu, un'autostrada sotto la pioggia, le sagome di donne lungo corridoi fiocamente illuminati, la sensazione di cemento ruvido e di colpi brutali. Questa donna, si disse, ha imparato a convivere con la sofferenza. «Ho detto... di portarmelo. Subito.» E vinse, dopo qualche altro istante di lotta. Vinse, come sapeva che sarebbe successo. Sister cercò d'impedire alle proprie gambe di muoversi, ma quelle continuarono come se sapessero che avrebbero potuto spezzarsi al ginocchio e continuare da sole. La voce dell'uomo le lambì i sensi, la trascinò costantemente. «Ecco, brava. Vieni avanti, portalo qui.» «Brava bambina» disse ancora, quando Sister fu a meno d'un metro. Dietro la donna, Artie si faceva piccolo piccolo, contro la porta. La creatura Doyle Halland allungò lentamente la mano a prendere il cerchio di cristallo. Esitò, a qualche centimetro dall'oggetto. Le gemme pulsa-
rono rapidamente. Lui piegò di lato la testa. Una cosa come quella non poteva esistere. Si sarebbe sentito meglio dopo averla ridotta a frammenti, sotto il tacco. Glielo strappò dalle dita. «Grazie» sussurrò. Il cerchio di vetro cambiò. In un attimo, l'arcobaleno di luci si affievolì, divenne torbido e brutto, si mutò in un marrone color fango di palude, in grigio pus, in nero carbone. Il cerchio di vetro non pulsò; rimase morto nella sua stretta. «Merda» disse lui, sorpreso e perplesso; un occhio grigio si schiarì in celeste. Sister batté le palpebre, sentì brividi gelidi correrle lungo la spina dorsale. Il sangue tornò a solleticarle le gambe. Il cuore faticava come un motore che si sforzi di partire dopo una notte all'addiaccio. L'attenzione di lui era fissa sul cerchio nero. Sister capì che aveva solo un secondo, forse due, per salvarsi la vita. Piantò saldamente le gambe per terra e vibrò la borsa di pelle contro la sua tempia destra. Lui sollevò di scatto la testa, le labbra distorte in una smorfia; iniziò a scostarsi, ma la borsa piena di scatolame e di cibo congelato lo colpì con tutta la forza che Sister riuscì a raccogliere. Sister si aspettava che lui assorbisse il colpo con l'indifferenza di un muro di pietra, che urlasse come una legione di demoni infernali; perciò rimase sorpresa, quando lo vide barcollare contro la parete, come se avesse ossa di cartapesta. Con la mano libera afferrò il cerchio di vetro. Lo strinsero tutt'e due insieme. Un fremito simile a una scossa elettrica crepitò lungo il braccio di Sister, le mostrò l'immagine mentale di una faccia costellata di centinaia di nasi e di bocche, di occhi ammiccanti d'ogni forma e colore. Certo quella era la sua vera faccia, una faccia di maschere e di cambiamenti, di trucchi e di male camaleontico. La metà di cerchio stretta da Sister sfolgorò di luce anche più vivida di prima. L'altra metà, nella mano di lui, rimase nera e fredda. Sister gli strappò il cerchio di vetro. Anche l'altra metà fiorì di fuoco incandescente. La creatura Doyle Halland socchiuse gli occhi nel bagliore, si portò la mano al viso per non farsi colpire dalla luce. Il battito del cuore di Sister faceva pulsare selvaggiamente il cerchio di vetro. Il mostro si ritrasse da quella luce infuocata, come stordito dalla forza della luce e della donna. Nei suoi occhi brillò un lampo che poteva essere paura.
Ma durò un solo istante... perché all'improvviso gli occhi del mostro furono risucchiati dentro cappucci di carne e l'intera faccia cambiò. Il naso si appiattì, la bocca scivolò via; un occhio nero si aprì al centro della fronte; un altro, verde, batté le palpebre in mezzo alla guancia. Fauci da squalo si spalancarono sulla punta del mento e snudarono piccole zanne giallastre. «Festeggiamo, puttana!» ulularono le fauci; la scheggia metallica balenò, mentre lui l'alzava per colpire. Il pugnale calò con forza. Ma la borsa di Sister era lì a fare da scudo; il pugnale vi affondò, ma non riuscì a passare una confezione di tacchino congelato. Con l'altra mano lui cercò di afferrarle la gola; la reazione di Sister fu quella che le veniva dall'esperienza di strada, colpi bassi e calci nei coglioni: con una sventola vibrò il cerchio di vetro contro la faccia mutevole e conficcò una delle punte nell'occhio nero al centro della fronte. Un urlo da gatto spellato vivo uscì dalle fauci spalancate. La testa della creatura Doyle Halland si agitò violentemente con una mossa tanto brusca da spezzare la punta di vetro, ancora piena di luce e conficcata nell'occhio come la lancia d'Ulisse in quello del ciclope. Con il pugnale il mostro flagellò furiosamente l'aria, mentre l'altro occhio roteava nell'orbita e filtrava attraverso la carne. Sister gridò: «Scappa!» ad Arde Wisco; si girò e fuggì anche lei. Artie armeggiò con il chiavistello e quasi staccò la porta dai cardini, fuggendo dalla casa. Il vento lo afferrò, lo sbatté per terra. Senza mollare il fagotto di pezzi di legno, Artie strisciò carponi sui gradini, fino al marciapiede ghiacciato. Sister lo seguì, sugli scalini perdette anche lei l'equilibrio e cadde. Infilò in fondo alla borsa il cerchio di vetro e strisciò sul ghiaccio, allontanandosi dalla casa, come una slitta umana. Artie le andò dietro. E dalla casa, sbrindellato dall'urlo del vento, provenne un ruggito folle di rabbia: «Ti troverò! Ti troverò, brutta puttana! Non puoi andartene!» Sister si guardò indietro, lo vide in mezzo alla tempesta; cercava di togliersi dall'occhio la punta annerita; all'improvviso gli mancò il terreno sotto i piedi e cadde sulla veranda. «Ti troverò!» promise, rimettendosi dritto. «Non puoi anda...» Il fragore della tempesta portò via la voce. Sister si accorse di scivolare più rapidamente in discesa sul ghiaccio color del tè. Un'auto coperta di ghiaccio si stagliò davanti a lei. Non c'era modo di evitarla. Sister si appiattì e passò sotto l'auto; qualcosa le afferrò e lacerò la pelliccia, mentre lei continuava giù per la discesa, priva di controllo. Più
indietro, Artie ruotava su se stesso come un disco, ma la traiettoria lo portò a sfiorare l'auto senza pericolo. Acquistarono velocità lungo il pendio della collina: due toboga umani che correvano lungo una via costellata di morti e di case in rovina, spinti dal vento, colpiti in viso dal nevischio. Da qualche parte avrebbero trovato rifugio, pensò Sister. Forse in un'altra casa. E avevano cibo in quantità. Legna per accendere il fuoco. Ma non fiammiferi, né accendini. Però i saccheggiatori e i superstiti in fuga non avevano certo portato via ogni cosa che facesse scoccare una scintilla. E lei aveva ancora il cerchio di vetro. La creatura Doyle Halland aveva avuto ragione. Quell'oggetto rappresentava la speranza e lei non l'avrebbe mai abbandonato. Mai. Ma era anche qualcosa d'altro. Qualcosa di speciale. Qualcosa, come aveva detto Beth Phelps, di magico. Ma lei ancora non era in grado di sondare quale fosse lo scopo di questa magia. Sarebbero vissuti. Slittavano sempre più lontano dal mostro che indossava l'abito d'un prete. Ti troverò! Sister lo udì gridare di nuovo, dentro di sé. Ti troverò! Ed ebbe paura che un giorno o l'altro, in qualche modo, l'avrebbe trovata davvero. Slittarono fino ai piedi della collina, sfiorarono altre auto abbandonate, continuarono per altri quaranta metri lungo la via principale, prima di fermarsi urtando contro il marciapiede. La corsa era finita, ma il viaggio era appena iniziato. 28 Il tempo passava. Josh lo calcolava dall'aumento del numero di lattine nella zona di scarico rifiuti... l'angolo più lontano, dove entrambi facevano i bisogni e buttavano i vuoti. Mangiavano a giorni alterni una scatola di verdure e una di prodotti a base di carne, come maiale o manzo conservato. Così il movimento dell'intestino permetteva a Josh una stima ragionevole del tempo. Ormai si trovavano nello scantinato da un periodo compreso fra i diciannove e i ventitré giorni. Quindi la data attuale era fra il cinque e il tredici agosto. Naturalmente Joah non poteva stabilire quanto tempo fosse rimasto lì prima d'organizzarsi alla meno peggio, però riteneva d'essere più vicino al diciassette che al tredici: significava che era già passato un mese.
Aveva trovato nel terriccio una scatola di batterie per la torcia, quindi da quel lato erano a posto. La luce gli permise di vedere che avevano consumato più della metà delle provviste. Era tempo d'iniziare a scavare. Mentre prendeva badile e piccone, udì il geomio arrampicarsi allegramente fra le lattine dell'immondezzaio. L'animale prosperava con i loro rifiuti — che non erano poi molti — e ripuliva le lattine al punto da potercisi specchiare. Ma Josh si guardava bene dal farlo. Swan, addormentata, respirava tranquillamente nel buio. Dormiva molto e Josh pensava che fosse un bene. Risparmiava le energie, s'ibernava come un animale. Ma quando Josh la chiamava, era subito sveglia e attenta. Lui dormiva a un metro da Swan; e si stupiva di quanto si fosse adattato al ritmo del respiro della bambina: di solito era profondo e lento, il suono dell'oblio; ma a volte era rapido e irregolare, l'ansito dei ricordi, dei brutti sogni, il senso di vuoto della realtà. Era quest'ultimo suono a svegliare Josh dal suo sonno inquieto; spesso udiva Swan chiamare la madre o borbottare parole confuse, atterrite, come se qualcuno la inseguisse in un deserto d'incubo. Avevano avuto un mucchio di tempo per chiacchierare. Swan gli aveva parlato di sua madre e degli "zii" , gli aveva raccontato quanto le piaceva coltivare piccoli giardini. Josh le aveva chiesto notizie del padre; lei aveva risposto che era un musicista rock, ma non aveva aggiunto altro. Poi gli aveva domandato che cosa si prova a essere un gigante. Sarebbe stato ricco, aveva risposto Josh, se avesse avuto un quarto di dollaro per ogni volta che aveva battuto la testa contro la parte superiore del vano delle porte. E poi, era difficile trovare vestiti della taglia giusta — si era accorto di ballare nei calzoni, ma non lo disse — e le scarpe doveva farle fare su misura. Costava caro, essere un gigante. Per il resto, si era come tutti gli altri. Parlandole di Rose e dei ragazzi, si era sforzato di mantenere ferma la voce, quasi parlasse d'estranei, persone conosciute solo come fotografie nel portafogli d'un altro. Le raccontò del periodo in cui giocava a football, di quando per tre volte era stato proclamato il migliore in campo. Il wrestling non era malaccio, le aveva detto: un modo onesto per guadagnare soldi, visto che un tipo grande e grosso come lui non aveva a disposizione molti altri lavori legittimi. Il mondo era troppo piccolo, per i giganti; non c'era materasso che non protestasse, quando vi si distendeva a dormire. Mentre chiacchieravano, Josh teneva spenta la torcia. Non voleva vedere la faccia della bambina, piena di vesciche, né i capelli bruciati; preferiva
ricordare quant'era bella... e voleva anche risparmiarle la vista del suo ceffo ripugnante. Aveva sepolto le ceneri di PawPaw Briggs. Di questo non parlavano affatto, ma nella mente di Josh l'ordine del vecchio, Proteggi la bambina, continuava a rintoccare come una campana di ferro. Josh accese la torcia. Swan, rannicchiata al suo solito posto, dormiva profondamente. Sul viso le luccicava il siero secco delle vesciche scoppiate. Lembi di pelle penzolavano dalla fronte e dalle guance, come strati sottili di vernice squamata; sotto, la carne viva, scarlatta, formava vesciche nuove. Josh le toccò gentilmente la spalla e lei aprì subito gli occhi, iniettati di sangue, con ciglia appiccicose e giallastre, pupille ridotte a puntini. Josh scostò la luce. «È ora di svegliarsi. Cominciamo a scavare.» Swan annuì e si alzò a sedere. «Se lavoriamo tutt'e due, faremo prima» disse Josh. «Comincerò io, con il piccone, e tu spalerai la terra, d'accordo?» «D'accordo» rispose Swan. Si mise a quattro zampe e lo seguì. Josh stava per strisciare al buco del geomio, quando nel raggio di luce notò una cosa che prima gli era sfuggita. Spostò di nuovo il raggio dove Swan era solita dormire. «Swan? E quello cos'è?» «Dove?» Con lo sguardo seguì la luce. Josh mise da parte piccone e badile, allungò la mano. Nel punto in cui Swan dormiva di solito, c'erano centinaia di minuscoli steli d'erba verde smeraldo. Formavano l'immagine perfetta di un piccolo corpo rannicchiato. Josh toccò l'erba. Non era erba vera e propria, erano germogli di qualche pianta. Minuscoli germogli di... di granturco? Mosse intorno il raggio luminoso. La timida vegetazione sotterranea cresceva solo nel punto in cui Swan dormiva. Strappò alcuni steli, per esaminare le radici, e notò che Swan trasaliva. «Che ti succede?» «Non mi piace quel suono.» «Suono? Quale suono?» «Il suono di dolore» rispose lei. Josh non capì di che cosa parlasse. Scosse la testa. Le radici, delicati filamenti di vita, erano lunghe circa cinque centimetri: ovviamente crescevano già da qualche giorno. Ma Josh non capiva come mai delle piantine avessero messo radici nel terriccio contaminato, senza una goccia d'acqua. Doveva esserci una spiegazione; forse la tromba d'aria aveva trasportato dei semi che chissà come avevano messo radici ed erano germogliati.
Semplice. Fin troppo, si disse. Mettere radici senza acqua e germogliare senza un barlume di luce del sole! Semplice come la metamorfosi di PawPaw in un bengala. Lasciò cadere gli steli. Subito Swan prese una manciata di terriccio, con grande attenzione la impastò fre le dita per qualche secondo e ricoprì i germogli. Josh si mise a sedere, ginocchia contro il petto. «Crescono solo dove dormi tu. È assai curioso, non credi?» Swan scrollò le spalle. Sentiva che lui la fissava attentamente. «Hai detto di avere udito un suono» continuò Josh. «Che genere di suono?» Di nuovo, un'alzata di spalle. Swan non sapeva come parlarne. Nessuno le aveva mai chiesto una cosa del genere. «Io non ho udito niente» disse Josh. E allungò di nuovo la mano verso i germogli. Swan gli afferrò la mano, prima che li toccasse. «Te l'ho detto... un suono di dolore. Non so spiegarti.» «Quando li ho strappati?» «Sì.» Oddio, si disse Josh, sono pronto per la camicia di forza! Guardando il disegno verde sul terriccio, aveva pensato che le piantine erano cresciute perché era il corpo della bambina a farle crescere. Una sorta di reazione chimica con il terriccio. Era un'idea folle, ma i germogli erano lì. «Cosa sembra? Una voce?» «No, non una voce.» «Perché non mi racconti?» «Davvero?» «Sì, davvero.» «La mamma diceva che era immaginazione.» «E aveva ragione?» Swan esitò, poi rispose in tono fermo: «No». Sfiorò i germogli, quasi con tenerezza. «Una volta mamma mi portò al club ad ascoltare la banda. Zio Warren suonava la batteria. Sentii un rumore simile e domandai cosa l'aveva prodotto. Mi rispose che era una chitarra elettrica, di quelle che ti metti sulla pancia e suoni. Ma ci sono anche altre cose, nel suono di dolore.» Lo guardò negli occhi. «Come il vento. O il fischio di un treno lontanissimo. O il tuono, molto prima di vedere il lampo. Un mucchio di cose.»
«Da quanto tempo lo senti?» «Da quand'ero piccola.» Josh non riuscì a trattenere un sorriso. Swan lo fraintese. «Ridi di me?» «No, no. Anzi... piacerebbe anche a me udire un suono del genere. Sai che cos'è?» «Sì» rispose Swan. «È la morte.» Il sorriso di Josh svanì. Swan raccolse un po' di terra, piano piano la lavorò fra le dita, tastandone la consistenza secca, friabile. «D'estate è peggio. Quando la gente tira fuori la falciatrice per il prato.» «Ma... è solo erba» disse Josh. «In autunno il suono di dolore è diverso» continuò Swan, come se non l'avesse udito. «Sembra un grosso sospiro. E allora le foglie cadono. Poi, d'inverno, il suono cessa. E tutto dorme.» Scosse dal palmo briciole di terra, le mischiò al resto. «Quando ricomincia a fare caldo, il sole fa pensare alle cose che è ora di svegliarsi.» «Pensare di svegliarsi?» «Ogni cosa pensa e sente, a modo suo» rispose lei. Tornò a guardarlo. Gli occhi in quel viso di bambina erano vecchissimi, pensò Josh. «Insetti, uccelli, anche l'erba...» continuò Swan. «Tutti hanno il loro modo di parlare e di sapere. Dipende solo se li capisci o no.» Josh grugnì. Insetti, aveva detto Swan. Ricordò lo sciame di cavallette che aveva invaso la Pontiac, il giorno dell'esplosione. Non gli era mai accaduto di riflettere su quello che la bambina diceva, ma capì che c'era un fondo di verità. Gli uccelli sapevano che era tempo di migrare, al cambiar di stagione; le formiche costruivano formicai, con un frenetico lavoro di squadra; i fiori sbocciavano e appassivano, ma il loro polline continuava a vivere: tutto avveniva secondo un grande, misterioso programma che lui aveva sempre dato per scontato. Semplice come la crescita dell'erba, complicato come la luce delle lucciole. «Come fai a sapere queste cose?» le domandò. «Chi te le ha insegnate?» «Nessuno. Le ho capite da sola.» Swan ricordò il suo primo giardino, coltivato in una scatola di terra, nel campo da gioco dell'asilo nido. Erano passati anni, prima di scoprire che tenere in mano la terra non procurava a tutti quel formicolio e che nessuno sapeva, dal ronzio, se un'ape volesse pungere o solo curiosare. Lei l'aveva sempre saputo, tutto qui. Josh la guardò impastare il terriccio fra le mani. Swan sentiva il formicolio, le mani calde e umide. Josh guardò di nuovo i germogli verdi. «Sono solo un wrestler» disse, a voce molto bassa. «Nient'altro. Voglio di-
re... maledizione, sono solo una nullità!» Proteggi la bambina, pensò. Proteggila da che cosa? Da chi? E perché? «In che diavolo di pasticcio mi sono cacciato?» mormorò. «Eh?» disse lei. «Niente» rispose Josh. Gli occhi di Swan erano di nuovo quelli d'una bambina, mentre mescolava la terra tiepida a quella intorno ai germogli. «Meglio iniziare a scavare, ora. Sei pronta?» «Sì.» Swan prese il badile che lui aveva posato da parte. La sensazione di tepore e di formicolio svanì lentamente. Ma lui non era pronto, non ancora. «Swan, ascoltami un minuto. Voglio essere sincero con te, perché penso che tu possa sopportarlo. Cercheremo di uscire di qui, ma non è detto che ci riusciamo. Bisognerà scavare una galleria assai larga, perché ci passi anch'io. Occorrerà un po' di tempo e non sarà certo lavoro facile. Se la galleria crolla, bisognerà cominciare da capo. Insomma, non sono sicuro del risultato. Non ne sono affatto sicuro. Hai capito?» Swan annuì, in silenzio. «Ancora una cosa» aggiunse Josh. «Se... quando... usciremo, forse troveremo cose che non ci piaceranno. Forse tutto è cambiato. Sarà come svegliarsi dall'incubo più terribile che si possa immaginare... e scoprire che l'incubo continua nella luce del giorno. Capito?» Swan annuì di nuovo. Aveva già pensato le stesse cose che Josh diceva, perché nessuno era venuto a tirarli fuori. Sua madre si era sbagliata. Assunse la sua migliore espressione da adulta e attese che fosse lui a fare la mossa seguente. «Va bene» disse Josh. «Cominciamo a scavare.» 29 Josh Hutchins socchiuse gli occhi, fissò davanti a sé, batté le palpebre. «Luce» disse; le pareti della galleria gli serravano spalle e schiena. «Vedo la luce!» Circa nove metri più in basso, nello scantinato, Swan gridò: «Quant'è lontana?» La bambina era lurida dalla testa a piedi; e le sembrava d'avere nelle narici tanto di quel terriccio da poterci far crescere un giardino. Quest'idea le aveva strappato un paio di risatine; era rimasta sorpresa, perché era convinta che non avrebbe trovato mai più la voglia di ridere. «Tre metri, forse tre e mezzo» rispose Josh. Continuò a scavare con le
mani e a spingere dietro di sé il terriccio, usando poi i piedi per spingerlo ancora più lontano. Dopo tre giorni di piccone e di badile, avevano capito che gli attrezzi migliori erano le mani. Ora, mentre spingeva avanti le spalle per raspare altro terriccio, Josh guardò il fioco barlume rossastro all'ingresso della tana del geomio: era la luce più bella che avesse mai visto. Swan s'infilò nella galleria a raccogliere in una grossa latta la terra smossa per riportarla nello scantinato e svuotarla nella fossa scavata in precedenza. Mani, braccia, viso, narici, ginocchia... dov'era sporca di terriccio, si sentiva formicolare fino alle ossa, come se avesse un fuoco nella spina dorsale. Dall'altra parte dello scantinato, i germogli verdi erano alti dieci centimetri. Josh aveva il viso impiastrato di terra, la sentiva perfino sotto i denti. Il terreno era duro, aveva consistenza gommosa. Fu costretto a fermarsi per riposare. «Josh? Stai bene?» domandò Swan. «Sì. Riprendo fiato, solo un minuto.» Spalle e braccia gli dolevano senza pietà. Non si era mai sentito così stanco, da quella volta che aveva partecipato a un super incontro a dieci, a Chattanooga. La luce sembrava più lontana di quanto avesse calcolato, come se la galleria — che tutt'e due avevano imparato ad amare e a odiare — si allungasse, giocasse un crudele scherzo di prospettiva. Gli pareva d'essersi infilato in uno di quei tubi cinesi che ti serrano le dita, uno per dito, a parte il fatto che si sentiva compresso in tutto il corpo, come imprigionato in una camicia di forza. Si rimise al lavoro, spinse sotto di sé una doppia manata di terriccio, muovendosi come se nuotasse. Mia mamma ha allevato un geomio, pensò; e sorrise nonostante la stanchezza. In bocca aveva un saporaccio, come se si fosse cibato di torte di fango. Altri quindici centimetri di scavo. Altri trenta. La luce era più vicina o più lontana? Si spinse avanti, pensando a quando sua madre lo sgridava perché non si puliva bene dietro le orecchie. Altri trenta centimetri; poi altri trenta. Dietro di lui, Swan continuava a infilarsi nella galleria e a portare via lattine di terra smossa, con la regolarità di un giocattolo a molla. La luce si faceva più vicina, ne era sicuro. Ma non era più così bella. Era malata, non sembrava per niente la luce del sole. Infetta, pensò. E forse letale, anche. Ma continuò, una doppia manata dopo l'altra, ad avanzare verso il mondo esterno. All'improvviso si sentì cadere sulla nuca un po' di terra. Rimase immobile, aspettandosi un crollo, ma la galleria resse. Per l'amor di Dio, non
fermarti proprio ora, si disse; e allungò la mano per grattare via altro terriccio. «Ci sono quasi!» gridò; ma la terra soffocò la voce. Josh non sapeva se Swan avesse udito. «Ancora qualche decina di centimetri!» Ma poco prima d'arrivare all'apertura, che non era molto più grande del suo pugno, Josh fu costretto a fermarsi di nuovo per riposare. Rimase a fissare con desiderio la luce, a meno d'un metro dal foro. Ormai sentiva l'odore aspro di terra riarsa, di steli di granturco bruciati, di prodotti alcalini. Si scosse e si spinse avanti. Vicino alla superficie la terra era più dura, piena di pietre vetrificate e di grumi metallici. Il fuoco l'aveva fusa, rendendola simile all'asfalto. Ma Josh continuò a spingersi in alto, con le spalle che gli pulsavano di dolore sordo, lo sguardo fisso sul piccolo cerchio di luce dal colore sgradevole. E poi fu abbastanza vicino da sporgere la mano; ma, prima di provarci, gridò: «Ci sono, Swan! Sono in cima!» Artigliò il terriccio, raggiunse il foro. La parte interna sembrava asfalto coperto di ciottoli. Non riuscì a introdurre nel foro le dita. Strinse il pugno, la carne chiazzata di grigio e di bianco. Spinse. Più forte. Ancora più forte. Forza, forza, si disse; spingi, maledizione! Seguì uno scricchiolio secco. Sulle prime Josh pensò d'essersi rotto l'osso del braccio, ma non sentì dolore; allora continuò a spingere come se volesse prendere a pugni il cielo. La terra scricchiolò di nuovo. Il foro iniziò a frantumarsi, a farsi più ampio. Il pugno l'attraversò. Josh immaginò la scena, come se la vedesse con gli occhi di uno spettatore all'esterno: la fioritura di un pugno dalla pelle zebrata, un bizzarro fiore nuovo che spuntava dalla terra morta, dita che si schiudevano come petali alla fioca luce rossastra. Spinse fuori il braccio, fin quasi al gomito. Un vento freddo gli azzannò la punta delle dita. E lui si sentì inebriare dalla folata d'aria, si sentì scuotere da una lunga sonnolenza. «Siamo fuori!» gridò, sul punto di singhiozzare di gioia. «Swan! Siamo fuori!» La bambina era dietro di lui, accovacciata nella galleria. «Vedi qualcosa?» «Ora sporgo la testa. Ecco.» Diede una spinta, la spalla seguì il braccio, allargò ancora il foro. Poi il braccio intero fu fuori e la cima della testa era pronta a sbucare. Mentre spingeva, Josh pensò d'assistere alla nascita dei suoi figli, la testa che si sforzava di uscire nel mondo. Era stordito e spaventato come un nascituro. Dietro di lui, Swan lo spingeva, gli dava sostegno, mentre lui si sforzava di
liberarsi. La terra si aprì con rumore simile allo spezzarsi di creta indurita. Con uno sforzo violento Josh spinse la testa nell'apertura, nell'aria turbolenta e pungente. «Sei già fuori?» domandò Swan. «Cosa vedi?» Josh socchiuse gli occhi, alzò la mano a proteggersi dai granelli di sabbia. Vide un paesaggio desolato, marrone grigiastro, nel quale risaltavano solo i resti contorti della sua Bonneville e della Camaro di Darleen. Il cielo era coperto di nubi basse, gonfie e grigie. Da orizzonte a orizzonte, le nubi si susseguivano con movimento lento e pesante, venate qua e là da aspri sprazzi scarlatti. Circa cinque metri alle spalle di Josh, sulla sinistra, s'alzava un'ampia montagnola a cupola, fatta di terriccio, steli di granturco schiacciati, pezzi di legno e di metallo, rottami delle pompe di benzina e delle auto: la tomba in cui erano rimasti sepolti. Ma nello stesso tempo Josh capì che, se le tonnellate di terriccio non li avessero coperti, loro sarebbero morti bruciati. A parte la montagnola, qualche stelo di granturco e rottami sparsi, lo strato superficiale del terreno era stato raschiato via completamente. Il vento gli soffiava in faccia. Josh strisciò fuori e si sedette sui talloni a guardare la distruzione che lo circondava; anche Swan uscì dalla galleria. Mentre il freddo le tagliava le ossa, mosse incredula gli occhi iniettati di sangue a guardare quello che era diventato un deserto. «È tutto... morto...» mormorò; ma il vento le rubò la voce. Josh non la udì. Non riusciva a orientarsi. Sapeva che la città più vicina — o quel che ne restava — era Salina. Ma dov'era l'est, dov'era l'ovest? E dov'era il sole? Sabbia e polvere oscuravano ogni cosa, riducevano a una ventina di metri la visibilità. Dov'era l'autostrada? «Non è rimasto niente» disse, più che altro a se stesso. «Non è rimasta una sola, maledetta cosa!» Swan vide lì vicino un oggetto familiare. Camminò a fatica controvento fino alla piccola figura. La pelliccia azzurra era bruciata quasi completamente, ma gli occhi di plastica, con la piccola pupilla nera che girava, erano intatti. Swan raccolse la bambola. Dalla schiena penzolava ancora la corda con l'anello. Swan la tirò e udì la Cookie Monster chiedere dolcini, con voce lenta e distorta. Josh si alzò. Bene, pensò, ora siamo fuori. E adesso cosa facciamo? Dove andiamo? Disgustato, scosse la testa. Forse non c'era nessun posto dove andare. Forse tutto, da ogni parte, era identico a lì. Che senso aveva lascia-
re lo scantinato? Diede un'occhiata torva alla galleria: per un attimo pensò di strisciare di nuovo dentro e di passare il resto dei suoi giorni a ripulire scatolette e smerdare una latrina di fortuna. Stai attento, si disse. A un tratto, quel buco che lo riportava nello scantinato — che lo riportava nella tomba — era diventato allettante. Troppo, troppo allettante. Josh si allontanò di qualche passo e cercò di pensare in modo coerente. Guardò la bambina, sporca di terriccio, vestita di stracci svolazzanti. Swan fissava lontano, a occhi socchiusi per difenderli dal vento, e reggeva in braccio quella stupida bambola. Josh la guardò a lungo. Potrei farlo, si disse. Certo. Potrei costringermi a farlo, perché sarebbe la cosa giusta. Potrebbe essere la cosa giusta. O no? Se tutto il mondo è ridotto in questo stato, che senso ha, la vita? Aprì le mani, le chiuse. Potrei farlo alla svelta, pensò. Non sentirebbe niente. E poi cercherei in quel mucchio di rottami un bel pezzo di metallo affilato e finirei il lavoro su di me. Sarebbe la cosa giusta, no? Proteggi la bambina, ricordò... e fu sopraffatto dalla vergogna, profonda e terribile. Che bella protezione, pensò. Ma, Cristo, non è rimasto niente! È andato tutto al diavolo! Swan girò la testa, cercò il suo sguardo. Disse qualcosa che lui non capì. Si avvicinò, tremando, piegata per resistere al vento, e gridò: «Che cosa facciamo?» «Non so!» gridò lui in risposta. «Non è così dappertutto, vero? Ci sarà altra gente, da qualche parte! Ci saranno città, persone!» «Forse. E forse no. Maledizione, fa freddo.» Tremava. Al momento dell'esplosione era vestito per una calda giornata di luglio; ora addosso gli restava a malapena una camicia «Non possiamo stare qui e basta!» disse Swan. «Dobbiamo andare da qualche parte!» «Giusto. Bene, scegli tu la direzione, signorina. A me sembrano tutte uguali.» Swan lo fissò ancora per qualche istante e Josh provò di nuovo vergogna. Poi lei si girò in tutte le direzioni, come se volesse stabilire quale scegliere. A un tratto ebbe gli occhi pieni di lacrime, così cocenti da farla quasi gridare; ma si morsicò il labbro. Per un attimo aveva desiderato che mamma fosse accanto a lei, per aiutarla, per dirle che cosa fare. Aveva bisogno che mamma la guidasse, ora più che mai. Non era giusto che mam-
ma fosse morta! Non era bello, non era corretto! Ma quelli erano pensieri da bambina, si disse. Mamma era andata a casa, in un posto pieno di pace, lontano da lì... e lei doveva decidere da sola. A cominciare da subito. Alzò la mano, indicò la direzione verso cui soffiava il vento. «Da questa parte» disse. «C'è una ragione particolare?» «Sì.» Gli rivolse un'occhiata che lo indusse a sentirsi la creatura più stupida della terra. «Avremo il vento alle spalle. Il cammino sarà meno faticoso.» «Oh» disse Josh, umilmente. In lontananza, nella direzione da lei indicata, non c'era niente, solo turbini di polvere, desolazione assoluta. Non vedeva motivo per muovere le gambe. Swan intuì che lui era pronto a mettersi a sedere per non alzarsi più; non sarebbe mai riuscita a tirare in piedi quel gigante. «Abbiamo lavorato duro per uscire di lì, vero?» gridò per superare il vento. Josh annuì. «Abbiamo dimostrato che potevamo farcela, se lo volevamo davvero, giusto? Tu e io. Una squadra. Abbiamo lavorato duro, non dobbiamo smettere proprio ora.» Lui annuì, depresso. «Dobbiamo tentare!» gridò Swan. Josh guardò di nuovo la tana. Almeno laggiù non faceva freddo. E c'era cibo. Perché non restare... Con la coda dell'occhio scorse un movimento. La bambina, bambola in braccio, si era incamminata nella direzione prescelta; il vento la spingeva. «Ehi!» gridò Josh. Swan non si fermò, né rallentò. «Ehi!» Swan continuò a camminare. Josh mosse il primo passo per seguirla. Fu colpito alle ginocchia dal vento. Placcaggio, pensò; quindici metri di penalità! E poi si sentì urtare al fondoschiena, spingere avanti. Barcollò, mosse il secondo passo, poi il terzo e il quarto. E si ritrovò a seguire la bambina. Ma il vento era così forte che gli parve quasi di volare, non di camminare. Josh raggiunse Swan, le camminò accanto, a qualche metro; provò di nuovo una fitta di vergogna per la propria debolezza, perché lei non lo degnò di un'occhiata. Teneva il mento sollevato, quasi a sfidare la desolazione che li confrontava. Sembrava, pensò Josh, la piccola regina a cui avevano rubato il regno, una figura tragica e decisa.
Non è rimasto niente, si disse Swan, straziata da una tristezza profonda, terribile. Se il vento non l'avesse spinta con tanta forza, forse sarebbe caduta sulle ginocchia. È morto tutto, è morto tutto. Due lacrime le colarono sul viso incrostato di polvere e di vesciche. Non può essere morto tutto, si disse. Ci saranno ancora paesi e persone, da qualche parte! Forse due chilometri più avanti. Forse tre. Al di là del polverone e dell'orizzonte. Continuò a camminare, un passo dopo l'altro; e Josh Hutchins le camminò a fianco. Dietro di loro, il geomio sporse la testa dalla tana e guardò in tutte le direzioni. Squittì e scomparve di nuovo nella sicurezza della terra. 30 Due figure camminavano faticosamente lungo la Statale 80, nella Pennsylvania orientale; davano la schiena ai monti Pocono coperti di neve. Sull'asfalto, dalla neve fresca, color grigio sporco, sporgevano rocce scabre simili a verruche sulla pelle d'un lebbroso. Altra neve grigia cadeva dal cielo imbronciato, verdastro, privo di sole; frusciava piano fra migliaia di noci americani, di olmi e di querce, anneriti e spogli. I sempreverdi, diventati color marrone, perdevano gli aghi. Da orizzonte a orizzonte, fin dove arrivava lo sguardo di Sister e di Artie, non c'era vegetazione verde, nemmeno un rampicante, una foglia. Il vento li frustava, gettava loro in viso la neve cinerea. Tutt'e due erano avvolti in vari strati d'indumenti recuperati nei ventuno giorni in cui erano fuggiti dal mostro che si era presentato come Doyle Halland. Alla periferia di Paterson, nel New Jersey, avevano trovato un grande magazzino Sears, saccheggiato di tutto, tranne alcune merci in fondo al negozio, sotto un grosso cartello con una scritta adorna di ghiaccioli dipinti: VENDITA INVERNALE A LUGLIO! DA SEARS SI RISPARMIA! Nessuno aveva toccato i banchi e i tavoli che offrivano pesanti soprabiti di tessuto a spina di pesce, sciarpe a quadroni, berretti di lana, guanti foderati di pelliccia di coniglio. C'era perfino biancheria intima in lana e una partita di scarponi, che Artie giudicò di ottima qualità. Ora, dopo più di centocinquanta chilometri, gli scarponi si erano ammorbiditi, ma i piedi sanguinavano, avvolti in stracci e carta di giornale che sostituivano i calzini andati a pezzi. Sister e Artie portavano in spalla uno zaino ciascuno, colmo di altri og-
getti trovati fra le macerie: lattine di cibo, un apriscatole, un paio di affilati coltelli multiuso, fiammiferi da cucina, una torcia, batterie di ricambio e, scoperta fortunata, una confezione da sei di birra Olympia. Sister portava a tracolla anche una sacca da viaggio verde scuro, trovata nel locale negozio di eccedenze militari, che aveva sostituito la borsa di Cucci, più piccola, e che conteneva una termocoperta, alcune bottiglie di Perrier e alcune confezioni di affettati freddi trovati in una drogheria quasi completamente svuotata. In fondo alla sacca c'era il cerchio di vetro, che Sister aveva messo in modo da poterlo toccare attraverso la stoffa ogni volta che ne aveva voglia. Sister portava una sciarpa rossa e un berretto di lana verde elettrico, per proteggere dal vento testa e viso; cappotto di lana sopra due maglioni, calzoni di velluto marrone a coste, guanti di pelle. Si muoveva con lentezza nella neve, a causa del peso, ma almeno non aveva freddo. Anche Artie indossava cappotto pesante, sciarpa azzurra, due berretti di lana uno sull'altro. Così abbigliati, esponevano al nevischio soltanto la zona intorno agli occhi: pelle rossastra, bruciata dal vento. La neve grigia e brutta turbinava intorno a loro, copriva con uno strato alto almeno dieci centimetri l'asfalto della statale e formava cumuli più alti fra i boschi spogli e nei profondi burroni ai lati della strada. Sister, che precedeva Artie di qualche metro, sollevò la mano e indicò un punto sulla destra. Si accostò a quattro mucchietti scuri che giacevano nella neve, i cadaveri congelati di un uomo, una donna e due bambini. Indossavano abiti estivi: camicia a manica corta, calzoni leggeri. L'uomo e la donna erano morti tenendosi stretti per mano. Ma l'anulare sinistro della donna era tagliato di netto. L'anello nuziale, pensò Sister. Qualcuno le aveva mozzato il dito, per prenderlo. L'uomo, scalzo, aveva i piedi anneriti. Gli occhi infossati luccicavano di ghiaccio grigio. Sister distolse lo sguardo. Da quando erano entrati in Pennsylvania, passando davanti a un grosso cartello verde che diceva: BENVENUTI IN PENNSYLVANIA, STATO CARDINE DELL'UNIONE, circa cinquanta chilometri e sette giorni prima, avevano incontrato quasi trecento cadaveri congelati, sulla Statale 80. Per un po' si erano riparati fra le macerie di una cittadina chiamata Stroudsburgh, rasa al suolo da un tornado. Case ed edifici erano sparpagliati sotto la neve sporca, come giocattoli rotti da un gigante pazzo; e anche lì c'era una grande quantità di cadaveri. Nella via principale, Sister e Artie avevano trovato un camioncino — serbatoio asciutto — e avevano dormito in cabina. Poi erano tornati sulla statale, marciando verso ovest, nei loro
scarponi morbidi e insanguinati; erano passati davanti ad altri cadaveri, automobili distrutte, camion rovesciati, forse i resti d'un ingorgo di gente in fuga. Il viaggio era duro. Riuscivano a fare, al massimo, otto chilometri al giorno, prima d'essere costretti a cercare un rifugio... le macerie di una casa, un fienile, una carcassa d'auto... qualsiasi cosa che li riparasse dal vento. In ventuno giorni di cammino, avevano visto solo altre tre persone vive: due erano pazze da legare; la terza, scorgendoli, era fuggita nei boschi. Per qualche tempo, Sister e Artie erano stati male, avevano tossito e vomitato sangue, avevano sofferto di terribili emicranie. Sister aveva creduto di morire; avevano dormito rannicchiati l'uno addosso all'altra, e il loro respiro sembrava il muggito di mantici; ma la parte peggiore della nausea e dello stordimento febbrile era passata. Anche se a volte tossivano ancora in modo incontrollabile e vomitavano un po' di sangue, avevano riacquistato le forze e non soffrivano più di emicrania. Si lasciarono alle spalle i quattro cadaveri. Poco dopo arrivarono ai resti di una roulotte Airstream saltata in aria. Una Cadillac bruciacchiata era andata a sbattere contro la roulotte e una Subaru aveva tamponato la Caddy. Nelle vicinanze, altri due veicoli si erano scontrati e avevano preso fuoco. Più avanti, altre persone giacevano dov'erano morte di congelamento, i corpi rannicchiati l'uno sull'altro nel vano tentativo di scaldarsi. Sister passò avanti senza fermarsi; ormai la faccia della morte le era familiare, ma non le piaceva guardarla troppo da vicino. Una cinquantina di metri più avanti, Sister si fermò di colpo. Proprio davanti a lei, sotto la neve che cadeva, un animale rosicchiava uno dei due cadaveri distesi lungo il guardrail di destra. La creatura alzò lo sguardo e s'irrigidì. Era un grosso cane, forse un lupo, sceso dalle montagne a cercare cibo. Grande quanto un pastore tedesco, muso allungato e pelame grigio rossastro, aveva spolpato una gamba fino all'osso; ora se ne stava acquattato sulla preda e fissava Sister minacciosamente. Se quel bastardo vuole carne fresca, siamo morti, pensò Sister. Fissò anche lei l'animale: per trenta secondi rimasero a sfidarsi con lo sguardo. Poi il lupo emise un breve latrato roco e riprese a rosicchiare. Sister e Artie gli girarono alla larga e continuarono a guardarsi alle spalle finché, oltrepassata una curva, l'animale non fu più visibile. Sister rabbrividì, per quanto ben coperta. Gli occhi della belva le avevano ricordato quelli di Doyle Halland. La sua paura di Doyle Halland peggiorava al calare delle tenebre... e, a
quanto pareva, non c'era regolarità nell'arrivo del buio, né crepuscolo, né sensazione del sole calante. A volte le tenebre scendevano dopo due o tre ore di penombra, oppure sembravano resistere per ventiquattro ore: ma quando scendevano, erano assolute. Nel buio, bastava un qualsiasi rumore perché Sister si alzasse di scatto a sedere e tendesse l'orecchio, con il cuore che batteva all'impazzata e goccioline di sudore freddo sul viso. Lei aveva una cosa che Doyle Halland voleva, una cosa che lui non capiva — e Sister nemmeno, se per questo — ma che aveva giurato di portarle via. E che cosa avrebbe fatto del cerchio di vetro, se l'avesse avuto? L'avrebbe fracassato in mille pezzi? Probabilmente sì. Sister continuava a guardarsi alle spalle, mentre camminava, con la paura di scorgere in lontananza una figura tenebrosa con la faccia deforme e i denti snudati in un ghigno da pescecane. «Ti troverò» aveva promesso Doyle Halland. «Ti troverò, brutta puttana.» Il giorno prima, si erano rifugiati in un fienile crollato e avevano acceso un focherello. Sister aveva tolto dalla sacca il cerchio di vetro. Aveva pensato alla palla per predire il futuro e si era chiesta a bassa voce: «Cosa c'è davanti a noi?» Naturalmente il vetro non conteneva alcun piccolo poliedro con risposte buone per tutti gli usi. Ma i colori delle gemme e il ritmo costante delle pulsazioni luminose l'avevano consolata; si era sentita galleggiare alla deriva, incantata dal bagliore del cerchio; e poi le era parso d'essere attirata sempre più profondamente nel vetro, come nel cuore stesso del fuoco... E di nuovo aveva percorso il sentiero del sogno, nel territorio desolato dove c'era la montagnola di terriccio, dove la bambola Cookie Monster giaceva in attesa di una bambina perduta. Ma stavolta era diverso: stavolta aveva camminato nel sogno verso la montagnola, con la sensazione di non toccare terra, quando all'improvviso si era fermata e aveva teso l'orecchio. Aveva udito un suono, sopra il rumore del vento: un suono soffocato che forse era voce umana. Ma non si era ripetuto. Poi, quasi ai suoi piedi, aveva visto un piccolo foro nel terreno calcinato. Mentre lo guardava, le era parso che il foro si allargasse, che la terra intorno si crepasse e si dilatasse. L'attimo dopo... sì, sì, la terra si crepava davvero, il foro diventava più grande, come se scavassero da sotto. Sister aveva guardato, timorosa e affascinata, il foro allargarsi. Non sono più sola, aveva pensato. Dal foro era emersa una mano umana.
Chiazzata di bianco e di grigio... una mano grande, la mano d'un gigante. Le dita massicce avevano artigliato l'aria come quelle d'un morto che si fosse disseppellito da solo. Sister era rimasta tanto sconvolta, a quella vista, da allontanarsi di scatto dal foro. Aveva paura di vedere che genere di mostro sarebbe emerso. Mentre correva nella piana deserta, pregava freneticamente: Riportami indietro, per favore, voglio tornare dov'ero... E si era trovata davanti al piccolo fuoco, nel fienile distrutto. Artie la fissava, perplesso; la carne viva intorno agli occhi sembrava la maschera del Ranger Solitario. Sister gli aveva raccontato che cosa aveva visto; Artie le aveva chiesto che cosa significasse, secondo lei. Ovviamente, Sister non lo sapeva: era solo un'immagine scaturita dalla sua testa, forse una reazione a tutti quei cadaveri visti sull'autostrada. Sister aveva rimesso nella sacca il cerchio di vetro, ma l'immagine di quella mano che sbucava dalla terra le era rimasta impressa a fuoco nel cervello. Non riusciva a cancellarla. Ora, mentre procedeva nella neve, toccò il contorno del cerchio di vetro. Sapere che era lì bastava a rassicurarla: in quel momento era tutta la magia di cui aveva bisogno. Impietrì. Un altro lupo, o cane selvatico, o che diavolo fosse, era fermo in mezzo alla strada, davanti a lei, a meno di cinque metri. Era inagrissimo, pieno di piaghe rossastre. La fissò negli occhi; lentamente ritrasse le labbra, snudò le zanne in un ringhio. Oh merda, fu il primo pensiero di Sister. Questo lupo sembrava più affamato e più disperato dell'altro; più in là, nella neve, altri due o tre lupi si muovevano a lunghi balzi, a destra e a sinistra. Sister si guardò alle spalle, al di là di Artie. Altre due sagome erano seminascoste nella neve, abbastanza vicine da distinguerne i contorni. Il secondo pensiero di Sister fu: le nostre chiappe sono hambur... In un lampo confuso, una sagoma balzò da sinistra e colpì Artie al fianco. Artie urlò di dolore e cadde a terra, mentre l'animale — forse la belva dal pelo grigiorossastro che avevano visto banchettare con il cadavere — gli afferrava fra i denti lo zaino e scuoteva violentemente la testa avanti e indietro, cercando di staccarlo dalle cinghie. Sister cercò d'afferrare la mano tesa di Artie, ma il lupo lo trascinò nella neve per tre metri, prima di lasciarlo e saettare via quasi fuori vista. Continuò a girare in cerchio e a leccarsi le labbra.
Sister udì un ringhio gutturale e si girò proprio mentre il lupo scheletrico con le piaghe rossastre balzava su di lei. La belva la colpì alla spalla, la mandò a gambe levate; serrò le fauci a pochi centimetri dal suo viso, con il rumore secco d'una trappola per orsi. Sister sentì il lezzo di carne putrefatta. Il lupo l'afferrò per la manica destra del cappotto e cominciò a tirare. Un altro animale fintò l'attacco da sinistra, un terzo avanzò arditamente e le azzannò il piede destro, cercando di trascinarla via. Sister si dibatté e urlò; il lupo più magro si spaventò e fuggì via, ma l'altro la trascinò sul fianco nella neve. Sister strinse a due mani la sacca e vibrò un calcio, con lo scarpone sinistro; colpì il lupo alla testa tre volte, prima che mandasse un latrato di dolore e lasciasse la presa. Dietro di lei, Artie era assalito da due animali insieme, da lati opposti. Uno gli afferrò il polso, quasi raggiunse la carne sotto il pesante cappotto e il maglione; il secondo gli azzannò la spalle sinistra e la dilaniò in un impeto di forza frenetica. «Via, via!» gridò Artie, mentre le due belve lo tiravano in direzioni opposte. Sister cercò di alzarsi. Scivolò nella neve, cadde pesantemente. Il panico la colpì come un pugno allo stomaco. I lupi cercavano di separarli, come se assalissero un branco di daini o di buoi. Una belva s'avventò contro Sister che tentava di rialzarsi, l'afferrò per la caviglia e la trascinò ancora qualche metro lontano da Artie. Ora quest'ultimo era solo più una sagoma che si dibatteva circondata da altre sagome nella turbinante luce grigia. «Vattene via, bastardo!» gridò Sister. Il lupo diede uno strattone così forte da staccarle quasi la gamba. Con un urlo di rabbia, Sister gli vibrò un colpo di sacca sul muso e la belva se la diede a gambe. Ma l'attimo dopo, un'altra le saltò addosso e cercò di azzannarla alla gola; Sister alzò il braccio; le fauci lo strinsero con forza brutale. Il lupo le lacerò il cappotto. Con il pugno sinistro Sister lo colpì alle costole; l'animate emise un ringhio, ma continuò a strappare la stoffa e raggiunse il primo maglione. Quel figlio di puttana non si sarebbe fermato finché non avesse assaggiato la carne. Sister lo colpì di nuovo, cercò di liberarsi con uno strattone; ma ora un altro lupo l'aveva afferrata di nuovo per la caviglia e la tirava in un'altra direzione. Le passò per la mente la folle immagine di un bastoncino di liquirizia stirato fino a spezzarsi. Udì un crack! acuto; credette che stavolta la gamba si fosse spezzai» davvero. Ma la belva che le azzannava la spalla mandò un grido di dolore, balzò in aria, corse a tutta velocità nella neve. Ci fu un secondo crack!, seguito da vicino da un terzo. Il lupo che la tirava per la caviglia tremò e ulu-
lò: dal fianco gli usciva sangue. L'animale lasciò la presa e si mise a correre in tondo, cercando d'afferrarsi la coda. Risuonò un quarto sparo — Sister capì che la bestia era stata trapassata da un proiettile — cui seguì un ululato di dolore, dal punto in cui giaceva Artie Wisco. Poi le belve si diedero alla fuga, scivolando e urtandosi nella fretta. In cinque secondi sparirono alla vista. L'animale ferito cadde sul fianco a qualche passo da Sister e agitò freneticamente le zampe. Sister si alzò a sedere, stordita e confusa; anche Artie tentò di alzarsi, ma le gambe gli mancarono e cadde di nuovo. Una figura con maschera da sci verde scuro, logoro giubbotto di pelle e blue jeans, scivolò davanti a Sister. Calzava racchette da neve legate a scarponi assai consumati; portava a tracolla una cordicella che passava nel collo di tre bottiglie di plastica, vuote, ed era annodata ai capi per impedire che scivolassero via; sulla schiena aveva uno zaino da escursionista, verde scuro, un po' più piccolo di quelli di Sister e di Artie. La figura si fermò accanto a Sister. «Tutto a posto?» La voce parve paglietta di ferro che strofini una padella di ghisa. «Sì, mi pare di sì.» Sister aveva un mucchio di lividi, ma niente di rotto. L'uomo piantò nella neve il calcio della carabina, poi si tolse di tracolla la cordicella con le bottiglie di plastica. Posò anche quelle vicino all'animale che ancora scalciava. Si tolse di spalla lo zaino, con le dita guantate aprì una cerniera ed estrasse un assortimento di flaconi Tupperware di vario formato, chiusi con coperchi di plastica. Li dispose davanti a sé nella neve, in fila ordinata. Artie si avvicinò arrancando e reggendosi il polso. L'uomo con la maschera da sci sollevò un attimo lo sguardo e continuò il lavoro: si tolse i guanti e sciolse il nodo per far scorrere fuori le bottiglie. «Il figlio di puttana ha lasciato il segno?» disse ad Artie. «Sì. Mi ha lacerato la mano. Ma per il resto sto bene. E lei da dove spunta?» «Da lì.» Con la testa indicò i boschi. Poi tolse il coperchio alle bottiglie di plastica; quasi subito le dita gli diventarono rosse di freddo. Il lupo scalciava ancora con violenza. L'uomo si alzò, prese il fucile e con il calcio cominciò a colpire il cranio della belva. Gli occorse un minuto, ma poi la bestia mandò un gemito soffocato, rabbrividì e giacque immobile. «Non credevo che qualcuno arrivasse da quella parte» disse l'uomo. «Pensavo che ormai fossero morti tutti.» S'inginocchiò di nuovo accanto al lupo, dal sacchetto appeso alla cintura tolse un lungo coltello con la lama ricurva,
praticò un'incisione nel ventre grigio dell'animale. Sgorgò il sangue. L'uomo prese una bottiglia di plastica e la tenne sotto il rivolo; il sangue gocciolò bellamente all'interno e riempì in fretta la bottiglia. L'uomo la tappò, la mise da parte, ne prese un'altra, mentre Sister e Artie lo guardavano, affascinati e nauseati. «Pensavo che tutti fossero morti da un pezzo» continuò l'uomo, seguendo attentamente il lavoro. «Voi due da dove venite?» «Ah... Detroit» riuscì a dire Artie. «Veniamo da Manhattan» disse Sister. «Andiamo a Detroit.» «Finita la benzina? Scoppiata una gomma?» «No. Andiamo a piedi.» Lui borbottò qualcosa, le diede un'occhiata, tornò a occuparsi del lavoro. Il rivolo di sangue diventava più lento. «Un mucchio di strada, a piedi» disse l'uomo. «Davvero un mucchio, soprattutto per niente.» «Come sarebbe?» «Sarebbe che Detroit non c'è più. Rasa al suolo. Come Pittsburg; o Indianapolis, Chicago, Filadelfia. Sarei sorpreso, se fosse rimasta anche una sola città. A quest'ora le radiazioni avranno pensato anche a quelle piccole.» Il rivolo di sangue era quasi cessato. L'uomo tappò la seconda bottiglia, piena per metà; poi praticò una lunga incisione nel ventre dell'animale morto. Infilò fino al polso le mani nella ferita fumante. «Lei non può saperlo!» protestò Artie. «Non può saperlo!» «Lo so, invece» replicò l'uomo. Non diede spiegazioni. «Signora» disse poi «le dispiace aprirmi i flaconi?» Sister eseguì l'operazione. L'uomo cominciò a estrarre manate d'interiora insanguinate e fumanti; le tagliò a pezzi, si mise a riempire i flaconi. «L'altro bastardo l'ho colpito?» chiese ad Artie. «Eh?» «L'altro a cui ho sparato. Si ricorderà che le sbranava la mano.» «Oh. Giusto. Sì.» Artie guardò le viscere infilate nei flaconi dai colori vivaci. «No. Voglio dire... credo che l'abbia colpito, ma mi ha lasciato ed è fuggito.» «Sono dei bastardi resistenti» disse lui. Cominciò a staccare la testa dell'animale. «Apra quel flacone grosso, signora.» Infilò la mano nella testa spiccata dal corpo; il cervello del lupo finì con un tonfo nel flacone grosso. «Può chiuderli.» Sister li chiuse, quasi soffocata dall'odore acre del sangue. Lui si pulì le mani sul pelo dell'animale, tornò a infilare nella cordicella le due bottiglie,
rifece il nodo; si rimise i guanti, ripose nel sacchetto il coltello e nello zaino i flaconi pieni. Poi si alzò. «Voi due avete armi da fuoco?» «No» rispose Sister. «Cibo?» «Abbiamo... abbiamo un po' di verdure in scatola e di succhi di frutta. E anche qualche confezione di affettati.» «Affettati» ripeté lui, sprezzante. «Cara signora, non andrà lontano, con questo tempo, se mangia solo affettati. Ha detto che avete verdure? Speriamo che non siano broccoli. Odio i broccoli.» «No... abbiamo granturco, fagioli verdi, patate lesse.» «Mi sembrano gli ingredienti d'un minestrone. La mia baracca è a tre chilometri a nord di qui, a volo d'uccello. Se volete venirci, siete i benvenuti. Se no, vi auguro buon viaggio a Detroit.» «Qual è il paese più vicino?» domandò «St. Johns, penso. Hazleton è il primo paese di una certa grandezza: si trova a circa quindici chilometri a sud di St. Johns. Può darsi che ci sia ancora qualcuno; ma dopo l'invasione di profughi, sarei sorpreso se trovaste qualcosa, in qualsiasi paese lungo la S-80. St. Johns si trova a circa otto chilometri a ovest.» Guardò Artie, che perdeva sangue nella neve. «Amico, quel sangue attirerà ogni sciacallo dei dintorni a portata di naso... e, mi creda, questi bastardi fiutano il sangue da molto lontano.» «Dovremmo andare con lui» disse Artie a Sister. «Potrei morire dissanguato.» «Non credo» replicò l'uomo. «Sembra solo un graffio. Gelerà in fretta. Ma l'odore del sangue le resterà nei vestiti. Come ho detto, verranno giù dalle montagne, con coltello e forchetta fra i denti. Ma fate come volete; io mi metto in cammino.» S'infilò in spalla lo zaino, si mise a tracolla la corda e prese la carabina. «Auguri» disse. Cominciò a scivolare verso i boschi, sull'autostrada coperta di neve. Sister impiegò ancora due secondi per prendere una decisione. «Un momento!» Lui si fermò. «D'accordo. Verremo con lei, signor...» Ma lui era già di nuovo in movimento, diretto al limitare della fitta foresta. Non ebbero altra scelta che corrergli dietro. Artie si guardò alle spalle, con il terrore che altre belve gli arrivassero addosso di nascosto. Aveva male alle costole, dove il lupo l'aveva colpito; le gambe gli sembravano due pezzi di gommapiuma. Lui e Sister entrarono nei boschi, dietro la figura in maschera da sci che avanzava sulle racchette; e si lasciarono alle spal-
le l'autostrada della morte. 31 Nell'oscurità rossastra, sempre più fitta, cominciavano a comparire i contorni di piccole e tozze costruzioni a un piano e di case di mattoni rossi. Un paese, si disse Josh. Grazie a Dio. Il vento continuava a premergli con forza contro la schiena; ma, dopo quelle che gli parevano otto ore di cammino ieri e almeno cinque oggi, era sul punto di crollare. Da due ore portava in braccio la bambina sfinita e camminava a gambe rigide; le piante dei piedi trasudavano siero e sangue nelle scarpe che si aprivano lungo le cuciture. Aveva l'aspetto di uno zombie, o quello del mostro di Frankenstein con in braccio l'eroina. Avevano trascorso la notte precedente al riparo di un camioncino ribaltato, intorno al quale erano disseminate delle balle di fieno; Josh le aveva ammucchiate per costruire un rifugio di fortuna che trattenesse il calore del corpo. Tuttavia erano in mezzo al nulla, circondati dal deserto e da campi morti; avevano atteso entrambi con timore le prime luci, perché sapevano che avrebbero dovuto rimettersi in cammino. La città buia — una manciata di edifici devastati dal vento, alcune case assai distanziate su prati polverosi — invitava a proseguire. Josh non vide automobili, né il minimo segno di luce, di vita. C'era una stazione di rifornimento Texaco, con un'unica pompa, e un garage dal tetto crollato. L'insegna che sbatacchiava avanti e indietro sui cardini proclamava: FERRAMENTA E FORAGGI TUCKER, ma il negozio aveva la vetrina infranta e sembrava vuoto come la credenza di Mamma Hubbard. Anche di un piccolo ristorante restava solo l'insegna: CIBO DI PRIMA QUALITÀ! Soffrendo a ogni passo, Josh oltrepassò gli edifici in rovina. Una decina di tascabili giacevano nella polvere, sfogliati dalle dita del vento; sulla sinistra c'erano i resti di un piccolo edificio rivestito di assicelle, con l'insegna dipinta a mano: BIBLIOTECA PUBBLICA DI SULLIVAN. Sullivan, pensò Josh. Dovunque Sullivan si fosse trovato, adesso era un paese morto. Con la coda dell'occhio scorse un movimento. Guardò di lato e qualcosa di piccolo — un leprotto? — saettò al riparo dietro le macerie del piccolo ristorante. Josh era irrigidito dal freddo; anche Swan era gelata. Si teneva stretta alla bambola come se si aggrappasse alla vita stessa; di tanto in tanto sob-
balzava, nel sonno tormentato. Josh s'avvicinò a una casa, ma si fermò nel vedere sui gradini della veranda un cadavere accartocciato come un punto interrogativo. Si diresse alla casa seguente, più avanti, dall'altra parte della via. La cassetta delle lettere dipinta di bianco, appesa a un sostegno contorto, recava in nero il disegno di quello che pareva un occhio inquadrato fra le palpebre inferiore e superiore. C'era il nome scritto a mano: Davy e Leona Skelton. Josh attraversò il prato riarso e salì i gradini della veranda fino alla porta a rete. «Swan?» disse. «Sveglia, ora.» La bambina borbottò qualcosa; lui la posò a terra e provò ad aprire la porta, chiusa con il saliscendi dall'interno. Con un calcio la colpì al centro, scardinandola; attraversò la veranda fino alla porta d'ingresso. Appena posò la mano sul pomo della maniglia, la porta si spalancò e Josh si trovò a fissare la canna di una pistola. «Mi ha rotto la porta a rete» disse una voce femminile. La pistola non tremò. «Ah... mi scusi, signora. Non credevo che ci fosse qualcuno.» «Allora secondo lei perché la porta era chiusa? Questa è proprietà privata.» «Mi scusi» ripeté Josh. Vide sul grilletto il dito nodoso della donna. «Non ho soldi» disse. «Se ne avessi, le pagherei il danno.» «Soldi?» La donna rise sguaiatamente e sputò di lato. «I soldi non valgono più niente! Diavolo, una porta a rete vale un sacchetto d'oro, amico. Le farei saltare la testa, ma non ho voglia di pulire.» «Ce ne andiamo per la nostra strada, se non le spiace.» La donna rimase in silenzio. Josh vedeva il contorno della testa, ma non il viso; con un cenno la donna indicò Swan. «Una bambina» disse piano. «Oh, mio Dio... una bambina...» «Leona!» chiamò debolmente una voce dall'interno. «Leo...» S'interruppe per un accesso di tosse: un suono strozzato, orribile. «Tutto a posto, Davy» rispose la donna. «Vengo subito.» Si rivolse a Josh, tenendolo sempre sotto tiro. «Da dove venite, voi due? E dove andate?» «Veniamo da... da laggiù.» Josh indicò un'estremità del paese. «E andiamo da quella parte, credo.» Indicò l'estremità opposta. «Non è un gran piano di viaggio.» «Infatti» ammise Josh. Fissò a disagio l'occhio riero della pistola. La donna esitò. Guardò di nuovo la bambina, trasse un sospiro profondo.
«Be'» disse alla fine «visto che è arrivato a metà strada, tanto, vale che venga dentro.» Mosse la pistola per invitarlo a entrare e si ritirò dal vano della porta. Josh prese Swan per mano. Entrarono insieme nella casa. «Chiuda la porta» disse la donna. «Grazie a lei, fra poco saremo nella polvere fino alle orecchie.» Josh ubbidì. Nel camino ardeva un piccolo fuoco; la figura tozza della donna fu contornata di rosso, mentre si muoveva per la stanza. Accese una lanterna antivento posta sopra la mensola del camino, poi altre due, sistemate in modo da dare alla stanza il massimo della luce. La pistola aveva il cane abbassato, ma lei continuò a tenerla al fianco. Accese le lanterne, si girò a dare una buona occhiata a Josh e a Swan. Leona Skelton era bassa e grassa, indossava uno spesso maglione rosa sopra la tuta lacera e calzava pantofole di pelo rosa. Aveva un viso squadrato che sembrava inciso in una mela e poi lasciato a seccare al sole: fra le grinze e le rughe, non c'era un solo centimetro di pelle liscia. Gli occhi grandi ed espressivi erano circondati da una rete di zampe di gallina; le profonde rughe sulla fronte sembravano la riproduzione in creta delle onde dell'oceano. Josh pensò che avesse un'età compresa fra i sessantacinque e i settanta, anche se i capelli ricci, pettinati all'indietro, erano tinti di rosso acceso. Ora, mentre girava lo sguardo da Josh a Swan, la donna socchiuse lentamente le labbra e Josh vide che aveva alcuni incisivi d'argento. «Dio onnipotente» disse piano la donna. «Voi due siete rimasti ustionati, eh? Oh, Cristo... non intendevo fissarvi a questo modo, ma...» Guardò Swan e il suo viso parve contrarsi di dolore. Aveva gli occhi umidi di lacrime. «Oddio» mormorò. «Oh, signore Iddio... chissà quanto avrete sofferto.» «Siamo vivi» disse Josh. «Il resto non conta.» «Sì, certo.» La donna annuì. Abbassò gli occhi sul pavimento di legno. «Scusi la mia scortesia. Non sono stata educata così male.» «Leona!» gracchiò l'uomo. Di nuovo fu squassato da un accesso di tosse. «Meglio che dia un'occhiata a mio marito» disse la donna, uscendo nel corridoio. Josh ne approfittò per esaminare la stanza; l'arredamento consisteva in pochi mobili di pino non verniciato e in un liso tappeto verde steso davanti al camino. Josh evitò di guardarsi nello specchio appeso alla parete e s'avvicinò allo stipo a vetri. Sugli scaffali c'erano decine di sfere di cristallo di diverso formato, da quella piccola quanto un ciottolo a quella grande quanto i pugni uniti di Josh... ossia la metà di un pallone da basket.
La maggior parte era grossa quanto una palla da baseball e perfettamente trasparente; ma altre erano colorate d'azzurro, di verde, di giallo. Facevano parte della collezione anche diversi tipi di piume, alcune pannocchie secche con chicchi multicolori e un paio di pelli di serpente, quasi trasparenti, dall'aria fragile. «Dove siamo?» chiese Swan, stringendo sempre la Cookie Monster. Sotto gli occhi aveva i segni scuri della stanchezza; la sete le bruciava la gola. «In un paesino che si chiamava Sullivan. Non c'è molto, qui. Pare che se ne siano andati tutti, tranne questi due.» S'avvicinò al caminetto per esaminare alcune Polaroid incorniciate, disposte sulla mensola; in una fotografia, Leona Skelton sedeva sull'altalena della veranda, insieme con un uomo di mezza età, tozzo e sorridente, più pancia che capelli, occhiali dalla montatura metallica e occhi maliziosi. L'uomo teneva il braccio attorno a Leona e l'altra mano pareva strisciare verso il grembo di lei. Leona rideva, la bocca un bagliore d'argento; i capelli erano meno rossi degli attuali; in ogni caso, sembrava di quindici anni più giovane. In un'altra fotografia, Leona cullava fra le braccia, come se fosse un bambino, un gatto bianco che puntava beatamente in aria la zampa. Una terza foto mostrava il pancione in compagnia d'un tizio più giovane: reggevano canne da pesca e mostravano le prede. «La mia famiglia» disse Leona, rientrando nella stanza. Aveva lasciato di là la pistola. «Mio marito si chiama Davy; nostro figlio, Joe; e la gatta, Cleopatra. Si chiamava, voglio dire. L'ho seppellita due settimane fa, nel cortile. Una fossa profonda, così nessuno la disturberà. Voi due avete un nome o siete appena usciti dall'uovo?» «Josh Hutchins. E lei è Sue Wanda, ma la chiamano Swan.» «Swan» ripeté Leona. «Un bel nome. Piacere di conoscervi.» «Grazie, il piacere è mio» disse Swan, che non aveva dimenticato le buone maniere. «Oh, sant'Iddio!» Leona si chinò a raccogliere alcune riviste di giardinaggio cadute dal tavolino del caffè; da un angolo prese una scopa e si mise a spazzare la polvere verso il camino. «La casa è tutta in disordine» si scusò, mentre puliva. «Riuscivo a tenerla pulita come uno specchio, ma ultimamente il tempo passa senza che me ne accorga. Non ho più avuto ospiti da un mucchio di giorni!» Scopò via gli ultimi granelli di polvere e si fermò a fissare dalla finestra l'oscurità rossastra e i resti di Sullivan squassati dal vento. «Era un bel paesino» disse, con aria indifferente. «Ci vivevano più di trecento persone. Brave persone, pure. Ben McCormick soleva
dire d'essere grasso per tre. Drew e Sissy Simmons abitavano in quella casa laggiù.» La segnò a dito. «Oh, Sissy e la sua mania dei cappellini! Ne aveva una trentina, ne metteva uno diverso ogni domenica, per trenta domeniche, e poi ricominciava. Kyle Doss era il proprietario della tavola calda. Geneva Dewberry curava la biblioteca pubblica e, sant'Iddio, quanto parlava di libri!» La voce diventava sempre più bassa, più remota. «Geneva diceva che un giorno o l'altro avrebbe scritto un romanzo. Ho sempre creduto che ci sarebbe riuscita.» Indicò un'altra direzione. «Norm Barkley abitava laggiù, in fondo alla strada. Però da qui la casa non si vede. A momenti lo sposavo, quand'ero ragazzina. Ma Davy mi rubò a lui, con una rosa e con un bacio, un sabato sera. Sissignore.» Annuì, poi parve ricordare dov'era. Raddrizzò la schiena, riportò nell'angolo la scopa, come se lasciasse il cavaliere del ballo. «Be'» disse «era il nostro paesino.» «Dove sono andati, tutti quanti?» chiese Josh. «In paradiso» rispose lei. «O all'inferno. Nel posto che li ha reclamati per primo, immagino. Certo, alcuni hanno fatto i bagagli e se ne sono andati.» Scrollò le spalle. «Dove, non so. Ma la maggior parte di noi è rimasta qui, nelle nostre case, nella nostra terra. Poi l'epidemia ha iniziato a colpire la gente... ed è arrivata la Morte. È simile a un grosso pugno che bussa alla tua porta... bam bam, bam bam, così. Sai che non puoi impedirgli d'entrare, ma devi provarci!» Con la lingua s'inumidì le labbra; lo sguardo era vuoto, distante. «Il tempo è davvero un po' matto, per essere in agosto, no? Fa tanto freddo da indurire le tette a una strega.» «Lei sa... sa cos'è accaduto, vero?» «Oh, sì. Lee Procter aveva la radio a tutto volume, nel negozio di ferramenta, mentre ero lì a comprare chiodi e fil di ferro per appendere un quadro. Non so quale fosse la stazione, ma all'improvviso ci fu uno strepito spaventoso e quella voce maschile si mette a parlare velocemente di stato d'emergenza, bombe, eccetera. Poi ci fu uno sfrigolio come di lardo nella padella bollente e la radio tacque. Nemmeno un mormorio. Wilma James arrivò di corsa gridando a tutti di guardare il cielo. Uscimmo a guardare: gli aerei, o le bombe, o quel che era, ci passavano sulla testa, alcuni tanto vicini da scontrarsi. E Grange Tucker disse: "È arrivata! L'Apocalisse è arrivata!" . E si lasciò cadere sul marciapiede davanti al negozio, a guardar passare quegli oggetti volanti. «Poi venne il vento, e la polvere, e il freddo» continuò, guardando dalla finestra. «Il sole diventò rosso sangue. Passarono le trombe d'aria, una colpì la fattoria dei McCormick e se la portò via, lasciò solo le pietre angolari.
Nessuna traccia di Ben, di Ginny, dei ragazzi. Tutti naturalmente cominciarono a venire da me, volevano sapere cosa riservava il futuro, cose del genere.» Scrollò le spalle. «Non potevo dire a tutti che vedevo un teschio al posto della loro faccia. Come fai a dire agli amici una cosa simile? Be', il signor Laney, il postino che veniva dalla Russell County, non si fece vedere; i fili del telefono erano caduti, non c'era elettricità. Capimmo che, qualsiasi cosa fosse accaduto, era stato un massacro. Kyle Doss ed Eddie Meachum si offrirono di fare in macchina i trenta chilometri fino a Matheson per scoprire cos'era accaduto. Non tornarono. Anche in loro vidi un teschio al posto della faccia; ma cosa potevo dire? Sa, a volte non c'è scopo a dire a qualcuno che è giunta la sua ora.» Josh non seguiva i discorsi confusi della vecchia. «Cosa significa che ha visto un teschio al posto della loro faccia?» «Oh. Scusi. Ho dimenticato che fuori di Sullivan nessuno sa niente di me.» Con un debole sorriso sulla sua faccia da mela vizza, Leona Skelton girò le spalle alla finestra. Presa una lampada, si accostò alla libreria dall'altra parte della stanza e ne tolse un album rilegato in pelle. Lo portò a Josh e lo aprì. «Ecco, legga» disse. «Quella sono io.» Indicò una fotografia ingiallita e un articolo, ritagliati con cura da una rivista popolare. Il titolo diceva: VEGGENTE DEL KANSAS HA PREVISTO LA MORTE DI KENNEDY SEI MESI PRIMA DI DIXON! Più sotto, una riga in corpo minore proclamava: Leona Skelton prevede nuova prosperità per l'America! La foto mostrava una Leona Skelton molto più giovane, circondata da gatti e da sfere di cristallo. «È tratto da Fate Magazine, un numero del 1964. Sa, scrissi una lettera al presidente Kennedy, ammonendolo di stare lontano da Dallas, perché mentre teneva un discorso per tivù vidi un teschio al posto della sua faccia; consultai i tarocchi e la tavoletta ouija e scoprii che Kennedy aveva un potente nemico a Dallas. Ottenni anche il nome, che però venne fuori come Osbald. Comunque, scrissi la lettera; ne ho fatto anche la copia.» Sfogliò le pagine dell'album, mostrò a Josh una lettera manoscritta, gualcita e quasi illegibile, datata 19 aprile 1963. «Due uomini dell'FBI vennero a casa mia e vollero fare con me una lunga chiacchierata. Ero calmissima, ma spaventarono a morte il povero Davy! Oh, erano tipi dal linguaggio forbito, ma riuscivano a perforarti con lo sguardo! Pensarono che fossi una pazza svitata; mi dissero di non scrivere altre lettere e se ne andarono.» Girò pagina. Il titolo di un altro ritaglio diceva: TOCCATA DA UN ANGELO AL MOMENTO DELLA NASCITA, GIURA LA "JEANNE
DIXON" DEL KANSAS. «Questo è del National Tattler, 1965 circa. Mi capitò d'accennare a quella giornalista che mia mamma diceva sempre d'avere avuto la visione di un angelo dalla veste candida che mi baciava in fronte, quando ero appena nata. Comunque, l'articolo uscì subito dopo che ritrovai un bambino scomparso, a Kansas City. Era solo scappato di casa, arrabbiato con i genitori; si era nascosto in un vecchio stabile a un paio d'isolati di distanza.» Sfogliò altre pagine, indicò con orgoglio diversi ritagli tratti da Star, da Enquirer, da Fate Magazine. L'ultimo articolo, comparso su un giornale di provincia, risaliva al 1987. «Non me la cavavo troppo bene, ultimamente» spiegò Leona. «Sinusite e artrite. Mi annebbiavano, immagino. Comunque, ora sa chi sono.» Josh borbottò qualcosa. Non aveva mai creduto nella percezione extrasensoriale; ma, da quel che aveva visto di recente, non c'era più niente d'impossibile. «Ho notato le sue sfere di cristallo, là dentro.» «Quella è la mia collezione preferita! Provengono da tutto il mondo, sa?» «Sono molto graziose» aggiunse Swan. «Grazie, signorina.» Leona sorrise a Swan, tornò a guardare Josh. «Sa, non ho previsto l'arrivo del disastro. Forse sono diventata troppo vecchia per vedere ancora. Ma ho avuto una brutta sensazione alla bocca dello stomaco, quando hanno eletto il nostro presidente astro-matto. M'è parso il tipo che lascia troppi cuochi a rimestare la pentola. Né Davy né io abbiamo votato per lui, nossignore!» Dalla stanza interna provenne di nuovo la tosse rantolante. Leona piegò la testa, ascoltò con attenzione, ma la tosse si affievolì e lei si rilassò visibilmente. «Non ho molto da offrirvi, in quanto a cibo» spiegò. «Alcune vecchie focaccine di granturco, dure come il cemento, e una pentola di minestrone. Cucino ancora sul camino, non mi sono mai abituata a cibi freddi come letto di vergine. Il pozzo in cortile dà ancora acqua pulita. Approfittate pure di quel che è disponibile.» «Grazie» disse Josh. «Minestrone e focaccine andranno benissimo, anche fredde. Ma mi piacerebbe togliermi di dosso tutto questo sporco.» «Vorrebbe fare il bagno?» Riflette un momento. «Be', penso che si possa fare alla vecchia maniera: scaldare sul fuoco secchi d'acqua e riempire la vasca. Signorina, anche tu dovresti darti una ripulita. Certo, lo scarico rischierà d'intasarsi, con tutto quel terriccio, e non credo che l'idraulico faccia ancora lavori a domicilio. Cosa avete fatto, voi due? Vi siete rotolati nella terra?»
«Grosso modo» disse Swan. Un bagno, caldo o no, era una buona idea. Puzzava come un porcile. Però aveva paura di vedere com'era la pelle, sotto lo sporco. Non sarebbe stato un bello spettacolo. «Allora vado a prendervi un paio di secchi. Potrete pompare l'acqua da voi. Chi fa il bagno per primo?» Josh scrollò le spalle e indicò Swan. «Bene. Vi aiuterei, ma devo stare accanto a Davy, nel caso avesse un attacco. Portate dentro i secchi, scalderemo l'acqua nel camino. Ho una bella vasca con le zampe di leone che non ha più ospitato corpo umano, da quando è cominciato questo maledetto disastro.» Swan la ringraziò. Leona Skelton andò in cucina a prendere i secchi. Nella stanza interna, Davy tossì con violenza alcune volte, poi si calmò. Josh fu tentato di dare un'occhiata all'uomo. La tosse aveva un brutto suono, gli ricordava quella di Darleen poco prima che morisse. Senz'altro era avvelenamento da radiazioni. «La malattia ha cominciato a colpire la gente» aveva detto Leona. L'avvelenamento da radiazioni aveva certo spazzato via quasi tutto il paese. Ma forse alcuni avevano resistenza maggiore di altri; forse le radiazioni stroncavano alcuni individui e minavano lentamente il fisico di altri. Lui era stanco e debole per la camminata, ma per il resto si sentiva bene; anche Swan era in buone condizioni, bruciature a parte, e Leona sembrava in salute. Nello scantinato, Darleen era stata bene il primo giorno, ma quello dopo era abbattuta e scottava di febbre. Forse alcuni tiravano avanti settimane, mesi, senza risentire in pieno delle radiazioni. Si augurò che fosse così. Ma al momento l'idea di un bagno caldo e di un pasto in una scodella, con un vero cucchiaio, lo faceva delirare. «Come ti senti?» domandò a Swan, che guardava nel vuoto. «Sto meglio» rispose la bambina; ma con la mente era tornata alla mamma, che giaceva morta sottoterra; e a quello che PawPaw, o chiunque si fosse impossessato di lui, aveva detto. Che cosa significava? Da che cosa avrebbe dovuto proteggerla, il gigante? E perché proprio lei? Pensò ai germogli verdi cresciuti nel terriccio seguendo la forma del suo corpo. Una cosa del genere non le era mai accaduta. Non aveva fatto niente, in realtà: non aveva neppure impastato la terra fra le dita. Certo, era abituata al formicolio, alla sensazione a volte simile a una fonte d'energia che sgorgasse dalla terra e le scorresse nella spina dorsale... ma questo era diverso. Qualcosa è cambiato, pensò; posso ancora far crescere i fiori. Era facile, farli spuntare dalla terra bagnata, quando il sole splendeva. Ma aveva fatto
crescere germogli nel buio, senz'acqua, e non aveva nemmeno tentato! Era diverso. E il pensiero le venne così, semplicemente: Sono più forte di prima. Josh si accostò alla finestra; scrutò il paesino morto e lasciò Swan da sola con i suoi pensieri. Una sagoma attirò la sua attenzione, là fuori: un piccolo animale, fermo nel vento, con la testa sollevata, lo sguardo puntato su di lui. Un cane. Un piccolo terrier. Si fissarono per alcuni secondi... poi il cane saettò via. Buona fortuna a te, pensò Josh. Girò le spalle alla finestra: l'animale era destinato a morire e lui ormai aveva la nausea della morte. Davy tossì due volte, chiamò flebilmente Leona. La donna portò dalla cucina i secchi per il bagno di Swan e tornò in fretta a occuparsi del marito. 32 Sister e Artie avevano trovato un angolo di paradiso. Entrarono in una piccola baracca di tronchi, nascosta in un boschetto di sempreverdi spogli, sulla riva d'un lago velato di ghiaccio, e sentirono il meraviglioso tepore di una stufa a cherosene. Nel varcare barcollando la soglia, Sister quasi scoppiò a piangere e Artie emise un ansito di piacere. «Il posto è questo» disse l'uomo con la maschera da sci. Nella baracca c'erano già quattro persone: un uomo e una donna, entrambi vestiti di stracci d'abiti estivi, dall'aria giovanile, forse sulla ventina... ma era difficile indovinare, perché entrambi avevano, sulle braccia, sul viso e sulle parti scoperte del corpo, brutte ustioni dalla crosta scura, di forma bizzarramente geometrica. I capelli neri del giovane arrivavano alla spalla, ma la sommità del cranio era calva, chiazzata di segni scuri. La ragazza forse era stata graziosa, con grandi occhi azzurri e ossa sottili da indossatrice, ma i capelli ricci, color biondo rame, erano quasi tutti bruciati e le croste le attraversavano in diagonale il viso, simili a precisi segni di penna. Indossava blue jeans scorciati e sandali; anche le gambe nude erano chiazzate di ustioni. Aveva i piedi avvolti in stracci e stava rannicchiata vicino alla stufa. Gli altri due erano un uomo magro, più anziano, tra i cinquanta e i sessanta, sfigurato in viso da vivide ustioni bluastre, e un ragazzo sui sedici anni, in jeans e T-shirt con la scritta BANDIERA NERA VIVE SEMPRE!, a lettere irregolari, sul davanti. Il ragazzo aveva due bottoncini al lobo sinistro e i capelli arancione tagliati a cresta; ma ustioni grigie gli scendeva-
no lungo il viso dalla mascella volitiva: sembrava che gli avessero acceso una candela in fronte e lasciato sgocciolare la cera. Gli occhi verdi, infossati, guardarono con una luce di divertimento Sister e Artie. «Vi presento gli altri miei ospiti» disse l'uomo con la maschera da sci, deponendo lo zaino sul ripiano di marmo macchiato di sangue accanto al lavello, dopo aver chiuso la porta e tirato il paletto. «Kevin e Mona Ramsey...» indicò la giovane coppia «Steve Buchanan...» indicò il ragazzo. «Dal vecchio sono riuscito a sapere soltanto che viene da Union City. Il vostro nome non lo so ancora.» «Artie Wisco.» «Può chiamarmi Sister. E lei?» L'uomo si tolse la maschera da sci e l'appese al gancio d'un attaccapanni. «Paul Thorson» si presentò. «Cittadino del mondo.» Si tolse di tracolla le bottiglie con il sangue e prese dallo zaino i flaconi Tupperware con il loro macabro contenuto. Sister rimase sorpresa. Il viso di Paul Thorson non era segnato da bruciature. Da un mucchio di tempo non vedeva un viso umano normale. Thorson aveva capelli neri, lunghi e brizzolati; e brizzolata, agli angoli della bocca, era anche la barba nera. La pelle era pallida per mancanza di sole, ma piena di rughe per l'esposizione alle intemperie. La fronte era alta e profondamente segnata. Nell'insieme dava l'impressione di un uomo rude, avvezzo alla vita all'aperto. Sembrava un montanaro, uno di quei tipi che vivono da soli in una baracca e scendono a valle a tendere trappole ai castori. Thorson aveva sopracciglia nere, occhi d'un gelido grigiazzurro, cerchiati dalla stanchezza. Si tolse la giacca a vento, che lo faceva sembrare molto più robusto di quanto non fosse, e appese anche quella; poi cominciò a versare nel lavello il contenuto dei flaconi. «Sister» disse «dammi un po' di quella verdura che ti porti dietro. Stasera abbiamo stufato di cazzone, gente.» «Stufato di cazzone?» ripeté Sister. Aggrottò le sopracciglia. «E che diavolo sarebbe?» «Significa che sei uno stupido cazzone se non lo mangi, perché abbiamo solo questo. Su, dammi le scatole.» «Mangeremo... quella roba?» Artie si allontanò dalla massa di visceri sanguinolenti. Aveva male alle costole; sotto il cappotto si premeva la mano sul torace. «Non è poi così cattivo, amico» disse il ragazzo dai capelli arancione, con la cadenza piatta di Brooklyn. «Ci farai l'abitudine. Merda, uno di quei
bastardi voleva mangiarsi me. Gli sta bene se ce li mangiamo noi, no?» «Certo» convenne Paul, mettendosi a lavorare di coltello. Sister si tolse lo zaino, aprì la sacca e tolse alcune scatole di verdure. Paul versò il contenuto in una grossa pentola di ferro. Sister rabbrividì, ma era chiaro che Thorson sapeva il fatto suo. La baracca pareva composta solo di due ampie stanze. In quella d'ingresso, oltre alla stufa a cherosene, c'era un piccolo camino di pietra, nel quale bruciava un bel fuoco che aggiungeva calore e luce all'ambiente. Alcune candele incollate in piattini e una lampada a cherosene illuminavano la stanza, che conteneva due sacchi a pelo arrotolati, una brandina e un mucchio di giornali in un angolo. Dall'altra parte c'erano un fornello di ghisa e una bella catasta di tronchi spaccati. Paul disse: «Steve, accendi pure il fornello». Il ragazzo si alzò, prese accanto al camino una paletta e mise nel fornello un po' di tizzoni ardenti. Sister provò un nuovo impeto di gioia: avrebbero avuto un pasto caldo! «È ora, no?» disse il vecchio, guardando Paul. «È ora, vero?» Paul diede un'occhiata all'orologio da polso. «No. Non ancora.» Continuò a tagliare interiora e cervella. Aveva dita lunghe e sottili: mani d'artista, particolarmente inadatte al lavoro in cui erano impegnate al momento. «Questa è casa tua?» domandò Sister. Paul annuì. «Vivo qui da... da circa quattro anni, ormai. Durante l'estate, faccio il sorvegliante alla stazione sciistica Big Pines, a una decina di chilometri da qui, in quella direzione.» Indicò il lago alle spalle dalla baracca. «D'inverno, mi metto comodo e vivo di quel che offre la regione.» Le diede un'occhiata e sorrise. «L'inverno è venuto presto, quest'anno.» «Cosa facevi sull'autostrada?» «I lupi vanno lì a cercare cibo. Io ci vado a cacciare lupi. Ho trovato così questi poveracci: vagavano lungo la S-80. Ne ho trovati anche altri. Le tombe sono dietro la baracca. Te le mostro, se vuoi.» Sister scosse la testa. «Vedi, i lupi sono sempre vissuti fra le montagne. Non hanno mai avuto motivo di scendere, prima d'ora. Mangiano conigli, daini, gli animali che trovano. Ma ora i piccoli animali muoiono nelle tane e i lupi fiutano cibo nuovo. Così scendono a branchi al supermercato S-80 in cerca di carne più fresca. Loro quattro sono giunti qui prima che cominciasse a nevicare... se si può chiamare neve quella merda radioattiva.» Grugnì, disgustato. «Comunque, la catena alimentare è andata a farsi benedire. I grossi animali non trovano più animali piccoli da mangiare. Soltanto cristiani. E i lupi sono diventati davvero disperati, e davvero arditi.» Buttò nella pentola i pez-
zi d'interiora, poi stappò una bottiglia di sangue e versò anche quello. L'odore acre riempì la stanza. «Altra legna, Steve. Questa merda deve bollire!» «Giusto.» «So che è ora!» si lamentò il vecchio. «Dev'essere ora!» «No, non è ora» disse Kevin Ramsey. «Prima dobbiamo mangiare.» Paul versò nella pentola il sangue della seconda bottiglia. Con un cucchiaio di legno cominciò a mescolare l'intruglio. «Voi due potete anche togliervi il cappotto e restare a cena, a meno che non vogliate andare al prossimo ristorante lungo la strada.» Sister e Artie si guardarono, nauseati dall'odore dello stufato. Sister fu la prima a togliersi i guanti, il cappotto e il berretto di lana. Riluttante, Artie la imitò. «Bene.» Paul mise sul fornello la pentola. «Alimenta il motore della piccola e alza il fuoco.» Mentre Steve Buchanan si dava da fare, lui andò ad aprire uno stipo e ne tolse una bottiglia che conteneva ancora del vino rosso. «È l'ultimo soldatino» disse. «Un buon sorso ciascuno.» «Un momento.» Sister aprì di nuovo lo zaino e tirò fuori le sei lattine di Olympia. «Forse con lo stufato la birra va meglio.» A tutti brillarono gli occhi. «Dio mio!» disse Paul. «Signora, hai appena comprato la mia anima.» Toccò con cautela la confezione da sei, come se temesse di vederla evaporare; e quando non accadde niente, staccò una lattina dall'anello di plastica. La scosse con prudenza, fu lieto di scoprire che non si era congelata. Allora strappò la linguetta e si portò la lattina alle labbra; bevve una lunga sorsata, chiudendo gli occhi per il piacere. Sister distribuì le birre agli altri, tranne Artie, e divise con lui la bottiglia di Perrier. Non era birra, ma era buona ugualmente. Lo stufato di cazzone impestò la baracca con un puzzo da mattatoio. Da fuori provenne un ululato, basso e lontano. «Lo fiutano» disse Paul, con un'occhiata alla finestra. «I bastardi saranno tutti qui intorno, nel giro di qualche minuto!» Gli ululati continuarono e aumentarono; altri lupi aggiunsero la loro voce al concerto discorde e vibrato. «Dev'essere ora!» riprese il vecchio, terminata la birra. «Giusto?» «È quasi ora.» Mona Ramsey aveva una voce gentile, bella. «Manca poco. Manca poco.» Steve rimestava la pentola. «Bolle. La merda sembra pronta.»
«Ottimo.» Lo stomaco di Artie era sul punto di coagularsi. Paul riempì di stufato alcune scodelle di terracotta marrone. L'intruglio era più denso di quanto Sister s'aspettava; l'odore era forte, ma non tanto cattivo come quello di certe cose che recuperava dai sacchi dell'immondizia, quand'era ancora a Manhattan. Il colore era rosso scuro; ma se non guardavi troppo attentamente, potevi credere che fosse solo una ciotola di normale stufato di manzo. Fuori, i lupi ululavano all'unisono, più vicino alla baracca, quasi sapessero che uno della loro razza stava per finire in pance umane. Sister portò alle labbra la scodella. La brodaglia era amara e granulosa, ma la carne non era tanto cattiva. Sister sentì in bocca l'acquolina e cominciò a ingurgitare l'intruglio caldo, con la voracità d'un animale. Dopo due bocconi, Artie era impallidito. «Ehi» gli disse Paul «se hai intenzione di vomitare, vai a farlo fuori. Una goccia sul mio pavimento pulito, e te ne vai a dormire con i lupi.» Artie chiuse gli occhi e continuò a mangiare. Gli altri vuotarono velocemente la loro scodella, la ripulirono con le dita, la tesero per avere altro stufato: sembravano orfani usciti dalle pagine di Oliver Twist. I lupi ululavano e ringhiavano alla porta della baracca. Qualcosa batté contro la parete; Sister trasalì, si versò sul maglione un po' di stufato. «Sono solo curiosi» le disse Steve. «Non sudare, signora. Fa freddo.» Sister prese una seconda scodella. Artie la guardò, inorridito, e si scostò, sempre tenendosi la mano sulle costole doloranti. Paul se ne accorse, ma non disse niente. Appena la pentola fu bell'e pulita, il vecchio disse con irritazione: «È ora! Subito!» Paul mise da parte la scodella vuota, guardò di nuovo l'orologio. «Non è ancora passato un giorno intero.» «Per favore.» Il vecchio aveva negli occhi un'espressione da cucciolo smarrito. «Per favore... d'accordo?» «Conosci le regole. Una volta al giorno. Né più, né meno.» «Per favore. Solo stavolta... non possiamo farlo prima?» «Uff, merda!» disse Steve. «Su, andiamo avanti e facciamola finita!» Mona Ramsey scosse con violenza la testa. «No, non è ora! Non è passato un giorno intero! Conosci le regole!» Fuori i lupi ringhiavano, come se avessero il muso proprio contro le fessure della porta. Due, o più, avevano iniziato ad azzuffarsi, s'azzannavano e latravano. Sister non aveva idea di che cosa gli altri parlassero, ma qual-
sìasi cosa fosse, era certo d'importanza vitale. Il vecchio sembrava sul punto di piangere. «Solo stavolta... solo stavolta» gemette. «Non farlo!» disse Mona a Paul, con una luce di sfida negli occhi. «Ci devono essere delle regole!» «Vaffanculo le regole!» Steve Buchanan batté sul banco la scodella. «Dico di farlo e di piantarla!» «Cosa vi succede?» disse Sister, perplessa. Gli altri smisero di discutere e la guardarono. Paul Thorson diede un'occhiata all'orologio e sospirò pesantemente. «E va bene» disse. «Solo per questa volta, anticipiamo.» Alzò la mano per bloccare le obiezioni della giovane. «Saremo in anticipo solo di un'ora e venti minuti. Quanto basta perché non ci faccia male.» «No, invece!» Mona quasi gridava. Il marito le mise la mano sulla spalla, come per trattenerla. «Potrebbe rovinare tutto!» «Votiamo, allora» propose Paul. «Siamo ancora una democrazia, no? Dica "sì" chi vuole che si faccia prima.» Immediatamente il vecchio gridò: «Si!» Steve Buchanan alzò il pollice. I Ramsey rimasero zitti. Paul esitò, ascoltando il richiamo dei lupi; era chiaro che rifletteva. Poi disse piano: «Sì. I sì vincono.» «E loro?» Mona indicò Sister e Artie. «Loro non votano?» «Diavolo, no!» disse Steve. «Sono nuovi! Non hanno ancora diritto di voto.» «Vincono i sì» ripeté Paul con fermezza, fissando Mona. «Un anticipo di un'ora e venti non cambierà molto le cose.» «Le cambierà!» replicò lei, con voce rotta. Si mise a singhiozzare, mentre il marito la teneva per le spalle e cercava di consolarla. «Rovinerà tutto! Lo so!» «Voi due venite con me» disse Paul a Sister e a Artie, guidandoli nell'altra stanza. Là dentro c'era un letto regolare, con una trapunta, alcuni scaffali di libri tascabili e rilegati, un tavolo e una sedia. Sul tavolo c'era una macchina per scrivere Royal, vecchia e ammaccata, e una sottile risma di carta. Fogli appallottolati giacevano attorno al cestino di vimini già colmo. Il posacenere era pieno di fiammiferi usati; cenere di tabacco si era riversata dal fornello di una pipa di radica nera. Sul tavolino accanto al letto c'erano un paio di candele fissate a due piattini; dalla finestra si scorgeva il lago contaminato. Ma non era l'unica cosa che la finestra rivelava.
Parcheggiato dietro la baracca, c'era un vecchio camioncino Ford: la vernice grigio militare si squamava dalle fiancate e dal cofano; viticci di ruggine cominciavano a mangiarsi la lamiera. «Hai un camion!» esclamò Sister, eccitata. «Mio Dio! Possiamo andarcene da qui!» Paul lanciò un'occhiata al camion, si accigliò e scrollò le spalle. «Dimenticalo, signora.» «Come? Cosa vuol dire, dimenticalo? Hai un camion! Possiamo tornare alla civiltà!» Paul prese la pipa, infilò il dito nel fornello, grattò i residui di carbone. «Sì? E dove sarebbe?» «Là fuori! Lungo la S-80!» «Quanto, secondo te? Tre chilometri? Otto? Quindici? Forse ottanta?» Mise da parte la pipa, lanciò a Sister un'occhiata astiosa, poi tirò la tenda verde che separava le due stanze. «Dimenticalo» ripeté. «Nel serbatoio c'è solo una tazza di benzina, i freni sono bruciati, non credo che si metta nemmeno in moto. La batteria era sempre scassata anche nei giorni belli.» «Ma...» Sister guardò di nuovo il veicolo, poi Artie, infine Paul Thorson. «Hai un camion!» disse di nuovo, e alle sue orecchie la voce parve un lamento. «I lupi hanno zanne!» replicò lui. «Appuntite. Vuoi che quella povera gente di là scopra fino a che punto? Vuoi ammucchiarli sul cassone e andare a fare una bella gita nella campagna della Pennsylvania, con una tazza di benzina nel serbatoio? Certo. Nessuna difficoltà a chiamare un carro attrezzi, quando si guasta. Ci porta dritti alla stazione di servizio, tiriamo fuori la carta di credito e riprendiamo la strada.» Restò in silenzio un attimo, poi scosse la testa. «Non tormentarti. Dimenticalo. Siamo destinati a stare qui.» Sister udì l'ululato dei lupi librarsi fra i boschi e sulla superficie ghiacciata del lago: temette che lui avesse ragione. «Non vi ho fatti venire qui per parlare di quel rottame di camion» disse Paul. Da sotto il letto tirò fuori un vecchio baule di legno. «Sembra che voi due abbiate ancora quasi tutte le rotelle al posto giusto. Non so voi cosa avete passato, ma quelli di là sono appesi a un filo.» Il baule era chiuso da un lucchetto grosso come un pugno. Nella tasca dei jeans Paul pescò una chiave e lo aprì. «Da queste parti facciamo un piccolo gioco. Forse non sarà tanto bello, ma contribuisce a tenerli in quadro, credo. Un po' come andare tutti i giorni alla cassetta della posta, per-
ché aspetti una lettera d'amore o un assegno.» Sollevò il coperchio del baule. Dentro, protetti da giornali e stracci, c'erano tre bottiglie di Johnny Walker etichetta rossa, una rivoltella .357 Magnum con paio di scatole di munizioni, alcuni manoscritti dall'aria ammuffita tenuti insieme da elastici, un altro oggetto avvolto in plastica spessa. Paul cominciò a svolgere la plastica. «Davvero buffo» disse. «Sono venuto quassù in mezzo al nulla per stare lontano dalla gente. Non sopporto la razza. Mai sopportata. E non sono certo il tipo del buon samaritano. Poi d'un tratto l'autostrada si copre di auto e di cadaveri, la gente scappa come se avesse il diavolo alle calcagna, e mi ritrovo immerso fino alle orecchie nella razza umana. Vaffanculo, dico io. Quel che abbiamo avuto, ce lo siamo meritati!» Tolse l'ultimo strato di plastica e mise in mostra una radio con un'intricata serie di quadranti e di manopole. La tolse dal baule, aprì il cassetto del tavolo e ne prese otto pile. «Onde corte» disse, mentre inseriva le pile nel retro della radio. «Mi piaceva ascoltare i concerti trasmessi dalla Svizzera nel cuore della notte.» Chiuse il baule e serrò di nuovo il lucchetto. «Non capisco» disse Sister. «Capirai. Solo, non impressionarti troppo per quello che accadrà nei prossimi minuti. Come t'ho detto, è solo un gioco; ma oggi loro sono assai suscettibili. Volevo solo prepararvi.» Segnalò di seguirlo e tornarono nella stanza anteriore. «È il mio turno, oggi!» gridò il vecchio, alzandosi sulle ginocchia, con gli occhi che brillavano. «L'hai fatto ieri» replicò Paul, calmo. «Oggi tocca a Kevin.» Tese la radio al giovanotto. Kevin esitò, poi la prese, come se reggesse un bambino in fasce. Gli altri si radunarono intorno a lui, tranne Mona Ramsey, che si allontanò con fare irascibile. Ma anche lei guardava, eccitata, il marito. Kevin estrasse completamente l'antenna telescopica, che raggiungeva i sessanta centimetri e brillava come una promessa. «Bene» disse Paul. «Accendi la radio.» «Non ancora» esitò il giovanotto. «Per favore. Ancora no.» «Forza, amico!» La voce di Steve Buchanan tremava. «Accendila!» Lentamente Kevin girò una manopola: l'ago rosso si mosse fino in fondo al quadrante delle frequenze. Poi posò il dito sopra un pulsante rosso e ve lo tenne, come se non trovasse il coraggio di premerlo. Trasse un sospiro rumoroso e improvviso... e premette l'interruttore.
Sister trasalì e ogni altro ansimò, o sobbalzò, o cambiò posizione. Dalla radio non provenne alcun suono. «Alza il volume, amico!» «È già al massimo» replicò Kevin. Piano piano, con delicatezza, iniziò a muovere l'ago lungo il quadrante delle frequenze. Mezzo centimetro, e ancora nessun suono. L'ago rosso continuò a muoversi, quasi impercettibilmente. Sister si sentiva le mani sudate. Piano, piano, altri cinque millimetri. Un violento scoppio di statica sgorgò all'improvviso dall'altoparlante. Sister e tutti gli altri sobbalzarono. Kevin fissò Paul, che disse: «L'atmosfera è sovraccarica». L'ago rosso si spostò ancora, fra numerini e punti decimali, in cerca di una voce umana. Diverse tonalità di statica sgorgarono e svanirono, in una bizzarra cacofonia di violenza atmosferica. Gli ululati dei lupi all'esterno si mescolarono con i disturbi radio... un suono solitario, quasi straziante nella sua solitudine. Momenti di silenzio assoluto si alternarono con quelle aspre, orribili statiche... e Sister capì che ascoltava i fantasmi usciti dai creteri nerastri dove un tempo sorgevano le città. «Vai troppo in fretta!» protestò Mona. Kevin rallentò il movimento dell'ago al punto che un ragno sarebbe stato tentato a tessergli la tela fra le dita. Il cuore di Sister batteva forte a ogni minimo cambiamento nell'altezza e nel volume dei disturbi che uscivano dall'altoparlante. Alla fine Kevin giunse in fondo al quadrante. Aveva le lacrime agli occhi. «Prova le onde medie» disse Paul. «Sì! Prova le medie!» lo incitò Steve, premendo contro la spalla di Kevin. «Dev'esserci qualcosa, sulle medie!» Kevin commutò il piccolo pulsante per passare dalle onde corte alle medie e guidò di nuovo l'ago rosso nella ricerca fra i numerini. Questa volta, a parte schiocchi improvvisi e un debole, remoto ronzio simile a quello di api al lavoro, la banda restò quasi completamente muta. Sister non sapeva quanto tempo Kevin impiegò ad arrivare a fondo scala: potevano essere dieci minuti, quindici, venti. Ma il giovanotto sforzò la manopola fino all'ultimo fioco sfrigolio, poi rimase a reggere fra le mani la radio e a fissare il vuoto; sulla tempia gli pulsava una vena. «Niente» mormorò. Premette il pulsante rosso. Silenzio. Il vecchio si coprì il viso.
Artie, in piedi accanto a Sister, emise un sospiro inerme, disperato. «Nemmeno Detroit» disse fiaccamente. «Buon Dio... nemmeno Detroit.» «Giravi troppo in fretta, amico!» disse Steve a Kevin Ramsey. «Merda, correvi! M'è parso di udire qualcosa, una voce! E sei andato avanti!» «No!» gridò Mona. «Non c'era nessuna voce. L'abbiamo fatto troppo presto, ecco perché non c'erano voci! Se l'avessimo fatto all'ora giusta, secondo le regole, stavolta avremmo udito qualcuno! Lo so!» «Era il mio turno.» Il vecchio girò verso Sister occhi supplichevoli. «Tutti mi rubano sempre il turno!» Mona cominciò a singhiozzare. «Non abbiamo seguito le regole! Abbiamo mancato la voce perché non abbiamo seguito le regole!» «Vaffanculo!» sbottò Steve. «La voce io l'ho sentita! Lo giuro davanti a Dio! Era proprio...» Cercò di prendere la radio, ma Paul Thorson la strappò dalle mani di Kevin prima che Steve la toccasse. Abbassò l'antenna e tornò nell'altra stanza. Sister non riusciva a credere allo spettacolo appena visto. Sentì montare in sé la collera e la compassione per quei poveri sventurati. Entrò a passo deciso nella stanza dove Paul Thorson avvolgeva di nuovo la radio nella protezione di plastica. Paul alzò lo sguardo; Sister alzò la destra e gli diede un ceffone in pieno viso, mettendo nel colpo tutta la furia della punizione divina. Paul finì per terra, con un segno rosso sulla guancia. Pur cadendo, strinse la radio al petto per proteggerla e assorbì con la spalla l'urto. Rimase disteso a guardarla, battendo le palpebre. «In tutta la mia vita non ho mai visto niente di così crudele!» sbraitò Sister. «Lo trovi divertente? Ci godi? Alzati, figlio di puttana! Ti faccio attraversare a calci in culo la parete!» Avanzò contro di lui, ma Paul alzò la mano a pararsi e lei esitò. «Un momento» gracchiò Paul. «Ferma. Ancora non hai capito.» «Te lo faccio capire io, brutto stronzo!» «Calma. Aspetta e guarda. Poi prendimi a calci, se ne hai ancora voglia.» Si rialzò, finì d'avvolgere la radio, la rimise nel baule; poi chiuse il lucchetto e spinse di nuovo il baule sotto il materasso. «Dopo di te» disse, invitandola a rientrare nell'altra stanza. Mona Ramsey si era accucciata a singhiozzare in un angolo, mentre il marito cercava di confortarla. Il vecchio, rannicchiato contro la parete, fissava il vuoto; Steve prendeva a calci e a pugni il muro, gridando oscenità. Artie se ne stava impietrito al centro della stanza, mentre il ragazzo dai capelli arancione infuriava intorno.
«Mona?» disse Paul. Sister era in piedi alle sue spalle, un poco spostata di lato. La ragazza sollevò lo sguardo. Il vecchio guardò Paul, e anche Kevin; Steve smise di martellare le pareti. «Hai ragione, Mona» continuò Paul. «Non abbiamo seguito le regole. Per questo non abbiamo udito voci. Ora, non dico che la sentiremo domani, se seguiremo le regole. Ma domani è un altro giorno, vero? Lo diceva sempre, Rossella O'Hara. Domani accenderemo la radio e proveremo di nuovo. E se non sentiremo niente domani, proveremo il giorno dopo. Sai, ci vuole un certo tempo a riparare una stazione radio e rimetterla in funzione. Un bel po' di tempo. Ma domani tenteremo di nuovo. D'accordo?» «Certo!» disse Steve. «Diavolo, ci vuole tempo per riprendere le trasmissioni!» Sogghignò, guardandoli uno dopo l'altro. «Scommetto che proprio in questo momento ci lavorano! Cristo, è una faticaccia, no?» «Ascoltavo sempre la radio!» disse il vecchio. Sorrideva anche lui, come se fosse entrato in un sogno. «D'estate ascoltavo alla radio le partite dei Mets. Domani sentiremo qualcuno, ve lo dico io!» Mona si aggrappò alla spalla del marito. «Non abbiamo seguito le regole, vero? Vedi? Te l'avevo detto... è importante avere delle regole!» Ma aveva smesso di piangere e all'improvviso si mise a ridere. «Dio ci lascerà udire qualcuno, se seguiremo le regole! Domani! Sì, potrebbe succedere già domani!» «Giusto!» convenne Kevin, stringendosi a lei. «Domani!» «Già.» Paul si guardò intorno; manteneva sulle labbra un sorriso, ma aveva occhi addolorati e ossessionati. «Penso anch'io che potrebbe succedere domani.» Incrociò lo sguardo di Sister. «E tu?» Sister esitò, poi capì. Quella gente non aveva altra ragione di vita se non la radio nel baule. Senza di essa, senza l'attesa di un'occasione speciale una volta al giorno, forse si sarebbe uccisa. Tenere la radio sempre accesa, avrebbe esaurito le batterie e posto fine alla speranza; Paul Thorson sapeva che forse da quella radio non avrebbero mai udito una voce umana. Tuttavia, a modo suo, era davvero un buon samaritano. Teneva in vita quella gente non solo procurando da mangiare. «Sì» disse infine. «Lo penso anch'io.» «Bene.» Il sorriso di Paul divenne più marcato, come la ragnatela di rughe intorno agli occhi. «Spero che voi due sappiate giocare a poker. Ho un mazzo di carte nuovo di zecca e per fiches fiammiferi in quantità. Non andavate di fretta, vero?»
Sister diede un'occhiata ad Artie: in piedi, spalle chine, occhi vacui; capì che pensava al buco in cui una volta c'era Detroit. Lo guardò per un momento; e Artie si raddrizzò e rispose, con voce debole ma coraggiosa: «No. Non ho fretta d'andare da nessuna parte. Non più». «Da queste parti si gioca cambiando fino a cinque carte. Se vinco io, vi leggo le mie poesie e dovrete sorridere e farmi i complimenti. Oppure, a scelta, andate a vuotare i vasi da notte.» «Deciderò quando sarà il momento» rispose Sister. Paul Thorson cominciava a piacerle parecchio. «Sembri un vero giocatore di professione, signora!» Paul batté le mani, con allegria beffarda. «Benvenuta nel club!» 33 Swan l'aveva evitato il più a lungo possibile. Ma ora, uscendo dall'acqua meravigliosamente calda della vasca da bagno, rimasta scura e torbida per i brandelli di pelle e per lo sporco, nel prendere il grande asciugamano preparatole da Leona Skelton, non riuscì a resistere. Si guardò allo specchio. La luce proveniva da un unico lume, con lo stoppino molto basso, ma era sufficiente. Swan fissò lo specchio ovale posto sopra la bacinella: le parve di guardare uno sconosciuto con una grottesca e pelata maschera di Halloween. Si portò la mano alle labbra; l'orribile immagine la imitò. Dal viso pendevano brandelli di pelle che si staccavano come corteccia d'albero. Strisce di croste marrone attraversavano la fronte e la radice del naso; le sopracciglia, un tempo così bionde e folte, erano bruciate del tutto. Le labbra erano screpolate come terra secca, gli occhi sembravano sprofondati in buchi scuri. Sulla guancia destra erano spuntate due piccole verruche nerastre; altre tre, sulle labbra. Lei aveva visto escrescenze simili sulla fronte di Josh, le ustioni scure sul viso del gigante e la sua pelle chiazzata di grigio biancastro, ma vi si era abituata. Ora, nel vedere i peli corti e ispidi al posto dei capelli, i brandelli biancastri di pelle morta che le penzolavano dal viso, non riuscì a trattenere lacrime di choc e d'orrore. Trasalì nell'udire un colpetto educato alla porta del bagno. «Swan? Va tutto bene, piccolina?» disse Leona Skelton. «Sissignora» rispose lei, ma con voce malferma; e capì che la donna se n'era accorta. Dopo una pausa, Leona disse: «Be', ti ho preparato un boccone, quando
sei pronta». Swan ringraziò e disse che sarebbe uscita subito. Leona si allontanò. Dallo specchio, il mostro con la maschera di Halloween scrutò Swan. La bambina aveva lasciato a Leona i vestiti sporchi; la donna aveva detto che avrebbe provato a lavarli in un secchio e ad asciugarli davanti al fuoco. Così Swan si avvolse nel pesante accappatoio di lana a quadri, della misura adatta a un ragazzo, e si mise le spesse calze bianche che Leona aveva lasciato per lei. L'accappatoio proveniva da un baule di abiti smessi appartenuti al figlio di Leona, Joe... che, aveva aggiunto con orgoglio la donna, ora stava a Kansas City, aveva messo su famiglia e lavorava come direttore di un supermercato. Volevo buttare via il baule, aveva detto Leona a Swan e a Josh, ma non ho mai trovato il momento. Swan era pulita. Aveva usato un sapone profumato di lillà e ora pensò con rimpianto ai giardini pieni di colori vivaci sotto il sole. Uscì dalla stanza da bagno e lasciò acceso il lume perché anche Josh avesse luce mentre si lavava. La casa era fredda. Andò dritta al camino per scaldarsi di nuovo. Josh dormiva sul pavimento, la testa su un guanciale, avvolto in una coperta rossa. Accanto alla testa c'era un vassoio con una scodella vuota, una tazza e briciole di focaccine di granturco. La coperta era scivolata via dalla spalla e Swan si chinò a rimboccargliela fin sotto il mento. «Mi ha raccontato come vi siete incontrati» disse Leona sottovoce, per non disturbarlo; Josh dormiva profondamente, non si sarebbe svegliato nemmeno se dalla parete fosse entrato un camion. Dalla cucina Leona aveva portato per Swan un vassoio con una scodella di minestrone tiepido, una tazza d'acqua di pozzo e tre focaccine di granturco. Swan prese il vassoio e si sedette davanti al camino. La casa era silenziosa. Davy Skelton dormiva; a parte un'occasionale folata di vento sul tetto, non c'era altro rumore che il crepitio delle braci e il ticchettio dell'orologio a corda posto sulla mensola del camino, che segnava le otto e quaranta. Leona si accomodò in una poltrona rivestita di vistosa stoffa a fiori. Le ginocchia le scricchiolarono. Lei trasalì, le massaggiò con la mano ossuta e macchiata dall'età. «Alle vecchie ossa piace parlare» disse. Indicò con un cenno il gigante addormentato. «Dice che sei una bambina molto coraggiosa. Che quando prendi una decisione, non torni indietro. È vero?» Swan non seppe che cosa rispondere. Scrollò le spalle, senza smettere di sgranocchiare la focaccia dura come pietra. «Be', è quel che m'ha detto. È bello avere un carattere forte. Soprattutto in tempi come questi.» Spostò lo sguardo alla finestra. «Tutto è cambiato,
ora. Tutto è morto. Lo so.» Socchiuse gli occhi. «Odo una voce tenebrosa, nel vento; dice: "Tutto mio... tutto mio" . Non penso che sia rimasta molta gente, mi spiace dirlo. Forse il mondo intero è proprio come Sullivan, vola via, cambia, si muta in qualcosa di diverso.» «In che cosa?» disse Swan. «E chi lo sa?» Leona scrollò le spalle. «Oh, il mondo non finirà. Sulle prime l'avevo pensato. Ma anche il mondo ha un carattere forte.» Sollevò il dito nodoso, per sottolineare le parole. «Anche se tutta la gente, nelle grandi città e nelle piccole, muore, e se tutti gli alberi e le messi anneriscono, e se le nuvole non lasciano più passare il sole, il mondo continuerà a girare. Dio ha dato a questo mondo una spinta possente, eccome! E ha dato un carattere forte a un mucchio di persone... persone come te, forse. E come il tuo amico.» A Swan parve di udire un cane abbaiare: un latrato incerto, subito coperto dal vento. Si alzò, guardò da una finestra, poi dall'altra, ma non vide molto. «Ha udito un cane abbaiare?» «Eh? No, ma tu sì, probabilmente. I randagi continuano a passare dal paese, in cerca di cibo. A volte lascio sui gradini della veranda qualche briciola e una tazza d'acqua.» Si affaccendò a disporre pezzi di legno fra le braci del camino, per alimentare il fuoco. Swan bevve un altro sorso d'acqua e decise che i suoi denti non potevano più affrontare la battaglia con le focaccine di granturco. Ne prese una e disse: «Va bene se porto fuori questa e un po' d'acqua?» «Certo, fai pure. Anche i randagi devono mangiare. Però stai attenta a non farti portare via dal vento.» Swan uscì sulla veranda. Il vento, cresciuto d'intensità, spingeva davanti a sé ondate di polvere. Con l'accappatoio che le svolazzava intorno, Swan posò sul gradino più basso la focaccia e la tazza d'acqua; guardò in tutte le direzioni, riparandosi gli occhi dalla polvere. Non vide segno di cani. Si soffermò un momento accanto allo stipite della porta a rete; sul punto di rientrare, credette di scorgere alla sua destra un movimento furtivo. Aspettò ancora, anche se cominciava a rabbrividire di freddo. Finalmente una piccola sagoma grigia s'avvicinò. Il terrier si fermò a tre metri dalla veranda e annusò il terreno. Poi fiutò l'aria, cercando l'odore di Swan. Il vento gli arruffò il pelo corto e impolverato. Il terrier guardò Swan e tremò. La bambina sentì una fitta di compassione per la creatura. Quel cane veniva chissà da dove; era spaventato, non si sarebbe avvicinato al cibo an-
che se lei era in cima ai gradini. All'improvviso il terrier si girò e saettò via nel buio. Non si fidava più degli esseri umani. Swan lasciò lì cibo e acqua, rientrò in casa. Il fuoco ardeva allegramente. Leona, davanti al camino, si scaldava le mani. Sotto la coperta, Josh scalciò e russò più forte, poi tornò a calmarsi. «Hai visto il cane?» domandò Leona. «Sissignora. Però non voleva mangiare, finché c'ero io.» «Già. Forse ha un certo orgoglio, non credi?» Si girò verso Swan e la luce arancione delineò la sua figura rotondetta. Swan non poté fare a meno di rivolgerle la domanda che le era venuta in mente mentre si beava nella vasca. «Non intendo offenderla, signora, ma... è una strega?» Leona si mise a ridere piano. «Ah! Dici quel che pensi, eh, bambina? Ma fai bene. È cosa rara, di questi tempi.» Swan, in silenzio, aspettò che continuasse. Ma Leona non aggiunse altro. Allora Swan disse: «Mi piacerebbe saperlo. Lo è davvero? Mamma diceva che chi ha la seconda vista o prevede il futuro, è per forza maligno, perché queste cose vengono da Satana». «Diceva così? Be', non so se posso definirmi una strega. Forse lo sono davvero. E sono la prima a dirti che non tutto quel che vedo si avvera. Anzi, ho un punteggio assai basso, per una veggente. Immagino che la vita assomigli a uno di quei grossi puzzle da ricomporre, di cui non si conosce il soggetto... devi scoprirlo un pezzo dopo l'altro, ma cerchi di mettere a forza i pezzi nei posti sbagliati e diventi così stanca che ti viene voglia di prenderti la testa fra le mani e piangere.» Scrollò le spalle. «Non dico che il puzzle sia già ricomposto, ma forse ho il dono di vedere qual è il pezzo da inserire dopo. Non tutte le volte, bada bene. Solo di tanto in tanto, quando il pezzo seguente conta davvero. Immagino che Satana voglia sparpagliare i pezzi, bruciarli e distruggerli. Non credo che al Vecchio Sgraffigna piaccia vedere il puzzle ben riordinato e tutto a posto, vero?» «No» disse Swan. «Non credo neanch'io.» «Bambina, voglio mostrarti una cosa... se per te va bene.» Swan annuì. Leona prese un lume e invitò Swan a seguirla. Percorsero il corridoio, passarono davanti alla porta chiusa dietro cui Davy dormiva, arrivarono a quella in fondo. Leona l'aprì e introdusse Swan in una stanzetta dalle pareti a pannelli di pino, piena di scaffali e di libri, con al centro un tavolino da gioco, quadrato, e quattro poltrone. Sul tavolino c'era una tavoletta a rotelle ouija, per i messaggi spiritici; sotto, una stella multicolore a cinque pun-
te, dipinta sul pavimento di legno. «Cos'è?» chiese Swan, indicando il disegno messo in mostra dal lume. «Si chiama pentacolo. Un segno magico. Questo qui dovrebbe attirare spiriti benigni e utili.» «Spiriti? Vuol dire fantasmi?» «No, solo sentimenti buoni, emozioni, eccetera. Non so, con certezza; ho letto la pubblicità su Fate Magazine e l'ho ordinato, ma non c'erano molte spiegazioni.» Posò il lume sul tavolo. «Comunque, questa è la stanza dove ho le visioni. Qui porto... qui solevo portare i clienti; interrogavo per loro la sfera di cristallo e la tavoletta ouija. In un certo senso, lo definirei il mio ufficio, eh?» «Vuol dire che ne ricava denaro?» «Certo! Perché no? È un modo onesto di guadagnarsi da vivere. E poi, tutti vogliono sentir parlare del loro argomento preferito... se stessi.» Rise; e i denti mandarono bagliori d'argento. «Guarda qui!» Allungò la mano accanto a uno scaffale di libri e prese un pezzo di legno nodoso che pareva uno scarno ramo d'albero, lungo quasi un metro, con due rametti più piccoli che sporgevano ad angolo da un'estremità. «Questa è Crybaby, la Piagnucolona. La mia vera fonte di denaro!» A Swan pareva solo un vecchio bastone bizzarro. «Quell'affare lì? E come fa?» «Hai mai sentito parlare di bacchette da rabdomante? Questa è la miglior bacchetta da rabdomante che esista, bambina. La Vecchia Crybaby si piega a piangere su una pozza d'acqua a trenta metri di profondità nella solida roccia. L'ho trovata a una vendita di roba vecchia, nel 1968; in questa contea Crybaby ha fatto sgorgare cinquanta pozzi, compreso il mio, nel cortile. Trova l'acqua più limpida che tu possa sperare di gustare. Oh, adoro questa bacchetta!» Le diede un bacio con lo schiocco e la rimise a posto. Poi rivolse a Swan uno sguardo scintillante e malizioso. «Ti piacerebbe se ti leggessi il futuro?» «Non so» rispose la bambina, a disagio. «Ma non ti piacerebbe? Magari solo un pochino? Oh, per gioco, voglio dire... niente di più.» Swan scrollò le spalle, ancora poco convinta. «M'interessi, bambina» disse Leona «Dopo quel che Josh ha raccontato di te, e dopo quel che tutt'e due avete passato... vorrei dare un'occhiata al vecchio grosso puzzle. Non ti piacerebbe?» Sister si domandò se Josh le avesse parlato anche dell'ordine di PawPaw
e dei germogli cresciuti dove lei aveva dormito. Certamente no, si disse. Non conoscevano Leona Skelton abbastanza bene da rivelarle i loro segreti! Però, se la donna era davvero una strega, buona o cattiva, forse già sapeva, o quanto meno sospettava, che nel racconto di Josh c'era qualcosa di bizzarro. «Come farebbe?» domandò. «Con una sfera di cristallo? O con la tavoletta?» «No, non credo. Anch'esse hanno la loro utilità, ma userò queste.» Da uno scaffale prese una scatola di legno intagliato e si avvicinò al tavolo, dove la luce era più forte. Scostò la tavoletta ouija, posò la scatola e ne sollevò il coperchio. L'interno era rivestito di velluto viola. Leona Skelton ne trasse un mazzo di carte. Lo girò dalla parte delle figure e lo allargò, in modo che Swan le vedesse. E Swan trattenne il fiato. Sulle carte c'erano figure bizzarre e meravigliose: spade, bastoni, coppe, pentacoli come quello dipinto per terra, in numero diverso su ogni carta, tracciate su sfondi enigmatici che Swan non capiva... tre spade che trapassavano un cuore, oppure otto bastoni che volavano in un cielo azzurro. Ma in alcune carte c'erano figure umane: un vecchio con la veste grigia, la testa china, bordone in mano; una stella lucente a sei punte dentro una lanterna; due figure nude, uomo e donna, intrecciate l'una all'altra in modo da formare una sola persona; un cavaliere con l'armatura rossa e ardente in groppa a un cavallo che soffiava fuoco mentre gli zoccoli traevano scintille dal terreno nel balzo in avanti. E tante altre figure magiche... che sembravano portate alla vita dai colori stampati sulle carte: il verde degli smeraldi, il rosso di mille fuochi, l'oro lucente e l'argento brillante, il blu regale e il nero di mezzanotte, il bianco delle perle e il giallo del sole di mezza estate. Soffuse da quei colori, le figure parevano muoversi e respirare, portare a termine qualsiasi azione in cui fossero implicate. Swan non aveva mai visto carte simili e non riusciva a staccare gli occhi da esse. «Si chiamano tarocchi» disse Leona. «Questo mazzo risale al 1920 ed è colorato a mano. Non sono una meraviglia?» «Sì» mormorò Swan. «Oh... sì!» «Siediti qui, bambina.» Leona toccò una poltrona. «E vediamo cosa c'è da vedere. D'accordo?» Swan esitò, ancora incerta, ma era incantata dalle stupende, misteriose figure dipinte sulle carte magiche. Guardò in viso Leona Skelton, poi si accomodò sulla poltrona che sembrava fatta apposta per lei. Leona si sedette nella poltrona di fronte e spostò alla sua destra il lume. «Faremo la Grande Croce: è una maniera di disporre le carte in modo che
raccontino una storia. Forse non sarà una storia chiara; forse non sarà una storia facile; ma le carte si legheranno insieme, una sull'altra, un po' come quel puzzle di cui parlavamo. Sei pronta?» Swan annuì. Il cuore le batteva forte. Fuori, il vento ululò e gemette; per un istante Swan credette di udire nel vento una voce tenebrosa. Leona sorrise e sfogliò le carte, cercandone una in particolare. La trovò e la tese a Swan per fargliela vedere. «Questa rappresenta te; le altre costruiranno una storia intorno a questa.» Mise sul tavolo, davanti a Swan, la carta: bordata d'oro e di rosso, raffigurava un giovane in un lungo manto dorato, che aveva in testa un berretto con la piuma rossa e reggeva avanti a sé un bastone lungo il quale s'intrecciavano rampicanti verdi. «È il Fante di Bastoni... un bambino che deve percorrere ancora molta strada.» Spinse verso Swan il resto delle carte. «Sai mischiarle?» Swan scosse la testa. «Be', mettile in disordine. Continua a rimescolarle per bene, a lungo; e intanto pensa intensamente dove sei stata, e chi sei, e dove vuoi andare.» Swan ubbidì e le carte scivolarono in tutte le direzioni, la faccia verso il tavolo, il dorso dorato in alto. Si concentrò meglio che poteva sulle parole di Leona, anche se era distratta dal frastuono del vento. Alla fine Leona disse: «Va bene così, bambina. Ora ricomponi il mazzo, a carte coperte, nell'ordine che vuoi. Poi taglia il mazzo in tre mucchi e posali alla tua sinistra.» Al termine, Leona raccolse i tre mucchietti per ricomporre il mazzo. «Ora iniziamo la storia» disse. Pose la prima carta, scoperta, proprio sopra il Fante di Bastoni. «Questa ti protegge» disse. La carta raffigurava una grossa ruota d'oro, con figure d'uomini e di donne al posto dei raggi, alcune con espressione gioiosa in cima alla ruota, altre, in fondo, in atteggiamento disperato, il viso stretto fra le mani. «La Ruota della Fortuna, che gira in continuazione, che porta cambiamenti, che svela il Destino. Questa è l'atmosfera in cui ti trovi; forse intorno a te si muovono e girano cose di cui ancora non ti accorgi.» La carta seguente fu posta di traverso sulla Ruota della Fortuna. «Questa ti ostacola» disse Leona «e rappresenta le forze che si oppongono a te.» Strinse gli occhi. «Oh, sant'Iddio!» La carta, bordata d'ebano e d'argento, mostrava una figura quasi completamente avviluppata in un manto nero con cappuccio, che lasciava scoperto solo il viso bianco e ghignante come una maschera; gli occhi erano d'argento, ma c'era un terzo occhio, scarlatto, sulla fronte. Nel cartiglio in alto, la scritta a lettere piene di svolazzi di-
ceva... «Il Diavolo» mormorò Leona. «Distruzione scatenata. Inumanità. Dovrai stare in guardia e procedere cautamente, bambina.» Prima che Swan potesse fare domande su quella carta che le aveva dato un brivido, Leona girò la carta seguente e la posò sopra le altre due. «Questa è sopra di te e rivela le tue aspirazioni. L'Asso di Coppe: pace, bellezza, desiderio di comprensione.» «Ah, non mi si addice!» disse Swan, imbarazzata. «Non ancora, forse. Un giorno, può darsi.» La .carta seguente fu posta sotto l'odiosa figura del Diavolo. «Questa è sotto di te e racconta che cosa hai passato e che cosa sei.» La carta mostrava il sole brillante, ma era capovolta. «Il sole indica solitudine, incertezza... la perdita di qualcuno. Forse anche la perdita di una parte di te stessa. La morte dell'innocenza.» Leona sollevò lo sguardo, ma solo per un attimo. La carta seguente, la quinta, fu posta alla sinistra del Diavolo. «Questa è dietro di te, un'influenza che s'allontana.» Era il vecchio che portava una stella nella lanterna, ma anche questa carta era capovolta. «L'Eremita. Capovolto, significa ritirarsi, nascondersi, dimenticare le proprie responsabilità. Tutte cose che s'allontanano. Stai per uscire nel mondo... per il meglio o per il peggio.» La sesta carta finì alla destra del Diavolo. «Questa è davanti a te e dice che cosa verrà.» Leona esaminò con interesse la carta. Mostrava un giovane in armatura scarlatta, che teneva alta una spada infuocata, sullo sfondo di un castello in fiamme. «Il Fante di Spade» spiegò Leona. «Una ragazza, o un ragazzo, che brama il potere. Che vive per esso, che ne ha bisogno come del cibo e dell'acqua. Il Diavolo guarda anche in questa direzione. Potrebbe esserci una sorta di legame, fra loro. Comunque, è qualcuno che forse dovrai affrontare... una persona molto abile... e forse anche pericolosa.» Fu interrotta da una voce: «Leona! Leona!» Davy cominciò a tossire con violenza, quasi soffocando; subito la donna mise da parte le carte e si precipitò nella stanza del marito. Swan si alzò. Il Diavolo — la bambina lo vedeva come un uomo con un terzo occhio scarlatto — sembrava fissare proprio lei, le faceva venire la pelle d'oca. Il mazzo abbandonato era solo a qualche centimetro; la carta superiore sembrava invitare a una sbirciata. Swan mosse la mano verso la carta. Si fermò. Solo una sbirciata. Una sbirciatina piccola piccola. Alzò la carta e guardò.
Mostrava una bellissima donna con una lunga veste viola; il sole splendeva su di lei e intorno c'erano un covone di grano, una cascata, dei fiori. Ai suoi piedi erano accucciati un leone e un agnello. Ma i suoi capelli erano in fiamme, e anche i suoi occhi erano ardenti, determinati, puntati verso un ostacolo lontano. Reggeva uno scudo d'argento con al centro un disegno di fuoco; e sulla testa aveva una corona che ardeva di colori simili a stelle imprigionate. In cima alla carta, la scritta tutta svolazzi diceva: L'IMPERATRICE. Swan continuò a guardare la figura, finché non si fu impressa nella mente tutti i particolari. Posò la carta e si sentì attirata da quella successiva. No, si disse, hai già esagerato. Quasi sentiva il malefico occhio scarlatto del Diavolo sfidarla ad alzare ancora una carta. Prese la carta. La voltò. Rimase di ghiaccio. Uno scheletro in armatura, in groppa a un cavallo d'ossa impennato; e fra le braccia dello scheletro, una falce macchiata di sangue. La creatura mieteva un campo di grano, ma i covoni erano fatti di corpi umani legati insieme, nudi e contorti nella sofferenza, mentre la falce recideva. Nel cielo color del sangue, corvi neri volavano in cerchio sopra il campo di dolore umano. Era la figura più orribile che Swan avesse mai visto; non occorreva leggere il cartiglio, per capire che cos'era. «Cosa combini qui?» Al suono della voce, Swan quasi balzò in aria. Si girò di scatto, vide Josh fermo sulla soglia. In quell'istante capì di amare la faccia grottesca, chiazzata di pimento bianco e d'ustioni dalla crosta marrone... e anche lui. Josh guardò la stanza e si accigliò. «Cos'è questa roba?» «La... la stanza dove Leona legge il futuro. Leggeva il mio, nelle carte.» Josh entrò, diede un'occhiata alle carte disposte sul tavolo. «Sono davvero belle» disse. «Tutte, tranne questa.» Batté il dito sul Diavolo. «Mi ricorda l'incubo che mi venne quando mangiai un panino di salame con una scatola intera di frittelle al cioccolato.» Ancora spaventata, Swan gli mostrò l'ultima carta. Josh gliela tolse di mano e l'accostò alla luce. Aveva già visto carte da tarocchi, nel quartiere francese di New Orleans. La scritta diceva: LA MORTE. La morte che miete la razza umana, pensò. La carta era una delle cose più macabre che avesse mai visto; nella luce ingannevole, la falce d'argento parve muoversi avanti e indietro fra i covoni umani, mentre il cavallo
d'ossa s'impennava e il cavaliere faticava sotto il cielo rosso sangue. Josh gettò la carta sul tavolo ed essa scivolò a ricoprire in parte quella che riproduceva la figura demoniaca con l'occhio scarlatto. «Sono solo carte» disse Josh. «Pezzi di carta colorata. Non significano niente.» «Leona ha detto che raccontano una storia.» Josh riformò il mazzo, togliendo dalla vista di Swan il Diavolo e la Morte. «Pezzi di carta colorata» ripeté. «Tutto qui.» Non poterono fare a meno di udire la tosse tormentata e ansimante di Davy Skelton. La vista di quelle carte, soprattutto di quella con la macabra mietitrice, aveva dato a Josh sinistri presentimenti. Davy tossiva come se lo soffocassero; Leona gli parlava con dolcezza, cercava di calmarlo. La morte è vicina, capì Josh a un tratto; molto vicina, molto vicina. Uscì dalla stanza, percorse il corridoio. La porta di Davy era socchiusa. Josh pensò d'offrire aiuto e fece per entrare nella stanza del malato. Vide subito le lenzuola macchiate di sangue. La luce giallastra d'un lume rivelava il viso dell'uomo sofferente, gli occhi velati dalla malattia e dall'orrore; a ogni colpo di tosse, dalla bocca usciva uno schizzo di sangue denso e scuro. Josh si arrestò sulla soglia. Leona, china sul marito, reggeva in grembo una bacinella smaltata e in mano uno straccio bagnato di sangue. La donna s'accorse della presenza di Josh e girò la testa; con tutta la dignità che riuscì a trovare, disse: «Per favore, esca e chiuda la porta». Josh esitò, sbalordito e sconvolto. «Per favore» implorò Leona, mentre il marito le tossiva in grembo la vita. Josh uscì dalla stanza e chiuse la porta. Senza accorgersene, si ritrovò seduto davanti al camino. Si accorse di puzzare. Doveva andare al pozzo a prendere dei secchi d'acqua, scaldarli e fare quel bagno che tanto sospirava. Ma aveva nella mente la faccia giallastra e tesa del moribondo nell'altra stanza e non riusciva a muoversi; ricordò Darleen, che moriva nella polvere; ricordò il cadavere che giaceva là fuori sui gradini di un'altra veranda, nel buio lamentoso. Gli si era impressa nel cervello l'immagine dello scheletro a cavallo che imperversava nel campo di grano dell'umanità. Oh, Dio, pensò, mentre gli spuntavano le lacrime. Oh, Dio, aiutaci tutti. Chinò la testa e pianse, non solo per il ricordo di Rose e dei suoi figli, ma anche per Dave Skelton, per Darleen Prescott, per il morto là fuori nel buio, per tutti gli esseri umani morti e moribondi che un tempo avevano
sentito sul viso la carezza del sole e avevano pensato di vivere per sempre. Le lacrime gli rotolavano lungo le guance e giù dal mento, ma lui non riusciva a smettere di piangere. Sentì un braccio intorno al collo. La bambina. Swan. Josh la strinse al petto: stavolta fu lei ad abbracciarlo, mentre lui piangeva. Swan lo strinse forte. Voleva bene a Josh, non avrebbe sopportato di udire il suo suono di dolore. Il vento ululò, cambiò direzione, assalì da un altro angolo le macerie di Sullivan. E in quel vento Swan credette di udire una voce tenebrosa sussurrare: "Tutti miei... tutti miei". SEI: quando l'inferno ghiaccia Larve / La Magnum aspetta / Guerriero zulu / Il pugno primordiale / Trattative con il Grassone / Paradiso / Il vagito di chi rinasce 34 Fiamme di torcia sbattevano al vento freddo, nella piana deserta a cinquanta chilometri a nordest del cratere di Salt Lake City. Circa trecento persone, vestite di stracci, mezze morte di fame, erano radunate sulla riva del Grande Lago Salato, in una sorta di città fatta di scatole di cartone, automobili scassate, tende e roulotte. La luce delle torce arrivava a chilometri di distanza e attirava bande sparse di superstiti diretti a est, lontano dalle città bombardate della California e del Nevada. Ogni giorno e ogni notte, gruppi di persone, con i loro averi legati sulle spalle, portati a braccia, trascinati in valigie o spinti in carriole e carrelli da supermercato, giungevano all'accampamento e trovavano un pezzo di terra spoglia e dura dove acquattarsi. I più fortunati avevano con sé tende e zaini pieni di cibo in scatola e d'acqua minerale, e armi da fuoco per difendere le provviste. I più deboli si rannicchiavano e morivano, quando terminavano, o si lasciavano rubare, cibo e acqua... e i cadaveri dei suicidi galleggiavano nel Grande Lago Salato come macabri tronchi ballonzolanti. Ma l'odore d'acqua salata,
portato dal vento, attirava anche bande di vagabondi; quelli che non avevano acqua dolce, provavano a bere quella salata; e quelli che soffrivano di ferite e ustioni infette, cercavano nel suo abbraccio la dolorosa purificazione, con il tenace desiderio di flagellanti religiosi. Ai margini occidentali dell'accampamento, sul terreno aspro e pietroso, più d'un centinaio di cadaveri giaceva dov'era caduto. I corpi erano stati spogliati completamente dagli sciacalli che vivevano in buche del terreno ed erano chiamati con disprezzo "le larve" da coloro che si erano sistemati più vicino alla riva del lago. Verso ovest, fin quasi all'orizzonte, si estendeva un cimitero d'automobili, di roulotte, di camper, di jeep e di motociclette, tutti veicoli che avevano terminato la benzina o fuso il motore per mancanza d'olio. Gli sciacalli uscivano dalle loro tane a rubare sedili, gomme, portiere, cofani, per farne le proprie bizzarre abitazioni. Gruppi armati, provenienti dall'accampamento vero e proprio, prosciugavano i serbatoi e mettevano da parte la benzina, per alimentare le torce... perché la luce era diventata forza, una protezione quasi magica dagli orrori del buio. Due figure, zaino in spalla, avanzarono faticosamente nel deserto, verso la luce delle torce, lontana meno d'un chilometro. Era la notte del ventitré agosto, un mese e sei giorni dal bombardamento. Le due figure attraversarono il cimitero d'automezzi, senza esitare se di tanto in tanto calpestavano un cadavere nudo. Sopra il lezzo di corruzione, sentivano l'odore del lago salato. Circa venti chilometri prima, la loro auto, una BMW rubata in un parcheggio della città fantasma di Carson City, nel Nevada, era rimasta senza benzina; i due avevano camminato per tutta la notte in direzione del bagliore delle luci riflesso dalle nuvole basse. Qualcosa rotolò al loro fianco, dietro la carcassa ripulita di una Dodge Charger. La figura all'avanguardia si fermò; dalla fondina a spalla sotto la giacca a vento blu trasse un'automatica .45. Il rumore non si ripeté; dopo qualche secondo, i due ripresero ad avanzare a passo più svelto verso l'accampamento. La figura all'avanguardia aveva fatto appena cinque passi, quando una mano sbucò dal terriccio smosso e gli afferrò la caviglia sinistra, facendogli perdere l'equilibrio. Il grido d'allarme e il colpo di .45 echeggiarono nello stesso momento, ma la pistola sparò in cielo. L'uomo batté violentemente il fianco e restò senza fiato; una sagoma umana strisciò come un granchio dal buco che si era aperto nel terreno. La creatura s'avventò sull'uomo con lo zaino, gli piantò il ginocchio contro la gola, con la sini-
stra cominciò a dargli pugni sul viso. La seconda figura urlò... uno strillo femminile; poi si girò e si mise a correre nel cimitero d'auto. Sentì dei passi alle sue spalle, che recuperavano lo svantaggio; mentre girava la testa per guardarsi indietro, inciampò in un cadavere e cadde lunga e distesa. Cercò di rialzarsi, ma d'un tratto un piede con scarpa di tela le premette la nuca e le spinse la faccia nella polvere. La donna si dibatté, cominciò a soffocare. Qualche metro più in là, il granchio umano cambiò posizione, usò il ginocchio sinistro per inchiodare a terra la mano armata del giovanotto, e con il destro continuò a premergli sul petto. Il giovane boccheggiava, intontito, a occhi sbarrati sopra la barba bionda e sporca. Con la sinistra, dal fodero di pelle sotto il lungo soprabito nero e impolverato, il granchio umano estrasse un coltello da caccia; la lama colpì in fretta e in profondità la gola del giovanotto... una volta, due, tre. Il giovane smise di dibattersi e arricciò le labbra in una smorfia di morte. La donna lottò per la vita. Riuscì a girare la testa, guancia contro il terreno. Supplicò: «Vi prego... non uccidetemi! Vi darò... vi darò quel che volete! Vi prego, non...» All'improvviso il piede con la scarpa di tela si ritrasse. La punta di un oggetto che sembrava una piccozza le punse la guancia appena sotto l'occhio destro. «Niente scherzi.» Era una voce da ragazzo, stridula e rauca. «Capito?» La piccozza premette, per sottolineare le parole. «Sì» rispose la donna. Il ragazzo l'afferrò per i lunghi capelli corvini e la tirò a sedere. Lei scorse il viso dell'assalitore, nel fioco riflesso delle luci lontane. Era solo un bambino, sui tredici quattordici anni, con indosso un lurido maglione troppo grande, calzoni grigi bucati alle ginocchia. Era magrissimo; il viso dagli zigomi alti era pallido, cadaverico; i capelli neri erano incollati al cranio dalla sporcizia e dal sudore. Portava un paio di occhialoni... quel tipo di occhiali contornati da cuoio consunto che lei immaginava portassero i piloti dei caccia nella seconda guerra mondiale. Le lenti ingrandivano gli occhi come un vaso per pesci rossi. «Non farmi male, va bene? Ti giuro che non urlo.» Roland Croninger rise. Era la più stupida stronzata che avesse mai udito. «Urla pure quanto vuoi. Se ne sbattono tutti, se urli o no. Tira giù lo zaino.» «L'hai preso?» disse il colonnello Macklin, accovacciato sul corpo del-
l'altro. «Signorsì» rispose Roland. «È una donna.» «Portala qui.» Roland prese lo zaino e arretrò d'un passo. «Muoviti.» La donna fece per alzarsi, ma lui la spinse di nuovo a terra. «No. Striscia.» Lei si mise a strisciare nella polvere, fra i cadaveri in putrefazione. Serrò i denti per trattenere un urlo. «Rudy?» chiamò debolmente. «Rudy? Stai bene?» E poi vide la figura con il soprabito nero aprire lo zaino di Rudy, vide tutto il sangue e capì che erano finiti nella merda fino al collo. Roland gettò al colonnello Macklin l'altro zaino, poi infilò la piccozza nella cintura elastica dei calzoni tolti al cadavere d'un ragazzo all'incirca della sua età e corporatura. Strappò l'automatica dalle dita inerti di Rudy, mentre la donna restava a guardare intontita. «Buona pistola» disse al Re. «Ci sarà utile.» «Dobbiamo procurarci altri caricatori» rispose Macklin; con la sua unica mano frugò nello zaino, tirò fuori calzini, biancheria, dentifricio, un corredo da mensa militare... e una borraccia che sciabordò quando la scosse. «Acqua!» disse. «Oh, Gesù... acqua potabile!» Strinse fra le gambe la borraccia e svitò il tappo; bevve alcune sorsate deliziose; l'acqua colò lungo i peli corti e ispidi della barba nuova e sgocciolò per terra. «Hai anche tu una borraccia?» chiese Roland alla donna. Lei annuì; si tolse di spalla la cinghia della borraccia, da sotto la pelliccia d'ermellino presa in una boutique di Carson City. Indossava jeans firmati, imitazione leopardo, e stivaletti di lusso; intorno al collo aveva file e file di perle e di collier di brillanti. «Da' qua.» La donna lo guardò in faccia e drizzò la schiena. Quello lì era solo un teppista e lei sapeva come trattare i teppisti. «Vaffanculo» rispose. Svitò il coperchio della borraccia e cominciò a bere, sfidandolo con gli occhi azzurri e duri. «Ehi, tu!» disse una voce dal buio, roca, lasciva. «Hai preso una donna?» Roland non rispose. Guardò come la donna muoveva la pelle liscia della gola, mentre beveva. «Ho una bottiglia di whisky!» continuò la voce. «Facciamo cambio.» La donna smise di bere. Di colpo la Perrier aveva un gusto orribile. «Una bottiglia di whisky per mezz'ora!» disse la voce. «Appena finito, te
la restituisco. Affare fatto?» «Ho una stecca di sigarette!» gridò un altro, più a sinistra, da dietro una jeep rovesciata. «Quindici minuti per una stecca di sigarette!» La donna avvitò in fretta il tappo della borraccia e la gettò ai piedi del ragazzo. «Ecco» disse, senza smettere di fissarlo negli occhi. «E tutta tua.» «Caricatori!» esclamò Macklin, estraendone tre dallo zaino di Rudy. «Adesso abbiamo potenza di fuoco!» Roland stappò la borraccia, bevve alcuni sorsi, la richiuse e se la mise a tracolla. Da ogni parte giungevano voci di altre larve che offrivano liquori, sigarette, fiammiferi, cioccolata e altri oggetti di valore in cambio di qualche minuto con la donna appena catturata. Roland rimase in silenzio ad ascoltare le offerte sempre crescenti, con il piacere del banditore che sa di mettere all'asta un pezzo veramente prezioso. Esaminò la donna, da dietro gli occhiali che si era confezionato da solo incollando lenti della giusta gradazione — trovate fra le macerie d'un negozio d'ottica a Pocatello — su quelle d'un paio d'occhialoni da comandante di carro armato. La donna non aveva segni, a parte alcuni taglietti in via di guarigione sulle guance e sulla fronte... e già questo la rendeva assai speciale. La maggior parte delle donne dell'accampamento aveva perso capelli e sopracciglia ed era segnata da cheloidi di vario colore, dal marrone scuro al rosso scarlatto. Questa invece aveva una cascata di capelli neri che le arrivava alle spalle... sporchi, ma senza chiazze di calvizie, primo segno d'avvelenamento da radiazioni. Aveva un viso deciso, dal mento quadrato; un viso altezzoso, pensò Roland, il viso della gentaglia di classe. La donna spostò lentamente gli occhi blu elettrico dalla pistola al cadavere di Rudy, poi riportò lo sguardo sul viso di Roland, come se calcolasse i vertici esatti d'un triangolo. Roland giudicò che fosse a cavallo della trentina; lasciò scivolare lo sguardo sui seni che premevano contro la T-shirt rossa con la scritta trasversale TOPA TIPO in strass, sotto la pelliccia d'ermellino. Gli parve di veder sporgere i capezzoli, come se il pericolo e la morte avessero mandato su di giri il motore sessuale della donna. Sentì una tensione al ventre e subito distolse lo sguardo dai capezzoli. A un tratto si era chiesto che cosa avrebbe provato a stringerne uno fra i denti. Le labbra piene della donna si schiusero. «Ti piace lo spettacolo?» «Una torcia elettrica!» offrì una larva. «Per lei ti do una torcia!» Roland non rispose. Quella donna gli ricordava le foto delle riviste che aveva scoperto nell'ultimo cassetto dell'armadio di suo padre, molto tempo prima, in
quell'altra vita. Provava un irrigidimento al basso ventre e un dolore sordo alle palle, come se un pugno brutale gliele stringesse. «Come ti chiami?» «Sheila» rispose lei. «Sheila Fontana. E tu?» Aveva deciso, con la fredda logica di una superstite nata, di avere migliori possibilità con quel teppistello e l'uomo senza una mano, che là fuori nel buio con quelle altre cose. Il monco imprecò e buttò a terra il resto del bagaglio di Rudy. «Roland Croninger.» «Roland» ripeté lei, facendolo suonare come se passasse la lingua su un lecca lecca. «Non mi darai a quelli là, vero, Roland?» «Era tuo marito?» Roland spinse col piede il cadavere di Rudy. «No. Viaggiavamo insieme, tutto qui.» In realtà vivevano insieme da quasi un anno e Rudy le aveva fatto un po' da protettore a Oakland, ma era inutile confondere il ragazzo. Guardò la gola insanguinata di Rudy e distolse subito gli occhi; provò una fitta di rimpianto, perché era stato un buon procacciatore d'affari e un amante fantastico, sempre ben rifornito di roba da sniffare. Ma ormai era solo cibo per i vermi: così va il mondo. Come Rudy stesso avrebbe detto, per prima cosa bisognava pararsi il culo a qualsiasi costo. Ci fu un movimento sul terreno, alle spalle di Sheila. La donna si girò a guardare. Una sagoma vagamente umana strisciava verso di lei. Si fermò a un paio di metri; una mano coperta di piaghe purulente alzò un sacchetto di carta. «Tavolette di cioccolato?» offrì una voce alterata. Roland sparò. Al rumore del colpo, Sheila sobbalzò. La creatura grugnì, emise una sorta di guaito. Si alzò sulle ginocchia e corse a nascondersi fra le carcasse d'automezzi. Sheila capì che, dopotutto, il ragazzo non l'avrebbe data agli altri. Risate roche provennero da fosse nascoste nel terreno. Sheila aveva visto un bel po' d'inferno, da quando con Rudy aveva lasciato le Sierras e la baracca di uno spacciatore di droga dove si erano nascosti per sfuggire ai poliziotti di San Francisco, prima che cadessero le bombe; ma questo era anche peggio. Abbassò lo sguardo sugli occhialoni del ragazzo, perché era alta uno e ottanta; aveva l'ossatura robusta di un'Amazzone, ma diventava tutta curve e arrendevolezza, all'occorrenza; capì d'averlo agganciato per l'uccello. «Che diavolo è questa merda?» disse Macklin, chino sugli oggetti tolti dallo zaino della donna. Sheila capì che cosa il monco aveva trovato. Si avvicinò a lui, senza badare alla .45 del ragazzo, e vide che reggeva un sacchetto di plastica pieno di candida "neve" colombiana di primissima qualità. Sparpagliati intorno a
lui c'erano altri tre sacchetti di cocaina purissima. E una decina di flaconi di pillole: anfetamine, Bellezze Nere, Giubbe Gialle, Bombe, Dame Rosse, pastiglie di PCP e di LSD. «La mia borsa delle medicine, amico» disse. «Se cerchi roba da mangiare, là dentro ho un paio di vecchi hamburger e anche un po' di patatine fritte. Serviti pure, ma rivoglio la mia scorta.» «Droga» capì Macklin. «Cos'è? Cocaina?» Lasciò cadere il sacchetto e prese un flaconcino, alzando verso di lei il viso sporco e macchiato di sangue. I capelli tagliati a spazzola cominciavano a crescere, spruzzati di grigio. Gli occhi erano fori profondi scavati in una faccia di pietra. «Pillole, anche? Cosa sei, una drogata?» «Sono una buongustaia» replicò lei, calma. Il ragazzo, si disse, non avrebbe permesso a quello stronzo con una mano sola di farle del male; ma tese i muscoli, pronta a lottare o a fuggire. «E tu chi sei?» «Il colonnello James Macklin» disse Roland. «Un eroe di guerra.» «A me pare tanto che la guerra sia finita. E abbiamo perso... eroe» replicò lei, fissando Macklin negli occhi. «Prendi quel che vuoi, ma la scorta mi serve.» Macklin valutò la ragazza: forse non sarebbe riuscito a sbatterla a terra e violentarla, come fino a quel momento intendeva fare. Pareva avversaria troppo dura per un monco... a meno di puntarle il coltello alla gola. Anche se aveva un'erezione, non voleva che di fronte a Roland il tentativo di stupro si risolvesse in un fiasco. Con un borbottio cercò gli hamburger. Li trovò e gettò la borsa a Sheila; lei si mise subito a raccogliere i sacchetti di coca e i flaconi di pillole. Macklin strisciò accanto al cadavere di Rudy, gli tolse le scarpe e il Rolex d'oro. «Come mai siete qui?» domandò Sheila a Roland, che la guardava mettere da parte coca e pillole. «Perché non laggiù, vicino alle luci?» «Noi larve non ci vogliono» rispose Macklin. «Ci chiamano così: larve.» Con un cenno indicò il foro rettangolare a pochi passi di distanza; coperto con un telo, era impossibile da scorgere nel buio; a Sheila parve profondo un metro e mezzo. Gli angoli del telo erano bloccati da pietre. «Pensano che puzziamo troppo.» Il sogghigno di Macklin rivelava follia. «Anche tu pensi che puzzo, signora?» Sheila pensò che puzzava come un cane in calore, ma scrollò le spalle e indicò un contenitore di deodorante Right Guard, caduto dallo zaino di Rudy. Macklin rise. Slacciava la cintura di Rudy, per togliergli i calzoni. «Ve-
di, viviamo qua fuori, di quel che abbiamo e di quel che riusciamo a prendere. Aspettiamo che passino i nuovi, diretti alle luci.» Con un cenno indicò la riva del lago. «Quelli là hanno il potere: armi da fuoco, abbondanza di cibo in scatola e d'acqua in bottiglia, benzina per le torce. Alcuni hanno perfino la tenda. Sguazzano nell'acqua salata e noi li ascoltiamo gridare. Non ci lasciano avvicinare. Oh, no! Hanno paura che li infettiamo.» Tolse a Rudy i calzoni e li gettò nella fossa. «Vedi, la cosa peggiore è che, a quest'ora, io e il ragazzo dovremmo vivere nella luce. Dovremmo indossare abiti puliti, fare docce calde, consumare cibo e acqua a volontà. Perché ci eravamo preparati... eravamo pronti! Sapevamo che le bombe sarebbero arrivate. Tutti, a Casa Terra, lo sapevano.» «Casa Terra? Cosa sarebbe?» «Il luogo da dove proveniamo» disse Macklin, acquattandosi per terra. «Su nelle montagne dell'Idaho. Abbiamo camminato a lungo, abbiamo visto la morte in tutti i suoi aspetti. Secondo Roland, arrivati al Grande Lago Salato, ci saremmo lavati, ripuliti delle radiazioni... e il sale avrebbe aiutato le ferite a guarire. È giusto, sai. Il sale guarisce. Soprattutto ferite come questa.» Sollevò il moncherino fasciato, dal quale pendevano bende incrostate di sangue, alcune di colore verdastro. Sheila colse il lezzo di carne infetta. «Devo bagnarmi nell'acqua salata, ma loro non ci lasciano avvicinare. Dicono che mangiamo i cadaveri. Ci sparano, quando attraversiamo il terreno aperto. Ma ora... ora... abbiamo anche noi potenza di fuoco!» Indicò l'automatica che Roland impugnava. «Il lago è grande» disse Sheila. «Non è necessario attraversare l'accampamento. Potete girare intorno.» «No. Per due motivi. Qualcuno potrebbe occupare il nostro buco e prendersi tutto, mentre non ci siamo; e nessuno può impedire a Jimbo Macklin di ottenere quel che vuole.» Le rivolse un sogghigno; lei pensò che il viso dell'uomo sembrava un teschio. «Loro non sanno con chi hanno a che fare. Ma glielo farò vedere... oh, sì!, lo farò vedere a tutti!» Girò la testa verso l'accampamento, fissò per un momento le torce lontane, poi tornò a guardare la donna. «Ti va di scopare?» Sheila scoppiò a ridere: non aveva mai visto una creatura più lurida, più repellente, di Macklin. Ma, mentre rideva, capì d'avere commesso un errore. Troncò la risata a mezzo. «Roland» disse piano Macklin. «Portami la pistola.» Roland esitò. Sapeva che cosa stava per accadere. Tuttavia, il Re gli aveva dato un ordine; lui era un Cavaliere del Re, non poteva disubbidire.
Avanzò d'un passo, esitò di nuovo. «Roland» disse il Re. Stavolta Roland andò da lui e gli mise la pistola nella sinistra tesa. Macklin la strinse goffamente e la puntò alla testa di Sheila. La ragazza alzò il mento, con aria di sfida; si mise lo zaino in spalla e si alzò. «Adesso vado al campo» disse. «Forse sai anche sparare alla schiena a una donna, eroe di guerra. Ma non lo credo. Arrivederci, amici; piacere d'avervi conosciuti.» Si costrinse a scavalcare il cadavere di Rudy e iniziò a camminare con determinazione nel cimitero d'auto, con il cuore che le batteva forte e i denti serrati in attesa del proiettile. Qualcosa si mosse alla sua sinistra. Una figura vestita di stracci si chinò sotto il relitto di una station wagon Chevy. Un'altra cosa si mosse strisciando, sei metri più avanti. Sheila capì che non sarebbe mai arrivata viva al campo. «Ti aspettano» le gridò dietro Roland. «Non ti permetteranno di andare al campo.» Sheila si fermò. Le torce parevano lontane, lontanissime. Anche se le avesse raggiunte senza farsi stuprare, o peggio, non era sicura che al campo non le riservassero lo stesso trattamento. Senza Rudy, era carne ambulante, attirava le mosche. «Fai meglio a tornare» la sollecitò Roland. «Con noi sarai più al sicuro.» Più al sicuro, pensò ironicamente Sheila. Certo. L'ultima volta che era stata al sicuro, andava ancora al giardino d'infanzia. A diciassette anni era scappata di casa con il batterista di un complesso rock, era sbarcata a Hollywood, aveva fatto tutte le tappe, cameriera, ballerina topless, massaggiatrice in un salone del Sunset Strip, un paio di film porno; poi si era messa con Rudy. Il mondo era diventato una folle girandola di coca, d'anfetamine, di puttanieri senza volto; ma la verità era che le piaceva. Non aveva rimpianti, non strisciava sulle ginocchia a implorare perdono; amava il pericolo, il lato buio della pietra, dove si nascondono le creature della notte. La sicurezza era una noia: si vive una volta sola, e allora perché non darci dentro? Ma non si sarebbe certo divertita a raccogliere il guanto di sfida di quelle figure striscianti. Qualcuno ridacchiò, lontano nel buio. Era la folle risatina di chi già pregusta. Per Sheila fu l'ultima goccia. Si girò e tornò dove il ragazzo e l'eroe di guerra monco aspettavano. Già studiava il modo d'impadronirsi della pistola e di far saltare le cervella a
tutt'e due. La pistola l'avrebbe aiutata a raggiungere le torce in riva al lago. «Mettiti a quattro zampe» le ordinò Macklin, con occhi scintillanti sopra la barba lercia. Sheila sorrise debolmente e si tolse di spalla lo zaino. Al diavolo! Non sarebbe stato peggio che con altri puttanieri dello Strip. Ma non voleva lasciarlo vincere così facilmente. «Sii sportivo, eroe di guerra» disse, mani sui fianchi. «Lascia la precedenza al ragazzo.» Macklin diede un'occhiata a Roland, i cui occhi, dietro le lenti, sembravano sul punto di schizzare dalla testa. Sheila si slacciò la cintura e iniziò ad abbassarsi i calzoni tipo leopardo, prima sui fianchi, poi sulle cosce, poi sugli stivaletti da cowboy. Non portava biancheria. Si mise a quattro zampe, aprì lo zaino, ne tolse un flacone di Bellezze Nere. Si cacciò in bocca una pillola e disse: «Forza, tesoro! Fa freddo, lì fuori!» All'improvviso Macklin scoppiò a ridere. La donna aveva fegato. Non sapeva cosa fare, di lei, una volta terminato; ma era una della sua stessa razza. «Avanti» disse a Roland. «Mostrati uomo!» Roland era atterrito. La donna aspettava; il Re voleva che lui lo facesse. Forse si trattava di un importante rito di maturità che un Cavaliere del Re doveva superare. I testicoli gli parevano sul punto di scoppiare; il mistero oscuro fra le cosce della donna lo attirava come un amuleto ipnotico. Le larve strisciarono più vicino per non perdersi lo spettacolo. Macklin rimase a guardare, con occhi velati e pensosi; si passò la canna dell'automatica sotto il mento, avanti e indietro. Udì una risata roca, sopra la spalla sinistra: anche il Soldato Ombra apprezzava la situazione. Il Soldato Ombra era sceso con loro da monte Blue Dome, aveva camminato dietro di loro, sempre presente. Al Soldato Ombra il ragazzo piaceva: secondo lui, aveva un istinto omicida che andava sviluppato. Perché il Soldato Ombra aveva detto a Macklin, nel silenzio delle tenebre, che i giorni di guerra non erano ancora finiti. Questa terra nuova aveva bisogno di guerrieri e di condottieri. Ci sarebbe stata ancora richiesta di uomini come Macklin... richiesta mai venuta a mancare, d'altronde. Questo gli aveva detto, il Soldato Ombra; e Macklin gli aveva creduto. Anche lui, allora, iniziò a ridere della scena che aveva sotto gli occhi; la sua risata e quella del Soldato Ombra si mescolarono, si fusero, divennero un tutt'uno. 35
A più di tremila chilometri di distanza, Sister sedeva accanto al camino. Tutti gli altri dormivano sul pavimento della stanza; quella notte toccava a lei badare al fuoco, ricoprirlo di terriccio perché bruciasse lentamente e le braci restassero accese per non sprecare fiammiferi. La stufetta era al minimo, per risparmiare la scorta sempre minore di cherosene; il freddo cominciava a penetrare dalle fessure delle pareti. Mona Ramsey borbottò nel sonno, suo marito cambiò posizione e le mise il braccio intorno alle spalle. Il vecchio era morto per il mondo. Arde era disteso sopra un giaciglio di giornali. Di tanto in tanto Steve Buchanan russava con rumore di sega a nastro. Ma Sister era preoccupata per il sibilo nel respiro di Artie. Aveva notato che si teneva le costole; ma lui aveva detto di stare bene, era un poco a corto di fiato, ma il resto andava "liscio come l'olio" . Sister se lo augurava, perché se Artie aveva qualche ferita interna — forse a causa del maledetto lupo che dieci giorni prima, sulla statale, gli era balzato addosso — non c'erano medicine per arrestare l'infezione. Lei aveva a fianco la sacca da viaggio. Allentò il laccio che la chiudeva, v'infilò la mano, trovò il cerchio di vetro, lo portò alla luce delle braci. Il suo splendore riempì la stanza. L'ultima volta che l'aveva guardato, durante il turno di sorveglianza al fuoco, quattro notti prima, aveva di nuovo imboccato il sentiero del sogno: si era ritrovata davanti a un tavolo, un tavolo quadrato sul quale erano disposte quelle che sembravano carte da gioco. Le figure delle carte non sembravano affatto le solite. Una, in particolare, aveva colpito la sua attenzione: uno scheletro, in groppa a un cavallo impennato, anch'esso di sole ossa, muoveva la falce in quello che pareva un grottesco campo di corpi umani. Aveva creduto di scorgere delle ombre, nella stanza: altre presenze, persone che parlavano con voce sommessa. E anche di udire qualcuno che tossiva; ma il suono era distorto, come se le giungesse attraverso un lungo tunnel pieno d'echi... e quando si era ritrovata nella baracca, si era accorta che Artie tossiva e si teneva le costole. Aveva pensato spesso a quella carta con lo scheletro che muoveva la falce. La vedeva ancora, scolpita dentro i suoi occhi. Pensava anche alle ombre che aveva creduto di scorgere nella stanza: creature immateriali, ma forse perché aveva rivolto l'attenzione solo alle carte. Se si fosse concentrata nel dare corpo alle ombre, forse avrebbe visto chi c'era realmente là dentro.
Giusto, si disse; agisco come se fossi davvero da un'altra parte, quando vedo le immagini nel cerchio di vetro. Naturalmente erano solo questo: immagini, fantasie, simboli. In esse non c'era proprio niente di reale! Ma camminare nel sogno e tornare indietro le diventava sempre più facile. Però la maggior parte delle volte il cerchio era solo un anello di luce infuocata, non mostrava immagini fantastiche. Eppure possedeva di sicuro un potere sconosciuto. Altrimenti, perché quell'essere mostruoso, Doyle Halland, voleva impadronirsene? Qualsiasi cosa fosse, doveva difenderlo. Era responsabile della sua sicurezza e non poteva — non osava! — perderlo. «Gesù in brachette! Che cos'è?» Sorpresa, Sister alzò lo sguardo. Paul Thorson, con occhi ancora gonfi di sonno, era uscito dall'altra stanza. Si spinse indietro il ciuffo ribelle e fissò a bocca aperta il cerchio di luce che pulsava al ritmo del battito del cuore di Sister. Lei pensò di rimettere l'oggetto nella sacca, ma ormai era tardi. «Quell'affare... va a fuoco!» brontolò Paul. «Che cos'è?» «Ancora non so bene. L'ho trovato a Manhattan.» «Oddio! I colori...» Paul s'inginocchiò accanto a lei, chiaramente confuso. Un fiammeggiante cerchio di luce era l'ultima cosa che s'aspettava di vedere, entrando a scaldarsi alle braci. «Cosa lo fa pulsare così?» «Segue il ritmo del mio cuore. Lo fa con chiunque lo tiene in mano.» «Non sarà l'ultima invenzione dei giapponesi? Va a pila?» Sister sorrise ironicamente. «Non penso.» Paul lo tastò col dito. Batté le palpebre. «Ma è vetro!» «Infatti.» «Caspita!» mormorò lui. E poi: «Ti dispiace se lo tengo in mano? Solo un secondo?» Sister fu sul punto di rispondere di sì, ma la promessa minacciosa di Doyle Halland la fermò. Quel mostro poteva assumere l'aspetto di chiunque: ciascuno, nella stanza, poteva essere Doyle Halland, anche Paul stesso. Ma no, ormai si erano lasciati il mostro alle spalle, giusto? Come viaggiava, una creatura simile? «Ho seguito la linea di minor resistenza» aveva detto. Se indossava carne umana, allora viaggiava come gli uomini. Sister rabbrividì, immaginando che camminasse dietro di loro, con le scarpe d'un morto, giorno e notte, senza riposarsi, finché le scarpe non cadevano a pezzi, fermandosi poi a toglierne un paio al primo cadavere incontrato, perché s'adattava a qualsiasi misura...
«Posso?» insistette Paul. Dov'era, Doyle Halland, in quel momento? Là fuori nel buio, sulla S-80? Un paio di chilometri più avanti, a procurarsi un altro paio di scarpe? Volava forse nel vento, con un gatto nero sulla spalla e gli occhi ardenti? O percorreva la statale, con gli abiti a brandelli, alla ricerca di falò accesi nella notte? Se l'erano lasciato alle spalle. O no? Sister trasse un sospiro profondo e tese il cerchio a Paul. Lui lo toccò. La luce continuò a sfavillare. Dalla parte di Paul pulsò a ritmo diverso, più rapido. L'uomo prese il cerchio con entrambe le mani. Sister lasciò uscire il fiato. «Parlami di questa cosa» disse Paul. «Voglio sapere tutto.» Nei suoi occhi c'era il riflesso delle gemme. Sul suo viso, uno stupore fanciullesco, come se in un baleno gli anni gli fossero scivolati via di dosso. Nel giro di qualche secondo, Paul sembrò dieci anni più giovane dei quarantatré che aveva. Allora Sister decise di raccontargli tutto. Quando terminò, Paul rimase in silenzio a lungo. Durante il racconto, le pulsazioni del cerchio erano diventate ora più rapide, ora più lente. «Tarocchi» disse Paul, contemplando sempre il cerchio. «Lo scheletro con la falce rappresenta la Morte.» Con uno sforzo alzò lo sguardo a fissarla in viso. «Sai che sembra una storia pazzesca, vero?» «Sì, lo so. Questa è la cicatrice del crocifisso. Anche Artie ha visto quella creatura cambiare viso, ma non credo che voglia ammetterlo. Da allora non ne ha mai parlato; ha fatto bene, secondo me. E questo è il cerchio di vetro, meno una punta.» «Ah-hah. Non mi hai fregato di nascosto il Johnny Walker, eh?» «Lo sai benissimo. E io vedo davvero delle cose, quando guardo nel vetro. Non tutte le volte; ma quanto basta a farmi capire che, o possiedo una fervida fantasia, oppure... «Oppure cosa?» «Oppure» continuò Sister «che è in mano mia per un motivo. Perché dovrei vedere una bambola Cookie Monster in mezzo a un deserto? O una mano che emerge da un foro? Perché dovrei vedere una tavola con carte di tarocchi? Diavolo, non sapevo neppure cosa fossero!» «Le zingare le usano per leggere il futuro. O le streghe.» Evocò un mezzo sorriso che lo rese quasi bello. Svanì, quando Sister non lo ricambiò. «Senti, io non so niente di demoni con occhi ballerini, né di gite nel sogno; ma questo è un pezzo di vetro fuori del comune. Un paio di mesi fa, questa
roba poteva valere...» Scosse la testa. «Caspita!» disse di nuovo. «L'unico motivo perché ce l'hai tu, è che ti trovavi nel posto giusto al momento giusto. È già magia sufficiente, no?» «E tu non credi a quel che ti ho raccontato.» «Vorrei dire che le radiazioni t'hanno fatto partire una rotella. Ma forse le atomiche hanno fatto saltare il coperchio dell'inferno stesso e non si può dire che cosa è strisciato fuori.» Le rese il cerchio; Sister lo mise nella sacca. «Tienilo da conto. Forse è l'unica cosa bella rimasta al mondo.» Dall'altra parte della stanza, Artie trasalì e ansimò, mentre cambiava posizione, poi giacque immobile. «Ha ferite interne» disse Paul. «C'era sangue, nel suo vaso da notte. Un paio di costole rotte, probabilmente toccano il polmone.» Si strinse le nocche, sentendo in esse il calore del cerchio di vetro. «Non ha una bella cera.» «Lo so. Ho paura che abbia un'infezione interna.» «Può darsi. Merda, in queste condizioni, puoi morire anche a mangiarti le unghie.» «E non ci sono medicine?» «No, purtroppo. Ho preso le ultime pastiglie di Tylenol tre giorni prima che cadessero le bombe. La poesia che scrivevo è andata a pezzi.» «Allora cosa faremo, quando il cherosene finirà?» Paul borbottò. Si era aspettato la domanda, ma solo lei poteva rivolgergliela. «Ne abbiamo ancora per una settimana. Forse. Ma mi preoccupo di più per le batterie della radio. Appena saranno scariche, quelli lì impazziranno. Forse tirerò fuori lo scotch e faremo festa.» I suoi occhi erano di nuovo vecchi. «Faremo girare la bottiglia; chi ha fortuna, crepa per primo.» «Crepa? Che significa?» «In quel baule, signora mia, ho una .357 Magnum» le ricordò. «E una scatola di pallottole. Già due volte sono andato vicino a usarla: la prima, quando la mia seconda moglie mi ha piantato per un ragazzo con la metà dei miei anni, si è presa tutti i miei soldi e ha detto che il mio uccello valeva meno di due centesimi durante la depressione; l'altra, quando le poesie a cui lavoravo da sei anni sono bruciate con tutta la casa, poco prima che mi sbattessero fuori dal corpo insegnanti del Millerville State College perché ero andato a letto con una studentessa che voleva "ottimo" nell'esame finale di letteratura inglese.» Continuò a stringersi le nocche, evitando lo sguardo di Sister. «Non sono proprio quel che si dice fortunato. A dire il
vero, tutto quel che ho cercato di fare si è sempre risolto in una bella merda. La Magnum aspetta da parecchio. Sono in ritardo.» Sister era sconcertata dal realismo di Paul, che parlava di suicidio come del prossimo passo di una progressione naturale. «Amico mio» gli disse in tono fermo. «Se credi che abbia fatto tutta questa strada per farmi saltare le cervella in una baracca, sei pazzo come lo ero io una volta...» Si morsicò la lingua. Adesso lui la guardava con interesse rinnovato. «E allora tu cosa vuoi fare? Dove vuoi andare? Giù al supermercato a comprare due bistecche e sei lattine di birra? O all'ospedale per impedire che Artie muoia d'emorragia interna? Se non te ne sei ancora accorta, fuori non è rimasto molto.» «Be', non ti avrei mai creduto un vigliacco. Pensavo che avessi fegato, ma certo è solo segatura per imbottire.» «Nemmeno io mi sarei espresso meglio.» «E se vogliono vivere?» Sister indicò gli altri, addormentati. «Loro contano su di te. Faranno come dirai. E gli dirai di crepare?» «Decideranno da soli. Tanto, dove andrebbero?» «Là fuori» disse lei, indicando con un cenno la porta. «Nel mondo... o almeno in quel che ne resta. Tu non sai com'è, quindici o venti chilometri più avanti. Potrebbe esserci un rifugio della Difesa Civile o un'intera comunità. C'è solo un modo, per saperlo: prendere il camioncino e andare a ovest sulla S-80.» «Già prima il mondo non mi piaceva per niente. E adesso mi piace anche meno.» «Chi ha detto che deve piacerti? Senti, non contare balle a me. Hai bisogno della gente più di quanto credi.» «Certo» replicò lui, ironico. «Li amo tutti, dal primo all'ultimo.» «Se non hai bisogno della gente» lo sfidò Sister «perché andavi sulla statale? Non certo a caccia di lupi. Puoi ucciderli dalla porta. Cercavi altre persone, vero?» «Forse volevo un pubblico costretto ad ascoltare le mie poesie.» «Ah-hah. Bene, quando il cherosene è finito, vado a ovest. Artie viene con me.» «I lupi ne saranno felici, signora mia. Vi faranno da scorta.» «Prenderò anche la tua carabina» disse lei. «E i proiettili.» «Grazie per avermi chiesto il permesso.» Sister scrollò le spalle. «A te basta la Magnum. Non credo che dovrai preoccuparti dei lupi, dopo morto. Prenderò anche il camioncino.»
Paul rise, ma senza allegria. «Se l'hai dimenticato, c'è poca benzina e i freni sono a puttane. A quest'ora il radiatore sarà un blocco di ghiaccio e la batteria avrà tirato gli ultimi.» Sister non aveva mai trovato nessuno così pieno di ragioni per starsene seduto ad ammuffire. «Hai provato a mettere in moto, di recente? Se il radiatore è gelato, gli accendiamo un fuoco sotto!» «Hai già pensato a tutto, eh? Basta arrivare all'autostrada con un vecchio camioncino rotto: dietro l'angolo c'è una splendida città piena di gente della Difesa Civile, di medici e di poliziotti, che fanno del loro meglio per rimettere insieme i cocci di questo magnifico paese. Scommetto che ci troverai anche tutti i cavalli e tutti gli uomini del re! Signora mia, io so che cosa c'è dietro la curva! Un altro pezzo d'autostrada del cazzo, ecco!» Si stringeva le nocche più forte, un sorriso amaro gli aleggiava agli angoli della bocca. «Ti auguro buona fortuna, signora mia. Davvero.» «Io non voglio augurarti buona fortuna» replicò lei. «Voglio che vieni con me.» Lui rimase in silenzio. Le nocche crocchiarono. «Se là fuori resta ancora qualcosa» disse poi «sarà peggio di Dodge City, dell'inferno dantesco, del medioevo e della terra di nessuno messi insieme. Vedrai cose al cui confronto il tuo demone dagli occhi ballerini ti sembrerà uno dei sette nani.» «Ti piace giocare a poker, ma non sei un giocatore, vero?» «No, quando le probabilità hanno le zanne.» «Vado a ovest» disse Sister, dandogli l'ultimo colpo. «Prendo il tuo camion e cercherò aiuto per Artie. Chi vuole, può venire con me. Va bene?» Paul si alzò. Guardò gli altri, addormentati per terra. Hanno fiducia in me, pensò. Faranno come dico io. Ma qui siamo al caldo, siamo al sicuro, e... E il cherosene durerà ancora una settimana. «Ci dormirò sopra» disse piano. Varcò la tenda e tornò nella sua stanza. Sister rimase ad ascoltare l'ululato del vento. Artie, nel sonno, emise un altro ansito di dolore, le dita premute sul fianco. Da lontano giunse il fioco ululato d'un lupo, che vibrò come nota di violino. Attraverso il tessuto della sacca, Sister toccò il cerchio di vetro e rivolse i pensieri all'indomani. Dietro la tenda verde, Paul Thorson aprì il baule e ne tolse la .357 Magnum. Era una rivoltella pesante, nera, dai riflessi azzurrini, con il calcio scabro, marrone scuro. Sembrava fatta apposta per la sua mano. Paul girò la canna verso di sé, scrutò nel suo occhio nero e spassionato. Una lieve pressione, pensò, ed è tutto finito. Semplice, davvero. La fine d'un viaggio
nato male e l'inizio di... di che cosa? Trasse un sospiro profondo, lasciò uscire l'aria, posò la rivoltella. Prese una bottiglia di scotch e se la portò a letto. 36 Con la pala presa nello scantinato di Leona, Josh scavò la fossa; seppellirono Davy Skelton nel cortile posteriore. Mentre Leona, a testa china, recitava una preghiera che il vento lacerò e portò via, Swan vide il piccolo terrier seduto a una ventina di metri, il muso piegato da una parte, le orecchie ritte. Nell'ultima settimana lei aveva continuato a mettere avanzi di cibo sui gradini della veranda; il cane aveva mangiato, ma non si era mai avvicinato tanto da farsi toccare. Swan pensò che si fosse rassegnato a vivere di avanzi, ma non al punto da fare le feste e muovere la coda per mendicare un tozzo. Josh alla fine era riuscito a fare il bagno. Avrebbe potuto cucirsi Un vestito, con i brandelli di pelle che aveva perso; e l'acqua era diventata scura come se ci avesse gettato una palata di terriccio. Josh aveva lavato via il sangue incrostato e lo sporco dall'orecchio destro ferito; aveva impiegato un bel po' a togliere i grumi che gli intasavano il canale auricolare. Al termine si era reso conto che negli ultimi tempi aveva udito da un orecchio solo: ora i suoni gli sembravano sorprendentemente netti e di nuovo chiari. Non aveva più le sopracciglia; faccia, petto, braccia e mani erano striate e chiazzate dove aveva perso il pigmento nero: sembrava che gli avessero tirato addosso un secchio di vernice beige. Si consolò pensando che pareva un guerriero zulù con i colori di guerra. La barba, ormai lunga, era anch'essa striata di bianco. Sul viso, le vesciche e le piaghe cominciavano a guarire, ma sulla fronte gli erano spuntati sette piccoli noduli neri che sembravano verruche. Due di essi si erano uniti. Josh cercò col dito di staccarli, ma erano resistenti e il dolore gli annebbiò il cervello. Cancro della pelle, pensò. Ma le verruche erano comparse solo sulla fronte, non in altre parti del corpo. Sembro un incrocio fra un rospo e una zebra, pensò... ma i noduli, chissà perché, lo turbavano più delle altre ferite e cicatrici. Si era rimesso i vestiti vecchi, perché in casa non c'era niente che gli andasse bene. Leona li aveva lavati e rammendati, ma erano sempre in condizioni disastrose. La donna gli aveva trovato un paio di calzini, che però gli andavano troppo stretti. Ma quelli vecchi erano buchi tenuti insieme da
sangue rappreso, completamente inutili. Seppellito Davy, Josh e Swan lasciarono Leona accanto alla fossa del marito. Lei si strinse nel liso cappotto marrone di velluto a coste e girò il viso per non avere il vento in faccia. Josh scese nello scantinato e iniziò i preparativi per il viaggio deciso di comune accordo. Portò di sopra una carriola e la riempì di provviste — cibo in scatola, un po' di frutta secca, focacce di granturco dure come pietra, sei barattoli Mason a chiusura ermetica pieni d'acqua del pozzo, alcune coperte e vari utensili da cucina — e coprì il tutto con un lenzuolo legato con spago robusto. Leona rientrò, con occhi gonfi di pianto, ma con la schiena dritta; cominciò a riempire una valigia; per prima cosa vi mise le fotografie incorniciate della sua famiglia, tolte dalla mensola del camino; e poi, maglioni, calze, indumenti vari. Preparò per Swan una borsa più piccola, piena di abiti smessi di Joe; mentre il vento sferzava la casa, Leona passò di stanza in stanza e si fermò qualche istante in ognuna, quasi a trame profumi e ricordi della vita che avevano ospitato. All'alba si sarebbero diretti a Matheson. Leona aveva detto che li avrebbe condotti a quella cittadina; lungo la strada sarebbero passati dalla fattoria di un certo Homer Jaspin e di sua moglie Maggie, che si trovava circa a metà strada fra Sullivan e Matheson: e lì avrebbero pernottato. Leona mise nella valigia alcune delle sue migliori sfere di cristallo; da un ripiano dell'armadio tolse una scatola con alcune buste ingiallite e cartoline d'auguri per l'onomastico... "lettere di corteggiamento" di Davy, spiegò a Swan, e cartoline di Joe. Mise nella valigia anche due barattoli d'unguento per i reumatismi alle ginocchia; anche se lei non aveva detto niente, Josh capì che tutta quella strada a piedi — almeno quindici chilometri fino alla fattoria dei Jaspin — sarebbe stata per Leona una vera tortura. Ma la mancanza di mezzi di trasporto non consentiva scelta. Anche il mazzo di tarocchi finì nella valigia; poi Leona prese un altro oggetto e lo portò nella stanza d'ingresso. «Tieni» disse a Swan. «Voglio che tu la porti con te.» Swan prese la bacchetta da rabdomante che Leona gli porgeva. «Non possiamo lasciare Crybaby qui tutta sola» disse Leona. Oh, no, il lavoro di Crybaby non è ancora terminato, nient'affatto.» La notte trascorse. Josh e Swan dormirono sodo, in letti che avrebbero abbandonato con rimpianto. Quando Josh si svegliò, una luce grigia e tetra macchiava la finestra. Il vento era diminuito d'intensità, ma il vetro era gelido al tocco. Josh andò
nella camera di Joe a svegliare Swan, poi passò nella stanza d'ingresso. Leona era seduta davanti al camino spento; indossava tuta da lavoro, scarponi da contadino, un paio di maglioni, il cappotto di velluto e guanti. Accanto alla sedia c'erano due borse, una per lato. Josh, che aveva dormito senza spogliarsi, s'infilò a fatica un soprabito lungo appartenuto a Davy. Durante la notte, Leona aveva allargato spalle e maniche perché gli entrassero, ma Josh si sentiva ancora come una salsiccia troppo gonfia. «Direi che siamo pronti a partire» annunciò Josh, quando entrò Swan, con la bacchetta in mano e indosso un paio di blue jeans di Joe, uno spesso maglione blu scuro, un cappotto foderato di pelliccia e muffole rosse. «Ancora un minuto solo.» Leona teneva le mani strette in grembo. Sulla mensola del camino, l'orologio non ticchettava più. «Oh, sant'Iddio» disse Leona. «È la casa migliore che abbia mai abitato.» «Le troveremo un'altra casa» promise Josh. Comparve un'ombra di sorriso. «Non come questa. Questa ha avuto la mia vita nei mattoni. Oh, Signore... oh, Signore...» Affondò la testa fra le mani. Scosse le spalle, ma non emise suono. Josh si accostò alla finestra e Swan si mosse per posare la mano sul braccio di Leona, ma all'ultimo istante si trattenne. La donna soffriva, capì Swan, ma si preparava anche ad affrontare il futuro. Dopo qualche istante, Leona si alzò e andò sul retro della casa. Tornò portando la pistola e una scatola di proiettili; mise il tutto sotto il lenzuolo che copriva la carriola. «Può darsi che ci tornino utili» disse. «Non si sa mai.» Guardò Swan, poi Josh. «Ora sono pronta, credo.» Prese la valigia; Swan portò la borsa più piccola. Josh alzò i manici della carriola. Al momento non pesava molto, ma il giorno era appena iniziato. A un tratto Leona lasciò cadere a terra con un tonfo la valigia. «Un attimo!» disse. Andò in fretta in cucina, tornò con la scopa e spazzò nel camino cenere e braci spente cadute sul pavimento. «Ecco fatto.» Mise da parte la scopa. «Ora sono pronta.» Lasciarono la casa e si diressero a nordovest, passando tra le macerie di Sullivan. Il piccolo terrier dal pelo grigio li seguì a una trentina di metri, tenendo dritta la coda corta e ispida, per bilanciare la forza del vento. 37
Il buio li colse a breve distanza dalla fattoria dei Jaspin. Josh legò con lo spago davanti alla carriola la lanterna a occhio di bue. Leona doveva fermarsi ogni mezz'ora: posava la testa in grembo a Swan e intanto Josh le massaggiava le gambe; le lacrime provocate dai reumatismi alle ginocchia rigavano la polvere sulle guance della donna. E tuttavia Leona restava in silenzio, non si lamentava. Dopo qualche minuto di riposo, si rimetteva in piedi e continuavano nella prateria ondulata, annerita dalle radiazioni. Il raggio della lanterna illuminò una cancellata alta poco più d'un metro, in parte abbattuta dal vento. «Siamo vicini alla casa, credo» annunciò Leona. Josh provvide a far passare la carriola al di sopra delle sbarre, alzò di peso Swan e la depose dall'altra parte, aiutò Leona a scavalcare. Si trovarono in un campo di granturco annerito, i cui steli malati, alti quanto Josh, ondeggiavano avanti e indietro, simili a bizzarre alghe sul fondo d'uno stagno limaccioso. Impiegarono una decina di minuti ad attraversare il campo; la luce della lanterna colpì il fianco di una fattoria un tempo dipinta di bianco, ora chiazzata di marrone e di giallo, come pelle di lucertola. «La casa di Homer e di Maggie!» disse Leona, alzando la voce per superare il vento. La casa era buia. Non si vedeva luce di candela né di lanterna. Non c'era nemmeno segno di auto né di camion. Ma qualcosa sbatteva con un rumore forte e irregolare, sulla sinistra, al di là della zona illuminata. Josh slegò la lanterna e avanzò in direzione del rumore. A una quindicina di metri dietro la casa, c'era un fienile rosso dall'aspetto solido: la porta sbatteva contro la parete. Josh tornò alla casa e puntò la lanterna sulla porta d'ingresso. Era spalancata; e la porta a rete, non bloccata dal saliscendi, sbatteva anch'essa nel vento. Josh disse a Swan e a Leona d'aspettare fuori ed entrò nella fattoria buia dei Jaspin. Appena dentro, chiese a gran voce se c'era qualcuno, ma avrebbe potuto farne a meno. Sentì subito il puzzo acre di decomposizione e ne rimase quasi soffocato. Fu costretto ad aspettare un momento, chino sopra una sputacchiera ornamentale d'ottone contenente un mazzo di margherite ormai morte, prima d'essere sicuro di non vomitare. Allora si mise a girare per la casa, muovendo lentamente la luce in cerca di cadaveri. Fuori, Swan udì un latrato furioso nel campo di granturco annerito. Per tutto il giorno il terrier li aveva seguiti, senza mai avvicinarsi a meno di sei metri, allontanandosi di scatto quando Swan si chinava a chiamarlo. Il cane aveva trovato qualcosa, là fuori, pensò Swan. Oppure... qualcosa aveva
trovato lui. Il latrato era insistente, del tipo "vieni a vedere cos'ho preso". Swan posò per terra la borsa, appoggiò Crybaby alla carriola. Avanzò di qualche passo verso il campo di granturco squassato dal vento. Leona disse: «Bambina! Josh ci ha raccomandato di stare qui!» «Sì, certo» rispose Swan e avanzò di altri tre passi. «Swan!» l'ammonì Leona, quando capì dove la bambina era diretta; si mosse per seguirla, ma il dolore acuto alle ginocchia la bloccò. «Non entrare nel campo!» Il latrato del cane la chiamava: Swan entrò nel campo di granturco. Gli steli neri si richiusero alle sue spalle. Leona gridò: «Swan!» Nella fattoria, Josh illuminò la piccola zona pranzo. La credenza era spalancata; il pavimento era coperto di cocci di vasellame. Le sedie erano state fracassate sbattendole contro la parete; il tavolo da pranzo era stato fatto a pezzi. Il lezzo di putredine era più intenso. Il raggio luminoso rivelò una scritta scarabocchiata sulla parete: TUTTI LODERANNO DIO ALVIN. Tracciata con vernice marrone, pensò Josh. Ma no, no. Il sangue era colato lungo la parete, si era raccolto in una chiazza rugginosa sul pavimento. Il vano della porta lo invitava. Josh inspirò a fondo, a denti stretti per resistere al lezzo orrendo, e varcò la soglia. Era una cucina con armadi a muro gialli e tappeto scuro. E li trovò lì. Quel che ne era rimasto. Li avevano legati alle sedie, usando filo spinato. Il viso della donna, incorniciato da capelli grigi striati di sangue, sembrava un portaspilli rigonfio, trafitto da un assortimento di coltelli, di forchette, di quei piccoli manici a due rebbi che s'infilano in fondo alle pannocchie. Sul petto nudo dell'uomo qualcuno aveva disegnato col sangue un bersaglio e si era esercitato usando una pistola di piccolo calibro o una carabina. La testa mancava. «Oh, mio Dio!» gracchiò Josh. Stavolta non riuscì a trattenersi. Andò barcollando al lavello e si chinò a vomitare. Ma la luce della lanterna sorretta con mano tremante gli mostrò che il lavello era già occupato. Josh mandò un urlo di terrore e di ripugnanza, mentre le centinaia di scarafaggi che ricoprivano la testa mozzata di Homer Jaspin fuggivano da tutte le parti e cercavano di nascondersi nel lavello e sul piano del bancone. Josh arretrò a passo malfermo, con in gola il sapore acido della bile; sci-
volò, cadde sul tappeto scuro, sentì delle cose che gli strisciavano sulle braccia e sulle gambe. Il tappeto, capì. Il... tappeto... Il tappeto intorno ai cadaveri era uno strato spesso tre centimetri di scarafaggi zampettanti. Mentre le disgustose creature sciamavano su di lui, a Josh venne in mente un pensiero assurdo: È impossibile distruggere quelle schifezze, nemmeno un disastro nucleare ci riesce! Balzò in piedi, scivolò sugli scarafaggi, corse via da quell'orrenda cucina, schiacciando gli animali e spazzandoli via dai vestiti e dalla pelle. Cadde sul tappeto dell'ingresso, rotolò selvaggiamente, si rialzò, saettò contro la porta a rete. Leona udì il rumore di legno schiantato e di rete lacerata; si girò verso la casa in tempo per vedere Josh abbattere la porta come un toro alla carica. Ecco un'altra porta che se ne va, pensò; poi vide Josh gettarsi a terra e rotolarsi, darsi manate e contorcersi, come se fosse finito in un nido di calabroni. «Cosa c'è?» disse, zoppicando verso di lui. «Cos'è successo?» Josh si alzò sulle ginocchia. Reggeva ancora la lanterna, mentre con l'altra mano si dava colpi in tutto il corpo. Uno scarafaggio gli corse sulla guancia; lui lo afferrò e lo scagliò via, con un brivido. «Non metta piede in quella maledetta casa!» «Certo» disse lei; e scrutò il riquadro scuro dov'era stata la porta. Fu raggiunta dal puzzo: l'aveva già sentito, a Sullivan, e capì che cos'era. Josh udì un cane abbaiare. «Dov'è Swan?» Si alzò, continuando a dimenarsi e a smanacciare. «Dov'è andata?» «Là!» Leona indicò il campo di granturco. «Le avevo detto di non andarci.» «Maledizione!» imprecò Josh. Chiunque avesse fatto un lavoro del genere a Homer e a Maggie Jaspin, poteva trovarsi ancora nella zona... forse era addirittura nel fienile, a guardare e ad aspettare. Forse era nel campo con la bambina. Prese dalla carriola la rivoltella e la scatola di proiettili, inserì in fretta tre cartucce nel cilindro. «Non si muova di qui!» disse a Leona. «E non entri in quella casa!» Lanterna in una mano, rivoltella nell'altra, corse nel campo di granturco. Swan seguiva l'abbaiare del cane. Il suono fluiva e rifluiva nel vento. Gli steli morti da tempo frusciavano e ondeggiavano, le afferravano il vestito,
con i loro tentacoli coriacei. Le pareva di camminare in un cimitero in cui tutti i cadaveri stessero in piedi, ma i richiami frenetici del cane la spingevano avanti. C'era una cosa importante, nel campo; una cosa che il cane voleva farle sapere. E lei era decisa a scoprire cosa fosse. Le parve che i latrati provenissero da sinistra. Si mosse in quella direzione. Udì, alle sue spalle, il grido di Josh: «Swan!» «Da questa parte» rispose;.ma il vento cambiò. Lei continuò ad avanzare, riparandosi il viso dagli steli ondeggianti. I latrati erano più vicini. No, adesso si spostavano di nuovo a destra. Swan andò avanti, anche se udì di nuovo Josh chiamarla. «Sono qui» gridò, ma non udì risposta. I latrati si spostarono di nuovo e Swan capì che il terrier seguiva qualcosa... o qualcuno. E diceva: "Presto! Presto, vieni a vedere cos'ho trovato!" Swan aveva fatto altri sei passi, quando udì qualcosa avanzare rumorosamente verso di lei. La voce del terrier divenne più forte, più pressante. Swan rimase immobile, all'erta, orecchie tese. Ora aveva il batticuore, sapeva che la creatura sconosciuta veniva dalla sua parte e si avvicinava. «Chi c'è?» gridò. Il rumore di steli spezzati veniva dritto verso di lei. «Chi c'è?» Il vento portò via la voce. Swan scorse qualcosa avanzare verso di lei fra il granturco... qualcosa di non umano, qualcosa di enorme. Non ne distingueva la forma, non capiva che cosa fosse, ma udì un brontolio e arretrò, con il cuore che martellava. La cosa smisurata e informe veniva dritta verso di lei, sempre più veloce, aprendosi un varco fra gli steli morti e ondeggianti: nel giro di qualche secondo l'avrebbe raggiunta. Swan voleva scappare, ma i piedi avevano messo radici e non c'era più tempo, perché la cosa si precipitava su di lei e il terrier abbaiava per metterla in guardia. Il mostro abbatté gli steli di granturco e torreggiò su di lei; Swan urlò, sradicò i piedi da terra, barcollò indietro, cadde a sedere, rimase lì impietrita mentre le zampe del mostro avanzavano a grandi passi verso di lei. «Swan!» gridò Josh, sbucando fra gli steli alle sue spalle e puntando la luce contro quel che stava per calpestarla. Accecato dal raggio di luce, il mostro si fermò di colpo impennandosi sulle zampe posteriori e soffiando vapore dalle narici dilatate. Swan e Josh videro che cos'era. Un cavallo. Un cavallo pezzato, a chiazze bianche e nere, con occhi atterriti e grossi zoccoli irsuti. Il terrier gli abbaiava tenacemente alle calcagna; il cavallo
nitrì di paura, danzò ancora per qualche secondo sulle zampe posteriori, prima di ricadere con le anteriori a qualche centimetro da Swan. Josh afferrò per il braccio la bambina e la tirò via, mentre il cavallo sgroppava e girava, e il terrier gli saettava intorno, con indomito coraggio. Swan tremava ancora, ma capì subito che il cavallo era più spaventato di lei. Andava di qua e di là, confuso e accecato, cercando una via di fuga. I latrati del cane lo atterrivano ancora di più; Swan si liberò di Josh e avanzò di due passi, quasi sotto il naso del cavallo; alzò le mani e le batté proprio davanti al muso dell'animale. Il cavallo sobbalzò, ma smise di agitarsi; puntò gli occhi impauriti sulla bambina, mandò vapore dalle froge, ansimando. Le zampe gli tremavano come se stessero per mancargli o per darsi alla fuga. Il terrier continuava ad abbaiare. Swan puntò il dito e ordinò: «Zitto!» Il cane arretrò di qualche passo, ma smise di abbaiare; poi, quasi si fosse accorto d'essersi avvicinato troppo ai due esseri umani, compromettendo la propria indipendenza, saettò via nel campo di granturco. Si fermò a una certa distanza, con un ringhio di tanto in tanto. Swan si dedicò al cavallo, fissandolo sempre negli occhi. La testa grossa e non proprio bella tremava, cercava di ritrarsi da lei; ma o non poteva o non voleva. «È maschio o femmina?» chiese Swan a Josh. «Eh?» Josh sentiva ancora gli scarafaggi su e giù per la spina dorsale, ma spostò il raggio della lanterna. «Maschio» disse. «Non vede gente da un mucchio di tempo, scommetto. Guardalo: non sa se essere contento di vederci, o scappare.» «Apparteneva certo ai Jaspin» disse Josh. «Li hai trovati in casa?» Swan continuò a guardare negli occhi il cavallo. «Sì. Cioè... no, non li ho trovati. Ho trovato le tracce della loro presenza. Se ne saranno andati.» Non avrebbe mai permesso a Swan di entrare nella casa. Il cavallo brontolò nervosamente, muovendosi di qualche passo. Swan sollevò lentamente la mano verso il muso dell'animale. «Attenta» l'ammonì Josh. «Ti mozzerà le dita.» Swan continuò ad allungare la mano, lentamente e senza esitazioni. Il cavallo arretrò, dilatò le froge, mosse a scatti le orecchie, avanti e indietro. Abbassò la testa, annusò per terra, finse di guardare da un'altra parte; ma Swan vide che l'animale la valutava, cercava di prendere una decisione al suo riguardo. «Non ti faremo niente» disse piano, in tono tranquillo. Avanzò d'un passo; il cavallo sbuffò un avvertimento nervoso.
«Stai attenta! Potrebbe venirti addosso!» Josh non sapeva proprio niente di cavalli, ne aveva sempre avuto paura. Quello lì, poi, era grosso, brutto, sgraziato, con zoccoli irsuti, coda floscia e schiena troppo insellata, come se gli avessero caricato in groppa un'incudine. «Non è sicuro di noi» disse Swan a Josh. «Cerca ancora di decidere se fuggire o no, ma sembra contento di vedere di nuovo delle persone.» «Cosa sei, un'esperta di cavalli?» «No. Ma si capisce da come tiene le orecchie e da come agita la coda. Guarda come ci fiuta... non vuole sembrare troppo amichevole. I cavalli sono assai orgogliosi. Credo che a lui piaccia la gente, e che si sia sentito solo.» Josh scrollò le spalle. «Sarà anche vero, ma per me non lo dimostra.» «Mamma e io una volta stavamo in un motel vicino a un prato dove pascolavano dei cavalli. Avevo l'abitudine di scavalcare la staccionata a camminare con loro. Credo d'avere imparato anche come parlano.» «Parlano? Ma va!» «Be', non come gli uomini» si corresse Swan. «I cavalli parlano con le orecchie e con la coda, con il modo di tenere la testa e il corpo. In questo momento lui parla» disse, mentre il cavallo sbuffava e mandava un nitrito nervoso. «Cosa dice?» «Dice... che vuole sapere di cosa parliamo noi.» Swan continuò a sollevare la mano verso il muso dell'animale. «Attenta alle dita!» Il cavallo arretrò d'un passo. Swan continuò a sollevare la mano... molto lentamente. «Nessuno ti farà male» disse, con una voce che a Josh parve musica di liuto o di lira o di qualche altro strumento che la gente aveva dimenticato come suonare. La dolcezza del tono quasi gli tolse di mente gli orridi resti legati alle sedie nella fattoria dei Jaspin. «Su, vieni qui» disse Swan. «Non vogliamo farti male.» Le sue dita erano a qualche centimetro dal muso; Josh fu sul punto d'afferrarla e di tirarla indietro, prima che finissero sotti i denti dell'animale. Il cavallo agitò le orecchie e le piegò in avanti. Sbuffò di nuovo, raspò il terreno, abbassò la testa ad accettare la carezza di Swan. «Bravo» disse Swan. «Bravo bambino.» Gli grattò il muso; il cavallo le diede sul braccio un colpetto incuriosito, con il naso. Josh non l'avrebbe creduto, se non l'avesse visto. Be', forse Swan aveva ragione, il cavallo sentiva la mancanza degli esseri umani. «Mi sa che ti sei
fatto un amico. Ma non sembra un gran cavallo. Pare un mulo con la schiena storta vestito da pagliaccio.» «A me sembra abbastanza grazioso.» Swan lo accarezzò fra gli occhi; il cavallo, ubbidiente, abbassò la testa, per non farle allungare troppo la mano. Ma aveva ancora gli occhi atterriti. Swan capì che se avesse fatto una mossa brusca, sarebbe fuggito nel campo di granturco e di sicuro non sarebbe più tornato; perciò eseguì ogni movimento con lentezza e precisione. Probabilmente era un cavallo vecchio, perché mostrava una stanca pazienza nel modo di ciondolare la testa e di muovere i fianchi, come se fosse rassegnato a una vita passata a tirare l'aratro proprio in quel campo. La pelle pezzata tremava e trasaliva, ma il cavallo permise a Swan di accarezzargli la testa ed emise un sordo brontolio che pareva un sospiro di sollievo. «Ho lasciato Leona davanti alla casa» disse Josh. «Meglio tornare.» Swan annuì e girò le spalle al cavallo, seguendo Josh. Aveva fatto solo alcuni passi, quando percepì, più che udire, i passi pesanti alle sue spalle. Si guardò indietro. Il cavallo si bloccò, immobile come una statua. Swan continuò dietro Josh e il cavallo li seguì a rispettosa distanza. Il terrier schizzò fuori e abbaiò un paio di volte, solo per rendersi irritante. Il cavallo pezzato scalciò con gli zoccoli posteriori, in un gesto sprezzante che coprì di polvere il cane. Leona, seduta per terra, si massaggiava le ginocchia. La luce di Josh si avvicinò; quando lui e Swan emersero dal campo di granturco, Leona vide Swan e il cavallo, nel riflesso della lanterna. «Dio onnipotente! Cos'hai trovato?» «Quel bestione correva come un pazzo nel campo» le disse Josh, aiutandola a rialzarsi. «Swan ha fatto un incantesimo e l'ha calmato.» «Oh?» Leona guardò negli occhi la bambina e sorrise con aria saputa. «Ma davvero?» Avanzò zoppicando per guardare il cavallo. «Apparteneva certo a Homer. Ne aveva tre o quattro, qui. Be', non è un campione di bellezza, ma ha quattro zampe robuste, no?» «A me sembra un mulo» disse Josh. «Gli zoccoli sono larghi come padelle.» Dalla fattoria arrivò una zaffata di putredine. Il cavallo alzò di scatto la testa e nitrì, come se avesse fiutato anche lui l'odore di morte. «Meglio toglierci dal vento» disse Josh. Mosse la lanterna in direzione del fienile. Mise di nuovo nella carriola la rivoltella, legò la lanterna e andò avanti per accertarsi che l'assassino di Homer e di Maggie Jaspin non si nascondesse nel fienile aspettando il loro arrivo. Si chiese chi fosse Dio Alvin... ma non aveva certo fretta di scoprirlo. Dietro di lui, Swan prese la
borsa e la bacchetta; Leona li seguì, portando la valigia. A una certa distanza veniva il cavallo; il terrier abbaiò alle loro spalle e cominciò a scorazzare attorno alla fattoria, come un soldato di pattuglia. Josh perlustrò accuratamente il fienile e non trovò nessuno. Per terra c'era abbondanza di fieno; il cavallo entrò con loro e si comportò come se fosse a casa propria. Josh tolse dalla carriola le coperte, appese alla parete la lanterna e aprì per cena una scatoletta di stufato. Il cavallo annusò intorno a loro per un poco, più interessato al fieno che allo stufato; ma tornò ad avvicinarsi, quando Josh aprì un recipiente d'acqua e gliene versò un poco in un secchio. Il cavallo lappò tutto il liquido e ne chiese ancora. Josh l'accontentò. Il cavallo raspò il terreno come un puledro appena nato. «Via di qui, brutto mulo!» gli gridò Josh, quando il cavallo cercò d'infilare la lingua nel recipiente dell'acqua. Mangiarono quasi tutto lo stufato; Swan portò fuori la lattina in cui era rimasto nel sugo qualche pezzetto di carne e la lasciò lì per il cane, insieme con il resto dell'acqua. Il terrier si avvicinò a meno di tre metri, ma aspettò che Swan tornasse nel fienile, prima di farsi avanti a mangiare. Swan dormì sotto una coperta. Il cavallo, che Josh battezzò Mulo, si mosse avanti e indietro, a mangiare fieno e a scrutare dalla porta piena di fessure la fattoria buia. Il terrier continuò a pattugliare la zona ancora per un poco; poi trovò un posto riparato dal vento, contro la parete esterna, e si accucciò a dormire. «Erano morti tutt'e due» disse Leona, quando Josh si sedette contro un palo e si avvolse la coperta intorno alle spalle. «Già.» «Vuole parlarne?» «No. E non ne parli neppure lei. Ci aspetta un'altra giornata lunga e faticosa.» Leona attese qualche minuto, per vedere se Josh continuava, ma a dire il vero non aveva voglia di saperne di più. Si tirò addosso la coperta e si addormentò. Josh aveva paura di chiudere gli occhi, perché sapeva che cosa lo aspettava dietro le palpebre chiuse. Dall'altra parte del fienile, Mulo brontolava, pacifico: era un rumore rassicurante, come il fruscio del tubo d'aria calda in una stanza fredda o il "tutto va bene" della ronda. Josh aveva bisogno di dormire, e lo sapeva; era sul punto di chiudere gli occhi, quando notò un movimento alla sua destra. Un piccolo scarafaggio strisciava lentamente sopra i fili sparsi di fieno. Josh strinse il pugno con l'intenzione di schiac-
ciarlo, ma si fermò a mezza strada. Ogni cosa vivente ha il suo modo di parlare e di sapere, aveva detto Swan. Ogni cosa vivente. Josh trattenne il pugno e osservò l'insetto sforzarsi con ostinazione di andare avanti, impigliarsi nei fili di fieno e liberarsi, proseguire con tenacia e determinazione ammirevoli. Josh ritrasse il braccio. Lo scarafaggio raggiunse il limitare della zona illuminata e si tuffò nel buio per continuare il viaggio. Chi sono io, per uccidere quella creatura?, si domandò Josh. Chi sono io, per dare la morte anche alla più bassa forma di vita? Ascoltò il gemito del vento che sibilava nelle fessure delle pareti e rifletté che forse c'era qualcuno, lì fuori nel buio — Dio o il Demonio o un essere ancora più primordiale di entrambi — per il quale l'umanità era come, per lui, lo scarafaggio: poco intelligente, certo fastidiosa, ma impegnata con tenacia a progredire, senza mai cedere, lottando per superare gli ostacoli, oppure aggirandoli, e facendo tutto il possibile per sopravvivere. E si augurò che, se mai fosse giunto il momento in cui quel pugno primordiale sarebbe calato, anche colui che lo vibrava si fermasse un attimo a riflettere. Si strinse nella coperta e si distese sul fieno a dormire. 38 «Ecco la nostra forza!» disse il colonnello Macklin, mostrando l'automatica .45 tolta al giovane californiano ucciso. «No» replicò Roland Croninger. «È questa, la nostra forza.» Sollevò un flacone di pillole preso dalla provvista di Sheila Fontana. «Ehi!» Sheila allungò la mano per strapparglielo, ma Roland lo tenne fuori della sua portata. «La mia scorta! Non puoi...» «Seduta» ordinò Macklin. La ragazza esitò. Macklin si posò sul ginocchio la pistola. «Seduta!» ripeté. Sheila imprecò sottovoce e si sedette in fondo alla fossa lurida, mentre il ragazzo spiegava all'eroe di guerra monco come le anfetamine e la coca fossero più importanti di qualsiasi arma da fuoco. Spuntò l'alba, nel cielo d'un giallo canceroso, accompagnata da aghi di pioggia. Una donna dai capelli neri, un uomo con una mano sola e un soprabito lercio, un ragazzo con un paio d'occhialoni, avanzarono insieme a passo deciso sul terreno coperto di cadaveri in putrefazione e di carcasse di
veicoli. Sheila Fontana reggeva in alto un paio di slip bianchi; Macklin, che veniva subito dopo, le teneva puntata alla schiena la .45. Roland Croninger portava lo zaino di Sheila e chiudeva la fila. Ricordava la sensazione dei suoi capelli fra le dita, del suo corpo che si muoveva come una corsa sulle montagne russe; voleva scoparla di nuovo e gli sarebbe dispiaciuto che facesse ora una mossa sbagliata obbligando Macklin a ucciderla. Perché, dopotutto, la notte prima lui e il colonnello avevano mostrato nei riguardi della donna la massima cavalleria: l'avevano salvata dalla marmaglia, le avevano dato da mangiare — biscotti per cani trovati nel relitto di un camper, che costituivano il loro unico cibo, visto che la carcassa del cane era terminata da un pezzo — e un posto dove dormire, una volta finito con lei. Raggiunto il confine della "zona delle larve", iniziarono a percorrere il terreno aperto. Davanti a loro c'erano le tende, le auto e i ripari di cartone dei privilegiati che vivevano sulla riva del lago. Erano circa a metà strada, diretti alla roulotte Airstream ammaccata e graffiata al centro del campo, quando udirono il grido d'allarme: «Larve in arrivo! Sveglia! Larve in arrivo!» «Continua a camminare» disse Macklin a Sheila, vedendola esitare. «E continua anche a sventolare quelle mutande.» Dai rifugi cominciò a uscire gente. A dire il vero, quegli individui erano laceri e sporchi esattamente come le larve, ma avevano armi da fuoco e cibi in scatola e bottiglie d'acqua, e quasi tutti erano scampati alle ustioni più gravi. La maggior parte delle larve, al contrario, aveva riportato ustioni gravi, soffriva di malattie infettive o era impazzita. Macklin capì subito la situazione: il potere aveva il suo centro nella roulotte Airstream, palazzo scintillante fra i tuguri. «Andatevene, stronzi!» gridò un uomo, dall'ingresso d'una tenda. Puntò contro di loro una carabina ad alta velocità. «Via!» urlò una donna; e qualcuno tirò una lattina vuota che colpì il terreno qualche passo davanti a Sheila. La ragazza si fermò. Con la canna dell'automatica Macklin le diede una spinta. «Continua a camminare. E sorridi!» «Andatevene, sozzure!» gridò un altro uomo, che indossava i resti di una divisa dell'aviazione e un cappotto macchiato di sangue secco; impugnava una rivoltella e si avvicinò a meno di sei metri. «Ladri di tombe!» urlò. «Luridi, pidocchiosi... selvaggi!» Macklin non si preoccupò di lui: l'uomo era giovane, forse sui venti-
cinque, e continuava a spostare gli occhi su Sheila Fontana. Non avrebbe fatto niente. Altri si avvicinarono, fra grida e scherni, brandendo pistole e fucili, perfino una baionetta. Tirarono sassi, bottiglie, lattine; ma per quanto venissero pericolosamente vicino, nessuno di loro attaccò briga. «Non vogliamo le vostre malattie!» urlò un uomo di mezz'età, con impermeabile marrone e berretto di lana. Impugnava una scure. «Vi ammazzo, se fate ancora un passo!» Macklin non si preoccupò neanche di quest'ultimo. Gli uomini erano sconcertati per la presenza di Sheila Fontana, ma il colonnello lesse sul loro viso la libidine, mentre avanzavano da tutte le parti e gridavano minacce. Notò una ragazza magra, con ispidi capelli castani, avvolta in un impermeabile giallo, che fissava Sheila, con occhi infossati in cui brillava una luce omicida; reggeva un coltello da macellaio e ne tastava il filo. Di lei Macklin si preoccupò e spinse Sheila lontano dalla donna. Fu colpito alla testa da una lattina vuota. Uno si avvicinò tanto da colpire Roland con uno sputo. «Continua a camminare. Continua a camminare» disse Macklin, con calma; a occhi socchiùsi, muoveva rapidamente lo sguardo a destra e a sinistra. Roland udì alle spalle grida e risate sfottenti: nel cimitero delle macchine, trenta o quaranta larve erano strisciate dalle tane e saltavano su e giù, gridando come animali che pregustassero un massacro. Macklin sentì l'odore dell'acqua salata. Davanti a lui, fra la foschia piovigginosa, al di là del campo, il Grande Lago Salato si estendeva all'orizzonte: aveva un odore asettico, simile a quello delle corsie d'ospedale. Il moncherino gli bruciava e ribolliva d'infezione; Macklin non vedeva l'ora di tuffarlo nell'acqua risanatrice, di battezzare se stesso nella sofferenza purificante. Un uomo massiccio, barbuto, dai capelli rossi, in cappotto di pelle e tuta, con una benda sulla fronte, avanzò di fronte a Sheila, Puntò un fucile da caccia a due canne contro la testa di Macklin. «Più avanti di qui non si va» disse. Sheila si fermò, a occhi sbarrati. Gli agitò davanti al viso gli slip. «Ehi, non sparare! Non vogliamo guai!» «Non sparerà» disse Macklin con disinvoltura, sorridendo al barbuto. «Vedi, amico mio, ho una pistola puntata alla schiena della signorina. Se mi fai saltare la testa, e se uno di voi stronzi spara a me o al ragazzo, il dito premerà il grilletto e le trancerà la spina dorsale. Guardatela, gente! Guardatela! Non ha una bruciatura! Nemmeno una bruciatura piccola piccola,
da nessuna parte! Oh, sì, lustratevi gli occhi, ma non toccate! Non è una meraviglia?» Sheila provò l'impulso d'alzare la camicia e mostrare le tette a quelli che la fissavano con aria allocchita; se l'eroe di guerra avesse mai deciso di cimentarsi nel campo dei magnaccia, avrebbe avuto un successo travolgente. Ma quella situazione era davvero assurda, le sembrava quasi di volare per effetto di una pastiglia di LSD. Increspò le labbra, sul punto di ridere. I cenciosi che l'attorniavano impugnando pistole e coltelli, si limitarono a fissarla; più indietro, un'accolta di donne magre e sporche la guardava con espressione di odio assoluto. Macklin vide che erano a quindici metri dalla roulotte. «Vogliamo vedere il Grassone» disse al barbuto. «Ma certo!» disse l'altro, sarcastico, senza abbassare il fucile. «Non fa che ricevere larve tutto il giorno. Offre loro champagne e caviale!» Sbuffò. «Chi cazzo credi di essere?» «Sono il colonnello James B. Macklin. Ho prestato servizio come pilota in Vietnam, sono stato abbattuto e ho passato un anno in un buco al cui confronto questo posto sembra il Ritz-Carlton. Sono un militare, stupido bastardo!» Macklin cominciava a diventare rosso. Disciplina e autocontrollo, si disse; disciplina e autocontrollo ti rendono uomo. Respirò a fondo un paio di volte; intorno, parecchi lo schernirono e uno sputo lo raggiunse alla guancia destra. «Vogliamo vedere il Grassone. È lui il capo qui, no? Quello che ha più cibo e più armi.» «Cacciali via!» urlò una donna tarchiata, dai capelli ricci, che brandiva un forchettone da barbecue. «Non vogliamo le loro maledette malattie!» Roland sentì armare una pistola e capì d'averne una puntata alla nuca. Trasalì, ma poi si girò lentamente, con un ghigno rigido. Un ragazzo biondo della sua età, con una voluminosa giacca di plaid, gli puntava una .38 proprio in mezzo agli occhi. «Puzzi» disse il biondino; gli occhi castano scuro lo sfidarono a fare una mossa. Roland rimase immobile, ma il cuore gli batteva all'impazzata. «Ho detto che voglio vedere il Grassone» ripeté Macklin. «Ci portate da lui o no?» Il barbuto scoppiò in una risata rauca. «Hai un gran bel fegato, per essere una larva!» Il suo sguardo guizzò verso Sheila Fontana, si soffermò sulle curve e sui seni, tornò alla pistola di Macklin. Roland sollevò lentamente la mano davanti al viso del biondo, con altrettanta lentezza l'abbassò e la infilò nella tasca dei calzoni. Il dito del
biondino era sul grilletto. Roland trovò quel che cercava e cominciò a tirarlo fuori. «Lascia qui la donna e non t'ammazziamo» disse a Macklin il barbuto. «Te ne puoi tornare nella tana. Dimenticheremo che hai...» Un piccolo flacone di plastica colpì il terreno davanti al suo stivale sinistro. «Forza» gli disse Roland. «Prendilo. Annusa.» Il barbuto esitò, diede un'occhiata agli altri che ancora urlavano e sfottevano e con gli occhi divoravano Sheila. Piegò il ginocchio, raccolse il flacone, lo stappò e lo annusò. «Che diavolo...» «Vuole che lo ammazzi, signor Lawry?» chiese, speranzoso, il biondino. «No! Metti giù quella pistola!» Lawry annusò di nuovo il contenuto del flacone e i suoi larghi occhi celesti cominciarono a lacrimare. «Metti giù la pistola!» sbraitò. Il biondino ubbidì malvolentieri. «Allora, ci porti dal Grassone?» chiese Macklin. «Gradirà anche lui una sniffata, non credi?» «Dove hai preso questa merda?» «Il Grassone. Subito.» Lawry tappò il flacone. Guardò gli altri, diede un'occhiata alla roulotte Airstream ed esitò, cercando di prendere una decisione. Batté le palpebre. Roland si disse che il barbuto non aveva proprio un computer fra le orecchie. «D'accordo.» Spostò il fucile. «Muovete il culo.» «Uccidili!» strillò la donna tarchiata. «Non farci contaminare da loro!» «Ora statemi a sentire, tutti quanti!» Lawry tenne il fucile contro il fianco e strinse nell'altra mano il flacone di plastica. «Non sono bruciati, non hanno niente! Voglio dire... sono solo sporchi! Non sono come le altre larve! Rispondo io di loro!» «Non farli entrare!» gridò un'altra donna. «Non sono dei nostri!« «Muoviti» disse Lawry a Macklin. «Fai uno scherzo e ti giuro davanti a Dio che ti faccio saltare la testa. Chiaro?» Macklin non rispose. Spinse avanti Sheila e Roland li seguì verso la grossa roulotte argentata. Una muta di gente si mise alle loro calcagna, compreso il biondino dal grilletto facile, .38 in pugno. Arrivati a tre metri dalla roulotte, Lawry ordinò di fermarsi. Salì la scaletta di mattoni e con il calcio del fucile bussò alla porta. «Chi è?» domandò dall'interno una voce alta e acuta. «Lawry, signor Kempka. Devo farle vedere una cosa.» Per qualche secondo non ci fu risposta. Poi l'intera roulotte parve trema-
re e cedere scricchiolando di qualche grado, mentre Kempka — il Grassone che, aveva saputo Macklin da un'altra larva, era il capo del campo sulla riva del lago — si accostava alla porta. Un paio di catenacci furono tirati indietro. La porta si aprì, ma Macklin non riuscì a scorgere chi l'aveva aperta. Lawry disse a Macklin d'aspettare lì fuori ed entrò nella roulotte. La porta si chiuse. Appena Lawry scomparve, le grida e gli scherni aumentarono; volarono di nuovo bottiglie e lattine. «Sei pazzo, eroe di guerra» disse Sheila. «Da qui non uscirai vivo.» «Se facciamo il salto, ci precedi.» Lei si girò, senza badare alla pistola, con occhi fiammeggianti di rabbia. «Allora uccidimi, eroe di guerra. Appena premi il grilletto, quei bastardi infoiati ti faranno a pezzi. E chi ti ha detto di usare la mia scorta, eh? Quella che semini in giro è coca colombiana di prima qualità!» Macklin sorrise appena. «Ti piace correre rischi, no?» Non attese la risposta, già la sapeva. «Vuoi cibo e acqua? Vuoi dormire con un tetto sulla testa, senza la paura che qualcuno t'ammazzi durante la notte? Vuoi lavarti e non stare accucciata nella tua stessa merda? Anch'io voglio le stesse cose, e Roland pure. Il nostro posto non è laggiù fra le larve: è qui. E questo è il rischio che dobbiamo correre.» Sheila scosse la testa; anche se era furibonda per la perdita delle droghe, sapeva che lui aveva ragione. Il ragazzo si era dimostrato furbo davvero, a suggerire la mossa. «Sei pazzo.» «Vedremo.» La porta della roulotte si aprì. Lawry sporse la testa. «Va bene. Venite dentro. Ma prima dammi la pistola.» «Niente da fare. La pistola la tengo io.» «Mi hai sentito.» «Sì. La pistola la tengo io.» Da sopra la spalla, Lawry guardò l'uomo dentro la roulotte. «Va bene» disse poi. «Venite dentro... e sbrigatevi!» Salirono i gradini ed entrarono nella roulotte. Lawry chiuse la porta dietro Roland, tagliando fuori le grida della folla. Puntò il fucile alla testa di Macklin. Una figura tonda e informe, con indosso una T-shirt piena di patacche e una tuta, sedeva al tavolo dall'altre parte della roulotte. I capelli, tinti color arancione, formavano punte rigide di tre centimetri; la barba era striata di coloranti alimentari rossi e verdi. La testa pareva troppo piccola per il busto e il ventre enorme, ma aveva quattro menti. Gli occhi erano buchi neri,
piccoli e luccicanti, nella faccia pallida e cascante. Nel veicolo erano disseminati cartoni di cibi in scatola, bottiglie di Coca-Cola, di Pepsi e d'acqua, un centinaio di confezioni da sei di birra Budweiser, accatastate contro una parete. Dietro il Grassone c'era un deposito d'armi: una rastrelliera con sette carabine, di cui una con mirino telescopico; un vecchio mitragliatore Thompson; un bazooka; e un assortimento di pistole appese a una serie di ganci. Davanti a lui, sul tavolo, l'uomo aveva fatto una montagnola di cocaina tolta dal flacone di plastica e ne strofinava una presa fra le dita paffute. A portata della destra aveva una Luger con la canna rivolta in direzione dei visitatori. Si portò alle narici un pizzico di cocaina e annusò delicatamente, come se provasse profumo francese. «Come vi chiamate?» disse, con voce quasi femminile. «Macklin. Colonnello James B. Macklin, ex Aviazione degli Stati Uniti. Lui è Roland Croninger; lei, Sheila Fontana.» Kempka raccolse un altro pizzico di cocaina e lo lasciò ricadere. «Questa da dove proviene, colonnello Macklin?» «Dalla mia scorta» disse Sheila. Credeva d'avere già visto tutte le cose più repellenti di questo mondo, ma anche nella fioca luce giallastra delle due lampade a petrolio che illuminavano la roulotte, riusciva a stento a sopportare la vista del Grassone. Sembrava un fenomeno da circo; e dai lobi lunghi e grassocci gli pendevano orecchini tempestati di brillanti. «E questa è la consistenza della "scorta"?» «No» rispose Macklin. «Nient'affatto. C'è cocaina in quantità e pillole di tutti i tipi.» «Pillole» ripeté Kempka. Puntò su Macklin gli occhietti neri. «Che genere di pillole?» «Di tutto. LSD. PCP. Analgesici. Tranquillanti. Eccitanti e depressivi.» Sheila sbuffò. «Eroe di guerra, non te ne intendi proprio, di roba buona, vero?» Mosse un passo verso Kempka e il grassone posò la mano sul calcio della Luger. «Bellezze Nere, Giubbe Gialle, Angeli Azzurri, Beniamine, Bombe e Pungiglioni Rossi. Tutta roba di prima qualità.» «Davvero? Era nel ramo, signorina?» «Già, direi.» Guardò il disordine che ingombrava la roulotte. «E tu in che ramo eri? Allevamento di porci?» Kempka la fissò. Poi, piano piano, il suo ventre cominciò a vibrare, imitato dai quattro menti. Tutto il viso tremolò come un piatto di gelatina; dalle labbra uscì una risata acuta, femminile. «Eh, eh, eh!» disse, prendendo colore. «Eh, eh, eh! Allevamento di porci. Eh, eh, eh!» Mosse la mano
grassoccia in direzione di Lawry, che si costrinse a ridere nervosamente. Tornato serio, Kempka disse: «No, mia cara, niente allevamento di porci. Avevo un negozio d'armi a Rancho Cordova, appena fuori Sacramento. Per fortuna ho avuto il tempo d'impacchettare una parte del mio assortimento e tagliare la corda, quando le bombe sono cadute nella zona della Baia. Ho avuto anche la presenza di spirito di far visita a una piccola drogheria lungo la strada. Il signor Lawry era un commesso nel mio negozio. Abbiamo trovato un posto dove starcene nascosti per un poco, nel parco nazionale Eldorado. La strada ci ha condotti qui e altra gente ha cominciato ad arrivare. Presto si è formata una piccola comunità. La maggior parte della gente veniva per bagnarsi nel lago. C'è la credenza che bagnarsi nell'acqua salata porta via le radiazioni e rende immuni.» Scrollò le spalle grasse. «Forse è vero, forse no. In ogni caso, mi piace fare la parte del Re della Montagna e del Padrino. Se uno non fa come dico io, mi limito a cacciarlo nella terra delle larve... oppure lo ammazzo.» Ridacchiò di nuovo, con uno scintillio d'allegria negli occhi neri. «Capite, qui la legge la faccio io. Freddie Kempka, ex titolare del Supermercato del Tiratore. Oh, è davvero uno spasso!» «Buon per te» borbottò Sheila. «Sì. Buon per me.» Strofinò fra le dita un pizzico di cocaina e la fiutò, prima da una narice, poi dall'altra. «Oddio, oddio! È polvere davvero potente, vero?» Si leccò le dita, guardò Roland Croninger. «E tu cosa saresti, un cadetto dello spazio?» Roland non rispose. Ti romperò quel culo lardoso, pensò. Kempka ridacchiò. «Come mai era nella terra delle larve, colonnello?» Macklin gli raccontò tutta la storia, ma non parlò del Soldato Ombra, perché al Soldato Ombra non piaceva che si parlasse di lui agli estranei. «Capisco» disse Kempka, quando Macklin terminò. «Be', come si usa dire, anche i piani meglio congegnati finiscono in merda, vero? Allora, immagino che siate venuti qui a portare questa polvere potente per uno scopo ben preciso. Quale?» «Vogliamo trasferirci nel campo. Vogliamo una tenda e una provvista di cibo.» «Le sole tende esistenti sono state portate a spalla. Sono tutte piene. Non c'è posto all'osteria, colonnello.» «Basta farlo. Una tenda e un po' di cibo in cambio di una razione settimanale di cocaina e di pillole. Chiamiamolo affitto.» «Cosa dovrei farmene, delle droghe?»
Roland rise. Kempka lo guardò con occhi rannuvolati. Roland venne avanti. «Andiamo, signore! Sa anche lei che potrà vendere le droghe al prezzo che vuole! Può comprare la mente delle persone, con questa roba, perché tutti pagheranno per dimenticare. Le daranno qualsiasi cosa: cibo, armi, benzina... tutto.» «Queste cose le ho già.» «Ah, certo. Ma è sicuro d'averne a sufficienza? E se domani viene al campo qualcuno con una roulotte più grande? E se ha più armi di lei? Se è più forte e più spietato? La gente là fuori cerca solo uno che gli dica cosa fare. Quelli vogliono essere comandati. Non vogliono pensare per conto proprio.» Indicò il mucchietto candido come neve. «Lì c'è il mezzo per tenere in pugno anche la loro mente.» Kempka e Roland si fissarono in silenzio per un attimo; e a Roland parve di guardare una limaccia gigantesca. Gli occhi neri di Kempka perforarono quelli di Roland; alla fine, un sorrisino aleggiò sulle labbra umide. «Queste droghe» disse Kempka «mi comprerebbero un dolce, giovane cadetto dello spazio?» Roland non seppe che cosa rispondere. Rimase stordito. Ovviamente, lo diede a vedere, perché Kempka sbuffò e si mise a ridere. Quando si fu calmato, disse a Macklin: «Che cosa m'impedisce di ucciderla subito e impadronirmi delle sue preziose droghe, colonnello?» «Una cosa semplicissima: le droghe sono seppellite nella terra delle larve. Roland è l'unico a sapere dove. Una volta alla settimana andrà a prenderle la razione; e farà la pelle a chiunque lo segua o cerchi d'interferire.» Kempka tamburellò sul tavolo; guardò il mucchietto di cocaina, poi Macklin e Roland, poi — trascurando con sprezzo la ragazza — di nuovo la "neve" colombiana. «La roba potrebbe farci comodo, signor Kempka» disse Lawry. «Ieri è venuto un tizio con una stufetta a benzina che certo riscalderebbe la roulotte. Un altro ha del whisky che si è trascinato dietro in un sacco di tela. Ci serviranno anche gomme per il camion. Avrei già preso la stufa e le bottiglie di Jack Daniels, ma questi nuovi arrivati sono armati fino ai denti. Sarebbe anche una buona idea farsi dare le loro armi in cambio di droga.» «Decido io cos'è una buona idea.» Il viso di Kempka parve ripiegarsi su se stesso, quando lui corrugò pensierosamente la fronte. Trasse un lungo respiro ed espirò con rumore di mantice. «Trovagli una tenda. Vicino alla roulotte. E spargi la voce che chi li tocca se la vedrà con Freddie Kempka.» Rivolse a Macklin un largo sorriso. «Colonnello, credo che lei e i
suoi amici sarete un'aggiunta interessante alla nostra piccola famiglia. Vi si potrebbe chiamare farmacisti, no?» «Già.» Macklin attese che Lawry abbassasse il fucile, poi a sua volta abbassò l'automatica. «Ecco fatto. Adesso siamo tutti contenti, no?» Gli occhi neri cercarono ingordamente Roland Croninger. Lawry li condusse a una piccola tenda piantata a una trentina di metri dalla roulotte. Era occupata da un giovane e da una ragazza che reggeva un neonato dalle gambe fasciate. Lawry puntò il fucile in faccia al giovane e disse: «Fuori». L'uomo, tirato e magrissimo, con gli occhi incavati dalla stanchezza, frugò sotto il sacco a pelo. Tirò fuori un coltello da caccia, ma Lawry avanzò rapidamente e imprigionò sotto lo stivale il polso sottile dell'uomo. Schiacciò con tutto il suo peso. Roland vide gli occhi di Lawry, mentre spezzava le ossa dell'altro: vuoti, del tutto privi d'espressione, anche quando si sentì il rumore di ossa rotte. Lawry si limitava a eseguire gli ordini. Il neonato si mise a piangere, la donna strillava, ma l'uomo si strinse al petto il polso rotto e fissò ottusamente Lawry. «Fuori.» Lawry accostò le canne del fucile al cranio dell'uomo. «Sei sordo, brutto bastardo?» L'uomo e la donna si alzarono stancamente. Lui si fermò a raccogliere con la mano sana i sacchi a pelo e uno zaino, ma Lawry lo afferrò per la collottola e lo tirò fuori, gettandolo a terra. La donna pianse e si rannicchiò a fianco del marito. Una piccola folla si era radunata a guardare. La donna gridò: «Animali! Luridi animali! È la nostra tenda! Appartiene a noi!» «Non più.» Con il fucile Lawry indicò la terra delle larve. «Cominciate a camminare.» «Non è giusto! Non è giusto!» singhiozzò la donna. Guardò con aria supplichevole la gente che si radunava intorno. Anche Roland, Macklin e Sheila guardarono, e sul viso di tutti videro la stessa espressione: curiosità spassionata e indifferente, come se guardassero una scena di violenza alla tivù. Anche se qua e la c'erano tracce di disgusto e di pietà, la maggioranza degli astanti aveva perso la capacità di provare emozioni. «Aiutateci!» implorò la donna. «Vi prego... aiutateci!» Parecchi erano armati, ma nessuno intervenne. Macklin lo capiva: era la selezione naturale. Lì Freddie Kempka era l'imperatore, e Lawry il suo luogotenente... forse uno dei vari luogotenenti che Kempka usava come occhi e orecchie.
«Andatevene» disse Lawry alla coppia. La donna continuò a strillare e a piangere, ma alla fine l'uomo si alzò, con occhi vuoti e sconfitti, e cominciò a camminare a passo lento e pesante verso la sinistra terra di carcasse d'auto e di cadaveri in putrefazione. L'espressione della donna si mutò in odio; si alzò, con il neonato frignante tra le braccia, e gridò alla folla: «Accadrà anche a voi! Vedrete! Vi prenderanno tutto! Verranno a trascinarvi dalle...» Lawry vibrò il fucile: il calcio fracassò il cranio del neonato e la forza del colpo sbatté a terra la donna. Il pianto del neonato cessò all'improvviso. La donna guardò la faccia del figlio, emise un suono debole e strozzato. Sheila Fontana non riusciva a credere ai suoi occhi. Voleva girarsi dall'altra parte, ma la scena aveva su di lei un fascino tenebroso. Lo stomaco le ribollì di repulsione. Il pianto del neonato continuò a echeggiarle nelle orecchie. Si portò la mano alla bocca e soffocò un grido. Il giovane, un cadavere ambulante, attraversava la piana, senza neppure curarsi di guardare indietro. Alla fine, con un ansito tremante, la donna si alzò, stringendo al petto il neonato silenzioso. I suoi occhi infossati e inorriditi incontrarono quelli di Sheila e vi si soffermarono. Sheila si sentì come se le avessero ridotto l'anima in cenere. Se... se solo il piccino avesse smesso di piangere, pensò. Se solo... La giovane madre si girò e seguì il marito nella foschia. Gli astanti si dispersero. Lawry pulì sul terreno il calcio del fucile e indicò la tenda. «Pare che un posto si sia appena liberato, colonnello» annunciò. «Dovevi proprio farlo?» disse Sheila. Dentro di sé tremava e aveva la nausea, ma in viso non mostrava nulla. Gli occhi erano freddi e duri. «Ogni tanto dimenticano chi detta le regole. Allora? Volete la tenda o no?» «La vogliamo» disse Macklin. «Entrate, allora. Ci sono anche un paio di sacchi a pelo e un po' di cibo. Comoda come casa vostra, eh?» Macklin e Roland entrarono. «E io dove dovrei abitare?» disse Sheila a Lawry. Lui sorrise, esaminandola dall'alto in basso. «Be', ho un sacco a pelo in più, nella roulotte. Sai, dormo con il signor Kempka, ma batto bandiera giusta. A lui piacciono i ragazzini, non se ne fa un cazzo delle donne. Che
ne dici?» Sheila sentì il suo odore e non riuscì a decidere qual era peggio, quello di Lawry o quello dell'eroe di guerra. «Lascia perdere» rispose. «Sto qui.» «Fai pure. Ti avrò, prima o poi.» «Sì, quando l'inferno ghiaccia.» Lawry si leccò il dito e l'alzò per sentire il vento. «Si sta facendo davvero freddo, tesoro» disse. Scoppiò a ridere e si allontanò verso la roulotte. Sheila lo guardò allontanarsi. Guardò in direzione della terra delle larve e scorse i contorni vaghi della giovane coppia che avanzava nella foschia, verso l'ignoto che si estendeva al di là. Quei due non avrebbero avuto la minima possibilità, laggiù. Ma forse già lo sapevano. Il bambino sarebbe morto comunque, si disse. Certo, era nato già mezzo morto. Ma l'incidente l'aveva sconvolta più di qualsiasi altra esperienza precedente. Non poteva fare a meno di pensare che qualche minuto prima c'era un essere vivente dove adesso c'era uno spettro. Ed era accaduto a causa delle sue droghe, perché lei era venuta lì con l'eroe di guerra e con il teppista che mirava in alto. La giovane coppia scomparve nella pioggia grigia. Come diceva Rudy, pensa a pararti il culo. E in quei giorni e in quei momenti, erano proprio le parole in base a cui vivere. Sheila voltò la schiena alla terra delle larve ed entrò nella tenda. 39 «Luce!» gridò Josh, indicando un punto lontano. «Guardate! C'è una luce, più avanti!» Avevano seguito una strada statale nella campagna ondulata. Ora videro un bagliore biancazzurro riflesso dalle nubi basse e turbolente. «Quella è Matheson» disse Leona, appollaiata in groppa a Mulo. «Dio onnipotente! A Matheson hanno l'elettricità!» «Quanta gente ci vive?» domandò Josh, a voce alta per superare il frastuono del vento. «Tredici, quattordicimila. È una città vera!» «Grazie a Dio! Avranno certo aggiustato le linee elettriche! Stasera avremo un pasto caldo. Grazie a Dio.» Con energia rinnovata cominciò a spingere la carriola, come se i piedi avessero messo le ali. Swan lo seguì, portando la bacchetta da rabdomante e la piccola borsa; Leona spronò con un colpo di talloni il cavallo. Mulo ubbidì senza esitazione, lieto d'essere di
nuovo utile. Dietro di loro, il piccolo terrier annusò l'aria e latrò piano, ma li seguì lo stesso. Nella coltre di nubi sopra Matheson balenarono lampi e il vento portò il brontolio del tuono. Quella mattina, sul presto, avevano lasciato la fattoria dei Jaspin e camminato per tutto il giorno lungo la stretta strada statale. Josh aveva cercato di mettere a Mulo sella e briglia, ma per quanto il cavallo se ne stesse docile, non era riuscito a mettere la maledetta roba nel modo giusto. La sella continuava a scivolare e lui non aveva la minima idea di come si mette una briglia. Ogni volta che Mulo brontolava, Josh faceva un salto indietro, aspettandosi che il cavallo sgroppasse e s'impennasse; alla fine, ci aveva rinunciato. Però il cavallo aveva accettato senza protestare il peso di Leona; aveva anche portato Swan, per qualche chilometro. Sembrava contento di seguire Swan, quasi come un cucciolo. E nel buio il terrier di tanto in tanto abbaiava, per far sapere che c'era sempre. Il cuore di Josh martellava. Quella era una delle luci più belle che avesse mai visto, assai vicina allo splendido raggio della torcia che aveva illuminato lo scantinato. Oh, Signore!, pensò. Un pasto caldo, un luogo caldo in cui dormire e — splendore degli splendori! — forse di nuovo una vera toilette! Sentì nell'aria odore d'ozono. Tempesta in arrivo. Ma non gliene fregava niente. Stanotte avrebbero dormito in grembo al lusso! Girò il viso verso Swan e Leona. «Signore Iddio, siamo tornati alla civiltà!» Mandò un grido di gioia che superò il frastuono del vento e fece sobbalzare perfino Mulo. Ma sul viso di Leona il sorriso si gelò. A poco a poco cominciò a svanire. La donna strinse le dita sulla criniera ispida di Mulo. Non era sicura di quel che aveva visto, non era sicura affatto. Era stato certo uno scherzo della luce, si disse. Sì. Tutto qui. Aveva creduto di scorgere un teschio, dove c'era la faccia di Josh Hutchins. Ma era stata una visione così rapida... comparsa e svanita in un batter di ciglia. Leona fissò la nuca di Swan. Oh, Dio, pensò, cosa farò se anche la faccia della bambina è così? Le occorse un bel pezzo per raccogliere il coraggio. Allora disse: «Swan?», con voce flebile, spaventata. Swan girò la testa a guardarla. «Signora?» Leona tratteneva il fiato. «Signora?» ripeté Swan.
Leona trovò un sorriso. «Oh... niente» disse; e scrollò le spalle. La visione del teschio sotto la pelle non si era presentata. «Volevo... volevo solo guardarti il viso.» «Il viso? E perché?» «Ah, pensavo solo... che una volta eri certo molto bella.» Si rese conto dell'errore. «Voglio dire, pensavo che sarai di nuovo bella, appena la pelle guarisce. E guarirà di certo. La pelle è assai resistente, sai. Eccome! Guarirà e tornerà bella come un dipinto!» Swan non rispose: ricordava l'orrore che l'aveva fissata dallo specchio della stanza da bagno. «Non credo che il viso tornerà come prima» disse, realisticamente. Fu colpita da un pensiero improvviso e terribile. «Pensa forse che...» Esitò, incapace di sputarlo fuori. E poi: «Pensa forse che... che spaventerò la gente di Matheson?» «Ma no, ma no! Non devi nemmeno pensare una cosa simile!» A dire il vero, Leona non ci aveva mai riflettuto, ma ora s'immaginò gli abitanti di Matheson ritrarsi inorriditi da Josh e da Swan. «La pelle guarirà presto» la rassicurò. «E poi, è solo la faccia esteriore.» «La faccia esteriore?» «Certo. Ognuno ha due facce, bambina... una esteriore, una interiore. Quella esteriore è come il mondo ti vede; ma la faccia interiore è quel che sei veramente. La tua vera faccia. Se fosse spostata all'esterno, mostreresti al mondo quale persona gentile sei.» «Spostata all'esterno? Come?» Leona sorrise. «Be', Dio non ha ancora pensato al modo. Ma lo farà. A volte riesci a vedere l'altra faccia di una persona, ma solo per un istante o due, se guardi attentamente. Gli occhi la rivelano; ed è molto facile che sia diversa dalla maschera esterna.» Annuì, guardando le luci lontane di Matheson. «Oh, io ho conosciuto alcune persone molto belle, che all'interno avevano una faccia brutta e mostruosa. E ho conosciuto persone bruttine, con i denti da coniglio e il naso grosso, e la luce del paradiso negli occhi; e capivi che, se potevi vedere la faccia interiore, la sua bellezza ti avrebbe sbattuto in ginocchio. A me sembra proprio che sia così per la tua faccia interna, bambina. E Josh pure. Perciò, che cosa importa della faccia esterna?» Swan rifletté un momento. «Vorrei crederci.» «Allora prendilo per vero» disse Leona; e Swan rimase in silenzio. La luce li invitava ad avanzare. La statale s'arrampicava su per una collina ancora, poi con un'ampia curva scendeva gentilmente verso la città.
Un lampo attraversò l'orizzonte. Mulo sbuffò e nitrì. Swan sentì una traccia di nervosismo, nel nitrito del cavallo. Mulo è eccitato perché stiamo per incontrare altra gente, pensò. Ma no, no... non era stato un segno d'eccitazione: anzi, mostrava diffidenza. Anche lei si lasciò contagiare dal nervosismo del cavallo, si sentì un po' diffidente, come la volta in cui aveva attraversato un ampio campo dorato e un contadino con il berretto rosso le aveva gridato: «Ehi, bambina! Attenta ai serpenti a sonagli fra le erbacce!» Non che lei avesse paura dei serpenti... tutt'altro. Una volta, quando aveva cinque anni, aveva raccolto in mezzo all'erba un serpente dai magnifici colori, per passare le dita sui bellisimi rombi disegnati sul dorso e sulle placche della coda, dure come osso. Poi l'aveva posato di nuovo a terra e l'aveva guardato strisciare via senza fretta. Solo in seguito, quando aveva raccontato tutto alla mamma e si era presa una bella sculacciata, aveva capito: ci si aspettava che avesse paura dei serpenti. Mulo nitrì e agitò la testa. La strada divenne pianeggiante, mentre si avvicinavano alla periferia, dove un cartello verde proclamava: Benvenuti a Matheson, Kansas! Siamo forti, orgogliosi e in espansione! Josh si fermò. Swan quasi gli finì addosso. «Cosa c'è?» disse Leona. «Guardi.» Josh indicò la cittadina. Le case e gli edifici erano bui; non proveniva luce, da finestre e verande. Non c'erano lampioni, né fari d'automobili, né semafori. Il bagliore riflesso dalle nubi proveniva da una zona più interna della cittadina, al di là degli edifici morti e bui disseminati lungo la strada principale. L'unico rumore era il gemito acuto del vento. «Credo che la luce provenga dal centro città» disse Josh. «Ma se c'è di nuovo la corrente, perché le finestre sono buie?» «Forse si sono radunati tutti nella zona centrale» suggerì Leona. «In un teatro, o nel municipio, o che so.» Josh annuì. «Ma dovrebbero esserci macchine» replicò. «Semafori in funzione. E invece non ne vedo.» «Forse risparmiano elettricità. Forse i cavi ancora non sopportano il carico.» «Forse» rispose Josh; ma c'era qualcosa di sinistro, in Matheson: perché non c'erano luci alle finestre, mentre il centro della cittadina sfolgorava? E tutto era silenzioso, troppo silenzioso. Josh ebbe la sensazione che avrebbero dovuto fare marcia indietro; ma il vento era freddo, e loro avevano fatto tutta quella strada: doveva esserci gente, lì! Certo. Sono tutti in un
posto solo, come aveva suggerito Leona. Forse tengono una riunione cittadina o qualcosa del genere. Comunque, non era il caso di tornare indietro. Riprese a spingere la carriola. Swan lo seguì, e il cavallo seguì Swan; spostato sulla sinistra, il terrier si mantenne fra le erbacce e corse avanti. Un altro cartello stradale pubblicizzava il Motel Matheson — Piscina! TV a circuito chiuso! — e un terzo dichiarava che le migliori bistecche e il miglior caffè della città si trovavano al ristorante Hightower in Caviner Street. Seguirono la strada, fra campi arati; oltrepassarono uno scuro campo da softball e una piscina pubblica con sedie a sdraio e ombrelloni addossati alla recinzione di rete metallica. Un ultimo cartello annunciò la vendita speciale di luglio al K-Mart in Billups Street. Poi entrarono in Matheson. Era stata una cittadina graziosa, pensò Josh, mentre percorrevano la via principale. Gli edifici erano di pietra o di tronchi, per farla sembrare una cittadina di frontiera. Le case d'abitazione erano di mattoni, in gran parte a un solo piano: niente d'eccezionale, ma graziose. La statua d'un tizio in ginocchio, una mano a coprire quella che forse era una Bibbia e l'altra tesa al cielo, dominava dal piedistallo una zona di piccoli negozi e di botteghe che ricordò a Josh uno spettacolo con Andy Griffith. La tenda sbatteva sopra una bottega con l'insegna da barbiere; le vetrine della Matheson First Citizen's Bank erano fracassate. I mobili di un negozio di mobilia erano stati ammucchiati in strada e incendiati. Nelle vicinanze c'era un'auto della polizia, rovesciata e incendiata. Josh non guardò dentro. In alto il tuono brontolò e il lampo danzò nel cielo. Più avanti trovarono un mercato di auto usate. Cambiate l'auto da Zio Roy!, diceva l'insegna. Sotto una fila di bandierine multicolori, c'erano sei auto arrugginite. Josh le controllò una per una, mentre Swan e Leona aspettavano e Mulo brontolava inquieto. Due avevano le gomme a terra; la terza, parabrezza e finestrini in frantumi. Le rimanenti — una Impala, una Ford Fairlane e un camioncino rosso — sembravano in buone condizioni. Josh si diresse al piccolo ufficio, trovò spalancata la porta; alla luce della lanterna, vide che le chiavi dei tre veicoli erano appese ai pioli di una tavoletta. Portò tutte le chiavi nello spiazzo e cominciò a provarle. L'Impala rimase muta, il camioncino era morto, il motere della Fairlane scoppiettò e sputacchiò, emise il rumore di una catena strisciata sulla ghiaia e si zittì. Josh aprì il cofano della Fairlane e scoprì che il motore era stato preso forse a colpi d'ascia, visto com'erano tagliati i fili, le cinghie e i cavi. «Maledizione!» imprecò. E poi alla luce della lanterna vide la scritta
tracciata col grasso secco all'interno del cofano: TUTTI LODERANNO DIO ALVIN. Aveva già visto sgorbi simili, per quanto tracciati da mano diversa e con materiale diverso, alla fattoria dei Jaspin, la sera prima. Tornò da Swan e da Leona. «Le macchine sono fuori uso» disse. «Mi sa che qualcuno le ha danneggiate di proposito.» Guardò in direzione della luce, ora molto più vicina. «Be'» aggiunse poi. «Possiamo andare a vedere cos'è, no?» Leona gli diede un'occhiata, distolse subito lo sguardo; non ne era sicura, ma le era parso di scorgere di nuovo il teschio; però, in quella luce, non poteva dirlo con certezza. Il cuore le batteva più forte. Non sapeva che cosa fare, che cosa dire. Josh spinse avanti la carriola. In lontananza, udirono il terrier abbaiare un paio di volte. Continuarono lungo la via principale, passarono davanti ad altri negozi con le vetrine rotte, ad altri veicoli rovesciati e bruciati. Per quanto ciascuno avesse le sue preoccupazioni personali, erano attirati dalla luce come falene dalla fiamma di candela. A un incrocio, un piccolo cartello puntava a destra e diceva: Pathway Institute, 3 km. Josh guardò in quella direzione, ma vide solo tenebre. «Il manicomio» spiegò Leona. «Manicomio?» La parola gli parve una pugnalata. «Che manicomio?» «La gabbia dei matti. Dove si rinchiude chi perde le rotelle. Questo è famoso in tutto lo stato. Pieno di gente troppo pazza per andare in carcere.» «Vuol dire... pazzi criminali?» «Sì, appunto.» «Grande!» disse Josh. Prima uscivano da quella cittadina, meglio era. Non gli piaceva la vicinanza di un manicomio pieno d'assassini folli, nemmeno a tre chilometri. Scrutò nel buio dove c'era il Pathway Institute e sentì un brivido lungo la spina dorsale. Poi attraversarono un'altra zona di case silenziose, passarono davanti al Matheson Motel e al ristorante Hightower, ed entrarono in un enorme parcheggio lastricato. Davanti a loro, illuminato fino all'ultima lampadina, c'era un K-Mart e, lì accanto, un supermercato alimentare Food Giant, anch'esso sfolgorante di luci. «Dio onnipotente!» mormorò Josh. «Un supermercato!» Swan e Leona si limitarono a fissarlo, come se non avessero mai visto tante luci, né un negozio così grande. Lampade ad accensione automatica,
sensibili al buio, gettavano un bagliore giallastro sul parcheggio, che conteneva una sessantina di veicoli, auto, camper e camioncini, tutti coperti dalla polvere del Kansas. Josh, completamente stordito, rischiò di farsi sbattere a terra dal vento. Se c'era ancora corrente elettrica, allora anche i frigoriferi del supermercato funzionavano: là dentro avrebbero trovato bistecche, gelati, birra fredda, uova, pancetta, prosciutto e Dio sa che altro. Con un senso di vertigine, fissò il K-Mart splendidamente illuminato. Quali tesori conteneva? Radio e batterie, torce elettriche e lanterne, armi da fuoco, guanti, stufette a cherosene, impermeabili! Non sapeva se ridere o piangere di gioia; spinse da parte la carriola e si diresse al K-Mart, come allucinato. «Aspetta!» lo chiamò Leona. Smontò da cavallo e zoppicò dietro Josh. «Fermati un momento!» Swan posò a terra la borsa, ma tenne Crybaby e seguì Leona. Anche Mulo venne avanti. Il terrier abbaiò un paio di volte, poi scivolò sotto una Volkswagen abbandonata e rimase a guardare da lì i tre esseri umani che attraversavano il parcheggio. «Aspetta!» gridò ancora Leona, ma non riusciva a raggiungere Josh, che puntava come un treno sul K-Mart. Swan disse: «Josh, aspettaci!» e gli corse dietro. Alcune vetrine erano rotte, ma Josh pensò che fosse stato il vento. Non aveva la minima idea del perché le luci fossero accese lì e non altrove. Il K-Mart e l'annesso supermercato erano oasi in un deserto. Si sentiva scoppiare il cuore. Tavolette di cioccolato, pensò follemente. Dolci! Pasticcini glassati! Ebbe paura che le gambe gli cedessero prima d'arrivare al KMart, oppure che l'intera scena svanisse mentre varcava la porta. Ma la scena non svanì, e lui entrò, e si ritrovò nel vasto negozio, con i tesori del mondo esposti negli scaffali davanti a lui, con le frasi magiche, Pasticceria, Attrezzature sportive, Accessori per auto, Articoli casalinghi, scritte su frecce di legno che indicavano i vari settori del negozio. «Mio Dio» disse Josh, quasi ebbro di gioia. «Oh, mio Dio!» Entrò Swan, poi Leona. Mentre la porta si richiudeva, una sagoma confusa schizzò all'interno: il terrier saettò davanti a Josh e svanì nel corridoio centrale. Poi la porta si chiuse e loro rimasero fermi insieme sotto il bagliore luminoso, mentre all'esterno Mulo nitriva e raspava l'asfalto. Josh passò davanti a un espositore di griglie e di sacchi di carbonella per accostarsi al banco di dolciumi, incapace di resistere al desiderio di cioccolato. Succhiò tre Milky Way direttamente dall'incarto e attaccò un sacchet-
to da due etti di M&M. Leena si accostò al banco pieno di pesanti calzettoni da atletica. Swan girò fra i banchi, abbagliata dalla quantità di merce e dallo splendore delle luci. Con la bocca piena di cioccolato fondente, Josh si girò verso un espositore di sigarette, sigari e tabacco da pipa; scelse un pacchetto di Hav-A-Tampa Jewels, trovò lì vicino i fiammiferi, si cacciò in bocca un sigaro e lo accese, aspirando a fondo. Gli pareva d'avere messo piede in paradiso... e ancora non aveva provato tutti i piaceri del supermercato. In un angolo lontano, il terrier abbaiò parecchie volte in rapida successione. Swan guardò nel corridoio centrale, ma non vide il cane. Però queir abbaiare non le piaceva: conteneva un avvertimento. E quando il terrier ricominciò, lei lo udì anche guaire, come se l'avessero preso a calci. Seguì una serie di latrati. «Josh?» disse Swan. Un bozzolo di fumo di sigaro gli nascondeva la testa. Josh esalò il fumo e divorò altre tavolette di cioccolato. Aveva la bocca tanto piena da non riuscire a rispondere; si limitò a rivolgere a Swan un cenno. La bambina avanzò lentamente verso il fondo del negozio, mentre il terrier continuava ad abbaiare. Arrivò davanti a tre manichini, tutti con indosso un completo. Quello centrale portava un berretto da baseball. Swan pensò che non s'intonava affatto al completo, ma forse sarebbe andato bene a lei. Allungò la mano e lo prese. La testa dall'incarnato cereo si staccò dalle spalle del manichino, proprio all'altezza del colletto rigido della camicia bianca, e cadde per terra ai piedi di Swan, con il rumore d'una martellata su un'anguria. Swan rimase a fissare la testa, con occhi sbarrati, il berretto da baseball in una mano e Crybaby nell'altra. La testa aveva radi capelli grigi, occhi rivoltati in alto nelle orbite scure, sulle guance e sul mento peli corti e ispidi di barba grigia. Swan vedeva ora anche il sangue coagulato e il giallo delle ossa, dove era stata mozzata dal collo umano. Batté le palpebre, guardò gli altri due manichini. Uno aveva la testa d'un ragazzo adolescente, con la bocca allascata e la lingua penzolante, i globi oculari rivolti al soffitto, una crosta di sangue alle narici. L'altro, quella d'un uomo anziano, con il viso profondamente segnato dalle rughe e la pelle color del gesso. Swan arretrò nel corridoio... e andò a sbattere contro un quarto e un quinto manichino, in abiti femminili. La testa di una donna di mezz'età e quella di una bambina dai capelli rossi si staccarono e caddero con un ton-
fo sordo ai suoi piedi, una per parte; la faccia della bambina, con l'orrenda bocca esangue spalancata in un muto grido di terrore, era rivolta verso di lei. Swan urlò. Urlò a lungo, forte, senza riuscire a smettere. Si allontanò dalle teste umane, continuando a urlare, girò su se stessa, vide un altro manichino, e un altro, e un altro, alcune teste ammaccate e maciullate, altre dipinte e abbellite con cosmetici per dare loro sorrisi falsi e osceni. Se non smetteva di urlare, pensò Swan, le sarebbero scoppiati i polmoni. E mentre correva alla ricerca di Josh e di Leona, l'urlo le morì in gola perché non aveva più fiato. Swan inspirò di nuovo, corse lontano dalle macabre teste; al di sopra delle grida di Josh, udì il terrier emettere una serie di guaiti in fondo al K-Mart. «Swan!» gridò Josh, sputando cioccolato. La vide correre verso di lui, con il viso giallastro come la polvere del Kansas e fiumi di lacrime sulle guance. «Cosa...» «Offerta speciale!» proclamò una voce allegra proveniente dal sistema di altoparlanti. «Attenzione, clienti! Offerta speciale! Tre nuovi arrivi, sul davanti! Affrettarsi per gli affari migliori!» Si udì il rombo di motocicletta messa in moto. Josh afferrò Swan, quando nel corridoio centrale una moto si lanciò contro di loro a tutta velocità, guidata da un uomo in divisa da poliziotto con l'acconciatura da capo indiano. «Attento!» gridò Leona; e Josh balzò al di là di un banco pieno di vassoi per cubetti di ghiaccio, stringendo Swan fra le braccia, mentre la moto andava a urtare un espositore di radio a transistor. Altre figure correvano verso di loro, negli altri corridoi, e un folle vocio di grida e di urla sommergeva l'annuncio "Offerta speciale" ripetuto dagli altoparlanti. Un colosso barbuto spingeva davanti a sé un carrello nel quale era accucciato un nano grinzoso; lo seguivano uomini d'ogni età e d'ogni tipo, con indosso ogni genere d'indumenti, dall'abito completo all'accappatoio, alcuni con pitture di guerra sul viso, altri tutti incipriati. Josh notò, con una fitta di nausea, che quasi tutti impugnavano un'arma: asce, picconi, zappe, cesoie da giardinaggio, pistole e fucili, coltelli e catene. Riempivano i corridoi e saltavano sui banchi, sghignazzavano e strepitavano. Josh, Swan e Leona furono spinti in un angolo e circondati da una folla urlante di quaranta e più persone. Proteggi la bambina, pensò Josh; e quando uno allungò le mani per afferrarla, Josh gli menò un calcio nelle costole che gli spezzò le ossa e lo
scagliò nel mucchio. L'accaduto provocò altre grida d'allegria. Il nano grinzoso dentro il carrello, con la faccia decorata da fulmini arancione, gracchiò: «Carne fresca! Carne fresca!» Gli altri si unirono al grido. Un uomo emaciato tirò i capelli a Leona, un altro le afferrò il braccio per trascinarla nel mucchio. Leona divenne una gatta selvatica, respinse a calci e a morsi gli assalitori. Un corpo pesante atterrò sulle spalle di Josh, cercò di strappargli gli occhi; ma lui si piegò e scagliò l'uomo nel mare di facce bramose. Con Crybaby, Swan colpì di punta una di quelle brutte facce sul naso e lo vide squarciarsi. «Carne fresca!» gridò il nano. «Venite a prendere la carne fresca!» Il colosso barbuto cominciò a battere le mani e a ballare. Josh colpì un avversario in piena bocca e due denti volarono come dadi d'un gioco truccato. «Via!» gridò. «Andate via!» Ma ora quelli stringevano il cerchio; ed erano troppi. Tre uomini tiravano Leona nella massa; Josh vide per un attimo il viso terrorizzato della donna; un pugno si alzò e calò, le gambe di Leona si piegarono. Maledizione, s'infuriò Josh, vibrando un calcio alla rotula al pazzo più vicino. Proteggi la bambina! Devo proteggere la... Ricevette un pugno alle reni. I calci gli piegarono le gambe. Mentre cadeva, Swan gli sfuggì di mano. Dita gli si conficcarono negli occhi, un pugno lo colse alla mascella, scarpe e stivali lo colpirono ai fianchi e alla schiena; tutto il mondo gli parve in violento movimento. «Swan!» gridò, cercando di rialzarsi. Gli uomini gli si aggrapparono addosso come topi. Fra la nebbia rossastra di dolore, Josh vide un uomo con occhi sporgenti da pesce, in piedi davanti a lui, sollevare una scure. Alzò il braccio in un inutile gesto per parare il colpo, ma capì che la scure stava per calare e che sarebbe stata la fine. Oh, maledizione, pensò, mentre il sangue gli colava dalla bocca. Che modo di morire! Raccolse il coraggio, preparandosi al colpo, augurandosi di alzarsi e di riuscire con le ultime forze a spiaccicare il cervello di quel bastardo. La scure, alta al massimo, rimase sospesa, pronta a calare. Una voce tonante superò il tumulto. «Basta così!» L'effetto fu simile a un colpo di frusta sulla testa di un branco d'animali selvatici. Come un sol uomo, tutti trasalirono e arretrarono. Occhi di Pesce abbassò la scure, gli altri lasciarono Josh. Lui si alzò a sedere, vide Swan a qualche passo e la tirò a sé. La bambina, con gli occhi stravolti per lo choc, stringeva ancora Crybaby. Lì accanto, Leona, piegata sulle ginocchia, perdeva sangue da un taglio sopra l'occhio sinistro; un livido violaceo già le
gonfiava lo zigomo. La folla indietreggiò, aprì un varco nel quale avanzò un uomo robusto, calvo, con tuta e stivali da cowboy, petto nudo, braccia muscolose decorate da bizzarri disegni multicolori. Reggeva un megafono elettrico. Puntò su Josh gli occhi neri, sotto una fronte sporgente da uomo di Neanderthal. Oh, merda, pensò Josh. Il tizio era grande e grosso almeno quanto alcuni wrestler da lui affrontati in categoria pesi massimi. Ma dietro il Neanderthal calvo, venivano altri due con il viso dipinto, che portavano a spalla una toilette. E sulla toilette sedeva un uomo avvolto in una lunga veste viola; i capelli biondi e ricci gli arrivavano alla spalla. Una barba lanuginosa ricopriva il viso magro e stretto; sotto le folte sopracciglia bionde, gli occhi erano d'un cupo color verde oliva. Il colore ricordò a Josh lo specchio d'acqua vicino alla casa della sua infanzia, dove un mattino d'estate erano annegati due bambini. Si diceva, ricordò, che sotto la torbida acqua verdastra ci fossero in attesa mostri attorcigliati in spire. L'uomo, fra i venti e i venticinque, portava guanti bianchi, jeans, scarpe da ginnastica Adidas, camicia a quadri di flanella rossa. Sulla fronte, in verde, aveva il segno del dollaro; sullo zigomo sinistro, un crocifisso rosso; sul destro, il forcone nero del diavolo. Neanderthal si portò alle labbra il megafono e ruggì: «Tutti loderanno Dio Alvin!» 40 Macklin aveva udito il canto di sirena alzarsi nella notte: adesso capì che era l'ora. Sgusciò dal sacco a pelo, attento a non svegliare Roland né Sheila: non voleva che uno dei due lo accompagnasse. Aveva paura del dolore, ma non voleva mostrare loro la sua debolezza. Uscì dalla tenda, nel vento freddo e impetuoso. S'incamminò verso il lago. Intorno a lui guizzavano le fiamme di torce e di fuochi di bivacco; il vento gli tirava le bende verdastre e nerastre che cadevano dal moncherino. Macklin sentiva il lezzo nauseante dell'infezione: da giorni la ferita trasudava una purulenza grigia. Posò il palmo sinistro sul manico del coltello infilato nella cintura dei calzoni. Avrebbe dovuto riaprire la ferita, esporre la carne viva al doloroso medicamento del Grande Lago Salato. Roland Croninger si alzò a sedere appena Macklin fu uscito dalla tenda.
Stringeva la .45. Dormiva sempre con la pistola in pugno, la teneva anche quando Sheila Fontana gli permetteva di fare con lei le porcherie. Ma gli piaceva anche guardare quando Sheila riceveva il Re. Loro, in cambio, davano a Sheila da mangiare e la proteggevano dagli altri uomini. Cominciavano a diventare un terzetto molto unito. Ma ora lui sapeva dove il Re era diretto, e perché. La ferita emanava un odore assai brutto, ultimamente. Presto nella notte ci sarebbe stato un altro urlo, simile a quelli che udivano quando sul campo scendeva il silenzio. Lui era un Cavaliere del Re, riteneva suo dovere essergli al fianco per aiutarlo, ma quella era una cosa che il Re voleva fare da solo. Roland tornò a distendersi, la pistola posata sul petto. Sheila borbottò qualcosa e trasalì nel sonno. Roland tese l'orecchio per udire il grido di rinascita del Re. Macklin oltrepassò altre tende, ricoveri di cartone, auto che ospitavano intere famiglie. L'odore del lago salato gli pungeva le narici, gli prometteva una sofferenza e una purificazione che trascendevano ogni sua precedente esperienza. Il terreno iniziò a scendere lievemente verso il bordo dell'acqua; intorno c'erano abiti insanguinati, stracci, stampelle, bende strappate e abbandonate da altri supplici che l'avevano preceduto. Macklin ricordò le grida udite nella notte e si sentì mancare il coraggio. Si fermò a meno di sei metri dal punto in cui il lago si frangeva contro la riva rocciosa. La mano fantasma gli prudeva e il moncherino pulsava dolorosamente al ritmo del battito del cuore. Non ce la faccio, pensò. Oh, buon Dio, non posso! «Disciplina e autocontrollo, soldato» disse una voce, più lontano, alla sua destra. Il Soldato Ombra era lì, bianco, mani ossute sui fianchi, la faccia di luna striata di colori mimetici da commando, sotto il bordo dell'elmetto. «Se li perdi, cosa ti resta?» Macklin non rispose. Il rumore dell'acqua che lambiva la spiaggia era seducente e terrificante insieme. «Il coraggio t'ha detto addio, Jimmy?» disse il Soldato Ombra; e Macklin pensò che la voce era simile a quella di suo padre. Conteneva la stessa nota di scherno e di ripugnanza. «Be', non ne sono sorpreso» continuò il Soldato Ombra. «A Casa Terra hai piantato un casino colossale, giusto? Oh, davvero un gran bel lavoro!» «No!» protestò Macklin. «Non è stata colpa mia!» Il Soldato Ombra rise piano. «Tu sapevi, Jimmy! Sapevi che qualcosa
non andava, a Casa Terra; ma hai continuato ad ammassare lì dentro i gonzi, perché fiutavi i verdoni degli Ausley, non è vero? Amico, tu hai ucciso quei poveri idioti! Li hai seppelliti sotto tonnellate di roccia e ti sei salvato il culo, non è vero?» Ora Macklin pensò che fosse davvero la voce di suo padre e che pure la faccia del Soldato Ombra cominciava a sembrare il viso pieno, dal naso a becco, del padre morto da tempo. «Dovevo salvarmi» replicò, con voce debole. «Cosa avrei dovuto fare, distendermi ad aspettare la morte?» «Merda, il ragazzino ha più buon senso e più coraggio di te, Jimmy! È stato lui a tirarti fuori! Ti ha tenuto in azione, ti ha trovato cibo per mantenerti il culo in vita! Se non era per il ragazzino, a quest'ora non saresti in piedi a tremare per paura di un po' di dolore. Il ragazzino sa cosa significano disciplina e autocontrollo, Jimmy! Tu sei solo un invalido vecchio e stanco che dovrebbe entrare nel lago, cacciare la testa sotto e tirare una rapida boccata, come hanno fatto loro.» Il Soldato Ombra indicò con un cenno i corpi gonfi dei suicidi che galleggiavano sull'acqua salmastra. «Una volta credevi che essere il boss di Casa Terra significava avere toccato il fondo. Ma no, è questo, il fondo, Jimmy. Proprio qui. Non vali una merda e hai perso il coraggio.» «No, non l'ho perso!» disse Macklin. «Non... l'ho perso!» La mano indicò il Grande Lago Salato. «Dimostralo!» Roland percepì una presenza all'esterno della tenda. Si alzò a sedere, tolse la sicura all'automatica. A volte gli uomini ronzavano lì attorno, la notte, a causa di Sheila, e bisognava spaventarli. Un raggio di luce lo centrò in viso e Roland puntò la pistola alla sagoma che reggeva la torcia. «Calma» disse l'uomo. «Non voglio guai.» Sheila mandò un grido e si rizzò a sedere, con occhi sbarrati. Si ritrasse lontano dall'uomo con la torcia. Aveva avuto di nuovo l'incubo: Rudy s'infilava nella tenda, il viso esangue, la gola squarciata come un'orrida bocca; dalle labbra livide emetteva un gracidio che diceva: «Hai ucciso qualche bimbo ultimamente, Sheila cara?» «Li avrai, se non te ne torni via.» Dietro gli occhialoni, gli occhi di Roland avevano uno sguardo feroce. La pistola era ferma, il dito sfiorava il grilletto. «Sono io, Judd Lawry.» L'uomo s'illuminò il viso. «Vedi?» «Cosa vuoi?»
Lawry puntò la torcia sul sacco a pelo di Macklin, vuoto. «Dov'è andato, il colonnello?» «Fuori. Cosa vuoi?» «Il signor Kempka vuole parlarti.» «Di cosa? Ho consegnato la razione, ieri notte.» «Vuole discutere» disse Lawry. «Dice che ha un affare da proporti.» «Un affare? Che genere d'affare?» «Un'operazione commerciale. Non conosco i particolari. Devi parlarne con lui.» «Io non devo fare un bel niente» replicò Roland. «Di qualsiasi cosa si tratti, può aspettare che sia giorno.» «Il signor Kempka» disse Lawry, in tono fermo «vuole farlo ora! Non importa che ci sia Macklin. Il signor Kempka vuole trattare con te. Pensa che tu abbia una buona testa sulle spalle. Allora, vieni o no?» «No.» Lawry si strinse nelle spalle. «D'accordo. Allora gli dico che non sei interessato.» Iniziò ad arretrare, si fermò. «Oh, a proposito: m'ha detto di darti questo.» Lasciò cadere a terra, davanti a Roland, una scatola piena di tavolette di cioccolato Hershey. «Nella roulotte ha un mucchio di roba come questa.» «Gesù!» La mano di Sheila saettò verso la scatola e arraffò alcune tavolette. «È un mucchio di tempo che non ne mangio!» «Gli riferirò le tue parole» disse Lawry a Roland. Riprese a strisciare fuori della tenda. «Aspetta un momento» lo fermò Roland, brusco. «Di che genere d'affare vuol parlare?» «Come t'ho detto, dovrai parlare con lui, per scoprirlo.» Roland esitò, ma si disse che, qualsiasi cosa fosse, non poteva essere pericolosa. «Non vado da nessuna parte senza la pistola» dichiarò. «Certo, non ha importanza.» Roland uscì dal sacco a pelo e si alzò. Sheila, che aveva quasi terminato una tavoletta di cioccolato, disse: «Ehi, un momento! E io?» «Il signor Kempka vuole solo il ragazzo.» «Vaffanculo! Qui da sola non ci resto!» Lawry si tolse di spalla il fucile e glielo porse. «Tieni. E stai attenta a non farti saltare le cervella per sbaglio.» Sheila prese il fucile da caccia, rendendosi conto troppo tardi che era lo stesso da lui usato per uccidere il bambino. Tuttavia non osava restare lì da
sola senza un'arma. Rivolse l'attenzione al cioccolato, mentre Roland seguiva Judd Lawry alla roulotte, dove la luce gialla filtrava dalle assicelle delle veneziane abbassate. In riva al lago, Macklin si tolse il cappotto nero e la sudicia T-shirt macchiata di sangue. Poi cominciò a disfare la fasciatura del moncherino, mentre il Soldato Ombra guardava in silenzio. Una volta terminato, lasciò cadere le bende. La ferita non era uno spettacolo piacevole; il Soldato Ombra, nel vederla, emise un fischio. «Disciplina e autocontrollo, soldato» disse il Soldato Ombra. «È questo che ti rende uomo.» Erano le parole esatte del padre di Macklin. Fin da piccolo gli erano state martellate nella testa. Il colonnello, crescendo, ne aveva fatto il motto di vita. Ora, però, per entrare nell'acqua salata e a fare il necessario, era costretto a raccogliere fino all'ultimo grammo di disciplina e di autocontrollo che possedeva. Con voce cantilenante il Soldato Ombra disse: «Uno, due! Uno, due! In azione, soldato!» Oh, Gesù, ansimò Macklin. Rimase fermo, con gli occhi serrati, per qualche istante. Tremava in tutto il corpo, per il vento gelido e per la paura. Poi tolse dalla cintola il coltello e scese verso l'acqua gorgogliante. «Siedi, Roland» disse il Grassone, quando Lawry introdusse Roland nella roulotte. Una sedia era pronta davanti al tavolo a cui Kempka sedeva. «E tu chiudi la porta.» Mentre Lawry ubbidiva, Roland si accomodò. Tenne la mano sulla pistola, e la pistola in grembo. Kempka piegò la faccia in un sorriso. «Gradisci da bere? Pepsi? CocaCola? Seven-Up? Qualcosa di più forte?» Rise, con quella voce stridula e acuta; i numerosi menti tremolarono. «Hai l'età legale, vero?» «Prendo una Pepsi.» «Ah. Bene. Judd, ci porti due Pepsi?» Lawry si alzò e andò in un altro locale; Roland pensò che fosse il cucinino. «Perché voleva vedermi?» domandò. «Un affare commerciale. Una proposta.» Kempka si appoggiò alla spalliera; la sedia scricchiolò e scoppiettò come una castagnola esaurita. Il Grassone indossava una camicia sportiva con il colletto aperto che mostra-
va gli ispidi peli scuri sul torace carnoso; il ventre traboccava dai calzoni di poliestere verde tiglio. Kempka si era pettinato e impomatato i capelli da poco; l'interno della roulotte odorava di colonia dolciastra e scadente. «Ho avuto l'impressione, Roland, che tu sia un ragazzo molto intelligente. Un giovanotto, dovrei dire.» Sogghignò. «Ho capito subito che hai cervello. E fuoco, anche. Oh, sì! Mi piacciono i giovanotti tutto fuoco.» Lanciò un'occhiata alla pistola che Roland teneva in mano. «Puoi metterla via, sai. Voglio essere tuo amico.» «Fa piacere.» Roland tenne la pistola puntata nella direzione di Freddie Kempka. Sulla parete alle spalle del Grassone, i fucili e le pistole riflettevano la malefica luce giallastra. «Be'» disse Kempka con una scrollata di spalle «possiamo discutere ugualmente. Parlami di te. Di dove sei? Cos'è accaduto ai tuoi genitori?» I miei genitori, pensò Roland. Che fine hanno fatto? Ricordava che erano andati a Casa Terra tutti insieme, ricordava il terremoto nella cafeteria, ma il resto era confuso e slegato. Non rammentava esattamente neppure che faccia avevano sua madre e suo padre. Erano morti nella cafeteria, pensò. Sì. Tutt'e due erano rimasti sepolti sotto le rocce. Lui adesso era un Cavaliere del Re, non c'era modo di tornare indietro. «La cosa non ha importanza» si decise a dire. «È di questo che voleva parlarmi?» «No. Volevo... ah, ecco i rinfreschi!» Entrò Lawry, portando le Pepsi in due bicchieri di plastica; ne posò uno davanti a Kempka e porse l'altro a Roland. Fece per mettersi alle spalle del ragazzo, ma Roland disse bruscamente: «Resta davanti a me, finché sto qui dentro» e Lawry si bloccò. Sorrise, alzò le mani in gesto di pace e andò a sedersi sopra una pila di scatole contro la parete. «Come ho detto, mi piacciono i giovanotti tutto fuoco» riprese Kempka, sorseggiando la bibita. Era da parecchio tempo che Roland non assaggiava una Pepsi: ne trangugiò d'un fiato quasi mezzo bicchiere. La Pepsi si era svaporata parecchio, ma era pur sempre la cosa più buona che avesse assaggiato. «Di che si tratta, allora?» domandò Roland. «Delle droghe?» «No, le droghe non c'entrano.» Sorrise di nuovo, un sorriso che durò un istante. «Voglio parlare del colonnello Macklin.» Si sporse sul tavolo e la sedia protestò. Il Grassone appoggiò le braccia sul piano, intrecciò le dita. «Voglio sapere... cosa ti offre Macklin che non possa darti io.» «Eh?» «Guardati intorno. Guarda cosa ho qui: cibo, bevande, dolciumi, armi da
fuoco, munizioni... e potere, Roland! Macklin cos'ha? Un rottame di tenda. E sai una cosa? Non avrà mai altro. Io mando avanti questa comunità, Roland. Oserei dire che sono la legge, il sindaco, il giudice e la giuria tutt'insieme! Giusto?» Scoccò una rapida occhiata a Lawry, e l'altro disse: «Giusto», con la convinzione del pupazzo di un ventriloquo. «Allora, Roland. Cosa fa per te, Macklin?» Kempka inarcò le sopracciglia. «O dovrei domandare cosa fai tu per lui?» Roland quasi disse al Grassone che Macklin era il Re... privo di corona e di regno, al momento, ma destinato a riprendersi il potere, un giorno... e che lui si era impegnato a essere Cavaliere del Re; ma pensava che Kempka fosse intelligente quanto uno scarafaggio e che non avrebbe capito lo scopo grandioso del gioco. Per cui disse: «Facciamo la stessa strada». «E dove vai? Nello stesso deposito d'immondizia a cui è diretto Macklin? No, credo che tu sia troppo intelligente per accontentarti di questo.» «Cosa vuol dire?» «Voglio dire... ho un'ampia e comoda roulotte, Roland. Ho un vero letto!» Con un cenno indicò una porta chiusa. «Proprio di là. Ti piacerebbe vederlo?» All'improvviso Roland capì a che cosa mirava Freddie Kempka. «No» disse, sentendo una stretta alle viscere. «Non voglio.» «Il tuo amico non può offrirti quel che ti offro io, Roland» proseguì Kempka, con voce insinuante. «Lui non ha potere. Io ho tutto. Credi che vi abbia fatti entrare qui solo per le droghe? No. Io voglio te, Roland. Ti voglio qui, con me.» Roland scosse la testa. Pagliuzze scure sembrarono vorticargli davanti agli occhi; si sentì la testa pesante, come se non riuscisse più a tenerla in equilibrio sul collo. «Scoprirai che il potere governa il mondo.» A Roland la voce di Kempka pareva un disco suonato a velocità superiore a quella di registrazione. «È l'unica cosa che ancora conti. Non la bellezza, non l'amore... solo il potere. E chi lo ha, può prendersi quel che vuole.» «Me, no» disse Roland. Le parole gli parvero palline che rotolassero sulla lingua. Si sentì sul punto di vomitare, aveva il formicolio alle gambe. La luce artificiale gli feriva gli occhi; quando batté le palpebre, fu costretto a compiere uno sforzo per non tenerle abbassate. Guardò nel bicchiere di plastica che ancora reggeva in mano e vide dei granelli muoversi sul fondo. Tentò di alzarsi, ma le gambe gli cedettero e cadde sulle ginocchia. Qualcuno si chinava su di lui; si sentì togliere dalle dita inerti la pistola.
Troppo tardi cercò di riafferrarla: Lawry sogghignava e si ritirava fuori portata. «Le tue droghe mi sono state utili.» Ora la voce di Kempka era lenta e confusa, un borbottio sott'acqua. «Ho schiacciato un po' di quelle pillole e ho preparato una piccola, graziosa mistura. Mi auguro che il viaggio ti piaccia.» E il Grassone cominciò ad alzarsi pesantemente dalla sedia e a dirigersi a passo deciso verso Roland Croninger, mentre Lawry usciva a fumarsi una sigaretta. Roland rabbrividì, anche se il sudore gli bagnava la faccia; cercò di sfuggire al Grassone, muovendosi a quattro zampe. Il cervello gli vibrava, tutto si muoveva a velocità pazzesca, accelerava e rallentava. La roulotte tremò, mentre Kempka andava alla porta a tirare i catenacci. Roland si rannicchiò in un angolo, come animale in trappola; quando tentò di gridare per chiamare in aiuto il Re, la voce quasi gli fece scoppiare i timpani. «Ora» disse Kempka «ci conosceremo meglio, vero?» Macklin era fermo nell'acqua alta fino alle cosce, sotto la sferza del vento che gemeva al di là del campo. Sentiva un formicolio allo scroto e stringeva il coltello, con tanta forza che le nocche erano sbiancate come ossa. Guardò la ferita infetta e il rigonfiamento scuro che avrebbe dovuto sondare con la punta luccicante del coltello. Oh, Dio, pensò; Dio mio, aiutami... «Disciplina e autocontrollo.» Il Soldato Ombra era dietro di lui. «È questo che ti rende uomo, Jimmy!» La voce di mio padre, pensò Macklin. Dio benedica il caro vecchio papà e speriamo che i vermi gli abbiano ripulito le ossa. «Avanti!» ordinò il Soldato Ombra. Macklin alzò il coltello, prese la mira, inspirò a fondo l'aria gelida e conficcò la lama dentro, dentro, dentro il gonfiore infetto. Il dolore fu così intenso, così incandescente, così struggente, da rasentare il piacere. Macklin gettò indietro la testa e urlò. E mentre gridava, conficcò più profondamente la lama nella carne infetta, sempre più a fondo; mentre le lacrime gli colavano sulle guance, ardeva di sofferenza e di godimento. Sentì il braccio alleggerirsi, l'infezione sgorgare fuori. E mentre il suo grido si alzava nella notte dove altre grida l'avevano preceduto, Macklin si gettò nell'acqua salata e v'immerse la ferita. «Ah!» Il Grassone si fermò a qualche passo da Roland e piegò la testa in
direzione della porta. Aveva il viso arrossato, gli occhi scintillanti. L'urlo moriva in lontananza. «Ascolta bene questa musica» disse Kempka. «È il vagito di chi rinasce.» Cominciò a slacciarsi la cintura, sfilandola dai numerosi passanti che gli circondavano la vita enorme. Le immagini che scorrevano nel cervello di Roland erano un miscuglio di parco dei divertimenti e di galleria degli orrori. Nella mente, mozzava il polso destro del Re e mentre la lama tranciava la mano, dalla ferita sgorgava uno schizzo di fiori rosso sangue; una fila di cadaveri straziati in bombetta e smoking s'apriva la via fra le macerie del corridoio di Casa Terra; lui e il Re camminavano lungo una superstrada, sotto un tetro cielo scarlatto, fra alberi fatti d'ossa e laghi di sangue fumante; resti imputriditi d'esseri umani passavano velocemente in automobili ammaccate e camion a rimorchio; lui era in cima a una montagna intorno alla quale ribollivano nubi grigie. In basso, eserciti combattevano con coltelli, sassi, bottiglie rotte. Una mano fredda gli toccò la spalla e una voce mormorò: «Può essere tutto tuo, ser Roland.» Roland aveva paura di girare la testa e di guardare la creatura che gli stava alle spalle, ma sapeva di doverlo fare. La forza delle orribili allucinazioni lo costrinse a girare la testa: fissò un paio d'occhi protetti da occhialoni militari. La carne di quel viso era chiazzata di escrescenze scure, squamose; le labbra quasi completamente rosicchiate rivelavano denti deformi appuntiti come zanne. Il naso era piatto; le narici, larghe e devastate. La faccia era la sua, ma distorta, imbruttita, trasudante malignità e sete di sangue. E da quella faccia la sua stessa voce mormorò: «Può essere tutto tuo, ser Roland... e anche mio.» Torreggiando sopra il ragazzo, Freddie Kempka gettò per terra la cinghia e cominciò a togliersi i calzoni di poliestere. Il suo respiro risuonò come il brontolio di una fornace. Roland batté le palpebre, guardò a occhi socchiusi il Grassone. Le allucinazioni rotolavano via follemente, ma udiva ancora il sussurro di quella creatura. Tremava, non riusciva a fermarsi. Un'altra visione turbinò alla superficie; si ritrovò steso a terra, tremante; Mike Armbruster incombeva su di lui, pronto a picchiarlo a sangue, mentre gli altri ragazzi della scuola e i giocatori di football gridavano e lo schernivano. Vide il ghigno distorto di Mike Armbruster e provò un'ondata di odio maniacale più potente di qualsiasi altra sensazione mai avuta. Mike Armbruster l'aveva già picchiato una volta, l'aveva preso a calci, gli aveva sputato addosso, mentre lui piangeva nella polvere... e ora voleva ripetersi.
Ma Roland sapeva di essere diverso — molto più forte, molto più scaltro — dal piccolo buono a nulla che si era lasciato picchiare fino a pisciarsi addosso. Adesso era un Cavaliere del Re, aveva visto il ventre dell'inferno. Avrebbe mostrato a Mike Armbruster come un Cavaliere del Re rende la pariglia. Kempka aveva una gamba fuori dei calzoni. Portava slip di seta rossa. Il ragazzo seduto lo guardava dal basso, con gli occhi socchiusi dietro quei maledetti occhialoni, e ora cominciò a emettere un profondo verso di gola, animalesco, un incrocio fra un ringhio e un lugubre gemito. «Smettila» gli disse Kempka. Quel suono gli faceva venire la pelle d'oca. Il ragazzo non smise, il suono divenne più forte. «Smettila, piccolo bastardo!» Il viso del ragazzo cambiò, s'irrigidì in una maschera d'odio brutale e assoluto; e quella vista atterrì Freddie Kempka. Il Grassone capì che le droghe avevano alterato la mente di Roland Croninger in un modo non previsto. «Smettila!» gridò e alzò la mano per mollargli un ceffone. Roland balzò avanti; come un ariete, sbatté la testa contro lo stomaco sporgente di Kempka. Il Grassone mandò un grido e cadde all'indietro, mulinando le braccia. La roulotte tremò. Prima che Kempka si riprendesse, Roland lo colpì di nuovo con una forza tale da mandarlo a sbattere per terra. E poi gli si gettò addosso, lo prese a pugni, a calci, a morsi. Kempka gridò: «Lawry, aiuto!», ma nello stesso istante ricordò che aveva chiuso la porta con entrambi i catenacci per impedire al ragazzo di scappare. Due dita gli si conficcarono nell'occhio sinistro e quasi glielo strapparono dall'orbita; un pugno gli fracassò il naso; la testa di Roland venne avanti in un colpo maligno che colse Kempka in piena bocca, gli spaccò le labbra e gli cacciò in gola due incisivi. «Aiuto!» strillò il Grassone, con la bocca piena di sangue. Agitando le braccia, colpì Roland; ricadde sullo stomaco, strisciò verso la porta chiusa. «Aiuto, Lawry!» gridò dalle labbra spaccate. Qualcosa passò intorno alla gola di Kempka e si strinse, fermandogli il sangue nella testa e facendolo diventare rosso come un pomodoro troppo maturo. In preda al panico, capì che il ragazzo impazzito cercava di strangolarlo con la sua stessa cinghia. Roland si aggrappò alla schiena di Kempka come Ahab alla balena bianca. Il Grassone soffocò, lottò per liberarsi della cinghia. Il sangue gli pulsava nella testa con una forza che minacciava di fargli schizzare gli occhi dalle orbite. Pugni contro la porta, la voce di Lawry: «Signor Kempka, che succede?» Il Grassone s'impennò, contorse il corpo tremante, sbatté Roland contro
la parete, ma il ragazzo non mollò la presa. I polmoni di Kempka cercarono di inspirare aria, e lui di nuovo si buttò di lato. Stavolta udì il ragazzo gridare di dolore. La cinghia si allentò. Kempka strillò come un maiale sgozzato, cercando selvaggiamente di rimettersi in piedi. Allungò la mano a togliere un catenaccio... e una sedia lo colpì alla schiena, fracassandosi. Un'ondata di dolore gli percorse la spina dorsale. Poi il ragazzo prese a picchiarlo con una gamba della sedia, lo colpì alla testa e al viso. E Kempka urlò: «È impazzito! È impazzito!» Lawry prese a pugni la porta. «Mi faccia entrare!» Kempka fu stordito da un colpo alla fronte, sentì il sangue colargli sul viso, menò pugni alla cieca contro Roland. Con un sinistro centrò il bersaglio e udì il ragazzo ansimare senza fiato. Roland crollò sulle ginocchia. Kempka si pulì il sangue dagli occhi, allungò la mano, cercò di togliere il primo paletto. Le dita scivolose di sangue non riuscivano ad avere una buona presa. Lawry picchiava contro la porta, cercava di abbatterla. «È pazzo!» gemette Kempka. «Cerca di uccidermi!» «Ehi, stupido bastardo!» ringhiò Roland, dietro di lui. Kempka si girò e gemette di terrore. Roland aveva preso una delle lampade a cherosene che illuminavano la roulotte. Sogghignava come un pazzo, con gli occhialoni striati di sangue. «Questo è per te, Mike!» urlò. E scagliò la lampada. La lampada si fracassò sul cranio del Grassone, gli innaffiò viso e petto di cherosene che prese subito fuoco e lo appiccò alla barba, ai capelli, alla camicia sportiva. «Mi dà fuoco! Mi dà fuoco!» strillò Kempka, rotolandosi e agitando le braccia. La porta vibrò sotto i calci di Lawry... ma la gente dell'Airstream l'aveva costruita perché resistesse. Mentre Kempka si rotolava e Lawry scalciava la porta, Roland rivolse l'attenzione alla rastrelliera di carabine e alle pistole appese ai ganci. Non aveva ancora finito di mostrare a Mike Armbruster come un Cavaliere del Re rende la pariglia. Oh, no... non ancora. Girò intorno al tavolo, scelse una magnifica .38 Special con il calcio di madreperla. Aprì il cilindro e vide che c'erano tre proiettili. Sorrise. Sul pavimento, il Grassone era riuscito a soffocare le fiamme. Il suo viso era una massa di carne bruciacchiata, di capelli bruciati, di vesciche; gli occhi erano tanto gonfi da renderlo quasi cieco. Ma lui riusciva a vedere il ragazzo quanto bastava: Roland gli veniva vicino, impugnava la rivoltella. Sorrideva. Kempka spalancò la bocca per gridare, ma emise solo un graci-
dio. Roland s'inginocchiò di fronte a lui. Aveva il viso lustro di sudore, un pulsare sordo alle tempie. Alzò il cane della .38 e tenne la canna a dieci centimetri dal cranio di Kempka. «Per favore» supplicò il Grassone. «Per favore... Roland... non...» Il sorriso di Roland era fisso, gli occhi erano enormi, dietro gli occhialoni. Disse: «Ser Roland. E non dimenticarlo». Lawry udì uno sparo. Poi, dieci secondi dopo, un altro. Strinse in pugno l'automatica del ragazzo e prese a spallate la porta, che resistette ancora. Riprovò con i calci, ma la maledetta porta era testarda. Stava per sparare attraverso il pannello, quando udì tirare i paletti. La porta si aprì. Il ragazzo era fermo sulla soglia, con la .38 penzolante in mano, sangue sul viso e nei capelli. Sogghignava. E con voce rapida e drogata disse: «È finita l'ho fatto l'ho fatto gli ho mostrato come un Cavaliere del Re rende la pariglia l'ho fatto!» Lawry sollevò l'automatica per far fuori il ragazzo. Ma le canne gemelle di un fucile da caccia gli solleticarono la nuca. «Ah-ha» disse Sheila Fontana. Aveva udito il trambusto ed era venuta a vedere che cosa succedeva; altra gente emergeva dal buio a curiosare, portava lanterne e torce elettriche. «Butta giù, o ti butto giù io.» L'automatica cadde a terra. «Non uccidermi» piagnucolò Lawry. «Lavoravo per il signor Kempka. Tutto qui. Eseguivo solo i suoi ordini.» «L'ammazzo?» chiese Sheila a Roland. Il ragazzo si limitò a fissarla e a sogghignare. È tutto partito, pensò Sheila. O è sbronzo, o è "fatto". «Senti, me ne frego di Kempka e del ragazzo.» La voce di Lawry tremò. «Kempka non era niente, per me. Gli facevo da autista. Eseguivo i suoi ordini. Senti, posso fare lo stesso per te, se ti va. Per te, il ragazzo e il colonnello Macklin. Dare un'occhiata in giro, mantenere tutti in riga. Farò tutto quel che vuoi. Se mi dici di saltare, ti chiedo solo a che altezza.» «Gli ho fatto vedere eccome» strepito Roland, vacillando. «Gli ho fatto vedere!» «Ascolta, tu e il ragazzo e il colonnello Macklin siete i boss, qui, a quanto vedo» disse Lawry a Sheila. «Cioè... se Kempka è morto.» «Allora andiamo a dare un'occhiata.» Con il fucile Sheila gli toccò la nuca; Lawry passò davanti a Roland ed entrò nella roulotte. Il Grassone era un mucchio sanguinolento rannicchiato contro la parete.
Nell'aria c'era il lezzo di carne bruciata. Kempka era stato colpito alla testa e al cuore, da distanza ravvicinata. «Le armi, il cibo... è tutto vostro, ora» disse Lawry. «Io faccio solo quel che mi dicono. Dimmi cosa devo fare, e io lo faccio. Lo giuro su Dio.» «Allora trascina fuori della roulotte quella carcassa.» Sorpresa, Sheila guardò la porta. Macklin, fermo sulla soglia, appoggiato allo stipite, era a dorso nudo e gocciolava acqua. Teneva sulle spalle il cappotto nero, con il moncherino nascosto fra le pieghe. Era pallido in viso, aveva gli occhi cerchiati di nero. Roland, accanto a lui, non si reggeva in piedi, oscillava sul punto di crollare. «Non so... che diavolo è successo, qui» disse Macklin, parlando a fatica. «Ma se ora tutto appartiene a noi... ci trasferiamo nella roulotte. Porta quella roba fuori di qui.» Lawry parve colpito. «Da solo? Voglio dire... sarà maledettamente pesante!» «O lo trascini fuori, o fai la sua fine.» Lawry si mise all'opera. «E metti tutto in ordine, quando hai finito.» Macklin si accostò alla rastrelliera di carabine e di pistole. Dio, che arsenale! Non aveva la minima idea di che cosa fosse accaduto lì dentro; ma Kempka era morto, e in qualche modo il comando era passato a loro. Possedevano la roulotte, il cibo, l'acqua, l'arsenale, l'intero campo! Si sentiva stordito, ancora esausto per il dolore sopportato, ma in un certo senso più forte, anche, più... più pulito. Di nuovo uomo, anziché un cane atterrito e guaiolante. Il colonnello James B. Macklin era rinato. Lawry era quasi riuscito a trasportare il cadavere fino alla porta. «Non ce la faccio!» protestò, riprendendo fiato. «Pesa troppo!» Macklin si girò di scatto e avanzò verso Lawry, fermandosi solo quando fu quasi faccia a faccia con lui. Gli occhi iniettati di sangue trapassarono quelli dell'altro. «Stammi a sentire, melma umana» disse, minaccioso. Lawry stette a sentire. «Ora qui il capo sono io. Io. Quel che dico, va fatto, senza domande. T'insegnerò disciplina e autocontrollo, soldato. Insegnerò a tutti disciplina e autocontrollo. Non ci saranno domande, né incertezze, quando darò un ordine, altrimenti ci saranno... esecuzioni. Esecuzioni pubbliche. Ti va d'essere il primo?» «No» rispose Lawry, sottovoce, spaventato. «No... cosa?» «Nossignore.»
«Bene. Fai girare la voce, Lawry. Organizzerò questa gente, gli farò muovere il culo. Chi non accetta il mio modo di fare, può andarsene.» «E perché vuole organizzarli?» «Pensi che non verrà il momento in cui dovremo combattere per mantenere ciò che abbiamo? Amico, ci saranno un mucchio d'occasioni in cui dovremo combattere... se non per mantenere ciò che abbiamo, per prendere ciò che vogliamo.» «Non siamo un merdoso esercito!» disse Lawry. «Lo sarete» promise Macklin. Indicò l'arsenale. «Imparerai a essere un soldato, amico. E come te, tutti gli altri. Adesso butta fuori quel pezzo di merda, caporale.» «Eh?» «Caporale Lawry. Il tuo nuovo grado. Starai nella tenda là fuori. La roulotte è per i membri dello stato maggiore.» Oh, Cristo, pensò Lawry; questo qui è svitato! Ma l'idea d'essere caporale lo solleticava. Lo faceva sentire importante. Girò le spalle al colonnello e riprese a trascinare il cadavere di Kempka. Fu colpito da un pensiero buffo e quasi si mise a ridere, ma si trattenne. Il re è morto, pensò, viva il re! Trasportò il corpo giù dai gradini. La porta della roulotte si chiuse. Alcuni uomini si erano radunati nei pressi, attirati dal frastuono. Lawry cominciò a latrare ordini: prendere il cadavere di Freddie Kempka, portarlo al limitare della terra delle larve. Gli ubbidirono come automi. Judd Lawry si disse che forse avrebbe finito per prenderci gusto, a giocare ai soldati. SETTE: penso a domani Cadranno le teste / Il gioco della camicia di forza / Missione suicida / Il mio popolo / Un vecchio vetro color fumo / Un cristiano in Cadillac / Schiuma verde 41 «Mi chiamo Alvin Mangrim. Ora sono Dio Alvin. Benvenuti nel mio regno.» Il giovane pazzo biondo, seduto sulla toilette trono, mosse in un ampio gesto la mano snella. «Vi piace?» Josh aveva la nausea per l'odore di morte e di decomposizione. Era sedu-
to per terra, con Swan e Leona, nel reparto animali domestici, sul retro del K-Mart. Nelle piccole gabbie contro le pareti c'erano decine di canarini e di cocorite, tutti morti; pesci rossi imputridivano nelle varie vasche. Nel reparto a vetri, gattini e cuccioli attiravano le mosche. Josh avrebbe voluto pestare a sangue quel viso dalla barba bionda, ma aveva polsi e caviglie legati con catene chiuse da lucchetti. Swan e Leona erano legate con funi. Lì accanto c'erano il Neanderthal calvo, Occhi di Pesce e altri sei o sette. Il colosso barbuto e il nano grinzoso si aggiravano nei pressi; il nano stringeva fra le dita tozze la bacchetta da rabdomante di Swan. «Ho aggiustato l'impianto elettrico» spiegò Dio Alvin, reclinato sul trono, mangiando uva. «Ecco perché le luci sono accese.» I suoi occhi verde scuro si spostarono su Swan, tornarono su Josh. Leona sanguinava ancora dal taglio alla fronte e batteva rapidamente le palpebre cercando di reagire allo choc. «Ho collegato all'impianto un paio di generatori portatili. Sono sempre stato in gamba, con l'elettricità. E sono anche un bravo falegname. Gesù era falegname, sapete.» Sputò dei semi. «Tu credi in Gesù?» «Sì» riuscì a borbottare Josh. «Anch'io. Avevo un cane chiamato Gesù, una volta. L'ho crocifisso, ma non è tornato alla vita. Prima di morire, mi ha detto cosa fare alla gente nella casa di mattoni. Via la testa.» Josh, immobile, fissò quegli occhi verdi, insondabili. Dio Alvin sorrise e per un momento sembrò un corista, vestito di viola e pronto a cantare. «Ho aggiustato le luci per attirare tanta carne fresca... come voi tre. Tanti giocattoli. Capisci, al Pathway tutti ci hanno abbandonati. Le luci si sono spente, i medici sono andati a casa. Ma alcuni di loro li abbiamo trovati, come il dottor Baylor. E allora ho battezzato i miei discepoli nel sangue del dottor Baylor e li ho mandati nel mondo; noi siamo rimasti qui.» Piegò di lato la testa, il sorriso svanì. «È buio, fuori» disse. «È sempre buio, anche di giorno. Come ti chiami, amico?» Josh glielo disse. L'odore della sua stessa paura superava il puzzo degli animali morti. «Josh» ripeté Dio Alvin. Mangiò un chicco d'uva. «Il possente Giosuè. Hai abbattuto con un soffio le vecchie mura di Gerico, no?» Sorrise di nuovo e rivolse un gesto a un giovanotto con i capelli neri impomatati e cerchi di vernice rossa intorno agli occhi e alla bocca. Il giovane venne avanti, reggendo un barattolo. Swan udì alcuni uomini ridacchiare eccitati. Il cuore le batteva ancora,
ma le lacrime erano sparite e pure la melassa che le aveva inceppato le rotelline del cervello. Quei pazzi erano scappati dal Pathway, la morte era lì davanti a lei, seduta su una toilette. Chissà che fine aveva fatto Mulo; anche il terrier non aveva più dato segno di vita, da quando lei era andata a sbattere nei manichini. Si affrettò a scacciare quel ricordo. Il giovane con il viso dipinto s'inginocchiò di fronte a Josh e svitò il coperchio del barattolo pieno di cerone bianco. Ne prese una ditata e allungò la mano verso il viso di Josh, che scostò di scatto la testa; ma Neanderthal lo afferrò e lo tenne fermo, mentre l'altro applicava il cerone. «Avrai un aspetto grazioso, Josh» disse Dio Alvin. «Ti piacerà.» Fra le ondate di dolore alle gambe e il gelido stordimento dello choc, Leona guardò applicare il cerone. Il giovane dipingeva il viso di Josh in modo da farlo sembrare un teschio. «Conosco un gioco» disse Dio Alvin. «Un gioco chiamato Camicia di forza. L'ho inventato io. Sai perché? Il dottor Baylor diceva: "Su, Alvin! Vieni a prendere la pillola, da bravo bambino"; e io dovevo percorrere quel corridoio lungo e puzzolente, ogni giorno.» Alzò due dita. «Due volte al giorno. Sono un bravo falegname, però.» Batté lentamente le palpebre come se cercasse di mettere a fuoco i pensieri. «Costruivo cucce per cani. Non le solite cucce. Costruivo ville e castelli per cani. Per Gesù costruii una copia della Torre di Londra. Il posto dove mozzavano la testa alle streghe.» Aveva un tic all'angolo dell'occhio sinistro. Rimase in silenzio a fissare il vuoto, mentre il giovane dava gli ultimi tocchi al disegno del teschio sul viso di Josh. A lavoro ultimato, Neanderthal lasciò la testa di Josh. Dio Alvin terminò l'uva e si leccò le dita. «Nel gioco della camicia di forza» disse tra una leccata e l'altra «ti portano sul davanti del negozio. La signora e la bambina restano qui. Ora, hai una scelta: cosa vuoi che ti sleghiamo, le braccia o le gambe?» «Che senso hanno queste stronzate?» Dio Alvin agitò il dito ad ammonirlo. «Braccia o gambe, Josh?» Mi servono le gambe libere, ragionò Josh. Poi: no, posso sempre saltellare. Devo avere le braccia libere. No, le gambe! Impossibile decidere, senza sapere che cosa sarebbe accaduto. Esitò, sforzandosi di pensare con chiarezza. Sentì che Swan lo guardava; le lanciò un'occhiata, ma la bambina scosse la testa, non sapeva suggerirgli una risposta. «Le gambe» disse Josh alla fine. «Bene. Non t'ha fatto male, vero?» Di nuovo fra i presenti ci furono risa-
tine e mormoni d'eccitazione. «Allora, ti portano sul davanti del negozio e ti liberano le gambe. Poi hai cinque minuti per attraversare il negozio e tornare qui.» Scostò la manica della veste viola. Al braccio aveva sei orologi. «Vedi, posso calcolare il tempo al secondo. Cinque minuti dal via... e non un secondo di più, Josh.» Josh mandò un sospiro di sollievo. Grazie a Dio aveva scelto di farsi liberare le gambe! Si vedeva saltellare e strisciare per il K-Mart in quella ridicola farsa! «Oh, sì» continuò Dio Alvin. «I miei sudditi faranno del loro meglio per ammazzarti, lungo il percorso.» Sorrise allegramente. «Useranno coltelli, martelli, accette... tutto, tranne le armi da fuoco. Vedi, con le armi da fuoco non sarebbe equo. Su, non preoccuparti: puoi usare le stesse cose, se le trovi... e se riesci a metterci sopra le mani. Potrai usare qualsiasi cosa per difenderti, ma non troverai armi da fuoco, neppure un fucile a piombini. Non è un gioco divertente?» Josh aveva in bocca sapore di segatura. Aveva paura di chiederlo, ma non poteva farne a meno. «E se... se non torno... entro cinque minuti?» Il nano saltellò su e giù nel carrello e puntò contro di lui la bacchetta da rabdomante, come lo scettro d'un giullare. «Morte! Morte! Morte!» gridò. «Grazie, Folletto» disse Dio Alvin. «Josh, hai visto i miei manichini, vero? Non sono graziosi? Molto realistici, anche! Vuoi sapere come li abbiamo fatti?» Lanciò un'occhiata a qualcuno alle spalle di Josh e annuì. Subito ci fu un brontolio gutturale che salì fino a diventare un sibilo acuto. Josh sentì odore di benzina. Sapeva già che cos'era quel rumore e si sentì stringere le viscere. Si diede un'occhiata alle spalle: Neanderthal, in piedi dietro di lui, reggeva una motosega ronzante, incrostata di sangue coagulato. «Se non batti l'orologio, amico Josh» disse Dio Alvin, sporgendosi «la signora e la bambina andranno a fare parte della mia collezione di manichini. Cioè, la loro testa.» Alzò il dito e la motosega sferragliò, fermandosi. «Cadranno le teste!» Folletto saltellò e sogghignò. «Cadranno le teste!» «Naturalmente» aggiunse il pazzo in veste viola «se ti uccidono lungo il percorso, non avrà molta importanza, vero? Troveremo un corpo robusto che si adatti alla tua testa. Allora? Siamo pronti?» «Pronti!» gridò Folletto. «Pronti!» disse il colosso barbuto. «Pronti!» urlarono gli altri, saltando e ballando. «Pronnnnti!»
Dio Alvin allungò la mano e tolse a Folletto la bacchetta da rabdomante. La buttò per terra, a circa un metro. «Oltrepassa questa linea, amico Josh, e vedrai meraviglie.» Ci ucciderà comunque, si disse Josh. Ma non aveva scelta. Incrociò lo sguardo di Swan. La bambina, calma, risoluta, cercò di trasmettergli un pensiero, "Ho fiducia in te". Josh digrignò i denti. Proteggi la bambina. Già! Ho fatto proprio un buon lavoro! Il colosso barbuto e un altro pazzo tirarono in piedi Josh. «Bastardi» mormorò Leona, quasi accecata dal dolore alla testa. Josh fu in parte portato in parte trascinato fuori del reparto animali domestici, fra i casalinghi, gli articoli sportivi, poi lungo il corridoio centrale, fino alla fila dei registratori di cassa all'ingresso. Un terzo uomo era in attesa, armato di doppietta; un anello di chiavi gli penzolava dalla cintura. Josh fu buttato a terra, il fiato gli uscì sibilando dai denti serrati. «Gambe» disse il barbuto; il pazzo con le diavi si chinò a far scattare il lucchetto. Dall'esterno proveniva uno scroscio continuo: cadeva una pioggia torrenziale, che penetrava in parte dai vetri rotti. Non c'era segno del cavallo e Josh si augurò che trovasse un posto asciutto dove morire. Dio ci aiuti tutti, pensò. Non aveva visto nessuno degli altri pazzi, mentre i due lo portavano lì, ma sapeva che erano nel supermercato, nascosti, pronti, in attesa che il gioco iniziasse. Proteggi la bambina. La voce rauca di PawPaw era un ricordo recente. Proteggi la bambina. Doveva oltrepassare quella linea, qualsiasi cosa gli stronzi gli tirassero. Avrebbe usato tutte le finte da giocatore di football, avrebbe fatto ringiovanire le ginocchia arrugginite. Oh, Signore, pregò, se mai hai sorriso a uno sciocco, è questo il momento di mostrare i tuoi denti perlacei! Il lucchetto scattò, le catene caddero dalle gambe di Josh. I due lo tirarono in piedi, con i polsi ancora strettamente imprigionati e la catena arrotolata anche intorno alle braccia e alle mani. Josh poteva aprire e chiudere la sinistra, ma non la destra, stretta a pugno. Guardò il fondo del K-Mart e gli mancò il cuore. Il maledetto supermercato pareva più lungo di dieci campi da football. Nel reparto animali domestici, Swan aveva posato la testa sulla spalla di Leona. La donna aveva il respiro irregolare, lottava per tenere aperti gli occhi. Josh avrebbe fatto tutto il possibile per raggiungerle, ma poteva anche non riuscirci. Dio Alvin le sorrideva con aria beata, come i santi dei vetri istoriati. Guardò la serie di orologi, puntò il megafono elettrico in di-
rezione dell'ingresso e gridò: «Il gioco comincia... ora! Cinque minuti, amico Josh!» Swan si ritrasse e attese gli eventi. 42 Al suono del megafono Josh sobbalzò. Stava per fare il primo passo, quando da dietro un braccio gli circondò il collo e prese a stringere. È il vecchio Barbagrigia, capì Josh; il bastardo cerca subito d inchiodarmi! D'istinto, gettò indietro la testa, nel colpo noto sui ring come "cornata di rovescio"... ma stavolta non frenò lo slancio. Urto con violenza la fronte di Barbagrigia e subito la stretta si allentò. Josh si giro di scatto. Barbagrigia era caduto a sedere, con occhi vitrei e la fronte già violacea. L'altro pazzo sollevò la doppietta. «Vai» disse; e sogghignò, mostrando i denti gialli. Josh non aveva tempo da perdere. Si mise a correre a tutta velocità nel corridoio centrale. Aveva fatto sei lunghi passi, quando una mazza da baseball vibrata a qualche centimetro da terra lo colpì alla caviglia destra. Josh cadde bocconi e scivolò per altri due metri sul linoleum. Subito si girò ad affrontare l'assalitore nascosto dietro un banco di calze e biancheria. L'uomo, che portava un casco rosso da football, si precipitò contro di lui, agitando la mazza, come in una corsa decisiva alla casa base. Josh raccolse le gambe al petto, scalciò dal basso in alto; a piedi uniti colpì allo stomaco il pazzo, sollevandolo di un metro. L'uomo ricadde sul fondo della schiena. Josh si rialzò e lo colpì all'inguine, come se tentasse una meta dalla linea dei cinquanta metri. Mentre l'uomo si contorceva, rannicchiato su se stesso, Josh passò la sinistra sotto la mazza e la raccolse. Riuscì a stringere il manico e, per quanto non avesse vera e propria libertà di movimento, aveva pur sempre un'arma. Si girò per riprendere la corsa... e si trovò davanti un tipo magro armato d'ascia e un bastardo con il viso dipinto di blu e un maglio in pugno. Niente da fare!, pensò Josh. Saettò in un altro corridoio, con l'idea di arrivare al reparto animali da una direzione diversa. Sfiorò un manichino femminile, la cui testa castana rotolò per terra. «Quattro minuti, amico Josh!» annunciò la voce di Dio Alvin. Un uomo che brandiva un coltello da macellaio sbucò da una rastrelliera di abiti davanti a Josh. Non ce la faccio a fermarmi, si disse Josh. Allora si tuffò in avanti, si alzò a mezz'aria in una presa al corpo e mandò l'avversa-
rio a sbattere contro la rastrelliera che crollò intorno a loro. L'uomo vibrò il coltello, mancò il colpo, provò ancora, impigliò la lama nella stoffa. Josh gli si mise a cavalcioni sul petto, gli calò sul cranio il manico della mazza, una volta, due, tre. Il corpo dell'avversario tremò come se l'avessereo collegato a una presa di corrente. Josh sentì un dolore acuto alla nuca. Si girò, vide un pazzo in tuta che rideva malignamente e reggeva una canna da pesca. La lenza era tesa. Josh capì di avere un amo conficcato nella carne. Il pescatore pazzo diede uno strattone, come se tirasse a bordo un magnifico esemplare di pesce spada, e l'amo si staccò. L'uomo lanciò ancora la lenza, mirando alla faccia. Josh la schivò, si liberò del mucchio di vestiti, si rimise in piedi e riprese a correre. «Restano tre minuti, amico Josh!» No! No! Il bastardo barava! Non poteva essere già passato un altro minuto! Josh passò davanti a un manichino elegantemente vestito, nel reparto uomo... ma di colpo il manichino tornò in vita, gli saltò sulla schiena, cercò di cavargli gli occhi. Josh continuò a correre, mentre l'uomo gli restava avvinghiato e gli graffiava il viso; si trovò davanti un nero snello, a torso nudo, che impugnava un cacciavite e reggeva nell'altra mano il coperchio di un bidone da spazzatura. Josh continuò a tutta velocità contro l'assassino in attesa, poi di colpo si fermò, slittando sul pavimento. Ingobbì le spalle e diede un colpo di schiena. L'uomo avvinghiato a lui perse la presa e volò in aria. Ma Josh sbagliò mira. Anziché andare a sbattere contro il nero, il pazzo dall'abito elegante volò sopra un bancone di camicie estive e cadde a terra. Il nero attaccò con l'agilità di una pantera. Josh vibrò un colpo di mazza, ma il coperchio lo deviò. Il cacciavite scattò verso lo stomaco. Josh si contorse e la punta gli graffiò le costole. Lottarono a corpo a corpo: Josh cercava disperatamente di evitare i colpi di cacciavite e vanamente di assestare con la mazza un buon colpo. Mentre erano alle prese, Josh scorse movimento ai lati... altri venivano a partecipare all'uccisione. Era spacciato, se non si liberava del nero, perché un uomo grande e grosso, armato di cesoie da giardinaggio, gli era quasi addosso. Il nero cercò di addentargli la guancia. Josh colse l'occasione: si lasciò cadere sulle ginocchia e s'infilò fre le gambe dell'altro, come un siluro scivoloso. Quando il nero si rigirò, si prese un colpo che gli fracassò il viso e gli fece volare i denti. Barcollò per due passi e cadde come un albero abbattuto.
Josh continuò a correre, respirando affannosamente. «Due minuti!» gridò Dio Alvin. Più presto! Più presto, maledizione! Il reparto animali era ancora lontanissimo e quel figlio di puttana accorciava il tempo. Proteggi la bambina. Devi prote... Un pazzo con la faccia incipriata emerse da dietro il bancone e calò sulla spalla sinistra di Josh una leva per smontare le gomme. Con un grido di dolore, Josh urtò contro una pila di lattine d'olio Quaker State; la fitta gli corse dalla spalla alla punta delle dita. La mazza da baseball rotolò nel corridoio, fuori portata. Il pazzo incipriato lo assalì, menando fendenti, mentre Josh si dimenava freneticamente. La leva si abbatté a qualche millimetro dalla testa di Josh, spaccò una lattina. E ora lottavano come animali, uccidere o essere ucciso. Con il ginocchio Josh lo colpì alle costole, respingendolo, ma l'altro saltò subito in piedi. Rotolarono per terra, bagnati di olio lubrificante; l'avversario sgusciava come un'anguilla, poi si rimise in piedi e caricò Josh, brandendo la leva per un colpo alla testa. Ma scivolò in una chiazza d'olio e cadde di schiena. Subito Josh gli fu a cavalcioni, con il ginocchio gli bloccò il braccio armato e con l'altro gli premette la gola. Sollevò le mani, urlò di furia, calò il mucchio di catene e intanto con tutta la sua forza premette la gola. Sentì il ginocchio affondare nel morbido, mentre la catena lasciava sul viso contorto un'impronta scarlatta simile a un tatuaggio. Senza fiato, Josh si rialzò. Sentiva un dolore atroce alla spalla, ma non poteva cedere alla sofferenza. Vai avanti!, si disse. Muoviti, idiota! Un martello gli volò sopra la testa e andò a sbattere contro una pila di coprimozzi. Josh scivolò, cadde in ginocchio. Il sangue gli riempiva la bocca, gli colava sul viso e i secondi passavano. Pensò allo scarafaggio nel fienile, la creatura sopravvissuta agli insetticidi, ai pestoni, a un olocausto nucleare. Se quell'essere aveva tanta voglia di vivere, ebbene, lui ne aveva altrettanta. Si alzò. Corse nel corridoio, vide altri tre venire verso di lui; con un balzo scavalcò il bancone e percorse un altro corridoio. Una svolta a sinistra, un altro corridoio libero, fiancheggiato di articoli casalinghi, pentole e padelle. E in fondo c'era Dio Alvin, seduto sul trono a guardare. Sulla parete alle sue spalle c'era il cartello Animali domestici. Il nano saltava su e giù dentro il carrello, il viso di Swan era girato dalla parte di Josh. Crybaby era vicina
eppure lontanissima! «Un minuto!» annunciò Dio Alvin. Ce l'ho fatta!, capì Josh. Buon Dio, ci sono quasi! La bacchetta non può distare più di dieci metri! Si lanciò. Ma udì il sordo brontolio e il gemito sempre più acuto. Nel corridoio, a sbarrargli la strada, avanzò Neanderthal, con la motosega. Josh si bloccò. Neanderthal, con il cranio pelato che brillava sotto le luci, accennò un sorriso e lo aspettò. I denti della motosega erano un lampo indistinto di metallo micidiale. Josh cercò un'altra strada. Il corridoio dei casalinghi era una distesa ininterrotta di articoli da cucina, vetrerie e vasellame, ma un corridoio si apriva sulla destra, a circa tre metri... sorvegliato da tre pazzi, armati di coltelli e di utensili da giardinaggio. Josh si girò per tornare sui suoi passi: a un metro e mezzo da lui c'erano il pazzo con la canna da pesca e quello dai denti giallastri, che impugnava la doppietta. Altri ne giungevano, per assistere al finale del gioco della camicia di forza. Era fottuto, capì Josh. Ma non solo lui... Swan e Leona erano bell'e morte, se non arrivava al traguardo. L'unica via passava da Neanderthal. «Quaranta secondi, amico Josh!» Con la motosega Neanderthal tranciò l'aria, sfidando Josh a farsi avanti. Josh era quasi esausto. Neanderthal manovrava la motosega come se non pesasse niente. Possibile che avessero fatto tutta quella strada per morire in un maledetto K-Mart pieno di pazzi in libertà? Josh non sapeva se piangere o ridere, così disse solo: «Merda!» Se era proprio destino che morissero, avrebbe fatto del suo meglio per portare Neanderthal con sé. Si drizzò quant'era alto, gonfiò il torace e mandò una risata tonante. Anche Neanderthal sogghignò. «Trenta secondi» disse Dio Alvin. Josh gettò indietro la testa; con tutto il fiato che aveva nei polmoni lanciò il grido di guerra e caricò come un autotreno privo di controllo. Neanderthal mantenne la posizione, piantò saldamente le gambe e mosse la motosega in un fendente. Ma Josh all'improvviso scartò all'indietro fuori portata. L'aria della motosega gli lambì il viso, mentre gli passava davanti. La cassa toracica dell'altro divenne un bersaglio aperto: prima che Neanderthal riportasse indietro la motosega, Josh lo colpì con un calcio alle costole, come se volesse mandarlo nel mondo dei sogni.
Il viso dell'uomo si raggrinzì di dolore. Neanderthal si piegò di una spanna, ma non cadde. Riprese l'equilibrio e si precipitò avanti: la motosega puntava alla testa di Josh. Non c'era tempo di pensare, solo di agire. Josh sollevò di scatto le mani davanti al viso. I denti della motosega urtarono le catene, ne trassero scintille. Le vibrazioni spinsero Josh e Neanderthal in direzioni opposte, ma nessuno dei due cadde. «Venti secondi!» urlò il megafono. Josh era stranamente calmo. Si trattava di raggiungere il traguardo oppure no, tutto qui. Si acquattò e avanzò cautamente, con la speranza di trovare il modo di fargli lo sgambetto. E Neanderthal scattò, più rapidamente di quanto Josh si attendeva da uno così grosso. La motosega si avventò di lato contro la testa Josh, che iniziò un balzo all'indietro; ma il colpo era una finta. Con lo stivale Neanderthal colpì Josh allo stomaco, sbattendolo a urtare contro il bancone di pentole, padelle e articoli da cucina, che gli sferragliarono intorno in una pioggia di metallo. Rotola!, urlò mentalmente; e mentre lui rotolava di lato, Neanderthal calò la motosega nel punto dove si trovava un attimo prima, provocando nel pavimento uno squarcio di trenta centimetri. Rapidamente Josh si rigirò e menò un calcio che centrò l'avversario proprio sotto la mascella. Neanderthal fu sollevato in aria, poi anche lui andò a sbattere contro l'esposizione di casalinghi... ma non mollò la motosega e iniziò a rimettersi in piedi, perdendo sangue dagli angoli della bocca. Il pubblicò gridò e applaudì. «Dieci secondi!» Josh era già sulle ginocchia, prima d'accorgersi di quel che era disseminato lì intorno: non solo pentole e padelle, ma anche una serie di coltelli da scalco. Un coltello con venti centimetri di lama era proprio davanti a lui. Posò la sinistra sul manico e costrinse le dita a stringersi per pura forza di volontà. Neanderthal, con occhi annebbiati di dolore, sputò qualche dente e una cosa che sembrava un pezzo di lingua. Josh era in piedi. «Fatti avanti!» urlò, fintando con il coltello. «Fatti avanti, pazzo bastardo!» L'altro lo accontentò; cominciò ad avanzare, muovendo la motosega a destra e a sinistra, in un arco micidiale. Josh continuò ad arretrare. Si lanciò un'occhiata alle spalle, vide a circa un metro e mezzo il pazzo con la canna da pesca e quello con la doppietta.
In una frazione di secondo capì che Dentigialli reggeva il fucile mollemente, con noncuranza. Alla cintura gli penzolava l'anello di chiavi. Neanderthal avanzava a passo costante; quando sogghignò, un rivolo di sangue gli sgorgò dalle labbra. «Vai dalla parte sbagliata, amico Josh!» disse Dio Alvin. «Non importa, comunque. Il tempo è finito! Vieni a prendere la pillola!» «Vaffanculo!» urlò Josh... e in un lampo girò su se stesso e conficcò il coltello nel petto di Dentigialli, appena sopra il cuore. Mentre il pazzo apriva la bocca per urlare, Josh strinse la sinistra sulla guardia del grilletto e gli strappò il fucile. L'uomo cadde a terra, schizzando sangue arterioso. Neanderthal caricò. Josh si girò con quella che gli parve una lentezza da incubo. Lottò per tenere fermo il fucile, per posare il dito sul grilletto. Neanderthal gli era quasi addosso, la motosega arrivava in un maligno fendente laterale. Josh si piantò contro il petto il calcio del fucile, sentì l'orribile brezza della motosega. Col dito trovò il grilletto e premette. Neanderthal era a mezzo metro, la motosega pronta a mordere la carne. L'attimo dopo, nel suo stomaco si aprì un foro grosso come un pugno e mezza schiena gli volò via. La forza dello sparo scosse Josh e quasi scagliò in aria Neanderthal. La motosega passò come un lampo davanti al viso di Josh e con il suo peso fece girare su se stesso il corpo del morto, come una trottola sul pavimento insanguinato. «Non vale!» gridò Dio Alvin, balzando giù dal trono. «Non hai seguito le regole!» Il cadavere cadde per terra, sempre stringendo la motosega. I denti di metallo scavarono un cerchio nel linoleum. Dio Alvin buttò via il megafono e si frugò sotto la veste. La sua mano emerse con un luccicante dito in più... un coltello da caccia a punta ricurva, simile a una falce in miniatura. Dio Alvin si rivolse a Swan e a Leona. Al colpo di fucile, gli altri pazzi erano corsi al riparo. Josh aveva solamente una cartuccia, non poteva sprecarla. Si lanciò, scavalcando il cadavere, verso il reparto animali domestici, dove Dio Alvin — la faccia distorta da un miscuglio di furia e, forse, di compassione — si era messo in ginocchio davanti a Swan e con la mano libera la stringeva per la nuca. «Morte! Morte!» strillò Folletto. Swan guardò negli occhi Dio Alvin e capì che sarebbe morta. Le lacrime le bruciarono gli occhi, ma sollevò il mento, con aria di sfida. «È ora di dormire» mormorò Dio Alvin. Alzò la lama ricurva.
Josh scivolò sul pavimento insanguinato, cadde, slittò contro un bancone a due metri dalla bacchetta da rabdomante. Si rimise in piedi, ma capì che non ce l'avrebbe mai fatta. Dio Alvin sorrise. Due lacrime rotolarono dagli occhi verde scuro. La lama era pronta a calare. «Dormi» disse il giovane. Ma una piccola sagoma grigia era già strisciata da dietro i sacchi di cibo per cani e di strame per gattini; con un ringhio da segugio uscito dall'inferno, s'avventò al viso di Dio Alvin. Il terrier azzannò il naso fine e sottile di Alvin Mangrim, maciullò carne e cartilagine, spinse indietro la testa dell'uomo. Dio Alvin cadde sul fianco, dimenandosi e strillando; cercò freneticamente di spingere via l'animale, ma il terrier mantenne la presa. Josh scavalcò Crybaby, vide Swan e Leona ancora vive, vide il terrier azzannare il naso di Dio Alvin e il pazzo frustare l'aria, con il coltello da caccia. Puntò il fucile contro la testa di Dio Alvin, ma non voleva colpire anche il cane e sapeva che avrebbe avuto bisogno di quell'ultima cartuccia. All'improvviso il terrier lasciò Dio Alvin e si ritrasse stringendo fra i denti un brandello di carne sanguinolenta; piantò le zampe a terra e lasciò partire una scarica di latrati. Dio Alvin si alzò a sedere; in faccia gli pendevano i brandelli residui del naso, gli occhi erano sbarrati per lo choc. Strillando: «Empietà! Empietà!» scattò in piedi e corse via dal reparto animali. Lì accanto rimase solo Folletto, l'ultimo suddito di Dio Alvin; il nano sibilava imprecazioni contro Josh, che si chinò sul carrello, lo girò e lo scagliò lungo il corridoio. Folletto saltò giù un attimo prima che il carrello si schiantasse contro i serbatoi dei pesci. Alvin Mangrim aveva abbandonato il coltello. Josh impiegò un paio di minuti a tagliare le corde che legavano Swan e Leona. Quando ebbe le mani libere, Swan mise le braccia al collo di Josh e strinse forte, tremando come un alberello nel vento. Il cane si avvicinò a portata della mano di Josh e si sedette sulle zampe posteriori, con il muso arrossato dal sangue di Dio Alvin. Aveva un collare antipulci con una targhetta di metallo e il nome: «Killer». Josh s'inginocchiò accanto a Leona, la scosse. La donna mosse le palpebre, smorta in viso, con un orribile gonfiore intorno allo squarcio sopra l'occhio sinistro. Commozione cerebrale, capì Josh. O peggio. Leona alzò la mano a toccare l'impiastro di cerone sulla faccia di Josh e aprì gli occhi. Sorrise debolmente. «Ben fatto» disse.
Josh l'aiutò ad alzarsi: dovevano andarsene in fretta. Resse il fucile contro lo stomaco e si avviò nel corridoio dove giaceva Neanderthal. Swan recuperò la bacchetta da rabdomante, strinse la mano di Leona e la tirò come se guidasse una sonnambula. Abbaiando, Killer saettò davanti a loro. Josh si accostò al cadavere di Dentigialli e prese l'anello di chiavi. Avrebbe pensato più tardi a trovare quella giusta e ad aprire il lucchetto della catena che gli serrava i polsi. Al momento dovevano solo uscire dal supermercato prima che Dio Alvin chiamasse a raccolta i pazzi. Si accorsero di movimenti furtivi ai lati del corridoio, mentre attraversavano il K-Mart; ma i sudditi di Dio Alvin non mostravano grande spirito d'iniziativa: uno tirò una scarpa; un altro, una palla rossa di gomma che rimbalzò dalle loro parti. Arrivarono senza incidenti alla porta d'ingresso. La pioggia fredda cadeva ancora a dirotto; nel giro di qualche secondo ne furono inzuppati. I lampioni del parcheggio gettavano aloni giallastri sulle auto abbandonate. Josh sentiva il peso della fatica. Qualcuno aveva rovesciato la carriola, rubato o buttato via le provviste. Le borse e i loro miseri averi erano spariti, compresa la bambola Cookie Monster. Swan vide sull'asfalto bagnato alcune carte di tarocchi di Leona, insieme con i cocci della collezione di sfere di cristallo. I sudditi di Dio Alvin avevano lasciato loro solo i vestiti zuppi d'acqua appiccicati alla pelle. Swan diede un'occhiata al K-Mart e sobbalzò d'orrore, come se le avessero messo una mano gelida sopra una scottatura. I pazzi venivano fuori. Dieci, dodici figure guidate da un uomo con la veste viola che gli svolazzava intorno. Alcuni impugnavano fucili. «Josh!» gridò Swan. Lui, tre metri più avanti, continuò a camminare: non l'aveva udita a causa della pioggia. «Josh!» gridò di nuovo Swan; superò di corsa la distanza che li divideva, con Crybaby lo toccò alla schiena. Josh si girò, con occhi spenti... e poi anche lui li vide arrivare. Erano a una trentina di metri, zigzagavano fra le auto. Ci fu il lampo di uno sparo, alle spalle di Josh il lunotto di un pulmino Toyota andò in mille pezzi. «Giù!» gridò Josh, spingendo Swan a terra. Afferrò Leona, mentre scaturivano altre fiammate. Un parabrezza andò in frantumi, ma Josh, Swan e Leona erano al riparo di una Buick blu con due gomme a terra. Proiettili rimbalzarono, schegge di vetro sibilarono intorno. Josh si acquattò, aspettando che i bastardi venissero più vicino, per alzarsi a sparare
l'ultima cartuccia. Una mano afferrò la canna del fucile. Leona aveva il viso teso e stanco, ma negli occhi le brillava il calore della vita. Strinse con forza il fucile, cercò di strapparglielo. Josh si oppose, scuotendo la testa. Poi vide il sangue che le usciva dalla bocca. Guardò in basso. Il foro del proiettile era appena sotto il cuore. Leona sorrise debolmente. Josh riuscì a capire che cosa diceva leggendo il movimento delle labbra. «Andatevene!» Con la testa indicò la distesa del parcheggio bagnato dalla pioggia. «Subito!» Josh aveva visto quanto sangue Leona perdeva. Anche lei aveva capito, le si leggeva in faccia. Non lasciò il fucile e parlò di nuovo. Josh non udì le parole, ma credette che fossero: «Proteggi la bambina.» La pioggia colava sul viso di Josh. C'erano tante cose da dire, tante cose! Ma nessuno dei due poteva udire l'altro, nel rumore della tempesta, e le parole erano fragili. Josh guardò Swan, si accorse che pure lei aveva visto la ferita. La bambina alzò lo sguardo verso Leona, poi verso Josh, e capì qual era stata la decisione. «No!» gridò. «Non ti lascio!» Afferrò il braccio di Leona. Un proiettile infranse il finestrino d'un camion poco distante. Altre pallottole colpirono la portiera, forarono la gomma anteriore, rimbalzarono sul volante. Josh guardò negli occhi la donna. Lasciò il fucile. Lei se lo tirò accanto e posò il dito sul grilletto, poi indicò loro di andare via. Swan le rimase attaccata. Leona prese Crybaby e spinse con forza la bacchetta contro il petto di Swan, poi liberò il braccio dalle dita della bambina. La decisione era presa. Ormai gli occhi di Leona si velavano, la perdita di sangue era rapida e fatale. Josh la baciò sulla guancia, la strinse forte a sé per un secondo. E poi si rivolse a Swan; senza emettere suono, formò la parola «Seguimi». Si avviò strisciando fra le automobili. Non se la sentì di guardare ancora Leona, ma finché campava avrebbe ricordato ogni tratto del suo viso. Leona passò le dita sulla guancia di Swan e sorrise, quasi avesse visto la faccia interiore della bambina e la conservasse, come un cammeo, nel cuore. Gli occhi della donna s'indurirono, si prepararono a quel che l'attendeva. Non c'era altro. Swan si soffermò quanto osava, prima di seguire Josh nel labirinto di veicoli. Leona si acquattò. Il dolore al petto era solo una puntura fastidiosa, in confronto a quello alle ginocchia reumatiche. Attese, sotto la pioggia bat-
tente; non aveva paura. Ormai era tempo di volare via dal corpo, di vedere con chiarezza quel che aveva solo scorto attraverso un vetro scuro. Attese ancora un momento, poi si mise in piedi e uscì da dietro la Buick, fronteggiando il K-Mart come un pistolero all'O.K. Corral. Quattro di loro erano in piedi a meno di due metri, e dietro ce n'erano altri due. Leona non ebbe il tempo d'accertarsi che fra loro ci fosse anche quello con la veste viola; puntò il fucile nel mucchio e tirò il grilletto, mentre due pazzi sparavano su di lei. Josh e Swan lasciarono il riparo delle macchine e corsero nello spazio aperto. Swan quasi si guardò indietro, quasi, ma non girò la testa. Josh barcollò, sul punto di cedere all'esaurimento. Vicino a loro, il terrier teneva il passo, con l'aria di un topo annegato. Swan si pulì la pioggia dagli occhi. C'era movimento, più avanti. Qualcosa avanzava sotto il diluvio. Anche Josh aveva visto, non sapeva che cosa fosse... ma se i pazzi li avevano circondati, era la fine. Dalla cortina di pioggia sbucò al galoppo il cavallo pezzato... ma non sembrava lo stesso animale. Questo cavallo pareva più forte, più valente, con la schiena dritta e il collo spinto avanti con coraggio. Josh e Swan avrebbero giurato d'avere visto gli zoccoli di Mulo trarre scintille dalle pietre del lastrico. Il cavallo si fermò davanti a loro, s'impennò, raspò l'aria. Quando ricadde, con la mano libera Josh prese Swan per il braccio e la gettò in groppa a Mulo. Non sapeva se aveva più paura di montare in groppa al cavallo o di affrontare i pazzi. Ma quando si guardò intorno, vide delle sagome correre sotto la pioggia e prese in fretta la decisione. Balzò dietro Swan in groppa all'animale e colpì con i talloni i fianchi di Mulo. Il cavallo s'impennò di nuovo e le sagome si fermarono di colpo. Quello in prima fila portava una veste viola, aveva capelli biondi, lunghi e bagnati, e il naso maciullato. Josh ebbe un secondo per incrociare lo sguardo con Dio Alvin. L'odio gli avvampò nelle ossa. Un giorno, brutto figlio di puttana, pensò; un giorno la pagherai. Risuonarono spari. Mulo girò su se stesso e si lanciò fuori del parcheggio come se volesse guadagnarsi il nastro azzurro del Derby. Killer lo seguì a fatica sotto la pioggia. Swan afferrò la criniera di Mulo per guidarlo; ma era il cavallo a decidere la direzione. S'allontanarono a tutta velocità dal K-Mart, dalla città morta di Matheson, lungo una statale che si estendeva nel buio sotto la pioggia.
Ma nell'ultima luce proveniente dal supermercato dei pazzi, videro un cartello che diceva: Benvenuti nel Nebraska, lo stato dove si scartocciano le pannocchie. Lo oltrepassarono in un lampo e Swan non fu sicura d'avere letto bene. Aveva il vento sul viso, stringeva Crybaby in una mano, la criniera di Mulo nell'altra; pareva che il cavallo si aprisse nel buio un sentiero di fuoco lasciandosi nella scia un mare di scintille. «Non siamo più nel Kansas, credo!» gridò Swan. «Sicuro!» rispose Josh. Corsero nella tempesta, verso un nuovo orizzonte. Un paio di minuti dopo, anche il terrier passò di corsa il confine, dietro di loro. 43 Un lupo dagli occhi gialli saettò davanti al camioncino. D'istinto Paul Thorson schiacciò il pedale del freno; il camioncino slittò con violenza sulla destra ed evitò per un pelo le carcasse bruciate di un autotreno e di una Mercedes-Benz nella corsia centrale della S-80 diretta a ovest, prima che le gomme lisce mordessero di nuovo l'asfalto. Il motore sferragliò e sbuffò come un vecchio che facesse un brutto sogno. Sul sedile del passeggero, Steve Buchanan infilò la canna della Magnum nella fessura del finestrino abbassato e prese la mira; ma intanto la belva era svanita di nuovo nei boschi. «Gesù Cristo fu Giuseppe» imprecò Steve. «Quei bastardi escono dai boschi. La nostra è una missione suicida, amico.» Un altro lupo corse davanti al camioncino, sfidandoli. Paul avrebbe giurato che il bastardo rideva. Lui aveva il viso duro come la pietra, mentre si concentrava per aprirsi la strada fra le carcasse di veicoli, ma dentro di sé era trafitto da una gelida paura d'un tipo mai conosciuto. Non avevano proiettili sufficienti a tenere a bada i lupi, quando fosse venuto il momento. I cinque sul camioncino si sarebbero rivolti a lui per aiuto, ma li avrebbe delusi. Ho paura, pensò; Dio mio, ho paura. Prese la bottiglia di Johnny Walker etichetta rossa, posta fra lui e il giovane; con i denti svitò il tappo e bevve una sorsata che gli inumidì gli occhi. Passò la bottiglia a Steve, che mandò giù pure lui una razione di coraggio. Forse per la centesima volta negli ultimi cinque minuti, Paul lanciò un'occhiata all'indicatore di benzina. L'ago era tre pelini più su dello zero. Negli ultimi venti chilometri avevano oltrepassato due stazioni di servizio
e i peggiori incubi di Paul cominciavano ad avverarsi: una stazione era stata rasa al suolo, l'altra aveva un cartello che diceva: NIENTE BENZINA NIENTE ARMI DA FUOCO NIENTE DENARO NIENTE DI NIENTE. Il camioncino avanzava a fatica sotto il cielo plumbeo. L'autostrada era un enorme deposito di veicoli fuori uso e di cadaveri mezzo sbranati. Paul aveva visto che una decina di lupi continuava a seguirli. In attesa che cominciamo ad andare a piedi, si disse; riescono a fiutare il serbatoio che si prosciuga. All'inferno, perché abbiamo lasciato la baracca? Là eravamo al sicuro. Potevamo restare lì... Per sempre?, si domandò. Una raffica di vento colpì la fiancata e il veicolo rabbrividì fino alle gomme consumate. Le nocche di Paul si sbiancarono, mentre lottavano per reggere il volante. Il giorno prima, il cherosene era terminato; il giorno prima ancora, Artie Wisco aveva cominciato a tossire e a sputare sangue. Ormai si trovavano a una trentina di chilometri dalla baracca. Avevano oltrepassato il punto dal quale non si torna indietro. Intorno a loro, tutto era desolato e grigio come le dita d'un impresario di pompe funebri. Non dovevo dare retta a quella pazza, pensò Paul, prendendo da Steve la bottiglia; ci farà ammazzare tutti! «Missione suicida, amico» ripeté Steve, con un ghigno storto sul viso segnato dalle ustioni. Sister sedeva accanto ad Artie, sul cassone scoperto del camioncino. Una coperta li proteggeva dal vento. Lei impugnava la carabina di Paul; Thorson le aveva insegnato a caricare e a sparare; e le aveva detto di far saltare la testa a ogni lupo che s'avvicinasse troppo, ma i quindici che li seguivano, si tenevano al riparo fra le carcasse dei veicoli; Sister decise di non sprecare proiettili. Lì accanto, protetti anche loro da una coperta, c'erano i Ramsey e il vecchio che aveva dimenticato il proprio nome. Quest'ultimo stringeva fra le mani la radio a onde corte, anche se le pile si erano esaurite da qualche giorno. Al di sopra del frastuono del motore, Sister udiva il respiro sofferente di Artie. L'uomo si teneva il fianco; aveva le labbra chiazzate di sangue, il viso stravolto dalla sofferenza. Avrebbe avuto una possibilità soltanto se avessero trovato aiuto medico. Sister aveva fatto troppa strada con lui, per lasciarlo morire senza lottare. La donna teneva il braccio intorno alla sacca da viaggio. La notte prima, aveva guardato le lucenti gemme del cerchio di vetro e aveva visto un'altra immagine bizzarra: sembrava un cartello stradale fiocamente illuminato da
un bagliore lontano nella notte. La scritta diceva: Benvenuti a Matheson, Kansas! Siamo forti, orgogliosi e in espansione! Aveva avuto l'impressione di camminare in sogno lungo un'autostrada che portava a una luce, riflessa dalle nubi basse; c'erano delle figure, intorno a lei, ma non riusciva a distinguerle. Poi, d'un tratto, la visione era svanita e lei si era trovata di nuovo nella baracca, seduta davanti al fuoco morente. Non aveva mai sentito parlare di Matheson, Kansas... se davvero esisteva una località con questo nome. Guardare nelle profondità del cerchio di vetro feceva ribollire l'immaginazione come brodo in pentola, ma non c'era motivo perché quel che ne usciva avesse legami con la realtà. E se nel Kansas c'era davvero una Matheson? Allora anche le altre visioni riguardavano luoghi reali? No! No, naturalmente! Un tempo ero pazza, si disse Sister, ma ora non lo sono più. Si tratta solo di fantasie create dai colori del cerchio di vetro. «Lo voglio» aveva detto la cosa travestita da Doyle Halland, in quella stanza insanguinata del New Jersey. «Lo voglio.» E invece ce l'ho io, pensò Sister. Io, fra tutte le persone possibili. Perché proprio io? Rispose lei stessa alla domanda: perché quando voglio tenermi una cosa, neppure il diavolo in persona può costringermi a mollarla, ecco perché. «Vado a Detroit!» disse Artie. Sorrideva, gli occhi lucidi di febbre. «È ora di tornare a casa, non ti pare?» «Starai di nuovo bene.» Gli prese la mano: la pelle sudata scottava. «Ti troveremo le medicine.» «Sarà davvero arrabbiata con me!» continuò Artie. «Dovevo telefonarle, quella sera. Sono uscito coi colleghi. Dovevo telefonarle. L'ho delusa.» «No, non l'hai delusa. Va tutto bene. Solo stai calmo e...» Mona Ramsey strillò. Un lupo dagli occhi gialli, della taglia d'un dobermann, era balzato sul paraurti posteriore e cercava di scavalcare la sponda. Le fauci della belva azzannarono l'aria. Sister non aveva il tempo di mirare e di sparare; si limitò a sbattere la canna del fucile sul cranio del lupo, che guaì e ricadde sull'autostrada. Sparì nei boschi prima che lei posasse il dito sul grilletto. Altri quattro, che seguivano il camioncino, si dispersero al coperto. Mona Ramsey farneticava istericamente. «Zitta!» le disse Sister. La ragazza si bloccò e la fissò a bocca aperta. «Mi rendi nervosa, cara» disse Sister. «E divento molto irritabile, quando sono nervosa.»
Il camioncino slittò sul ghiaccio, strisciò la fiancata sinistra contro i resti ammassati di sei auto, prima che Paul ne riprendesse il controllo. Paul si aprì un passaggio fra i relitti, ma l'autostrada davanti a lui era un cimitero d'auto. Altri animali si muovevano furtivamente ai margini della strada, guardavano il camioncino passare rombando. L'ago dell'indicatore di benzina toccò lo zero. «Andiamo avanti con i vapori residui» disse Paul; e si domandò quanto lontano sarebbero andati con il Johnny Walker. «Ehi! Guarda laggiù!» disse Steve Buchanan. Sulla destra, sopra gli alberi spogli spuntava l'insegna della Shell. Superata la curva, videro la stazione di servizio... abbandonata, con una scritta dipinta in bianco sulle vetrine: PENTITEVI! L'INFERNO È SULLA TERRA! Era proprio il caso di dirlo, pensò Paul, visto che la rampa di svincolo era bloccata dalle carcasse d'un autobus e di due altri veicoli distrutti. «Buone scarpe!» disse Artie. Sister distolse a forza lo sguardo dal messaggio — o ammonimento — dipinto sulle vetrine della stazione Shell. «Niente supera un paio di buone, comode scarpe da passeggio!» Rimase a corto di fiato e cominciò a tossire; con l'angolo della coperta Sister gli pulì le labbra. Il camioncino ansimò. Paul impallidì. «Forza, forza!» Avevano appena imboccato una salita; la cima distava quattrocento metri: se l'avessero raggiunta, avrebbero potuto scendere a motore spento dall'altra parte. Paul si piegò sul volante, come se volesse spingere il camioncino. Il motore ansimò, sul punto di esalare l'anima. Ma le ruote giravano ancora e il camioncino bene o male si arrampicava. «Forza!» gridò Paul, mentre il motore si fermava, tossiva... e moriva. Le ruote girarono ancora per una ventina di metri, sempre più piano, prima che il camioncino si arrestasse. Poi presero a girare all'indietro. Paul piantò il piede sul pedale del freno, tirò il freno a mano, mise la prima. Il camioncino si fermò a un centinaio di metri dalla cima della salita. Scese il silenzio. «È finita» disse Paul. Steve Buchanan con una mano stringeva la Magnum e con l'altra strangolava la bottiglia di whisky. «E ora, amico?» «Tre possibilità: restiamo qui seduti per il resto della vita, torniamo alla baracca, andiamo avanti a piedi.» Prese la bottiglia, uscì nel vento gelido, si affacciò alla sponda. «Il viaggio è terminato, amici. Siamo senza benzi-
na.» Scoccò un'occhiata a Sister. «Soddisfatta, signora?» «Abbiamo ancora le gambe.» «Già. E quelli, pure.» Con la testa indicò i due lupi fermi al limitare del bosco. «Nella corsa credo che ci batteranno, no?» «Quanto ci vuole per tornare alla baracca?» chiese Kevin Ramsey; con il braccio circondava le spalle della moglie. «Ce la facciamo, prima del buio?» «No.» Paul guardò di nuovo Sister. «Signora, sono stato un maledetto idiota a lasciarmi convincere. Ero sicuro che le stazioni di servizio fossero tutte chiuse!» «Allora perché sei venuto?» «Perché... perché volevo crederti. Anche sapendo che ti sbagliavi.» Notò un movimento sulla sinistra: altri tre lupi avanzavano fra i relitti nelle corsie che portavano a est. «Eravamo al sicuro, nella baracca. Sapevo che fuori non era rimasto niente!» «La gente che è passata da qui andava pure da qualche parte» replicò lei. «Tu saresti rimasto seduto nella baracca finché il culo non ti metteva radici.» «Dovevamo restare là!» piagnucolò Mona Ramsey. «Oh, Dio mio, qua fuori moriremo!» «Riesci a stare in piedi?» chiese Sister ad Artie. Lui annuì. «Ce la fai a camminare?» «Ho un buon paio di scarpe» gracchiò lui. Si alzò a sedere, il viso segnato dal dolore. «Sì, credo di sì.» Sister lo aiutò a mettersi in piedi, poi abbassò la sponda e quasi depose Artie sull'asfalto. Lui si strinse il fianco e si appoggiò al camioncino. Sister si mise a tracolla il fucile, depose a terra con cura la sacca da viaggio e scese dal cassone. Guardò negli occhi Paul Thorson. «Andiamo da quella parte» disse, indicando la salita. «Vieni con noi o resti qui?» Gli occhi di Sister erano color dell'acciaio contro il colorito giallastro del viso chiazzato di bruciature. Paul capì che era la donna più pazza, o la più dura, che avesse mai conosciuto. «Laggiù c'è solo niente di niente.» «Non c'è niente da dove siamo venuti.» Sister raccolse la sacca e, con Artie appoggiato alla spalla, si avviò verso la cima della salita. «Dammi il fucile» le disse Paul. Sister si fermò. «Il fucile» ripeté lui. «Così non ti serve. Prima che lo togli di tracolla, sei già polpette. Tieni.» Le porse la bottiglia. «Bevi un bel sorso. Beviamo tutti un sorso, prima di partire. E per l'amor di Dio, avvolgetevi nelle coperte. Riparatevi il viso
meglio che potete. Steve, prendi la coperta che c'è in cabina. Su, sbrighiamoci.» Sister bevve, aiutò Artie a mandare giù un sorso, restituì a Paul bottiglia e fucile. «Stiamo tutti in gruppo» disse lui. «Gruppo serrato... come i carri dei pionieri, quando gli indiani attaccavano. Chiaro?» Guardò per un attimo i lupi che convergevano su di loro, alzò il fucile, mirò, ne centrò uno al fianco. L'animale cadde a terra, azzannando l'aria; gli altri gli furono addosso e lo ridussero a brandelli. «Bene» disse Paul. «Andiamo per questa maledetta strada.» Il vento li frustò malignamente da ogni parte. Paul passò in testa e affidò a Steve Buchanan la retroguardia. Dopo neppure tre metri, un lupo balzò da dietro un'auto rovesciata e saettò davanti a loro. Paul alzò il fucile, ma l'animale aveva già trovato riparo dietro un'altra carcassa. «Guardaci le spalle!» gridò a Steve. Le belve spuntavano da tutte le parti. Steve ne contò otto lanciati all'inseguimento. Alzò il cane della Magnum; il cuore gli batteva come il tamburo dei Black Flag. Un altro lupo si avventò da sinistra contro Kelvin Ramsey. Paul si girò e sparò. Il proiettile sibilò sull'asfalto, ma la belva si ritirò. Subito altri due attaccarono da destra. «Attento!» gridò Sister; Paul si girò in tempo per fracassare con un colpo violento la zampa di un lupo. L'animale piroettò follemente, prima che altri quattro lo finissero. Paul sparò a ripetizione nel mucchio e ne colpì due, ma gli altri fuggirono. «Proiettili!» chiese. Sister ne pescò una manciata dalla scatola che lui le aveva fatto mettere nella sacca. Paul ricaricò in fretta, ma aveva dato i guanti a Mona Ramsey e le dita sudate si attaccavano al metallo gelido del fucile. Mise i proiettili rimasti nella tasca della giacca. Erano a settanta metri dalla cima della salita. Artie si appoggiò pesantemente contro Sister. Tossì sangue e barcollò, le gambe sul punto di piegarsi. «Puoi farcela» lo esortò Sister. «Forza, continua a muoverti.» «Stanco» disse lui. Scottava come un forno, emanava calore agli altri raccolti intorno. «Oh... sono... così...» Un lupo sporse la testa dal finestrino di una Oldsmobile incendiata e cercò di azzannare Artie. Sister lo scostò di scatto: le zanne si chiusero con uno schiocco rumoroso quasi quanto il colpo che Paul sparò un istante dopo. La testa del lupo schizzò sangue e frammenti di cervello, mentre l'animale scivolava dentro l'auto.
«...stanco» terminò Artie. Steve tenne d'occhio due lupi che arrivavano in corsa da dietro. Alzò la Magnum, reggendola a due mani; aveva i palmi scivolosi, anche se gelava. Un animale scartò di lato, ma l'altro proseguì dritto. Steve era sul punto di sparare, ma la belva arrivò a tre metri, ringhiò e balzò dietro il relitto di una Chevy. Steve avrebbe giurato che quel ringhio avesse pronunciato il suo nome. Intuì un movimento alla sua sinistra. Mentre si girava, capì che ormai era tardi. Urlò, quando il lupo lo urtò e lo sbatté a terra. La Magnum gli cadde di mano e scivolò sul ghiaccio, fuori portata. Un grosso lupo grigio argento lo azzannò alla caviglia destra e cominciò a trascinarlo verso il bosco. «Aiuto!» gridò Steve. «Aluto!» Il vecchio reagì più in fretta di Paul: tre passi di corsa, e calò violentemente la radio sul cranio del lupo. La radio esplose in un nugolo di fili e di transistor; il lupo mollò la caviglia di Steve. Paul gli sparò al torace e anche quel lupo fu assalito da altri tre. Steve zoppicò verso la Magnum, il vecchio fissò inorridito la radio fracassata. Steve lo spinse insieme agli altri e solo allora il vecchio lasciò cadere i pezzi della radio. Più di quindici lupi giravano intorno al gruppo, fermandosi solo per sbranare i moribondi o i feriti. Altri ne uscivano dai boschi. Sant'Iddio, pensò Paul, mentre l'esercito di lupi li circondava. Mirò il più vicinò. Una sagoma strisciò da sotto una carcassa, dal lato opposto del fucile. «Paul!» urlò Sister... e vide il lupo balzare su di lui, prima che lei potesse fare qualcosa. Paul cercò bruscamente di evitarlo, ma fu urtato e buttato a terra, schiacciato dalla belva che ringhiava e artigliava. Il lupo allungò le fauci verso la gola... e le serrò sul fucile che Paul aveva alzato a proteggersi il viso. Sister lasciò Artie per avventarsi sul lupo e lo prese a calci nelle costole. Il lupo lasciò il fucile, cercò di azzannarle il piede, si tese per balzarle addosso. Sister vide gli occhi: folli, insolenti, simili a quelli di Doyle Halland. Il lupo balzò. Ci furono due esplosioni che parvero cannonate: i proiettili della Magnum di Steve quasi tagliarono in due il lupo. Sister si chinò, mentre il lupo le passava sopra la testa e cercava ancora di mordere pur lasciando una scia di visceri. Sister trasse un sospiro e si girò verso Artie: due lupi lo assalivano insieme.
«No!» gridò, mentre Artie cadeva. Colpì con la sacca uno dei due e lo sbatté a due metri. Il secondo azzannò la gamba di Artie e cominciò a trascinarlo. Mona Ramsey mandò un urlo e abbandonò il gruppo; passò davanti a Steve, correndo nella direzione da cui erano venuti. Steve cercò d'afferrarla, mancò la presa. Kevin le corse dietro, l'afferrò per la cintola e la sollevò da terra, proprio mentre un lupo balzava da sotto un relitto e le azzannava il piede sinistro. Kevin e la belva si disputarono Mona in un fatale tiro alla fune; la donna urlava e si dibatteva, altri lupi sbucavano dal bosco. Steve esitò a sparare, per paura di colpire l'uomo o la donna. Ed era ancora come in trance, quando un lupo di trenta chili lo urtò alla spalla, con la forza d'un camion diesel. Steve sentì lo schiocco dell'osso che si spezzava e giacque torcendosi di dolore, mentre il lupo si girava ad azzannargli la mano con la rivoltella. Ora le belve erano dappertutto. Paul sparò, mancò il colpo, fu costretto a schivare una sagoma che volava verso la sua testa. Sister vibrò la sacca contro il lupo che azzannava la gamba di Artie, lo colpì alla testa e lo ricacciò indietro. Kevin Ramsey perdette il tiro alla fune: il lupo gli strappò Mona, ma fu assalito da un altro che voleva la stessa preda. I due si azzuffarono, mentre Mona tentava freneticamente di strisciare via. Paul sparò al lupo che stava per balzare addosso a Sister e lo colpì, ma subito dopo fu assalito alle spalle e sbattuto bocconi sull'asfalto. Il fucile volò via. Da direzioni diverse, tre lupi puntarono su Sister e Artie. Il vecchio prendeva a calci l'animale che azzannava la mano di Steve. Paul era a terra, con il viso insanguinato e sulla schiena una belva che cercava di lacerargli il giaccone di pelle. Sarebbero morti, pensò Sister, a meno di dieci metri dalla cima della collina. Sollevò Artie come un sacco di panni sporchi. I tre lupi avanzarono lentamente, prendendo tempo. Sister si preparò all'ultima difesa. Al di sopra dei latrati e delle grida, udì un brontolio sordo e profondo. Lanciò un'occhiata alla cima dell'altura. Il rumore proveniva dall'altro lato. Certo si trattava di un'orda di lupi venuti a reclamare la loro parte, si disse... o di una belva colossale, risvegliata dalla sua tana. «Be', fatevi avanti!» gridò ai tre lupi che strisciavano verso di lei. Le belve esitarono, forse perplesse per la sfida; e Sister sentì la follia insinuarsi di nuovo nel suo cervello. «Venite, bastardi...» Con rombo di motore e sferragliare di cingoli, uno spazzaneve giallo
comparve in cima alla collina. Un uomo in giacca a vento verde con cappuccio si teneva aggrappato all'esterno della cabina a vetri e impugnava un fucile con mirino telescopico. Dietro lo spazzaneve veniva una jeep bianca, come quelle usate dai postini. Il guidatore girò intorno ai relitti, mentre un uomo armato di fucile si sporgeva dal finestrino, gridando e sparando in aria. Quello sullo spazzaneve prese con cura la mira e sparò. Il lupo di centro cadde a terra e gli altri due girarono la coda. La belva sulla schiena di Paul alzò il muso, vide i veicoli in arrivo e fuggì. Un altro proiettile rimbalzò sull'asfalto accanto ai due lupi che si disputavano Mona Ramsey, e anche quelli fuggirono verso i boschi. Mona corse dal marito e gli gettò le braccia al collo. Il lupo che sbranava il braccio di Steve diede un ultimo strattone e fuggì, mentre un proiettile gli sibilava sulla testa. Steve si alzò a sedere. «Bastardi! Bastardi!» gridava con voce acuta, isterica. La jeep bianca si fermò slittando. Paul, che cercava ancora di riprendere fiato, si alzò sulle ginocchia; aveva lacerazioni alle mascelle e alla fronte, perdeva sangue dal naso rotto. Il guidatore e l'uomo con il fucile uscirono dalla jeep postale. Sullo spazzaneve, il cecchino continuò a sparare ai lupi in fuga verso i boschi: ne colpì tre, prima che le belve abbandonassero l'autostrada. Il guidatore della jeep era un uomo alto e rubizzo, che indossava calzoni di tela sotto la giacca orlata di pelliccia. Aveva in testa un berretto con la réclame della birra Stroh. Mosse gli occhi castani a esaminare il gruppetto di superstiti malconci. Guardò i lupi morti e moribondi, borbottò qualcosa. Poi infilò nella tasca dei calzoni le dita sciupate dal lavoro pesante e ne trasse una cosa che offrì a Paul Thorson. «Gomma?» disse. Paul guardò il pacchetto di chewing-gum Wrigley's Spearmint e non poté fare a meno di ridere. Sister era stordita. Oltrepassò la jeep bianca, portando ancora in spalla Artie. Le scarpe di Artie grattavano l'asfalto. Sister passò davanti allo spazzaneve e raggiunse la sommità della collina. In basso sulla destra, fra gli alberi morti, il fumo s'alzava dal camino di case in legno, lungo le vie di un piccolo villaggio. Sister vide il campanile di una chiesa, i camion dell'esercito degli Stati Uniti, parcheggiati in un campo da softball, la bandiera della Croce Rossa penzolante dal fianco di un edificio, tende e auto e camper a migliaia sparsi nelle vie del villaggio e fra le alture circostanti. Un cartello stradale, appena al di là della collina, annunciava: Prima uscita, Homewood.
Artie cominciò a scivolare a terra. «No» disse Sister, con fermezza, tenendolo in piedi. Lo sorreggeva ancora, quando vennero a farli salire sulla jeep bianca. 44 Alla luce del lume a petrolio, nel bagno della roulotte Airstream, il colonnello Macklin si ammirò allo specchio. La divisa grigioverde nazista gli andava un po' stretta sul petto e in vita, ma le maniche e i calzoni erano della lunghezza giusta. Macklin portava alla cintura una fondina di cuoio nero con una Luger carica. Calzava stivali chiodati nazisti... anch'essi un briciolo troppo stretti, ma era deciso a tenerli. Medaglie e nastrini, di cui lui non conosceva il significato, decoravano la giubba e gli davano un aspetto assai solenne. Il guardaroba del defunto Freddie Kempka conteneva divise naziste, giubbotti antiproiettile, stivali, fondine e via dicendo. Una bandiera nazista era appesa alla parete, sopra il letto; nell'armadietto per libri erano allineati volumi con titoli come Ascesa e caduta del Quarto Reich, Strategie e manovre militari, Guerra medievale e una Storia della tortura. Roland si era impadronito dei libri e li divorava con autentica passione. Sheila Fontana dormiva nella seconda camera da letto e in genere se ne stava per conto suo, tranne quando Macklin la chiamava; in questi casi, pareva contenta di fare il proprio dovere, anche se rimaneva fredda e passiva; diverse volte Macklin l'aveva udita piangere di notte, come se si svegliasse da un brutto sogno. Alcuni giorni era trascorsi da quando avevano preso possesso della roulotte. Macklin aveva fatto l'inventario di tutto ciò che Freddie Kempka aveva raccolto: viveri assortiti e bevande in quantità tale da sfamare un esercito, gran numero di bottiglie d'acqua e di scatolame... ma Macklin e Roland erano più interessati alle armi. La stanza da letto di Kempka era un piccolo arsenale, con mitragliatrici, carabine, pistole, una cassa di razzi, bombe fumogene e granate dirompenti, munizioni in scatole e sacchi e caricatori, disseminate dappertutto come oro nella tesoreria reale. Macklin si esaminò il viso. La barba cresceva, ma era così grigia da farlo sembrare vecchio. I capelli erano troppo lunghi e incolti; preferiva il taglio a spazzola. Decise di utilizzare il rasoio a mano e il paio di forbici, appartenuti a Kempka. Si sporse verso lo specchio: negli occhi infossati conservava il ricordo
del dolore che l'aveva travolto nel Grande Lago Salato... un dolore così straziante da strappargli di dosso la vecchia pelle morta in cui fino a quel momento era stato prigioniero. Si sentiva rinnovato, risorto, vivo: negli occhi azzurro ghiaccio rivide il Jimbo Macklin d'un tempo, giovane e scattante. Il Soldato Ombra, pensò, era certo orgoglioso di lui, perché era di nuovo un uomo. Ancora non si era abituato alla mancanza della destra, ma già imparava a usare con la sinistra il mitra o il fucile. In fin dei conti, per fare pratica aveva a disposizione tutto il tempo del mondo. La ferita, fasciata con strisce di lenzuolo, spurgava ancora, ma non gli dava più quel senso di pesantezza. L'acqua salata aveva bruciato l'infezione. Era davvero elegante, si disse; davvero... regale, in divisa nazista. Forse quell'uniforme era appartenuta a un colonnello tedesco. La divisa, in ottime condizioni, presentava solo qualche tannatura nella fodera di seta. Evidentemente Kempka si era preso grande cura della sua collezione. Macklin credette di vedere sul proprio viso una maggiore quantità di rughe, ma anche un'aria da lupo, pericolosa. Calcolò d'avere perso una decina di chili o più, dal disastro di Casa Terra. Tuttavia, c'era un piccolo particolare, nel suo viso, che lo preoccupava... Si toccò una sorta di crosta marrone, grossa quanto un quarto di dollaro, proprio sotto l'occhio sinistro. Cercò di grattarla via, ma era ben attaccata alla pelle. Sulla fronte aveva quattro croste grosse quanto un dieci centesimi, che sulle prime aveva scambiato per verruche: nemmeno queste si staccavano. Forse si trattava di cancro della pelle, provocato dalle radiazioni. Aveva notato un'escrescenza analoga, della grossezza di una monetina, sul mento di Roland. Bene, avrebbe preso il rasoio e le avrebbe tagliate via, durante la rasatura: la sua pelle era troppo dura, per il cancro. Però era strano che le piccole croste rotonde gli fossero spuntate solo sul viso. Non sulla mano, sulle braccia, su altre parti. Solo sul viso. Bussarono alla porta della roulotte. Macklin lasciò lo stanzino da bagno e andò ad aprire. Roland e Lawry, entrambi armati di fucile, erano tornati dalla ricognizione eseguita insieme con altri tre uomini dal fisico da soldato. La notte prima, una delle sentinelle poste lungo il perimetro del campo aveva visto lampeggiare delle luci, verso sud, cinque o sei chilometri nel deserto. «Due roulotte» riferì Lawry, cercando di non fissare troppo la divisa nazista del colonnello. Kempka non l'aveva mai potuta indossare, perché troppo grasso. «Tirate da un pulmino Chevy e da una Pontiac. Tutti i vei-
coli parevano in ottimo stato.» «Quante persone?» domandò Macklin, aprendo una bottiglia d'acqua e offrendola a Lawry. «Abbiamo visto sedici individui» disse Roland. «Sei donne, otto uomini e due bambini. Pare che abbiano abbondanza di benzina, cibo e acqua; ma tutti hanno cicatrici da ustioni. Due uomini camminano a fatica.» «Hanno armi da fuoco?» «Signorsì.» Roland prese da Lawry la bottiglia d'acqua e bevve. Pensava che la divisa facesse un magnifico effetto indosso al Re e rimpiangeva che non ce ne fossero della sua taglia. «Uno degli uomini aveva un fucile.» «Solo un fucile? Secondo te, perché non sono venuti qui? Hanno certo visto le nostre luci.» «Forse hanno paura. Forse temono di essere derubati.» Macklin riprese la bottiglia, la tappò e la mise da parte. Una porta si aprì e si richiuse: Sheila Fontana percorse il corridoio ed entrò nella stanza. Si fermò di colpo, nel vedere la divisa. «Le roulotte e i veicoli ci servirebbero» dichiarò Macklin. «Ma non voglio gente con cicatrici da ustioni, nel nostro accampamento.» «Colonnello... ci sono già più di trenta persone rimaste ustionate nel... lo sa, in cosa» intervenne Lawry. «Voglio dire... che importanza ha?» «Ho riflettuto molto su questo, caporale Lawry» rispose Macklin... e anche se non era vero, la frase faceva un certo effetto. «Penso che la gente con cicatrici da ustioni... con cheloidi...» precisò, ricordando il termine scientifico per indicare le bruciature prodotte da radiazioni atomiche «sia dannosa per il morale degli altri. Non vogliamo ricordare le brutture, giusto? E poi la gente ustionata non si tiene pulita come noi, perché si vergogna del proprio aspetto ed è già demoralizzata.» Si ritrovò a fissare la crosta sul mento di Roland, grossa quanto un quarto di dollaro. Gli pareva che fosse più piccola, solo qualche giorno prima. Spostò lo sguardo. C'erano altre tre piccole croste lungo l'attaccatura dei capelli di Roland. «Gli individui segnati finiranno per diffondere malattie» disse al caporale Lawry. Esaminò il viso di Lawry, ma non vi trovò nessuna di quelle croste. «Abbiamo già il nostro bel da fare, per tenere lontano dal campo le malattie. Perciò... domani mattina radunerete tutti quelli segnati da ustioni e li porterete via dal campo. Non voglio che vi tornino. Capito?» Lawry sorrise: pensava che il colonnello scherzasse. Ma gli occhi di Macklin trapassarono i suoi. «Signore... non vorrà dire... ucciderli tutti, vero?»
«Sì, è proprio quel che voglio dire.» «Ma... perché non bandirli? Cioè... dire che se ne vadano da un'altra parte?» «Perché» spiegò Roland Croninger, che aveva capito il nocciolo della questione «non se ne andrebbero. Di notte tornerebbero di nascosto nel campo per rubare cibo e acqua. Forse aiuterebbero le larve ad assalirei.» «Giusto» convenne Macklin. «Perciò, questa è la nuova legge del campo: qui non entra nessuno che abbia segni di ustioni. Domattina, tu porterai via tutti quelli segnati, e loro non torneranno. Roland verrà con te.» «Posso fare da solo!» «Roland verrà con te» disse Macklin, a voce bassa, ma ferma; e Judd Lawry abbassò lo sguardo. «Ancora una cosa: voglio che domani tu organizzi una squadra per distribuire al mio popolo un po' di quella roba.» Con la testa indicò i cartoni di bevande analcoliche e i sacchetti di patatine fritte, biscotti e focacce. Al mio popolo, si rese conto d'avere detto. «Voglio che sia felice. Provvedi appena terminato il primo compito.» «E quella gente con le roulotte?» Macklin rifletté. Oh, il Soldato Ombra sarebbe stato così orgoglioso di lui! «Quanti soldati ti occorrono per impadronirti di quei veicoli?» «Non so. Quattro o cinque, penso.» «Bene. Allora vai a prenderli e portali qui... ma senza persone. Non ci serve gente che non sia in buona salute.» «Che bisogno abbiamo di quelle roulotte?» intervenne Sheila. «Stiamo già bene così!» Non riusciva a guardare il viso di Judd Lawry, perché l'uomo compariva nei suoi incubi, insieme con un neonato che non smetteva di piangere; nei suoi sogni, un cadavere putrefatto di nome Rudy strisciava nella polvere fin dentro il suo letto. E lei pensava che sarebbe presto impazzita. Macklin si girò verso di lei. «Non staremo qui per sempre!» disse. «Appena saremo organizzati, forti nel fisico e nel morale, ce ne andremo.» «Ce ne andremo?» Sheila scoppiò a ridere. «Ce ne andremo dove, eroe di guerra? Sulla maledetta luna?» «No. Dall'altra parte del paese. Forse a est. Ci riforniremo per strada.» «Vuoi dire... che ci trasferiremo tutti a est? A che scopo? Non ci sono posti dove andare.» «Le città» rispose Macklin. «O quel che ne resta. I paesi. I villaggi. Edificheremo le nostre città, se ne avremo voglia. Ricostruiremo ogni cosa come avrebbe dovuto essere fin dall'inizio, prima di questa merda.»
«Sei pazzo, amico» disse Sheila. «È finita. Non riesci a capirlo?» «Non è finito un bel niente. Comincia solo ora. Ricostruiremo tutto, ma meglio di com'era. Avremo legge e ordine, imporremo le leggi...» «Quali leggi? Le tue? Quelle del ragazzo? Chi farà le leggi?» «L'uomo che avrà più armi» disse Roland. Il colonnello Macklin si rivolse a Judd Lawry. «Tu puoi andare» disse. «Porta qui le roulotte entro due ore.» Lawry uscì. Fuori, sogghignò al cielo buio e scosse la testa. Le stronzate militaresche avevano dato alla testa al colonnello... ma forse aveva ragione a liberarsi di chi aveva segni di ustioni. Tanto, a lui non piaceva guardare le bruciature e ricordare l'olocausto. Le cicatrici erano brutte. Pensò uno slogan: Mantieni bella l'America, uccidi gli sfregiati. Andò a scegliere quattro uomini per la missione, ma sapeva che sarebbe stato un gioco da ragazzi. Non si era mai sentito così importante: prima del disastro, era un semplice impiegato d'un negozio d'armi; adesso era caporale nell'esercito di Macklin! Come svegliarsi in una nuova pelle. «Non è finito un bel niente» aveva detto il colonnello Macklin. «Comincia solo ora.» A Lawry piacque il suono di quelle parole. Nella roulotte, Sheila Fontana si avvicinò a Macklin e lo squadrò dall'alto in basso. Vide la svastica nazista su alcuni capi di vestiario. «Come dobbiamo cominciare a chiamarti? Adolf?» Macklin mosse di scatto la mano e l'afferrò per il mento. Gli occhi lampeggiarono d'ira. E Sheila capì d'essere andata troppo oltre. La forza di quella mano minacciava di fracassarle l'osso. «Se qui c'è qualcosa che non ti piace» disse Macklin, freddo «sai dov'è la porta. E se non stai attenta a come parli, ti getto alle larve. Saranno felici d'avere compagnia. Giusto, Roland?» Roland scrollò le spalle. Il Re faceva male a Sheila: la cosa lo infastidiva. Macklin lasciò la donna. «Sei una sciocca» disse. «Non vedi al di là del tuo naso.» Sheila si massaggiò la mascella. «Amico, il gioco è finito! Parli di ricostruire e di tutte le altre stronzate... ma siamo fortunati ad avere un vaso dove pisciare!» «Vedrai.» Esaminò il viso di Sheila per vedere se c'erano crosticine. «Ho dei piani. Piani importanti. Vedrai.» Non vide segni di cancro, sul viso della donna. Lei notò l'attento esame. «Che c'è? Mi sono lavata i capelli ieri.» «Lavali di nuovo» disse lui. «Puzzano.» Guardò Roland. Fu colpito da
un'ispirazione. «L'Esercito d'Eccellenza» disse. «Come suona?» «Bene.» A Roland la frase piacque: aveva un suono grandioso, napoleonico. «È bello.» «L'Esercito d'Eccellenza» ripeté Macklin. «Abbiamo molta strada da percorrere. Dovremo trovare altri uomini sani... e altre donne. Ci servono altri veicoli, dovremo portare con noi cibo e acqua. Ci riusciremo, se dedicheremo cervello e muscoli al lavoro.» Il tono di voce si alzò per l'entusiasmo. «Ricostruiremo il mondo, ma migliore di come sia mai stato!» Sheila pensò che era impazzito. Esercito d'Eccellenza, col cazzo! Ma si morsicò la lingua. Forse era meglio lasciare che Macklin sbollisse. «La gente mi seguirà» continuò lui. «Finché offrirò cibo e protezione, tutti mi seguiranno e faranno qualsiasi cosa dica. Non devono amarmi... non devono nemmeno trovarmi simpatico. Però mi seguiranno lo stesso, perché mi rispetteranno. Non ho ragione?» «Signorsì» rispose Roland. «La gente vuole sentirsi dire cosa fare. Non vuole prendere decisioni.» Anche a lui gli occhi brillavano d'eccitazione. Scorgeva il vasto quadro che il Re iniziava a dipingere... un imponente Esercito d'Eccellenza in marcia nel paese, a piedi, in auto, in roulotte, che invadeva e assorbiva altri accampamenti e altre comunità, che s'irrobustiva, ma solo con uomini e donne in salute, privi di segni, disposti a ricostruire l'America. Sogghignò; Cavaliere del Re: oh, che magnifico gioco era diventato! «La gente mi seguirà» disse il colonnello Macklin, annuendo con enfasi. «La costringerò a seguirmi! Insegnerò a tutti la disciplina e l'autocontrollo, faranno quel che dirò io. Giusto?» I suoi occhi mandarono lampi di fuoco verso Sheila. La donna esitò. L'eroe di guerra e il ragazzo la fissavano. Pensò al letto caldo, a tutto il cibo e alle armi che erano lì; e poi pensò alla gelida terra delle larve e alle creature che vi strisciavano nel buio. «Giusto» disse. «Tutto quel che dirai tu.» Prima che fossero trascorse due ore, Lawry e la sua squadra d'assalto tornarono con il pulmino Chevy, la Pontiac e le due roulotte. Il piccolo accampamento era stato colto di sorpresa; non c'erano stati feriti, né vittime, nell'Esercito d'Eccellenza di Macklin. Lawry consegnò diversi zaini pieni di cibo in scatola e altre bottiglie d'acqua, più tre bidoni di benzina e un cartone d'olio per motori. Si tolse di tasca orologi da polso, anelli di brillanti e un portasoldi pieno di biglietti da venti e da cinquanta. Macklin gli lasciò tenere un orologio e gli disse di distribuire razioni extra agli uomini
della squadra. Offrì a Sheila Fontana l'anello con i brillanti più grossi; per un attimo la donna lo guardò scintillare sul palmo di Macklin, poi lo prese. Dentro c'era un'iscrizione: Da Daniela Lisa — con eterno amore. Solo dopo averlo messo al dito, mentre lo ammirava sotto la luce della lampada, notò che nel castone erano rimasti piccoli grumi di sangue rappreso che conferivano ai brillanti una sfumatura sporca. Sotto il sedile posteriore della Pontiac Roland trovò una carta stradale dell'Utah e nel vano portaoggetti, alcune biro Flair e una bussola. Diede il bottino al Re; e Macklin lo ricompensò con una medaglia adorna di svastica. Roland se l'appuntò subito alla camicia. Il colonnello Macklin allargò la cartina sul tavolo del suo quartier generale e si sedette a studiarla. Dopo qualche momento di riflessione, prese una biro rossa e tracciò con grafia incerta una freccia rivolta a est. «Il mio uomo migliore» disse il Soldato Ombra, sporgendosi sopra la spalla di Macklin. E il mattino dopo, sotto dense nubi grigie che correvano lentamente verso est, Roland, Lawry e dieci soldati scelti scortarono trentasei fra uomini, donne e bambini, tutti segnati da ustioni, fuori del campo fino al limitare della terra delle larve. Terminata la sparatoria, le larve emersero dalle loro tane e corsero a reclamare i cadaveri. 45 Nel Nebraska, sotto una tempesta di polvere, dopo avere seguito per tre giorni le rotaie della ferrovia, Swan e Josh trovarono i rottami del treno. Li videro solo quando andarono quasi a sbatterci contro. Carri ferroviari sparsi dappertutto, alcuni addosso ad altri. Gran parte dei carri era a pezzi, tranne il vagone del personale viaggiante e un paio di merci. Swan smontò da cavallo e seguì Josh che si avvicinava con prudenza ai rottami. «Attenta ai chiodi» l'ammonì Josh e lei annuì. Killer, color del gesso per la polvere, precedette Josh, annusando cautamente le assi scheggiate su cui posava le zampe. Josh si schermò gli occhi e guardò la fiancata di un carro merci. La tempesta aveva graffiato via quasi tutta la vernice, ma si distingueva ancora una scena di pagliacci, leoni e tre piste sotto un grande tendone. Lettere rosse, ornate di svolazzi, dicevano: CIRCO RYDELL. «È il treno di un circo!» esclamò. «Probabilmente andavano a piantare il
tendone da qualche parte, quando il treno è stato sbattuto fuori delle rotaie.» Indicò il vagone di servizio. «Vediamo cosa c'è li dentro.» Nelle ultime tre notti avevano dormito in fienili e in fattorie abbandonate; le rotaie li avevano condotti alla periferia di una cittadina di medie dimensioni... ma il vento portava un tale lezzo di putrefazione che non avevano osato entrare in paese. Dopo un largo giro, avevano ripreso a seguire le rotaie nella pianura aperta. La porta del vagone di servizio non era chiusa a catenaccio. L'interno era buio, ma almeno costituiva un riparo. Josh si disse che il cavallo e il terrier avrebbero saputo arrangiarsi ed entrò. Swan lo seguì e si chiuse la porta alle spalle. Josh urtò contro un tavolino, provocando un tintinnio di boccette e di vasetti. Man mano che avanzava, l'aria era più calda; a destra Josh distinse i contorni di una branda. Con le dita sfiorò metallo caldo... una stufa di ghisa. «C'era qualcuno» disse. «E se n'è andato da poco, anche.» Trovò la grata, l'aprì. Fra la cenere, un pezzetto di brace splendeva come occhio di tigre. Continuò a esplorare a tentoni il vagone di servizio, quasi inciampò in un fagotto di coperte in un angolo, tornò al tavolino. Cominciava ad abituare gli occhi alla luce fioca e giallastra che entrava dalle finestrelle; scoprì un mozzicone di candela incollato a un piattino e una scatola di fiammiferi da cucina. Accese la candela e la luce illuminò il vagone. Swan vide sul ripiano quelli che ritenne matite colorate e rossetti. Una parrucca rossa e riccia era posata sull'apposito sostegno. Davanti alla sedia pieghevole c'era una cassa di legno, grossa più o meno quanto una scatola da scarpe, decorata con complicati intagli a forma di lucertola. Gli occhi di vetro sfaccettato brillavano alla luce della candela. Accanto alla branda Josh trovò una scatola aperta di cibo per cani Gravy Train e un contenitore in plastica che mandò rumore d'acqua quando lo urtò con il piede. Swan si accostò alla stufa. Nell'attaccapanni a parete c'erano abiti dai colori vistosi, con lustrini, bottoni più grandi del normale, risvolti flosci. Per terra, un mucchio di giornali, pezzi di legno e di carbone pronti per il fuoco. Swan guardò il mucchio di coperte nell'angolo lontano. C'era anche un'altra cosa, là... una cosa che sporgeva in parte. «Josh? E quello che cos'è?» Lui avvicinò la candela. La luce colpì il sorriso rigido di una faccia da clown.
Sulle prime Josh rimase sorpreso, ma poi capì. «Un fantoccio! È un fantoccio a grandezza naturale!» Il clown, in posizione seduta, aveva il cerone sul viso e labbra d'un rosso brillante. Portava una parrucca verde e teneva gli occhi chiusi. Josh si chinò a toccargli la spalla. Si sentì mancare il cuore. Con cautela toccò la guancia del clown, tolse un poco di cerone. Sotto, c'era pelle giallastra. Il cadavere era freddo e irrigidito: il clown era morto da almeno due giorni. Alle loro spalle la porta si spalancò all'improvviso, lasciando entrare un turbine di polvere. Josh si girò di scatto, si mise davanti a Swan per proteggerla da chiunque — o da qualsiasi cosa — entrasse. Nel vano era ferma una figura, ma lui era accecato dalla polvere negli occhi. La figura esitò. In mano reggeva un badile. Ci fu un lungo silenzio carico di tensione, poi l'uomo sulla porta disse: «Salve», con l'inflessione strascicata degli stati dell'ovest. «Siete qui da tanto?» Chiuse la porta. Sotto gli occhi diffidenti di Josh, attraversò il locale facendo risuonare sull'impiantito di legno gli stivali da cowboy. Appoggiò il badile contro la parete e si tolse il fazzoletto dai colori vivaci che gli copriva naso e bocca. «Ebbene? Parlate inglese oppure devo pensare da solo alla conversazione?» Rimase in silenzio per un attimo, poi si rispose da solo, con voce acuta e beffarda: «Sissignore, certo che parliamo inglese, ma gli occhi ci stanno per schizzare dalla testa e se muoviamo la lingua voleranno via come uova in camicia». «Sappiamo parlare» disse Josh. «Solo che... ci ha sorpresi.» «Lo credo. Ma l'ultima volta che ho varcato quella porta, qui c'era solo Leroy, quindi anch'io sono un po' sorpreso.» Si tolse il cappello da cowboy e lo sbatté contro la gamba dei jeans, sollevando una nuvoletta di polvere. Indicò il clown nell'angolo. «Quello è Leroy. Leroy Satterwaite. Morto un paio di notti fa. Era l'ultimo. Sono stato fuori a scavargli la fossa.» «L'ultimo?» lo sollecitò Josh. «Già. L'ultimo della gente del circo. Uno dei migliori clown mai visti. Amico, avrebbe fatto sorridere una pietra.» Sospirò e scrollò le spalle. «Be', ormai è morto. Era l'ultimo... a parte me, voglio dire.» Josh mosse un passo verso l'uomo e sollevò il piattino con la candela per illuminargli il viso. L'uomo era magro e allampanato. Il viso dalla barba ispida e brizzolata
era lungo e stretto come se fosse stato compresso da una morsa. I capelli ricci, castano chiaro, gli ricadevano sulla fronte alta e gli arrivavano quasi alle folte sopracciglia scure; gli occhi erano grandi e lucenti, di un colore fra il nocciola e il giallo topazio. Il naso era lungo e sottile, in carattere con il resto, ma la bocca era il tratto saliente del viso: labbra grosse, mobili e carnose, fatte per atteggiarsi a grugni e ghigni. Josh non aveva più visto labbra simili da quando in un ristorante della Georgia gli avevano servito un pesce persico. L'uomo indossava una giacca di tela di jeans, chiaramente fin troppo usata, camicia di flanella blu scuro, calzoni di tela. Mosse gli occhi vivaci ed espressivi da Josh a Swan, si soffermò qualche secondo sulla bambina, li riportò su Josh. «Mi chiamo Rusty Weathers» disse. «E voi chi diavolo siete? E come siete capitati qui?» «Josh Hutchins. E Swan Prescott. Da tre giorni non tocchiamo acqua e cibo. Può aiutarci?» Rusty Weathers indicò il contenitore di plastica. «Servitevi. È acqua d'un ruscello a duecento metri dalla ferrovia. Non so quanto sia pulita, ma la bevo da circa...» Corrugò la fronte, si avvicinò alla parete e passò il dito sulle tacche incise con il temperino. «Quarantun giorni, a occhio e croce.» Josh aprì il contenitore, annusò l'acqua e provò a bere un sorso. A parte il gusto oleoso, sembrava normale. Bevve di nuovo e passò il contenitore a Swan. «Come cibo ho solo Gravy Train» disse Rusty. «Un mio amico e sua moglie facevano una scenetta con i cani. Barboncini che saltavano i cerchi e cose del genere.» Gettò il cappello da cowboy sopra la parrucca rossa, tirò a sé la sedia pieghevole, la girò, si sedette incrociando le braccia sullo schienale. «Ce la siamo vista brutta, credetemi. Il treno procedeva tranquillamente, quando a un tratto il cielo divenne buio come un pozzo di miniera e il vento cominciò a spingere via dai binari i vagoni. Abbiamo provato le trombe d'aria, in Oklahoma; ma quel maledetto tornado era di un'altra categoria!» Scosse la testa per liberarsi dei ricordi. «Ha delle sigarette?» «No, mi spiace.» «Maledizione! Amico, ne mangerei una stecca, in questo momento!» Socchiuse gli occhi, esaminò in silenzio Josh e Swan. «Voi due avete l'aspetto di chi è stato calpestato da una mandria di tori Brahma. Non sentite dolore?» «Ora non più» disse Josh. «Cosa succede, nel mondo? Lungo questa ferrovia non passano treni da quarantun giorni. Soffia polvere e basta. Cos'è successo?»
«Guerra atomica. Credo che siano cadute bombe dappertutto. Prima sulle città, probabilmente. Da quel che abbiamo visto finora, mi sa che non è rimasto molto.» «Già.» Rusty annuì, lo sguardo vacuo. «Immaginavo una cosa del genere. Qualche giorno dopo il disastro, io e alcuni altri ci siamo messi in cammino per cercare aiuto. Be', allora la polvere era più fitta e il vento più intenso: siamo stati costretti a tornare indietro dopo venti metri. Abbiamo aspettato. Ma la tempesta non è cessata e non è venuto nessuno.» Fissò il finestrino. «Nicky Rinaldi... il domatore di leoni... e Stan Tembrello decisero di seguire i binari. Questo, un mese fa. Leroy aveva ferite interne, così sono rimasto con lui e con Roger... eravamo i clown, i Tre Moschettieri. Oh, era un gran bel numero! Facevamo ridere davvero!» All'improvviso gli si inumidirono gli occhi e ci volle un momento prima che riuscisse a continuare. «Be'» riprese infine «con i superstiti cominciai a scavare fosse. Il disastro uccise subito un mucchio di gente e da tutte le parti c'erano animali morti. Più avanti sui binari c'è la carcassa d'un elefante, ma ormai è tutta rinsecchita. Amico, non puoi credere che tanfo faceva! Ma chi ha la forza di scavare la fossa a un elefante? C'è un regolare cimitero da circo, poco distante da qui.» Accennò vagamente a destra. «Il terriccio è più morbido, lontano dai binari. Ritrovai un po' della mia roba e mi trasferii qui dentro con Leroy, Roger, e alcuni altri. Ritrovai la cassetta per il trucco.» Toccò la scatola di legno con le lucertole intagliate. «Trovai anche la mia giacca magica.» Indicò l'attaccapanni. «Non ero ferito gravemente. Solo lividi su lividi; e questo.» Alzò il labbrone superiore per mostrare il vuoto lasciato da un incisivo. «Ma stavo bene. Poi... tutti cominciarono a morire.» Fissò la candela. «Fu la cosa peggiore» disse. «Gente che fino al giorno prima stava benissimo, il giorno dopo era morta. Una notte...«Gli occhi si velarono come uno stagno ghiacciato e lui fu di nuovo preda dei ricordi. «Una notte mi svegliai tremando di freddo. La stufa era accesa, qui dentro faceva caldo... ma io tremavo. E, giuro su Dio, capii che l'ombra della Morte era entrata, passava da persona a persona, studiava chi prendere. Qualsiasi cosa fosse, mi passò tanto vicino da gelarmi le ossa... e andò oltre. L'indomani, Roger era morto... e solo il giorno prima raccontava barzellette. Sa cosa disse Leroy? Disse: "Rusty, mettiamogli una faccia allegra, al figlio di puttana, prima di mandarlo via!" Allora lo truccai, ma non per mancargli di rispetto, oh, no!» Rusty scosse la testa. «Gli volevamo bene, al vecchio briccone. Gli avevamo solo dato la faccia nella quale si
trovava meglio. Poi io ed Eddie Roscoe siamo usciti a sappellirlo. Avrò scavato cento fosse nel giro d'una settimana, finché non restammo solo io e Leroy.» Sorrise debolmente, guardando nell'angolo, al di là di Swan e di Josh. «Hai una bella cera, vecchio mio! Diavolo, pensavo che sarei stato il primo a piantarvi!» «Non c'è più nessuno, a parte lei?» domandò Swan. «Solo io. L'ultimo del Circo Rydell.» Guardò Josh. «Chi ha vinto?» «Chi ha vinto cosa?» «La guerra. Chi ha vinto la guerra? Noi o i russi?» «Non so. Se la Russia è ridotta come quel che Swan e io abbiamo visto... Dio aiuti anche quei poveracci.» «Be', occorre combattere il fuoco col fuoco» disse Rusty. «Mia madre me lo diceva sempre. Combattere il fuoco col fuoco. Perciò forse c'è una cosa buona: forse ognuno ha lanciato tutte le bombe e tutti i missili, e non ne restano più. I fuochi si sono estinti a vicenda... e il vecchio mondo esiste ancora, no?» «Già» disse Josh. «Il mondo c'è ancora. E noi pure.» «Penso però che il mondo sia un po' cambiato. Cioè, se dappertutto è come qui, i lussi della vita ne avranno sofferto un poco.» «Dimentichi i lussi. Questo vagone e questa stufa sono già un lusso, amico mio.» Rusty sogghignò, mostrando il foro del dente mancante. «Già, ho un vero palazzo, no?» Guardò Swan per qualche attimo; si alzò, prese dalla gruccia una giacca di velluto nero. Strizzò l'occhio alla bambina, si tolse la giacca di jeans e indossò quella di velluto. Nel taschino c'era un fazzoletto bianco. «Ti mostrerò cosa c'è ancora... una cosa che non cambierà mai, piccola signora. La magia. Tu credi alla magia, tesoro?» «Sì» rispose Swan. «Bene!» Tolse con un gesto rapido il fazzoletto bianco dal taschino e all'improvviso ebbe in mano un mazzolino di fiori di carta dai colori vivaci. Li offrì a Swan. «Una signora come te gradirà di sicuro qualche fiore. Ovviamente, bisogna bagnarli. Senz'acqua, potrebbero appassire!» Spinse avanti l'altra mano, mosse di scatto il polso a mezz'aria, e si trovò in mano una piccola brocca di plastica rossa. La inclinò sui fiori; anziché acqua, ne uscì una cascatella di polvere gialla che cadde lentamente a terra. «Ah» disse Rusty, fingendosi deluso. Poi s'illuminò in viso. «Be', forse è polvere magica, piccola signora. Certo! La polvere magica manterrà in vita i fiori, proprio come l'acqua! Cosa ne pensi?»
Anche se il cadavere nell'angolo le dava i brividi, Swan fu costretta a sorridere. «Certo» disse. «Scommetto di sì.» Rusty mosse la mano davanti al viso di Swan. All'improvviso una palla rossa comparve tra il primo e il secondo dito e un'altra palla parve spuntare fra pollice e indice. Rusty cominciò a lanciarle in aria da una mano all'altra. «Mi pare che manchi qualcosa, non credi?» Mentre le palle erano a mezz'aria, allungò la destra verso l'orecchio di Swan. Plop! La mano si ritrasse reggendo una terza palla rossa. Rusty continuò a farle girare in aria. «Così va bene. Sapevo che da qualche parte l'avrei trovata.» Swan si toccò l'orecchio. «Come ha fatto?» «Magia» spiegò Rusty. Si cacciò in bocca una palla, poi la seconda e la terza. Le mani vuote carezzarono l'aria e il pomo d'Adamo andò su e giù mentre Rusty deglutiva. «Buonissime» disse. «Vuoi assaggiare?» Tese il palmo verso di lei; sopra c'erano le tre palle rosse. «Ho visto che le mangiava!» esclamò Swan. «Sì, certo. Queste sono altre tre. Mi sono nutrito di queste, sai. Gravy Train e palle magiche.» Il sorriso vacillò, si affievolì. Rusty lanciò una rapida occhiata al cadavere, mise in tasca le tre palle. «Be', credo che questa magia basti, per oggi.» «È molto bravo» disse Josh. «Così, lei è clown, mago e prestigiatore. Cos'altro sa fare?» «Oh, montavo cavalli selvaggi nei rodei.» Si tolse la giacca di velluto e l'appese con cura, come se mettesse a letto un vecchio amico. «Ho fatto il clown da rodeo. Il cuoco in un luna park. Il bovaro in un ranch, una volta. Buono a tutti i mestieri, esperto in nessuno. Ma la magia mi è sempre piaciuta. Un mago ungherese, che si faceva chiamare Fabrioso, mi prese sotto la sua ala, quando avevo sedici anni, e m'insegnò l'arte, mentre ancora tiravo avanti nel luna park. Diceva che ho mani adatte a ripulire le tasche o a far spuntare cose dall'aria.» Gli occhi di Rusty danzarono di luce. «Quel Fabrioso era uno spettacolo, credetemi. Parlava agli spiriti... e loro gli rispondevano davvero e gli ubbidivano anche!» «Anche questa è magica?» Swan toccò la scatola di legno con le lucertole. «Era la scatola dei trucchi di Fabrioso. Ora ci tengo i cosmetici e altra roba. Fabrioso la ebbe da un mago di Istanbul. Sai dov'è? In Turchia. E quel mago turco la ebbe da un mago cinese, per cui mi pare che abbia una sorta di storia.»
«Come Crybaby» disse Swan e mostrò la bacchetta da rabdomante. «Crybaby? La chiami così?» «Una signora ..» Josh esitò. La perdita di Leona Skelton era ancora troppo recente. «Una signora davvero speciale l'ha regalata a Swan.» «Fabrioso le ha dato anche la giacca magica?» domandò Swan. «No. L'ho comprata in un negozio d'oggetti magici, a Oklahpma City. Ma mi ha dato la cassetta, e un'altra cosa.» Aprì la cassetta intagliata. Dentro c'erano barattoli, matite, stracci sporchi di mille colori. Frugò in fondo. «Fabrioso disse che faceva il paio con la cassetta, per cui era giusto che la seguisse. Eccolo qui.» Era un semplice specchio ovale, incorniciato di nero, con il manico nero consumato. Aveva un unico ornamento: nel punto in cui il manico si congiungeva allo specchio, c'erano due piccole facce simili a maschere, che guardavano in direzioni opposte. Il vetro era color fumo, rigato e macchiato. «Fabrioso lo usava per truccarsi.» Nella voce di Rusty c'era una nota di stupore reverenziale. «Diceva che mostrava un'immagine più vera di ogni altro specchio. Io però non lo uso... lo specchio è troppo opaco.» Lo porse a Swan, che lo resse per il manico. Lo specchio era leggero come una sfogliatella. «Fabrioso morì a novant'anni e mi disse che da più di settanta aveva lo specchio. Giurerei che ha almeno due secoli.» Un oggetto così antico superava la comprensione di Swan. La bambina scrutò nel vetro, ma vide solo confusamente la propria faccia, come attraverso un velo di nebbia. Anche così, i segni delle ustioni le imbnittivano il viso, talmente impolverato da sembrare quello d'un clown. E non si sarebbe mai abituata alla mancanza di capelli. Guardò più attentamente. Sulla fronte aveva altre due di quelle bizzarre escrescenze simili a verruche che aveva già notato a casa di Leona; c'erano già, o erano spuntate di recente? «Penso che Fabrioso avesse una certa dose di vanità» ammise Rusty. «Lo sorprendevo sempre a guardarsi in questo specchio... a parte il fatto che di solito lo reggeva a braccio teso, così.» Tese il braccio davanti a sé, come se si guardasse nel palmo della mano. Swan allungò il braccio. Lo specchio puntava sul lato sinistro del suo viso e sulla spalla sinistra. Ora la testa era solo un contorno, nel vetro. «Non riesco a vedermi come...» C'era un movimento, nello specchio. Un movimento rapido. E non era lei a muoversi.
Una faccia con un occhio nel centro della fronte, con una bocca spalancata dove avrebbe dovuto esserci il naso, con la pelle gialla come pergamena rinsecchita, si alzò da dietro la spalla, simile a una luna lebbrosa. Swan lasciò cadere lo specchio, che tintinnò per terra. Si girò di scatto. Non c'era nessuno. Naturalmente. «Swan?» Rusty si era alzato. «Cosa succede?» Josh posò piattino e candela, mise la mano sulla spalla di Swan. La bambina si strinse a lui, con il cuore che batteva forte forte. Era atterrita. Josh si chinò a raccogliere lo specchio, aspettandosi di trovarlo in mille pezzi, ma il vetro era ancora intatto. Guardò con un senso di ribrezzo la propria immagine, quanto bastava a notare che sul mento aveva quattro verruche nuove. Restituì lo specchio a Rusty. «Meno male che non s'è rotto. Sarebbero stati sette anni di sfortuna.» «Ho visto un mucchio di volte Fabrioso lasciarlo cadere. Una volta lo scagliò con forza per terra. Non si è neppure crepato. Mi diceva pure che questo specchio è magico... ma che in realtà non lo capiva; perciò non mi ha mai spiegato perché lo riteneva magico.» Rusty scrollò le spalle. «A me sembra solo un vecchio vetro color fumo; ma fa il paio con la cassetta, per questo lo conservo.» Si rivolse a Swan, che ancora fissava a disagio lo specchio. «Non preoccuparti. Come ho detto, quest'affare non si rompe. Diavolo, è più resistente della plastica!» Posò lo specchio sul piano del tavolo. «Tutto a posto?» le chiese Josh. Swan annuì. Qualunque cosa fosse il mostro visto nello specchio, non ci teneva a vederlo di nuovo. Di chi era, quella faccia nelle profondità del vetro? Rusty accese il fuoco nella stufa, poi Josh lo aiutò a portare il cadavere nel cimitero del circo. Killer li seguì abbaiando. E mentre erano fuori, Swan si avvicinò di nuovo allo specchio. L'oggetto la chiamava, come i tarocchi, a casa di Leona. Lentamente lo tenne a braccio teso, inclinato verso la spalla sinistra, come aveva fatto prima. Ma la faccia mostruosa non c'era. Non c'era niente. Swan spostò lo specchio verso destra. Niente di nuovo. Sentiva moltissimo la mancanza di Leona. Pensò al Diavolo dei tarocchi. Quella faccia, con l'orribile occhio in mezzo alla fronte e la bocca che sembrava un portale dell'inferno, le aveva rammentato il disegno di quella carta.
«Oh, Leona» mormorò. «Perché hai dovuto lasciarci?» Nello specchio ci fu un rapido luccichio rosso, solo un lampo subito svanito. Swan si guardò alle spalle. Dietro di lei, nella stufa, le fiamme rossastre crepitavano dietro la grata. Scrutò di nuovo lo specchio. Era scuro. Ma non era rivolto verso la stufa. Un puntino di luce rossa tremolò e crebbe lentamente. Balenarono altri colori simili a fulmini lontani: verde smeraldo, bianco purissimo, blu notte. I colori si rafforzarono, si unirono in un piccolo cerchio di luce pulsante che sulle prime Swan ritenne librato a mezz'aria. Ma l'attimo dopo credette di scorgere una figura nebulosa e indistinta che reggeva il cerchio di luce, non sapeva se uomo o donna. Non si girò, perché sapeva che alle sue spalle non c'era niente, tranne la parete. No, quella scena esisteva solo nello specchio magico... ma che cosa significava? Le parve che la figura camminasse, stancamente, ma con determinazione, come se lui, o lei, avesse un lungo viaggio da compiere. Si trovava, intuì, molto lontano... forse addirittura in un altro stato. Ma per un secondo era riuscita a distinguerne i lineamenti: forse era la faccia dura d'una donna. Poi l'immagine si confuse di nuovo e Swan non fu sicura di quel che aveva visto. Le parve che la figura cercasse qualcosa, reggendo un cerchio più luminoso delle lucciole; e dietro di lei forse c'erano altri in cerca, ma Swan non riusciva a distinguerli nella nebbia. La prima figura e il cerchio lucente di mille colori cominciarono ad affievolirsi; Swan continuò a guardare, finché non si ridussero a puntino di luce simile a un'ardente punta di candela. Poi il puntino tremolò come una stella cadente e svanì. «Torna» mormorò Swan. «Ti prego, torna.» Ma la visione non tornò. Swan spostò lo specchio a sinistra. E dietro la sua spalla, lo scheletro d'un cavallo s'impennò; e su quel cavallo c'era un cavaliere fatto di ossa e gocciolante sangue; nelle sue braccia scheletriche una falce si alzava per vibrare un fendente mortale... Swan si girò. Era sola. Completamente sola. Tremava. Posò lo specchio sul tavolo. Aveva visto tanta magia da bastare per un pezzo. Ricordò le parole di Leona: "Tutto è cambiato, ora. Quel che c'era un tempo, ora è morto. Forse il mondo intero è come Sullivan: distrutto,
cambiato, mutato in qualcosa di diverso". Le occorreva l'aiuto di Leona, per mettere al loro posto queste nuove tessere del puzzle; ma Leona era morta. Restavano solo lei e Josh... e Rusty Weathers, anche, se decideva di andare con loro. Ma che cosa significavano, le immagini viste nello specchio magico? Erano avvenimenti che si sarebbero verificati, o solo eventi possibili? Decise di tenere tutto per sé, finché non avesse riflettuto meglio. Ancora non conosceva bene Rusty Weathers, anche se sembrava una brava persona. Quando Josh e Rusty tornarono, Josh chiese all'altro se potevano fermarsi lì qualche giorno e approfittare dell'acqua e del Gravy Train... e Swan arricciò il naso, ma lo stomaco brontolava. «Voi due dove contate di andare?» domandò Rusty. «Ancora non lo so. Abbiamo un cavallo resistente e il bastardino più coraggioso che si sia mai visto; continueremo a camminare, penso, finché non troveremo un posto dove fermarci.» «Può darsi che ci voglia un mucchio di tempo. Non sapete cosa c'è fuori.» «So cosa c'è dietro di noi. Quel che c'è davanti non sarà certo peggiore.» «Per meglio dire, se lo augura» precisò Rusty. «Già.» Josh lanciò un'occhiata a Swan. Proteggi la bambina, pensò. Ce l'avrebbe messa tutta, non solo per ubbidire all'ordine, ma perché voleva bene a Swan e avrebbe fatto il possibile perché sopravvivesse a qualsiasi cosa il futuro teneva in serbo. Ma forse sarebbe stato come camminare nell'inferno stesso. «Mi sa che verrò con voi, se non vi spiace» decise infine Rusty. «Possiedo solo i vestiti che ho addosso, la giacca magica, la cassetta e lo specchio. Non promettono un gran futuro, vero?» «Non direi» rispose Josh. Rusty guardò da un finestrino impolverato. «Signore, mi auguro di vivere quanto basta a vedere il sole spuntare di nuovo. E allora mi ucciderò a furia di sigarette.» Josh non riuscì a trattenere una risata e anche Rusty ridacchiò. Swan sorrise, ma il suo sorriso impallidì in fretta. Si sentiva molto più matura dalla bambina che era entrata con la madre nella drogheria di PawPaw Briggs. Avrebbe compiuto dieci anni il tredici di novembre, ma in quel momento si sentiva vecchia davvero... trent'anni, almeno. E non sapeva niente di niente! Prima di quel brutto giorno, la sua
vita era trascorsa in motel, roulotte e stanze d'affitto. Com'era stato, il resto del mondo? E ora che il brutto giorno era venuto e passato, che cosa rimaneva? "Il mondo continuerà a girare" aveva detto Leona. "Oh, Dio gli ha dato una bella spinta, eccome! E ha dato a un mucchio di persone una mente e un'anima resistenti, anche... a persone come te, forse." Ricordò PawPaw Briggs che si sollevava a parlare. Era un episodio a cui non aveva voluto pensare molto, ma ora desiderava saperne il significato. Non si sentiva speciale in nessun modo, solo stanca, esausta, impolverata; e quando lasciò vagare i pensieri verso sua mamma, desiderò solo lasciarsi andare e piangere. Ma tenne duro. Swan voleva sapere più cose, in tutti i campi... imparare a leggere meglio, se avesse trovato dei libri; fare domande e imparare ad ascoltare, a riflettere e a ragionare. Ma non voleva crescere fino in fondo, perché temeva il mondo degli adulti; era un bullo con la pancia e la bocca cattiva, che calpestava i giardini prima che avessero la possibilità di crescere. No, decise Swan. Voglio essere quella che sono e nessuno mi calpesterà... e se ci provano, forse si ritroveranno loro sotto i piedi. Rusty aveva continuato a osservare la bambina, mentre preparava la cena a base di cibo per cani; vide che era profondamente assorta. «Un soldino per i tuoi pensieri» le disse; e schioccò le dita della destra, reggendo fra indice e pollice la moneta che aveva già preparato. La lanciò a Swan, che l'afferrò al volo. Non era un soldino. Era un gettone della grandezza d'un quarto di dollaro, con la scritta Circo Rydell sopra una sorridente faccia di clown. Swan esitò, guardò Josh, poi di nuovo Rusty. Poi si decise a dire: «Penso... a domani». E Josh si sedette con la schiena contro la parete, ad ascoltare il gemito acuto del vento; e si augurò che in qualche modo sopravvivessero alla spaventosa serie di domani che li aspettava. 46 La palestra della scuola superiore di Homewood era diventata un ospedale; il personale della Croce Rossa e dell'esercito aveva riparato alcuni generatori e c'era l'elettricità. Un allampanato medico della Croce Rossa, certo Eichelbaum, condusse Sister e Paul Thorson attraverso un labirinto di persone stese su brande e su materassi per terra. Sister teneva stretta la
sacca da viaggio; non l'aveva mai persa di vista, nei tre giorni trascorsi da quando le sentinelle avevano udito i loro spari. Dopo un pasto caldo a base di granturco, riso e caffè fumante, che le era parso squisitezza da buongustai, era stata accompagnata in uno stanzino di un edificio con il cartello ACCETTAZIONE, dove un'infermiera in abito bianco e mascherina l'aveva spogliata e le aveva passato su tutto il corpo un contatore Geiger. L'infermiera aveva fatto un balzo indietro di tre metri, quando l'ago del contatore era quasi schizzato dal quadrante. Aveva ripulito Sister, usando una polvere bianca e granulosa, ma il contatore continuava a chiocciare come gallina in calore. Dopo altri cinque o sei lavaggi, il Geiger aveva segnato un valore accettabile; ma quando l'infermiera aveva detto: «Questa bisogna buttarla via» e aveva allungato la mano verso la sacca, Sister aveva afferrato la donna per il collo e le aveva chiesto se ci teneva a vivere. Due medici della Croce Rossa e un paio d'ufficiali dell'esercito, con l'aria da boy scout, a parte le livide cicatrici da ustioni sul viso, non erano riusciti a strapparle la sacca; e alla fine il dottor Eichelbaum aveva alzato le braccia al cielo. «E allora gratti via la merda da quella maledetta borsa!» aveva gridato. La sacca era stata ripulita diverse volte e la polvere bianca era stata spruzzata in abbondanza sul suo contenuto. «Cerchi solo di tenere chiusa la maledetta borsa, signora!» aveva sbraitato Eichelbaum. Un lato del suo viso era coperto di ustioni livide e un occhio era cieco. «Se la scopro ad aprirla una volta sola, finisce nell'inceneritore!» Sister e Paul Thorson avevano ricevuto un'ampia tuta bianca, come quelle indossate da gran parte della gente, che calzava anche stivali di gomma; ma il dottor Eichelbaum li aveva informati che già da qualche giorno avevano terminato le "calzature antiradiazione". Il medico aveva spalmato sulle ustioni di Sister una sostanza simile alla vaselina e aveva esaminato attentamente una chiazza di pelle ispessita, appena sotto il mento, che sembrava una crosta contornata da quattro piccole escrescenze simili a verruche. Aveva trovato altre due verruche all'attaccatura della mascella, sotto l'orecchio sinistro, e una all'angolo dell'occhio sinistro. Le aveva detto che circa il settanta per cento dei superstiti aveva segni analoghi... si trattava quasi sicuramente di cancro della pelle, e non aveva modo di curarlo. Se asportata col bisturi, aveva detto, quella sorta di verruche ricresceva: mostrò il segno infiammato simile a una crosta nera che gli spuntava proprio sulla punta del mento. La cosa più bizzarra era
che quei segni comparivano solo sul viso o nelle immediate vicinanze; non ne aveva mai visti al di sotto del collo, né sulle braccia, sulle gambe, su altre zone del corpo esposte alle radiazioni. L'ospedale di fortuna era pieno di vittime di ustioni, di gente con la nausea da avvelenamento radioattivo, di gente in stato di shock e di depressione. I casi più gravi erano ricoverati nell'auditorio della scuola e l'indice di mortalità sfiorava il novantanove per cento. Anche il suicidio era un problema grave; con il passare dei giorni, pareva che la gente capisse meglio la portata del disastro e di conseguenza aumentava il numero di individui trovati a penzolare da un albero. Il giorno precedente, Sister era andata alla biblioteca pubblica di Homewood e aveva scoperto che l'edificio era abbandonato; gran parte dei libri era stata usata come combustibile per i falò che mantenevano in vita la gente. Gli scaffali erano stati strappati via; i tavoli e le sedie, fatti a pezzi per essere bruciati. Sister aveva trovato uno dei pochi corridoi in cui rimanevano ancora dei libri e si era ritrovata a fissare le calzature antiradiazione di una donna impiccata al lampadario. Ma aveva trovato quel che cercava, fra una pila di enciclopedie, libri di storia americana, copie dell'Almanacco del contadino e altre pubblicazioni risparmiate. E l'aveva consultato da sola. «È qui» disse il dottor Eichelbaum, indicando una delle ultime brande. Artie Wisco, appoggiato al guanciale, un vassoio fra la sua branda e quella vicina, era intento a giocare a poker con un giovanotto nero la cui faccia era coperta da ustioni bianche, triangolari, così precise da sembrare stampate sulla pelle. «Salve!» disse Artie, sorridendo a Sister e a Paul. Scoprì le carte e aggiunse: «Full!» Il nero protestò: «Merda! Tu bari, amico!» Ma sborsò alcuni stuzzicadenti presi dal mucchietto che aveva davanti a sé. «Guardate questo!» Artie scostò il lenzuolo e mostrò lo spesso nastro adesivo applicato a croce sull'addome. «Robot vuole giocare a filetto sulla mia pancia!» «Robot?» si stupì Sister. Il giovanotto nero si portò il dito alla tesa d'un immaginario cappello. «Oggi come si sente?» domandò il medico ad Artie. «L'infermiera le ha preso un campione delle urine?» «Certo!» disse Robot, e mandò un fischio. «Lo scemotto ha un uccello che arriva da qui a Philly!» «Non c'è molta intimità, qui» spiegò Artie a Sister, cercando di man-
tenere un certo contegno. «Devono prendere i campioni davanti a Dio e a chiunque.» «Se le donne che girano qui intorno vedono cosa ti ritrovi, sciocco, ti vengono a pregare in ginocchio, credimi!» «Oddio!» Artie si ritrasse, imbarazzato. «Vuoi chiudere il becco?» «Hai un aspetto molto migliore» disse Sister. Le pelle non era più grigia e malata; il viso era una confusione di cerotti e di livide ustioni scarlatte — cheloidi, le chiamava il dottor Eichelbaum — ma le guance avevano un colorito sano. «Oh, sì, divento sempre più bello! Un giorno o l'altro mi guarderò allo specchio e vedrò l'immagine di Cary Grant.» «Non ci sono specchi in giro, sciocco» gli rammentò Robot. «Si sono rotti tutti.» «Artie risponde molto bene alla penicillina che gli abbiamo pompato dentro» disse il dottor Eichelbaum. «Grazie a Dio ne abbiamo, altrimenti la maggior parte della gente qui sarebbe morta d'infezione. Deve mangiarne, di pagnotte, prima di togliersi dalla bagna. Ma credo che si riprenderà.» «E il ragazzo, Buchanan? E Mona Ramsey?» domandò Paul. «Dovrei controllare l'elenco, ma non mi pare che nessuno dei due sia in condizioni critiche.» Diede un'occhiata alla palestra e scosse il capo. «Ce n'è troppi, non riesco a stare dietro a tutti.» Si rivolse a Paul. «Se avessimo il vaccino, vi farei l'antirabbica... ma non ce l'ho. Vi conviene sperare che quei lupi non avessero la rabbia.» «Ehi, Doc?» disse Artie. «Quando pensa che potrò uscire di qui?» «Fra cinque giorni come minimo. Perché? Dove vuole andare?» «A Detroit» rispose Artie senza esitare. Il medico piegò la testa di lato, in modo da puntare su Artie l'occhio buono. «Detroit» ripeté. «Ho sentito dire che Detroit è stata una delle prime a essere colpita. Mi spiace, ma non credo che esista ancora, Detroit.» «Forse no. Ma è li che vado. La mia casa è lì, e anche mia moglie. Gesù, ci sono cresciuto, a Detroit! Colpita o no, devo andarci, devo vedere cosa resta.» «Sarà lo stesso di Philly» disse piano Robot. «Amico, a Philly non resta nemmeno cenere!» «Devo andare a casa» insisté Artie, risoluto. «C'è mia moglie, lì.» Guardò Sister. «L'ho vista, sai. L'ho vista nel cerchio di vetro, sembrava proprio com'era a vent'anni. Forse significa qualcosa... che devo avere fede e andare a Detroit, continuare a cercarla. Forse la troverò... forse no, ma devo an-
dare. E tu verrai con me, vero?» Sister esitò. Poi sorrise debolmente e disse: «No, Artie. Non posso. Io devo andare altrove». Lui corrugò la fronte. «Dove?» «Anch'io ho visto qualcosa nel cerchio di vetro e devo scoprire cosa significa. Devo scoprirlo, proprio come tu devi andare a Detroit.» «Non so di che diavolo parla» disse il dottor Eichelbaum «ma dove crede di andare?» «Nel Kansas.» L'unico occhio del medico batté le palpebre. «In una cittadina che si chiama Matheson. È segnata, nell'atlante stradale Rand McNally.» Aveva disubbidito all'ordine del medico e aveva aperto la sacca quanto bastava a infilarvi l'atlante stradale, accanto al cerchio di vetro coperto di polvere bianca. «Ma lo sa quant'è lontano, il Kansas? Come ci arriverà? A piedi?» «Esattamente.» «Pare che lei non capisca la situazione» disse il medico, calmo; Sister riconobbe il tono: quello che le infermiere usavano nei confronti delle malate di mente, nella casa di cura. «La prima ondata di missili nucleari ha colpito tutte le principali città» spiegò lui. «La seconda, le basi dell'aviazione e della marina. La terza, le città più piccole e le industrie rurali. E poi, la quarta ondata ha colpito qualsiasi altra maledetta cosa che già non bruciasse. Da quel che ho sentito dire, c'è un deserto desolato a est e a ovest, in un raggio di circa settantacinque chilometri da qui. Solo macerie, gente già morta e gente che vorrebbe essere morta. E lei ha intenzione di andare a piedi fino nel Kansas? Le radiazioni la ucciderebbero prima che abbia percorso centocinquanta chilometri.» «Sono sopravvissuta all'esplosione di Manhattan. E anche Artie. Come mai le radiazioni non ci hanno già uccisi?» «Pare che alcune persone siano più resistenti delle altre. Un colpo di fortuna. Ma non significa che lei possa continuare ad assorbire radiazioni e fregarsene.» «Dottore, se ero destinata a morire, a quest'ora sarei un mucchietto d'ossa. E comunque l'aria è piena di quella merda... lo sa bene quanto me. Le radiazioni sono dappertutto.» «Il vento le ha diffuse, certo» ammise il medico. «Ma lei vuole andare in una zona ultracontaminata! Ora, non so quali siano le ragioni che la spingono a...» «No, lei non sa» replicò Sister. «E non può sapere. Perciò, risparmi il
fiato; mi riposerò qui per un poco, poi me ne andrò.» Il dottor Eichelbaum iniziò a protestare ancora; poi notò la determinazione nello sguardo della donna e capì che non c'era altro da dire. Tuttavia era nella sua natura avere l'ultima parola. «Lei è pazza.» Si girò e si allontanò: aveva di meglio da fare, che tentare d'impedire a un'altra svitata di suicidarsi. «Il Kansas» disse piano Artie Wisco. «Un mucchio di strada, da qui.» «Già. Mi servirà un buon paio di scarpe.» Di colpo gli occhi di Artie si riempirono di lacrime. L'uomo strinse la mano di Sister, se la premette contro la guancia. «Dio ti benedica» disse. «Oh... Dio ti benedica.» Sister si chinò ad abbracciarlo e lui la baciò sulla guancia. Sister sentì l'umido di una lacrima e provò una stretta al cuore per Artie. «Sei la donna più fantastica che abbia mai conosciuto» disse Artie. «Dopo mia moglie, cioè.» Sister lo baciò e si rialzò. Aveva gli occhi umidi e sapeva che nei giorni a venire l'avrebbe ricordato molte volte e nel suo cuore avrebbe detto una preghiera per lui. «Vai a Detroit» gli disse. «Trovala. Hai sentito?» «Sì, ho sentito.» Annuì, con occhi lucenti come monete fior di conio. Sister si girò e Paul Thorson la seguì. Dietro di lei, Robot disse: «Amico, avevo uno zio, a Detroit. Quasi quasi pensavo di...» Sister attraversò l'ospedale e uscì. Si fermò a guardare il campo da football, pieno di tende, di auto, di camion. Il cielo era color grigio smorto, gonfio di nuvole. Sulla destra, davanti alla scuola superiore e sotto un lungo tendone rosso, c'era un'ampia bacheca in cui la gente affiggeva messaggi e richieste. La bacheca era sempre piena. Sister vi era passata davanti, il giorno prima, guardando i messaggi scritti su pezzi di carta: "Cerco mia figlia, Becky Rollins, quattordici anni. Dispersa nell'area di Shenandoah il 17 luglio..."; "Chiunque abbia notizie della famiglia DiBattista, di Scranton, è pregato di lasciare..."; "Cerco il reverendo Bowden, Prima Chiesa Presbiteriana di Hazleton, per urgente necessità di riti..." Sister andò al recinto che circondava il campo da football, posò a terra la sacca, strinse le dita nelle maglie della rete metallica. Da dietro le giunsero i gemiti d'una donna ferma davanti alla bacheca. Oh, Dio, pensò, che cosa abbiamo fatto? «Kansas, eh? Perché diavolo vuoi andare fin lì?» Paul Thorson era accanto a lei, appoggiato alla rete metallica. Una stecca gli bloccava il naso rotto. «Cosa c'è, nel Kansas?» continuò.
«Una cittadina che si chiama Matheson. L'ho vista nel cerchio di vetro e l'ho trovata nell'atlante stradale. È la mia destinazione.» «Già, ma perché?» Si alzò il colletto della malandata giacca di cuoio, per proteggersi dal freddo; aveva lottato per tenersi quella giacca, con la stessa caparbietà con cui Sister aveva lottato per la sacca, e la indossava sopra la tuta pulita. «Perché...» Sister esitò, poi decise di dirgli quel che pensava da quando aveva trovato l'atlante stradale. «Perché mi sento guidata verso qualcosa... o qualcuno. Ormai sono convinta che tutto quel che ho visto nel cerchio di vetro è reale. Nel sogno ho percorso luoghi che esistono davvero. Non so perché, né come. Forse il cerchio è simile a... non so, un'antenna, o un radar, o alla chiave d'una porta di cui ignoravo perfino l'esistenza. Credo di essere guidata per un motivo preciso, e devo andare.» «Ecco che parli come la donna che ha visto il mostro dagli occhi ballerini.» «Non m'aspetto che tu capisca. Non m'aspetto che t'importi, non t'ho chiesto niente. E poi, perché mi ronzi intorno? Non t'hanno assegnato una tenda?» «Sì, certo. La divido con altri tre. Uno piange in continuazione, un altro non la pianta un secondo di parlare di baseball. Odio il baseball.» «Cos'è che non odii, signor Thorson?» Paul alzò le spalle e soffermò lo sguardo su un uomo e una donna anziani, con il viso segnato dalle cheloidi, che si sorreggevano a vicenda allontanandosi a passo malfermo dalla bacheca. «Non odio stare da solo» rispose alla fine. «Non odio dipendere da me stesso... anche se a volte non mi piaccio molto. Non odio bere. È quasi tutto.» «Buon per te. Allora, ti ringrazio d'avermi salvato la vita, e anche quella di Artie. Ti sei preso cura di noi e l'apprezzo molto. Perciò...» Tese la mano. Ma lui non la strinse. «In quella sacca hai qualcosa di valore?» domandò. «Per farne?» Paul accennò ai veicoli parcheggiati nel campo. Guardava una vecchia jeep dell'esercito, tutta ammaccata, con il tettuccio di tela rattoppato, dipinto a colori mimetici. «Scambiarlo con una jeep.» «No. Non...» E poi ricordò che in fondo alla sacca c'erano i grumi di vetro incrostati di gemme, raccolti fra le macerie di Steuben e di Tiffany. Li aveva dimenticati.
«Ti occorre un mezzo di trasporto» disse Paul. «Non puoi andare a piedi da qui al Kansas. E come ti procurerai benzina, cibo, acqua? Ti occorre un fucile, fiammiferi, una buona torcia elettrica, abiti caldi. Come t'ho detto, signora, quel che c'è lì fuori sarà come Dodge City e l'inferno dantesco messi insieme.» «Può darsi. Ma perché ti preoccupi tanto?» «Non mi preoccupo. Cerco solo di metterti in guardia.» «So badare a me stessa.» «Già, mi ci gioco la testa. Scommetto che eri la peste del vicinato.» «Ehi!» chiamò una voce. «Ehi, cercavo proprio lei, signora!» Si avvicinava l'uomo alto con la giacca foderata di pelliccia e il berretto della birra Stroh, quello che era di sentinella e aveva udito gli spari. «La cercavo» ripeté, masticando un paio di chewing-gum. «Eichelbaum ha detto che era da queste parti.» «Mi ha trovato. Ebbene?» «Be'» disse lui «m'era parso di riconoscerla, quando l'ho vista. Ha detto che portava una grossa borsa di pelle, però; e forse è questo che mi ha messo fuori strada.» «Ma di cosa parla?» «Due o tre giorni prima che il vostro gruppo venisse qui. Un tizio è arrivato per la S-80 come se fosse in gita domenicale, a cavallo di una bicicletta da corsa di quelle a manubrio basso. Lo ricordo benissimo, perché ero di vedetta sul campanile, con il vecchio Bobby Oates, e lui mi dà una gomitata e mi dice: "Cleve, guarda che roba!" Quando l'ho vista, non ci credevo!» «Amico, parla chiaro!» intervenne Paul, brusco. «Cos'era?» «Oh, era un uomo. Pedalava in bici sulla S-80. Ma lo strano è che aveva una quarantina di lupi quasi alle calcagna. Lo scortavano solo. Subito prima d'arrivare in cima alla collina, questo tale smonta dalla bici e si gira... e i lupi si ritraggono impauriti come davanti a Dio in persona. Poi si danno alla fuga e lui arriva sulla collina portando la bici a mano.» Cleve scrollò le spalle, una ruga di perplessità sulla faccia bovina. «Be', uscimmo ad accoglierlo. Un tipo grande e grosso. Robusto. Difficile dargli un'età, però. Capelli bianchi, ma viso giovanile. Comunque, portava giacca e cravatta, impermeabile grigio. Non sembrava minimamente ferito. Scarpe bicolori. Lo ricordo molto bene. Scarpe bicolori.» Cleve grugnì, scosse la testa, fissò Sister. «Ha chiesto di lei, signora. Ha chiesto se avevamo visto una donna con una grossa borsa di pelle. Ha detto che lei era una sua parente e che doveva trovarla. Sembrava davvero ansioso e interessato, anche. Ma
Bobby e io non sapevamo niente di lei, è ovvio; e questo tale ha chiesto alle altre sentinelle, ma neppure loro la conoscevano. Abbiamo detto che l'avremmo portato a Homewood, gli avremmo dato da mangiare e da dormire, e gli uomini della Croce Rossa l'avrebbero visitato.» Il cuore di Sister cominciava a battere forte. La donna si sentì raggelare. «Che... che fine ha fatto?» «Oh, ha continuato. Ci ha gentilmente ringraziati e ha detto che aveva ancora un po' di chilometri da fare. Ci ha salutati e si è allontanato pedalando, diretto a ovest.» «Come sai che quel tale cercava proprio lei?» domandò Paul. «Avrebbe potuto cercare qualsiasi altra donna con una borsa di pelle!» «Oh, no» rispose Cleve, con un sorriso. «Ha descritto la signora così bene che mi sembrava di vederne il viso nella mia testa. Proprio come una fotografia. Ecco perché m'era sembrato di riconoscerla, la prima volta che l'ho vista, ma solo stamattina ho fatto due più due. Vede, m'ha confuso il fatto che lei non aveva borse di pelle.» Guardò Sister. «Lo conosce, signora?» «Sì» rispose lei. «Oh, sì, lo conosco. Le ha detto... il suo nome?» «Hallmark. Darryl, Dal, Dave... un nome del genere. Be', è andato a ovest. Non so cosa troverà, là fuori. Peccato, però: non vi siete incontrati per un pelo.» «Già.» Sister sentiva fasce di ferro stringerle il petto. «Peccato davvero.» Cleve si portò due dita al berretto e se ne andò per gli affari suoi. Sister si sentì sul punto di svenire e fu costretta a sorreggersi alla rete metallica. «Chi era?» domandò Paul... ma il tono della voce diceva che aveva paura di saperlo. «Devo andare nel Kansas» dichiarò Sister. «Devo seguire quel che ho visto nel cerchio di vetro. Non la smetterà mai di cercarmi, perché anche lui lo vuole. Lo vuole per distruggerlo. Non posso lasciargli mettere le mani sopra... altrimenti non saprò mai cosa dovrei trovare. E chi cerco!» «Avrai bisogno di un fucile.» Paul era rimasto spaventato sia dalla storia di Cleve, sia dal terrore che vedeva negli occhi di Sister. Nessun essere umano poteva passare senza un graffio in mezzo a quel branco di lupi. E poi, in sella a una bici da corsa? Possibile che tutto quel che Sister gli aveva raccontato fosse vero? «Un fucile bello grosso» aggiunse. «Non ne esiste uno abbastanza grosso.» Raccolse la sacca e si allontanò dalla scuola, su per la collina, verso la tenda assegnatale. Paul rimase a guardarla. Merda, pensò, quella donna ha coraggio da
vendere, ma andrà a farsi ammazzare sulla vecchia S-80. Ha tante probabilità di arrivare nel Kansas quante un cristiano in Cadillac ne ha d'entrare in paradiso. Guardò le centinaia di tende sulle colline alberate, i piccoli fuochi di bivacco, le lanterne accese intorno a Homewood e rabbrividì. In questa maledetta città c'è già troppa gente, pensò. Non sopportava di vivere in una tenda con altre tre persone. Lì, da qualsiasi parte si girasse, c'era gente. Prima o poi avrebbe dovuto andarsene, per non impazzire. Allora, perché non il Kansas? Perché, si rispose, non ci arriveremo mai. E allora? Contavi di vìvere per sempre? Non posso lasciarla andare da sola, decise. Cristo, non posso proprio! «Ehi!» le gridò dietro; ma Sister continuò a camminare, non si girò nemmeno. «Ehi, forse posso aiutarti a trovare una jeep! Ma non aspettarti altro!» Sister continuò a camminare, sotto il peso dei pensieri. «E va bene, ti aiuterò anche a procurarti un po' di cibo e d'acqua! Ma dovrai cavartela da sola, per il fucile e la benzina!» Un passo alla volta, pensava Sister. Un passo, e il passo successivo ti porta dove volevi andare. E, Signore Iddio, ho tanto di quella strada... «D'accordo, maledizione. Ti aiuterò!» Finalmente Sister lo udì. Si girò verso Paul. «Cos'hai detto?» «Ho detto che t'aiuterò!» Scrollò le spalle e si diresse verso di lei. «Tanto vale aggiungere un altro strato, alla torta di merda! No?» «Già» disse lei. E un sorriso le aleggiò agli angoli della bocca. «Non è che cambi molto.» Scese il buio e un vento gelido spazzò Homewood. Nei boschi, i lupi ululavano; il vento soffiava radiazioni sulla terra; il mondo girava verso un nuovo giorno. 47 Le gomme della bicicletta cantavano nel buio. Di tanto in tanto colpivano con un tonfo sordo un cadavere o sterzavano intorno alla carcassa di un'automobile, ma le gambe che le spingevano avevano una destinazione. Scarpe bicolori sui pedali, l'uomo chino sul manubrio pedalava lungo la Statale 80, una ventina di chilometri a est del confine con l'Ohio. Granelli di cenere di Pittsburgh gli picchiettavano l'abito. Aveva trascorso due giorni fra le macerie, aveva trovato un gruppo di superstiti e aveva guarda-
to nella loro mente in cerca del viso della donna che aveva con sé il cerchio di vetro. Ma nessuno la conosceva. Prima d'andarsene, li aveva convinti che mangiare la carne dei cadaveri era una buona cura per l'avvelenamento da radiazioni. Li aveva perfino aiutati a iniziare. Bon appetit, pensò. Le gambe pedalavano come pistoni. Dove sei? Non puoi essere arrivata così lontano! Non ancora! A meno che tu non corra giorno e notte, perché sai che ti sto al culo. Quando i lupi erano sbucati, prima per azzannarlo, poi per scodinzolare alle sue calcagna, aveva pensato che l'avessero presa, più indietro, nella Pennsylvania orientale. Ma in questo caso dov'era la borsa di pelle? Il viso della donna non era neppure nella mente delle sentinelle di Homewood; se lei fosse stata in paese, l'avrebbero saputo. Ma allora, dov'era? E, cosa più importante, dov'era quella roba di vetro? Non gli piaceva l'idea che l'oggetto fosse in giro chissà dove. Non sapeva che cosa fosse, né perché fosse spuntato dal nulla, ma in ogni caso voleva fracassarlo sotto i tacchi, ridurlo in frammenti piccolissimi e conficcare quei frammenti nel viso della donna. Sister, pensò, e rise di scherno. Strinse le dita sul manubrio. Doveva trovare il cerchio di vetro. Doveva trovarlo. Questa era la sua festa, adesso; cose del genere non erano permesse. Non gli piaceva come la donna aveva guardato quell'oggetto... e nemmeno come aveva lottato per tenerlo. Il cerchio le dava una falsa speranza. Quindi, in realtà, era un gesto umanitario trovare il cerchio di vetro e fracassarlo e costringere la donna a mangiarne i frammenti. Chissà quanti avrebbe contagiato, se non l'avesse fermata. Forse era già morta. Forse uno della sua stessa razza l'aveva uccisa e le aveva rubato la borsa. Forse, forse, forse... C'erano troppi "forse". Dovunque fosse, chiunque lo avesse, doveva a tutti i costi trovare il cerchio di vetro, perché un oggetto simile non doveva esistere: quando era diventato scuro e gelido nella sua stretta, gli aveva letto l'anima. «Questa è la mia festa!» gridò, e passò sopra un morto che giaceva sulla sua strada. Ma c'erano tanti di quei posti in cui cercare, tante di quelle autostrade da percorrere! La donna era certo uscita dalla S-80 prima di Homewood. Ma in quale punto? Le aveva sentito dire: "Proseguiamo verso ovest". Avrebbe seguito la linea di minor resistenza, no? Aveva forse trovato rifugio in uno dei piccoli villaggi fra Jersey City e Homewood? In questo caso, era
dietro di lui, non davanti. Ma ogni cosa e ogni persona erano morte, a est di Homewood e di quella maledetta stazione della Croce Rossa. Rallentò, oltrepassò un cartello accartocciato che diceva: PROSSIMA USCITA: NEW CASTLE. Doveva trovare da qualche parte una cartina stradale, forse rifare il percorso lungo un'altra autostrada. Forse lei era andata a sud e aveva mancato completamente Homewood. Forse in quel momento era in una strada di campagna, chissà dove, accucciata accanto a un fuoco e intenta a giocare con quel maledetto affare di vetro. Forse, forse, forse... Il territorio era vasto. Ma lui aveva tempo, si disse mentre lasciava la S80 all'uscita di New Castle. Aveva domani, e dopodomani, e il giorno dopo ancora. Era la sua festa: faceva lui le regole. L'avrebbe trovata. Oh, sì! L'avrebbe trovata e le avrebbe cacciato quella roba di vetro su per il... Notò che il vento si era calmato. Non soffiava più con la violenza di qualche ora prima. Proprio a causa del vento, ancora non era riuscito a fare una ricerca come si deve. Trovava difficoltà, quando il vento era così forte... ma anche il vento era amico suo, perché diffondeva la polvere della festa. Si leccò il dito, con la lingua scabra come quella dei gatti, e lo sollevò in aria. Sì, il vento era davvero calato, anche se raffiche incostanti continuavano a colpirlo in faccia e portavano con sé l'odore di carne bruciata. Era tempo — anzi, era già passato il tempo — d'iniziare. Nel bel viso virile, gli occhi neri rimasero immobili. La bocca si aprì. Si allargò, continuò ad allargarsi. Una mosca uscì, strisciando sul labbro inferiore. Era d'un verde lucido e ripugnante, quel genere di mosca che schizza da un cadavere rigonfio. Si soffermò sul labbro, agitando le ali iridescenti. Un'altra mosca strisciò dalla bocca, seguita da una terza, da una quarta, da una quinta. Altre sei uscirono insieme e si raggrupparono sul labbro inferiore. Un'altra decina filtrò fuori come una marea verde. In pochi secondi c'erano cinquanta e più mosche intorno alla bocca: una schiuma verde che ronzava e s'agitava in preda ad ansiosa aspettativa. «Via» mormorò lui. Il movimento delle labbra mandò nell'aria il primo gruppo di mosche, che agitarono le ali nel vento fino a raggiungere l'equilibrio. Altre decollarono, nove o dieci alla volta, e volarono in tutte le direzioni. Le mosche erano parte di lui, vivevano nell'umida cantina della sua
anima dove crescevano simili creature; compiuto il loro giro di quattro o cinque chilometri, sarebbero tornate a lui come se fosse il centro dell'universo. E una volta tornate, lui avrebbe visto quel che esse avevano visto... un fuoco ardente che scintillava da un cerchio di vetro; oppure la faccia della donna, addormentata in una stanza in cui si riteneva al sicuro. Se non l'avessero trovata stanotte, c'era sempre domani. E il giorno seguente. Presto o tardi, in una parete avrebbero trovato la fessura che l'avrebbe condotto a lei e stavolta avrebbe danzato sulle ossa della donna. Il viso dell'uomo era rigido, gli occhi erano fori neri in una faccia che avrebbe spaventato la luna. Le ultime due creature, che sembravano mosche ma erano estensioni delle sue orecchie e dei suoi occhi, si aprirono un varco fra le labbra e decollarono, dirigendosi a sudest. E le scarpe bicolori spingevano sempre sui pedali; le gomme della bicicletta cantavano; le ruote schiacciavano i morti lì dove giacevano. Libro secondo OTTO: un rospo con ali d'oro L'ultimo melo / Fuggite il marchio di Caino / Il favore fatto / La Maschera di Giobbe / Viandante solitario / Una mano nuova / Fiori bianchi 48 La neve cadeva dal cielo giallastro sopra una stretta strada di campagna in quello che sette anni prima era lo stato del Missouri. Un cavallo pezzato — vecchio, dalla groppa insellata, ma ancora forte e volenteroso — tirava un piccolo carro costruito alla buona, coperto da un telone verde scuro tutto rattoppato. Il carro era un curioso incrocio fra un antico Conestoga e una roulotte U-Haul: l'intelaiatura era di legno, ma gli assali erano di ferro e le ruote avevano pneumatici. La copertura di stoffa era una tenda impermeabile a due posti, tesa su centine di legno. Ai lati, dipinta in bianco c'era la dicitura Spettacolo viaggiante; sotto, caratteri più piccoli proclamavano: Magia! Musica! e Battete il Mefìsto mascherato! Un paio di assi robuste serviva da sedile e da appoggio al conducente del carro, avvolto in un pesante cappotto di lana che cominciava ad aprirsi lungo le cuciture. L'uomo calzava un cappello da cowboy con l'orlo appe-
santito dalla neve ghiacciata e un paio di stivali vecchi e logori. Portava i guanti, indispensabili a proteggere le mani dal vento pungente, e una sciarpa a quadri, di lana, che gli copriva la parte inferiore del viso e lasciava esposti gli occhi — di un colore a metà fra il nocciola e il giallo topazio — e una fetta di pelle grinzosa. Il carro si muoveva lentamente in un paesaggio coperto di neve, fra nere e fitte foreste d'alberi spogli. Ai lati della strada, di tanto in tanto si vedevano i resti d'un fienile o d'una fattoria, crollati sotto il peso di sette anni d'inverno; l'unico segno di vita erano i corvi neri che becchettavano qua e là la terra gelata. Qualche metro dietro il carro avanzava pesantemente una figura grande e grossa che indossava un lungo soprabito grigio svolazzante e faceva scricchiolare sotto gli stivali la neve. Teneva le mani sprofondate nelle tasche dei calzoni di velluto a coste marrone e aveva la testa coperta interamente da una maschera da sci nera con cerchi rossi intorno agli occhi e alla bocca. Teneva piegate le spalle, sotto la sferza del vento; le gambe gli dolevano per il freddo. Tre metri dietro di lui veniva un terrier, con il pelo imbiancato di neve. Sento odore di fumo, pensò Rusty Weathers e strinse gli occhi per scrutare nella bianca cortina. Il vento cambiò direzione, lo assalì da un angolo diverso e l'odore di fumo di legna, se davvero c'era stato, svanì. Ma dopo altri dieci minuti, Rusty si disse che certo s'avvicinavano alla civiltà: sulla destra, scarabocchiata in vernice rossa sul largo tronco di una quercia spoglia, c'era la scritta: BRUCIA I TUOI MORTI. Cartelli del genere erano comuni; di solito annunciavano la vicinanza di una zona popolata. Più avanti c'era forse un villaggio, oppure un paese fantasma pieno di scheletri, a seconda di quel che le radiazioni avevano fatto. Il vento cambiò di nuovo e Rusty sentì l'odore di fumo. Procedevano su per una leggera salita; Mulo faceva del suo meglio per tirare il carro, ma senza fretta. Rusty non lo spingeva. A che scopo? Se avessero trovato riparo per la notte, bene; altrimenti, si sarebbero arrangiati. Nel corso di sette lunghi anni avevano imparato a improvvisare, a sfruttare al meglio quel che trovavano. La scelta era semplice: sopravvivere o morire; parecchie volte Rusty Weathers aveva provato l'impulso di piantare tutto e distendersi a morire, ma Josh o Swan l'avevano spinto a continuare, con battute scherzose o con prese in giro... proprio come Rusty aveva fatto nei loro confronti, nel corso degli anni. Erano una vera squadra, che comprendeva anche Mulo e Killer: nelle notti più fredde, costretti a dormire con il mini-
mo dei ripari, si erano salvati dalla morte per congelamento proprio grazie al calore dei due animali. Dopotutto, pensò Rusty, con un sorriso debole e truce sotto la sciarpa a quadri, lo spettacolo deve continuare! In cima alla salita, mentre iniziavano a scendere lungo la strada tortuosa, Rusty scorse fra le neve un luccichio giallastro, lontano sulla destra. La luce fu oscurata per un minuto dagli alberi morti... ma poi ricomparve; e Rusty fu sicuro che fosse il riflesso di una lanterna o di un fuoco. Inutile chiamare Josh, sia a causa del vento, sia a causa dell'udito del compagno, che non era più quello d'un tempo. Fermò Mulo e premette con lo stivale la leva di legno che bloccava l'assale anteriore. Sceso dal sedile, tornò indietro a mostrare a Josh la luce e a dirgli che sarebbe andato in quella direzione. Josh annuì. Solo un occhio compariva dalla maschera nera. L'altro era oscurato da un'escrescenza cornea, grigia, simile a una crosta. Rusty risalì a cassetta, tolse il freno e mosse con gentilezza le redini. Subito Mulo riprese a tirare il carro; Rusty ritenne che anche il cavallo avesse fiutato il fumo e sapesse che forse un riparo era vicino. Un'altra strada, più stretta e non asfaltata, curvava a destra fra i campi coperti di neve. Il riflesso luminoso aumentò d'intensità; ben presto, più avanti, Rusty scorse una fattoria con la finestra illuminata. Accanto alla casa c'erano altri edifici, compreso un piccolo fienile. Gli alberi erano stati tagliati tutt'intorno e centinaia di ceppi sporgevano dalla neve. Restava in piedi un unico albero secco e rachitico, una trentina di metri davanti alla casa. Rusty sentì l'odore di legna bruciata e immaginò che il bosco fosse finito in cenere nel camino. Ma il legno bruciato non aveva lo stesso odore che aveva avuto prima del 17 luglio, per le radiazioni filtrate nelle piante: ora il fumo aveva un odore chimico, simile a quello di plastica bruciata. Rusty ricordò il dolce profumo di ceppi puliti nel camino e si disse che quel particolare aroma era perso per sempre, come il gusto dell'acqua pulita. Ora l'acqua aveva un sapore mefitico e lasciava in bocca come una pellicola. Bere la neve disciolta, che costituiva quasi tutta la scorta rimasta, comportava emicrania, nausea, annebbiamento della vista. L'acqua pura, come quella d'un pozzo o la minerale in bottiglia, era adesso preziosa come vino francese nel mondo di una volta. Rusty condusse Mulo davanti alla casa e tirò il freno. Ora viene il difficile, si disse. Molte volte, fermandosi a chiedere riparo, erano stati presi a fucilate; aveva ancora sulla guancia sinistra la cicatrice d'un proiettile di
striscio. Nella casa non c'era segno di movimento. Rusty allungò la mano dietro di sé e abbassò in parte la cerniera della tenda. Dentro, distribuiti nel carro in modo da bilanciare il peso, c'erano tutti i loro miseri averi: alcune taniche di plastica piene d'acqua, alcune scatole di fagioli, un sacco di bricchette di carbone, vestiti e coperte di scorta, i loro sacchi a pelo, la vecchia chitarra classica Martin che Rusty imparava da solo a suonare. La musica attirava sempre le persone, dava loro qualcosa con cui interrompere la monotonia; in un paese, una donna riconoscente aveva dato loro un pollo, quando Rusty aveva laboriosamente suonato per lei Moon River. Rusty aveva trovato la chitarra e una pila di libri di musica nella città morta di Sterling, nel Colorado. «Dove siamo?» chiese la ragazza, da dentro la tenda. Se n'era stata rannicchiata nel sacco a pelo, ad ascoltare il gemito inquieto del vento. Parlava in modo confuso, ma se pronunciava le parole lentamente, Rusty riusciva a capirla. «Davanti a una casa. Forse ci lasceranno usare per la notte il loro fienile.» Diede un'occhiata alla coperta rossa avvolta attorno a tre fucili. Aveva a portata di mano, in una scatola da scarpe, la rivoltella .38 e le scatole di proiettili. Come diceva sempre la mia vecchia mamma, pensò, bisogna combattere il fuoco col fuoco. Voleva essere pronto ad affrontare i guai; si mosse per prendere la .38, con l'intenzione di nasconderla sotto il cappotto, prima di accostarsi alla porta. Swan interruppe le sue riflessioni. «È più facile che ti sparino, se prendi la rivoltella.» Rusty esitò, ricordando che impugnava il fucile, quando quella pallottola gli aveva rigato la guancia. «Già, sembra anche a me» ammise. «Fammi gli auguri.» Tornò a chiudere la cerniera della tenda e scese dal carro; inspirò a fondo l'aria invernale e si avvicinò alla casa. Josh rimase accanto al carro e lo tenne d'occhio, mentre Killer faceva i suoi bisogni contro un ceppo. Rusty alzò la mano per bussare, quando al centro della porta si aprì una feritoia; una canna di fucile scivolò dolcemente a guardarlo in faccia. Oh merda, pensò Rusty; ma le gambe gli si erano bloccate e rimase lì inerme. «Chi sei e cosa vuoi?» domandò una voce maschile. Rusty alzò le mani. «Mi chiamo Rusty Weathers. Io e i miei due amici là fuori cerchiamo un riparo prima che faccia troppo buio. Dalla strada ho scorto la vostra luce. Vedo che avete un fienile, così mi chiedevo se...»
«Da dove venite?» «Da ovest. Abbiamo attraversato Howes Mill e Bixby.» «Non c'è rimasto niente, lì.» «Lo so. La prego, signore, chiediamo solo un posto dove dormire. Il nostro cavallo sarà certo contento d'avere un tetto sulla testa.» «Abbassa il fazzoletto e mostra il viso. Chi credi di essere? Jesse James?» Rusty abbassò la sciarpa. Ci fu un momento di silenzio. «Qui fuori fa un freddo terribile, signore» disse Rusty. Il silenzio si prolungò. Rusty udì l'uomo parlare con qualcuno, ma non capì che cosa dicessero. Poi la canna di fucile si ritrasse e Rusty mandò un sospiro che divenne subito una nuvoletta bianca. Seguì il rumore di parecchi chiavistelli e la porta si aprì. Comparve davanti a lui un uomo magro, dall'aspetto duro — sulla sessantina, capelli ricci e canuti, la barba incolta d'un eremita — con il fucile al fianco, ma sempre pronto all'uso. Il viso era così duro e pieno di rughe da sembrare pietra sbozzata; gli occhi marrone scuro si spostarono da Rusty al carro. «Cosa c'è scritto sulla fiancata? Spettacolo viaggiante? Per Giuda, cosa sarebbe?» «Quel che significa. Siamo... siamo dei saltimbanchi.» Una donna anziana e canuta, con un paio di larghi calzoni blu e un pesante maglione bianco, scrutò cautamente da sopra la spalla dell'uomo. «Saltimbanchi» ripeté l'uomo. Corrugò la fronte, come se sentisse un cattivo odore. Tornò a guardare Rusty. «Voi saltimbanchi avete cibo?» «Abbiamo un po' di roba in scatola. Fagioli, cose del genere.» «Noi abbiamo una tazza di caffè e un po' di carne di porco sotto sale. Mettete il carro nel fienile e portate i fagioli.» Chiuse la porta in faccia a Rusty. Nel fienile, Rusty e Josh tolsero a Mulo le tirelle in modo che potesse arrivare a un mucchietto di paglia con alcuni tutoli secchi. Josh versò in un secchio un po' d'acqua per Mulo e trovò un barattolo di recupero che servì da ciotola per Killer. Il fienile, ben costruito, non lasciava entrare il vento, perciò i due animali non correvano il rischio di congelare, alla scomparsa della luce e all'arrivo del freddo vero. «Cosa pensi?» chiese sottovoce Josh a Rusty. «L'accetteranno in casa?» «Non so. Sembrano persone per bene, ma un po' paurose.» «Si scalderebbe, se avessero un fuoco.» Josh si soffiò sulle mani e si chinò a massaggiarsi le ginocchia doloranti. «Possiamo convincerli che non è contagiosa.»
«Non sappiamo se non lo è davvero.» «Tu non l'hai presa, giusto? Se fosse contagiosa, a quest'ora l'avresti da un pezzo, non ti pare?» Rusty annuì. «Sì. Ma come li convinceremo?» Il lembo posteriore del tendone si aprì. Dall'interno provenne la voce distorta di Swan. «Resterò qui. Non voglio spaventare nessuno.» «Hanno un fuoco, in casa» disse Josh, accostandosi al retro del carro. Swan era in piedi, rattrappita, stagliata contro la luce fioca del lume. «Se entri con noi, va bene.» «No, non va bene. Portatemi qui da mangiare. Meglio così.» Swan aveva una coperta attorno alle spalle e alla testa. In sette anni, il suo fisico allampanato e lungo di gambe aveva superato il metro e settanta. A Josh si spezzava il cuore a sapere che aveva ragione lei. Se quelli della casa erano tipi paurosi, era meglio che Swan restasse sul carro. «D'accordo» disse, con voce soffocata. «Ti porterò un po' di cibo.» Girò le spalle al carro, prima di mettersi a urlare. «Ti spiace passarmi un paio di scatole di fagioli?» disse Rusty. Swan prese Crybaby e batté sulle scatole, poi andò a prenderne due. Le diede a Rusty. «Rusty, se hanno dei libri di cui possono fare a meno, sarei davvero felice» disse. «Qualsiasi libro andrebbe bene.» Lui annuì, stupito che riuscisse ancora a leggere. «Non staremo via molto» promise Josh. Seguì Rusty fuori del fienile. Quando furono usciti, Swan abbassò la sponda di legno e posò a terra la scaletta a pioli. Tastando con la bacchetta da rabdomante il terreno, scese e si diresse alla porta del fienile, sempre con le spalle e la testa avvolte nella coperta. Killer le camminò accanto, agitò furiosamente la coda e abbaiò per richiamare la sua attenzione. Il modo d'abbaiare non era brioso come quello di sette anni prima e l'età aveva appesantito l'andatura del terrier. Swan si fermò, posò Crybaby e prese in braccio Killer. Socchiuse la porta del fienile e sporse la testa, inclinata a sinistra, per scrutare fra la neve che continuava a cadere. La fattoria aveva un'aria così calda, così invitante... ma per lei era meglio restare lì dov'era. Nel silenzio, il suo respiro risuonava come un ansito asmatico. Fra la neve, alla luce che sgorgava dalla finestra distingueva quell'unico albero ancora in piedi. Perché solo uno? Perché il padrone della fattoria aveva tagliato tutti gli altri e lasciato quell'albero lì da solo? Killer si allungò e sporse la lingua a leccarle il viso. Swan rimase ancora
un minuto a guardare l'albero isolato, poi chiuse la porta del fienile, raccolse Crybaby e a tentoni si avvicinò a Mulo per accarezzargli il fianco. Nella fattoria, il fuoco ardeva nel camino di pietra. Sopra le fiamme, nella pentola di ghisa sobbolliva un brodo di carne di maiale e di verdure. L'anziano dal viso arcigno e la timida moglie trasalirono in modo evidente, quando Josh Hutchins seguì Rusty all'interno. Erano rimasti sorpresi dalla corporatura, più che dalla maschera; negli ultimi sette anni Josh aveva perso un mucchio di chili superflui, ma aveva messo su altri muscoli ed era ancora uno spettacolo da intimorire. Il vecchio, a disagio, continuò a fissare le mani striate di pigmento bianco, finché Josh non se le cacciò in tasca. «Ecco i fagioli» disse Rusty, nervoso, porgendogli le scatole. Aveva notato che il fucile era appoggiato al camino, dove l'uomo avrebbe potuto prenderlo con facilità, se ne avesse avuto voglia. Il vecchio prese le scatole di fagioli e le passò alla moglie. La donna diede un'occhiata nervosa a Josh, poi tornò nel retro della casa. Rusty si tolse guanti e cappotto, li posò sopra una sedia, si tolse il cappello. Ormai, a soli quarantun anni, aveva i capelli grigi e ciuffi bianchi alle tempie. La barba era brizzolata; la cicatrice, uno sfregio livido sulla guancia. Intorno agli occhi aveva una fitta rete di rughe profonde. Si piazzò davanti al camino, crogiolandosi al calore. «Avete un bel fuoco» disse. «Toglie davvero il gelo di dosso.» Il vecchio fissava Josh. «Puoi toglierti il cappotto e la maschera, se vuoi.» Josh si tolse il cappotto. Sotto portava due pesanti maglioni, uno sull'altro. Non accennò affatto a togliersi la maschera da sci. L'uomo gli andò vicino, ma si fermò di colpo, quando vide l'escrescenza grigia che copriva l'occhio destro. «Josh è un wrestler» disse in fretta Rusty. «Il Mefisto Mascherato è lui. Io sono un mago. Vedete, siamo una compagnia di saltimbanchi. Andiamo di paese in paese, teniamo spettacoli per qualsiasi compenso la gente possa darci. Josh affronta chi vuole provare a batterlo: se lo sfidante vince, il paese ha lo spettacolo gratis.» Il vecchio annuì con aria assente, senza staccare gli occhi da Josh. La donna tornò, versò nella pentola il contenuto delle scatole, con un cucchiaio di legno mescolò il tutto. Alla fine il vecchio disse: «Sembra che qualcuno te le abbia suonate di santa ragione, amico. Quel paese si sarà beccato uno spettacolo gratis, eh?» Ridacchiò. Il nervosismo di Rusty si calmò un poco: per quel giorno non ci sarebbero state sparatorie. «Preparo
una tazza di caffè» aggiunse il vecchio; e uscì dalla stanza. Josh andò a scaldarsi al fuoco. La donna si ritrasse da lui, come se avesse la peste. Per non spaventarla, Josh tornò alla finestra e fissò il mare di ceppi e l'unico albero ancora in piedi. «Mi chiamo Sylvester Moody» disse il vecchio, quando tornò portando un vassoio con delle tazze di terracotta scura. «Mi chiamavano Sly, come quel tale che ha fatto tutti quei film di pugilato.» Posò il vassoio sopra un piccolo tavolo di pino; dalla mensola del camino prese un guanto, lo calzò e staccò dal chiodo piantato nella parete interna una caffettiera tutta graffiata. «Buono e caldo» disse, versando nelle tazze il liquido nero. «Non abbiamo né latte né zucchero, perciò non chiedetene.» Mosse la testa in direzione della donna. «Mia moglie, Carla. Diventa un po' nervosa, se ci sono forestieri.» Rusty prese una tazza bollente e bevve con genuino piacere, anche se il caffè era così forte da battere Josh in un incontro di wrestling. «Perché un albero solo, signor Moody?» domandò Josh. «Eh?» Josh era fermo alla finestra. «Perché ha lasciato solo quell'albero? Perché non l'ha tagliato come gli altri?» Sly Moody prese una tazza di caffè e la portò al gigante mascherato. Si sforzò di non fissare le chiazze bianche della mano che accettava la tazza. «Ho vissuto in questa casa per quasi trentacinque anni» rispose. «Un bel po' di tempo, nella stessa casa, nello stesso pezzo di terra. Oh, avevo un bel campo di granturco, là dietro.» Indicò il retro. «Coltivavo del tabacco e un po' di fagioli; ogni anno, io e Jeannette andavamo nell'orto e...» Lasciò morire la frase e diede un'occhiata a Carla, che lo guardava con occhi spalancati, stupiti. «Scusa, cara» continuò. «Volevo dire, io e Carla andavamo nell'orto e portavamo a casa cesti di ottime verdure.» La donna, soddisfatta, smise di girare lo stufato e lasciò la stanza. «Jeannette era la mia prima moglie» spiegò Sly, sottovoce. «È morta circa due mesi dopo il disastro. Poi, un giorno, mentre camminavo lungo la strada per la fattoria di Ray Featherstone... un paio di chilometri da qui, mi pare... mi sono imbattuto in una macchina finita nel fosso e mezzo sepolta in un mucchio di neve. Be', al volante c'era un morto con la faccia livida e accanto a lui una donna quasi in fin di vita. Aveva in grembo la carcassa sventrata d'un barboncino e stringeva in mano una lima per unghie... e non voglio dirvi cosa aveva fatto per non morire assiderata. Comunque, era così pazza da non sapere niente, neppure il proprio nome, né da dove veniva.
L'ho chiamata Carla, dal nome della prima ragazza che ho baciato. È rimasta; e ora pensa d'essere vissuta in questa fattoria con me da trentacinque anni.» Scosse la testa: aveva gli occhi cupi, ossessionati. «Buffo... la macchina era una Lincoln Continental; e quando l'ho trovata, Carla era coperta di perle e di brillanti. Ho conservato tutta quella paccottiglia in una scatola da scarpe e l'ho data via in cambio di sacchi di farina e di pancetta. Tanto, lei non aveva certo voglia di rivedere quei gioielli. È passata gente, ha recuperato pezzi della macchina, a poco a poco non è rimasto niente. Meglio così.» Carla portò delle scodelle e si mise a riempirle di stufato. «Brutti giorni» disse piano Sly Moody, fissando l'albero. Poi lo sguardo gli si schiarì e lui rise debolmente. «Quello è il mio melo! Sissignore! Vedete, avevo un frutteto di meli, al di là di quel campo. Raccoglievo mele a barili... ma dopo il disastro e la morte degli alberi, ho inziato a tagliarli per farne legna da ardere. Non ti viene voglia di andare in mezzo alla foresta, per far legna, eh, eh! Ray Featherstone morì assiderato a cento metri dalla sua stessa porta.» S'interruppe un momento, con un sospiro. «Ho piantato con le mie mani quei meli. Li ho visti crescere, li ho visti scoppiare di frutti. Sapete cos'è oggi?» «No» rispose Josh. «Tengo il calendario. Un segno ogni giorno. Ho consumato un mucchio di matite. Oggi è il 26 aprile. Primavera.» Sorrise con amarezza. «Li ho tagliati tutti tranne quello, li ho buttati nel fuoco pezzo per pezzo. Ma che io sia dannato se abbatto anche quello. Non posso.» «La cena è quasi pronta» annunciò Carla. Parlava con un'inflessione del nord, assai diversa da quella strascicata di Sly, tipica del Missouri. «Venite a mangiare.» «Un momento.» Sly guardò Rusty. «Non avevi detto che eri con due amici?» «Infatti. Con noi viaggia anche una ragazza. È...» Diede una rapida occhiata a Josh, poi tornò a guardare Sly. «È fuori, nel fienile.» «Una ragazza? Dio onnipotente, amico! Portala dentro e dalle del buon cibo caldo!» «Ah... non credo...» «Vai a prenderla! I fienili non sono posti per ragazze!» «Rusty?» Josh scrutava dalla finestra. La notte scendeva rapidamente, ma lui vedeva ancora l'ultimo melo e la figura ferma sotto l'albero. «Vieni qui un momento.» Fuori, con la coperta attorno alla testa e alle spalle come un mantello,
Swan guardava i rami del melo rinsecchito; dopo un paio di giri di corsa intorno all'albero, Killer abbaiò timidamente, con la voglia di tornare nel fienile. Sopra la testa di Swan, i rami si mossero come braccia scheletriche che frugassero intorno. La ragazza avanzò di qualche passo, affondando gli stivali nei quindici centimetri di neve; posò sul tronco le mani nude. L'albero era freddo, sotto le dita. Freddo e morto da tanto tempo. Come ogni altra cosa, pensò Swan. Alberi, erba, fiori... tutto bruciato dalle radiazioni, tanti anni prima. Ma era un bell'albero, si disse. Possedeva una sua dignità, come un monumento; non meritava di essere circondato dai brutti residui del passato. Il suono di dolore di quel luogo era stato certo un lungo gemito di sofferenza. Mosse lievemente la mano lungo il legno. Anche nella morte, c'era un che d'orgoglioso, in quell'albero, un che di spavaldo, di primordiale... uno spirito selvaggio, come il cuore d'una fiamma che non possa mai essere estinta del tutto. Ai suoi piedi, Killer abbaiò, incitandola ad affrettarsi. Swan disse: «E va bene, ora ven...» Si bloccò. Il vento turbinò intorno a lei, le tirò i vestiti. Possibile? Era solo un sogno, oppure... Sentiva il formicolio alle dita. Appena percettibile, nel gelo. Appoggiò contro il legno il palmo della mano. Si sentì percorrere dal formicolio... debole, ma crescente, a poco a poco più intenso. Il cuore le balzò in petto. Vita, c'era ancora vita, nel profondo dell'albero. Da tanto, tantissimo tempo non sentiva vibrare la vita, era quasi una sensazione nuova. Capì in quell'istante quanto le fosse mancata. Ora una vibrazione simile a una corrente elettrica di media intensità sembrava sorgere dalla terra, attraversarle le piante dei piedi, muoversi lungo il dorso, lungo le braccia, fino alla mano appoggiata contro il legno. Quando Swan ritrasse la mano, il formicolio cessò. Lei premette di nuovo le dita sull'albero e provò una scossa più intensa, come se un rivolo di fuoco le scorresse lungo la spina dorsale. Tremava in tutto il corpo. La sensazione aumentava costantemente, ora diventava quasi dolorosa; le ossa le dolevano per l'energia che da lei fluiva dentro l'albero. Quando non riuscì più a sopportarla, ritrasse la mano. Le dita continuarono a formicolare. Seguendo l'impulso, tese l'indice e tracciò sul tronco delle lettere: S... W... A...N... «Swan!» Sobbalzò alla voce proveniente dalla casa. Si girò verso il suo-
no; a causa della mossa, il vento le strappò il manto improvvisato e le scoprì le spalle e la testa. Sly Moody, in piedi fra Josh e Rusty, reggeva una lanterna. Alla luce giallastra, vide che la figura sotto il melo non aveva faccia. La testa era coperta di escrescenze grigie, iniziate sotto forma di piccole verruche nere, ingrossate e diffuse con il passare degli anni fino a unirsi in viticci grigi simili a liane intrecciate che si muovessero a tentoni. Come un casco nodoso, le escrescenze avevano coperto il cranio, avevano racchiuso i tratti del viso, l'avevano sigillato, lasciando solo una piccola feritoia sull'occhio sinistro e un foro frastagliato sopra la bocca, dal quale lei respirava e mangiava. Alle spalle del vecchio, Carla urlò. «Oh... mio Dio...» mormorò Sly. La figura senza faccia afferrò la coperta e si avvolse la testa e le spalle; Josh udì il grido straziante, mentre Swan correva nel fienile. 49 L'oscurità scese sulle case e sugli edifici coperti di neve di quella che era stata Broken Bow, nel Nebraska. Filo spinato recingeva la piccola città; qua e là pezzi di legno e stracci bruciavano dentro vecchi bidoni di benzina e il vento soffiava nel cielo turbini di scintille arancione. Decine di cadaveri congelati giacevano lungo la curva a nordovest della Statale 2; carcasse di veicoli incendiati sputavano ancora fiamme. Nel fortino che Broken Bow era stato negli ultimi due giorni, 317 fra uomini, donne e bambini, malati e feriti, tentavano disperatamente di scaldarsi intorno a un gigantesco falò acceso nella piazza centrale. Le case di legno venivano fatte a pezzi e gettate nelle fiamme. Altri 264 fra uomini e donne, armati di fucili, pistole, asce, coltelli, se ne stavano acquattati in trincee frettolosamente scavate lungo il filo spinato al limitare ovest del villaggio. Tenevano la faccia rivolta a ovest, nel lamentoso vento sottozero che tanti ne aveva già uccisi. Rabbrividivano nei cappotti a brandelli, ma quella notte temevano una morte di tipo diverso. «Laggiù!» gridò un uomo che aveva intorno alla testa una benda incrostata di ghiaccio. Indicò un punto lontano. «Laggiù! Ecco che vengono!» Un coro di grida e d'avvertimenti passò lungo la trincea. Fucili e pistole furono rapidamente controllati. La trincea vibrò di movimenti nervosi; il fiato di esseri umani turbinò nell'aria come polvere di diamanti.
Due fari si mossero a zigzag sull'autostrada ridotta a carnaio. Il vento pungente portò una musica orgiastica. Mentre i fari s'avvicinavano, un uomo inagrissimo, dagli occhi infossati, con un pesante cappotto di pelle di pecora, si alzò al centro della trincea e puntò il binocolo sul veicolo in arrivo. Aveva la faccia striata di cheloidi marrone scuro. Abbassò il binocolo prima che il gelo gli saldasse al viso le occhiere. «Aspettate a sparare!» gridò verso sinistra. «Passate parola!» L'ordine percorse la fila. L'uomo si girò a destra e lo ripeté; poi attese, la mano guantata sul mitragliatore Ingram tenuto sotto il cappotto. Il veicolo passò davanti a un'auto in fiamme; il bagliore rossastro rivelò che si trattava di un camion: sulle fiancate, resti di vernice reclamizzavano diversi gusti di gelato. Sopra la cabina erano sistemati due altoparlanti; il parabrezza era stato rimpiazzato da una lastra di metallo con due feritoie per consentire al guidatore e al passeggero la visuale. Il paraurti anteriore e la griglia del radiatore erano schermati da lastre metalliche; dall'armatura sporgevano punte frastagliate di metallo lunghe sessanta centimetri. Il vetro dei fari era rinforzato con nastro adesivo e protetto con rete metallica. Ai lati del camion c'erano feritoie per le armi da fuoco; in cima, da una rozza torretta metallica spuntava il muso d'una mitragliatrice pesante. Il camion corazzato Good Humor, con il motore modificato che sbuffava, avanzò, su pneumatici muniti di catene, sopra la carcassa d'un cavallo e si fermò a una cinquantina di metri dal filo spinato. La musica allegra e dolce, registrata su nastro, continuò per altri due minuti; poi scese il silenzio. Il silenzio si prolungò. Dagli altoparlanti provenne una voce maschile: «Franklin Hayes! Mi senti, Franklin Hayes?» L'uomo magro e stanco, con il cappotto di pelle di pecora, socchiuse gli occhi ma non rispose. «Franklin Hayes!» continuò la voce, con un'allegra nota di scherno. «Ci hai offerto un bel combattimento, Franklin Hayes! L'Esercito d'Eccellenza ti rende onore!» «Vaffanculo» disse piano una donna di mezz'età, scossa dai brividi, nella trincea accanto a Hayes. Portava alla cintura un coltello e impugnava una pistola; una cheloide verde, a forma di giglio, le copriva quasi tutto il viso. «Sei un buon comandante, Franklin Hayes! Non pensavamo che a Dunning avresti avuto la forza di sfuggirci. Credevamo che saresti morto sull'autostrada. In quanti siete rimasti, Franklin Hayes? Quattrocento? Cinquecento? E quanti sono in grado di combattere? La metà, forse? L'Eserci-
to d'Eccellenza ha più di quattromila soldati in perfette condizioni, Franklin Hayes! Alcuni di loro soffrivano insieme a te, ma hanno deciso di salvarsi la vita e di passare dalla nostra parte!» Qualcuno, nella trincea di sinistra sparò un colpo di fucile, al quale seguirono parecchi altri. Hayes gridò: «Non sprecate proiettili, maledizione!» La sparatoria diminuì, cessò del tutto. «I tuoi soldati sono nervosi, Franklin Hayes!» schernì la voce. «Sanno d'essere sul punto di morire.» «Non siamo soldati» mormorò Hayes fra sé. «Pazzo bastardo, non siamo soldati!» Non sapeva come la sua comunità di superstiti — un tempo superava le mille anime e cercava di ricostruire la cittadina di Scottsbluff — si fosse trovata invischiata in quella folle "guerra" . Un pulmino guidato da un robusto omaccione con la barba rossa era giunto a Scottsbluff e ne era sceso un tipo dall'aria fragile, con il viso tutto fasciato, a parte gli occhi, coperti da un paio d'occhialoni. Con voce dal timbro acuto, giovanile, aveva detto d'essere rimasto gravemente ustionato, anni prima; aveva chiesto acqua e un posto dove passare la notte, ma non aveva permesso al dottor Gardner nemmeno di toccare le fasce. Hayes stesso, in veste di sindaco di Scottsbluff, aveva portato il giovane a visitare gli edifici in fase di ricostruzione. Durante la notte, i due erano partiti di nascosto; tre giorni dopo, Scottsbluff era stata assalita e rasa al suolo. Le urla della moglie e del figlio echeggiavano ancora nelle orecchie di Hayes. Allora lui aveva guidato i superstiti verso est, per sfuggire ai pazzi che li inseguivano... ma l'"Esercito d'Eccellenza" aveva una quantità superiore di camion, di auto, di roulotte e di benzina, più armi, più munizioni, più "soldati"; il gruppo di Hayes aveva lasciato una scia di centinaia di cadaveri. Era un folle incubo senza fine. Un tempo Hayes era stato un eminente professore d'economia all'università dello Wyoming; ora si sentiva un topo in trappola. I fari del camion corazzato splendevano come occhi malevoli. «L'Esercito d'Eccellenza invita tutti gli uomini, donne e bambini di sana costituzione a unirsi a noi» disse la voce amplificata. «Dovete solo oltrepassare il filo spinato e incamminarvi verso ovest; ci prenderemo cura di voi... cibo caldo, letto comodo, riparo e protezione. Portate con voi armi e munizioni, ma tenete la canna rivolta a terra. Se siete sani di corpo e di mente, se non siete contaminati dal marchio di Caino, sarete accolti a braccia aperte. Avete cinque minuti per decidere.» Il marchio di Caino, pensò Hayes, torvo. Aveva già udito la frase, da
quei maledetti altoparlanti: si riferiva alle cheloidi e alle escrescenze cornee che coprivano il viso di molta gente. Loro volevano solo individui "incontaminati" e "sani di mente". Ma lui si poneva domande sul giovane con gli occhialoni e le bende sul viso. Perché si fasciava, se non era "contaminato" anche lui dal "marchio di Caino"? Il capo di quella banda di razziatori e di stupratori, chiunque fosse, non era più un essere umano. Chissà come, costui — o costei — aveva seminato bramosia di sangue nel cervello di quattromila e più seguaci, che ora uccidevano, saccheggiavano e incendiavano le comunità impegnate nel tentativo di riprendersi, per pura e semplice voglia di brivido. Ci fu un gridò sulla destra. Due uomini superavano a fatica il filo spinato; lo scavalcarono, lasciarono sulle punte di ferro brandelli di cappotto e di calzoni, si misero a correre verso ovest, tenendo i fucili puntati a terra. «Vigliacchi!» gridò qualcuno. «Sporchi vigliacchi!» Ma i due non si guardarono indietro. Una donna passò dall'altra parte, seguita da un altro uomo. Poi un uomo, una donna e un ragazzino abbandonarono la trincea e scapparono verso ovest, portando con sé armi da fuoco e munizioni, inseguiti da grida rabbiose e imprecazioni; ma Hayes non li biasimò. Nessuno di loro aveva cheloidi: perché restare a farsi massacrare? «Venite a casa» intonò la voce amplificata. «Venite a casa, all'amore, alle braccia aperte. Fuggite il marchio di Caino e venite a casa... venite a casa... venite a casa.» Altri varcavano il filo spinato. Svanirono a ovest nel buio. «Non soffrite in compagnia degli impuri! Venite a casa, sfuggite il marchio di Caino!» Risuonò un colpo di fucile: un faro del camion si ruppe, ma la rete metallica deviò la pallottola e la luce continuò a brillare. Altra gente scavalcò la barricata e si allontanò rapidamente verso ovest. «Io non vado da nessuna parte» disse a Hayes la donna con la cheloide a forma di giglio. «Sono decisa a restare.» L'ultimo ad andarsene fu un adolescente che portava una doppietta e aveva le tasche del cappotto gonfie di cartucce. «Il tempo è scaduto, Franklin Hayes!» gridò la voce. Da sotto il cappotto Hayes estrasse l'Ingram e tolse la sicura. «È ora!» ruggì la voce... e al suo ruggito se ne unirono altri, che si alzarono e si mischiarono in un unico, inumano grido di battaglia. Ma erano ruggiti di motori accesi, scoppiettanti, che venivano in vita rombando. E
poi si accesero i fari... decine di fari, centinaia di fari, che disegnavano un arco su entrambi i lati della Statale 2, di fronte alla trincea. Intontito dall'orrore, Hayes capì che altri camion corazzati, motrici d'autotreni, macchine blindate, erano stati spinti in silenzio fin quasi alla barriera di filo spinato, mentre il camion con l'altoparlante distraeva l'attenzione. I fari colpirono in pieno viso gli occupanti delle trincee, mentre i motori acceleravano e gli pneumatici muniti di catene avanzavano schiacciando la neve e i cadaveri congelati. Hayes si alzò per gridare: «Fuoco!», ma la sparatoria era già iniziata. I lampi degli spari incresparono la trincea; le pallottole rimbalzarono sulle piastre di protezione delle ruote, sullo scudo dei radiatori e delle torrette. Ma i carri da battaglia avanzarono, quasi con comodo; l'Esercito d'Eccellenza tratteneva il fuoco. Allora Hayes urlò: «Usate le bombe!», ma nel tumulto nessuno lo udì. Non fu necessario spiegare ai combattenti nelle trincee che dovevano chinarsi, prendere una delle bottiglie piene di benzina di cui erano muniti, accendere lo stoppino di stracci accostandolo al fuoco dei bidoni e lanciare quelle artigianali bombe a mano. Le bottiglie esplosero, scagliarono sulla neve benzina in fiamme; ma fra le lingue di luce rossastra i mostri continuarono l'avanzata, intatti; già alcuni superavano il filo spinato teso a meno di sei metri dalla trincea. Una bottiglia centrò la feritoia del parabrezza blindato di una Pinto; andò in mille pezzi e schizzò benzina incendiata. Il guidatore rotolò fuori dell'auto, urlando, con il viso in fiamme. Barcollò verso il filo spinato e Franklin Hayes lo abbatté con una raffica di Ingram. La Pinto proseguì la corsa, si aprì un varco nella barricata e schiacciò quattro persone che non fecero in tempo a uscire dalla trincea. I veicoli ridussero a brandelli la barriera di filo spinato. All'improvviso le rozze torrette e le feritoie eruttarono pallottole di fucile, di pistola, di mitragliatrice, che spazzarono la trincea, mentre i seguaci di Hayes cercavano di darsi alla fuga. A decine scivolarono indietro o giacquero immobili sulla neve sporca, ora chiazzata di sangue. Un bidone si rovesciò e appiccò fuoco a una scorta di Molotov, che esplose nella trincea. Dappertutto c'erano fiamme e sibili di proiettili, corpi che si torcevano, grida, confusione. «Indietro!» gridò Franklin Hayes, I difensori fuggirono verso la seconda barriera, arretrata di cinquanta metri: un muro alto un metro e mezzo, di mattoni, di legname e di cadaveri congelati d'amici e familiari, ammassati come cataste. Franklin Hayes vide soldati a piedi in rapido avvicinamento alle spalle
della prima ondata di veicoli. La trincea era abbastanza larga da bloccare automobili e camion che tentassero di superarla, ma la fanteria dell'Esercito d'Eccellenza l'avrebbe presto invasa... e, fra il fumo e i turbini di neve, pareva che quest'ultima contasse migliaia di uomini. Hayes udì il loro grido di guerra: un gemito basso, animalesco, che faceva quasi vibrare la terra. Poi il radiatore blindato d'un camion lo fissò in viso; Hayes balzò fuori della trincea, mentre il camion si fermava a mezzo metro. Un proiettile gli sibilò sulla testa e lui inciampò sul cadavere della donna con la cheloide a forma di giglio. Si rialzò e si mise a correre, mentre i proiettili colpivano con tonfi sordi la neve tutt'intorno; si arrampicò al di là del muro di mattoni e di cadaveri, si girò a fronteggiare gli assalitori. Esplosioni cominciarono ad abbattere il muro e a scagliare da tutte le parti schegge di metallo. Usavano granate a mano, tenute di riserva fino a quel momento. Hayes continuò a sparare contro le sagome in corsa, finché l'Ingram non gli scottò le mani. «Hanno sfondato sulla destra!» gridò uno. «Arrivano!» Sciami di uomini correvano in ogni direzione. Hayes si frugò in tasca, trovò un altro caricatore e ricaricò. Un soldato nemico balzò sopra il muro; Hayes ebbe il tempo di notare che aveva il viso dipinto come un indiano sul sentiero di guerra, prima che l'uomo si girasse su se stesso e conficcasse un coltello nel fianco di una donna che combatteva a qualche passo di distanza. Hayes gli sparò in testa e continuò a sparare, mentre il soldato sobbalzava e cadeva. «Correte! Indietro!» urlò qualcuno. Altre voci, altre grida, superarono il frastuono. «Non riusciamo a respingerli! Hanno sfondato!» Un uomo con il sangue che gli scorreva sulla faccia afferrò il braccio di Hayes. «Signor Hayes!» gridò. «Hanno sfondato! Non riusciamo a tenerli indietro...» Fu interrotto dalla lama di un'ascia che gli si conficcò nel cranio. Hayes barcollò all'indietro. Si lasciò sfuggire l'Ingram, cadde sulle ginocchia. Uno strattone liberò l'ascia e il cadavere cadde sulla neve. «Franklin Hayes?» disse una voce bassa, quasi gentile. Hayes vide davanti a sé una figura dai capelli lunghi, ma non ne distinse il viso. Era stanco, esausto. «Sì» rispose. «È ora di dormire» disse l'uomo. Sollevò l'ascia. Quando la lama ricadde, un nano acquattato in cima alle macerie del mu-
ro spiccò un balzo e batté le mani. 50 Una jeep ammaccata, con un solo faro in funzione, emerse dalla neve che cadeva sulla Statale 63 del Missouri ed entrò in quella che un tempo era stata una cittadina. Da alcune case di legno filtrava la luce di lanterne, ma per il resto il buio regnava sulle vie. «Fermiamoci lì.» Sister indicò un edificio di mattoni, sulla destra. Le finestre erano chiuse con assi, ma nel parcheggio dal fondo di ghiaia erano radunate alcune vecchie auto e dei camioncini. Mentre Paul Thorson entrava nel parcheggio, il faro illuminò un'insegna dipinta in rosso sulle assi di una finestra: TAVERNA DELLA SECCHIA DI SANGUE. «Ah... sei sicura di volerti fermare proprio qui?» domandò Paul. Sister, incappucciata nella giacca a vento blu scuro, annuì. «Se ci sono auto, qualcuno saprà certo dove trovare benzina.» Diede un'occhiata alla spia del carburante. L'ago sfiorava lo zero. «Forse scopriremo anche dove diavolo siamo.» Paul spense il riscaldamento, l'unico faro e il motore. Portava il vecchio e fido giaccone di pelle sopra un maglione rosso di lana, una sciarpa intorno al collo e un berretto marrone di lana tirato fin sugli occhi. La barba era grigio cenere, come quasi tutti i capelli, ma gli occhi erano sempre di un intenso blu elettrico che risaltava nella faccia piena di rughe e bruciata dal vento. Paul diede un'occhiata nervosa all'insegna e scese dalla jeep. Sister allungò la mano nello scomparto posteriore, dove una catena con lucchetto bloccava un assortimento di sacchi di tela, scatole di cartone, cassette. Proprio dietro lo schienale c'era una borsa di pelle marrone, assai rovinata, che Sister portò con sé. Dalla porta chiusa provennero la musica d'un piano scordato e uno scoppio di risa rauche. Paul raccolse il coraggio e spinse la porta; entrò, con Sister alle calcagna. La porta, collegata alla parete per mezzo di molle robuste, si richiuse con un colpo secco. Musica e risate cessarono all'istante. Occhi sospettosi fissarono i nuovi venuti. Al centro della sala, seduti a un tavolo accanto alla stufa di ghisa, sei uomini giocavano a carte. Nell'aria aleggiava una nebbiolina di fumo di sigarette fatte a mano, che velava la luce di alcune lanterne appese ai ganci infissi alle pareti. Altri tavoli erano occupati da alcuni uomini e da alcune donne dall'aspetto rude. Il barista, in giacca di pelle con le frange, stava
dietro il lungo bancone segnato da fori di proiettile. Nel camino contro la parete di fondo, ciocchi ardenti scoppiettavano mandando faville rossastre; al piano sedeva una donna giovane e tarchiata, dai lunghi capelli neri, con una cheloide viola che le copriva la metà inferiore del viso e della gola scoperta. La maggior parte degli uomini portava la pistola alla cintura; alcuni fucili erano appoggiati alle sedie. Tre centimetri di segatura coprivano il pavimento; il locale puzzava di sudore e di sporco. Si udì un ping! acuto, quando un uomo seduto al tavolo centrale sputò in un secchio un bolo di tabacco da masticare. «Ci siamo perduti» disse Paul. «Che città è questa?» Un uomo rise. Aveva capelli neri e impomatati, indossava una giacca di pelo. Soffiò il fumo della sigaretta marrone. «In quale città vuoi andare, amico?» «Ci piace girare. Questo posto è indicato sulle cartine?» Gli altri si scambiarono occhiate divertite; la risata si diffuse. «Quali cartine?» domandò l'uomo con i capelli impomatati. «Tracciate prima del 17 luglio, o dopo?» «Prima.» «Le cartine di prima non servono a un cazzo» disse un altro. Aveva viso ossuto, capelli quasi a zero, quattro ami da pesca che penzolavano dal lobo sinistro, un panciotto di pelle sopra una camicia rossa a scacchi. Intorno alla vita magra portava un cinturone con fondina e pistola. «Tutto è cambiato. Le città sono cimiteri. I fiumi hanno cambiato percorso e si sono ghiacciati. I laghi sono asciutti. Al posto dei boschi ci sono solo deserti. Le cartine di prima non servono a un cazzo.» Paul lo sapeva benissimo. Dopo sette anni di viaggi su e giù per una decina di stati, c'era ben poco che potesse ancora sorprenderlo. «Questa città ha mai avuto un nome?» «Moberly» rispose il barista. «Moberly, nel Missouri. Quindicimila abitanti, una volta. Ora arriviamo sì e no a quattrocento.» «Già, ma non sono state le atomiche, a ucciderli!» intervenne, da un altro tavolo, una donna avvizzita, dai capelli rossi e dalle labbra truccate. «È stato quel bruciabudella che servi tu, Derwin!» Ridacchiò e si portò alle labbra un boccale di liquido dall'aspetto oleoso, mentre gli altri ridevano e schiamazzavano. «Uff, vaffanculo, Lizzie!» replicò Derwin. «Le budella te l'eri già bruciate a dieci anni!»
Sister si avvicinò a un tavolo libero e vi posò sopra la borsa. Sotto il cappuccio della giacca a vento, una sciarpa grigio scuro le avvolgeva quasi tutto il viso. Aprì la borsa e ne trasse l'atlante stradale McNally, sciupato per l'uso continuo; lo lisciò e lo aprì alla cartina del Missouri. Nella luce fioca, trovò la sottile linea rossa della Statale 63 e la seguì fino al puntino contrassegnato Moberly, un centinaio di chilometri a nord di quella che era stata Jefferson City. «Siamo qui» disse a Paul, che s'avvicinò a guardare. «Magnifico» disse lui. «E allora? Quale direzione prendiamo da...» Una mano strappò dal tavolo la borsa; Sister, sorpresa, alzò gli occhi. L'uomo ossuto in panciotto di pelle arretrò, borsa in mano, un sogghigno sulle labbra sottili. «Ragazzi, guardate cosa ho trovato» gridò. «Una bella borsa nuova!» Sister rimase immobile. «Ridammela» disse, a voce bassa, ma ferma. «Ci piscio dentro quando nei boschi fa troppo freddo!» rispose l'uomo. Gli altri intorno al tavolo scoppiarono a ridere. Il magro mosse gli occhi piccoli e neri verso Paul, sfidandolo a muoversi. «Piantala di far casino, Earl!» disse Derwin. «Che te ne fai, di una borsa?» «Lo so io! Vediamo cosa c'è dentro.» Earl tirò fuori paia di calze, fazzoletti, guanti. Arrivò al fondo e trovò un cerchio di vetro. Il cerchio s'infiammò di rosso sangue, nella sua mano. E lui lo fissò a bocca aperta. Nella taverna si udì solo lo scoppiettio dei ciocchi. La vecchia strega dai capelli rossi si alzò lentamente dalla sedia. «Santa Madre di Dio» mormorò. Gli uomini intorno al tavolo da gioco spalancarono la bocca; la ragazza dai capelli neri lasciò lo sgabello del piano e si avvicinò zoppicando. Earl alzò il cerchio di vetro, guardò i colori fluire e rifluire come sangue nelle arterie. Ma la sua stretta produceva sfumature brutali: marrone smorto, giallo untuoso, nero ebano. «È mio» disse Sister, con voce soffocata dalla sciarpa. «Per favore, ridammelo.» Paul avanzò d'un passo. La mano di Earl andò al calcio della rivoltella, con riflesso da pistolero; Paul si fermò. «Ho trovato un bel giocattolo, no?» disse Earl. Il cerchio pulsava più rapidamente, diventava più scuro e più brutto a ogni secondo. Tutte le punte, tranne due, si erano rotte nel corso degli anni. «Pietre preziose!» Earl aveva appena capito da dove provenivano i colori. «Questa cosa vale una fortuna!»
«Ti ho chiesto di darmelo» disse Sister. «Ho trovato una fortuna!» gridò Earl, con gli occhi lucenti d'avidità. «Rompo il vetro, tolgo le pietre e ho una fortuna!» Sogghignò come un pazzo, sollevò il cerchio al di sopra della testa e cominciò a saltellare davanti agli amici seduti al tavolo. «Guardate qui! Ho un'aureola, ragazzi!» Paul avanzò d'un altro passo e all'istante Earl si girò ad affrontarlo. La rivoltella già lasciava la fondina. Ma Sister era pronta. Il fucile a pompa, che lei aveva estratto da sotto la giacca a vento, rimbombò con la forza d'un grido di Dio. Earl fu sollevato in aria e volò sopra i tavoli; riuscì a sparare un colpo che scheggiò la trave di legno sopra la testa di Sister. Atterrò in un mucchio informe, stringendo ancora nella mano il cerchio di vetro. I colori foschi pulsarono selvaggiamente. L'uomo con la giacca di pelo cominciò ad alzarsi. Sister pompò un'altra cartuccia nella camera fumante, si girò di scatto e gli premette la canna contro la gola. «Vuoi assaggiare?» L'uomo scosse la testa e ricadde a sedere. «Armi sul tavolo» ordinò Sister... e otto rivoltelle furono spinte sulle carte sporche e sulle monete, fino al centro del tavolo. Paul, con la Magnum pronta a sparare, rimase in attesa. Colse un movimento del barista e puntò la rivoltella alla testa dell'uomo. Derwin alzò le mani. «Tranquillo, amico» disse, nervoso. «Io voglio vivere, d'accordo?» Nel cerchio, le pulsazioni luminose rallentarono, vacillarono. Paul s'accostò al moribondo, mentre Sister puntava sugli altri il fucile antisommossa, trovato tre anni prima in una stazione di polizia stradale abbandonata, alla periferia di Wichita; aveva una potenza tale da abbattere un elefante. Era stata costretta a usarlo solo poche volte, con gli stessi risultati di adesso. Paul cercò di evitare il sangue. Una mosca gli ronzò davanti al viso e si librò sopra il cerchio di vetro. Era grossa e verde, ripugnante; per qualche istante Paul rimase di stucco, dal momento che non ne vedeva da anni: pensava che fossero morte tutte. Una seconda mosca si unì alla prima; ronzarono intorno al corpo sussultante e al cerchio di vetro. Paul si chinò. Il cerchio sfolgorò di rosso per un istante, poi si spense. Paul lo strappò alla stretta del cadavere e vide tornare nel vetro i colori dell'arcobaleno. Allora lo rimise nella borsa e lo coprì con calze, sciarpe, guanti. Una mosca gli si posò sulla guancia. Paul mosse di scatto la testa, perché la piccola bastarda gli aveva dato l'impressione di un chiodo gelido premuto contro la pelle.
Rimise nella borsa l'atlante stradale. Tutti gli occhi erano puntati sulla donna con il fucile a pompa. Sister prese la borsa e arretrò lentamente verso la porta, tenendo l'arma puntata al centro del tavolo da gioco. Non aveva avuto scelta, si disse; era stata costretta a ucciderlo: ormai aveva fatto troppo strada, con il cerchio di vetro, per lasciare che uno stupido lo facesse a pezzi. «Ehi» disse l'uomo con la giacca di pelo. «Non ve ne andrete senza che vi offriamo da bere, no?» «Eh?» «Earl non valeva una cicca» disse un altro; si chinò a sputare tabacco nel secchio. «Quell'idiota dal grilletto facile non faceva che ammazzare gente.» «Ha fatto secco Jimmy Ridgeway proprio qui, un paio di mesi fa» disse Derwin. «Il bastardo era troppo buono, con la pistola.» «Fino a oggi» disse l'altro. I giocatori già si dividevano le monete del morto. «Ecco qui.» Derwin prese due bicchieri e li riempì con un liquido ambrato e oleoso, versato da un barilotto. «Produzione casalinga. Ha un gusto un po' puzzolente, ma vi assicuro che vi farà dimenticare tutte le preoccupazioni.» Tese i bicchieri a Sister e a Paul. «Offre la casa.» Erano passati mesi, da quando Paul aveva bevuto l'ultimo sorso d'alcol. Il forte odore di legno della bevanda gli aleggiò intorno come profumo di sirena. Paul si sentiva scosso: non aveva mai usato la Magnum su esseri umani e pregava di non doverlo mai fare. Accettò il bicchiere; si disse che i vapori rischiavano di strinargli le sopracciglia, ma bevve lo stesso un sorso. Gli parve d'ingurgitare metallo fuso. Con le lacrime agli occhi, tossì, sputacchiò, ansimò, mentre il whisky clandestino, ricavato Dio solo sapeva da cosa, gli scorreva in gola. La megera dai capelli rossi sghignazzò come una cornacchia e anche alcuni uomini scoppiarono a ridere. Mentre Paul cercava di riprendere fiato, Sister posò sul banco la borsa, a portata di mano, e alzò il bicchiere. Il barista disse: «Già, gli hai fatto un favore, al vecchio Earl Hocutt. Ha sempre cercato uno che lo stirasse, da quando sua moglie e la sua bambina morirono di febbre, l'anno scorso». «Ah, sì?» disse Sister, togliendosi la sciarpa dal viso. Si portò il bicchiere alle labbra deformi e lo vuotò senza battere ciglio. Derwin spalancò gli occhi e si ritrasse con tanta rapidità da gettare a terra uno scaffale di bicchieri e di boccali.
51 Sister si aspettava quella reazione, l'aveva già vista altre volte. Sorseggiò di nuovo il whisky, lo trovò né migliore né peggiore delle tante bottiglie da cui aveva bevuto nelle vie di Manhattan, capì che tutti nella taverna guardavano lei. Pensò: Volete dare un'occhiata? Una bella occhiata come si deve? Mise sul banco il bicchiere e si girò perché tutti la vedessero. La megera dai capelli rossi smise di ridere di colpo, come se avesse ricevuto un calcio in gola. L'uomo che masticava tabacco inghiottì la cicca. «Buon Dio onnipotente» riuscì a dire dopo. La metà inferiore del viso di Sister era una massa di escrescenze grigie, viticci nodosi contorti e intrecciati sopra il mento, la mascella e le guance. Le escrescenze cornee avevano stirato un poco a sinistra la bocca, conferendole un ghigno sardonico. Sotto il cappuccio della giacca a vento, il cranio era una crosta scabbiosa; le escrescenze avevano ricoperto completamente il cuoio capelluto e cominciavano a mandare filamenti duri e grigi sulla fronte e sopra le orecchie. «Una lebbrosa!» Un giocatore si alzò di colpo. «Ha la lebbra!» L'accenno alla temuta malattia indusse gli altri a scattare in piedi, lasciando perdere rivoltelle, carte, monete, e a rifugiarsi in fondo alla taverna. «Fuori di qui!» gridò un altro. «Non attaccarci quella merda!» «Lebbrosa! Lebbrosa!» strillò la vecchia strega dai capelli rossi; afferrò il boccale per tirarlo a Sister. Ci furono altre grida di minaccia, ma Sister rimase impassibile. La scena era sempre la stessa, ogni volta che era costretta a scoprirsi il viso. Sopra il trambusto di voci, si udì un rumore acuto, insistente: crack!... crack!... crack! Messa in risalto dalla luce del focolare, una figura magra, in piedi contro la parete più lontana, batteva il bastone sopra il piano del tavolo. Il rumore secco alla fine la spuntò: nella stanza scese un silenzio inquieto. «Signore... e signori» disse con voce spenta l'uomo con il bastone «vi posso garantire che l'infermità della nostra amica non è lebbra. E in realtà ritengo che non sia minimamente contagiosa... perciò non c'è bisogno che vi riempiate i mutandoni.» «E tu cosa ne sai, sacco di merda?» replicò l'uomo con la giacca di pelo. L'altro esitò, poi si mise il bastone sotto l'ascella sinistra. Venne avanti a
passo strascicato, la gamba sinistra dei calzoni piegata sotto il ginocchio. Portava un lacero cappotto marrone scuro sopra un lurido maglione cardigan beige; alle mani aveva guanti così consumati che ne spuntavano le dita. La luce delle lampade gli illuminò il viso. Capelli d'argento gli ricadevano sulle spalle, anche se la sommità del cranio era calva e segnata di cheloidi marrone. Aveva una barbetta corta e brizzolata, lineamenti fini, naso sottile ed elegante. Sister pensò che sarebbe stato un bell'uomo, a parte la vivida cheloide scarlatta che gli copriva la guancia come una macchia di vino di Porto. L'uomo si fermò a metà fra Sister e Paul e gli altri. «Non mi chiamo sacco di merda» disse, con un'aria di nobiltà decaduta. Gli occhi grigi, incassati, tormentati, si spostarono sull'uomo con la giacca di pelo. «Un tempo ero Hugh Ryan. Dottor Hugh Ryan, chirurgo al Medical Center di Amarillo, nel Texas.» «Medico, tu?» ribatté l'altro. «Stronzate.» «Il mio attuale tenore di vita induce questi signori a ritenere che io sia nato assetato allo stadio terminale» disse Ryan a Sister. Sollevò la mano tremante. «Ovviamente, non sono più in grado di reggere il bisturi. Ma chi lo è, oggi?» Si accostò a Sister, le toccò il viso. Il tanfo di corpo non lavato quasi le mozzò il respiro, ma lei aveva annusato di peggio. «Questa non è lebbra» continuò l'uomo. «È una massa di tessuti fibrosi d'origine subcutanea. Fino a quale profondità penetra lo strato fibroide, non lo so... ma ho già visto parecchie volte escrescenze simili a queste: a parer mio, non sono contagiose.» «Anche noi abbiamo visto altra gente conciata allo stesso modo» disse Paul. Era abituato all'aspetto di Sister, perché l'infermità si era manifestata per gradi, a cominciare dalle verruche nere sul viso. Si era esaminato la faccia e la testa, per vedere se anche a lui spuntavano escrescenze simili, ma per il momento sembrava immune. «Cosa le provoca?» Hugh Ryan alzò le spalle e continuò a palpare le escrescenze. «Forse è la reazione della pelle alle radiazioni, alle sostanze inquinanti, alla prolungata mancanza di luce solare... chissà. Ho già visto almeno un centinaio di casi, in diversi stadi. Per fortuna pare che rimanga una piccola apertura per respirare e per nutrirsi, indipendentemente dalla gravita della crescita.» «È lebbra, dico io!» replicò la megera dai capelli rossi; ma gli uomini tornavano a sedersi al tavolo. Alcuni lasciarono la taverna, altri continuarono a fissare Sister, affascinati e nauseati insieme. «Provoca un prurito del diavolo e a volte la testa mi duole come se do-
vesse spaccarsi» ammise Sister. «Come faccio a liberarmene?» «Sfortunatamente non glielo so dire. Non ho mai visto la Maschera di Giobbe regredire... ma a dire il vero ho esaminato la maggior parte dei casi solo di passaggio.» «Maschera di Giobbe? Si chiama così?» «Be', così la chiamo io. Mi sembra un nome appropriato, non crede?» Sister grugnì. Lei e Paul avevano visto decine di individui con la "Maschera di Giobbe", sparsi nei nove stati attraversati fino a quel momento. Nel Kansas, erano capitati in una colonia di quaranta individui infetti, che i loro stessi familiari avevano scacciato dall'insediamento vicino; nello Iowa, Sister aveva visto un uomo che non riusciva più a tenere dritta la testa, tanto era incrostata. La Maschera di Giobbe colpiva con eguale crudeltà uomini e donne, anche adolescenti, ma i bambini inferiori ai sette otto anni sembravano immuni... almeno, Sister non aveva mai visto l'infezione su neonati e su bambini, anche se entrambi i genitori ne erano colpiti. «Dovrò tenermela per tutta la vita?» Hugh scrollò di nuovo le spalle. Fissò con intensità famelica il whisky di Sister, ancora sul bancone. Lei disse: «Prego!» e lui lo bevve come se fosse tè ghiacciato in un torrido pomeriggio d'agosto. «La ringrazio.» Si pulì sulla manica le labbra e diede un'occhiata al morto sulla segatura insanguinata. La ragazza dai capelli neri gli frugava avidamente le tasche. «In questo mondo non esiste più ragione e torto» disse Ryan. «Solo maggiore rapidità nell'estrarre la pistola e superiore livello di violenza.» Con un cenno indicò il tavolo al quale sedeva prima, accanto al camino. «Prego» disse a Sister, con una nota di supplica. «Sapesse da quanto tempo non parlo con una persona di evidente cultura e intelligenza.» Sister e Paul non avevano fretta. Sister prese la borsa, ripose il fucile nella custodia di pelle che teneva al fianco, sotto la giacca a vento. Paul rinfoderò la Magnum. Seguirono Hugh Ryan. Derwin trovò finalmente il coraggio di uscire da dietro il bancone; l'uomo con la giacca di pelo lo aiutò a portare via dalla porta posteriore il cadavere di Earl. Mentre Hugh sistemava sulla sedia il moncone della gamba, Sister non poté fare a meno di notare i trofei impagliati che adornavano la parete intorno al camino della Secchia di Sangue: uno scoiattolo albino, una testa di cervo con tre occhi, un cinghiale con un solo occhio al centro della fronte, una marmotta a due teste. «Derwin è cacciatore» spiegò Hugh. «Si trovano
creature d'ogni tipo, nei boschi qui intorno. Sorprendenti, vero, gli effetti delle radiazioni?» Ammirò per un istante i trofei. «Viene voglia di non dormire mai lontano dalla luce» continuò, riportando l'attenzione su Paul e su Sister. «Sul serio.» Allungò la mano verso il mezzo bicchiere di whisky che centellinava quando i due erano entrati. Due mosche verdi gli ronzarono intorno alla testa e Paul le guardò girare. Hugh indicò la borsa. «Non ho potuto non notare quel ninnolo di vetro. Posso chiederle che cos'è?» «Solo una cosa che ho trovato.» «Dove? In un museo?» «No. In un mucchio di macerie.» «Un oggetto assai bello. Starei attento, se fossi in lei. Ho incontrato gente che le taglierebbe la testa per un boccone di pane.» Sister annuì. «Per questo porto il fucile... e ho anche imparato a usarlo.» «Ho visto.» Tracannò il whisky fino all'ultima goccia e schioccò te labbra. «Ah! Nettare degli dei!» «Non arriverei a tanto.» Paul aveva ancora l'impressione che gli avessero tagliuzzato con il rasoio la gola. «Be', non tutti i gusti sono alla menta, giusto?» Hugh leccò l'interno del bicchiere, prima di deporlo. «Un tempo ero un intenditore di cognac francesi. Avevo moglie, tre figli, una villa in stile spagnolo con vasca da bagno e piscina.» Si toccò il moncone. «Avevo anche un'altra gamba. Ma questo è il passato, no? Non bisogna pensare troppo al passato, se si vuole rimanere sani di mente.» Fissò il fuoco, poi guardò Sister, dall'altra parte del tavolo. «Ah. Dove siete stati? E dove andate?» «Dappertutto» rispose lei «e in nessun posto in particolare.» Negli ultimi sette anni, Sister e Paul Thorson avevano seguito il sentiero indicato dal sogno... una mosca cieca d'immagini che Sister aveva visto nelle profondità del cerchio di vetro. Avevano viaggiato dalla Pennsylvania al Kansas, avevano trovato la città di Matheson... incendiata e rasa al suolo, macerie coperte di neve. L'avevano esplorata e avevano trovato solo scheletri e distruzione; poi erano giunti nel parcheggio d'un edificio bruciato, forse un grande magazzino o un supermercato. E in quel parcheggio spazzato dalla neve, nel cuore della desolazione, Sister aveva udito il sussurro di Dio. Una piccola cosa, sulle prime: la punta dello stivale di Paul aveva portato alla luce una carta. «Ehi!» aveva esclamato Paul. «Guarda qui!» L'aveva ripulita del ter-
riccio e della neve, l'aveva passata a Sister. I colori erano sbiaditi, ma il disegno mostrava un donna bellissima, in tunica viola, sul cui capo brillava il sole e ai cui piedi erano accucciati il leone e l'agnello; la donna reggeva uno scudo d'argento al cui centro c'era forse una fenice fiammeggiante e portava una fulgida corona. I capelli della donna erano in fiamme e lo sguardo fissava coraggiosamente lontano. Sul margine superiore della carta c'era una scritta sbiadita: L'IMPERATRICE. «Una carta di tarocchi» aveva detto Paul. A Sister erano quasi mancate le ginocchia. Altre carte, cocci di vetro, indumenti e cianfrusaglie erano sepolti nella neve. Sister aveva scorto una macchia di colore, aveva raccolto un'altra carta... e aveva riconosciuto la figura, il sudario nero, il viso bianco simile a maschera, gli occhi argentei e malevoli, il terzo occhio scarlatto al centro della fronte. Aveva fatto in mille pezzi quella carta, anziché metterla nella borsa insieme con l'Imperatrice. E poi aveva pestato qualcosa di morbido. Si era chinata a spazzare via la neve; nel vedere che cos'era, si era sentita gli occhi pieni di lacrime. Una bambola bruciacchiata, dalla pelliccia azzurra. Nel raccoglierla, aveva visto il piccolo anello di plastica e l'aveva tirato. Nel silenzio, fra la neve, una voce stanca aveva piagnucolato: «Coookiiies». Il gemito si era librato sul parcheggio dove scheletri sognavano. La bambola Cookie Monster era finita nella sacca di Sister... e poi era giunto il momento di lasciare Matheson, perché nel parcheggio non c'erano scheletri di bambini e Sister sapeva, ora più che mai, di cercare una bambina. Avevano vagabondato nel Kansas per più di due anni, vivendo in diverse comunità che lottavano per riprendersi; avevano girato a nord, nel Nebraska; a est, nello Iowa; e ora, a sud, nel Missouri. Una terra di sofferenze e di brutalità si era dispiegata davanti a loro come un'allucinazione continua, inevitabile. In parecchie occasioni, mentre scrutava il cerchio di vetro, Sister aveva scorto un viso indistinto restituirle lo sguardo, come da uno specchio assai scolorito. Questa particolare immagine era rimasta costante per più di sette anni; Sister non avrebbe potuto descriverla, però pensava che si trattasse di un viso giovane — impossibile dire se di bambino o di bambina — cambiato nel corso degli anni. L'ultima volta l'aveva scorto quattro mesi prima: i lineamenti sembravanao quasi scomparsi del tutto. Da allora, l'immagine non si era ripresentata. A volte Sister si sentiva sicura che il giorno seguente avrebbe portato
con sé la risposta... ma i giorni erano passati, erano diventati settimane, mesi, anni, e ancora lei continuava la ricerca, nella campagna devastata, nelle cittadine abbandonate, nelle vicinanze di macerie dove un tempo sorgevano le città principali. Molte volte, scoraggiata, aveva pensato di rinunciare alla ricerca, di fermarsi in una delle comunità incontrate; ma questo era successo prima che la sua Maschera di Giobbe peggiorasse. Ora pensava che sarebbe stata ben accolta solo da un gruppo di persone affette dalla sua stessa infermità. Ma la verità era che temeva di fermarsi troppo a lungo in uno stesso posto. Continuava a guardarsi alle spalle, con il timore che una figura tenebrosa dalla faccia mutevole avesse finito per trovarla e assalirla. Nei suoi incubi, Doyle Halland o Dal Hallmark o comunque ora si facesse chiamare, aveva un unico occhio scarlatto sulla fronte, come la sinistra figura della carta di tarocchi, e cercava instancabilmente di trovarla. Spesso, nel corso degli anni, Sister aveva sentito un formicolio alla pelle, come se lui fosse nelle vicinanze, sul punto di scoprirla. Quelle volte, lei e Paul si erano subito rimessi in cammino; e Sister temeva gli incroci stradali, perché sapeva che la curva sbagliata avrebbe potuto portarla nelle grinfie del mostro in attesa. Scacciò i ricordi. «E lei? Sta qui da molto?» «Otto mesi. Dopo il 17 luglio, sono andato con la famiglia a nord di Amarillo. Abbiamo vissuto tre anni in una comunità sul Purgatoire River, a sud di Las Animas, nel Colorado. Da quelle parti ci sono un mucchio d'indiani; alcuni avevano combattuto nel Vietnam e hanno insegnato a noi stupida gente di città come si costruiscono capanne di fango e come si resta in vita.» Sorrise dolorosamente. «È davvero un colpo, abitare in una villa da un milione di dollari e ritrovarsi da un giorno all'altro sotto un tetto di fango e di stereo di vacca. Comunque, due nostri figli morirono il primo anno, per avvelenamento da radiazioni; ma eravamo al caldo, quando la neve cominciò a cadere; e ci siamo sentiti maledettamente fortunati.» «Perché non è rimasto lì?» domandò Paul. Hugh fissò il fuoco. Passò del tempo, prima che rispondesse. «Era una comunità di circa duecento anime. Avevamo una provvista di granturco, un po' di farina e di manzo salato, un mucchio di cibo in scatola. L'acqua del fiume non era del tutto pura, ma ci manteneva in vita.» Si massaggiò il moncone. «Poi arrivarono loro.» «Loro? Chi?» «I primi furono tre uomini e due donne. Arrivarono in una jeep e una
Buick con i parabrezza blindati. Si fermarono a Purgatoire Flats, il nome che avevamo dato al villaggio, e chiesero di comprare metà del nostro cibo. Ovviamente non potevamo venderlo a nessun prezzo. Altrimenti saremmo morti di fame. Allora ci minacciarono. Dissero che avremmo rimpianto di non avere dato loro quel che volevano. Ricordo che Curtis Pennarossa... il nostro sindaco, un indiano pawnee grande e grosso, reduce del Vietnam... andò nella sua capanna e uscì impugnando un fucile automatico. Disse loro di andarsene e quelli sparirono.» Hugh s'interruppe; lentamente strinse i pugni, sul piano del tavolo. «Tornarono» disse piano. «Quella notte stessa. Oh, sì, tornarono... con trecento soldati ben armati e camion trasformati in mezzi d'assalto. Raserò al suolo Purgatoire Flats, trucidarono tutti. Tutti.» Gli mancò la voce; per un minuto non riuscì a continuare. «La gente correva, tentava di scappare. Ma loro avevano mitragliatrici. Fuggii con mia moglie e mia figlia. Colpirono Curtis Pennarossa e gli passarono sopra con una jeep. Non aveva... non aveva più l'aspetto di un essere umano.» Hugh chiuse gli occhi, ma nel suo viso era scolpito un tale tormento che Sister, per non guardarlo, fissò il fuoco. «Mia moglie fu colpita alla schiena» continuò Hugh. «Mi fermai ad aiutarla e dissi a mia figlia di correre al fiume. Non l'ho più rivista. Ma... Alzavo da terra mia moglie, quando le pallottole mi colpirono. Due o tre, penso. Nella gamba. Qualcuno mi diede un colpo in testa e caddi. Quando rinvenni... mi trovai con un fucile puntato alla faccia. E una voce maschile proclamava: "Dite a tutti che l'Esercito d'Eccellenza è passato da qui". L'Esercito d'Eccellenza» ripeté Hugh con amarezza. Riaprì gli occhi, sconvolti, iniettati di sangue. «Erano rimasti quatto o cinque superstiti. Improvvisarono una barella per me. Mi portarono a nord per più di quaranta chilometri, fino a un altro villaggio... ma anche quello era ridotto in cenere, quando vi arrivammo. Avevo la gamba maciullata. Bisognava amputarla. Dissi loro come fare. Sopravvissi, e continuammo. Accadde quattro anni fa.» Guardò Sister e si sporse un poco dalla sedia. «Per l'amor di Dio, non andate a ovest. Lì ci sono i campi di battaglia.» «Campi di battaglia?» disse Paul. «Come sarebbe?» «C'è la guerra, da quelle parti. Nel Kansas, nell'Oklahoma, nel Nebraska. Anche nei due Dakota. Ho incontrato un mucchio di profughi fuggiti dai territori dell'ovest. Li chiamano campi di battaglia perché vi combattono diversi eserciti: la Fedeltà Americana, i Predoni di Nolan, l'Esercito d'Eccellenza, l'Armata Idra e forse altri cinque o sei.»
«La guerra è finita» disse Sister, accigliandosi. «Per che diavolo combattono?» «Terra. Villaggi. Cibo, armi, benzina... tutto quel che è rimasto. Sono fuori di senno: vogliono uccidere, e se non possono uccidere i russi, devono inventarsi un nemico. Ho sentito dire che l'Esercito d'Eccellenza vuole eliminare tutti i superstiti segnati dalle cheloidi.» Si toccò la cicatrice scarlatta che gli copriva mezza faccia. «Lo ritengono il marchio di Satana.» Paul si mosse sulla sedia, a disagio. Durante i loro viaggi, lui e Sister avevano sentito parlare di villaggi assaliti e incendiati da bande di predoni, ma questa era la prima volta che avevano notizia di forze organizzate. «Quanto sono grandi, questi eserciti? Chi li guida?» «Pazzi, sedicenti patrioti, ex militari... chi più ne ha, più ne metta. La settimana scorsa sono passati da qui un uomo e una donna che avevano visto il gruppo della Fedeltà Americana: quattro o cinquemila individui, guidati da un predicatore folle della California, che si proclama il Salvatore e vuole uccidere chiunque non lo segua. Ho sentito che l'Armata Idra uccide negri, latino-americani, orientali, ebrei e chiunque considera straniero. Pare che l'Esercito d'Eccellenza sia guidato da un ex militare, un eroe di guerra del Vietnam. Sono loro i bastardi con gli automezzi corazzati. Dio ci aiuti, se quei pazzi cominciano a muoversi verso est.» «Noi vogliamo solo benzina sufficiente a raggiungere la prossima città» disse Paul. «Siamo diretti a sud, verso il golfo del Messico.» Cercò di schiacciare la mosca che gli si era posata sulla mano: aveva di nuovo provato la sensazione d'essere punto da un chiodo gelido. Hugh sorrise con desiderio. «Il golfo del Messico. Dio, da quanto tempo non vedo il golfo!» «Qual è la città più vicina, da qui?» domandò Sister. «Immagino che sia Mary's Rest, a sud della vecchia Jefferson City. Ma la strada non è in buone condizioni. C'era un grosso laghetto, a Mary's Rest. Comunque, non è lontano: una settantina di chilometri.» «Come ci arriviamo, con il serbatoio vuoto?» Hugh diede un'occhiata alla segatura sporca di sangue. «Be', il camion di Earl Hocutt è parcheggiato qui di fronte. Non credo che la benzina gli serva ancora, no?» Paul annuì. Nella jeep avevano un pezzo di tubo di gomma da giardino e lui era diventato assai esperto nell'arte di rubare benzina. Una mosca si posò sul tavolo, davanti a Hugh. Il vecchio capovolse di scatto il bicchiere e intrappolò l'insetto. La mosca ronzò rabbiosamente a-
vanti e indietro; Hugh la guardò girare. «Non si vedono spesso, le mosche» disse. «Alcune si fermano qui dentro, attirate dal calore, penso. E dal sangue. Questa è rabbiosa come il diavolo, vero?» Sister udì il ronzio di un'altra mosca che le sfiorò la testa, eseguì lentamente un giro sopra il tavolo e saettò verso una fessura della parete. «Qui c'è un posto dove passare la notte?» domandò a Hugh. «Posso trovarvene uno. Sarà poco più di un buco per terra, con un coperchio sopra; ma non morirete assiderati e nessuno vi taglierà la gola.» Batté il dito sul vetro; la grossa mosca verde cercò di morderlo. «Ma se vi trovo un posto sicuro dove dormire» continuò «voglio una cosa in cambio.» «Quale?» Hugh sorrise. «Vorrei vedere il golfo del Messico.» «Se lo scordi!» disse Paul. «Non abbiamo posto.» «Oh, sareste sorpresi di scoprire dove un vecchio con una gamba sola può infilarsi.» «Maggior peso vuol dire maggior consumo di benzina, per non parlare di cibo e d'acqua. Mi spiace.» «Peso quanto una piuma bagnata» insisté Hugh. «E mi porterò cibo e acqua. Se volete un pagamento per il trasporto, dividerò con voi due bottiglie di whisky che conservo per i casi d'emergenza.» Paul era sul punto di dire no di nuovo, ma rimase zitto. Quel whisky era forse la roba più cattiva che avesse mai assaggiato, ma certo gli aveva scaldato lo stomaco. «Lei che ne dice?» domandò Hugh a Sister. «Alcuni ponti sono crollati, nel tratto da qui a Mary's Rest. Sarò più utile io, che non la vecchia cartina che si porta dietro.» Sister fu tentata di dare retta a Paul. Ma poi vide la sofferenza negli occhi grigi di Hugh, l'espressione da cane picchiato e abbandonato dal padrone. «La prego» disse Hugh. «Qui per me non c'è niente. Mi piacerebbe vedere se le onde rotolano ancora come prima.» Sister rifletté. Il vecchio poteva rannicchiarsi nel retro della jeep; e sarebbe stata utile una guida per arrivare alla città successiva. Hugh aspettava la risposta. «Ci trovi un posto sicuro dove passare la notte» disse Sister «e domattina ne riparleremo. È il massimo che posso dirle, per il momento. D'accordo?» Hugh esitò, esaminando il viso di Sister. Denotava forza, si disse; e gli
occhi non erano spenti come quelli di tanti altri. Peccato che la Maschera di Giobbe avrebbe finito per ricoprirli del tutto. «D'accordo» rispose; e si strinsero la mano. Lasciarono la Secchia di Sangue per andare a prendere la benzina dal camion del morto. Nella taverna, la vecchia strega dai capelli rossi si avvicinò al loro tavolo e guardò la mosca ronzare dentro il bicchiere capovolto. Con gesto rapidissimo sollevò il bicchiere e afferrò la mosca che tentava di fuggire; prima che riuscisse a liberarsi, se la cacciò in bocca e la schiacciò sotto i denti. Contorse il viso in una smorfia. Aprì la bocca, sputò nel fuoco un piccolo grumo grigiastro e verde che sfrigolò come acido. «Cattivo!» disse la megera; e con la segatura si pulì la lingua. 52 Aspettava nel buio che tornassero a casa. Il vento era forte. Cantava dolcemente al suo animo, parlandogli di milioni di cadaveri e di altre morti ancora da venire. Ma quando il vento era così forte, lui non poteva cercare molto lontano. Sedeva nel buio, con la nuova faccia e la nuova pelle, mentre il vento sibilava intorno alla baracca come un invitato rumoroso; pensò che forse, solo forse, quella sarebbe stata la notte buona. Ma capiva le giravolte del tempo: se non era stanotte, c'era sempre domani. Sapeva essere assai paziente, all'occorrenza. Sette anni erano passati in fretta, per lui. Aveva percorso le strade, viandante solitario, attraverso l'Ohio, l'Indiana, il Kentucky, il Tennessee e l'Arkansas. A volte si era fermato in un villaggio, a volte si era sistemato da solo in una grotta o in un'auto abbandonata, a seconda dell'umore. Dovunque passasse, oscurava ogni cosa; prosciugava di speranza e di compassione i villaggi e lasciava che morissero, mentre gli abitanti si uccidevano l'un l'altro o si suicidavano. Aveva l'abilità di mostrare alla gente quanto fosse futile la vita e quali effetti causasse la tragedia della falsa speranza. Se tuo figlio ha fame, uccidilo: così esortava le madri affamate. Pensa al suicidio come a un atto di nobiltà, suggeriva agli uomini che gli chiedevano consiglio. Lui era una fonte di notizie e di saggezza che non vedeva l'ora di condividere con gli altri: tutti i cani diffondevano il cancro e andavano uccisi; la gente con le cheloidi marrone aveva preso gusto alla carne di bambino; costruiscono una nuova città nelle zone selvagge del
Canada ed è lì che dovreste andare; potete avere un mucchio di proteine mangiandovi le dita... in fin dei conti, non tutte vi servono. Rimaneva continuamente sorpreso per la facilità con cui li induceva a credergli. Era davvero una grande festa. Tranne che per un particolare. E quel particolare lo tormentava giorno e notte. Dove si trovava il cerchio di vetro? La donna, Sister, era certo morta, ormai. Di lei se ne fregava, comunque. Ma dov'era il cerchio di vetro? Chi l'aveva? Molte volte aveva avuto la sensazione d'essere vicino a trovarlo, la certezza che il prossimo incrocio l'avrebbe portato dritto al cerchio; ma l'impressione si era sempre affievolita ed era toccato a lui scegliere la nuova direzione. Aveva frugato la mente di chiunque incontrava, ma in nessuna c'era la donna, e neppure il cerchio di vetro. Così era andato avanti. Ma con il passare degli anni, i suoi viaggi si erano fatti un po' meno frequenti, perché c'erano tante di quelle opportunità, nei villaggi, e perché non sembrava molto importante dove fosse il cerchio di vetro: tanto, non modificava la situazione. Quella era sempre la sua festa, nulla era cambiato. Sentiva ancora dentro di sé la minaccia che aveva percepito nel cerchio, in quella casa del New Jersey; ma qualsiasi cosa il cerchio fosse, non gli cambiava l'esistenza, né le cose che vedeva intorno. No problemo, pensò... ma dov'era, il cerchio? Chi ce l'aveva? E come era comparso? Spesso ricordava il giorno in cui era uscito dalla Statale 80, a cavallo della bicicletta da corsa, per puntare a sud. A volte si era domandato che cosa sarebbe successo se invece fosse andato a est lungo la S-80. Avrebbe trovato la donna e il cerchio di vetro? Come mai, alla stazione della Croce Rossa, le sentinelle non l'avevano vista, se era ancora viva? Ma non poteva vedere ogni cosa, conoscere ogni cosa; vedeva e conosceva solo quel che i suoi occhi finti gli dicevano, o quello che raccoglieva da menti umane, oppure quel che gli riferivano le creature mandate nel buio a investigare. E che proprio in quel momento facevano ritorno. Sentì che si riunivano da tutti i punti cardinali e si avvicinavano controvento. Si spinse verso la porta e le ruote sotto di lui cigolarono. La prima gli toccò la guancia e fu risucchiata nella carne come in un vortice. Lui rovesciò gli occhi e guardò dentro di sé. Vide foreste scure, udì il
gemito del vento, nient'altro. Un'altra cosa che sembrava una mosca s'infilò in un buco della parete e si posò sulla sua fronte, subito risucchiata da un'increspatura della carne. Altre due si unirono alla prima e furono assorbite. Lui vide altri boschi scuri, una pozzanghera congelata, la carcassa d'un piccolo animale di chissà quale specie. Un corvo si tuffò, diede un colpo di becco, si ritrasse. Altre mosche gli penetrarono nel viso. Altre immagini turbinarono dentro di lui: una donna che lavava vestiti in una stanza illuminata, due uomini che lottavano con il coltello in un vicolo, un cinghiale a due teste che grufolava nell'immondizia, con i quattro occhietti umidi e lucenti. Le mosche gli strisciarono sul viso, furono risucchiate una dopo l'altra. Lui vide case scure, udì qualcuno suonare, male, l'armonica, qualcun altro battere a tempo le mani; facce intorno a un falò, chiacchiere su com'era un tempo il baseball nelle serate estive; un uomo e una donna macilenti, allacciati sul giaciglio; mani al lavoro, che pulivano il fucile; un'esplosione di luce e una voce che diceva: "Ho trovato un bel giocattolo..." Alt. L'immagine di luce e la voce s'immobilizzarono dietro le sue palpebre, come il fotogramma di un film. Lui tremò. Aveva ancora mosche sul viso, ma si concentrò sull'immagine di luce. Era solo un bagliore rossastro, non ne ricavava ancora molto. Strinse le mani a pugno: le unghie lunghe e sporche incisero mezzelune nella pelle, ma non ne uscì sangue. Avanti, pensò; e il film di ricordi prese a svolgersi. «...vero?» completò la voce, una voce maschile. E poi un sussurro pieno di timore reverenziale: «Pietre preziose!» Alt. Lui guardava da sopra; e lì, fra le mani dell'uomo, c'era... Avanti. ...il cerchio di vetro, splendente di rosso scuro e di marrone. Una stanza con segatura sul pavimento. Bicchieri. Carte sopra un tavolo. Conosceva quel posto. Ci era già stato e vi aveva mandato a investigare le sue creature perché era un posto in cui i viaggiatori si fermavano. La Secchia di Sangue era a meno di due chiometri, proprio al di là della prima collina. Il suo occhio interiore osservò la scena dal punto di vista d'una mosca.
Lo sparo di fucile, una calda onda d'urto, un corpo che schizzava sangue e cadeva sui tavoli. Una voce femminile disse: «Vuoi assaggiare?» Poi un ordine: «Armi sul tavolo». Ti ho trovata, pensò lui. Scorse di sfuggita il viso della donna. Era diventata davvero una bellezza, pensò. Ma era lei? Sì, sì! Doveva essere lei. Il cerchio di vetro finì nella borsa. Doveva essere lei! La scena continuò. Un'altra faccia: un uomo con acuti occhi azzurri e barba grigia. «Lebbrosa! Lebbrosa!» gridò qualcuno. E poi un uomo dai capelli argentei. Capì che quel viso apparteneva all'uomo che tutti chiamavano Sacco di merda. Altre voci: «Prego... Derwin è un cacciatore... avevo anche un'altra gamba... per l'amor di Dio, non andate a ovest... lo ritengono il marchio di Satana...» Lui sorrise. «...Siamo diretti a sud... immagino che sia Mary's Rest... non credo che la benzina gli serva ancora, no?» Le voci divennero confuse, la luce cambiò, in basso c'erano boschi scuri e case. Lui passò di nuovo in rassegna il ricordo-film. Era lei, certo. «...Siamo diretti a sud... immagino che sia Mary's Rest...» Mary's Rest, pensò. Settanta chilometri a sud. Ti ho trovata! Vai a sud, a Mary's Rest! Che senso aveva aspettare? Sister e il cerchio di vetro forse erano ancora alla Secchia di Sangue, a meno di due chilometri. C'era il tempo di andare alla taverna e... «Lester? Ti ho portato una scodella di...» Rumore di terraglie in fantumi, ansito d'orrore. Lui lasciò che gli occhi emergessero di nuovo. Sulla porta della baracca c'era la donna che tre settimane prima l'aveva preso come aiutante; era ancora assai graziosa, peccato che un animale feroce le avesse sbranato la figlioletta nel boschi una sera di due settimane prima, perché la bambina le assomigliava tutta. La donna aveva lasciato cadere la scodella di minestra. Era una puttana goffa, pensò lui; ma chiunque avesse solo due dita per mano era destinato a essere goffo. L'altro artiglio della donna reggeva un lume; e alla luce, lei aveva visto il viso increspato e coperto di mosche di Lester il tuttofare. «Oh, signora Sperry» mormorò lui. Le pseudomosche gli volteggiarono intorno alla testa.
La donna arretrò d'un passo verso la porta. Aveva la faccia impietrita in una smorfia d'orrore. Lui si chiese come avesse fatto a giudicarla graziosa. «Non ha paura, vero, signora Sperry?» le domandò. Tese le mani, conficcò le dita nella terra battuta e si spinse avanti. Le ruote cigolarono: avrebbero avuto bisogno di una buona oliatura. «Io... io...» La donna cercò di parlare, ma non poteva. Le si erano grippate anche le gambe. Non poteva fuggire da nessuna parte, se non nei boschi. «Certo non avrà paura di me» disse lui, piano. «Sono solo più un mezzo uomo, no? Apprezzo molto che lei abbia avuto compassione di un poveraccio come me, davvero.» Le ruote cigolarono, cigolarono. «Stia... stia lontano...» «Sono sempre il vecchio Lester, signora Sperry. Il vecchio Lester, nient'altro. Mi dica tutto.» Lei allora quasi cedette, quasi fuggì. Ma lui disse: «Il vecchio Lester fa sparire il dolore, no?» E lei fu come creta molle, nelle sue mani. «Perché non posa la lampada, signora Sperry? Facciamo due chiacchiere. Sa che aggiusto le cose.» La lanterna si abbassò lentamente. Troppo facile, pensò lui. Soprattutto con lei: la donna era una morta in piedi. Ne era stufo. «Mi pare che occorra aggiustare quel fucile» disse, indicando la carabina nell'angolo. «Le spiace portarmelo?» Lei andò a prenderlo. «Signora Sperry? Voglio che lei si metta la canna in bocca e tenga il dito sul grilletto. Sì, signora, continui, così va bene. Oh, bravissima!» Gli occhi della donna erano luminosi e scintillanti, le lacrime le rotolavano lungo le guance. «Ora... voglio che provi per me il fucile. Voglio che tiri il grilletto e che mi dica se funziona. D'accordo?» Lei gli resistette: soltanto un secondo di voglia di vivere che forse non sapeva neppure di possedere ancora. «Lester aggiusta le cose» disse lui. «Una piccola pressione, ora.» Il fucile sparò. Lui si trascinò avanti. Le ruote cigolarono sul corpo della donna. La Secchia di Sangue, pensò. Devo andare in quella taverna! Ma poi... no, no. Un momento. Un momento solo. Sister era diretta a Mary's Rest. Andando a piedi per la campagna, lui
avrebbe impiegato un tempo minore di quello necessario a percorrere in auto i resti della strada. Poteva precederla e aspettarla lì. C'era un gran numero di persone, a Mary's Rest, un gran numero d'occasioni. Tanto, aveva già deciso di fare quella strada, uno dei prossimi giorni. Sister forse aveva lasciato la taverna e si era incamminata. Questa volta non ti perdo, giurò a se stesso; arriverò a Mary's Rest prima di te. Il vecchio Lester sistemerà le cose anche per te, puttana! Era un buon travestimento, decise. Occorrevano alcune modifiche, se doveva percorrere a piedi quella distanza, ma ce l'avrebbe fatta. E quando la puttana fosse arrivata a Mary's Rest, lui sarebbe stato pronto a ballare sulle sue ossa, fino a ridurla in polvere per il pentolone. Risucchiò nel viso le ultime mosche, che però non gli portarono informazioni utili. Allungò la parte inferiore del tronco nel giro d'un minuto poté mettersi in piedi. Allora abbassò le gambe dei calzoni, prima arrotolate; raccolse il carrettino rosso che gli era servito per muoversi e camminò, a piedi nudi nella neve ghiacciata, verso la foresta. Si mise a canticchiare, a voce assai bassa: «Giro giro tondo, casca il mondo...» Le tenebre lo inghiottirono. 53 Un uomo alto in un lungo soprabito nero dai bottoni d'argento attraversò a passo deciso le macerie fumanti di Broken Bow, nel Nebraska. Cadaveri giacevano sparpagliati lungo quella che era stata la via principale; i camion dell'Esercito d'Eccellenza, simili a carri armati, passarono sopra quelli che incontrarono. Altri soldati caricavano sui camion i sacchi recuperati di granturco, farina, fagioli e i bidoni di petrolio e di benzina. Una pila di fucili e di pistole aspettava d'essere raccolta dalla Brigata Armeria. La Brigata Vestiario spogliava i cadaveri; la Brigata Ricoveri raccoglieva le tende che ai morti non sarebbero più servite. La Brigata Meccanici esaminava i numerosi automezzi, macchine, roulotte e camion, caduti in mano ai vincitori; quelli funzionanti sarebbero diventati veicoli di ricognizione e di trasporto, gli altri avrebbero fornito pneumatici, motori, parti di ricambio. Ma l'uomo in soprabito nero, con lucidi stivali color ebano che scricchiolavano sul terreno bruciato, aveva ben altro per la testa. Si fermò di fronte a una catasta di cadaveri che venivano spogliati di ogni indumento ed esaminò alla luce del vicino falò la faccia di ciascuno. I soldati inter-
ruppero il lavoro per salutare; lui rispose in fretta al saluto e riprese l'esame, poi passò al mucchio seguente. «Colonnello Macklin!» chiamò una voce, superando il rombo dei camion di passaggio; l'uomo si girò. La luce del fuoco cadde sulla maschera di pelle nera che ricopriva il viso di James B. Macklin; il foro dell'occhio sinistro era stato rozzamente cucito, ma dall'altro un occhio azzurro e gelido scrutò la figura che s'avvicinava. Sotto il soprabito Macklin indossava una divisa grigioverde e portava nella fondina alla cintura una .45 dal calcio in madreperla. Sul taschino della giubba c'era un pezzo rotondo di stoffa nera con ricamate in argento le lettere EDE. Un berretto di lana verde scuro ricopriva la testa. Judd Lawry, con indosso una divisa simile sotto il cappotto orlato di pelliccia, emerse dal fumo. Portava a tracolla un M-16 e due bandoliere di proiettili. La barba rossa e brizzolata era tagliata assai corta; i capelli, quasi a zero. Sulla fronte, una cicatrice correva in diagonale fino alla tempia sinistra. Nei sette anni trascorsi al seguito di Macklin, Lawry aveva perso una quindicina di chili di grasso e ora aveva il corpo duro è muscoloso; il suo viso aveva assunto tratti crudeli e gli occhi si erano infossati nelle orbite. «Notizie, tenente Lawry?» La voce di Macklin era distorta, le parole avevano un tono strascicato, come se qualcosa nella sua bocca non fosse in ordine. «Nossignore. Non si trova. Ho chiesto al sergente McCowan, su al perimetro nord, ma nemmeno lui ha trovato il corpo. Il sergente Ulrich ha perlustrato il tratto meridionale della trincea, ma senza fortuna.» «E i rapporti delle squadre d'inseguitori?» «Il gruppo del caporale Winslow ha trovato sei di loro a un chilometro e mezzo a est di qui. Hanno opposto resistenza. Il gruppo del sergente Oldfield ne ha trovati quattro a nord, ma si erano suicidati. Ancora non ho notizie della pattuglia andata a sud.» «Non può essersela svignata, Lawry» disse Macklin, deciso. «Dobbiamo trovare quel figlio di puttana... o il suo cadavere. Lo voglio, vivo o morto, nella mia tenda entro due ore. Chiaro?» «Signorsì. Farò del mio meglio.» «Fai più del tuo meglio. Trova il capitano Pogue e digli che mi porti il cadavere di Franklin Hayes; lui è abile a seguire le tracce e riuscirà a trovarlo. E per l'alba voglio vedere i conteggi delle perdite e l'elenco delle armi catturate. Che non succeda il casino dell'ultima volta, chiaro?»
«Signorsì.» «Bene. Sarò nella mia tenda.» Macklin si mosse per allontanarsi, poi si girò. «Dov'è Roland?» «Non so. L'ho visto circa un'ora fa, al confine meridionale della città.» «Se lo vedi, digli di venire a rapporto. Azione.» Macklin si diresse a passo deciso alla sua tenda, che era anche il quartier generale. Judd Lawry non riuscì a reprimere un brivido. Da più di due anni non vedeva il viso del colonnello: Macklin aveva iniziato a portare quella maschera di cuoio per proteggere la pelle "dalle radiazioni e dall'inquinamento"... però a Lawry sembrava che la faccia di Macklin a poco a poco cambiasse davvero forma, dal modo come la maschera si gonfiava e tirava sopra le ossa. Lawry sapeva di che cosa si trattava: la maledetta malattia che aveva colpito un mucchio di altri soldati dell'Esercito d'Eccellenza... le escrescenze che ti ricoprivano il viso lasciando solo un foro per bocca. Tutti sapevano che Macklin era rimasto contagiato, e anche il capitano Croninger ne era affetto; proprio per questo il ragazzo aveva sempre il viso fasciato. I malati più gravi erano stati fucilati; per Lawry quella malattia era molto peggio delle cheloidi più nauseanti. Grazie a Dio, lui non l'aveva presa: la sua faccia gli piaceva così com'era. Ma se le condizioni di Macklin fossero peggiorate, il colonnello non avrebbe potuto guidare l'EDE ancora per molto. Questa riflessione comportava un mucchio di possibilità interessanti... Lawry borbottò qualcosa, riportò l'attenzione ai suoi compiti e attraversò le macerie. Dall'altra parte di Broken Bow, il colonnello Macklin salutò le due sentinelle armate in servizio davanti alla grande tenda di comando ed entrò. Nella tenda era buio; Macklin ricordava d'avere lasciato sul tavolo un lume acceso. Ma in mente aveva tante di quelle cose da non esserne sicuro. Si avvicinò al tavolo, tese l'unica mano e trovò il lume. Il vetro era ancora caldo. Si sarà spento da solo, pensò. Tolse il riparo di vetro, prese di tasca un accendino e lo accostò al lume; lasciò che la fiamma si alzasse, poi mise a posto il tubo di vetro. La luce fioca si diffuse nella tenda... e soltanto allora il colonnello Macklin capì di non essere solo. Al tavolo sedeva un uomo magro, con capelli biondi e arruffati lunghi fino alla spalla, barba bionda. Gli stivali infangati poggiavano sulle varie mappe, cartine e rapporti che coprivano il piano del tavolo. L'uomo smise di pulirsi con un coltello le unghie assai lunghe; alla vista dell'arma, Macklin estrasse all'istante la .45 e la puntò alla testa dell'intruso.
«Salve» disse il biondo. E sorrise. Aveva viso pallido e cadaverico: al centro, al posto del naso, c'era un foro circondato di tessuto cicatriziale. «T'aspettavo.» «Metti giù il coltello. Subito.» La lama si conficcò con un tonfo sordo nella cartina del Nebraska e rimase dritta, vibrando. «Calma, calma» disse l'uomo. Alzò le mani per mostrare che erano vuote. L'intruso indossava una divisa dell'EDE, macchiata di sangue; ma non sembrava ferito di recente. L'orrenda ferita al centro della faccia, che mostrava le cavità nasali e la cartilagine grigia, era ben cicatrizzata. «Chi sei? Come hai evitato le sentinelle?» «Sono entrato dall'ingresso di servizio.» L'uomo indicò la parte posteriore della tenda: nella stoffa c'era uno squarcio sufficiente a permettere il passaggio. «Mi chiamo Alvin.» Puntò sul colonnello Macklin gli occhi verde torbido e scoprì i denti in un sogghigno. «Alvin Mangrim. Dovresti avere un servizio di vigilanza migliore, colonnello. Un pazzo potrebbe entrare a ucciderti, se volesse.» «Come te, forse?» «No, io no.» Rise; l'aria provocò un fischio acuto, passando nel foro al posto del naso. «Ti ho portato un paio di regali.» «Potrei farti fucilare per irruzione nella tenda comando.» Il sogghigno di Alvin Mangrim rimase immutato. «Non ho fatto irruzione. Ho fatto un taglio! Vedi, sono davvero abile, con i coltelli. Oh, sì... i coltelli mi conoscono. Mi parlano. E io faccio quel che mi dicono di fare.» Macklin fu sul punto di far saltare la testa all'intruso, ma non voleva che sangue e cervella gli imbrattassero le carte. «Allora? Non vuoi vedere i regali?» «No. Voglio che ti alzi, molto lentamente, e che cominci a camminare...» Ma Alvin Mangrim si sporse dalla sedia e raccolse da terra qualcosa. «Attento!» lo ammonì Macklin. Stava per chiamare le sentinelle, quando Alvin Mangrim si raddrizzò e posò sul tavolo la testa mozzata di Franklin Hayes. La faccia era livida; gli occhi rovesciati all'indietro mostravano solo il bianco. «Ecco» disse Mangrim. «Non è graziosa?» Si sporse a battere le nocche sul cranio. «Toc, toc!» Rise, con l'aria che fischiava nel cratere al centro della faccia. «Oh, in casa non c'è nessuno!» «Dove l'hai presa?» domandò Macklin. «Dal maledetto collo, colonnello. Dove credevi che fosse? Ho scavalcato
quel muro ed ecco il vecchio Franklin in persona, proprio davanti a me... a me con l'ascia, anche. È quello che chiamo Destino. Così gli ho mozzato la testa e te l'ho portata qui. Sarei venuto prima, ma ho aspettato che smettesse di sanguinare, per non impiastrare la tenda. Hai davvero un bel posticino, qui dentro.» Il colonnello Macklin si avvicinò alla testa, la toccò con la canna della .45. «L'hai ucciso?» «No. L'ho solleticato a morte. Colonnello Macklin, per essere un uomo tanto intelligente, mi sembri lento di comprendonio.» Con la canna della rivoltella, Macklin sollevò il labbro superiore. I denti erano bianchi e regolari. «Vuoi staccarglieli?» domandò Mangrim. «Farebbero una graziosa collana per la donna dai capelli neri con cui ti ho visto.» Macklin lasciò ricadere il labbro. «Chi diavolo sei? Come mai non t'ho mai visto?» «Sono stato nelle vicinanze. Ho seguito l'EDE per quasi due mesi, credo. Io e alcuni miei amici abbiamo il nostro campo personale. La divisa l'ho presa a un soldato morto. Mi va benino, non ti pare?» Macklin sentì un movimento alla sua sinistra e si girò in tempo per vedere Roland Croninger entrare nella tenda. Il gióvane indossava un lungo cappotto grigio con il cappuccio tirato sulla testa; a soli vent'anni, il capitano Roland Croninger, un metro e ottantatré, era solo un. paio di centimetri più basso di Macklin e magro come uno spaventapasseri: divisa e cappotto gli ballavano addosso. I polsi sporgevano dalle maniche, le mani erano sottili come stecchi. Aveva comandato l'attacco che aveva distrutto le difese di Broken Bow e aveva suggerito lui d'inseguire fino in fondo Franklin Hayes. Ora si fermò di scatto e dal cappuccio scrutò, attraverso gli occhialoni dalle lenti spesse, la testa che adornava il tavolo del colonnello Macklin. «Sei il capitano Croninger, vero?» disse Mangrim. «Ho visto in giro anche te.» «Cosa succede qui?» La voce di Roland aveva sempre un tono acuto. «Quest'uomo mi ha portato un regalo. Ha ucciso Franklin Hayes, o così sostiene.» «Certo che l'ho ucciso. Zac, zac!» Mangrim batté sul tavolo il taglio della mano. «Via la testa!» «Questa tenda è vietata» disse freddamente Roland. «Potresti essere fucilato, per l'intrusione.»
«Volevo fare una sorpresa al colonnello.» Macklin abbassò la pistola. Alvin Mangrim non era venuto con cattive intenzioni, decise. Aveva violato una delle regole più ferree dell'EDE, ma la testa mozzata era davvero un bel regalo. Compiuta la missione — Hayes era morto, l'EDE aveva fatto un buon bottino in automezzi, armi e benzina, oltre a incrementare di un centinaio d'uomini le sue forze — Macklin si sentiva rilassato, come sempre dopo una battaglia. Era come desiderare una donna al punto da avere male alle palle: una volta presa, avuta la possibilità di fare quel si voleva, ci si stancava. Possedere la donna non contava: era l'atto di prendere... donne, territorio, vite umane... a far ribollire il sangue di Macklin. «Mi manca il fiato» disse all'improvviso. Inspirò a fondo, ma gli sembrava di non riuscire a mandare nei polmoni aria sufficiente. Credette di scorgere il Soldato Ombra proprio dietro Alvin Mangrim; batté le palpebre e l'immagine spettrale sparì. «Mi manca l'aria» ripeté e si tolse il berretto. Non aveva capelli. Lo scalpo era coperto d'escrescemze simili a cirripedi attaccati a palafitte marce. Macklin allungò la mano sulla nuca e trovò il gancio della maschera. La protezione di cuoio ricadde e lui inspirò profondamente da quel che gli restava del naso. La sua faccia era una massa deforme di piastre cornee simili a croste che gli racchiudevano completamente i tratti del viso, tranne un occhio, una narice e una fessura sulla bocca. Sotto le escrescenze, la faccia di Macklin bruciava e prudeva terribilmente, le ossa dolevano come se le piegassero in forme nuove. Macklin non osava più guardarsi allo specchio e quando scopava Sheila Fontana, lei — come un certo numero di altre donne al seguito dell'EDE — serrava gli occhi e girava il viso dall'altra parte. Ma Sheila Fontana, ormai, era fuori di testa, buona solo per essere scopata: tutte le notti urlava che un certo Rudy strisciava nel suo letto stringendo fra le braccia il cadavere d'un neonato. Alvin Mangrim rimase in silenzio per un momento. Poi disse: «Be', qualunque cosa sia, ne hai una bella dose.» «Hai consegnato il regalo» disse Macklin. «Ora esci subito dalla mia tenda.» «Ho detto che avevo portato due regali. Non vuoi vedere il secondo?» «Il colonnello Macklin ti ha detto di uscire.» A Roland non piaceva quel figlio di puttana biondo, non ci avrebbe pensato due volte a farlo fuori. Ancora eccitato dalla strage, aveva nelle narici, come un delizioso profumo, l'odore del sangue. Negli ultimi sette anni era diventato un profondo
conoscitore dell'arte di uccidere, mutilare, torturare. Quando il Re voleva informazioni da un prigioniero, aveva solo da convocare ser Roland, che aveva una roulotte dipinta di nero dove molta gente aveva cantato con l'accompagnamento di catene, mole, martelli e seghe. Alvin Mangrim si chinò di nuovo. Macklin puntò la .45, ma il biondo mise sul tavolo una piccola scatola chiusa da un nastro azzurro vivo. «Ecco» disse, offrendogliela. «Prendi. È per te.» Il colonnello esitò, rivolse una rapida occhiata a Roland, poi depose la pistola a portata di mano e prese la scatola. Strappò il nastro e sollevò il coperchio. «L'ho fatta io. Ti piace?» Macklin allungò la sinistra nella scatola... e ne trasse una mano destra, coperta da un guanto di pelle nera. Una ventina di chiodi ne trafiggevano il dorso in modo che la punta acuminata sporgesse dal palmo. «L'ho intagliata io» disse Mangrim. «Sono un bravo falegname. Sai che Gesù era un falegname?» Incredulo, Macklin fissò la realistica mano di legno. «Cosa sarebbe, uno scherzo?» Mangrim parve ferito. «Amico, ho impiegato tre giorni a farla come volevo! Vedi, pesa proprio come una mano vera; è così ben bilanciata che non t'accorgeresti mai che è di legno. Non so cosa sia successo alla tua mano vera, ma pensavo che questa l'avresti gradita.» Il colonnello esitò, perplesso. La mano di legno, stretta nel guanto di pelle, era irta di punte come un porcospino. «Cosa dovrebbe essere? Un fermacarte?» «No. Dovresti portarla al polso» spiegò Mangrim. «Come una mano vera. Vedi, uno guarda la mano con tutti quei chiodi che sporgono e pensa, "Cazzo, il bastardo non sa proprio cos'è il dolore!" Con quella al polso, se uno ti risponde, gli molli un manrovescio e sta' sicuro che le labbra non le avrà più.» Mangrim sogghignò allegramente. «L'ho fatta proprio per te.» «Sei pazzo» disse Macklin. «Ti mancano tutte quante le rotelle! Perché diavolo dovrei portare...» «Colonnello?» lo interruppe Roland. «Forse sarà pazzo, ma la ritengo una buona idea.» «Eh?» Roland si tirò indietro il cappuccio. La faccia e la testa erano coperte da luride bende fissate con nastro adesivo. Dove le fasce non si sovrapponevano bene, spuntavano escrescenze grigie, dure come piastre cornee.
Le bende, fittamente incerottate sulla fronte, sulle guance e sul mento, arrivavano al bordo degli occhialoni. Roland tolse un pezzo di nastro adesivo, srotolò una trentina di centimetri di benda e la strappò. La porse a Macklin. «Ecco» disse. «Provi a legarsela al polso.» Macklin guardò Roland come se pensasse che anche a lui avesse dato di volta il cervello; poi prese la benda e il cerotto e s'industriò ad applicare al moncherino la mano falsa. Alla fine riuscì a sistemarla, con il palmo chiodato all'interno. «Fa un certo effetto» disse. «Sembra che pesi cinque chili.» Ma, a parte la bizzarra sensazione di avere all'improvviso una nuova mano, pareva proprio vera: chi non sapesse niente, avrebbe creduto che la mano con il palmo trafitto da chiodi fosse davvero attaccata al polso. Macklin tese il braccio, lo mosse lentamente in aria. Certo, l'aggancio al polso era ancora fragile; se doveva tenerla, l'avrebbe fatta legare saldamente con robusto nastro adesivo. Gli piaceva l'effetto. Di colpo capì perché: era un perfetto simbolo di disciplina e di autocontrollo. Se un uomo sopportava — anche solo simbolicamente — un simile dolore, allora aveva il dominio supremo del proprio corpo; era un uomo che andava temuto, che andava seguito. «Dovrebbe portarla sempre» suggerì Roland. «Soprattutto quando ci saranno da negoziare rifornimenti. Non credo che il capo di qualsiasi comunità resisterebbe a lungo, dopo averla vista.» Macklin era incantato. La nuova mano sarebbe stata un'arma psicologica devastante e anche assai pericolosa in uno scontro corpo a corpo. Avrebbe dovuto fare molta attenzione, se gli veniva voglia di grattarsi i resti del naso. «Sapevo che ti sarebbe piaciuta» disse Mangrim, soddisfatto per la reazione del colonnello. «Sembra che ce l'hai dalla nascita.» «Questo ancora non giustifica la tua presenza nella tenda» disse Roland. «Vuoi proprio farti fucilare.» «No, per niente, capitano. Voglio il grado di sergente nella Brigata Meccanici.» Gli occhi verdi si spostarono da Roland al colonnello Macklin. «Sono bravo anche con le macchine. So riparare qualsiasi cosa. Datemi i pezzi e io li metto insieme. E so anche costruire cose nuove. Sissignore, fammi sergente della Brigata Meccanici e ti mostrerò cosa posso fare per l'Esercito d'Eccellenza.» Macklin esitò, esaminando la faccia priva di naso di Alvin Mangrim. Quello era il tipo d'uomo di cui l'EDE aveva bisogno: aveva coraggio e non temeva di correre rischi per ottenere quel che voleva. «Ti farò ca-
porale» rispose. «Se esegui bene il lavoro e mostri attitudine al comando, fra un mese esatto ti promuovo sergente della Brigata Meccanici. Ti va bene?» L'altro scrollò le spalle e si alzò. «Direi di sì. Caporale è meglio di soldato semplice, no? Posso dire ai soldati semplici cosa devono fare, giusto?» «E un capitano può sbattere il tuo culo davanti a un plotone.» Roland avanzò di fronte a lui. Si squadrarono come due animali ostili. Un lieve sorriso aleggiò sulle labbra di Alvin Mangrim. La faccia bendata, grottesca, di Roland rimase impassibile. Alla fine Roland disse: «Entra di nuovo senza permesso in questa tenda e provvedo io stesso a spararti... o forse preferisci un giro guidato nella roulotte degli interrogatori?» «Un'altra volta. Signore.» «Vai a rapporto dal sergente Draeger, nella tenda della Brigata Meccanici. Scattare!» Mangrim staccò il coltello dal piano del tavolo. Si avvicinò allo squarcio nella tenda, si chinò; ma prima di strisciare fuori, si girò a guardare Roland. «Capitano?» disse, a voce bassa. «Se fossi in lei, starei attento ad andare in giro nel buio. Per terra c'è un mucchio di vetri rotti. Potrebbe cadere e magari mozzarsi la testa. Capito cosa voglio dire?» Prima che Roland potesse rispondere, strisciò fuori e sparì. «Bastardo!» ribollì Roland. «Finirà davanti al plotone d'esecuzione!» Macklin rise. Fu lieto di vedere Roland, sempre così controllato, impassibile come una macchina, uscire dai gangheri, una volta tanto. «Diventerà tenente in sei mesi» dichiarò. «Ha il tipo d'immaginazione su cui l'EDE prospera.» Si avvicinò al tavolo e fissò la testa di Franklin Hayes; con un dito della sinistra seguì il contorno di una delle cheloidi marrone che macchiavano la carne livida e fredda. «Maledetto dal marchio di Caino» commentò. «Prima ci liberiamo di simili sozzure, prima ricostruiremo il mondo com'era. No, meglio di com'era.» Allungò la mano nuova e la batté sulla cartina del Nebraska, impalandola con i chiodi; la trascinò a sé sul piano del tavolo. «Alle prime luci, manda pattuglie di ricognizione a est e a sudest» disse a Roland. «Ordina che esplorino fino al buio, prima di tornare.» «Quanto ci fermiamo qui?» «Finché l'EDE non si è riposato e non è di nuovo in forze. Voglio che tutti i veicoli siano revisionati e pronti a muoversi.» Il grosso dei camion, delle auto e delle roulotte — compresa l'Airstream di Macklin — si trovava a dodici miglia a ovest di Broken Bow; con la luce del giorno si sarebbe
riunito al battaglione operativo avanzato. A partire dal campo di Freddie Kempka, Macklin aveva creato un esercito mobile in cui ciascuno aveva un compito preciso, compresi fanti, ufficiali, meccanici, cuochi, fabbri, sarti, due medici e persino prostitute campali come Sheila Fontana. Tutti erano tenuti insieme dalla guida di Macklin, dalla necessità di cibo, acqua e riparo... e dalla convinzione che i superstiti con il marchio di Caino andassero sterminati. Era risaputo che chi aveva su di sé il marchio di Caino infettava la razza umana con geni avvelenati dalle radiazioni; se l'America doveva tornare tanto potente da restituire il colpo ai russi, bisognava cancellare il marchio di Caino. Macklin studiò la cartina del Nebraska. Mosse gli occhi verso est, lungo la linea rossa della Statale 2, attraverso Grand Island, Aurora, Lincoln, fino alla linea azzurra del fiume Missouri. Da Nebraska City, l'EDE poteva marciare sia nello Iowa, sia nel Missouri... territori vergini, con nuove comunità e provviste di cui impadronirsi. E poi, superata l'ampia distesa del Mississippi, l'intera parte orientale del paese sarebbe stata davanti all'EDE, pronta a essere presa e ripulita, proprio come avevano ripulito larghe sezioni dello Utah, del Colorado, del Wyoming e del Nebraska. Ma dopo ogni villaggio, c'era sempre il successivo e Macklin era inquieto. Aveva udito rapporti riguardanti l'Armata Idra, i Predoni di Nolan e la cosiddetta Fedeltà Americana. Non vedeva l'ora d'incontrare questi "eserciti". L'EDE li avrebbe schiacciati, come aveva distrutto il Partito del Popolo Libero, dopo mesi di guerra fra le Montagne Rocciose. «Puntiamo a est» disse a Roland. «Attraversiamo il Missouri.» Il suo unico occhio nel viso coperto d'escrescenze brillò per l'eccitazione della caccia. Macklin sollevò la destra e la vibrò a mezz'aria, velocemente, sempre più velocemente. I chiodi provocarono un sibilo irreale, simile a grida umane. 54 «Ehi! Ehi, venite a vedere!» La porta del fienile si spalancò e Sly Moody entrò a precipizio, con il vento del mattino alle calcagna. All'istante Killer saltò fuori da sotto il carro e cominciò ad abbaiare a mitraglia. «Venite a vedere!» gridò Moody, con la faccia rossa d'eccitazione e fiocchi di neve che si scioglievano sui capelli e sulla barba. Si era vestito in fretta e furia, si era gettato sui mutandoni un cappotto marrone e ai piedi
portava ancora le pantofole. «Dovete venire a vedere!» «Di che diavolo farnetica, amico?» Rusty si alzò a sedere sul mucchio di fieno dove aveva dormito e si strofinò gli occhi arrossati. Riusciva solo a distinguere la fioca luce che entrava dalla porta spalancata. «Cristo santo! Non è ancora l'alba!» Josh, in piedi, si era appena tirato sul viso la maschera e la sistemava in modo da vederci. Aveva dormito accanto al carro e nel corso degli anni aveva imparato che svegliarsi subito all'erta era un buon sistema per rimanere vivi. «Cosa c'è?» domandò a Moody. «Là fuori!» Il vecchio puntò il dito tremante in direzione della porta. «Dovete venire a vedere! Dov'è la ragazza? È sveglia?» Guardò i lembi chiusi della tenda. «Cos'è questa confusione?» domandò Josh. La sera prima, Sly Moody aveva detto a Josh e a Rusty di tenere Swan nel fienile; loro due avevano preso le scodelle di stufato e avevano mangiato con lei; e Swan si era mostrata nervosa e muta come la sfinge. Non aveva senso, per Josh, che ora Moody volesse vedere Swan. «Chiamatela!» disse Moody. «Portatela fuori e venite a vedere!» E uscì in fretta nel vento freddo, mentre Killer gli abbaiava dietro. «Chi avrà tirato i fili del nostro amico?» brontolò Rusty tra sé, mentre s'infilava cappotto e stivali. «Swan?» chiamò Josh. «Swan, sei...» La tenda si aprì e comparve Swan, alta e snella e sfigurata, faccia e testa simili a un casco bitorzoluto. Portava jeans, un pesante maglione giallo e un cappotto di velluto a coste; ai piedi aveva scarponi da escursionista. Reggeva in mano Crybaby, ma quel giorno non aveva badato a nascondersi il viso. Tastando con la bacchetta da rabdomante il terreno, scese la scaletta e piegò di lato la testa in modo da vedere Josh attraverso la piccola feritoia dell'occhio. La testa le diventava sempre più pesante, più difficile da controllare. A volte temeva che il collo fosse sul punto di spezzarsi e quel che c'era sotto le escrescenze le bruciava così selvaggiamente che spesso non riusciva a trattenere un grido di dolore. Una volta aveva usato un coltello contro quella cosa repellente e deforme che la sua testa era diventata, e si era messa a colpire come impazzita. Ma le escrescenze erano troppo resistenti per tagliarle, rigide come armatura metallica. Parecchi mesi prima aveva smesso di guardare nello specchio magico. Non riusciva più a sopportarlo, anche se la sagoma che portava il cerchio luminoso era sembrata farsi più vicina... ma anche l'orribile faccia di luna,
con i lineamenti mutevoli e mostruosi, era parsa avvicinarsi. «Venite!» Sly Moody li chiamava dal davanti della casa. «Presto!» «Cosa vuole mostrarci?» domandò Swan a Josh. «Non so. Andiamo a scoprirlo.» Rusty si mise il cappello da cowboy e li seguì fuori. Swan camminava lentamente, le spalle piegate sotto il peso della testa. Poi, all'improvviso, Josh si bloccò. «Mio Dio» disse sottovoce, in tono pieno di meraviglia. «Avete visto?» gracchiò Sly Moody. «Guardate! Guardate bene!» Swan inclinò la testa in direzione diversa, in modo da vedere davanti a sé. Sulle prime non fu sicura di quel che vide, a causa della neve che turbinava. Dietro di lei, anche Rusty si era fermato di colpo; non credeva ai suoi occhi, di certo era ancora addormentato e sognava. Si lasciò sfuggire un breve ansito di stupore reverenziale. «Ve l'avevo detto, no?» gridò Moody e iniziò a ridere. Carla era in piedi accanto a lui, avvolta in un cappotto e in un bianco berretto di lana, con espressione sbalordita. «Ve l'avevo detto!» ripeté Moody e si mise a ballare una giga fra i ceppi di melo, sollevando piccoli sbuffi di neve. L'unico melo ancora in piedi non era più spoglio. Dai rami rugosi erano sbocciati centinaia di fiori bianchi; e quando il vento li trasportava a roteare via come minuscoli ombrelli d'avorio, lasciavano il posto a foglioline di un verde brillante. «È vivo!» gridò gioiosamente Sly Moody, battendo i tacchi fra loro, inciampando, cadendo e rialzandosi, il viso infarinato di neve. «Il mio albero è tornato alla vita!» «Oh» mormorò Swan. I fiori di melo volarono intorno a lei. Ne sentì la fragranza nel vento... il dolce profumo della vita. Piegò la testa a guardare il tronco del melo. E lì, come marchiate a fuoco nel legno, c'erano l'impronta del suo palmo e le lettere tracciate con il dito: S... W... A... N... Una mano le toccò la spalla. Era Carla: la donna arretrò d'un passo, quando Swan finalmente riuscì a girare la testa deforme. Negli occhi di Carla c'era una luce d'orrore... ma anche le lacrime. La donna cercava di parlare, ma non riusciva a evocare le parole. Le sue dita strinsero la spalla di Swan. Finalmente la donna disse: «Sei stata tu. Tu hai ridato vita all'albero, vero?» «Non so» disse Swan. «L'ho... l'ho solo risvegliato.» «È fiorito nel giro d'una notte!» Sly Moody danzò intorno al melo, come se fosse un "albero di maggio" , ornato di banderuole dai vividi colori. Si
fermò, allungò la mano ad afferrare un ramo, lo tirò in basso perché tutti vedessero. «Ha già le gemme! Dio santo, avremo un barile pieno di mele, il primo maggio! Non ho mai visto un albero così matto!» Scosse il ramo e rise come un fanciullo mentre i fiori bianchi turbinavano via. Poi il suo sguardo cadde su Swan e il sorriso svanì. Lasciò il ramo, per un attimo fissò in silenzio la ragazza, mentre fra loro volavano fiocchi di neve e fiori di melo spinti dal vento e l'aria si riempiva di profumo e della promessa di frutta e di sidro. «Se non l'avessi visto con i miei occhi» disse Sly Moody, con voce soffocata dall'emozione «non l'avrei mai creduto. Non è naturale che un albero sia spoglio il giorno prima e coperto di fiori il giorno dopo. Diavolo, quest'albero ha perfino foglie nuove! Cresce come cresceva una volta, quando aprile era un mese tiepido e si sentiva l'estate bussare alle porte!» La voce gli mancò e il vecchio dovette aspettare un attimo prima di continuare. «So che c'è il tuo nome, sull'albero. Non so perché sia fiorito all'improvviso... ma se è un sogno, non voglio svegliarmi. Annusa l'aria! Senti il profumo!» All'improvviso venne avanti, prese la mano di Swan, se la premette sulla guancia. Emise un singhiozzo soffocato e cadde in ginocchio nella neve. «Grazie» disse. «Grazie, grazie infinite.» Josh si accostò all'albero, passò il dito sulle lettere che formavano il nome di Swan, bruciate nel legno, come incise con la fiamma ossidrica. «Come hai fatto?» le domandò, non sapendo che altro dire. «L'ho soltanto toccato» rispose lei. «Ho avuto la sensazione che non fosse morto e l'ho toccato perché volevo che continuasse a vivere.» Era imbarazzata nel vedere il vecchio in ginocchio davanti a lei e desiderò che si alzasse e smettesse di piangere. La donna guardava Swan, con un miscuglio di repulsione e di meraviglia, come si potrebbe guardare un rospo con ali d'oro. Swan era ancora più nervosa di quando, la sera prima, aveva spaventato il vecchio e la donna. «La prego» disse, tirandolo per il cappotto. «La prego, signore, si alzi.» «È un miracolo» mormorò Carla, guardando i fiori portati dal vento. Lì vicino, Killer correva sulla neve cercando di addentarli. «Ha fatto un miracolo!» Due lacrime le scivolarono lungo le guance, si ghiacciarono come brillanti ancora prima d'arrivare alla linea della mascella. Swan era nervosa e infreddolita, temeva che la testa deforme le si piegasse troppo da una parte e le spezzasse l'osso del collo. Non poteva sopportare più il vento pungente e si sottrasse alla stretta di Sly Moody; si diresse al fienile, tastando con Crybaby la neve davanti a sé, mentre il vec-
chio e gli altri la guardavano allontanarsi. Killer le correva intorno, un fiore di melo fra i denti. Fu Rusty, il primo a ritrovare la voce. «Qual è la città più vicina?» domandò a Sly Moody ancora ginocchioni. «Siamo diretti a nord.» Il vecchio batté le palpebre, con il dorso della mano si pulì gli occhi. «Richland» disse. Poi scosse la testa. «No, no. Richland è morta. L'anno scorso la gente se n'è andata, o è morta di tifo.» Si rialzò a fatica. «Mary's Rest» disse infine. «Dovrebbe essere il più vicino villaggio, grande o piccolo. Si trova a una novantina di chilometri a nord di qui, al di là della S44. Non ci sono mai stato, ma ho sentito dire che Mary's Rest è una cittadina vera.» «Andremo a Mary's Rest, allora» disse Josh a Rusty. «Sembra un posto buono quanto un altro.» Moody all'improvviso si scosse dallo sbalordimento. «Non dovete andarvene! Potete stare qui con noi. Abbiamo cibo in abbondanza, troveremo posto per voi in casa! Sant'Iddio, per nulla al mondo lascerei che quella ragazza dorma nel fienile un'altra notte!» «Grazie» disse Josh «ma dobbiamo proseguire. Il cibo serve a voi. E come ha detto Rusty, siamo saltimbanchi. Tiriamo avanti così.» Sly Moody afferrò Josh per il braccio. «Ascolta, non sai cosa ti ritrovi, amico! Quella ragazza fa i miracoli! Ma guarda l'albero! Ieri era morto, oggi senti il profumo dei fiori. Amico, la ragazza è speciale. Non sai cosa può fare, se ci si mette!» «Cosa può fare?» Rusty era perplesso; si sentiva fuori del suo campo, come quando prendeva lo specchio di Fabrioso e vi scorgeva solo tenebre. «Guarda l'albero e pensa a un frutteto!» disse Sly Moody, eccitato. «Pensa a un campo di granturco, o di fagioli, di zucchine, di una cosa qualsiasi. Quella ragazza ha in sé il potere della vita! Non capisci? Ha toccato quell'albero e l'ha fatto rivivere. Amico, quella Swan potrebbe risvegliare la terra intera!» «È solo un albero» obiettò Josh. «Come fai a sapere che potrebbe fare la stessa cosa a un intero frutteto?» «Stupida creatura, cos'è un frutteto, se non una serie di alberi? Non so come ha fatto, non so chi è, ma se fa rivivere un melo, può far rivivere anche i frutteti e i campi di granturco! Sei pazzo a portare per le strade una persona con un simile dono di Dio! Nelle campagne intorno circolano assassini, banditi, pazzi e il Diavolo sa che altro. Se restate qui, può cominciare a lavorare i campi, a fare quel che sa per risvegliarli!»
Josh lanciò un'occhiata a Rusty, che scosse la testa; allora si sottrasse gentilmente alla stretta di Sly Mody. «Dobbiamo proseguire.» «Perché? Dove? Cosa cercate, che meriti d'essere trovato?» «Non lo so» ammise Josh. In sette anni di vagabondaggi di villaggio in villaggio, lo scopo della vita era diventato muoversi, anziché stabilirsi. Eppure Josh si augurava che un giorno o l'altro trovassero un luogo adatto a viverci per più di qualche mese alla volta... e forse un giorno sarebbe riuscito ad andare a sud fino a Mobile, in cerca di Rose e dei figli. «Lo sapremo quando lo troveremo, credo.» Moody riprese a protestare, ma la donna disse: «Sylvester? Comincia a fare molto freddo, qui fuori. Mi pare che loro abbiano già deciso e secondo me è giusto che facciano come ritengono meglio.» Il vecchio esitò, guardò di nuovo l'albero, annuì. «Va bene» brontolò. «Dovete andare per la vostra strada, immagino.» Guardò con occhi duri Josh, almeno dieci centimetri più alto di lui. «Ora ascolta bene, amico» disse. «Proteggi la ragazza, hai capito? Forse un giorno vedrà con chiarezza quel che secondo me deve fare. Proteggila, hai capito?» «Sì» disse Josh. «Ho capito.» «Allora andate» disse Sly Moody. Josh e Rusty si avviarono verso il fienile e Moody aggiunse: «Dio sia con voi!» Raccolse dalla neve una manciata di fiori e li annusò. Un'ora dopo, quando il carro dello Spettacolo viaggiante si era già allontanato verso nord lungo la strada, Sly Moody indossò il cappotto più pesante e gli stivali; disse a Carla che non sopportava di starsene lì seduto nemmeno un istante ancora. Avrebbe attraversato il bosco per andare da Bill McHenry a raccontargli la storia della ragazza che sapeva ridare vita a un albero solo toccandolo con la mano. Bill McHenry aveva un camioncino e un po' di benzina; Sly Moody disse che avrebbe parlato della ragazza a tutti quelli a portata di voce, perché aveva assistito a un miracolo e nel mondo la speranza non era ancora morta del tutto. Avrebbe trovato una collina su cui salire, per gridare al mondo il nome della ragazza; e quando le mele sarebbero maturate, avrebbe preparato uno stufato di mele e avrebbe invitato chiunque vivesse nelle fattorie desolate per chilometri intorno a mangiare con lui i frutti del miracolo. E poi circondò con le braccia le spalle della donna che aveva preso come moglie e la baciò; e gli occhi di lei scintillarono come stelle. NOVE:
la fonte e il fuoco Segni e simboli / Il compito del chirurgo / La curva / La sarta 55 La jeep procedeva con fracasso sulla strada piena di solchi e coperta di neve, oltrepassando carcasse di autoveicoli spinte ai lati. Qua e là un cadavere congelato giaceva in un cumulo di neve grigia; Sister ne vide uno con le braccia alzate al cielo come in un'ultima invocazione di pietà. A un bivio privo di cartelli stradali Paul rallentò. Girò la testa a guardare Hugh Ryan, rannicchiato sul sedile posteriore, fra i bagagli. Il vecchio stringeva fra le mani la stampella e russava. «Ehi!» lo chiamò Paul; gli diede un colpetto. «Sveglia!» Hugh brontolò, aprì infine gli occhi dalle palpebre pesanti. «Cosa c'è? Siamo già arrivati?» «Diavolo, no! Mi sa che abbiamo preso la strada sbagliata, una decina di chilometri fa. Non c'è segno di vita, da queste parti.» Dal parabrezza diede un'occhiata alle nubi che minacciavano neve. La luce cominciava ad affievolirsi. Paul non aveva voglia di guardare l'indicatore di benzina perché sapeva che viaggiavano con le ultime gocce. «Credevo che conoscessi la strada!» «La conosco» assicurò Hugh. «Ma è un pezzo che non mi avventuro così lontano da Moberly.» Girò lo sguardo sul paesaggio brullo. «Siamo a un incrocio» annunciò. «Lo so. Quale strada prendiamo?» «Dovrebbe esserci un cartello. Forse il vento lo ha buttato giù.» Cambiò posizione, cercò un punto di riferimento. In realtà non era mai stato da quelle parti, ma non l'aveva detto a Paul e a Sister, perché voleva andare via da Moberly, temendo d'essere ucciso durante la notte e derubato del suo deposito segreto di coperte. «Vediamo un po', mi pare che bisogna girare all'altezza di un grosso bosco di vecchie querce.» Paul alzò gli occhi al cielo: ai lati della stretta strada c'erano solo fitti boschi. «Ascoltami bene» disse. «Siamo chissà dove, abbiamo terminato la benzina... e questa volta non ci sono serbatoi di camion da cui prelevarla. Presto sarà buio e secondo me abbiamo sbagliato strada. Adesso dimmi perché non dovrei torcere quel tuo maledetto collo rinsecchito!» Hugh parve offeso. «Perché» rispose con grande dignità «sei una perso-
na perbene.» Rivolse una rapida occhiata a Sister, che si era girata a fissarlo con aria di rimprovero. «Conosco la strada. Sul serio. Non vi ho indicato come girare intorno a quel ponte crollato?» «Da che parte?» domandò Sister, concisa. «Sinistra o destra?» «Sinistra» rispose Hugh. E subito rimpianse d'averlo detto, ma ormai era troppo tardi e non voleva fare la figura dello sciocco. «Meglio che Mary's Rest sia oltre la prossima curva» disse Paul, in tono truce. «Se no, fa poco ci toccherà andare a piedi.» Cambiò marcia e girò a sinistra. La strada serpeggiò in un corridoio di alberi morti i cui rami intrecciati nascondevano il cielo. Hugh rimase in attesa della punizione divina. Sister prese la borsa, aprì la cerniera, tirò fuori il cerchio di vetro e lo tenne in grembo, fissando lo scintillio delle gemme imprigionate. «Cosa vedi?» domandò Paul. «Niente?» Sister scosse la testa. I colori pulsavano, ma ancora non formavano immagini. Il funzionamento e la natura del cerchio di vetro rimanevano ancora un mistero. Secondo Paul, le radiazioni avevano fuso vetro, gemme e metalli preziosi in una sorta d'antenna ipersensibile; ma nessuno di loro due poteva dire su che cosa fosse sintonizzata. Però erano d'accordo sul fatto che il cerchio di vetro li guidava verso qualcuno. Siamo più vicini alla risposta, o più lontani? pensò Sister, mentre scrutava nel cerchio. Chi cerchiamo? E perché? Sapeva che queste domande avrebbero ricevuto in risposta simboli e immagini, ombre e suoni che potevano essere remote voci umane, cigolio di ruote o latrati di cane. Un brillante sfolgorò come una meteora e la luce s'increspò lungo filamenti d'argento e di platino. Altri brillanti sfavillarono come per reazione a catena. Sister sentì che il potere del cerchio di vetro l'afferrava, la trascinava nel suo interno, sempre più in profondità, fra gli scoppi di luce che lampeggiavano con ritmo ipnotico. Non si trovava più nella jeep con Paul Thorson e il medico di Amarillo, ma in un campo innevato pieno di ceppi. Rimaneva un unico albero, e quest'albero era coperto di fiori bianchissimi che il vento soffiava via. Sul tronco c'erano le impronte di un palmo, come marchiate a fuoco nel legno... dita lunghe e sottili, le mani di una persona giovane. E, di traverso, alcune lettere, che parevano tracciate da un dito di fuoco: S... W... A... N... Sister cercò di girare la testa per vedere altri particolari, ma la scena di sogno iniziò a svanire; si rese conto della presenza di figure indistinte, di
voci lontane: un momento forse intrappolato nel tempo e in qualche modo trasmesso a lei come una telefoto attraverso cavi spettrali. E poi, all'improvviso, il sogno a occhi aperti terminò e Sister fu di nuovo nella jeep, con il cerchio di vetro fra le mani. Lasciò uscire il fiato che aveva trattenuto. «Era di nuovo lì» disse a Paul. «L'ho visto di nuovo... l'albero solitario fra una fila di ceppi, con l'impronta del palmo e la parola "cigno" impressa a fuoco sul tronco. Ma l'immagine era più nitida dell'altra sera e mi è parso... mi è parso di sentire profumo di mele.» Il giorno precedente avevano viaggiato senza fermarsi, diretti a Mary's Rest, e avevano trascorso la notte fra le macerie di una fattoria; lì Sister aveva guardato nel cerchio di vetro e per la prima volta aveva scorto l'albero in fiore. Ora la visione era stata più nitida: aveva notato ogni particolare dell'albero, ogni ramo rugoso, perfino le minuscole gemme verdi che spuntavano sotto i fiori. «Credo che ci avviciniamo» disse; e il suo cuore correva. «L immagine era più netta. Siamo vicini, non c'è dubbio!» «Ma gli alberi sono tutti morti» le ricordò Paul. «Basta guardarsi intorno. Non c'è niente in fiore... e niente mai ci sarà. Perché quel coso ti mostra un albero fiorito?» «Non lo so.» Si concentrò di nuovo sul cerchio di vetro. Le luci pulsarono, in sintonia con il ritmo più rapido del suo cuore, ma non la invitarono a percorrere il sentiero del sogno. Il messaggio era stato trasmesso e, almeno per il momento, non sarebbe stato ripetuto. «Cigno.» Paul scosse la testa. «Non ha il minimo senso.» «No, deve avere senso. Basta solo mettere insieme i pezzi.» Paul strinse il volante. «Sister» disse, con una traccia di compassione «continui a ripeterlo da anni. Guardi in quel pezzo di vetro come se fossi una zingara che legge le foglie di tè. Ed eccoci qui, ad andare avanti e indietro, a seguire segni e simboli che forse non significano un bel niente.» Le scoccò un'occhiata penetrante. «Hai mai pensato a questa possibilità?» «Abbiamo trovato Matheson, no? Abbiamo trovato le carte di tarocchi e la bambola.» Mantenne ferma la voce, ma c'erano stati molti giorni e molte notti in cui si era permessa di pensare la stessa cosa... ma solo per un attimo, e poi la sua determinazione era tornata. «Credo che il cerchio ci conduca da qualcuno... da qualcuno molto importante.» «Intendi dire che vuoi credere.» «Voglio dire che lo credo davvero!» replicò lei, brusca. «Come potrei continuare, altrimenti?» Paul sospirò. Era stanco, la barba gli prudeva, sapeva di puzzare come
una gabbia di scimmie allo zoo. Da quanto non faceva il bagno? Nelle ultime settimane era riuscito al massimo a darsi una ripulita strofinandosi con cenere e neve. Negli ultimi due anni avevano girato intorno all'argomento del cerchio come una coppia di pugili troppo prudenti. Paul stesso non vi scorgeva nient'altro che colori e si era domandato varie volte se la donna con cui viaggiava — e che a dire il vero era giunto ad amare e a rispettare — non s'inventasse quei segni e non li interpretasse come conveniva per continuare quella ricerca pazzesca. «Credo» disse Sister «che sia un dono. Credo d'averlo trovato per un motivo. Credo che ci guidi per una ragione. E tutto quel che ci mostra è un indizio del luogo dove dobbiamo andare. Non capi...» «Stronzate!» sbottò Paul. Quasi premette il pedale del freno, ma temeva che la jeep slittasse fuori strada. Sister lo guardò. La faccia della donna, coperta dalle ripugnanti escrescenze, rispecchiava sbalordimento, collera, disillusione. Paul continuò: «Hai visto una stronzissima faccia di clown, in quel maledetto affare, ricordi? Hai visto una specie di vecchio Conestoga tutto rovinato. Hai visto migliaia d'altre cose che non hanno senso e basta! Hai voluto andare a est, perché le visioni o i sogni a occhi aperti o che merda sono, diventavano più forti. E poi hai voluto tornare a ovest, perché le visioni si affievolivano e cercavi di mettere a fuoco la direzione. Dopo, hai voluto andare a nord, e poi a sud... e poi nord e sud di nuovo. Sister, tu vedi quel che tu vuoi vedere, in quella maledetta cosa! Sì, abbiamo trovato Matheson, nel Kansas! E allora? Forse da piccola hai udito qualcuno nominare Matheson. Non ci hai mai pensato?» Sister rimase in silenzio, si strinse al petto il cerchio di vetro e finalmente disse quel che voleva dire da tanto, tanto tempo. «Credo» mormorò «che questo è un dono di Dio.» «Certo.» Paul sorrise con amarezza. «Be', guardati attono. Dai solo un'occhiata. Hai mai pensato alla possibilità che Dio sia impazzito?» Con gli occhi pieni di lacrime brucianti, Sister si girò dall'altra parte: a nessun costo avrebbe permesso che Paul la vedesse piangere. «Quel cerchio sei tu, non lo capisci?» continuò Paul. «Quel che tu vedi. Quel che tu senti, che tu decidi. Se la maledetta cosa ti guida da qualche parte... o da qualcuno... perché non ti mostra chiaro e tondo dove andare? Perché si prende gioco di te? Perché ti dà questi "indizi" a spizzichi e bocconi?» «Perché» rispose Sister, con un lieve tremito nella voce «ricevere un dono non significa saperlo usare. Il difetto non è nel cerchio di vetro... è in
me, perché c'è un limite alle cose che posso capire. Faccio del mio meglio e forse... forse la persona che cerco non è neppure pronta per essere trovata.» «Eh? Figuriamoci!» «Forse le circostanze non sono quelle giuste. Forse il quadro non è completo ed ecco perché...» «Oh, Cristo» esclamò Paul stancamente. «Ora deliri, sai? Inventi cose che non sono vere, perché desideri fortemente che siano vere. Non vuoi ammettere che abbiamo sprecato sette anni della nostra vita a cercare fantasmi.» Sister guardò la strada snodarsi davanti a loro e condurre la jeep in una foresta fitta e buia. «Se la pensi così» domandò infine «perché hai viaggiato con me per tutto questo tempo?» «Non so. Forse anch'io volevo credere, tanto quanto te. Convincermi che c'era un certo metodo in questa follia. E invece non c'è. Non c'è mai stato.» «Ricordo una radio a onde corte» disse Sister. «Eh?» «Una radio a onde corte» ripeté lei. «Quella che usavi per impedire alle persone nella tua baracca di suicidarsi. Sei riuscito a farle tirare avanti, hai dato loro speranza.» «Già. E allora?» «Non hai sperato mai, anche tu, che dalla radio uscisse una voce umana? Non ti sei mai detto che il giorno seguente, o quello dopo ancora, sarebbe giunto un segnale da altri superstiti? Tu, Paul, non ti sei preso tutta quella briga solo per mantenere in vita alcuni estranei. L'hai fatto anche per mantenere in vita te stesso. E speravi che un giorno ci sarebbe stato qualcosa di diverso dalla statica, nella radio. Bene, questa è la mia radio.» Passò la mano sul vetro liscio. «Sintonizzata su una forza che non posso neppure cominciare a capire... ma non dubiterò certo. No. Andrò avanti, un passo alla volta. Con te o senza di...» «Che diavolo...» la interruppe Paul, mentre uscivano da una curva. In mezzo alla strada, sotto il baldacchino d'alberi, c'erano tre grossi pupazzi di neve, con berretti e guanti di lana, pietre per gli occhi e il naso. Uno fumava una pipa di tutolo. Paul capì subito che non sarebbe riuscito a fermarsi in tempo, ma schiacciò ugualmente il freno. Le ruote slittarono e il paraurti anteriore urtò un pupazzo di neve. L'urto quasi scagliò Paul e Sister contro il parabrezza; dietro, Hugh emise un grugnito e sbatté i denti. Il motore tossì e si spense. Al posto del pu-
pazzo, c'era ora un mucchio di neve che rivelava un blocco stradale mimetizzato, formato da pezzi di metallo, legno, pietre. «Merda!» disse Paul, quando riuscì infine a trovare la voce. «Qualche stupido ha messo un maledetto...» Un paio di gambe e di logori stivali marrone piombarono sul cofano della jeep. Sister vide una figura incappucciata, con un lungo e lacero cappotto marrone, la mano stretta intorno alla fune legata ai rami sopra la strada. L'altra mano impugnava una pistola .38, puntata contro Paul Thorson. Altre figure uscivano in fretta dal bosco e convergevano sulla jeep. «Banditi!» piagnucolò Hugh, con gli occhi sbarrati per il terrore. «Ci deruberanno e ci taglieranno la gola!» «Neanche per idea» disse Sister, calma; posò la mano sul calcio del fucile a pompa, incuneato fra i sedili. Lo puntò contro la figura sul cofano. Stava per sparare, quando le portiere della jeep si spalancarono di colpo. Una decina di pistole, tre fucili e sette lance di legno ben appuntite minacciarono Sister; altrettante armi erano puntate su Paul. «Non uccideteci!» gridò Hugh. «Vi prego, non uccideteci! Vi daremo tutto quel che volete!» Puoi ben dirlo, pensò Sister, perché tu non hai un accidente! Guardò la muraglia di armi da fuoco e di lance, calcolò quanto avrebbe impiegato a girare il fucile e sparare ai banditi... e capì che al minimo movimento era spacciata. Rimase immobile, una mano sul fucile e l'altra a protezione del cerchio di vetro. «Giù dalla jeep» ordinò la figura sul cofano. La sua era una voce giovane, la voce di un ragazzo. La pistola si spostò verso Sister. «Togli le dita dal grilletto, se non vuoi che te le faccia saltare.» Sister esitò. Scrutò la faccia del ragazzo, ma non distingueva i lineamenti a causa del cappuccio. Ma la pistola era ferma, come se il braccio del ragazzo fosse fatto di pietra; e il tono della voce non lasciava dubbi. Sister tolse il dito dal grilletto. Paul capì che non avevano scelta. Borbottò un'imprecazione e scese di macchina; gli sarebbe piaciuto avere fra le mani il collo di Hugh Ryan. «Che bella guida sei» disse Sister a Hugh. Scese anche lei. Guardò dall'alto in basso i banditi che l'avevano catturata. Erano bambini. Magri e luridi, andavano dai nove, dieci anni forse ai sedici... e non riuscivano a staccare lo sguardo dal cerchio di vetro pulsante di colori.
56 Una banda vociante e turbolenta di ventisette piccoli banditi spinse nel bosco innevato Paul, Sister e Hugh, pungolandoli con la canna dei fucili e con le lance acuminate. A un centinaio di metri dalla strada, i tre ricevettero l'ordine di fermarsi; alcuni ragazzi spostarono rami e cespugli che mascheravano l'ingresso di una piccola grotta. La canna d'un fucile spinse dentro Sister e gli altri la seguirono. Subito dopo l'apertura, la grotta si allargava in un'ampia caverna dal soffitto alto. L'ambiente era umido, ma illuminato da decine di candele; al centro ardeva un piccolo fuoco il cui fumo si arricciava verso un foro del soffitto. Altri otto bambini, tutti magri e malaticci, aspettavano il ritorno dei loro compagni con il bottino; quando le borse furono aperte, i bambini gridarono e risero, sparpagliando gli abiti di scorta di Sister e di Paul. I piccoli banditi afferrarono cappotti e maglioni troppo larghi per loro, si misero addosso sciarpe e berretti di lana, ballarono intorno al fuoco come una banda di apache. Uno stappò una fiasca del whisky di Hugh: le grida divennero più forti; la danza diventò più sfrenata. Al clamore rauco si unì il frastuono di pezzi di legno battuti insieme, l'acciottolio di sassolini dentro zucche secche, il ritmo di bacchette su scatole di cartone. Hugh si resse in equilibrio precario sulla gruccia e sull'unica gamba, mentre i bambini turbinavano intorno a lui e lo punzecchiavano con le lance. Aveva udito storie sui banditi della foresta e non gli andava l'idea di essere scalpato e scorticato. «Non uccideteci!» gridò superando il tumulto. «Vi prego, non...» Cadde a sedere, quando un decenne con l'aria da duro, capelli neri e arruffati, fece volare con un calcio la stampella. Seguì uno scroscio di risa; altre lance punzecchiarono Paul e Sister. Quest'ultima guardò in fondo alla caverna: tra il fumo, un bambino piccolo e magro, con i capelli rossi e il colorito cereo, stringeva fra le mani il cerchio di vetro e lo fissava, attento... finché un altro glielo strappò e si mise a correre intorno al fuoco. Un terzo bambino cercò d'impadronirsi del tesoro. Si scatenò una zuffa nell'entusiasmo della caccia e Sister perse di vista il cerchio. Un bambino le mise sotto il naso il suo stesso fucile e le sghignazzò in faccia, quasi a sfidarla a fare una mossa. Poi si girò in fretta, afferrò la fiasca di whisky e si unì alla danza di vittoria. Paul aiutò Hugh a rialzarsi. Una lancia lo colpì alle costole e lui si girò con furia verso il tormentatore, ma Sister gli afferrò il braccio e lo tratten-
ne. Un bambino con ossa di piccoli animali fra i capelli biondi e arruffati spinse la lancia verso la faccia di Sister e si fermò appena in tempo per non cavarle un occhio. Lei lo fissò, impassibile; il piccolo bandito sghignazzò come una iena e saltellò via. Il bambino che aveva preso la Magnum di Paul danzò davanti a loro, reggendo a fatica la pesante rivoltella. La fiasca di whisky, passata in giro, contribuì a infiammare l'eccitazione. Sister ebbe paura che i bambini cominciassero a sparare a caso: in un ambiente così ristretto, i rimbalzi delle pallottole sarebbero stati micidiali. Scorse lo scintillio del cerchio di vetro, quando un bambino lo strappò a un altro; poi due piccoli banditi si azzuffarono per prenderlo e Sister si sentì male, al pensiero che il cerchio andasse in frantumi. Avanzò d'un passo, ma fu bloccata dal pronto sollevarsi di sei o sette lance. E poi accadde la cosa terribile: un bambino, già intontito dal whisky, sollevò in alto il cerchio di vetro... e fu placcato da un altro che voleva afferrarlo. Il cerchio sfuggì dalle mani e roteò in aria. Come al rallentatore, Sister vide il cerchio cadere verso il pavimento di pietra, gridò: «No!», ma non poteva impedirlo. Il cerchio di vetro cadeva... cadeva... cadeva... Una mano l'afferrò prima che toccasse terra; il cerchio risplendette di colori infuocati, come se meteore esplodessero al suo interno. L'aveva afferrato al volo il ragazzo con cappotto e cappuccio, quello che si era lasciato cadere sul cofano della jeep. Era più alto degli altri di almeno trenta centimetri; quando s'avvicinò a Sister, gli altri si scostarono per fargli spazio. Il suo viso era sempre celato dal cappuccio. Le grida e il frastuono della musica improvvisata si affievolirono, mentre il ragazzo più alto avanzava senza fretta in mezzo agli altri. Il cerchio di vetro ardeva di pulsazioni forti e lente. Il ragazzo si fermò davanti a Sister. «Cos'è?» domandò, tenendo il cerchio davanti a sé. Gli altri avevano smesso di danzare e di gridare; cominciarono ad affollarsi per guardare la scena. «Appartiene a me» rispose Sister. «No. Apparteneva a te. Ho chiesto cos'è.» «È...» Sister esitò, cercando di decidere che cosa dire. «È una magia» riprese. «È un miracolo, se sai come usarlo. Ti prego...» e notò nelle sue stesse parole un insolito tono di supplica «di non romperlo.» «E se lo rompo? Se lo lascio cadere? La magia si versa fuori?» Sister rimase in silenzio. Il ragazzo la prendeva in giro. Lui scostò il cappuccio e mise in mostra il viso. «Non credo alla magia»
dichiarò. «Va bene per sciocchi e bambini.» Era più anziano degli altri... aveva forse diciassette, diciotto anni. Era alto quasi quanto Sister; la larghezza delle spalle rivelava che sarebbe diventato un uomo grande e grosso, una volta cresciuto. Aveva il viso magro e pallido, zigomi sporgenti e occhi color cenere; nei capelli castano scuro, lunghi fino alla spalla, si era legato ossicini e piume; sembrava severo e serio quanto un vecchio capo indiano. Peli sottili castano chiaro gli coprivano la parte inferiore del viso, dalla mascella quadrata e decisa. Le folte sopracciglia scure rendevano più severa l'espressione del viso; il setto nasale era appiattito e storto, come quello d'un pugile. Era un bel giovanotto, ma certamente pericoloso. E, capì Sister, non era né bambino né sciocco. Il giovane fissò in silenzio il cerchio. «Dove andavate?» domandò poi. «A Mary's Rest» rispose nervosamente Hugh. «Siamo solo poveri viandanti. Non intendiamo...» «Silenzio» ordinò il giovane. Hugh chiuse di colpo la bocca. Il giovane fissò Paul negli occhi per qualche secondo, poi borbottò e riportò lo sguardo su Sister. «Mary's Rest» ripeté. «Siete a più di venti chilometri a est di Mary's Rest. Perché andavate laggiù?» «Passavamo da lì per proseguire verso sud» disse Sister. «Pensavamo di trovare cibo e acqua.» «Ah, sì? Be', avete sfortuna, allora. Il cibo è quasi finito, a Mary's Rest. Muoiono di fame, là, e il loro laghetto s'è prosciugato circa cinque mesi fa. Per bere, fanno sciogliere la neve, come chiunque altro.» «È radioattiva» disse Hugh. «Bere la neve disciolta vi farà morire.» «E tu chi sei? Un esperto?» «No, ma sono... ero... medico e so di cosa parlo.» «Medico? Che genere di medico?» «Chirurgo» disse Hugh, con una traccia d'orgoglio nella voce. «Ero il miglior chirurgo di Amarillo.» «Chirurgo? Vuoi dire che operavi gli ammalati?» «Esatto. E non ho mai perso un paziente, per giunta.» Sister decise di fare un passo avanti. La mano del ragazzo corse alla pistola che portava alla cintura, sotto il cappotto. «Senti» disse Sister «tagliamo corto. Hai già tutto quel che possediamo. Faremo a piedi il resto della strada... ma voglio indietro il cerchio. Lo voglio subito. Se hai intenzione di uccidermi, fai meglio a sbrigarti, perché o mi dai il cerchio o te lo strappo.» Il giovane rimase immobile, sfidandola con il suo sguardo da falco.
Ci siamo, pensò Sister, con il cuore che le martellava. Allungò la mano, ma il giovane scoppiò a ridere e arretrò d'un passo. Sollevò il cerchio, come se volesse lasciarlo cadere sul pavimento della grotta. Sister si bloccò. «No» disse. «Per favore, non farlo.» La mano di lui si trattenne a mezz'aria. Sister si preparò a scattare, se lui avesse aperto le dita. «Robin?» chiamò una voce debole dal fondo della grotta. «Robin?» Il giovane fissò Sister ancora per qualche secondo, con occhi duri e scaltri; poi ammiccò e le porse il cerchio. «Tieni. Non vale una merda, tanto.» Sister lo prese, con un'ondata di sollievo. «Non andrete da nessuna parte» disse il giovane. «Soprattutto tu, Doc.» «Eh?» Hugh fu trafitto dal terrore. «Forza, in fondo alla caverna» ordinò il giovane. «Tutti e tre.» Esitarono. «Subito.» Il tono di voce era quello di chi è abituato a essere ubbidito. Andarono in fondo alla caverna. Sister vide altri bambini. Tre di loro avevano la Maschera di Giobbe, in vari stadi di crescita; uno riusciva a stento a tenere dritta la testa deforme. Per terra, in un angolo, sopra un giaciglio di paglia e di arbusti, giaceva un bambino dai capelli castani, sui dieci anni, con il viso lustro di sudore. Sul petto livido, appena sotto il cuore, aveva una sorta di medicazione sudicia da cui filtrava sangue. Il ferito, nel vederli, cercò di sollevare la testa, ma non ne aveva la forza. «Robin?» mormorò. «Sei qui?» «Sono qui, Bucky.» Robin si chinò accanto a lui e gli scostò dalla fronte i capelli madidi. «Mi fa male... tanto.» Bucky tossì e sulle labbra gli comparve sangue schiumoso. Robin si affrettò a pulirlo. «Non mi farai andare fuori dov'è buio, vero?» «No» disse Robin, piano. «Non ti farò andare fuori dov'è buio.» Guardò Sister, con occhi vecchi di cent'anni. «Buck è stato ferito tre giorni fa.» Con dita gentili sollevò la medicazione. La ferita era un foro scarlatto con orribili bordi gonfi d'infezione. Robin spostò lo sguardo su Hugh, poi sul cerchio di vetro. «Non credo nella magia e nei miracoli» disse. «Ma forse è una sorta di miracolo che oggi abbiamo trovato te, Doc. Gli estrarrai il proiettile.» «Io?» Hugh rischiò di soffocare. «Oh, no. Non posso. Io no.» «Hai detto che operavi la gente ammalata. Che non hai mai perso un paziente.»
«Ma era una vita fa!» gemette Hugh. «Guarda la ferita! È troppo vicina al cuore.» Sollevò la mano tremante. «Non taglierei nemmeno la lattuga, con una mano del genere!» Robin si alzò, si avvicinò a Hugh fino a essere quasi naso contro naso. «Sei medico» disse. «Gli toglierai il proiettile e lo guarirai, oppure comincia a scavare la fossa per te e per i tuoi amici.» «Non posso! Non ho strumenti, luce, disinfettanti, sedativi! Non opero da sette anni! E comunque non ero cardiochirurgo. No, mi spiace. Il bambino non ha la minima...» La rivoltella di Robin, col cane alzato, premeva contro la gola di Hugh. «Un medico che non può aiutare gli altri non merita di vivere. Consumi solo aria, no?» «Per favore... per favore...» ansimò Hugh, con occhi fuori delle orbite. «Un momento» disse Sister. «Hugh, il foro c'è già. Devi solo estrarre il proiettile.» «Oh, certo, certo! Solo estrarre il proiettile!» Hugh ridacchiò, sull'orlo di una crisi isterica. «Sister, il proiettile può essere dovunque! Con cosa fermo il sangue? Come tolgo il maledetto pezzo di piombo? Con le dita?» «Abbiamo coltelli» disse Robin. «Li scalderemo nel fuoco. Così sono puliti, giusto?» «Non esiste niente di "pulito", in queste condizioni! Dio santo, non sai cosa mi chiedi di fare!» «Non chiedo. Dico di fare. Forza, Doc.» Hugh guardò Paul e Sister, in cerca d'aiuto; ma loro non potevano fare nulla. «Non posso» mormorò con voce rauca. «Per favore... lo ucciderò, se cerco di togliere il proiettile!» «Morirà di sicuro, se non provi. Il capo qui sono io. Quando dò la parola, la mantengo. Bucky è stato ferito perché l'ho mandato con altri a fermare un camion di passaggio. Ma non era ancora pronto a uccidere, e neppure abbastanza veloce da schivare un proiettile.» Spinse la rivoltella contro la gola di Hugh. «Ma io sono pronto a uccidere. L'ho già fatto. Ho promesso a Bucky che avrei fatto per lui tutto il possibile. Allora, togli il proiettile, o vi ammazzo tutt'e tre?» Hugh deglutì, con occhi umidi per la paura. «Ho... ho dimenticato un mucchio di cose.» «Ricordale. E in fretta.» Hugh tremava. Chiuse gli occhi, li riaprì. Il bambino non era svanito. Hugh sentiva il battito del cuore in tutto il corpo. Aveva solo ricordi con-
fusi, persi in una sorta di nebbia. Il giovane aspettava, con il dito sul grilletto. Hugh capì che doveva andare a istinto, e che Dio aiutasse tutti loro, se sbagliava. «Mi occorre... aiuto» riuscì a dire. «Non mi reggo bene in equilibrio. E luce. Mi serve tutta la luce possibile. Mi servono... tre o quattro coltelli ben affilati, con la lama stretta. Strofinateli nella cenere e metteteli sul fuoco. Mi servono stracci e... oh, Cristo, mi servono pinze e forcipi e sonde e non posso uccidere il bambino, maledetto te!» Lanciò a Robin uno sguardo di fuoco. «Ti troverò quel che ti serve. Non quella merda da medici. Ma il resto, sì.» «E whisky» disse Hugh. «La fiasca. Per il bambino e per me. Voglio un po' di cenere per pulirmi le mani e può darsi che mi serva un secchio per vomitarci dentro.» Con la mano tremante spinse via la rivoltella. «Come ti chiami, giovanotto?» «Robin Oakes.» «Va bene, allora, signor Oakes. Quando comincio, non toccarmi nemmeno con un dito, qualsiasi cosa faccia, qualsiasi cosa tu pensi che dovrei fare. Avrò paura sufficiente per tutt'e due.» Hugh guardò la ferita e trasalì. Era brutta, davvero brutta. «Con che arma è stato ferito?» «Pistola, credo.» «Non mi dice niente sulla grandezza del proiettile. Oh, Cristo, è una follia! Non posso estrarre il proiettile da una ferita così vicina al...» La rivoltella si alzò di nuovo. Hugh vide il dito del giovane, pronto sul grilletto; trovarsi così vicino alla morte gli restituì l'arroganza che aveva ad Amarillo. «Toglimi di davanti la pistola, piccolo maiale» gridò; vide Robin battere le palpebre. «Farò quel che posso... ma non ti prometto miracoli, capisci? Allora? Cosa stai lì a fare? Vammi a prendere quel che mi serve!» Robin abbassò la pistola. Andò a prendere whisky, coltelli e cenere. Occorse una ventina di minuti per ubriacare Bucky come Hugh voleva. Sotto la direzione di Robin, gli altri bambini sistemarono le candele intorno al ferito. Hugh si pulì con la cenere le mani e attese che la lama dei coltelli s'arroventasse. «Ti ha chiamato Sorella» disse Robin a Sister. «Sei una suora?» «No, è il mio nome.» «Oh.» Il giovane parve deluso. «Perché?» domandò Sister. Robin scrollò le spalle. «C'erano delle suore, dove stavamo, nella casa grande. Le chiamavo merli, perché ti volavano sempre addosso se pensa-
vano che avevi fatto qualcosa di sbagliato. Ma alcune erano brave. Sorella Margaret diceva d'essere sicura che per me tutto si sarebbe sistemato. Avrei trovato una famiglia e una casa e tutto il resto.» Diede un'occhiata in giro alla caverna. «Bella casa, eh?» Finalmente Sister capì. «Vivevi in un orfanotrofio?» «Già. Come tutti gli altri. Un mucchio si ammalò e morì, quando venne il freddo. Soprattutto quelli molto piccoli.» Il suo sguardo s'oscurò. «Padre Thomas morì e lo seppellimmo dietro la casa grande. Sorella Lynn morì, e poi Sorella May e Sorella Margaret. Padre Cummings se ne andò durante la notte. Non lo biasimo... chi ha voglia di prendersi cura di un mucchio di giovinastri sgangherati? Anche altri se ne andarono. L'ultimo a morire fu Padre Clinton, e allora restammo da soli.» «Non c'erano altri ragazzi più grandi?» «Oh, sì. Alcuni rimasero, ma la maggior parte se ne andò per conto suo. Finii per essere il più anziano. Se me ne fossi andato, chi si sarebbe preso cura dei più piccoli?» «Così hai trovato questa caverna e ti sei messo a derubare la gente?» «Certo. Perché no? Voglio dire, il mondo è impazzito, no? Perché non dovremmo derubare la gente, se è l'unico modo per restare vivi?» «Perché non è giusto» rispose Sister. Il giovane rise. Lei aspettò che smettesse, poi continuò: «Quante persone hai ucciso?» Dalla faccia di Robin sparì ogni traccia di sorriso. Il giovane si guardò le mani, piccole, rozze, piene di calli. «Quattro. Ma tutt'e quattro mi avrebbero ucciso, se avessero potuto.» Si strinse nelle spalle, a disagio. «Niente di speciale.» «I coltelli sono pronti» disse Paul. Sorreggendosi alla stampella davanti al bambino ferito, Hugh trasse un respiro profondo e abbassò la testa. Rimase in questa posizione per un minuto. «Va bene.» La voce era bassa e rassegnata. «Porta i coltelli. Sister, ti spiace metterti in ginocchio accanto a me e tenermi fermo? È necessario anche che alcuni bambini impediscano a Bucky di muoversi. Non deve dimenarsi.» «Non basta stordirlo con un pugno?» disse Robin. «No. Si rischiano danni al cervello; e poi, il primo impulso di chi viene stordito è quello di vomitare. Meglio che non succeda, vero? Paul, tieni ferme le gambe di Bucky. Mi auguro che la vista di un po' di sangue non ti rivolti lo stomaco.» I bambini portarono una pentola con i coltelli roventi. Sister depose a terra accanto a sé il cerchio di vetro, si mise in ginocchio a fianco di Hugh
e ne sostenne il peso. Bucky, ubriaco e delirante, diceva di udire il cinguettio d'uccelli. Sister tese l'orecchio: udì solo il gemito acuto del vento all'ingresso della grotta. «Dio mio, ti prego, guidami la mano» mormorò Hugh. Prese un coltello. La lama era troppo larga. Ne prese un altro. Anche il più stretto dei coltelli disponibili sarebbe stato goffo come un pollice rotto. Un movimento falso, e la lama sarebbe entrata nel ventricolo sinistro; allora niente avrebbe fermato il fiotto di sangue. «Forza» lo incitò Robin. «Comincio quando sono pronto! Non un maledetto secondo prima! Ora scostati da me, ragazzo!» Robin arretrò, ma rimase abbastanza vicino da guardare. Alcuni bambini bloccavano a terra le braccia, la testa e il corpo di Bucky; quasi tutti gli altri, anche quelli con la Maschera di Giobbe, si erano radunati lì intorno. Hugh guardò il coltello: la lama tremava e non aveva modo di fermarla. Prima che i nervi gli saltassero del tutto, si chinò e premette la lama rovente contro un labbro della ferita. Ne schizzò liquido purulento. Il corpo di Bucky scattò come la lama di un coltello a serramanico; il bambino urlò per il dolore atroce. «Tenetelo giù!» gridò Hugh. Gli altri lottarono per tenerlo fermo e perfino Paul trovò difficoltà a bloccargli le gambe. Hugh spinse il coltello più a fondo; le urla di Bucky echeggiarono contro le pareti. Robin gridò: «Lo uccidi!» Hugh non gli badò. Prese la fiasca di whisky e versò il liquido alcolico sulla ferita. Ora gli altri quasi non riuscivano a tenere fermo Bucky. Hugh riprese a sondare la ferita, e il cuore gli batteva in petto come se volesse schizzarne fuori. «Non vedo il proiettile!» disse Hugh. «È penetrato troppo!» Il sangue sgorgava a profusione, denso e scuro. Hugh staccò frammenti d'osso da una costola scheggiata. La massa rossa e spugnosa del polmone sobbalzava e gorgogliava sotto la lama. «Tenetelo fermo, per l'amor di Dio!» gridò Hugh. La lama era troppo larga. Non era uno strumento chirurgico, era un attrezzo da macellaio. «Non ci riesco! Non ci riesco!» gemette Hugh. Gettò via il coltello. Robin gli premette la pistola sul cranio. «Togli il proiettile!» «Non ho gli strumenti adatti! Non posso lavorare senza...» «Vaffanculo gli strumenti!» gridò Robin. «Usa le dita, se non hai altro! Ma togli il proiettile!» Bucky gemeva, batteva selvaggiamente le palpebre, cercava di ran-
nicchiarsi in posizione fetale. Occorreva tutta la forza degli altri, per impedirglielo. Hugh era sconvolto. Nessun coltello aveva la lama abbastanza sottile. La pistola di Robin gli premette il cranio. Hugh spostò la testa, vide per terra il cerchio di vetro. C'erano due punte sottili e il mozzicone di altre tre. «Sister» disse. «Mi serve una di quelle punte, come specillo. Puoi romperne una per me?» Sister esitò solo un secondo. Nella mano di Hugh, la punta s'infiammò di colori. Hugh allargò la ferita e inserì la spunta nel foro scarlatto. Fu costretto ad andare in profondità, mentre la spina dorsale gli formicolava al pensiero di quel che forse la punta graffiava. «Tenetelo fermo!» ammonì, inclinando il pezzo di vetro, un centimetro verso sinistra. Il cuore faticava, il corpo superava un'altra soglia di shock. Lo specillo scivolò più a fondo e ancora non trovò il proiettile. A un tratto Hugh ebbe l'impressione che il vetro gli diventasse tiepido fra le dita... più che trepido: quasi caldo. Dopo due secondi, ne fu sicuro: lo specillo si scaldava. Bucky rabbrividì, rovesciò gli occhi e per fortuna perdette conoscenza. Dalla ferita provenne uno sbuffo di vapore, simile a un respiro. Hugh credette di sentire l'odore di tessuti bruciati. «Sister? Non... non so cosa succede, ma penso...» Lo specillo toccò un oggetto solido, nelle pieghe di tessuto spugnoso, un centimetro sotto la coronaria sinistra. «Trovato!» gracchiò Hugh. Cercò di determinare le dimensioni del proiettile, muovendo l'estremità dello specillo. Il sangue era dappertutto, ma non aveva il colore rosso vivo del sangue arterioso e fluiva pigramente. Il vetro era caldissimo, l'odore di carne bruciata si era fatto più intenso. Hugh si rese conto che la sua gamba e la metà inferiore del corpo erano congelati, ma dalla ferita sgorgava vapore. Gli venne in mente che il pezzo di vetro incanalava chissà come il calore del suo stesso corpo, lo intensificava e lo riversava nella ferita. Hugh sentì il potere, nella mano... un potere calmo, magnifico. Sembrava scorrergli nel braccio come la scossa di un fulmine, schiarirgli il cervello, eliminare la paura e le ragnatele del whisky. All'improvviso i trent'anni d'esperienza medica rifluirono dentro di lui. Hugh si sentì giovane, robusto, senza paura. Poteva estrarre quel proiettile. Sì. Poteva farlo! Le mani non gli tremavano più.
Doveva scavare sotto il proiettile, sollevarlo con lo specillo fino ad afferrarlo con due dita. La coronaria e il ventricolo sinistri erano molto, molto vicini. Lavorò con movimenti di precisione geometrica. «Piano» lo ammonì Sister, ma capì che non occorreva avvertirlo. Hugh chinò il viso sulla ferita. «Luce!» gridò. Robin avvicinò una candela. Il proiettile si districò dai tessuti circostanti. Hugh udì uno sfrigolio, sentì odore di carne e di sangue bruciati. Ma non ebbe il tempo di distrarsi. La punta di vetro era adesso quasi troppo calda per tenerla in mano, ma lui non osava lasciarla. Si sentì come sprofondato nel ghiaccio fino al petto. «Lo vedo!» disse. «Piccolo, grazie a Dio!» Infilò due dita nella ferita ed estrasse un pezzetto di piombo che sembrava l'otturazione d'un dente; lo lanciò a Robin. Poi estrasse lo specillo e tutti udirono lo sfrigolio della carne e del sangue. Hugh non credeva ai suoi occhi: nel ritrarsi, la punta di vetro cauterizzava i tessuti lacerati. Uscì, come verga incandescente, dalla ferita: fra rapidi sibili, il sangue coagulò, i bordi infetti raggrinzirono in un fuoco livido che durò pochi istanti e subito si estinse. Dove pochi secondi prima c'era un foro, ora si vedeva un cerchio marrone e bruciato. Hugh tenne la scheggia di vetro davanti al viso; i suoi lineamenti furono bagnati da una pura luce bianca. Il vetro scottava, ma la parte rovente del fuoco guaritore era concentrata sulla punta. Hugh capì che la scheggia aveva cauterizzato le vene capillari e aveva tagliato la carne, come avrebbe fatto un laser chirurgico. La fiamma interiore del vetro si affievolì. Le gemme racchiuse nella scheggia si mutarono in piccoli ciottoli color ebano, i fili di metallo prezioso divennero linee di cenere. La luce continuò a indebolirsi, finché non rimase solo una scintilla in punta. La scintilla pulsò con il battito del cuore di Hugh — una volta, due, tre — e si spense come una stella morta. Bucky respirava ancora. Hugh, con la faccia striata di sudore e di nebbiolina insanguinata, alzò lo sguardo su Robin. Aprì la bocca, non trovò le parole. Sentì che la parte inferiore del corpo tornava a scaldarsi. «Immagino» disse infine «che non ci ucciderai, per oggi.» 57 Josh diede di gomito a Swan. «Ti senti bene?»
«Sì.» Swan sollevò dalle pieghe del cappotto la testa deforme. «Non sono ancora morta.» «Controllavo soltanto. Per tutto il giorno sei stata in silenzio.» «Pensavo.» «Oh.» Guardò Killer correre più avanti lungo la strada, fermarsi, abbaiare perché lo raggiungessero. Mulo procedeva al massimo della sua velocità e Josh teneva allentate le redini. Rusty avanzava a fatica accanto al carro, quasi sepolto nel cappello da cowboy e nel pesante cappotto. Il carro dello Spettacolo viaggiante continuò a scricchiolare lungo la strada bordata di fitti boschi. Le nubi sembravano toccare la cima degli alberi e il vento era quasi cessato... circostanza fortunata e rara. Il tempo era imprevedibile... a volte, nella stessa giornata, c'erano una bufera di neve e un temporale, e magari il giorno dopo la brezza si trasformava in tromba d'aria. Da due giorni non vedevano anima viva. Erano giunti a un ponte crollato e avevano dovuto fare un giro di alcuni chilometri per tornare sulla strada principale; un po' più avanti, la strada era bloccata da un albero caduto, per cui era stato necessario un altro giro. Ma quel giorno, circa cinque chilometri prima, erano passati davanti a un albero sul cui tronco era scritto: PER MARY'S REST. Josh aveva respirato meglio: almeno andavano nella direzione giusta e certo Mary's Rest non era lontano. «Posso chiederti a cosa pensi?» domandò Josh. Swan scrollò le spalle magre sotto il cappotto e non rispose. «L'albero» disse Josh. «Pensi all'albero, vero?» «Sì.» Non riusciva a togliersi di mente i fiori di melo sbocciati fra la neve e i ceppi... la vita in mezzo alla morte. «Ci penso parecchio.» «Non so come hai fatto, ma...» Scosse la testa. Le regole del mondo sono cambiate, pensò; ora i misteri predominano. Ascoltò per un momento il cigolio degli assali e lo scricchiolio della neve sotto gli zoccoli di Mulo, poi non riuscì a trattenersi. «Che... che effetto ti ha fatto?» «Non so.» Un'altra scrollata di spalle. «Sì, lo sai, invece. Non essere schiva. Hai fatto una cosa meravigliosa, e mi piacerebbe sapere che impressione hai avuto.» Swan restò in silenzio. Quindici metri più avanti, Killer abbaiò un paio di volte. Swan lo interpretò come segnale che la via era sgombra. «Mi è sembrato... d'essere una fontana» rispose. «E l'albero beveva. Mi sembrava anche d'essere fuoco e per un minuto...» sollevò il viso deforme verso il cielo cupo «ho pensato di poter guardare in alto e ricordare com'era quan-
do si vedevano le stelle, su nel buio... simili a promesse. Ecco cosa ho provato.» Josh capì che l'esperienza di Swan trascendeva di molto i suoi sensi, ma intuiva il pensiero della ragazza a proposito delle stelle. Non le vedeva da sette anni. Di notte c'era solo una tenebra smisurata, come se anche le luci dei cieli si fossero spente. «Il signor Moody aveva ragione?» domandò Swan. «A che proposito?» «Ha detto che se potevo risvegliare un albero, potevo anche far crescere di nuovo frutteti e campi di granturco. Ha detto... che ho in me il potere della vita. Aveva ragione?» Josh non rispose. Ricordò anche un'altra frase di Sly Moody: Amico, questa Swan può risvegliare la terra intera! «Sono sempre stata brava a far crescere piante e fiori» continuò Swan. «Quando volevo che una pianta malata si riprendesse, impastavo fra le dita la terra; la maggior parte delle volte, le foglie marrone cadevano e rispuntavano quelle verdi. Ma non avevo mai provato a guarire un albero. Voglio dire... far crescere un giardino è una cosa, ma gli alberi sanno badare a se stessi.» Piegò la testa per guardare Josh. «E se davvero potessi far crescere i frutteti e le messi? Se il signor Moody avesse ragione, se ci fosse in me qualcosa che può risvegliare le piante e farle ricrescere?» «Non so» disse Josh. «Immagino che ti renderebbe una donna molto popolare. Ma un albero non è un frutteto.» Si mosse a disagio sul sedile duro. Parlare di questi argomenti lo innervosiva. Proteggi la bambina, pensò. Se Swan poteva davvero far scaturire la vita nella terra morta, allora era forse questo potere meraviglioso la ragione dell'ordine di PawPaw?» In lontananza, Killer abbaiò di nuovo. Swan si tese: i latrati erano diversi, più rapidi e più acuti. Un avvertimento. «Ferma il carro» disse. «Eh?» «Ferma il carro.» Il tono deciso indusse Josh a tirare le redini. Anche Rusty, con la parte inferiore del viso riparata da una sciarpa di lana sotto il cappello da cowboy, si arrestò. «Ehi! Perché ci fermiamo?» Swan ascoltò i latrati di Killer, al di là della curva. Mulo cambiò posizione fra le tirelle, alzò la testa a fiutare l'aria, emise un basso brontolio. Fiutava lo stesso pericolo già individuato da Killer. Un altro avvertimento, pensò Swan, guardando la strada. Tutto le parve normale, ma il suo unico occhio funzionava saltuariamente; presto la vista le sarebbe venuta meno.
«Cosa c'è?» domandò Josh. «Non so. Ma a Killer non piace.» «E se dopo la curva ci fosse la città?» disse Rusty. «Vado avanti a vedere.» Infilò le mani nelle tasche del cappotto e si avviò alla curva. L'abbaiare di Killer divenne frenetico. «Rusty! Aspetta!» chiamò Swan, ma la sua voce era così distorta che lui non capì e continuò a passo svelto. Josh ricordò che Rusty era disarmato. Chissà che cosa c'era, dietro la curva. «Rusty!» gridò, ma l'altro già la imboccava. «Oh, merda!» disse Josh. Aprì il lembo della tenda, tolse il coperchio alla scatola da scarpe che conteneva la .38 e caricò in fretta la rivoltella. L'abbaiare di Killer echeggiava nei boschi; fra qualche istante Rusty avrebbe scoperto il motivo dei latrati. Al di là della curva, Rusty vide solo la strada e altri alberi. Killer, fermo in mezzo alla carreggiata, una decina di metri più avanti, abbaiava selvaggiamente contro qualcosa che si trovava sulla destra. Il terrier aveva il pelo ritto. «Cosa diavolo t'ha morsicato il culo?» disse Rusty; Killer gli corse fra le gambe, rischiando di farlo cadere. «Vecchio cagnaccio scemo!» Rusty allungò la mano per prenderlo in braccio... e allora sentì l'odore. Un odore acuto, rancido. Lo riconobbe. Il sentore intenso d'animale selvatico. Con un ringhio acutissimo, che gli risuonò quasi nell'orecchio, una sagoma grigia saettò dal bosco. Rusty non vide che cos'era, ma alzò di scatto il braccio a proteggersi gli occhi. L'animale lo urtò alla spalla. Per un attimo, Rusty si sentì preso in un intrico di filo spinato vivente. Barcollò all'indietro, cercò di gridare, ma era senza fiato per il colpo. Il cappello volò via, schizzato di sangue. Rusty cadde sulle ginocchia. Intontito, vide l'animale che l'aveva colpito. Acquattata a meno di due metri da lui, con la schiena inarcata, c'era una linee rossa quasi della grandezza di un vitello. Gli artigli snudati della belva sembravano pugnali ricurvi, ma la cosa che sconvolse Rusty fu il fatto che il mostro aveva due teste. Mentre un muso dagli occhi verdi mandava un verso acuto simile allo stridio di lama di rasoio strofinata sul vetro, l'altro snudò le zanne e soffiò come un radiatore sul punto di esplodere. Rusty cercò di fuggire carponi. Il corpo si rifiutò di muoversi. Il braccio destro non funzionava a dovere, il sangue gli colava dal viso. Perdo san-
gue, pensò. Perdo un mucchio di sangue! Oddio, sono... La linee rossa s'avventò come una molla rilasciata, con gli artigli e la doppia serie di zanne pronti a farlo a pezzi. Ma fu assalita a mezz'aria da un altro animale: Killer quasi gli staccò un orecchio. Atterrarono insieme in un turbine di furia e di latrati, mentre peli e sangue volavano da tutte le parti. Ma lo scontro terminò in un attimo: la robusta linee rossa girò Killer sulla schiena e con una bocca zannuta gli squarciò la gola. Rusty cercò di alzarsi, barcollò e cadde di nuovo. La linee rossa si girò verso di lui. Una serie di zanne cercò di morderlo, mentre l'altra testa fiutava l'aria. Rusty alzò lo stivale per prendere a calci il mostro, quando lo vide venire all'attacco. La linee si acquattò sulle zampe posteriori. Avanti, pensò Rusty, falla finita, bastarda con due te... Udì il colpo di pistola e vide lo schizzo di neve un paio di metri dietro la linee. Il mostro si girò di scatto. Rusty vide Josh arrivare di corsa.. Josh si fermò, prese la mira e sparò. Il proiettile mancò di nuovo il bersaglio; ora la linee prese a girarsi da una parte e dall'altra, come se i due cervelli non riuscissero a mettersi d'accordo sulla direzione da prendere. Le teste cercarono di mordersi, allungandosi sull'unico collo. Josh piantò i piedi, mirò con l'unico occhio, premette il grilletto. Un foro comparve nel fianco della linee; una testa emise un guaito acuto, la seconda ringhiò di sfida. Josh sparò di nuovo e sbagliò il colpo. Ma con i due proiettili successivi centrò il bersaglio. Il mostro tremò, balzò verso i boschi, si girò, strisciò di nuovo verso Rusty. Gli occhi di una testa, rovesciati all'indietro, mostravano il bianco; ma l'altra era ancora viva e le zanne snudate puntavano alla gola dell'uomo. Rusty urlò, mentre il mostro avanzava. Giunta a meno di mezzo metro, la linee fu scossa da un brivido; le zampe cedettero di colpo e la belva cadde sulla strada, mentre la testa ancora viva azzannava l'aria. Rusty si allontanò strisciando dal mostro e subito fu sommerso da una terribile ondata di debolezza. Rimase lì disteso, mentre Josh gli correva al fianco. Il lato destro della faccia era squarciato dall'attaccatura dei capelli alla mascella; lo strappo nella manica mostrava la spalla destra maciullata. «Ho comprato la fattoria, Josh.» Rusty riuscì a trovare un debole sorriso. «L'ho comprata, vero?» «Resisti.» Josh si cacciò la pistola sotto il braccio e sollevò da terra Rusty; se lo caricò sulla schiena, con la tecnica dei pompieri. Swan si avvicinava, cercava di correre, ma era sbilanciata dal peso della testa. A
qualche passo di distanza, le fauci della linee si chiusero con lo scatto di una tagliola; il corpo tremò, gli occhi si rovesciarono come orribili palline di vetro verde. Josh passò davanti alla linee e si fermò accanto a Killer: il terrier tirò fuori la lingua e gli leccò lo stivale. «Cos'è successo?» gridò Swan, sconvolta. «Cosa c'è?» Nell'udire la voce, Killer cercò di alzarsi a quattro zampe, ma ormai non controllava più il corpo. Ricadde sul fianco, con la testa inerte e gli occhi già vitrei. «Josh?» chiamò Swan. Teneva le mani protese davanti a sé, perché quasi non vedeva dove andava. «Parla, maledizione!» Killer emise un breve ansito e morì. Josh si frappose fra Swan e il terrier. «Rusty è stato ferito» disse. «Da una lince. Dobbiamo sbrigarci a portarlo in città!» La prese per il braccio e la tirò via, prima che vedesse il terrier morto. Con delicatezza Josh adagiò Rusty sul retro del carro e gli mise addosso la coperta rossa. Rusty tremava, era quasi incosciente. Josh disse a Swan di stare vicino al ferito e andò sul davanti del carro. Prese le redini di Mulo e schioccò la lingua. Il vecchio cavallo, forse sorpreso dal verso o dall'insolita tensione sulle redini, mandò dalle froge una nuvoletta di vapore e si lanciò al piccolo galoppo, tirando il carro con forza nuova. Swan sollevò il lembo della tenda. «E Killer? Non possiamo lasciarlo.» Josh non riuscì a dirle che il cane era morto. «Troverà la strada, vedrai.» Mosse di nuovo le redini contro il posteriore di Mulo. «Forza, Mulo! Vai, bello!» Il carro superò la curva, passò con le ruote ai due lati di Killer; e gli zoccoli di Mulo sollevarono schizzi di neve, mentre il cavallo galoppava verso Mary's Rest. 58 La strada proseguì per altri due chilometri, prima che i boschi lasciassero posto a un terreno ondulato e brullo, dove forse un tempo c'erano campi arati lungo i pendii delle colline. Adesso era un deserto coperto di neve, interrotto da alberi neri, contorti in forme tormentate e surrealistiche. Però c'era una specie di paese: ai lati della strada erano raggnippate forse trecento baracche di legno, segnate dalle intemperie. Sette anni prima, pensò Josh, una vista del genere avrebbe significato che entrava in un ghetto, ma ora lo rallegrava al punto da piangere. Vicoli fangosi passavano fra le ba-
racche, il fumo si alzava nell'aria gelida dai tubi di stufa che sporgevano dai tetti. Lumi brillavano dietro finestre isolate da fogli di giornali ingialliti e di riviste. Cani pelle e ossa ringhiarono e latrarono attorno alle zampe di Mulo, quando Josh fermò il carro in mezzo alle baracche. Dall'altra parte della strada, un poco più avanti, un mucchio di travi annerite indicava il punto in cui un edificio di Mary's Rest era bruciato. L'incendio risaliva a qualche tempo prima, perché nuova neve si era ammassata sulle macerie. «Ehi!» gridò Josh. «Aiutateci!» Alcuni bambini magri, con indosso cappotti a brandelli, uscirono dai vicoli a vedere che cosa accadeva. «C'è un medico, qui?» domandò loro Josh, ma quelli si sparpagliarono di nuovo nei vicoli. La porta di una baracca vicina si aprì e un viso dalla barba nera scrutò fuori con diffidenza. «Ci serve un medico!» disse Josh. Il barbuto scosse la testa e chiuse la porta. Josh spinse Mulo più avanti. Continuò a gridare chiedendo un medico; alcuni aprirono la porta e lo guardarono passare, ma nessuno offrì aiuto. Un poco più oltre, un branco di cani strappava brandelli dai resti di un animale mezzo sepolto nel fango; i randagi ringhiarono e cercarono di azzannare Mulo, ma il vecchio cavallo non si lasciò intimorire e tirò dritto. Dal vano di una porta si sporse un vecchio emaciato e coperto di stracci, con la faccia chiazzata di cheloidi rosse. «Non c'è posto, qui. Non c'è cibo! Non vogliamo forestieri!» gridò, colpendo con un bastone nodoso la fiancata del carro. Josh aveva già visto un mucchio di posti squallidi, ma questo era il peggiore di tutti: un villaggio di estranei, dove a nessuno importava un fico di chi viveva o moriva nel tugurio accanto. Vi incombeva una funesta atmosfera di disfatta e di scoraggiamento; perfino l'aria puzzava di marciume rancido. Se la ferita di Rusty non fosse stata così grave, Josh avrebbe spinto il carro dritto al di là di quella piaga di villaggio, in piena campagna, dove l'aria aveva ancora un odore mezzo decente. Una figura dalla testa deforme barcollò lungo la strada. Josh riconobbe la stessa malattia che affliggeva lui e Swan. Diede una voce allo sventurato, ma lui o lei, chiunque fosse, si girò, s'infilò di corsa in un vicolo e scomparve. A qualche passo di distanza giaceva un cadavere nudo, che mostrava i denti in quello che forse era un sogghigno di liberazione. Alcuni cani lo annusavano, ma non avevano ancora iniziato il festino. E poi Mulo si fermò come se avesse urtato in un muro di mattoni, cacciò un nitrito acuto e quasi s'impennò. «Ehi! Calma, ora!» gridò Josh, cercan-
do di mantenere il controllo del cavallo. Nella strada, davanti a loro, c'era qualcuno. La figura indossava una sbiadita giacca di jeans e un berretto verde; sedeva sopra un carrettino rosso da bambini. Non aveva gambe: i calzoni arrotolati erano vuoti dalla coscia in giù. «Ehi!» disse Josh. «C'è un medico, in questo paese?» Il viso si girò lentamente verso di lui. Era quello di un uomo con una barba castano chiaro, rada e arruffata, e occhi incerti e tormentati. «Ci occorre un medico» disse Josh. «Puoi aiutarci?» Forse l'uomo aveva sorriso, ma Josh non ne fu sicuro. L'uomo disse: «Benvenuto!» «Un medico! Capisci?» «Benvenuto!» ripeté l'uomo; e rise. Josh capì che era pazzo. L'uomo tuffò le mani nella fanghiglia e spinse il carrettino per attraversare la strada. «Benvenuto!» gridò, scomparendo in un vicolo. Josh rabbrividì, e non solo per il freddo. Gli occhi di quell'uomo... erano gli occhi più spaventosi che avesse mai visto. Calmò Mulo e lo spinse di nuovo avanti. Continuò a gridare richieste d'aiuto. Di tanto in tanto un viso si sporgeva a guardare dal vano della porta e subito si ritraeva. Rusty morirà, pensò Josh; perderà tutto il sangue e non un solo bastardo in questo villaggio d'inferno muoverà un dito per salvarlo! Volute di fumo giallastro si librarono attraverso la strada, mentre le ruote del carro passavano fra pozzanghere di rifiuti umani. «Aiutateci!» Josh cominciava a perdere la voce. «Per favore... per l'amor di Dio... aiutateci!» «Cristo! Cosa c'è da gridare tanto?» Sorpreso, Josh girò la testa in direzione della voce. Ferma sulla soglia di un tugurio decrepito c'era una nera dai lunghi capelli grigio ferro. Indossava un cappotto ricavato cucendo insieme un centinaio di pezzi di stoffe diverse. «Devo trovare un medico! Puoi aiutarmi?» «Cos'hai che non va?» Gli occhi, color dei centesimi di rame, si socchiusero. «Tifo? Dissenteria?» «No. Il mio amico è ferito. È nel retro.» «Non ci sono medici a Mary's Rest. Il medico è morto di tifo. Nessuno ti può aiutare.» «Perde un mucchio di sangue! Dove posso portarlo?» «Portalo al Pozzo» suggerì la donna. Aveva lineamenti marcati, viso regale. «Un paio di chilometri sempre dritto. Ci vanno a finire tutti i ca-
daveri.» Da dietro la porta, un bambino sui sette, otto anni, sporse incuriosito il viso scuro; la donna gli posò la mano sulla spalla. «Non c'è nessun posto dove portarlo, tranne quello.» «Rusty non è morto, signora!» replicò Josh. «Ma morirà di sicuro, se non trovo aiuto!» Mosse le redini di Mulo. La nera lo lasciò avanzare di qualche metro, poi disse: «Aspetta!» Josh fermò il cavallo. La donna scese i gradini davanti alla baracca e si avvicinò al retro del carro, mentre il bambino la guardava, nervoso. «Apri quest'affare!» disse... e di colpo la falda posteriore del tendone si aprì. La donna si trovò a faccia a faccia con Swan: arretrò d'un passo, trasse un respiro profondo, raccolse di nuovo il coraggio e guardò dentro il carro l'uomo bianco tutto insanguinato, disteso sotto la coperta rossa. Non si muoveva. «È ancora vivo?«domandò la donna alla figura senza viso. «Sì, signora» rispose Swan. «Ma respira con difficoltà.» La donna capì il «Sì», ma non il resto. «Cos'è accaduto?» «Assalito da una linee» disse Josh, avvicinandosi. Era talmente scosso da reggersi a stento. La donna gli rivolse una lunga, penetrante occhiata, con quei suoi occhi color rame. «La bestiaccia aveva due teste» aggiunse Josh. «Già. Ce n'è un mucchio, di mostri così, nei boschi. T'ammazzano di sicuro.» Diede un'occhiata alla baracca, guardò di nuovo Rusty. L'uomo emise un debole gemito e la nera vide l'orribile ferita sulla faccia. Lasciò uscire il fiato, a denti stretti. «Be', portatelo dentro, allora.» «Puoi aiutarlo?» «Vedremo.» Mentre si dirigeva alla baracca, si voltò per dire: «Sono sarta. Assai brava, con ago e filo per suture. Portalo dentro.» L'interno della baracca era squallido quanto l'esterno, ma c'erano due lumi accesi e, alle pareti, pezzi di stoffa dai colori vivaci. Al centro della stanza c'era una stufa di fortuna, ottenuta mettendo insieme parti di lavatrice, di refrigeratore e forse d'un camion o di un'automobile. Alcuni pezzi di legno ardevano dietro la grata che un tempo era una griglia di radiatore e fornivano calore solo nel raggio di qualche passo. Il fumo si alzava verso l'imbuto infilato nel tetto e riempiva la baracca di una nebbiolina giallastra. Il mobilio — un tavolo e due sedie — era rozzamente ricavato da assi tarlate di pino. Vecchi giornali coprivano le finestre e il vento sibilava nelle fessure delle pareti. Sul tavolo c'erano ritagli di stoffa, forbici, aghi e simili; un cestino conteneva altri pezzi di stoffa di colori e disegni diversi.
«Non è molto» disse la donna, con una scrollata di spalle. «Ma c'è chi possiede anche meno. Portatelo qui.» Indicò a Josh un secondo locale, più piccolo, con un branda di ferro e un materasso imbottito di giornali e di stracci. Per terra, accanto alla branda, c'era un mucchietto di stracci, un guanciale fatto con pezzi di stoffa cuciti insieme, una coperta leggera: il giaciglio, pensò Josh, del bambino. Nella stanza non c'erano finestre; ma vi ardeva un lume, dietro il quale era posto un pezzo di lamiera lucida per riflettere la luce. Alla parete, un quadretto a olio mostrava un Gesù nero sopra una collina circondata di pecore. «Mettilo disteso» disse la dorina. «Non sul mio letto, stupido! Per terra.» Josh distese Rusty a terra, la testa sul guanciale. «Levagli la giacca e il maglione, così vedo se nel braccio resta ancora un po' di carne.» Josh eseguì, mentre Swan era ferma sulla soglia, la testa piegata da un lato per vedere. Il bambino, dalla parte opposta, fissava Swan. La donna prese il lume e lo posò accanto a Rusty. Mandò un lieve fischio. «Raschiato fin quasi all'osso. Aaron, porta qui gli altri lumi. Poi vammi a prendere l'ago d'osso, quello lungo, il gomitolo di filo e un paio di forbici affilate. Sbrigati!» «Sì, mamma» disse Aaron e passò di corsa davanti a Swan. «Come si chiama il tuo amico?» «Rusty.» «È ridotto male. Non so se riesco a ricucirlo, ma farò del mio meglio. Ho solo neve sciolta per pulire le ferite. Certo, non è bello mettere quella merda nelle...» S'interruppe, guardando la pelle chiazzata di Josh, che si era tolto i guanti. «Sei bianco o nero?» domandò. «Ha ancora importanza?» «No. Non credo.» Aaron portò i due lumi e la donna li dispose intorno alla testa di Rusty, mentre il bambino andava a prendere il resto. «Un nome ce l'hai?» «Josh Hutchins. La ragazza si chiama Swan.» La donna annuì. Con dita lunghe e delicate sfiorò gli orli laceri della ferita alla spalla. «Glory Bowen. Vivo cucendo vestiti per gli altri, ma non sono medico. Al massimo, ho aiutato qualche donna a partorire... ma so cucire stoffa, pelle di cane e di vacca; forse la pelle umana non è molto diversa.» All'improvviso Rusty s'irrigidì. Aprì gli occhi e cercò di alzarsi a sedere, ma Josh e Glory Bowen lo tennero disteso. Rusty lottò per qualche istante,
poi parve capire dove si trovava e si rilassò. «Josh?» disse. «Sì, sono qui.» «La bastarda m'ha preso, eh? Quella vecchia bastarda di una linee a due teste. M'ha preso proprio a calci in culo.» Batté le palpebre, guardò Glory. «E tu chi sei?» «Sono la donna che fra tre minuti odierai» rispose la nera con calma. Aaron arrivò portando una sottile e acuminata scheggia d'osso lunga almeno otto centimetri e la mise sul palmo della madre, insieme con un piccolo gomitolo di filo che sembrava incerato e con un paio di forbici. Poi si ritrasse dall'altra parte della stanza, continuando a muovere avanti e indietro lo sguardo, da Swan agli altri. «Cosa mi fai?» Rusty vide l'ago d'osso, mentre Glory infilava nella cruna un pezzo di filo e vi faceva un piccolo nodo. «Quello a cosa serve?» «Lo scoprirai fin troppo presto.» Glory prese uno straccio e asciugò sudore e sangue dal viso di Rusty. «Devo darti un paio di punti. Devo ricucirti come una bella camicia nuova. Ti va?» «Oh... Dio» fu tutto quel che Rusty riuscì a dire. «Dobbiamo legarti, oppure ti mostrerai uomo? Non abbiamo niente per togliere il dolore.» «Continua solo... a parlarmi» disse Rusty. «D'accordo?» «Certo. Di cosa parliamo?» Puntò l'ago vicino alla carne lacerata della spalla di Rusty. «Che ne dici del cibo? Pollo fritto. Un pentolone di Colonel Sanders con sugo bollente. Ti va?» Inclinò l'ago nella giusta direzione e si mise al lavoro. «Vero che ne senti il profumo?» Rusty chiuse gli occhi. «Sì» mormorò, con voce rauca. «Oh, sì... certo che lo sento.» Swan non sopportava di vederlo soffrire. Andò nell'altra stanza, si accostò alla stufa per scaldarsi. Aaron si sporse dal vano a scrutarla, poi ritrasse di scatto la testa. Swan udì Rusty trattenere il fiato; allora andò alla porta e uscì. Salì sul carro a prendere Crybaby, poi andò ad accarezzare il collo di Mulo. Era preoccupata per Killer. Come avrebbe fatto a trovarli? E se una linee aveva ridotto Rusty in quello stato, cosa avrebbe fatto al terrier? «Troverà la strada, vedrai» aveva detto Josh. «Hai una testa là dentro?» domandò una vocetta curiosa, al suo fianco. Aaron era fermo a qualche passo da lei. «Sai parlare, vero? Ti ho sentita dire qualcosa a mia mamma.» «So parlare» rispose Swan. «Devo parlare lentamente, però, per farmi
capire.» «Oh. La tua testa sembra una grossa zucca.» Swan sorrise e la pelle del viso si stirò tanto da darle l'impressione che si lacerasse. Il bambino era sincero, non crudele. «Hai ragione» disse. «E, sì, ho una testa, qui dentro; ma è tutta coperta.» «Ho visto altri come te. Mamma dice che non è una vera malattia. Ti becchi quella cosa e te la tieni per tutta la vita. È vero?» «Non so.» «Dice che non si attacca, però. Se si attaccava, ormai qui tutti ce l'avevano. Che bastone è quello?» «Una bacchetta da rabdomante.» «Una cosa?» Swan gli spiegò che una bacchetta da rabdomante trovava l'acqua, se sapevi come impugnare i rami biforcuti, ma che lei non l'aveva mai trovata. Le parve che la voce gentile di Leona Skelton veleggiasse nel tempo per sussurrarle: «Il lavoro di Crybaby non è ancora terminato... nient'affatto!» «Allora forse tu non la impugni giusta» disse Aaron. «La uso solo come bastone per sorreggermi. Non ci vedo bene.» «Credo anch'io. Non hai occhi!» Swan rise e sentì i muscoli del viso sgelarsi. Il vento portò un'altra zaffata del nauseante lezzo di marcio che Swan aveva notato appena erano entrati a Mary's Rest. «Aaron?» domandò. «Cos'è questo puzzo?» «Quale puzzo?» Il bambino ci aveva fatto l'abitudine, capì Swan. Dappertutto c'erano rifiuti umani e immondizia; ma quel tanfo era ancora più nauseante. «Viene e va» disse. «Lo porta il Vento.» «Ah, dev'essere il laghetto. Quel che resta, voglio dire. Non è molto lontano. Vuoi vederlo?» No, pensò, Swan, non voleva avvicinarsi a una cosa così rivoltante. Ma Aaron sembrava ansioso di compiacerla e lei era anche un po' curiosa. «Va bene, ma dobbiamo camminare pianissimo. E non scappare via lasciandomi lì, d'accordo?» «D'accordo» rispose il bambino. Corse prontamente avanti per una decina di metri in un vicolo fangoso; si girò e aspettò che lei lo raggiungesse. Swan lo seguì nei vicoli stretti e luridi. Parecchie baracche erano state bruciate e la gente si scavava ancora rifugi fra le macerie. Swan tastò avanti con Crybaby e si spaventò quando un cane scheletrico balzò fuori da un altro vicolo; Aaron tirò un calcio al cane e lo mise in fuga. Dietro una por-
ta chiusa, un neonato piangeva per la fame. Più avanti, Swan quasi inciampò in un uomo rannicchiato nel fango. Abbassò la mano per toccarlo sulla spalla, ma Aaron disse: «È morto! Vieni, non è lontano!» Passarono fra le miserabili baracche d'assicelle sovrapposte e sbucarono in un vasto campo coperto di neve grigia. Qua e là giaceva il cadavere rattrappito e congelato d'un essere umano o d'un animale. «Vieni!» disse Aaron, saltellando impaziente. Lui era nato fra la morte, l'aveva vista tante di quelle volte da considerarla ormai uno spettacolo normale. Scavalcò il cadavere di una donna e continuò giù per una lieve discesa, fino al laghetto che nel corso degli anni aveva attirato a Mary's Rest centinaia di viandanti. «Eccolo lì» disse Aaron, quando Swan gli fu accanto. Una trentina di metri più avanti c'era quello che un tempo era davvero un laghetto, annidato ora fra alberi morti. Forse restavano cinque centimetri d'acqua verdastra proprio al centro e tutt'intorno c'era fango giallastro pieno di crepe, dall'aria nociva. E in quel fango erano mezzo sepolte decine di scheletri umani e animali, come se le sciagurate creature vi fossero state risucchiate mentre cercavano di arrivare alle ultime gocce d'acqua contaminata. Alcuni corvi, appollaiati sulle ossa, aspettavano. Nel fango c'erano anche mucchi di escrementi umani congelati e d'immondizia; il tanfo diede a Swan il voltastomaco: era acre come quello di una piaga aperta o di un bugliolo non lavato. «Qui è il massimo cui puoi arrivare senza stare male» disse Aaron. «Ma volevo mostrartelo. Non ha un colore curioso?» «Dio mio!» Swan cercò di soffocare i conati di vomito. «Perché nessuno lo pulisce?» «Pulisce cosa?» domandò Aaron. «Il laghetto! Una volta non era così, giusto?» «Oh, no! Mi ricordo quando c'era l'acqua. Vera acqua da bere. Mamma dice però che si è esaurito. Dice che non poteva durare per sempre, tanto.» Swan fu costretta a distogliere lo sguardo. Sul pendio, una figura solitària riempiva di neve un secchio. Sciogliere la neve grigia per avere acqua da bere significava morte lenta, ma era meglio del lago velenoso. «Possiamo tornare» disse Swan. Iniziò a risalire lentamente l'altura, tastando con Crybaby il terreno davanti a sé. Superata la cima, inciampò in un cadavere che giaceva sulla sua strada. Si fermò a guardare la piccola figura d'un bambino. Non poteva dire se fosse stato un maschietto o una femminuccia, ma era morto disteso sullo stomaco, con una mano artigliata al terreno e l'altra stretta a pugno. Swan
fissò quelle manine, livide e ceree contro la neve. «Perché questi cadaveri sono qui intorno?» domandò. «Perché è lì che sono morti» rispose Aaron, come se lei fosse la zuccona più stupida del mondo. «Questo qui cercava di scavare qualcosa.» «Radici, forse. A volte riesci a strappare radici dal terreno, a volte no. Quando mamma le trova, ne fa una minestra.» «Radici? Che tipo di radici?» «Certo che fai un mucchio di domande» disse lui, spazientito, e allungò il passo. «Che tipo di radici?» ripeté Swan, lentamente ma in tono fermo. «Radici di granturco, mi pare!» Aaron scrollò le spalle. «Mamma dice che una volta c'era un grande campo di granturco laggiù, ma è morto tutto. Rimangono solo alcune radici... se uno ha la fortuna di trovarle. Vieni, ora. Ho freddo!» Swan guardò il campo brullo che si estendeva dalle baracche al laghetto. I cadaveri vi giacevano come bizzarri punti interrogativi scarabocchiati sopra una lavagna grigia. La vista del suo unico occhio svaniva e tornava, quel che c'era sotto la spessa crosta d'escrescenze bruciava e ribolliva. Le mani bianche e congelate del bambino attirarono di nuovo la sua attenzione. Era rimasta colpita da qualcosa, in quelle mani... ma non sapeva cosa. Il lezzo del laghetto le sconvolse lo stomaco; Swan seguì Aaron e tornò verso le baracche. Una volta c'era un grande campo di granturco laggiù, aveva detto Aaron. Ma è morto tutto. Con la bacchetta, Swan grattò la neve. La terra era nera e dura. Se rimanevano radici, erano molto sotto la crosta. Camminavano ancora fra i vicoli tortuosi, quando Swan udì Mulo nitrire: era un grido d'allarme. Accelerò il passo, muovendo con forza davanti a sé la bacchetta da rabdomante. Mentre uscivano dal vicolo accanto alla baracca di Glory Bowen, Mulo mandò un nitrito acuto, di rabbia e di paura. Swan piegò la testa per vedere che cosa succedeva; alla fine distinse parecchi individui coperti di stracci che sciamavano sul carro e lo facevano a pezzi, strappavano la tenda e si azzuffavano per i brandelli, arraffavano coperte, cibo in scatola, vestiti e si allontanavano di corsa con il bottino. «Fermi!» gridò. Naturalmente, nessuno le badò. Uno sciacallo cercò di staccare Mulo dai finimenti, ma il cavallo s'impennò e scalciò con tanta forza da farlo fuggire. Altri cercavano di smontare le ruote. «Fermi!» gridò Swan, avanzando a passo incerto.
Qualcuno la urtò, la sbatté nel fango gelido e quasi la calpestò. Lì vicino, due uomini si azzuffavano nel fango per il possesso di una coperta. La zuffa finì quando un terzo arraffò la coperta e se la svignò. La porta della baracca si spalancò. Josh aveva udito il grido di Swan e adesso vide il carro ridotto a pezzi. Fu preso dal panico. Avevano solo quello! Un uomo correva tenendo sottobraccio un fagotto di maglioni e di calze; Josh lo inseguì, ma scivolò nel fango. Gli sciacalli si allontanarono in tutte le direzioni, portando via gli ultimi pezzi di tenda, tutto il cibo, le armi, le coperte, ogni cosa. Una donna con una cheloide arancione che le copriva mezza faccia cercò di strappare di dosso a Swan il cappotto, ma Swan si piegò in due e la donna le diede un pugno, gridando di rabbia. Quando Josh si alzò, la donna fuggì in un vicolo. A un tratto erano spariti tutti, com'era sparito anche il contenuto del carro... compresa la maggior parte del carro stesso. «Maledizione!» imprecò Josh. Non era rimasto niente, tranne l'intelaiatura e Mulo, che ancora sbuffava e sgroppava. Siamo nella merda fino al collo, pensò Josh; non abbiamo più niente da mangiare, non ci resta neppure un maledetto calzino! «Stai bene?» disse a Swan, aiutandola a rialzarsi. Aaron, accanto a lei, allungò la mano per toccare la testa bitorzoluta come una zucca, ma la ritrasse all'ultimo istante. «Sì» disse Swan. La spalla le doleva un poco, dove l'avevano urtata. «Sì, credo di sì.» Josh l'aiutò a reggersi in piedi. «Ci hanno preso tutto quel che avevamo!» disse, infuriato. Nel fango c'erano alcuni oggetti abbandonati: una tazza di stagno ammaccata, uno scialle liso, uno stivale consunto che Rusty intendeva riparare e che non si era mai deciso ad aggiustare. «Se lasci roba in giro, te la rubano di sicuro!» disse Aaron, saggiamente. «Anche gli stupidi lo sanno!» «Forse ne hanno più bisogno di noi» rispose Swan. Josh provò l'impulso di ridere, ma si trattenne. Swan aveva ragione. Loro, almeno, avevano cappotto e guanti, calze pesanti e stivali robusti. Invece alcuni di quegli sciacalli non erano molto lontani dall'indossare solo l'abito della Genesi... a parte il fatto che non si poteva essere più lontani di così dal giardino dell'Eden. Swan andò a calmare Mulo, accarezzandolo sul muso. Il cavallo però non smise di mandare brontolii nervosi e sinistri. «Meglio entrare» disse Josh a Swan. «Il vento diventa più forte.» Swan si avvicinò, ma si fermò quando con Crybaby toccò qualcosa di
duro nel fango. Si chinò con prudenza, frugò nella fanghiglia, si rialzò reggendo in mano lo scuro specchio ovale che qualcuno aveva lasciato cadere. Lo specchio magico, pensò. Da molto tempo non lo guardava. Ma adesso lo ripulì strofinandolo sulla gamba dei jeans e lo tenne davanti a sé, reggendolo per il manico in cui erano intagliate le due maschere che guardavano in direzioni diverse. «Cos'è quella roba?» domandò Aaron. «Riesci a vederti lì dentro?» Swan vedeva solo il debole contorno della sua testa; pensò che sembrava davvero una vecchia zucca piena di bitorzoli. Abbassò il braccio... e in quel momento qualcosa lampeggiò nel vetro. Swan alzò di nuovo lo specchio e si girò in modo che l'oggetto fronteggiasse un'altra direzione; cercò il lampo di luce, ma non lo trovò. Si spostò d'un passo sulla destra... e rimase senza fiato. Le parve che a meno di tre metri dietro di lei ci fosse la figura che reggeva il cerchio ardente di luce... vicina, adesso, molto vicina. Swan non riusciva ancora a distinguerne i lineamenti. Sentiva, tuttavia, che nel viso della figura c'era qualcosa di sbagliato: era distorto e deforme, ma non come il suo. La figura poteva essere quella di una donna, solo dal portamento. Così vicina, così vicina... eppure Swan sapeva che se lei si fosse voltata, dietro di sé non avrebbe visto nessuno, a parte le baracche e i vicoli. «In quale direzione è rivolto lo specchio?» domandò a Josh. «Nord» rispose lui. «Siamo arrivati da sud. Da quella parte.» Indicò la direzione opposta. «Perché?» Non avrebbe mai capito che cosa vedeva, Swan, quando guardava in quell'affare. Se glielo domandava, lei scrollava le spalle e metteva via lo specchio. Ma a lui lo specchio continuava a ricordare quel versetto della Bibbia che a sua madre piaceva leggergli: «Infatti ora vediamo oscuramente in un vetro, ma poi faccia a faccia.» La figura con l'ardente cerchio di luce, pensò Swan, non era mai stata così vicina. A volte era stata tanto lontana che la luce era solo una scintilla nel vetro. Non sapeva chi fosse quella figura, né che cosa fosse il cerchio di luce; ma sapeva che tutt'e due erano molto importanti. E ora la donna era vicina, forse si trovava da qualche parte a nord di Mary's Rest. Fu sul punto di parlarne a Josh, quando vide comparire nello specchio, da sopra la sua spalla sinistra, la faccia con la carne lebbrosa, simile a pergamena: riempì l'intero specchio; la bocca dalle labbra grigie si aprì in un ghigno; sulla fronte si spalancò un occhio scarlatto dalla pupilla d'ebano; nella guancia si allargò come uno squarcio una seconda bocca, piena di denti affilati; e i denti si tesero come se volessero mordere Swan alla nuca.
La ragazza si girò con tale rapidità che il peso della testa rischiò di farla girare come una trottola. Alle sue spalle, la strada era deserta. Swan abbassò lo specchio; aveva visto fin troppo, per un solo giorno. Se le immagini dello specchio magico erano vere, la figura con il cerchio di luce era molto vicina. Ma ancora più vicino era il mostro che le ricordava il Diavolo dei tarocchi di Leona Skelton. Josh guardò Swan salire i gradini ed entrare nella baracca di Glory Bowen; poi rivolse lo sguardo a nord, lungo la strada: non c'era alcun movimento, a parte il fumo che si dissolveva nel vento. Guardò di nuovo il carro e scosse la testa. Non avrebbero rubato anche il cavallo, perché Mulo avrebbe preso a calci chiunque gli si fosse avvicinato; in quanto al carro, non vi era rimasto nient'altro da portare via. «C'era tutto il nostro cibo» disse, quasi fra sé. «Fino all'ultima maledetta briciola.» «Oh, conosco un posto dove puoi acchiapparne di grossi» disse Aaron. «Basta sapere dove sono ed essere svelto ad afferrarli.» «Svelto ad afferrare cosa?» «Topi» spiegò il bambino, come se anche il più stupido sapesse che quella era la prima fonte di sostentamento della gente di Mary's Rest, negli ultimi anni. «La cena di stasera, se restate.» Josh deglutì; ma non era del tutto estraneo al gusto di selvatico della carne di topo. «Spero che abbiate sale» disse, seguendo Aaron su per i gradini. «A me piacciono ben salati.» Un attimo prima di arrivare alla porta, sentì un brivido alla nuca. Udì Mulo sbuffare e nitrire, guardò ancora verso la strada. Aveva la snervante impressione di essere osservato... no, peggio, di essere analizzato. Ma non c'era nessuno. Proprio nessuno. Il vento turbinò intorno a lui. A Josh parve di udire uno squittio nel vento... simile al cigolio di ruote bisognose di grasso. Il cigolio svanì in un istante. La luce calava rapidamente. E quello era un posto dove Josh non avrebbe camminato nei vicoli di notte nemmeno per una bistecca con l'osso. Entrò nella baracca e chiuse la porta. DIECI: semi
La mano rivelatrice / Cigno e il gigante / Un augurio onesto / Il principe selvaggio / Combattere il fuoco col fuoco 59 In sogno, Swan correva in un campo di corpi umani che si muovevano come steli di grano sotto il vento; alle sue spalle, il mostro con l'occhio scarlatto la cercava e intanto con la falce mozzava teste, braccia e gambe. Ma Swan aveva la testa troppo pesante, si sentiva risucchiare i piedi dal fango giallastro, non riusciva a correre abbastanza velocemente. Il mostro si avvicinava, la falce sibilava nell'aria, con un rumore simile a un gemito acuto, e lei all'improvviso cadeva sopra il cadavere di un bambino e vedeva le manine livide, una artigliata al terreno, l'altra stretta a pugno. Si svegliò e si ritrovò sul pavimento della baracca di Glory Bowen. Dietro la grata della stufa, le braci mandavano ancora un po' di luce e un briciolo di calore. Swan si alzò lentamente a sedere e si appoggiò alla parete, con il pensiero fisso alle mani del bambino. Accanto a lei, Jpsh, rannicchiato per terra, respirava pesantemente nel sonno. Più vicino alla stufa, Rusty si era assopito sotto una leggera coperta, la testa sul guanciale di ritagli cuciti insieme. Glory aveva fatto un buon lavoro a ripulire e suturare le ferite, ma aveva detto che i prossimi giorni sarebbero stati duri per lui. Gentilmente aveva permesso loro di passare la notte nella baracca e aveva spartito l'acqua e un po' di stufato. Aaron aveva fatto a Swan decine di domande, finché Glory non gli aveva detto di smettere di tormentarla. Ma Swan non era infastidita: il bambino aveva una mente curiosa, dote rara che meritava di essere incoraggiata. Glory aveva raccontato che, quando erano cadute le bombe, si trovava a Wynne, nell'Arkansas, dove suo marito era pastore battista. Le radiazioni di Little Rock avevano ucciso un mucchio di persone di Wynne; Glory, suo marito e il figlioletto di qualche mese, si erano uniti a una carovana di gente in cerca di un luogo sicuro dove stabilirsi. Ma non esistevano luoghi sicuri. Quattro anni più tardi, si erano stabiliti a Mary's Rest, che a quel tempo era una fiorente comunità sorta attorno al laghetto. Non c'erano pastore né chiesa, a Mary's Rest; e il marito di Glory aveva iniziato a costruire con le sue mani una casa di culto. Ma poi era scoppiata l'epidemia di tifo. La gente moriva a decine, gli animali selvatici uscivano di nascosto dai boschi per divorare i cadaveri. Esaurite le scorte di cibo in scatola, la gente aveva cominciato a mangiare i
topi, a bollire corteccia, radici, cuoio, per fare "minestra". Una notte la chiesa aveva preso fuoco e il marito di Glory era morto nel tentativo di spegnere l'incendio. I resti anneriti erano ancora in piedi, ma nessuno aveva le forze né la voglia di ricostruirla. Glory e suo figlio erano riusciti a mantenersi in vita perché la donna era una brava sarta e la gente pagava con cibo, caffè e cose del genere i suoi lavori di rammendo. Tutta qui, la storia della sua vita, aveva detto Glory: così era diventata vecchia a soli trentacinque anni. Swan ascoltò il rumore del vento vagante. Portava forse più vicino la risposta alla sciarada dello specchio magico? O la soffiava lontano? A un tratto, mentre il vento si calmava per riprendere fiato, Swan udì l'abbaiare insistente d'un cane. Il cuore le balzò in petto. I latrati si allontanarono, svanirono... poi ripresero con forza maggiore, da un punto assai vicino. Swan li avrebbe riconosciuti dovunque. Allungò la mano per svegliare Josh e dirgli che Killer aveva trovato la strada, ma il gigante sbuffò e borbottò nel sonno. Swan allora lo lasciò in pace, si alzò con l'aiuto della bacchetta da rabdomante e andò alla porta. Il latrato si affievolì, mentre il vento cambiava direzione. Ma Swan ne capì il significato: «Presto, vieni! Voglio mostrarti una cosa!» Indossò il cappotto, l'abbottonò fino al collo e uscì dalla baracca. Non vide il terrier. E nemmeno Mulo, al quale Josh aveva tolto la briglia perché avesse la possibilità di difendersi. Il cavallo si era allontanato in cerca di riparo. Il vento riportò i latrati. Da dove provenivano? Da sinistra, pensò Swan. No, da destra! Scese i gradini. Non c'era segno di Killer. Anche i latrati erano scomparsi. Ma lei era sicura che provenivano da destra, forse da quel vicolo laggiù, lo stesso che Aaron aveva imboccato per accompagnarla al laghetto. Esitò. Faceva freddo, fuori; ed era buio, a parte il riflesso d'un fuoco, qualche vicolo più in là. Aveva o non aveva udito Killer abbaiare? Adesso si udiva solo il vento sibilare nei vicoli. Le tornarono in mente le mani irrigidite del bambino. Che cosa, in quelle mani, la ossessionava tanto? Non seppe esattamente quando prese la decisione, né quando mosse il primo passo. Ma a un certo punto era entrata nel vicolo e camminava verso il campo. Aveva la vista confusa, un dolore pungente all'occhio buono. Non ci vi-
de più, ma non si lasciò prendere dal panico; aspettò che la crisi passasse, augurandosi che non fosse proprio quello il momento in cui la vista se ne sarebbe andata per sempre. La vista tornò e Swan riprese il cammino. Una volta cadde sopra un cadavere e udì un animale ringhiare nelle vicinanze, ma terminò il percorso. E si trovò al limitare del campo, debolmente rischiarato dal riflesso del falò lontano. Vi entrò, con le narici piene del lezzo dello stagno venefico e la speranza di ricordare la strada. L'abbaiare tornò, lontano, sulla sinistra. Swan cambiò direzione per seguirlo e gridò: «Killer! Dove sei?» Ma il vento portò via la voce. In alcuni punti là neve era alta una quindicina di centimetri, ma in altri il vento l'aveva soffiata via mettendo allo scoperto la nuda terra. L'abbaiare diminuì e svanì, tornò da una direzione un po' diversa. Swan cambiò percorso, ma non riuscì a vedere il terrier. I latrati cessarono. Swan si fermò. «Dove sei?» gridò. Il vento le diede una spinta, quasi la gettò a terra. Swan guardò indietro, verso Mary's Rest: scorgeva il falò e alcune finestre illuminate. Le parve d'essersi allontanata parecchio. Ma mosse un altro passo in direzione del laghetto. Crybaby toccò qualcosa per terra proprio davanti a lei; Swan vide il cadavere del bambino. Il vento cambiò. Il latrato le giunse di nuovo... solo un sussurro, ora, da distanza ignota, sempre più fievole; l'attimo prima che svanisse del tutto, Swan provò la bizzarra impressione che non appartenesse più a un cane vecchio e stanco: conteneva una nota di freschezza, di forza, il desiderio di percorrere nuove strade. L'abbaiare svanì. Swan rimase sola con il cadavere del bambino. Si chinò a guardare le mani. Una artigliava la terra, l'altra era stretta a pugno. Che cosa c'era di tanto familiare, in questo? E allora capì: era il modo in cui lei stessa, da bambina, piantava i semi. Una mano scavava il buco, l'altra... Swan afferrò il piccolo pugno scarno e cercò di aprirlo. Le dita resistettero, ma lei continuò pazientemente: le sembrava di aprire i petali di un fiore. La mano a poco a poco rivelò quel che stringeva nel palmo. Sei avvizziti chicchi di granturco. Una mano che scava il buco, pensò Swan, e l'altra che tiene i semi. Semi. Il bambino non era morto mentre cercava radici. Era morto nel tentativo
di piantare semi rinsecchiti. Swan tenne sul palmo i chicchi. Contenevano ancora la vita, o erano soltanto gelidi pezzetti di nulla? Una volta qui c'era un grande campo di granturco, aveva detto Aaron; ma è morto tutto. Swan pensò al melo sbocciato a nuova vita. Pensò ai verdi germogli spuntati nell'impronta del suo corpo. Pensò ai fiori che aveva fatto crescere nella terra secca e polverosa, tanto tempo prima. Una volta qui c'era un grande campo di granturco. Swan guardò di nuovo il cadavere. Il bambino era morto in una posizione bizzarra. Perché era disteso bocconi sul terreno gelato, invece di rannicchiarsi per conservare l'ultimo briciolo di tepore? Swan lo prese con delicatezza per la spalla e cercò di rivoltarlo; udì lo scricchiolio degli stracci staccati dal terreno, ma il cadavere in sé era leggero come un guscio. Sotto il corpo c'era un sacchetto di pelle. Con mani tremanti Swan lo raccolse, lo aprì, v'infilò due dita... ma già sapeva che cosa avrebbe trovato. Altri chicchi vizzi di granturco. Il bambino li aveva protetti con il calore del proprio corpo. Lei avrebbe fatto la stessa cosa: lei e il bambino avevano avuto molto in comune. I semi erano lì: toccava a lei terminare il lavoro iniziato dal bambino. Grattò via la neve e infilò le dita nel terriccio, duro e argilloso, pieno di ghiaccio e di ciottoli taglienti. Swan raschiò una manciata di terra e la impastò di calore; poi vi mise un chicco, raccolse in bocca un po' di saliva e la sputò nella manciata di terra. Forno una pallina e continuò a impastare finché non sentì il formicolio percorrerle la spina dorsale, muoversi lungo il braccio, nelle dita. Allora restituì la terra al suolo, la premette dove l'aveva tolta. Piantò così il primo seme, senza chiedersi se sarebbe germogliato in quella terra tormentata. Prese Crybaby, strisciò qualche passo più in là, raccolse una manciata di terriccio. Il ghiaccio e le pietre taglienti le ferirono le dita, ma lei non si accorse del dolore: era concentrata nel lavoro. Il formicolio diventava più intenso, cominciava a fluire come corrente elettrica nei cavi ronzanti. Swan strisciò più avanti e piantò un terzo seme. Il freddo le mordeva la carne, le irrigidiva le ossa, ma lei continuò, grattò una manciata di terriccio ogni due o tre passi, piantò un seme alla volta. In alcuni punti la terra era congelata e dura come granito; allora lei strisciò altrove, scoprì che il ter-
reno protetto dalla neve era meno duro. Anche così, ben presto ebbe le mani martoriate. Gocce del sangue che le colava dai tagli si mescolarono ai semi e al terriccio, mentre Swan continuava a lavorare, lentamente, metodicamente, senza interrompersi. Non piantò semi nelle vicinanze del laghetto, si voltò invece verso Mary's Rest per piantarne un'altra fila. Nei boschi lontani un animale gemette: un grido acuto, stridulo, disperato. Swan si concentrò sul lavoro, le mani insanguinate frugarono nella neve per trovare terriccio cedevole. Alla fine il freddo la bloccò, la costrinse a fermarsi e a rannicchiarsi. Il ghiaccio le chiudeva le narici, l'occhio ancora buono quasi congelò. Swan rimase distesa a tremare di freddo; pensò che si sarebbe sentita più forte se avesse dormito un poco. Solo un breve riposo. Solo alcuni minuti, poi avrebbe ripreso il lavoro. Qualcosa le toccò il fianco. Swan era confusa e debole; non se la sentì di sollevare la testa a guardare che cos'era. Fu spinta di nuovo, con forza maggiore, questa volta. Swan rotolò di lato, piegò la testa per guardare in su. Un alito caldo le colpì il viso. Mulo era fermo su di lei, immobile, come scolpito in pietra pezzata di grigio. Swan si distese di nuovo, ma con il muso Mulo le urtò la spalla. Emise un brontolio profondo e il fiato gli uscì dalle froge come vapore da un bricco. Non la lasciava dormire. E il fiato tiepido del cavallo ricordò a Swan quanto freddo facesse e quanto fosse stata vicina a morire. Se fosse rimasta ancora lì, sarebbe congelata. Doveva muoversi, ripristinare la circolazione. Mulo la spinse più forte e Swan si alzò a sedere. «Va bene, va bene» disse. Alzò verso il muso del cavallo la mano impiastrata di sangue e di terriccio e Mulo leccò la carne torturata. Swan riprese a piantare semi, mentre Mulo la seguiva qualche passo più indietro, rizzando a scatti le orecchie e agitandole alle grida sempre più vicine di bestie feroci. Il freddo aumentò. Swan si costrinse a continuare, anche se tutto era diventato nebuloso e vago, come se procedesse sott'acqua. Di tanto in tanto il fiato di Mulo la scaldava. Poi cominciò a sentire movimenti furtivi nel buio, sempre più vicini. Udì il ringhio strìdulo di un animale poco distante. Mulo rispose con un basso brontolio d'avvertimento. Swan continuò a tirarsi avanti, a grattare la neve per raccogliere manciate di terriccio e rimetterle nel suolo, con un seme al centro. Ogni movimento delle dita era una sofferenza e l'odore del sangue attirava le belve dai boschi.
Ma doveva terminare il lavoro. Nel sacchetto rimaneva ancora una quarantina di chicci e Swan era decisa a piantarli. Il formicolio nelle ossa s'intensificò ora in modo quasi doloroso; e mentre lavorava nel buio, credette di vedere di tanto in tanto una minuscola scintilla di luce scaturire dalle dita insanguinate. Sentì un debole odore di bruciato, come di presa elettrica surriscaldata. Il viso, sotto la crosta d'escrescenze simile a una maschera, le ribolliva dolorosamente; quando la vista le svaniva, lei lavorava per qualche minuto completamente cieca, finché la vista non tornava. Si spinse avanti... tre o quattro passi e un seme alla volta. Da sinistra, pericolosamente vicino provenne il ringhio di una belva, forse una linee rossa. Swan si tese, aspettando l'attacco. Udì il nitrito di Mulo e il rimbombo sordo dei suoi zoccoli, mentre il cavallo la sorpassava al galoppo. La linee emise un ringhio stridulo, cui seguirono rumori di lotta nella neve. Un attimo dopo, l'alito caldo di Mulo tornò a scaldarle il viso. Un'altra belva mandò un ringhio di sfida, da destra, questa volta; Mulo si girò di scatto da quella parte, mentre la linee balzava. Swan udì un gemito acuto di dolore, il grugnito di Mulo sotto l'urto; poi i colpi degli zoccoli sul terreno... una volta, due volte, e ancora. Il cavallo tornò al suo fianco e lei piantò un altro seme. Non seppe per quanto tempo gli attacchi continuarono. Si concentrò soltanto sul lavoro e presto arrivò agli ultimi cinque semi. Al primo barlume di luce nel cielo, nella stanza più grande della baracca di Glory Bowen, Josh si alzò e capì subito che Swan era uscita. Chiamò la donna e il bambino; insieme perlustrarono i vicoli di Mary's Rest. Fu Aaron a correre nel campo per dare un'occhiata; tornò gridando a Josh e alla mamma di venire in fretta. Videro una figura distesa al suolo, rannicchiata sul fianco. Stretto a lei c'era Mulo, che alzò la testa e nitrì debolmente, quando Josh corse verso di loro. Josh quasi calpestò la carcassa maciullata di una linee rossa con una zampa supplementare che spuntava dal fianco; lì vicino giaceva un'altra creatura che forse era stata una linee, talmente massacrata da essere irriconoscibile. I fianchi e le zampe di Mulo erano pieni di graffi profondi. Intorno a Swan c'erano le carcasse di altre tre belve calpestate a morte. «Swan!» gridò Josh. Si gettò in ginocchio al suo fianco. Swan non si mosse. Lui sollevò fra le braccia il corpo fragile. «Sveglia, bambina!» disse, scuotendola. «Su, sveglia!» L'aria era gelida e pungente, ma Josh sentiva il calore emanato da Mulo. Scosse Swan con più forza. «Swan! Sve-
glia!» «Oh, signore Iddio» mormorò Glory, appena dietro Josh. «Guarda le mani.» Josh trasalì. Erano gonfie, coperte di sangue secco e di terriccio, le dita scorticate e piegate come artigli. Nel palmo della destra c'era un sacchetto di pelle; nell'altro, un unico chicco avvizzito di granturco, sporco di terra e di sangue. «Oh, Dio... Swan...» «Mamma, è morta?» disse Aaron; ma Glory non rispose. Aaron avanzò d'un passo. «Non è morta, signore! Dalle un pizzicotto e svegliala!» Josh le toccò il polso. C'era un debole battito, ma non era gran cosa. Dall'occhio gli cadde una lacrima che finì sul viso di Swan. La ragazza ansimò, lentamente emise un gemito, tremò tutta. «Swan? Mi senti?» Una voce, attutita e lontana, le parlava: a Swan parve di riconoscerla. Le mani le dolevano... le dolevano da morire. «Josh?» Appena un sussurro, ma Josh si sentì balzare il cuore in petto. «Sì, bambina, sono Josh. Stai calma, adesso, ti portiamo al caldo.» Si alzò con la ragazza in braccio e si girò verso il cavallo ferito, esausto. «Troverò anche a te un posto caldo. Vieni, Mulo.» Il cavallo si alzò a fatica e gli andò dietro. Aaron vide nella neve la bacchetta da rabdomante di Swan e la recuperò. Punzecchiò incuriosito una linee morta, con una seconda testa che spuntava dal ventre; poi corse dietro a Josh e alla mamma. Più avanti, Swan cercò di aprire l'occhio. La palpebra era incollata. Un liquido viscoso colava dall'angolo e l'occhio le bruciava così forte da costringerla a mordersi le labbra per non gridare. L'altro occhio, da tempo chiuso, le pulsava nell'orbita. Swan alzò la mano a toccarsi il viso, ma le dita non risposero. Josh la udì borbottare. «Siamo quasi arrivati, bambina. Ancora qualche minuto. Resisti, ora.» Swan parlò di nuovo e stavolta Josh capì, con un sussulto d'orrore. «L'occhio» disse Swan. Cercò di parlare con calma, ma la voce le tremò. «Josh... sono cieca.» 60 Distesa sul giaciglio di rami secchi, Sister si accorse di un movimento al suo fianco. Si svegliò di colpo e strinse la mano sul polso di qualcuno.
Era Robin Oakes, inginocchiato, con i lunghi capelli castani pieni di piume e di ossicini, e con gli occhi pieni di luce. I colori del cerchio di vetro pulsavano sul viso dai tratti squadrati. Robin aveva aperto la borsa e tirava fuori il cerchio di vetro. Lui e Sister per un attimo si guardarono negli occhi. Sister disse: «No». Posò l'altra mano sul cerchio di vetro e il giovane lo lasciò. «Uff, quante storie» disse; seccamente. «Non te l'ho rovinato.» «Grazie a Dio. Chi t'ha detto che potevi frugare nella mia borsa?» «Non frugavo, guardavo. Tutto qui.» Le ossa di Sister scricchiolarono, mentre la donna si alzava a sedere. La fosca luce del giorno penetrava nella caverna. La maggior parte dei piccoli banditi dormiva ancora, ma due bambini spellavano un paio di carcasse d'animaletti — conigli? scoiattoli? — e un terzo preparava il fuoco per la colazione. In fondo alla caverna, Hugh dormiva accanto al suo paziente e anche Paul era addormentato sopra un giaciglio. «È importante per me» disse Sister a Robin. «Non sai quanto. Lascialo stare, va bene?» «Vaffanculo» disse lui e si alzò. «Volevo solo rimettere a posto questa robaccia magica e raccontarti di Cigno e del gigante. Ma lasciamo perdere, scema.» Si allontanò per andare a controllare Bucky. Occorsero alcuni secondi perché Sister capisse le parole di Robin. «Cigno. Cigno e il gigante.» A quei banditi non aveva parlato dei suoi viaggi nel sogno. Non aveva detto niente della parola "cigno" e dell'impronta della mano impressa a fuoco nel tronco d'un albero in fiore. Come faceva Robin Oakes a saperlo? A meno che anche lui non avesse camminato nel sogno... «Un momento!» esclamò. La voce echeggiò nella grotta come rintocco di campana. Paul e Hugh si svegliarono di soprassalto. Quasi tutti i bambini, subito svegli, allungarono la mano verso le armi. Robin si bloccò Sister si avvicinò al giovane, reggendo il cerchio di vetro. «Cos'hai visto, qui dentro?» Robin diede un'occhiata ai bambini, poi fissò Sister e scrollò le spalle. «Hai visto qualcosa, vero?» Il cuore le batteva. I colori del cerchio pulsarono altrettanto rapidamente. «Hai visto! Hai camminato nel sogno, vero?» «Camminato dove?» «Cigno» disse Sister. «Hai visto questa parola, incisa sull'albero, vero? L'albero coperto di fiori. E hai visto l'impronta della mano, impressa a fuoco nel legno.» Alzò il cerchio di vetro, lo tenne davanti agli occhi. «Hai vi-
sto, vero?» «Ah-ha.» Robin scosse la testa. «Niente del genere.» Sister impietrì, perché capiva che lui diceva la verità. «Per favore, dimmi cos'hai visto.» «Ho... ho tolto il cerchio dalla borsa un'ora fa, quando mi sono svegliato» disse lui, in tono basso, rispettoso. «Volevo solo provare a tenerlo in mano. Solo guardarlo. Non avevo mai visto niente di simile; e dopo quel che è successo a Bucky... sapevo che era speciale.» Esitò, rimase in silenzio per alcuni secondi, quasi ipnotizzato. «Non so cos'è, però... ti fa desiderare di tenerlo in mano e guardare nel suo interno, dove brillano tutte quelle luci colorate. L'ho preso dalla borsa e sono andato a sedermi lì.» Indicò il suo giaciglio, sull'altro lato della caverna. «Non volevo tenerlo tanto, ma... i colori hanno iniziato a cambiare. A comporre una scena... sembra un discorso pazzesco, vero?» «Continua.» Paul e Hugh ascoltavano; anche i bambini erano attenti. «Ho continuato a guardare l'immagine che si formava. Sembravano i mosaici sulle pareti della cappella, nell'orfanotrofio: se li fissavi per un poco, avresti giurato che diventavano vivi e si muovevano. L'immagine era proprio così... ma all'improvviso non fu più un'immagine. Era reale e io mi trovavo in un campo coperto di neve. Il vento soffiava, tutto era un po' annebbiato... ma faceva davvero freddo, maledizione! Ho visto una figura distesa per terra; sulle prime ho pensato a un fagotto di stracci, ma poi ho capito che era una persona. E accanto a lei c'era un cavallo, anch'esso disteso sulla neve.» Rivolse una timida occhiata ai bambini che l'ascoltavano, poi riportò lo sguardo su Sister. «Misterioso, eh?» «Cos'altro hai visto?» «Il gigante è venuto nel campo. Portava una maschera nera e mi è passato a meno di due metri. Mi ha spaventato: volevo scostarmi, ma lui ha tirato dritto. Giuro che vedevo le impronte sulla neve. E l'ho udito dire: "Cigno". L'ho udito come odo adesso la mia stessa voce. Il gigante sembrava spaventato. Si è inginocchiato accanto alla persona stesa a terra e sembrava che cercasse di svegliarla.» «Svegliarla? Vuoi dire che era una donna?» «Una ragazza. Credo che la chiamasse per nome: Cigno.» Una ragazza, pensò Sister. Una ragazza di nome Cigno... ecco verso chi la guidava, il cerchio di vetro! Provò un senso di vertigine. Per un momento fu costretta a chiudere gli occhi per mantenere l'equilibrio; quando li
riaprì, i colori del cerchio di vetro pulsavano all'impazzata. Paul si era alzato. Aveva smesso di credere nei poteri del cerchio, prima che Hugh salvasse il bambino; ma ora quasi tremava d'eccitazione. Ormai non importava che non riuscisse a scorgere niente: forse era cieco a quelle cose, o non si concentrava abbastanza. Forse si era rifiutato di credere, oppure la sua mente era legata a una lunghezza d'onda fatta solo d'amarezza. Ma se il ragazzo aveva visto immagini nel vetro, se aveva provato la sensazione di "camminare nel sogno", come diceva Sister... allora forse cercavano davvero qualcuno che si trovava chissà dove. «E poi?» domandò a Robin. «Hai visto altro?» «Mentre stavo per scostarmi dal gigante con la maschera nera, ho visto qualcosa per terra, quasi di fronte a me. Un animale maciullato e sanguinante. Non so che animale era, ma qualcuno l'aveva conciato davvero per le feste.» «L'uomo con la maschera» domandò ansiosamente Sister. «Hai visto da dove veniva?» «No. La scena era un poco offuscata. Fumosa, pareva. Sentivo un forte odore di fumo; e nell'aria c'era un altro odore... un puzzo nauseante. Forse c'era anche un altro paio di persone, ma non ne sono sicuro. La scena cominciò svanire e a spezzettarsi. Non mi piaceva il puzzo nauseante e volevo tornare qui. E mi sono ritrovato lì seduto, con il cerchio fra le mani. Tutto qui.» «Cigno» mormorò Sister. Guardò Paul, che era rimasto a occhi spalancati per lo stupore. «Cerchiamo una ragazza di nome Cigno.» «Ma dove la troviamo? Cristo, un campo può essere da qualsiasi parte... a un chilometro o a cento chilometri!» «Hai visto altro?» domandò Sister al giovane. «Un segno di riferimento, un fienile, una casa. Qualsiasi cosa.» «Solo un campo. Coperto di neve in alcuni punti, brullo in altri. Così reale che ho sentito il freddo. Così reale da far venire la pelle d'oca... sarà per questo che mi sono fatto sorprendere a rimettere a posto il cerchio. Volevo raccontarlo a qualcuno, credo.» «Come facciamo a trovare un campo, senza punti di riferimento?» domandò Paul. «Impossibile!» «Ah... scusate.» Guardarono tutti Hugh, che si alzava aiutandosi con la stampella. «Sono davvero nel buio, per quanto riguarda questa discussione» disse, appena fu in equilibrio. «Ma, da quanto ho capito, siete convinti che quello visto nel
vetro sia un luogo che esiste realmente. Io sono l'ultima persona al mondo che possa capire simili cose... ma direi che per cercare quel luogo in particolare vi conviene partire da Mary's Rest.» «Perché da lì?» domandò Paul. «Perché a Moberly ho avuto occasione d'incontrare viandanti» rispose Hugh. «Proprio come ho incontrato te e Sister. Presumevo che i viandanti provassero una certa compassione per un mendicante senza una gamba... purtroppo in genere mi sbagliavo. Ma ricordo un uomo che era appena passato da Mary's Rest; fu lui a dirmi che il laghetto era asciutto. E ricordo... ha detto che l'aria di Mary's Rest aveva un odore contaminato.» Si rivolse a Robin. «Hai detto che hai sentito un puzzo "nauseante"... e anche odore di fumo. Giusto?» «Sì. C'era fumo, nell'aria.» Hugh annuì. «Fumo. Camini. Fuochi per gente che cerca di scaldarsi. Secondo me, il campo che cercate, ammesso che esista, potrebbe trovarsi nei dintorni di Mary's Rest.» «Quanto dista da qui Mary's Rest?» domandò Sister a Robin. «Dieci, dodici chilometri, penso. Forse di più. Non ci sono mai stato, ma abbiamo derubato parecchia gente che ci andava o veniva da lì. Un po' di tempo fa, comunque. Ormai sono in pochi a viaggiare da queste parti.» «Nella jeep non c'è benzina sufficiente a coprire la distanza» ricordò Paul a Sister. «Non faremmo nemmeno un paio di chilometri.» «Non parlavo di strada» si corresse Robin. «Intendevo nell'entroterra. Si trova a sudovest da qui, al di là dei boschi, e il percorso è duro. Circa un anno fa, sei di noi esplorarono una pista che porta laggiù. Tornarono solo in due e dissero che a Mary's Rest non c'è niente che valga la pena rubare. Quelli deruberebbero noi, se potessero.» «Allora andremo a piedi» dichiarò Sister. Raccolse la borsa e vi ripose il cerchio di vetro. Le mani le tremavano. Robin brontolò. «Sister, non voglio offenderti, ma sei pazza. Dieci chilometri a piedi non sono una passeggiata. Sai, forse vi abbiamo salvato la vita, bloccando la jeep. A quest'ora eravate morti congelati.» «Dobbiamo andare a Mary's Rest... almeno, io devo andarci. Paul e Hugh facciano come vogliono. Ho fatto ben più di dieci chilometri per arrivare fin qui. Un po' di freddo non mi fermerà proprio ora.» «Non è soltanto la distanza o il freddo. È quel che c'è nei boschi.» «Cosa?» domandò Hugh, a disagio, avanzando d'un passo. «Interessanti esemplari di belve feroci. Creature che sembrano nate nello
zoo di uno scienziato pazzo. Creature affamate. Per caso hai voglia di cadere nelle loro grinfie, nei boschi di notte?» «Devo andare a Mary's Rest» disse Sister, in tono fermo; l'espressione decisa della donna rivelò a Robin che ormai la decisione era presa. «Mi serve solo un po' di cibo, abiti caldi e il mio fucile. Me la caverò benissimo.» «Sister, non farai un chilometro senza perderti... o farti sbranare.» Lei guardò Paul Thorson. «Paul? Tu vieni?» Paul esitò, diede uno sguardo alla fosca luce che entrava nella caverna e poi ai bambini che accendevano il fuoco sfregando due bastoncini. Diavolo, pensò, io non ci sono mai riuscito, da boyscout; ma forse non è troppo tardi per imparare! Però avevano già fatto tutta quella strada e forse erano vicinissimi a trovare la risposta. Guardò le prime scintille, i ramoscelli che prendevano fuoco; ma aveva già deciso. «Vengo con te.» «Hugh?» «Voglio venire con te» disse lui. «Voglio davvero. Ma ho un paziente.» Rivolse un'occhiata al bambino addormentato. «Voglio sapere chi e che cosa troverete a Mary's Rest... ma credo che qui ci sia bisogno di me, Sister. Da moltissimo tempo non mi sentivo utile. Capisci?» «Sì.» Tanto, aveva già deciso di convincere Hugh a non venire: con una gamba sola, non avrebbe mai potuto fare tutta quella strada, sarebbe stato d'impaccio e basta. «Capisco.» Guardò Robin. «Ce ne andremo appena avremo raccolto la nostra roba. Mi occorre il fucile e le cartucce... se per te va bene.» «Ti occorre ben altro, per farcela.» «Allora sono sicura che restituirai anche a Paul pistola e cartucce. E accetteremo volentieri cibo e vestiti che ti crescono.» Robin rise, ma il suo sguardo rimase duro. «I briganti siamo noi, Sister!» «Allora rendici soltanto quel che ci hai rubato. Così siamo pari.» «Nessuno t'ha mai detto che sei pazza?» «Sì. Teppisti più duri di te.» Un debole sorriso si allargò piano piano sul viso di Robin; il suo sguardo si ammorbidi. «Va bene, vi restituisco la vostra roba. Ne avrete bisogno più di noi.» Esitò, pensieroso, poi andò al suo giaciglio e si chinò a frugare in un cartone pieno di lattine, coltelli, orologi, lacci da scarpe e altro. Tornò da Sister. «Tieni» le disse, mettendole in mano un oggetto. «Ti servirà anche questa.» Era una piccola bussola di metallo che sembrava i giocattoli omaggio
delle confezioni di CrackerJack. «Funziona» aggiunse. «Almeno, funzionava, quando l'ho tolta a un morto, un paio di settimane fa.» «Grazie. Spero che a me porti più fortuna che a lui.» «Già. Be'... puoi prendere anche questo, se vuoi.» Si sbottonò il collo del cappotto. Sulla pelle pallida portava un piccolo crocifisso ossidato, appeso a una catenina d'argento. Se lo stava per togliere, ma Sister gli toccò la mano per impedirglielo. «Ne ho già uno.» Si tolse la sciarpa di lana per mostrare la cicatrice a forma di crocifisso, ricordo di un cinema della Quarantaduesima, molti anni prima. «Già» disse Robin. «Vedo.» Restituirono a Paul e a Sister i cappotti, i maglioni e i guanti, oltre alle armi, ai proiettili per la Magnum e alle cartucce per il fucile a pompa. Misero in una sacca da viaggio una scatola di fagioli cotti e un po' di carne secca di scoiattolo, un coltello multiuso e un berretto di lana arancione. Robin diede a ciascuno dei due un orologio da polso; dopo avere frugato in un'altra scatola, aggiunse tre fiammiferi da cucina. Paul aspirò dal serbatoio della jeep le ultime gocce di carburante, che bagnarono appena il fondo di un contenitore di plastica. Ma il recipiente fu chiuso per bene con del nastro adesivo e messo nella sacca: la benzina sarebbe servita a innescare il fuoco. All'esterno c'era il massimo di luce. Il cielo tetro non permetteva di stabilire la posizione del sole. L'orologio di Sister segnava le dieci e ventidue; quello di Paul, le tre e tredici. Era tempo di partire. «Sei pronto?» disse Sister a Paul. Per un attimo lui guardò con rimpianto il fuoco. «Sì» rispose. «Buona fortuna!» augurò loro Hugh, zoppicando fino all'imboccatura della caverna. Sister mosse la mano guantata in un gesto di saluto; si alzò il colletto attorno alla sciarpa, controllò la bussola. Paul la seguì nei boschi. 61 «Eccola lì.» Glory indicò la sagoma di una stalla di assi grigie, mezzo nascosta in un folto d'alberi. Dalle macerie di altri due edifici sporgevano i resti di un camino di mattoni rossi. «Aaron l'ha scoperta un po' di tempo
fa» spiegò, mentre Josh la seguiva, con Mulo alle calcagna. «Non ci vive nessuno.» Indicò un sentiero assai battuto che passava davanti alle macerie e s'inoltrava nella foresta. «Il Pozzo non è lontano.» Da quanto Josh aveva capito, il Pozzo era il cimitero della comunità: una fossa dove, nel corso degli anni, erano state gettate centinaia di cadaveri. «Jackson soleva dire una preghiera per i morti» disse Glory. «Ora che lui non c'è più, li gettano dentro e non ci pensano.» Gli diede un'occhiata. «Swan ha rischiato la stessa fine, ieri notte. Cosa pensava di fare, là fuori?» «Non so.» Swan era sprofondata nell'incoscienza, quando l'avevano riportata nella baracca. Josh e Glory le avevano ripulito le mani, le avevano fasciate con strisce di stoffa, avevano sentito il calore della febbre che la bruciava. Avevano lasciato Aaron e Rusty a tenerla d'occhio, mentre Josh manteneva la promessa di trovare un ricovero a Mulo; ma lui era quasi pazzo di preoccupazione; senza medicine, senza cibo vero, perfino senza acqua potabile, che speranze aveva? Swan era in un tale stato d'esaurimento, che la febbre rischiava di ucciderla. Josh strinse i pugni. Proteggi la bambina, pensò. Certo, si disse: hai fatto davvero un buon lavoro, no? Non sapeva perché fosse uscita di nascosto dalla baracca, la notte prima; ma era chiaro che si era messa a scavare la terra indurita. Grazie a Dio, Mulo aveva avuto il buon senso di capire che era in pericolo, altrimenti oggi avrebbero portato il corpo di Swan... No. Si rifiutò anche di pensarlo. Swan si sarebbe ripresa. Ne era certo. Passarono davanti ai resti arrugginiti di un'automobile, priva di portiere, ruote, motore e cofano. Glory spalancò la porta della stalla. L'interno era buio e gelido, ma almeno il vento non entrava. C'erano due box con un po' di paglia per terra e un mastello in cui Josh poteva sciogliere un po' di neve per dissetare Mulo. Dalle pareti pendevano corde e finimenti, ma non c'erano finestre da cui un animale potesse introdursi. Sembrava un posto abbastanza sicuro e un buon rifugio per il cavallo. Josh vide un mucchio di robaccia dall'altra parte della stalla. Trovò alcune sedie rotte, un portalampade senza lampadina né filo elettrico, una piccola falciatrice e un rotolo di filo spinato. Una coperta blu rosicchiata dai topi copriva altri rifiuti; Josh la sollevò per vedere che cosa nascondeva. «Glory» disse piano. «Vieni a vedere.» La donna gli si avvicinò; Josh passò le dita sopra lo schermo incrinato di un televisore. «Non ne vedo da un pezzo» disse, pensieroso. «Mi sa che
l'indice d'ascolto è molto basso, ultimamente, eh?» Premette il pulsante d'accensione e girò la manopola per la selezione dei canali: il pomello gli rimase in mano. «Non vale una cicca» disse Glory. «Come tutto il resto.» Il televisore era appoggiato sopra una specie di banco munito di rulli; Josh prese l'apparecchio, lo girò, tolse il cartone pressato e mise allo scoperto il tubo catodico e l'intrico di fili. Si sentì stupido come un uomo delle caverne, lì a scrutare nella scatola magica che un tempo era stata un lusso — no, una necessità — comune a milioni di case americane. Senza corrente, era inutile come un sasso... anzi, meno, perché un sasso lo si poteva usare per uccidere i roditori da mettere in pentola. Josh mise da parte il televisore, insieme con l'altra robaccia. Per terra trovò una scatola piena di oggetti che sembravano vecchi candelieri di legno. Un'altra conteneva bottiglie polverose. Alcuni pezzetti di carta si sparpagliarono per terra. Josh ne raccolse uno. Si trattava di un volantino stampato in rosso, le cui lettere sbiadite proclamavano: "Asta d'antiquariato! Mercato delle pulci di Jefferson City! Sabato 5 giugno! Venite presto, restate a lungo!" Josh aprì le dita e lasciò che il volantino ricadesse a terra e si posasse con un lieve sospiro fra gli altri pezzi delle novità di ieri. «Josh? Cos'è quest'affare?» Glory toccava il banco con i rulli. Trovò una piccola manovella e la girò; ci fu un rumore di catena su ingranaggi arrugginiti. I rulli ruotarono dolorosamente come vecchi che si girassero nel sonno. La manovella mise in funzione alcuni cuscinetti di gomma che scesero a premere leggerrnente sui rulli e tornarono nella posizione originaria. Un piccolo vassoio metallico era attaccato all'altra estremità del banco; Josh raccolse alcuni volantini del mercato delle pulci e li mise nel vassoio. «Continua a girare la manovella» disse; insieme guardarono i rulli e i cuscinetti prendere un foglio alla volta, infilarlo in una fessura nel ventre della macchina e farlo cadere in un secondo vassoio all'estremità opposta. Josh trovò un pannello mobile, lo scostò e vide una serie di altri rulli, vassoi di caratteri metallici, una serie di spugne ormai secche che un tempo erano cuscinetti d'inchiostro. «Una macchina da stampa» disse. «Che te ne pare? Sarà vecchia come il cucco, ma sembra in buone condizioni.» Sfiorò la quercia a grana fitta della stampatrice. «È il lavoro amorevole di un appassionato. Peccato lasciarlo qui a marcire.» «Per marcire un posto vale l'altro.» Glory borbottò qualcosa. «Ma è una combinazione curiosa!»
«Ossia?» «Prima di morire, Jackson voleva iniziare un giornale... una specie di notiziario locale. Diceva che avrebbe dato a tutti l'impressione d'essere davvero una comunità. Sai, la gente si sarebbe interessata anche degli altri, invece d'isolarsi. E non sapeva nemmeno che qui c'era una macchina del genere. Certo, era solo un sogno.» Passò la mano sulla tavola di quercia, accanto a quella di Josh. «Ha fatto un mucchio di sogni che sono morti.» Sfiorò la mano di Josh e subito si ritrasse. Seguì un attimo di silenzio e d'imbarazzo. Josh sentiva ancora il calore della mano di lei contro la propria. «Doveva essere un gran brav'uomo» disse. «Lo era. Cuore generoso e schiena robusta; e nessuna paura di sporcarsi le mani. Prima d'incontrare Jackson, facevo una brutta vita. Frequentavo brutta gente, bevevo troppo. Ho tirato avanti da sola da quando avevo tredici anni.» Sorrise appena. «Le ragazzine crescono in fretta. Be', non credo che Jackson abbia avuto paura di sporcarsi le mani con me, perché a quest'ora sarei morta, se non m'avesse cambiata. E tu? Hai moglie?» «Sì. Ex moglie, cioè. E due figli.» Glory girò la manovella, guardò i rulli muoversi. «Cosa gli è successo?» «Erano nell'Alabama del sud. Quando caddero le bombe, voglio dire.» Inspirò a fondo, lasciò uscire il fiato lentamente. «Giù a Mobile. C'è una base navale, a Mobile. Sommergibili nucleari, navi d'ogni tipo. C'era una base navale, almeno.» Guardò Mulo mangiucchiare un po' di paglia. «Forse sono ancora vivi. Forse no. Penso... penso di fare male, ma... ma mi auguro sempre che siano morti il 17 luglio. Che siano morti mentre guardavano la televisione, o mangiavano il gelato, o se ne stavano stesi al sole sulla spiaggia.» Incrociò lo sguardo di Glory. «Mi auguro solo che siano morti in fretta. Faccio male?» «No. È un augurio onesto» rispose Glory. E questa volta la sua mano toccò quella di lui e non si ritrasse. L'altra salì a sfiorare gentilmente la maschera da sci. «Che faccia hai, sotto questa roba?» «Una volta ero brutto. Ora sono ripugnante.» Glory toccò la pelle dura e grigia che gli chiudeva l'occhio destro. «Ti fa male?» «A volte brucia. A volte prude da far impazzire. E a volte...» La voce morì. «A volte cosa?» Josh esitò, sul punto di dire una cosa che non aveva mai detto né a
Swan, né a Rusty. «A volte» continuò piano «mi sembra che... che il viso si trasformi, che le ossa si spostino. E fa un male del diavolo.» «Forse guarisce.» Josh riuscì a trovare un debole sorriso. «Proprio quel di cui ho bisogno: un raggio di ottimismo. Grazie, ma penso che non ci sia alcun rischio di guarire. Le escrescenze sono dure quasi come il cemento.» «Swan ha le peggiori che abbia mai visto. Sembra che non riesca neppure a respirare. E ora, con la febbre alta...» Si bloccò, perché Josh si era diretto alla porta. «Tu e lei avete passato un mucchio di guai insieme, vero?» domandò Glory. Josh si fermò. «Sì. Se muore, non so cosa...» Si trattenne, chinò la testa, tornò ad alzarla. «Swan non morirà» dichiarò. «Non morirà. Su, è meglio tornare.» «Josh? Aspetta.» «Eh?» Glory girò la manovella della macchina da stampa, passò le dita sulla lucida quercia. «Hai ragione, su quest'affare. È un peccato che resti qui a marcire.» «Come hai detto tu, un posto vale l'altro.» «La mia baracca sarebbe un posto migliore.» «La tua baracca? Cosa vuoi fartene, di questa macchina? Non serve a niente!» «Al momento, sì. Ma forse verrà buona. Jackson aveva ragione: farebbe meraviglie, per Mary's Rest, una sorta di giornale... non del tipo che la gente buttava nella spazzatura ogni pomeriggio, ma forse solo un foglio di carta per dire chi è nato e chi è morto, chi ha vestiti in più e chi ne ha bisogno. Oggi, persone che vivono di qua e di là del vicolo sono perfetti estranei; ma un foglio di carta così potrebbe unire il villaggio.» «A me pare che a Mary's Rest la gente sia più interessata a trovare il cibo per il giorno dopo.» «Sì. Per il momento. Ma Jackson era intelligente, Josh. Se avesse saputo che questa macchina era qui in un mucchio di robaccia, l'avrebbe portata a casa in spalla. Non dico di sapere come si scrive e tutto il resto... diavolo, ho già difficoltà a parlare giusto... ma questa macchina potrebbe essere il primo passo per rendere Mary's Rest di nuovo una città.» «Cosa userai come carta? E l'inchiostro?» «Ecco la carta.» Glory raccolse una manciata di volantini d'asta. «E ho già fatto tinture usando terra e vecchio lucido per scarpe. Riuscirò a trovare
un sistema per fare l'inchiostro.» Josh stava per ribattere, ma intuì che in Glory era sopravvenuto un cambiamento: negli occhi della donna c'era uno scintillio d'entusiasmo che la ringiovaniva di cinque anni. Ha raccolto la sfida, pensò Josh; cercherà di fare in modo che il sogno di Jackson si avveri. «Aiutami» disse Glory. «Per favore.» La donna aveva preso la decisione. «D'accordo» disse Josh. «Prendila dall'altra parte. Peserà parecchio.» Due mosche si alzarono da sopra la macchina da stampa e girarono intorno alla testa di Josh. Una terza rimase immobile sul televisore, una quarta ronzò lentamente appena sotto il tetto della stalla. La stampatrice era meno pesante di quanto non sembrasse: portarla fuori della stalla fu relativamente semplice. La posarono all'esterno e Josh rientrò a badare a Mulo. Il cavallo nitrì, nervoso, girando nel box. Josh gli accarezzò il muso per calmarlo, come aveva visto fare da Swan. Riempì il mastello di neve e mise addosso al cavallo la coperta azzurra, per tenerlo caldo. Una mosca si posò sulla mano di Josh, con un tocco pungente come quello di una vespa. «Maledetta!» disse Josh e con l'altra mano la schiacciò. Rimase solo un grumo verde grigio che si torceva e pungeva ancora. Josh si pulì sui calzoni. «Qui sarai a posto» disse al cavallo innervosito, accarezzandogli il collo. «Verrò a darti un'occhiata più tardi, va bene?» Mentre chiudeva a catenaccio la porta della stalla, si augurò di non sbagliare, a lasciare Mulo lì da solo. Ma almeno quel posto l'avrebbe protetto dal freddo e dalle linci rosse. Ma con le mosche avrebbe dovuto cavarsela da solo. Glory e Josh insieme trasportarono la macchina da stampa giù per la strada 62 Sotto il cielo sempre più buio, due figure avanzavano faticosamente nella foresta di pini morti, dove il vento aveva scolpito i cumuli di neve in barriere alte un metro e mezzo. Sister controllava spesso la bussola, puntata verso sudest. Paul seguiva a qualche passo; portava a tracolla la sacca da viaggio e teneva d'occhio i movimenti furtivi, ai fianchi e alle spalle; animali selvaggi li seguivano, già da quando avevano lasciato la caverna. Paul li aveva scorti solo di
sfuggita, non sapeva quanti fossero né di quale razza, ma ne sentiva l'odore di selvatico. Nella destra guantata stringeva la .357 e teneva il pollice sulla sicura. Sister calcolò che rimaneva meno di un'ora di luce. Camminavano da quasi cinque ore, secondo l'orologio datole da Robin; non sapeva quanti chilometri avessero percorso, ma l'avanzata era penosa e si sentiva le gambe rigide come pezzi di legno. La fatica di procedere fra rocce e cumuli di neve la faceva sudare e lo scricchiolio del ghiaccio nei vestiti le ricordava quello dei fiocchi di riso nella scodella del latte. Alla sua bambina piacevano i fiocchi di riso: «Senti come parlano, mamma!» Sister scacciò i fantasmi del passato. Lei e Paul non avevano visto segni di vita, a parte le creature che s'aggiravano intorno e li tenevano d'occhio, affamate, nel crepuscolo sempre più scuro. Sceso il buio, le belve si sarebbero fatte più ardite... Un passo, si disse. Un passo, e quello seguente ti porta dove volevi andare. Continuava a ripeterlo fra sé, mentre le gambe la portavano con il movimento affaticato di una macchina. Teneva stretta la borsa sotto il braccio sinistro, irrigidito in quella posizione; ma sentiva ancora il contorno del cerchio di vetro, attraverso il cuoio, e ne traeva forza, come da un secondo cuore. Cigno, pensò. Chi sei? Da dove vieni? E perché sono stata guidata da te? Se davvero era una ragazza di nome Cigno quella da cui il sentiero di sogno l'aveva condotta, Sister non aveva idea di che cosa le avrebbe detto. Salve, non mi conosci, ma ho attraversato mezz'America per trovarti. E mi auguro davvero che ne valga la pena, perché, perdio, voglio proprio distendermi a riposare! E se invece a Mary's Rest non ci fosse stata nessuna ragazza di nome Cigno? Se Robin si fosse sbagliato? Se la ragazza fosse solo passata da Mary's Rest, se a quest'ora fosse già andata via? Sobbalzò nell'udire un ringhio improvviso. Si girò da quella parte: il ringhio si mutò nel verso lamentoso e stridulo d'un animale e poi in una risata rauca simile a quella delle iene. Sister credette di scorgere nel buio un paio di occhi avidi che mandarono un orribile scintillio prima di ritirarsi fra le piante. «Non ci resta molta luce» disse Paul. «Troviamo un posto dove accamparci.» Sister lasciò vagare lo sguardo verso sudest. C'era solo una distesa torturata di pini morti, di rocce, di cumuli di neve. Sembrava una giornata di
gelo nell'inferno. Dovunque fosse Mary's Rest, per quel giorno non ci sarebbero arrivati. Cominciarono a cercare un rifugio. Il meglio che trovarono era una stretta nicchia in un avvallamento di terreno, circondata da rocce scabre. Spinsero via la neve per mettere a nudo la terra e formarono tutt'intorno una sorta di barriera di neve alta un metro; poi raccolsero rami secchi per il fuoco, mentre nei boschi risuonavano le grida stridule delle belve che iniziavano a radunarsi come signori al tavolo di banchetto. Formarono una piccola catasta di rami circondata di sassi. Paul versò qualche goccia di benzina sulla legna. Il primo fiammifero strofinato sulla pietra si accese, sfrigolò e si spense. Così ne avevano solo due. L'oscurità scendeva rapidamente. «Riproviamo» disse Paul. Strofinò il secondo fiammifero, tenendo pronta l'altra mano per proteggere la fiammella. Il fiammifero si accese e immediatamente cominciò a spegnersi. Paul accostò subito la debole fiammella a un rametto, inginocchiato come un selvaggio in preghiera davanti all'altare dello spirito del fuoco. «Prendi fuoco, piccolo bastardo» mormorò a denti stretti. «Su, prendi fuoco!» La fiammella era solo una piccola scintilla che danzava nel buio. Poi ci fu una sorta di sbuffo, quando le poche gocce di benzina presero fuoco. La fiamma si arricciò lungo il rametto, come lingua di gatto. Il fuoco crepitò, scoppiettò, cominciò a crescere. Paul aggiunse benzina. Uno schizzo di fiamma si levò, saltò di rametto in rametto. Nel giro di un minuto i due avevano calore e luce. Tesero le mani intirizzite verso il tepore. «Domattina arriveremo» disse Paul, mentre si dividevano la carne secca di scoiattolo, che aveva il gusto del cuoio bollito. «Scommetto che manca solo un paio di chilometri.» «Può darsi.» Con il coltello multiuso, Sister aprì la scatola di fagioli e con le dita ne prese un po'. Erano unti, sapevano di metallo, ma sembravano buoni. Passò la scatola a Paul. «Mi auguro solo che questa bussola da bambini funzioni. Altrimenti rischiamo di girare in tondo.» Paul ci aveva già pensato. Scrollò le spalle e si riempì la bocca di fagioli. Se la bussola funzionava male, forse avevano già mancato Mary's Rest. «Ancora non abbiamo fatto dieci chilometri» disse; ma nemmeno di questo era sicuro. «Domattina vedremo.» «Giusto. Domattina.»
Sister fece il primo turno di guardia, mentre Paul dormiva accanto al fuoco; appoggiò la schiena contro un masso e tenne la Magnum in una mano e il fucile a pompa nell'altra. Sotto il duro scudo della Maschera di Giobbe, il viso di Sister s'increspò di dolore. Zigomi e mascelle pulsarono. Di solito il dolore lancinante passava dopo qualche minuto, ma stavolta s'intensificò a un punto tale che Sister fu costretta a chinare la testa e a soffocare un gemito. Di nuovo, per la sesta o settima volta nelle ultime settimane, sentì scosse acute e crocchianti scorrere in profondità sotto la Maschera di Giobbe, attraverso le ossa del viso. Poteva solo stringere i denti e resistere finché il dolore non passava; e quando alla fine la sofferenza si calmò, la lasciò a tremare nonostante il fuoco. Quella era stata la crisi peggiore, pensò; la sofferenza aumentava. Sollevò la testa, si passò le dita sulla Maschera di Giobbe. La superficie bitorzoluta era fredda come ghiaccio sulle pendici di un vulcano addormentato; ma sotto di essa, la carne sembrava calda ed escoriata. La pelle del cranio prudeva da impazzire. Sister infilò la mano sotto il cappuccio della giacca a vento per toccare la massa di escrescenze che le racchiudeva il cranio e seguì la linea fino alla nuca. Aveva una voglia folle di conficcare le dita sotto la crosta e grattarsi fino a sanguinare. Anche se mi caccio sulla testa una parrucca, pensò, sembro ancora una laureata all'università dei mostri! Per qualche secondo rimase in bilico fra il pianto e il riso, e fu quest'ultimo a vincere. Paul si alzò a sedere. «È già il mio turno di guardia?» «No. Mancano ancora un paio d'ore.» Lui tornò a sdraiarsi e s'addormentò quasi all'istante. Sister continuò a esplorare la Maschera di Giobbe. Mi sembra d'avere la pelle in fiamme, sotto la crosta... se mi resta ancora pelle, pensò. A volte, quando il dolore s'inaspriva e la carne sembrava ribollire, era quasi sicura che le ossa si muovessero come le fondamenta d'una casa malferma. Avrebbe giurato che il viso cambiava forma. Fu distratta da un fugace movimento alla sua destra, che le riportò l'attenzione sulla faccenda della sopravvivenza. In lontananza, una creatura emise un ringhio basso e gutturale; un'altra rispose con un gemito simile a pianto di bambino. Sister si posò in grembo il fucile e guardò il cielo. Lassù non c'erano che tenebre e l'impressione di nubi basse e immobili, come il soffitto nero dell'incubo di un claustrofobo. Sentiva la mancanza delle stelle. Senza di esse, il cielo era morto. Senza
di esse, che cosa c'era, per esprimere un desiderio? Tese le mani verso il fuoco e cambiò posizione per stare più comoda. Non era una suite d'albergo, certo, ma le gambe le dolevano meno, ora. Capì quanto fosse stanca: non ce l'avrebbe fatta, a percorrere altri cinquanta metri. Ma il fuoco la scaldava, lei aveva in grembo un fucile e avrebbe fatto saltare in aria qualsiasi cosa si fosse avvicinata. Posò la mano sulla borsa e seguì con il dito il contorno del cerchio di vetro. Domani, pensò. Domani vedremo. Appoggiò la testa contro il masso e guardò Paul dormire. Buon per te, pensò; te lo meriti. Il tranquillo calore del fuoco la consolava. I boschi erano silenziosi. E Sister chiuse gli occhi. Solo per un minuto, si disse; non succederà niente se riposo solo un... Si alzò a sedere di scatto. Davanti a lei, il fuoco era ridotto a poche braci rossastre e il freddo le scivolava sotto i vestiti. Gesummio, pensò, in preda al panico; per quanto tempo ho dormito? Tremava, le giunture le dolevano per il freddo; si alzò a mettere altri ramoscelli sul fuoco. Ne erano rimasti solo pochi, e piccoli; mentre s'inginocchiava a disporli sulle braci, sentì alle spalle un movimento felino. Un brivido le percorse la nuca. Capì, con certezza nauseante, che lei e Paul non erano più soli. Dietro di lei c'era una creatura, acquattata sopra un masso; e lei aveva lasciato le armi dove era stata seduta. Inspirò a fondo, decise di muoversi, si girò e si tuffò verso il fucile. Lo afferrò e si girò di scatto per sparare. La figura seduta a gambe incrociate sopra il masso alzò le mani guantate in un beffardo segno di resa. Reggeva sulle ginocchia un fucile e indossava un familiare cappotto marrone rattoppato, con il cappuccio tirato sulla testa. «Il pisolino t'è piaciuto, spero» disse Robin Oakes. «Che c'è?» Paul si tirò a sedere e batté le palpebre. «Eh?» «Giovanotto» disse Sister con voce roca «per un pelo non ti mandavo in un posto assai più caldo di questo. Da quanto tempo sei seduto lassù?» «Da quanto basta perché ti rallegri che non ho quattro zampe. Se uno dorme, l'altro deve montare la guardia, altrimenti siete morti.» Guardò Paul. «Con quel che ci metti a svegliarti, diventi carne per linci senza neanche accorgertene. Credevo che sapevate il fatto vostro.» «Non preoccuparti.» Sister tolse il dito dal grilletto e scostò il fucile. Dentro di sé tremava come gelatina. «Certo.» Girò la testa verso i boschi e chiamò: «Venite qui!»
Tre figure infagottate emersero dalla foresta e si arrampicarono sul masso. Tutti i bambini avevano il fucile e uno portava anche una borsa di tela rubata a Sister. «Non ne avete fatto tanta, di strada, eh?» disse Robin. «Siamo andati fin troppo bene!» Paul scosse la testa per eliminare i residui di sonno. «Ci resterà da fare ancora un paio di chilometri.» Robin emise un borbottio sprezzante. «Più facile che siano cinque. Comunque, ho riflettuto, nella grotta. Sapevo che vi accampavate da qualche parte e che finivate per piantare casino.» Valutò i massi e il muretto di neve. «Qui vi siete messi in trappola da soli. Spento il fuoco, le belve vi sarebbero saltate addosso da tutte le parti. Ne abbiamo viste parecchie, ma siamo rimasti bassi, sottovento, e loro non hanno visto noi.» «Grazie per l'avvertimento» disse Sister. «Oh, non siamo venuti ad avvertirvi. Vi abbiamo seguiti per impedirvi di farvi sbranare.» Robin scivolò giù dal masso e i tre bambini lo imitarono. Si accostarono al fuoco per scaldarsi il viso e le mani. «Non è stato difficile. Avete lasciato una pista che sembrava fatta con l'aratro. Comunque, avete dimenticato una cosa.» Aprii la sacca di tela e ne tolse la seconda fiasca di whisky che Hugh aveva dato a Paul. «Tieni.» La gettò a Sister. «Penso che ce ne sia ancora un buon sorso per tutti.» Il fuoco del whisky scaldò il ventre di Sister. Robin mandò i tre bambini a montare la guardia intorno al campo. «Il trucco è fare molto rumore» spiegò, quando si furono allontanati. «Meglio non essere costretti a sparare, perché l'odore del sangue attira le altre belve e le fa impazzire.» Si sedette accanto al fuoco, abbassò il cappuccio e si tolse i guanti. «Se vuoi dormire, Sister, ti conviene farlo adesso. Bisognerà dire loro il cambio, prima che faccia chiaro.» «Chi ti ha messo al comando?» «Io.» La luce del fuoco gettò ombre nelle cavità del suo viso, trasse riflessi dai peli sottili della barba. I capelli lunghi, sempre pieni di piume e di ossicini, lo facevano sembrare un principe selvaggio. «Ho deciso di aiutarvi a raggiungere Mary's Rest.» «Perché?» domandò Paul. Diffidava del giovane, non gli avrebbe affidato un soldo falso. «Cosa te ne viene?» «Forse voglio un po' d'aria nuova. Forse voglio viaggiare.» Spostò brevemente lo sguardo sulla borsa di Sister. «Forse voglio vedere se troverete quel che cercate. Comunque, pago i debiti. Mi avete aiutato con uno dei miei, quindi vi devo qualcosa. Perciò domani vi aiuto ad arrivare a Mary's
Rest; così siamo pari. Giusto?» «Giusto» convenne Sister. «E grazie.» «E poi, se domani vi fate ammazzare, voglio il cerchio di vetro. A voi non servirà più.» Si appoggiò al masso e chiuse gli occhi. «Fate meglio a dormire, finché potete.» Nei boschi echeggiò un colpo di fucile, seguito da altri due. Sister e Paul si guardarono, inquieti, ma il giovane bandito rimase immobile e tranquillo. La sparatoria continuò a intermittenza ancora per un paio di minuti, seguita da ringhi di rabbia lanciati, si sarebbe detto, da parecchi animali... ma presto si affievolirono, mentre le belve si ritiravano. Paul allungò la mano verso la fiasca di whisky, per spremerne le ultime gocce; e Sister si distese a meditare sul domani. 63 «Al fuoco!... Al fuoco!» Le bombe cadevano di nuovo, la terra eruttava fiamme, esseri umani ardevano come torce sotto un cielo rosso sangue. «Al fuoco!... C'è un incendio!» Josh si scosse dall'incubo. Udì un uomo gridare: «Al fuoco!», fuori, nella via. Scattò subito in piedi e spalancò la porta: le nubi riflettevano un bagliore arancione. La strada era deserta, ma in lontananza si udiva la voce che gridava l'allarme: «Al fuoco. C'è un incendio!» «Che c'è? Cosa brucia?» Il viso affranto di Glory scrutò dal vano della porta. Aaron, che non si staccava più da Crybaby, si aprì un varco fra loro due, per guardare anche lui. «Non so. Gpsa c'è, in quella direzione?» «Niente» rispose lei. «Solo il Pozzo e...» Si bloccò di colpo, perché entrambi avevano capito. Bruciava la stalla in cui Josh aveva lasciato Mulo. Josh s'infilò gli stivali, i guanti e il pesante cappotto. Glory e Aaron corsero a infagottarsi. Braci rossastre bruciavano dietro la grata della stufa. Rusty si era alzato a sedere sul giaciglio di stracci. Aveva ancora lo sguardo intontito; le fasce di stoffe erano incollate alle ferite al viso e alla spalla. «Josh?» disse. «Cosa succede?» «La stalla brucia! Ho chiuso a catenaccio la porta, Mulo non può uscire!» Rusty si alzò, ma le gambe non lo ressero e barcollò contro la parete. Si
sentiva come un toro privato degli attributi ed era furibondo con se stesso. Tentò di nuovo, ma non aveva nemmeno la forza d'infilarsi i maledetti stivali. «No, Rusty!» disse Josh. Indicò Swan, distesa sul pavimento, sotto la leggera coperta che Aaron le aveva ceduto. «Tu resti con lei!» Rusty capì che sarebbe crollato prima di fare dieci passi. Quasi pianse di rabbia. Ma bisognava che qualcuno tenesse d'occhio Swan. Annuì e si lasciò cadere stancamente sulle ginocchia. Aaron saettò avanti, Josh e Glory lo seguirono più in fretta che potevano. Josh parve ritrovare in parte lo scatto di cui aveva fatto mostra sul campo da football dell'università di Auburn, nel percorrere i duecento metri che separavano la baracca dalla stalla. Altra gente era uscita in strada e correva verso l'incendio... non per domarlo, ma per scaldarsi. Il cuore di Josh quasi si spezzò: sopra il ruggito delle fiamme che coprivano tutta la stalla tranne il tetto, si udivano i nitriti frenetici di Mulo. Glory urlo: «Josh! No!», mentre lui s'avventava contro la porta della stalla. Swan disse qualcosa, piano, nel delirio, ma Rusty non riuscì a capire le parole. La ragazza cercò di mettersi a sedere e lui le mise la mani sulle spalle per impedirglielo. Toccarla era come accostare la mano alla grata della stufa. «Stai buona» disse. «Calma, calma, non t'affannare.» Swan parlò di nuovo, ma in maniera inintelligibile. Rusty credette che dicesse qualcosa a proposito di granturco, ma non riuscì a capire altro. Anche il foro residuo nella maschera di escrescenze era quasi chiuso del tutto. Swan continuava a perdere e a riprendere conoscenza, da quando sul far del giorno Josh l'aveva portata dal campo alla baracca; a momenti tremava, a momenti si dimenava per liberarsi della coperta. Glory le aveva fasciato le mani escoriate e aveva cercato di farle ingoiare un poco di minestra brodosa, ma nessuno poteva fare niente per lei, tranne cercare di farla stare più comoda. Swan era così intontita da non sapere nemmeno dove fosse. Sta per morire, pensò Rusty; mi muore sotto gli occhi. La costrinse a distendersi, poi la udì dire qualcosa che forse riguardava Mulo. «Va tutto bene» la consolò Rusty, parlando con difficoltà per via della mascella ferita. «Pensa solo a riposare, domattina tutto sarà a posto.» Avrebbe voluto crederlo anche lui. Aveva fatto un mucchio di strada, con Swan, per guardarla spegnersi in quel modo. Maledì la propria debolezza. Si sentiva robusto come una spugna bagnata e sua madre certo non l'aveva
allevato perché si nutrisse di brodo di topo. Riusciva a mandarlo giù solo fingendo che fosse fatto con pezzetti di manzo. Un'asse schiodata cigolò fuori della baracca, al di là della porta chiusa. Rusty alzò gli occhi. Si aspettava che entrasse Glory, Aaron o Josh... ma non potevano essere già tornati. Erano andati via solo da qualche minuto. La porta non si aprì. Un'altra asse schioccò, cigolò. «Josh?» chiamò Rusty. Non ci fu risposta. Ma Rusty capì che fuori c'era qualcuno. Conosceva fin troppo bene il rumore che fanno le assi schiodate quando ci si cammina sopra; già si era ripromesso di trovare un martello e dei chiodi, quando avesse riacquistato le forze, per inchiodare di nuovo quelle bastarde, prima che lo facessero impazzire. «Chi c'è lì fuori?» gridò. Forse qualcuno era venuto a rubare le poche cose possedute da Glory: gli aghi, i pezzi di stoffa, addirittura i mobili. O la macchina da stampa che occupava un angolo della stanza. «Ho un fucile puntato contro la porta» mentì e si tirò in piedi. Da dietro la porta non provenivano più rumori. A passo malfermo, Rusty andò alla porta. Non era chiusa a catenaccio. Allungò la mano verso il paletto di ferro e sentì un freddo terribile e attanagliante, dall'altra parte della porta. Un freddo sporco. Cominciò a spingere il chiavistello. «Rusty» gracchiò Swan. L'intera porta all'improvviso si abbatté all'interno, strappando i cardini e colpendolo in pieno alla spalla ferita. Rusty mandò un grido di dolore, mentre cadeva all'indietro fin nel centro della stanza. Nel vano c'era una figura; il primo impulso di Rusty fu di balzare in piedi per proteggere Swan; riuscì a mettersi in ginocchio, prima che la sofferenza per la ferita riaperta lo costringesse a cadere bocconi. L'uomo entrò, con una serie di tonfi sordi causati da un paio di scarponi fangosi. Passò in rassegna la stanza, vide l'uomo ferito in una pozza di sangue, la figura più magra rannicchiata e tremante, chiaramente vicina alla morte. Ed eccola lì, nell'angolo. La macchina da stampa. Non era una buona cosa, aveva deciso, quando le mosche gli avevano portato le immagini e le voci di tutta Mary's Rest. No, nient'affatto! Prima hai una macchina da stampa, poi un giornale, e poi gente che ha opinioni,
che pensa e che vuole agire, e poi... E poi, pensò, ti ritrovavi nella stessa situazione che aveva portato il mondo dov'era in quel momento. Oh no, non era affatto una buona cosa! La gente doveva essere salvata dal compiere due volte lo stesso errore. Doveva essere salvata da se stessa. Per questo aveva deciso di distruggere la macchina, prima che stampasse qualcosa. Era pericolosa come una bomba, e la gente non lo capiva! E anche quel cavallo era pericoloso; un cavallo induce la gente a pensare ai viaggi, alle ruote, alle automobili... e questo portava all'inquinamento atmosferico e agli incidenti stradali, no? L'avrebbero ringraziato per avere dato fuoco alla stalla, perché fra non molto avrebbero mangiato arrosto di cavallo. Era felice d'essere venuto a Mary's Rest. Appena in tempo, per di più. Li aveva visti giungere in paese, nel loro carro dello Spettacolo viaggiante; aveva udito il nero cercare a gran voce un medico. Certa gente non aveva proprio rispetto per un quieto, pacifico villaggio. Be'... il rispetto gliel'avrebbe insegnato lui. Adesso. Gli scarponi si mossero verso Swan. Josh urtò la porta della stalla, con tutta la forza dei suoi centoventi chili, mentre il grido di Glory gli risuonava ancora nelle orecchie. Per un terribile istante pensò d'essere di nuovo sul campo da football e di avere sbattuto a corpo morto contro uno di quei centromediani grandi e grossi. La porta non cedeva. Ma poi il legno si scheggiò e il battente crollò all'interno, trascinandolo in un inferno. Rotolò via dal legno in fiamme e si alzò. Il fumo gli turbinava davanti al viso e il calore terribile quasi lo travolse. «Mulo!» gridò. Sentiva il cavallo sgroppare e nitrire, ma non riusciva a vederlo. Le fiamme si avventavano come lance contro di lui e dal tetto già cadevano tizzoni ardenti simili a coriandoli arancione. Josh si avventò verso il box di Mulo. «Ah, ah» disse piano l'uomo. Si era fermato appena al di là della figura stesa al suolo, esaminando con interesse un oggetto sul tavolo di pino. Allungò la mano sottile e prese lo specchio con due facce incise sul manico, rivolte in direzioni opposte. Voleva ammirare il nuovo viso che si era creato, ma lo specchio era oscuro. Passò il dito sulle facce scolpite. Si domandò come mai uno specchio avesse il vetro nero... e la sua bocca nuova si piegò giusto di un millimetro. Lo specchio gli diede la stessa sensazione provata tenendo in mano il
cerchio di vetro. Era un oggetto che non avrebbe dovuto esistere. Qual era il suo scopo? Che cosa ci faceva lì? Non gli piacque. Per niente. Sollevò il braccio e ruppe lo specchio contro il bordo del tavolo; piegò il manico con le teste intagliate e lo gettò da parte. Ora si sentiva molto meglio. Ma sul tavolo c'era anche un sacchetto di pelle. Lo prese e ne scosse sul palmo il contenuto. Rotolò fuori un chicco di granturco, macchiato di sangue secco. «E questo cos'è?» mormorò. A qualche passo da lui, la figura distesa per terra gemette piano. Lo sconosciuto strinse in mano il chicco e lentamente si girò in direzione del gemito: gli occhi rossi brillarono alla luce del fuoco. Si soffermarono sulle mani fasciate e piegate ad artiglio. Un turbine di calore ribollì nel pugno destro dell'uomo e dall'interno provenne uno schiocco soffocato. L'uomo aprì la mano e si cacciò in bocca il chicco di popcorn, masticandolo pensierosamente. Aveva visto quella ragazza il giorno prima, mentre assisteva allo scempio del loro carro. Il giorno prima le sue mani non erano fasciate. Perché adesso lo erano? Perché? Al centro della stanza, Rusty sollevò la testa e cercò di mettere a fuoco lo sguardo. Un uomo alto e snello, con una giacca a vento marrone, si avvicinava a Swan. Quasi incombeva su di lei. Rusty fu preso dal panico: giaceva in una pozza di sangue, stava per svenire di nuovo. Doveva muoversi... muoversi... Cominciò a strisciare nel suo stesso sangue. Con l'occhio buono quasi accecato dal fumo, Josh vide davanti a sé un turbine di movimento. Mulo, preso dal panico, s'impennava e sgroppava, ma non trovava la via per uscire. La coperta che aveva sulla schiena già mandava fumo, rischiava di prendere fuoco. Josh corse verso il cavallo e quasi fu calpestato dagli zoccoli. Riuscì a pensare solo a una cosa: alzò le mani davanti al muso del cavallo e le batté forte, come aveva visto fare da Swan alla fattoria dei Jaspin. A Mulo forse il rumore improvviso ricordò Swan, forse annullò per un attimo il panico, fatto sta che il cavallo smise di sgroppare e si bloccò, con occhi lacrimanti e sbarrati dal terrore. Josh non perse l'occasione: lo afferrò per la criniera, lo tirò fuori dal box, cercò di guidarlo verso la porta. Mulo irrigidì le zampe.
«Avanti, stupido!» gridò Josh, mentre il calore gli bruciava i polmoni. Piantò gli stivali nella paglia in fiamme e, con le giunture che scricchiolavano, tirò il cavallo. Pezzi di legno ardente caddero dal tetto, lo colpirono alle spalle, urtarono i fianchi di Mulo. Le scintille gli turbinarono davanti al viso come uno sciame di calabroni. Forse Mulo fiutò un soffio d'aria esterna, perché scattò con tanta rapidità che Josh ebbe solo il tempo d'afferrarsi al collo dell'animale. Gli stivali strisciarono sul pavimento, mentre Mulo s'avventava fra le fiamme. Sbucarono nell'aria fredda della notte, con una scia di scintille che si alzava dal cappotto in fiamme di Josh e dalla criniera e dalla coda di Mulo. L'uomo con la giacca a vento marrone continuò a fissare le mani bendate. «Cos'hai combinato, mentre ti giravo la schiena?» domandò, con l'inflessione strascicata degli stati del profondo sud. Per il momento aveva dimenticato la macchina da stampa. Uno specchio che non rifletteva immagini, un unico chicco di granturco, le mani fasciate... quelle cose lo infastidivano, proprio come il cerchio di vetro, perché non le capiva. E c'era anche dell'altro, qualcosa nella figura distesa per terra. Chi era? Una nullità, si disse. Men che zero. Un pezzo di merda che passava nelle fognature di Mary's Rest. Ma perché sentiva qualcosa di diverso, in quella figura? Qualcosa di... minaccioso. Alzò la destra. Il calore scintillò intorno alle dita; un dito prese fuoco e la fiamma si diffuse. Nel giro d'un secondo, la mano era un guanto di fuoco. Aveva un rimedio assai semplice per le cose che non capiva: le distruggeva. Allungò la mano verso la testa incrostata di escrescenze. «No.» Un sussurro debole. Ma la mano che gli aveva afferrato la caviglia aveva ancora forza. L'uomo con la giacca a vento marrone guardò Rusty, incredulo. E, alla luce della mano fiammeggiante, Rusty vide il viso di quell'essere: rugoso e segnato dalle intemperie, folta barba grigia, occhi d'un celeste così chiaro da sembrare quasi bianco. Si sentì percorrere le ossa da ondate di gelo, per il contatto con la caviglia dello sconosciuto; avrebbe voluto staccare subito la mano, ma il gelo gli irrigidì i nervi e gli impedì di svenire. «No... non toccherai Swan, bastardo.»
L'uomo sorrise lievemente; per un attimo fu un sorriso di compassione, ma subito cambiò. L'uomo abbassò la mano ardente e la chiuse intorno alla gola di Rusty. Il collo di Rusty fu stretto da un cappio di fuoco. L'uomo lo sollevò da terra, mentre Rusty urlava e scalciava; il fuoco si riversò come napalm dalla mano e dal braccio, bruciò capelli e sopracciglia. I vestiti presero fuoco e Rusty capì che sarebbe diventato una torcia umana... e che gli restava solo qualche secondo di vita. E dopo di lui sarebbe toccato a Swan. Inarcò il corpo e lottò, ma capì d'essere finito. L'odore della sua stessa carne bruciata gli ricordò il profumo delle patatine fritte alla fiera dell'Oklahoma, quand'era bambino. La fiamma adesso penetrava fino alle ossa e i nervi cominciarono a sputare il dolore che trattenevano, come se avessero oltrepassato il punto da dove non si torna indietro. Mamma diceva una cosa, pensò Rusty; diceva... diceva... Mamma diceva di combattere il fuoco col fuoco. Rusty abbracciò l'uomo, lo strinse fra i bastoni ardenti che erano oramai le sue braccia, intrecciò le dita dietro la schiena dell'altro. Le dita si fusero insieme come anelli di catena e Rusty spinse il suo viso fiammeggiante contro la barba dell'uomo. La barba prese fuoco. La faccia ribollì, si sciolse, colò come una maschera di plastica fusa, rivelò uno strato più profondo, color della creta da modellare. Rusty e l'uomo rotearono per la stanza in un bizzarro balletto. «Signore Iddio!» gridò uno dei due uomini che si erano fermati sulla soglia a guardare dentro, attirati dalla porta spalancata, mentre si dirigevano alla stalla in fiamme. «Dio onnipotente!» gridò il secondo, arretrando e cadendo a sedere nel fango. Altri accorrevano a vedere che cosa succedeva. L'uomo con la giacca a vento marrone ridotta a stracci in fiamme non riusciva a staccare da sé il morto ardente: il travestimento era rovinato e loro fra poco avrebbero visto il suo vero viso. L'uomo mandò un ruggito confuso che quasi scosse la baracca e corse fuori in mezzo agli astanti. Ruggiva ancora, mentre correva lungo la strada, sulle gambe che si scioglievano, stretto nell'abbraccio di un cowboy carbonizzato. Glory aiutò Josh a togliersi il cappotto in fiamme. Anche la maschera da sci mandava fumo; senza pensarci due volte, la donna gliela strappò.
Escrescenze grigio scuro, alcune grosse quanto il pugno di Aaron, coprivano quasi completamente la faccia e la testa di Josh. I viticci si erano intrecciati intorno alla bocca; l'unica zona sgombra, a parte le labbra, era un cerchio dal quale l'occhio sinistro, ora iniettato di sangue, fissava Glory. Lo stato di Josh non era brutto come quello di Swan, ma costrinse ugualmente Glory ad ansimare e a ritrarsi d'un passo. Josh non aveva il tempo di scusarsi perché non era una bellezza. Corse verso Mulo, che sgroppava selvaggiamente mentre altri spettatori si sparpagliavano, raccolse manciate di neve, afferrò il collo del cavallo e spense le fiamme che gli bruciavano la criniera. Anche Glory aveva preso una manciata di neve e spegneva la coda dell'animale. Aaron cercava di aiutarli; alcuni altri, uomini e donne, raccoglievano neve e strofinavano i fianchi del cavallo. Un tipo magro e scuro di capelli, con una cheloide livida, afferrò il collo di Mulo dall'altro lato e insieme a Josh riuscì a calmare il cavallo quanto bastava perché smettesse di sgroppare. «Grazie» disse Josh all'uomo. Con un ruggito e un'ondata di calore, il tetto della stalla crollò. «Ehi!» gridò una donna, ferma sul ciglio della strada. «C'è casino, laggiù!» Indicava le baracche. Glory e Josh videro gente in strada. Urla e grida d'aiuto giunsero fino a loro. Swan!, pensò Josh. Oh, Dio... ho lasciato Swan e Rusty da soli! Si lanciò di corsa, ma le gambe lo tradirono e cadde. I polmoni cercarono aria, puntini di luce gli turbinarono davanti all'occhio. Qualcuno lo prese per il braccio e lo rialzò. Un altro lo sorresse dall'altra parte e insieme i due lo tennero in piedi. Glory lo reggeva da un lato e dall'altro c'era un vecchio dal viso simile a cuoio screpolato. «Sto bene» disse Josh, ma fu costretto ad appoggiarsi pesantemente a Glory. La donna lo sorresse e lo guidò lungo la strada. Una coperta era stata gettata per terra, a una decina di metri dalla baracca di Glory. Da sotto provenivano volute di fumo. Alcune persone, lì attorno, discutevano e gesticolavano. Altre erano raggruppate davanti alla porta della baracca di Glory. Josh sentì puzzo di carne bruciata e provò una fitta allo stomaco. «Resta qui» disse ad Aaron. Il bambino si fermò, Crybaby stretta in mano. Glory entrò con Josh nella baracca. Si mise la mano davanti alla bocca e al naso. Correnti d'aria calda si agitavano ancora fra le pareti; il soffitto era bruciacchiato e annerito. Josh si fermò davanti a Swan, tremando come un bambino. La ragazza, rannicchiata con le ginocchia contro il petto, giaceva immobile. Josh si chinò a prenderle il polso, ascoltò il battito. La carne era
fredda. Ma il battito c'era... debole, ma costante, simile a un metronomo che nessuno avrebbe potuto fermare. Swan cercò di sollevare la testa, ma non ne ebbe la forza. «Josh?» La voce si udì appena. «Sì» rispose lui. Se la tirò vicino, la cullò contro la spalla. Una lacrima gli bruciò l'occhio e scivolò fra le escrescenze della guancia. «Sono il vecchio Josh.» «Ho... ho avuto un incubo. Non riuscivo a svegliarmi. Lui era qui, Josh. Mi... mi ha trovato.» «Chi ti ha trovato?» «Lui. L'uomo... con l'occhio scarlatto... nel mazzo di carte... di Leona.» Per terra, a qualche passo da lei, c'erano frammenti di vetro scuro. Lo specchio magico, capì Josh. Vide gli stivali da cowboy di Rusty e desiderò di non dover andare a vedere che cosa mandava fumo, sotto la coperta stesa sul fango. «Swan? Devo uscire un attimo» disse. «Cerca solo di riposare, va bene?» La distese sul giaciglio e diede una rapida occhiata a Glory, che aveva visto la pozza di sangue per terra. Si alzò e si costrinse a uscire. «Gli abbiamo buttato addosso della neve» disse uno degli astanti, quando Josh si avvicinò. «Ma non siamo riusciti a spegnere il fuoco. Era troppo sviluppato.» Josh s'inginocchiò, sollevò la coperta. Guardò a lungo, fissamente. Il cadavere sfrigolava, come se sussurrasse un segreto. Le braccia erano staccate dalle spalle. «Ho visto tutto!» disse un uomo, eccitato. «Ho guardato dalla porta e ho visto un demone a due teste girare per la stanza! Dio onnipotente, non ho mai visto una cosa simile! Poi Perry e io ci siamo messi a gridare e quella creatura è corsa dritto contro di noi. Sembrava che lottasse contro se stessa. Poi si è divisa in due e l'altra metà è corsa via da quella parte!» Indicò la strada, nella direzione opposta. «Era un altro uomo in fiamme» spiegò un terzo testimone, con voce più calma. Aveva il naso a becco, la barba scura; parlava con la cadenza del nord. «Ho cercato di aiutarlo, ma si è infilato in un vicolo. Correva troppo forte, per me. Non so dove diavolo sia finito, ma non può essere andato molto lontano.» «Certo!» annuì vigorosamente il secondo uomo. «La pelle gli colava via!»
Josh abbassò la coperta e si alzò. «Mostrami da che parte è andato» disse all'uomo con la pronuncia del nord. Una scia di abiti bruciati svoltava nel vicolo, continuava per una decina di metri, girava a sinistra in un altro vicolo, finiva in un mucchio di stracci inceneriti, dietro una baracca. Non c'era alcun cadavere; le impronte si perdevano nel terreno calpestato. «Forse è strisciato sotto una baracca a morire» disse l'altro. «Non può essere sopravvissuto. Sembrava una torcia!» Per altri dieci minuti ispezionarono la zona, infilandosi perfino sotto alcune baracche, ma non c'era segno di cadaveri. «Dovunque sia, sarà un cadavere nudo» disse l'uomo, mentre rinunciavano alle ricerche e tornavano sulla via. Josh guardò di nuovo Rusty. «Testardo d'un cowboy» mormorò. «Questa volta hai fatto davvero un trucco magico, eh?» Era qui, aveva detto Swan; mi ha trovato. Josh avvolse nella coperta Rusty, sollevò fra le braccia i resti e si alzò. «Portalo al Pozzo!» disse uno. «È li che finiscono tutti i cadaveri.» Josh si avvicinò ai resti del carro dello Spettacolo viaggiante e vi depose Rusty. «Ah-ah, amico!» lo rimproverò una donna tozza, con una cheloide rossa che le copriva mezza faccia e mezza testa. «Attirerà ogni animale selvaggio nel giro di chilometri!» «Lascia che vengano, allora» replicò Josh. Si girò verso gli astanti, li guardò, si soffermò su Glory. «All'alba seppellirò il mio amico.» «Seppellirlo?» Una ragazzina fragile, con i capelli tagliati corti, scosse la testa. «Più nessuno seppellisce i morti!» «Seppellirò Rusty» disse Josh a Glory. «All'alba, in quel campo dove abbiamo trovato Swan. Sarà un lavoro duro. Tu e Aaron potrete aiutarmi, se ne avrete voglia. Altrimenti, va bene lo stesso. Ma che io sia dannato se...» La voce gli si spezzò. «Se lo butto in una fossa!» Si sedette sul bordo del carro, vicino al cadavere, ad aspettare il giorno. Ci fu un lungo silenzio. Poi l'uomo con la cadenza del nord disse a Glory: «Signora? Hai modo d'aggiustare la porta?» «No.» «Be'... ho degli utensili, a casa. Niente di speciale e non li adopero da tempo, però... se non ti dispiace, provo a ripararla.» «Grazie.» Glory era stupita per l'offerta. Da molto tempo nessuno si offriva di fare una cosa qualsiasi, a Mary's Rest. «Ti ringrazio per quel che
riesci a fare.» «Se resti qui fuori al freddo» disse a Josh la donna con la cheloide rossa «è meglio che accendi un fuoco. Qui in strada.» Sbuffò. «Seppellire un cadavere! La cosa più incredibile che abbia mai sentito!» «Ho una carriola» intervenne un altro. «Potrei andare lassù a prendere qualche tizzone ancora acceso. Cioè... ho di meglio da fare, ma... certo è un peccato lasciare che quei buoni tizzoni caldi vadano sprecati.» «Un fuoco mi piacerebbe eccome!» disse un uomo basso, privo d'un occhio. «A casa mia fa un freddo cane! Senti... ho da parte qualche chicco di caffè. Se qualcuno ha una tazza di stagno e la stufa accesa, potremmo farne un poco.» «Andrebbe a meraviglia. Tutta questa eccitazione mi ha reso nervosa come una pulce sulla griglia.» La donna con la cheloide rossa trasse dalla tasca del cappotto un orologino d'oro e con amorevole reverenza guardò a lungo il quadrante. «Le quattro e dodici. La luce non spunterà ancora per cinque ore. Be', se sei deciso a vegliare quel poveraccio, avrai bisogno di un fuoco e di un goccio di caffè caldo. Ho una caffettiera, nel mio palazzo. Non la uso da un pezzo.» Guardò Glory. «Possiamo usarla adesso, se ti va.» Glory annuì. «Sì. Possiamo fare il caffè sulla mia stufa.» «Ho un piccone e una vanga» disse a Josh un uomo dalla barba grigia, con un cappotto a quadri e un berretto di lana marrone chiaro. «La vanga manca di un pezzo di lama, ma verrà utile per seppellire il tuo amico.» «Una volta intagliavo il legno» disse un altro. «Se lo seppellisci, ti servirà una lapide. Come si chiamava?» «Rusty.» Josh si sentì soffocare. «Rusty Weathers.» «E allora?» La donna irritabile si era messa le mani sui fianchi. «Abbiamo da fare, sembra. Piantiamola d'imboscarci e mettiamoci al lavoro.» A meno di cinque chilometri di distanza, Robin Oakes si fermò nel crepuscolo al limitare del fuoco da bivacco dove dormivano i tre bambini. Era armato di fucile e aveva guardato attentamente se gli animali si avvicinavano troppo al fuoco. Ma ora fissò l'orizzonte e chiamò: «Sister! Sister, vieni qui!» A Sister occorse un minuto, prima di arrivare dal suo posto di sentinella dall'altra parte del fuoco. «Che c'è?» «Laggiù.» Sister seguì il dito puntato. Un debole bagliore arancione illuminava il cielo sopra i boschi: sembrava che non dovessero mai finire.
«Credo che sia Mary's Rest. Gentili a fare un fuoco per mostrarci la strada, eh?» «Ah, sicuro.» «Andremo da quella parte, appena ci sarà luce sufficiente. Se teniamo un buon passo, dovremmo farcela in un paio d'ore.» «Bene. Voglio arrivarci al più presto.» «Ci penso io.» Il timido sorriso prometteva una marcia faticosa. Sister si avviò alla sua zona di pattugliamento, ma ebbe un pensiero improvviso e si fermò al limitare del fuoco. Tolse di tasca la bussola CrackerJack, fronteggiò il bagliore all'orizzonte e controllò l'ago. Era molto più spostato verso sudest, tanto che avrebbero mancato Mary's Rest d'una decina di chilometri. Si sarebbero smarriti, se Robin non avesse scorto il bagliore nel cielo. Qualsiasi cosa fosse, era stata una bella fortuna. Continuò la sorveglianza, scrutando nel buio alla ricerca di belve in agguato. Ma la sua mente era fissa su una ragazza di nome Cigno. UNDICI: figlia del ghiaccio e del fuoco Passeggero ospite / L'Imperatrice / Cose che potrebbero esistere / Un mondo di uomini / La maschera spezzata / Il bacio 64 L'alba spuntò fra una densa nebbia, bassa sulle baracche e sui vicoli di Mary's Rest; la processione di un funerale si mosse in silenzio nella bruma. Josh faceva strada e portava in braccio Swan, infagottata in un maglione e un pesante cappotto, con la testa appoggiata contro la spalla di lui. Aveva deciso di non perderla mai più di vista, per paura dello sconosciuto che la notte prima aveva cercato di ucciderla e dato fuoco a Rusty. Qualsiasi cosa fosse... l'uomo con l'occhio scarlatto, un demonio, il Diavolo in persona... Josh avrebbe protetto Swan, fino all'ultimo respiro. Ma Swan tremava di freddo e bruciava di febbre; e Josh non sapeva se sarebbe riuscito a salvarla da quel che la stava uccidendo dall'interno. Pregò Iddio di non fargli scavare presto una seconda fossa. Glory e Aaron, subito dietro Josh, precedevano i due che portavano la bara, costruita alla bell'e meglio con assi di pino, piccola come quelle per bambini: un certo Zachial Epstein, quello che parlava con la cadenza del
nord e che sapeva fare di tutto, e Gene Scully, quello con la barba grigia e il cappotto a quadri. La bara conteneva tutto quel che restava di Rusty Weathers; prima d'inchiodare il coperchio, Josh vi aveva messo anche gli stivali da cowboy. Seguivano altri che avevano vegliato durante la notte il cadavere di Rusty, compresa la donna con la faccia deturpata dalla cheloide — una certa Anna McClay, che aveva lavorato in un luna park dell'Arkansas — e l'uomo che aveva fornito i chicchi di caffè, un certo John Gallegher, che era stato poliziotto nella Louisiana. La ragazzina con i capelli castani tagliati corti non ricordava più il cognome e passava solo per Katie. Il giovanotto che era stato intagliatore di legno a Jefferson City si chiamava Roy Creel e zoppicava dalla gamba sinistra, a causa di una brutta frattura mal curata; reggeva un'asse di pino con la scritta: RUSTY WEATHERS, in lettere adorne di volute. La fila era chiusa da Mulo, che si fermava ogni momento a fiutare l'aria e raspare il terreno. La nebbia ammantava il campo, rasente al terreno; non c'era vento. Il lezzo del laghetto quel giorno sembrava meno intenso, pensò Josh; ma forse significava solo che cominciava ad abituarsi. Camminare nella nebbia era come entrare in un mondo spettrale in cui il tempo si fosse fermato: il campo avrebbe potuto essere il limitare d'una comunità medievale di sei secoli prima. Gli unici rumori erano lo scricchiolio di stivali sulla neve, il fruscio del respiro che subito si condensava nell'aria fredda, il lontano gracchiare di corvi. Josh riusciva a stento a vedere a tre metri. S'inoltrò nella nebbia per un centinaio di passi, prima di fermarsi. Quel posto valeva un altro, si disse, ed era molto migliore del Pozzo. «Va bene qui» dichiarò agli altri. Depose gentilmente Swan a terra, qualche metro più in là. Anna McClay portava il piccone e la vanga. Josh spalò la neve da un rettangolo poco più largo della bara, poi con il piccone iniziò a scavare la fossa di Rusty. Anna si unì a lui e spalò da parte la terra smossa. Per i primi dieci centimetri, il suolo era gelato e argilloso, con una fitta rete di radici che resistevano al piccone. Anna le strappò e le mise da parte, per la minestra. Sotto il primo strato, il terriccio era più scuro, friabile, facile da scavare. Il suo odore intenso ricordò a Josh, bizzarramente, quello di un dolce tolto dal forno e messo a raffreddare sul davanzale della cucina. Quando Josh fu stanco, John Gallagher prese il suo posto, mentre Glory spalava il terriccio. Così si alternarono al lavoro per l'ora seguente, scavando una fossa abbastanza profonda perché gli animali selvatici non la
disturbassero. Quando fu ultimata, Josh, John e Zachial calarono la bara nella terra. Josh guardò la bara di pino. «Be', mi pare che sia tutto» disse, calmo e rassegnato. «Avrei voluto seppellirti sotto un albero, ma tanto non c'è abbastanza sole da gettare ombra. Avevi detto d'avere scavato la fossa per tutti i tuoi amici, accanto ai rottami del treno. Mi pare che questo sia il minimo che un tuo amico possa fare per te. Stanotte hai salvato Swan; non so da chi... o da che cosa... ma lo scoprirò. Te lo prometto.» Alzò gli occhi verso gli altri. «Non ho altro da dire, penso.» «Josh?» Prima di accompagnarlo, Glory era rientrata nella baracca a prendere qualcosa da sotto il materasso; adesso tirò fuori un vecchio libro dalle pagine piene di orecchie. «Era la Bibbia di Jackson» disse, aprendola. «Posso leggere un brano?» «Sì, grazie.» Glory trovò la parte che cercava, in una pagina sgualcita, ormai quasi illeggibile. Cominciò: «Fammi noto, Signore, il mio destino, la misura dei giorni miei, qual sia, perch'io sappia quanto son caduco. Ecco, di un palmo facesti i giorni miei e il mio vivere è un nulla, al tuo cospetto. Ogni mortale non dura che un soffio! L'uomo non è che un'ombra che passa. Tutto il suo agitarsi è vanità: egli raduna, né sa chi raccolga». Posò la mano sulla spalla di Aaron e continuò: «E ora che aspetto, o mio Signore? È tutta in Te la mia speranza. Da tutte le mie colpe dammi scampo, non esporrai all'oltraggio dello stolto. Io sto muto e più non apro bocca, perché Tu sei che facesti. Deh, odi o Signore, la mia preghiera, che mi strugge il gravar della tua mano. Coi castighi il colpevole correggi; consumi, qual tarlo, ciò che ha più caro». In lontananza Josh udì i corvi gracchiare. La nebbia non era disturbata dal vento e Josh riusciva solo a vedere la zona intorno alla fossa di Rusty. «Deh, odi, o Signore, la mia preghiera e porgi al mio gemere, ascolto. Non essere sordo al mio pianto: poiché l'uomo non dura che un soffio. Io non son, presso a Te, che passeggero ospite, come tutti i padri miei; cessa un poco da me, perch'io respiri, prima ch'io me ne vada, e più non sia.» Glory esitò un istante, a testa china, poi chiuse la Bibbia. «Era il Salmo 39» disse. «A Jackson piaceva che glielo leggessi.» Josh annuì, fissò ancora un attimo la bara, poi raccolse la prima palata di terra e la lasciò cadere nella fossa. Quando la fossa fu piena, e la terra ben pressata, Josh piantò nel terreno la lapide di pino. Il giovane intagliatore aveva fatto un buon lavoro, che sa-
rebbe durato parecchio. «Fa un po' freddo qui fuori» disse Anna McClay. «Meglio tornare.» Josh rese a John Gallagher piccone e pala; si avvicinò al posto dove Swan dormiva, avvolta nel cappotto. Mentre si chinava a sollevarla, sentì un gelido soffio di vento. La parete di nebbia si mosse turbinando. C'era un fruscio, nella brezza. Un rumore simile a quello di foglie disturbate, proveniente da un punto imprecisato nella nebbia, alla sua destra. La brezza si affievolì e morì; il rumore cessò. Josh si alzò, guardò in direzione del fruscio. Non c'è niente, laggiù, si disse; siamo in un campo vuoto. «Cosa c'è?» Glory era accanto a lui. «Ascolta» disse Josh, piano. «Non sento niente.» «Andiamo via!» lo chiamò Anna. «Ti gelerai il culo, qui fuori!» L'aria si mosse di nuovo, un alito di vento gelido che attraversò il campo da un angolo diverso. Allora Josh e Glory udirono il fruscio. Josh guardò la donna. «Che cos'è?» Glory non seppe rispondere. Josh si accorse a un tratto che da un po' non vedeva Mulo: il cavallo poteva essere in qualsiasi punto del campo, nascosto dalla nebbia. Josh avanzò d'un passo in direzione del fruscio, che svanì con lo svanire del vento. Ma lui andò avanti e udì Zachial chiamarlo: «Andiamo via, Josh!» Ma lui proseguì e Glory gli andò dietro, con Aaron a fianco. Il vento tornò. Il fruscio diventava più vicino. Josh ricordò un caldo giorno d'estate, quand'era piccolo: se ne stava disteso in un campo d'erba alta, teneva fra i denti uno stelo e ascoltava il vento cantare come un'arpa. La nebbia si faceva a brandelli come una stoffa vecchia. Josh scorse vagamente la sagoma di Mulo, cinque metri più avanti. Udì un nitrito... e si bloccò, perché aveva davanti a sé uno spettacolo meraviglioso. Una fila di piantine, alte più di mezzo metro. Mentre la brezza spazzava la nebbia, le foglie allungate si piegavano e frusciavano. Josh passò con delicatezza il dito lungo uno stelo sottile. La pianta era di un verde assai chiaro, ma sulle foglie c'erano macchie sparse di un rosso che sembrava quasi sangue. «Dio mio» mormorò Glory. «Josh... è granturco nuovo!» E Josh ricordò il chicco avvizzito, stretto nel pugno insanguinato di Swan. Capì che cosa la ragazza aveva fatto, là nel freddo e nel buio.
Il vento prese forza, sibilò intorno alla testa di Josh, agitò le giovani piante di granturco. Scavò buchi nella grigia parete di nebbia. Poi la nebbia cominciò a sollevarsi e l'attimo dopo Josh e Glory videro quasi tutto il campo intorno a loro. Erano in mezzo a parecchie file irregolari e ondeggianti di steli verde chiaro, alti una sessantina di centimetri, tutti chiazzati di quelle che, pensò Josh, forse erano davvero gocce del sangue di Swan, assorbite dal terriccio e dalle radici addormentate. Mulo mordicchiava, esitante, una piantina; alcuni corvi gli roteavano sulla testa, gracchiando indignati. Il cavallo cercò di morderli, poi li inseguì fre le file di piantine, con l'esuberanza d'un puledro. Non so cosa ci sia in quella ragazza, aveva detto Sly Moody, ma ha in sé il potere della vita. Incapace di trovare parole, Josh allungò la mano verso uno stelo e toccò una piccola gemma verde, una futura pannocchia che già si formava nel suo involucro protettivo. Ce n'erano altre quattro o cinque, solo in quello stelo. Amico, aveva detto Sly Moody, questa Swan potrebbe risvegliare la terra intera! Certo, pensò Josh, certo che può risvegliarla. Finalmente capì l'ordine uscito dalle labbra di PawPaw, in quello scantinato buio del Kansas. Udì un grido di esultanza. John Gallagher correva verso di loro. Dietro di lui, venivano Zachial e Gene Scully; Anna, a bocca aperta, era ferma accanto alla ragazzina. John cadde in ginocchio davanti a uno stelo e lo toccò con mani tremanti. «È vivo!» esclamò. «La terra è ancora viva! Oh, Dio... oh, Gesù, avremo di nuovo cibo vero!» «Josh... com'è possibile?» esclamò Glory. Aaron sorrise e con Crybaby toccò una piantina. Josh inspirò a fondo: l'aria gli parve più fresca, più pulita, carica d'elettricità. Guardò Glory e piegò in un sorriso le labbra deformi. «Ti racconterò di Swan» disse, con voce rotta. «Racconterò di lei a tutta Mary's Rest. Swan ha in sé il potere della vita, può risvegliare la terra intera!» Corse verso la figura distesa per terra, la sollevò fra le braccia e la strinse al petto. «Lei può!» gridò. La voce rotolò come tuono verso le baracche di Mary's Rest. «Lei può!» Swan si mosse nel sonno. Aprì la fessura rimasta al posto della bocca e domandò, piano, in tono irritato: «Può cosa?»
65 Il vento si era rinforzato e soffiava da sudest. Portava nei boschi odore di fumo di legna misto a un puzzo amaro, sulfureo, che ricordò a Sister le uova marce. Ben presto lei, Paul, Robin Oakes e i tre piccoli banditi sbucarono in un vasto campo coperto di neve color cenere. Davanti a loro, sotto un velo di fumo che usciva da centinaia di tubi di stufa, c'erano le baracche e i vicoli d'un villaggio. «Ecco Mary's Rest» disse Robin. Si fermò a guardare il campo. «E questo sembra proprio il luogo dove ho visto Cigno e il gigante. Sì, sembra proprio questo.» Sister ne fu sicura. Erano vicini, ora, molto vicini. Aveva i nervi a fior di pelle e voleva correre verso le baracche, ma le gambe doloranti e stanche non glielo consentivano. Un passo alla volta, pensò. Un passo, e quello seguente di porta dove volevi andare. Costeggiarono una pozza fangosa piena di scheletri. Il lezzo sulfureo proveniva da lì; girarono alla larga, mentre passavano davanti. Ma Sister non badava al puzzo, si sentiva come se camminasse in sogno nella vita reale, tonificata e forte, lo sguardo fisso sulle baracche velate di fumo. E si convinse di sognare davvero, perché credette di udire musica di violino. «Guarda laggiù» disse Paul. Lontano, alla loro sinistra, c'era un assembramento di una quarantina di persone che ballavano nella neve, eseguivano antiquati passi di danza e giri di quadriglia intorno a un falò. Un vecchio con uno sbiadito berretto rosso e un cappotto orlato di pelliccia suonava il violino; un nero dalla barba bianca, seduto su una sedia, grattava una pietra sulle costolature dell'asse da bucato stretta fra le ginocchia; un ragazzo giovane pizzicava le corde di una chitarra; una donna robusta batteva una scatola di cartone come se fosse un tamburo. La musica era rozza, ma s'alzava sul campo come scarna sinfonia e invitava i ballerini a pestare i piedi e a girare con grande abbandono fra schizzi di neve sollevati dai tacchi. Alla musica s'univano grida d'allegria e d'esultanza. Da molto tempo Sister non vedeva uno spettacolo simile: una festa campestre, nel cuore d'una terra desolata. Ma la terra non era più desolata: infatti, al di là del falò e dei ballerini, c'erano alcune file di piantine verdi. Paul, colto da timore reverenziale, esclamò : «Mio Dio. Cresce di nuovo qualcosa!» Attraversarono il campo, diretti verso i festaioli e passarono davanti a
una tomba scavata di recente, con una lapide in legno di pino su cui era inciso un nome, RUSTY WEATHERS. Riposa in pace, pensò Sister. Intanto alcuni avevano smesso di ballare e osservavano il loro arrivo. La musica si affievolì e terminò con un ultimo stridio di violino. «Salve» disse un uomo dal cappotto verde, scostandosi dalla donna con cui ballava. Aveva un berretto da baseball dei Braves e il viso quasi completamente segnato da una brutta cheloide marrone. Ma sorrideva, con occhi luminosi. «Salve» rispose Sister. Qui c'erano facce diverse, piene di speranza, allegre, nonostante le cicatrici e le cheloidi che ne deturpavano parecchie, nonostante zigomi sporgenti e occhi infossati che tradivano lunghi periodi di fame, nonostante il pallore della pelle che da sette anni non sentiva la carezza del sole. Sister fissò le piantine verde chiaro, ipnotizzata dal loro ondeggiare nel vento. Paul si chinò a toccarne una, con mano tremante, come se temesse che la fragile meraviglia evaporasse come fumo. «Lei dice di non toccarle» dichiarò il nero con la barba e l'asse da bucato. «Dice di lasciarle stare. Penseranno da sole a crescere.» Paul ritrasse la mano. «È passato... un mucchio di tempo, da quando ho visto crescere qualcosa» si scusò. «Credevo che la terra fosse morta. Cos'è?» «Granturco» rispose un altro. «Gli steli sono spuntati nel giro d'una notte. Ero contadino, credevo anch'io che la terra non fosse buona per la semina, che le radiazioni e il freddo l'avessero uccisa.» Scrollò la testa, rimirando gli steli verdi. «Sono felice d'essermi sbagliato. Certo, non sono ancora robusti, ma qualsiasi cosa cresca in questo terreno... be', è un miracolo.» «Lei dice di lasciarle stare» continuò il nero. «Dice che può seminare un campo intero, se lasciamo maturare queste prime e le sorvegliamo e teniamo lontano i corvi.» «Lei è ammalata, però.» La donna robusta con una cheloide rossa mise da parte la scatola di cartone usata come tamburo. «Brucia di febbre e non ci sono medicine.» «Lei» ripeté Sister. Le parve di udire se stessa come in sogno. «Di chi parlate?» «Della ragazza» rispose Anna McClay. «Si chiama Swan. Sta molto male. Ha quella roba in faccia, anche peggio di te, ed è completamente cieca.» «Swan. Cigno.» Sister si sentì mancare le ginocchia. «È stata lei.» Il nero indicò le piantine di granturco. «Le ha piantate con le sue stesse mani. Lo sanno tutti. Quel Josh non fa che raccontarlo a tutto
il villaggio.» Sorrise a Sister, mettendo in mostra l'unico dente d'oro. «Non è una meraviglia?» concluse, con orgoglio. «E voi da dove venite?» domandò Anna. «Da molto lontano» rispose Sister, sul punto di piangere. «Da molto, molto lontano.» «Dov'è, ora, la ragazza?» Paul avanzò di qualche passo verso Anna McClay. Il debole e ricco profumo degli steli gli sembrava più dolce dell'aroma di qualsiasi bicchiere di whisky. Anna indicò Mary's Rest. «Da quella parte. Nella baracca di Glory Bowen. Non è lontano.» «Accompagnaci da lei. Per favore.» Anna esitò, cercando di leggere nei loro occhi, come soleva fare con i potenziali polli che passavano nel viale centrale del luna park. L'uomo e la donna era forti e decisi, non si sarebbero fatti menare per il naso. Il giovane magro con piume e ossicini nei capelli sembrava un vero duro e i bambini non gli erano da meno: certo sapevano usare il fucile che portavano. L'uomo portava una pistola infilata nella cintura dei calzoni; la donna quasi certamente aveva un'arma nascosta. Ma entrambi avevano negli occhi una luce simile allo scintillio del fuoco sotto la cenere. Josh aveva detto di diffidare, se qualche estraneo chiedeva di Swan. Ma non toccava a lei negare la richiesta. «Venite, allora» disse, dirigendosi alle baracche. Alle loro spalle, il vecchio col violino si scaldò le mani alla fiamma e riprese a suonare; il nero grattò allegramente l'asse da bucato, i balli ripresero. Sister e gli altri seguirono Anna McClay nei vicoli di Mary's Rest. Mentre Sister girava l'angolo, alcuni passi dietro Anna, qualcosa le tagliò la strada, sbucando da un altro vicolo. Sister fu costretta a fermarsi di colpo, per non inciampare e cadere; all'improvviso provò una sensazione di gelo e d'intorpidimento, che parve risucchiarle l'aria dai polmoni. D'istinto estrasse da sotto il cappotto il fucile a pompa e lo puntò contro la faccia maligna dell'uomo seduto in un carrettino rosso da bambini. L'uomo la fissò, con occhi profondamente incassati nelle orbite, e allungò la mano verso la borsa che Sister reggeva sottobraccio. «Benvenuto» disse. Sister udì una serie di click. Gli occhi insondabili dell'uomo guardarono al di là della donna: Paul stringeva in pugno la Magnum, Robin puntava il fucile e i tre bambini seguivano il suo esempio. Tutti i mirini centravano l'invalido sul carrettino rosso. Sister lo guardò negli occhi; lui piegò la testa di lato, allargò il sorriso a
mostrare i denti guasti. Lentamente ritrasse la mano e la posò sui moncherini delle gambe. «Lo chiamiamo signor Benvenuto» spiegò Anna. «È pazzo. Spingetelo da parte.» L'uomo spostò rapidamente avanti e indietro lo sguardo, dal viso di Sister alla borsa. Annuì. «Benvenuto» mormorò. Sister tese il dito sul grilletto. Filamenti di gelo parvero scivolare su di lei, afferrarla, penetrare sotto i vestiti. La canna del fucile era a venti centimetri dalla testa dell'uomo: Sister provò l'impulso di far saltare quella testa odiosa e ghignante. Che cosa avrebbe visto, al di sotto? Carne e ossa... oppure un'altra faccia? Credeva infatti d'avere riconosciuto il luccichio d'astuzia che gli brillava negli occhi, simile a quello d'una belva in paziente attesa del momento migliore per distruggere. Credeva d'avervi scorto qualcosa di un mostro che si era fatto chiamare Doyle Halland. Il dito si contrasse, pronto a sparare, a smascherare la faccia. «Andiamo» disse Anna. «Non morde. Da un paio di giorni gira da queste parti; è pazzo, ma innocuo.» A un tratto l'uomo sul carrettino rosso si riempì i polmoni e lasciò uscire il fiato dai denti serrati, con un sibilo appena percettibile. Alzò il pugno e lo mostrò a Sister: poi tese il dito e glielo puntò alla testa, come un'immaginaria canna di fucile. «Bang» disse. Anna rise. «Vedete? È svitato!» Sister esitò. Sparagli, pensò. Premi il grilletto... appena un po' più forte. Tu sai chi è. Sparagli! Ma... e se si fosse sbagliata? La canna del fucile ondeggiò. E l'occasione passò. L'uomo ridacchiò, borbottò una sorta di cantilena, spinse a braccia il carrettino e le passò davanti. Imboccò il vicolo di sinistra. Sister rimase ferma a guardare l'invalido pazzo. L'uomo non si guardò indietro. «Fa più freddo di prima.» Anna rabbrividì, si alzò il colletto. «La baracca di Glory Bowen è da questa parte.» L'uomo nel carrettino rosso svoltò in un altro vicolo e scomparve. Sister lasciò uscire il fiato trattenuto fino a quel momento. Rimise nel fodero il fucile e seguì l'altra donna, ma si sentì come un nervo messo allo scoperto. Un altro falò bruciava nella via principale di Mary's Rest e gettava tepore e luce su una quindicina di persone. Legato a un palo della veranda c'era il vecchio ronzino più brutto e malfatto che Sister avesse visto; aveva sulla
schiena alcune coperte che lo tenevano caldo e ciondolava la testa come se fosse sul punto di cadere addormentato. Accanto a lui, un bambino nero cercava di tenere in equilibrio sulla punta delle dita una bacchetta contorta. Due uomini armati di fucile, seduti sui gradini, chiacchieravano e bevevano caffè caldo da boccali di terracotta. «Dicono che vogliono vedere la ragazza» riferì Anna a uno dei due, quello con il cappotto a quadri e il berretto beige. «Mi sembrano gente a posto.» L'uomo aveva visto le armi e teneva il fucile sulle ginocchia. «Josh ha detto di non far entrare sconosciuti.» Sister avanzò d'un passo. «Mi chiamo Sister. Lui è Paul Thorson, il giovane è Robin Oakes e per i bambini garantisco io. Se mi dici il tuo nome, non siamo più sconosciuti, no?» «Gene Scully» rispose l'altro. «Siete di queste parti?» «No» disse Paul. «Senti, non vogliamo fare del male a Swan. Vogliamo solo vederla. Vogliamo parlarle.» «Non può parlare. È malata. E ho l'ordine di non far entrare estranei.» «Hai bisogno di una pulita alle orecchie, amico?» Robin, con un sorriso gelido e minaccioso avanzò fra Sister e Paul. «Abbiamo fatto un mucchio di strada. E vogliamo vedere la ragazza.» Scully si alzò, pronto a rivolgere verso di loro la canna del fucile. Accanto a lui, anche Zachial Epstein si alzò, nervoso. Il silenzio si prolungò. Poi Sister serrò i denti e cominciò a salire i gradini: se avessero provato a fermarla, pensò, li avrebbe spediti all'inferno. «Ehi, Anna!» chiamò Aaron all'improvviso. «Vieni a vedere la magia!» La donna gli diede un'occhiata. Il bambino giocava ancora con quella stupida bacchetta. «Dopo» rispose. Aaron si strinse nelle spalle e mosse la bacchetta come se fosse una spada. Anna tornò a occuparsi dei nuovi venuti. «Sentite» disse. «Non abbiamo bisogno d'altra merda, qui in giro. Inutile prendersi per i denti. Gene, perché non vai a chiamare Josh? Digli di uscire a parlare a questa gente.» «Vogliamo vedere Swan.» La collera arrossò il viso di Paul. «Non ci lasciamo respingere da nessuno.» «Chi è Josh?» domandò Sister. «Uno che sta con la ragazza. Si prende cura di lei. La sua guardia del corpo, in un certo senso. Allora? Volete parlare con lui o no?» «Fatelo venire fuori.» «Vai a chiamarlo, Gene.» Anna gli prese il fucile e subito lo puntò sugli
stranieri. «E ora, gente, buttate tutta la ferramenta in un bel mucchio sui gradini, se non vi dispiace. Anche voi, bambini... non sono vostra mamma! Buttateli a terra!» Scully si diresse alla porta. «Un momento!» disse Sister. Aprì la borsa, attirando subito l'attenzione del fucile dell'altra donna; ma mosse la mano lentamente, senza gesti sospetti. Frugò in fondo alla borsa, ne trasse un oggetto e lo porse ad Anna. «Datelo a Josh. Forse per lui ha significato.» Anna corrugò la fronte, ma passò l'oggetto a Scully, che lo prese ed entrò. Attesero. «Avete una bella città, qui» disse Robin. «Cosa chiedono d'affitto, i topi?» Anna sorrise. «Sarai contento che ci sono topi in abbondanza, quando li avrai assaggiati nello stufato, furbone.» «Ce la passiamo meglio noi nella grotta» disse Robin a Sister. «Almeno, abbiamo aria pulita. Questo posto puzza come il vaso da notte di uno che...» La porta si aprì e ne uscì un mostro, con Gene Scully alle calcagna. Robin rimase impietrito a fissarlo, a bocca aperta, perché non aveva mai visto un essere così brutto. Il gigante era grosso quanto tre uomini messi insieme. «Gesù» mormorò Paul e non riuscì a reprimere un moto di repulsione. L'unico occhio dell'uomo si puntò su di lui per qualche istante, poi si spostò su Sister. Sister non si mosse. Mostro o no, nessuno le avrebbe impedito di vedere Swan. «Dove l'hai trovata?» domandò Josh, reggendo l'oggetto datogli da Scully. «Nel parcheggio d'un vecchio K-Mart. In una cittadina del Kansas chiamata...» «Matheson» la interruppe Josh. «Ci sono stato, parecchio tempo fa. Questa apparteneva a un'amica. Ma... ci siamo già conosciuti?» «No. Paul e io viaggiamo da anni, cercando qualcuno. E credo che la persona verso la quale siamo stati guidati si trovi in questa casa. Ci permetti di vederla?» Josh guardò di nuovo l'oggetto: una carta dei tarocchi di Leona Skelton, con i colori sbiaditi, i bordi arricciati e ingialliti. La leggenda diceva: L'IMPERATRICE. «Sì» disse Josh. «Ma solo tu e l'uomo.» E aprì la porta per farli entrare.
66 «Sei sicuro?» disse Glory a Josh, mentre quest'ultimo chiudeva la porta. Rimestava sulla stufa la minestra di radici e guardò con diffidenza i due estranei. «Non mi piace il loro aspetto.» «Chiedo scusa» disse Paul. «Stamattina ho lasciato lo smoking in tintoria.» La stanza odorava di sassofrasso e la stufa mandava un mucchio di calore. Alla luce fumosa d'un paio di lumi, Paul e Sister videro per terra macchie che parevano di sangue. «Ieri notte abbiamo avuto guai» spiegò Josh. «Per questo dobbiamo stare attenti agli stranieri che chiedono di Swan.» Sister rabbrividì, nonostante il piacevole tepore della stanza. Pensava all'invalido ghignante nel carrettino rosso. Se era proprio lui, allora poteva avere qualsiasi faccia. Qualsiasi. Rimpianse di non avere colto l'occasione, di non avergli fatto saltare dal cranio la maschera per vedere che cosa si nascondeva al di sotto. Josh alzò lo stoppino d'un lume ed esaminò di nuovo il tarocco. «Così l'avete trovato a Matheson. D'accordo. Ma come ha fatto, questa carta, a guidarvi qui?» «Non è stata la carta. Dimmi, da qualche parte esiste un albero fiorito, sul cui tronco è inciso a fuoco il nome Swan? Ricordo il profumo di mele. C'è un melo in fiore?» «Sì. Ma si trova a cento chilometri da qui! È stato Sly Moody a mandarti sulle nostre tracce?» Sister scosse la testa, infilò la mano nella borsa. «Ecco cosa ci ha mandati qui» disse. Tirò fuori il cerchio di vetro. I colori sfavillarono e pulsarono. Glory ansimò, lasciò cadere il mestolo, si portò le mani alla bocca. Le pareti brillarono di luci. Josh fissò il cerchio, colpito dalla sua bellezza; posò sul tavolo la carta con l'Imperatrice. «Chi sei?» chiese piano. «Perché cerchi Swan? E dove hai trovato quell'affare?» «Credo che abbiamo molto da raccontarci» disse Sister. «Voglio sapere tutto di te e di Swan. Voglio sapere ciò che vi è accaduto e voglio raccontarti la nostra storia, anche. Ma ora devo vederla! Per favore.» Con uno sforzo, Josh distolse lo sguardo dal cerchio di vetro e fissò Sister in viso. Guardò a lungo, intensamente; notò i segni delle tribolazioni e della vita dura, ma riconobbe anche la tenacia e la volontà di ferro. Annuì
e precedette Paul e Sister nella stanza accanto. L'unico lume appeso alla parete si rifletteva in un lucido pezzetto di latta e proiettava una luce tenue e dorata. Swan era distesa sulla branda metallica col materasso imbottito di stracci e di giornali. Era avvolta in parecchie coperte donate da gente diversa. Teneva il viso girato lontano dalla luce. Josh si accostò al letto, sollevò le coperte e con gentilezza toccò la spalla di Swan. La ragazza ardeva ancora di febbre, eppure rabbrividì e si rannicchiò nelle coperte. «Swan? Mi senti?» Aveva il respiro rauco. Sister cercò la mano di Paul e la strinse. Le sfumature del cerchio di vetro si erano mutate in argento e oro. «Swan?» sussurrò Josh. «Due persone sono venute a trovarti.» Swan udì la voce di Josh che la chiamava da un paesaggio d'incubo in cui uno scheletro sopra un cavallo d'ossa mieteva un campo di spighe umane. Il dolore le percorse i nervi e le ossa del viso. «Josh? Rusty... dov'è Rusty?» «Te l'ho detto. L'abbiamo sepolto stamattina, nel campo.» «Oh. Adesso ricordo.» La voce, fievole, andava di nuovo alla deriva verso il delirio. «Di' alla gente... di badare al granturco. Di tenere lontano i corvi. Ma... di non toccarlo ancora, Josh. Diglielo!» «Gliel'ho detto. Fanno come vuoi tu.» Con un gesto chiamò più vicino Paul e Sister. «Ci sono due persone che vogliono vederti. Hanno fatto un mucchio di strada.» «Chi... sono?» «Un uomo e una donna. Qui accanto al letto. Ti senti di parlare con loro?» Swan cercò di concentrarsi sulle parole di Josh. Intuiva la presenza di qualcuno in attesa. E c'era anche altro. Non sapeva che cosa fosse, ma si sentì formicolare la carne alla prospettiva d'un tocco. Nella mente era di nuovo bambina, guardava affascinata la luce delle lucciole che brillavano contro la rete metallica. «Sì» disse. «Mi aiuti a mettermi seduta?» Josh sistemò il guanciale in modo da sorreggerla e si scostò dalla branda. Paul e Sister videro per la prima volta la testa di Swan, coperta d'escrescenze. Gli occhi non c'erano più, restavano solo due fessure in corrispondenza delle narici e della bocca. Era la Maschera di Giobbe più orribile che Sister avesse mai visto, peggiore perfino di quella di Josh. Sister represse un brivido. Paul trasalì, chiedendosi come facesse a respirare e a mangiare, con quell'orrenda incrostazione.
«Chi c'è?» mormorò Swan. «Mi chiamo...» Sister perdette la voce. Era spaventata da morire. Poi drizzò le spalle, inspirò a fondo e si accostò alla branda. «Chiamami pure Sister» disse. «Con me c'è un uomo di nome Paul Thorson. Ti abbiamo...» Diede una rapida occhiata a Josh, tornò a guardare la ragazza. Swan teneva la testa piegata da un lato, ascoltava attraverso un minuscolo foro all'altezza dell'orecchio. «Ti abbiamo cercata a lungo. Per sette anni. Ti abbiamo mancata a Matheson e forse anche in altri luoghi, senza saperlo. Ho trovato una bambola che ti apparteneva. La ricordi?» Swan la ricordava. «La mia Cookie Monster. L'ho perduta a Matheson. Le volevo bene, quand'ero piccola.» Sister doveva ascoltare con molta attenzione, per capire tutte le parole. «Mi dispiace di non avertela portata, ma non ha resistito al viaggio.» «Non importa» disse Swan. «Non sono più una bambina.» A un tratto sollevò la destra fasciata e tastò l'aria per toccare il viso della donna. Sister si ritrasse, ma poi capì che Swan voleva solo rendersi conto del suo aspetto. Prese con delicatezza il polso sottile e guidò la mano sul suo viso. Il toccò di Swan era soffice come fumo. Le dita si fermarono, quando incontrarono le escrescenze. «Anche tu l'hai presa.» Le dita seguirono la guancia sinistra di Sister, scesero lungo il mento. «Sembra una strada di pietre.» «E vero. Un medico nostro amico la chiama "la Maschera di Giobbe".» Toccò la fronte di Swan, ritrasse in fretta la mano. Scottava talmente di febbre da bruciare le dita. «Ti fa male?» domandò. «Sì. Una volta non faceva così male, ma ora... è un dolore continuo.» «Come a me. Quanti anni hai?» «Sedici. Josh tiene il conto dei miei compleanni. E tu?» «Ho...» Sister non lo ricordava: lei non aveva tenuto il conto dei compleanni. «Vediamo, ero sui quarantacinque, il 17 luglio. Adesso dovrei essere sulla cinquantina. Uno o due anni oltre i cinquanta, cioè. Mi sento come se ne avessi già ottanta.» «Josh ha detto... che hai fatto un mucchio di strada per vedermi.» La testa di Swan pesava molto e la ragazza era già stanchissima. «Perché?» «A dire il vero, non lo so» ammise Sister. «Ma ti ho cercata per sette anni a causa di questo.» E mise davanti al viso di Swan il cerchio di vetro con l'unica punta rimasta. Swan si sentì formicolare la pelle. Una luce sfavillante le colpì gli occhi sigillati. «Cos'è?»
«Credo che sia... un mucchio di cose fuse insieme in un cerchio di vetro tempestato di pietre preziose. L'ho trovato il 17 luglio, a New York. Credo che sia un cerchio di miracoli, Swan. Credo che sia un dono... come un magico corredo di sopravvivenza. O un cerchio di vita. Forse poteva trovarlo chiunque, o forse solo io. Non so. Ma so che ci ha guidati fino a te. Vorrei sapere per quale motivo. Posso dire solo che tu sei molto particolare, Swan. Ho visto il granturco crescere, in quel campo dove niente vivrebbe. In questo cerchio di vetro ho visto l'albero in fiore, con il tuo nome impresso a fuoco nel tronco.» Si sporse verso di lei, con il cuore che batteva forte. «Credo che tu abbia ancora del lavoro da fare. Un lavoro molto importante, sufficiente a riempire un'intera vita. Dopo avere visto il granturco crescere là fuori... credo di sapere quale sia.» Swan ascoltava con attenzione. Non si sentiva affatto speciale, solo stanca; e la febbre la trascinava di nuovo in quel luogo orribile dove la falce insanguinata mieteva la messe d'uomini. E poi capì appieno quel che Sister aveva detto: «Un cerchio di miracoli... fusi insieme in un cerchio di vetro tempestato di pietre preziose.» Pensò all'immagine vista nello specchio magico, alla figura che portava il cerchio di luce. La figura, capì, era la donna che adesso stava accanto al suo letto e quel che portava era finalmente arrivato. Swan tese le mani verso la luce. «Posso... toccarlo?» Sister diede un'occhiata a Josh, in piedi dietro Paul. Dall'altra stanza era venuta anche Glory. Josh non capiva che cosa succedesse, tutte quelle parole sul cerchio di miracoli trascendevano la sua comprensione... ma aveva fiducia in quella donna e annuì. «Tieni.» Sister mise il cerchio fra le mani di Swan. Le dita della ragazza si strinsero intorno al vetro. C'era calore, nel vetro, un calore che cominciò a diffondersi nelle sue mani, nei polsi, nelle braccia. Sotto le bende, la carne escoriata delle mani cominciò a prudere, a bruciare. «Oh» esclamò Swan, più di sorpresa che di dolore. «Swan?» Josh, allarmato, venne avanti d'un passo. Il cerchio di vetro diventava più luminoso, pulsava più rapidamente. «Stai be...» Il cerchio splendette come una nova dorata. Per qualche secondo tutti rimasero accecati, come se la stanza fosse illuminata da milioni di candele. A Josh venne in mente l'esplosione davanti al negozio di PawPaw. Un dolore lancinante attraversò le mani di Swan, parve saldarle al vetro le dita e le fluì nelle ossa. Swan aprì la bocca per gridare, ma subito l'atroce sofferenza passò e nella mente le rimasero scene più belle di qualsiasi
sogno: campi di granturco dorato e di grano, frutteti dove gli alberi si piegavano sotto il peso dei frutti, prati fioriti e foreste verdeggianti increspate dalla brezza. Le immagini si riversarono come da una cornucopia, così vivide che Swan sentì il profumo d'orzo, di mele, di prugne, di ciliegi in fiore. Vide i soffioni volare nel vento, foreste di querce lasciar cadere le ghiande sul muschio, aceri far colare la linfa zuccherina, girasoli spuntare dal terreno. Sì, pensò Swan, mentre le immagini continuavano a mondarle la mente in vividi disegni di colore e di luce: il mio lavoro. Ora so qual è il mio lavoro. Josh fu il primo a riprendersi dal lampo di luce. Vide che le mani di Swan erano avvolte da fuoco dorato, che le fiamme le lambivano le braccia. Swan brucia, pensò. Inorridito, spinse da parte Sister e afferrò il cerchio infuocato per strapparglielo. Ma appena le sue dita sfiorarono il vetro, fu scagliato via con forza tale da sollevarlo in aria, prima di sbattere contro la parete, evitando per un pelo di fracassare tutte le ossa a Paul. La forza dell'urto lo lasciò senza fiato: Josh crollò a terra, intontito dal peggior colpo che avesse ricevuto, da quando undici anni prima Haystacks Muldoon l'aveva sbattuto giù dal ring a Winston-Salem. Quella maledetta cosa mi ha respinto, pensò, appena riuscì di nuovo a connettere. Si rialzò con fatica. Il cerchio ardente, si rese conto, era rimasto fresco, sotto le sue dita. Ancora mezzo accecata, anche Sister vide il fuoco bizzarro strisciare lungo le braccia di Swan. La lingua di fiamma schioccò come una frusta srotolata e si attorcigliò intorno alla testa della ragazza. Il fuoco, senza rumore né calore, aveva già velato il viso e la testa di Swan, prima che Josh si rialzasse. Swan, muta, giacque immobile; ma udiva uno sfrigolio di sottofondo alle fantastiche scene che continuavano a turbinarle nella mente. Sister fu sul punto d'afferrare lei stessa il cerchio di vetro; mentre allungava la mano, Josh avanzò a passo di carica verso la branda, quasi sbatté Sister contro la parete, piantò i piedi per terra e si preparò a sopportare la scossa. Questa volta il cerchio si staccò agevolmente dalle mani di Swan. Mentre Josh si girava per fracassarlo contro la parete, Sister urlò: «No!» e l'assalì come una gatta selvatica. «Fermi!» gridò Paul. «Guardatela!» Josh tenne Sister a distanza d'un braccio e girò di scatto la testa verso
Swan. Le fiamme dorate che le coprivano le mani già si spegnevano. Le bende erano annerite. Sotto i loro occhi, il fuoco — o quel che aveva l'apparenza di fuoco — veniva risucchiato dentro la Maschera di Giobbe come liquido in una spugna secca. Le fiamme s'incresparono, lampeggiarono, scomparvero. Sister strappò a Josh il cerchio e si allontanò da lui. Josh andò a fianco di Swan, le mise la mano sotto le spalle, la sollevò, le sostenne la testa. «Swan!» Era terrorizzato. «Swan! Rispondi!» Swan rimase muta. «L'hai uccisa!» gridò Glory a Sister. «Dio onnipotente, l'hai uccisa con quella maledetta cosa!» Si precipitò accanto al letto, mentre Sister arretrava ancora verso la parete più lontana. Aveva le vertigini, gli occhi le bruciavano per l'esplosione di luce. Ma Josh sentì il cuore di Swan battere come le ali d'un passero appena catturato e chiuso in gabbia. Cullò fra le braccia la ragazza, pregando che quello shock non fosse la goccia fatale. Scoccò un'occhiata feroce a Sister e a Paul. «Mandali fuori di qui!» disse a Glory. «Chiama Anna! Dille di rinchiuderli da qualche parte! Mandali fuori prima che li uccida con le mie...» Swan alzò la mano, la posò sulle labbra di Josh per zittirlo. Sister fissò il cerchio di vetro: i colori erano sbiaditi, alcune gemme erano diventate color ebano, come minuscoli pezzetti di carbone oramai bruciati. Ma i colori si ravvivavano di nuovo, quasi traessero energia dal suo stesso corpo. Glory l'afferrò per il braccio, per tirarla fuori della stanza, ma Sister si liberò. Allora Glory uscì a chiamare Anna McClay, che arrivò impugnando il fucile, pronta a intervenire. «Portateli fuori!» gridò Josh. «Toglietele quella robaccia!» Anna allungò la mano verso il cerchio. Il pugno di Sister fu più rapido: colpì l'altra donna, con rumore di martello su un'asse di legno. Anna McClay cadde a terra, con il naso sanguinante; si rialzò e puntò il fucile a bruciapelo contro la testa di Sister. «Smettetela!» disse Swan all'improvviso, con voce debole. Aveva udito le grida, il trapestio, il rumore del pugno. Le scene meravigliose che le avevano infiammato la fantasia cominciarono a svanire. «Smettetela» ripeté. Nella voce le tornava la forza. «Basta con le liti.» «Hanno tentato di ucciderti con quel coso!» esclamò Josh. «No, non è vero!» protestò Paul. «Siamo venuti solo per vederla. Non
volevamo farle male!» Josh non gli badò. «Stai bene?» domandò a Swan. «Sì. Sono solo stanca. Josh... quando ho tenuto in mano il cerchio... ho visto cose bellissime. Cose fantastiche!» «Quali cose?» «Cose... che potrebbe esistere di nuovo. Se vorrò farle esistere. Se lavorerò duramente.» «Josh?» Anna aveva una voglia matta di cacciare un proiettile in corpo a quella vecchia cenciosa che l'aveva stesa. Con il dorso della mano si pulì il naso sanguinante. «Vuoi che li chiuda da qualche parte?» «No!» disse Swan. «Lasciateli in pace. Non volevano farmi male.» «Sarà, ma questa puttana a me ha fatto male di sicuro! Cerdo d'avere il naso rotto.» Josh appoggiò sul guanciale la testa di Swan. Provava al viso una sensazione bizzarra — di prurito e di bruciore — dove le dita di Swan l'avevano toccato. «Sei sicura di stare bene?» domandò. «Non voglio che tu sia...» E poi le guardò le mani e la voce gli mancò. «Non cercare di nasconderlo se... sei...» Le bende, annerite e unte, si erano allentate. Josh intravide carne rosea. Le prese gentilmente la mano e cominciò a disfare la fasciatura. La stoffa, rigida, si rompeva con lievi scricchiolii. Sister scostò la canna del fucile e si avvicinò alla branda. Anna non tentò di fermarla, perché avanzò anche lei a guardare. Con movimenti nervosi, Josh tolse con cura parte delle bende, che si staccarono portando via brandelli di pelle morta e lasciarono vedere la carne d'un rosa vivido, in via di guarigione. «Cosa c'è?» disse Swan. «Va tutto bene?» Josh tolse pezzi dell'altra fasciatura. Le bende si sbriciolarono come cenere; sul polso di Swan, la pelle era rosea, pulita, priva di segni. Josh sapeva che sarebbe occorsa almeno una settimana perché le ferite mettessero la crosta e forse un mese perché guarissero. Aveva temuto soprattutto che s'infettassero e che le mani di Swan rimanessero rovinate per sempre. Ma ora... Premette le dita contro il palmo roseo. «Ahi!» disse Swan, ritraendo la mano. «Fa male!» Le mani le formicolavano, le bruciavano, erano calde come se fossero scottate dal sole. Josh aveva paura di togliere via il resto delle bende, perché non voleva lasciare esposta la pelle ancora tenera. Guardò Glory, in piedi al suo fianco, poi Sister. Lo sguardo gli cadde sul
lucente cerchio di vetro che la donna proteggeva fra le mani. Un cerchio di miracoli, aveva detto Sister. E Josh ne fu sicuro. Si alzò. «Abbiamo molte cose da dirci, credo» dichiarò. «Sì» convenne Sister. «Credo proprio di sì.» 67 Il grido del Signore scosse le pareti della roulotte. La donna che giaceva sul materasso privo di lenzuola, avvolta in una ruvida coperta, mandò un gemito nel sonno torturato. Rudy strisciava di nuovo nel suo letto e reggeva un neonato con la testa schiacciata; la donna scalciò, ma la bocca imputridita di Rudy sogghignò. «Su, Ssssheyla» la rimproverò, con voce che sibilava dallo squarcio livido alla gola. «Tratti così un vecchio amico?» «Vattene!» urlò lei. «Vattene! Vattene via!» Ma lui, con la sua pelle viscida, si strusciava su di lei. Gli occhi, rotolati dentro la testa, lasciavano due fori putridi che gli butteravano la faccia. «Ah» disse «non fare così, Sheila. Siamo stati felici, insieme. Non puoi cacciarmi a calci dal tuo letto. Accogli chiunque, ultimamente, non è vero?» Le tese il neonato dalla pelle livida. «Vedi?» continuò. «Ti ho portato un regalo.» E nella testa maciullata la bocca minuscola si aprì e lasciò uscire un gemito; Sheila Fontana s'irrigidì, si tappò le orecchie; dagli occhi spalancati, fissi, usciva un fiume di lacrime. I fantasmi si frammentarono e turbinarono via. Sheila rimase da sola con le sue stesse urla che echeggiavano nella lurida roulotte. Ma il grido del Signore continuò, accompagnato stavolta da pugni alla porta. Dall'esterno, una voce gridò: «Piantala, pazza maledetta! Vuoi svegliare anche i morti?» Le lacrime le colarono sul viso e la nausea le sconvolse lo stomaco; la roulotte già puzzava di vomito e di fumo di sigaretta stantio; e accanto al materasso c'era il secchio in cui lei faceva i bisogni durante la notte. Sheila non riusciva a smettere di tremare, si sentiva mancare il fiato. Cercò a tentoni la bottiglia di vodka che doveva essere per terra accanto al letto, ma non riuscì a trovarla e gemette ancora di rabbia. «Forza, apri la maledetta porta!» Judd Lawry picchiava alla porta, con il calcio del fucile. «Lui ti vuole!» Sheila impietrì, stringendo finalmente le dita intorno al collo della bottiglia mezzo piena. Vuole me, pensò. Le parve che il cuore le tirasse un cal-
cio. Vuole me! «Hai sentito cos'ho detto? Mi ha mandato a prenderti. Su, muovi il culo e vieni!» Sheila strisciò giù dal letto e si mise in piedi, bottiglia in una mano e coperta nell'altra. La roulotte era fredda; una luce rossastra proveniva dal falò acceso all'esterno. «Rispondi, se capisci le parole!» gridò Lawry. «Sì» disse Sheila «ho sentito. Vuole me.» Tremava tutta. Lasciò cadere la coperta per togliere il tappo alla bottiglia. «Muoviti, allora! E mettiti un po' di profumo, stavolta, ha detto!» «Sì. Vuole me. Vuole me.» Bevve un sorso, tappò la bottiglia, cercò i fiammiferi, accese il lume e lo posò sulla toeletta accanto allo specchio incrinato appeso alla parete. Sulla toeletta c'era una foresta di boccette per il trucco ormai asciutte, rossetti, flaconi di profumo da tempo evaporato, vasetti di crema e spazzolini per il mascara. Incollate con nastro adesivo allo specchio c'erano fotografie ingiallite di modelle dal viso fresco, ritagliate da vecchi numeri di Glamour e di Mademoiselle. Sheila posò accanto al lume la bottiglia di vodka e si sedette. Lo specchio le restituì l'immagine del viso. Gli occhi sembravano pezzetti di vetro opaco infossati in una rovina malsana e piena di rughe. Gran parte dei capelli era passata dal nero a un grigio giallastro; in cima alla testa s'intravedeva il cuoio capelluto. Le labbra tirate e contornate da rughe profonde sembravano trattenere l'urlo che non osavano emettere. Sheila si scrutò negli occhi. Trucco, decise. Certo. Ho bisogno di un po' di trucco. Aprì una boccetta per spalmarsi sul viso il contenuto, come se fosse un balsamo medicamentoso, con mani che tremavano, perché voleva farsi bella per il colonnello. Era stato gentile con lei, ultimamente; l'aveva chiamata alcune volte, le aveva dato alcune preziose bottiglie di liquore provenienti da un negozio abbandonato. Vuole me, si disse, passandosi sulle labbra il rossetto. Di solito il colonnello preferiva le altre due donne che dividevano con lei la roulotte, ma Kathy si era trasferita con il capitano e Gina, una notte, si era portata a letto una .45, con il risultato che lei doveva arrangiarsi da sola a guidare il camioncino di traino e a guadagnarsi la benzina, il cibo e l'acqua necessari a mantenere in vita il motore suo e del camion. Conosceva la maggior parte delle altre DDC, le Dame di Compagnia che seguivano l'Esercito d'Eccellenza nel loro convoglio di camion, di auto e di camper; moltissime avevano malattie, alcune erano
ragazzine con occhi da vecchia, poche amavano la professione e parecchie cercavano il "sogno dorato": un ufficiale dell'EDE che le prendesse con sé e garantisse rifornimenti in quantità e un letto decente. È un mondo di uomini, pensò Sheila. Non era mai stato così vero come adesso. Ma lei era felice, perché l'invito nella roulotte del colonnello significava che non avrebbe dormito da sola e per qualche ora almeno Rudy non sarebbe strisciato nel suo letto portandole il macabro dono. Rudy era stato uno schianto, da vivo. Ma da morto era una vera rottura di palle. «E sbrigati!» gridò Lawry. «Fa freddo, qui fuori!» Sheila terminò di truccarsi e si spazzolò i capelli, anche se non le piaceva pettinarsi, perché li perdeva a ciocche. Poi esaminò le varie boccette di profumo, in cerca di quello appropriato. Quasi tutte le etichette si erano ormai scollate, ma trovò la particolare boccetta che cercava e si spruzzò sul collo alcune gocce di profumo. Ricordava l'avviso pubblicitario letto su Cosmopolitan molto tempo prima: "Ogni uomo vivo adora Chanel N 5". Indossò in fretta un maglione rosso scuro a coprire i seni cascanti, s'infilò un paio di jeans e gli stivaletti. Non aveva il tempo di smaltarsi le unghie, ma tanto erano tutte rosicchiate. Si mise addosso la pelliccia appartenuta a Gina. Diede un'ultima occhiata allo specchio per controllare il trucco. Vuole me, pensò. Spense il lume, andò alla porta, tolse il catenaccio e aprì. Judd Lawry, con la barba tagliata corta e intorno alla fronte un fazzoletto di seta dai colori vìvaci, le scoccò un'occhiata d'astio e scoppiò a ridere. «Gesummio!» esclamò. «Hai mai sentito parlare di un film intitolato La sposa di Frankenstein?» Sheila non gli rispose. Pescò dalla pelliccia la chiave e serrò la porta. Lawry la criticava in continuazione e lei lo odiava: ogni volta che lo guardava, udiva il pianto di neonato e il rumore del calcio di fucile che colpiva la carne innocente. Gli passò davanti e si diresse alla roulotte Airstream color argento, quartier generale del colonnello Macklin, alla periferia occidentale di quella che era stata Sutton, nel Nebraska. «Certo che mandi un buon odore» disse Lawry, seguendola fra roulotte, camioncini, automobili e tende dell'Esercito d'Eccellenza. La luce dei fuochi di bivacco scintillò sulla canna dell'M-16 che lui portava a tracolla. «Puzzi come una piaga aperta. Da quanto tempo non fai il bagno?» Sheila non lo ricordava nemmeno. Fare il bagno consumava acqua e lei
non ne aveva da sprecare. «Non so perché voglia proprio te» continuò Lawry, camminandole alle calcagna. «Potrebbe avere una DDC più giovane, e magari carina. Una che fa il bagno. Sei un allevamento ambulante di pidocchi.» Sheila lo ignorò. Lui la odiava perché non gli aveva mai permesso di toccarla, neppure una volta. Aveva accettato chiunque pagasse con benzina, cibo, acqua, gioielli, sigarette, abiti, liquori... ma non sarebbe andata a letto con Judd Lawry neppure se al posto dell'uccello avesse avuto una pompa di benzina. Anche in un mondo di uomini, una donna aveva il suo orgoglio. Lawry ancora la sgridava, quando Sheila passò fra due tende e quasi andò a sbattere contro una roulotte tozza e quadrata, dipinta di nero. Si fermò di colpo. Lawry rischiò di travolgerla, ma smise di tormentarla. Tutt'e due sapevano bene che cosa avveniva dentro la roulotte nera di Roland Croninger... il "centro d'interrogatorio" dell'EDE. La sua vicinanza faceva venire in mente le storie sui metodi d'inquisizione del capitano Croninger. Sheila riprese per prima il sangue freddo. Passò davanti alla roulotte con i finestrini chiusi da fogli di lamiera e continuò verso il quartier generale del colonnello. Lawry la seguì in silenzio. L'Airstream, agganciata alla motrice di un autotreno diesel, era circondata da sei guardie armate. A intervalli regolari brillavano fuochi accessi in bidoni di petrolio. Quando Sheila si avvicinò, una guardia infilò la mano sotto il cappotto e la posò sulla pistola. «Tutto a posto» disse Lawry. «Lui l'aspetta.» La guardia si rilassò e li lasciò passare. Salirono gli scalini di legno, adorni d'intagli intricati, che portavano alla porta dell'Airstream. La scaletta di soli tre gradini aveva perfino la ringhiera, nella quale erano scolpite grottesche facce di demoni con la lingua penzoloni, figure umane nude e contorte, mostri deformi. Il soggetto era da incubo, ma la lavorazione era assai ben fatta: facce e figure, eseguite da mani esperte nell'intaglio, erano levigate con la cartavetrata e lucidate a specchio. Imbottiture di velluto rosso erano inchiodate sui tre gradini, come se portassero al trono d'un imperatore. Sheila vedeva per la prima volta la scaletta, ma Lawry sapeva che era un dono recente dell'uomo che si era unito all'EDE qualche tempo prima, a Broken Bow. L'immediata nomina a caporale di Alvin Mangrim aveva irritato Lawry, che si chiedeva anche come avesse fatto, quel nuovo venuto, a farsi sbranare il naso. Lawry aveva visto Alvin al lavoro con la Brigata Meccanici e in giro in compagnia di un nano che chiamava "Folletto": un altro figlio di puttana
al quale lui preferiva non girare mai le spalle. Bussò alla porta. «Avanti» disse la voce rauca del colonnello Macklin. Entrarono. L'ingresso era illuminato da un'unica lampada a petrolio che ardeva sulla scrivania di Macklin. Il colonnello, seduto a tavolino, studiava delle cartine geografiche. Il braccio destro era appoggiato sul piano del tavolo, come un'appendice dimenticata, ma il palmo guantato di nero della nuova mano era rivolto verso l'alto e la luce della lampada traeva riflessi dalla punta acuminata dei chiodi. «Grazie, tenente» disse Macklin, senza alzare.il viso coperto dalla maschera di cuoio. «Puoi andare.» «Signorsì.» Lawry scoccò a Sheila un'occhiata beffarda, uscì dalla roulotte e chiuse la porta. Macklin era occupato a calcolare la velocità di marcia fra Sutton e Nebraska City, dove contava di far attraversare all'Esercito d'Eccellenza il fiume Missouri. Ma le provviste scemavano di giorno in giorno e l'EDE non aveva più compiuto una buona scorreria, da quando aveva distrutto l'esercito di Franklin Hayes a Broken Bow. Tuttavia i ranghi dell'EDE continuavano a ingrossarsi, a mano a mano che da villaggi ormai morti arrivavano sbandati in cerca di rifugio e di protezione. L'EDE aveva abbondanza di manodopera, d'armi e di munizioni; ma iniziava a scarseggiare il grasso che fa girare le ruote. Le macerie di Sutton fumavano ancora, quando, sul far della notte, erano arrivati i primi veicoli corazzati dell'EDE. Tutta la roba di valore era già sparita, perfino i vestiti e le scarpe dei cadaveri. C'erano segni dell'uso di bombe a mano e di bottiglie Molotov; a est, sul limitare delle macerie incendiate, si vedevano i segni caratteristici dei veicoli pesanti e le impronte di soldati che si allontanavano nella neve. Macklin aveva capito che un altro esercito, forse numeroso quanto l'EDE, se non di più, lo precedeva verso est, saccheggiava i villaggi e s'impadroniva delle provviste indispensabili alla sopravvivenza dell'EDE. Roland aveva visto nella neve macchie di sangue e aveva dedotto che un certo numero di soldati feriti si sforzava di stare al passo con il grosso dell'esercito. Aveva suggerito che una piccola squadra di ricognizione andasse a catturare alcuni sbandati, da portare lì e interrogare. Il colonnello Macklin era stato d'accordo; Roland aveva preso con sé il capitano Braden, il sergente Ulrich e alcuni altri soldati ed era partito con un camion corazzato. «Siedi» disse Macklin a Sheila.
La donna entrò nel cerchio di luce. Si sedette davanti alla scrivania, nella sedia preparata per lei. Era nervosa, incerta: nelle precedenti occasioni, il colonnello l'aveva aspettata già a letto. Macklin continuò a lavorare con mappe e cartine. Indossava l'uniforme con l'emblema dell'EDE sul taschino della giubba e quattro strisce di filo d'oro sulle spalline per indicare il grado. In testa aveva un berretto di lana grigia; la maschera di cuoio nero gli copriva tutta la faccia tranne l'occhio sinistro. Da alcuni anni Sheila non l'aveva più visto a viso scoperto, ma non è che le importasse molto. Alle spalle di Macklin c'era una rastrelliera di pistole e di fucili; la bandiera nera, verde e argento dell'EDE era appuntata con cura ai pannelli di pino. Il colonnello continuò a lavorare ancora per qualche minuto, poi alzò la testa. Lo sguardo dell'occhio azzurro la gelò. «Ciao, Sheila.» «Ciao.» «Eri da sola? O avevi compagnia?» «Sola.» Doveva ascoltare attentamente, per capire le parole. Dall'ultima volta, meno di una settimana prima, il suo modo di parlare era peggiorato. «Bene» disse Macklin. «A volte è un bene, dormire da soli. Ci si riposa meglio, non credi?» Aprì una scatola lavorata a filigrana d'argento, che conteneva una ventina di preziose sigarette... non mozziconi bagnati, né tabacco da masticare arrotolato, ma sigarette vere. Le offrì da fumare e Sheila prese subito una sigaretta. «Prendine un'altra» disse lui. Sheila ne prese altre due. Macklin spinse verso di lei una bustina di fiammiferi. Sheila accese la sigaretta e l'aspirò come se fosse ossigeno puro. «Ricordi quando con un bluff ci siamo fatti strada qui dentro?» le domandò. «Tu, io e Roland? Ricordi quando abbiamo fatto l'accordo con Freddie Kempka?» «Sì.» Mille volte aveva desiderato di avere ancora una provvista di coca e di anfetamine, ma era roba assai difficile da trovare, in quei giorni. «Ricordo.» «Io mi fido di te, Sheila. Tu e Roland siete forse i soli di cui mi posso fidare.» Si strinse al petto il braccio destro. «Ci conosciamo troppo bene. Dopo tutte le traversie affrontate insieme, non possiamo non fidarci gli uni degli altri.» Distolse lo sguardo dal viso di Sheila, lo posò sul Soldato Ombra, fermo in piedi alle spalle della donna, proprio al limitare della zona buia. Tornò a guardare Sheila. «Hai intrattenuto parecchi ufficiali, ultimamente?» «Alcuni.»
«Il capitano Hewlitt? Il sergente Oldfield? Il tenente Vann? Qualcuno di loro?» «Mi pare.» Sheila si strinse nelle spalle e increspò le labbra in un lieve sorriso, fra la nebbiolina di fumo. «Vanno e vengono.» «Mi sono giunte voci» disse Macklin. «A quanto pare, alcuni miei ufficiali non sono contenti di come conduco l'Esercito d'Eccellenza. Ritengono che dobbiamo piantare radici, fondare una comunità nostra. Non capiscono perché ci muoviamo a est, e neppure perché dobbiamo cancellare totalmente il marchio di Caino. Non sanno vedere il grande piano, Sheila. Soprattutto i giovani, come Hewlitt e Vann. Li ho nominati ufficiali anche se non ero molto convinto di loro. Avrei dovuto capire prima di che stoffa sono fatti. Be', adesso lo so. Credo che vogliano strapparmi il comando.» Sheila rimase in silenzio. Niente scopata, quella notte; solo una seduta di vaneggiamenti. Ma le andava bene lo stesso: almeno Rudy non l'avrebbe trovata. «Guarda questo» disse Macklin; girò verso di lei una cartina geografica vecchia e sgualcita degli Stati Uniti, strappata da un atlante. I nomi degli stati erano sottolineati e larghe zone erano segnate a matita. Nomi alternativi erano stati scarabocchiati: "Summerland" per la zona che comprendeva Florida, Georgia, Alabama, Mississippi e Louisiana; "Industrial Park", per Illinois, Indiana, Kentucky e Tennessee; "Port Complex", per North Carolina, South Carolina e Virginia; "Military Training" per il sudest e anche il Maine, il New Hampshire e il Vermont. North e South Dakota, Montana e Wyoming erano segnati "Prison Area". E di traverso sull'intera cartina Macklin aveva scritto: "ADI... America dell'Illuminismo". «Questo è il grande piano» disse a Sheila. «Ma per realizzarlo, bisogna distruggere chi non la pensa come noi. E spazzare via il marchio di Caino.» Girò la piantina e la sfiorò con i chiodi. «Bisogna cancellarlo, per dimenticare quel che è accaduto, per lasciarcelo alle spalle. Ma dobbiamo anche prepararci ad affrontare i russi. Manderanno paracadutisti e mezzi da sbarco. Ci credono morti e sepolti, ma si sbagliano.» Si sporse in avanti, conficcando i chiodi nel piano della scrivania pieno di graffi. «Li ripagheremo. Ripagheremo mille volte i bastardi!» Batté le palpebre, mentre il cuore gli batteva all'impazzata. Sotto il bordo dell'elmetto, la faccia del Soldato Ombra, striata di colori mimetici, sorrideva lievemente. Macklin attese che il cuore si calmasse, prima di ri-
prendere la parola. «Non scorgono il grande piano» riprese, a bassa voce. «L'EDE ora ha quasi cinquemila soldati. Dobbiamo muoverci, per sopravvivere. Non siamo contadini... siamo guerrieri! Ecco perché ho bisogno di te, Sheila.» «Di me? E per cosa?» «Tu giri per il campo. Senti le voci che circolano. Conosci gran parte delle altre DDC. Voglio che tu scopra di quali ufficiali posso fidarmi... e di quali è necessario che mi liberi. Ti ho già detto che non mi fido di Hewitt, di Oldfield e di Vann, ma non posso dimostrare niente davanti alla corte marziale. E forse questo cancro si è già infiltrato in profondità, assai in profondità. Loro pensano che solo per questa...» si toccò la maschera di cuoio «io non sia più adatto a comandare. Ma questo non è il marchio di Caino. Questo è diverso. Questo andrà via, quando l'aria tornerà pura e il sole splenderà di nuovo. Il marchio di Caino non andrà via, finché non lo distruggeremo noi.» Piegò di lato la testa, osservò attentamente Sheila. «Per ogni nome che metterai nell'elenco delle persone da giustiziare... sorretto da prove... ti darò una stecca di sigarette e due bottiglie di liquore. Che ne dici?» Era un'offerta generosa. Sheila aveva già in mente un nome: cominciava per L e terminava per Y. Ma non sapeva se Lawry era fidato o no. Comunque, l'avrebbe visto volentieri davanti al plotone d'esecuzione... ma solo se prima avesse potuto schiacciargli il cranio. Stava per rispondere, quando bussarono alla porta. «Colonnello?» Era Roland Croninger. «Ho un paio di regali per lei.» Macklin andò ad aprire la porta. All'esterno, illuminato dalla luce dei fuochi, c'era il camion corazzato col quale il capitano Croninger e gli altri erano andati in missione. Incatenati al paraurti posteriore c'erano due uomini, entrambi insanguinati e feriti, uno sulle ginocchia e l'altro in piedi, dritto e spavaldo. «Li abbiamo trovati a una ventina di chilometri a est, lungo la Statale 6» disse Roland. Indossava il solito cappotto lungo con il cappuccio tirato sulla testa. Aveva in spalla un fucile automatico e alla cintura una .45 nella fondina. Le bende sporche gli coprivano sempre gran parte della faccia, ma lasciavano sporgere escrescenze nodose come nocche. La luce dei fuochi traeva riflessi rossastri dagli occhialoni. «Erano in quattro, all'inizio. Hanno opposto resistenza. Il capitano Braden ne ha fatto le spese; abbiamo riportato i suoi vestiti e le sue armi. Comunque, di loro restano questi due.» Le labbra di Roland, coperte anch'esse di escrescenze, si allargarono in un
sorriso untuoso. «Abbiamo voluto vedere se stavano al passo con il camion.» «Li hai interrogati?» «Nossignore. L'interrogatorio l'abbiamo tenuto per dopo.» Macklin gli passò davanti, scese la scaletta scolpita. Roland lo seguì. Sheila Fontana rimase a guardare dalla soglia. I soldati intorno ai due prigionieri aprirono un varco al colonnello. Macklin si fermò faccia a faccia con l'uomo che rifiutava di piegarsi alla sconfitta, pur con le ginocchia scorticate e con un foro di proiettile nella spalla sinistra. «Come ti chiami?» domandò. L'uomo chiuse gli occhi. «Il Redentore è il mio pastore, non ho bisogno d'altro. Egli mi conduce ai verdi pascoli, Egli mi guida alle acque chete, Egli mi rende la...» Macklin lo interruppe con uno schiaffo del palmo chiodato. L'uomo cadde sulle ginocchia, con la guancia squarciata. Macklin diede un calcio al secondo prigioniero. «Tu. In piedi.» «Le mie gambe. Per favore. Oh, Dio... le mie gambe.» «In piedi!» Il prigioniero si alzò a fatica. Il sangue gli colava da tutt'e due le gambe. Guardò Macklin, con occhi inorriditi e velati. «Ti prego» supplicò. «Dammi qualcosa per il dolore... ti prego...» «Prima rispondi alle domande. Come ti chiami?» L'uomo batté le palpebre. «Fratello Gary» rispose. «Gary Cates.» «Bravo, Gary.» Con la sinistra, Macklin gli diede un colpetto sulla spalla. «Allora, dove andavate?» «Non dirgli niente!» gridò l'uomo a terra. «Non parlare ai pagani!» «Tu vuoi essere un bravo ragazzo, vero, Gary?» disse Macklin, tenendo la faccia mascherata a dieci centimetri da quella di Cates. «Vuoi qualcosa che ti faccia dimenticare il dolore, giusto? Dimmi allora quel che voglio sapere.» «Non... non...» singhiozzò l'altro. «Per te è finita» dichiarò Macklin. «Finita. Non ha senso rendere la fine più dolorosa del necessario. Dico bene, Gary? Te lo chiedo per l'ultima volta: dove andavate?» Cates ingobbì le spalle, come per paura di essere colpito dall'alto. Rabbrividì, poi disse: «Cercavamo di... di raggiungerli. Fratello Ray era stato colpito. Da solo non ce l'avrebbe fatta. Non volevo abbandonarlo. Fratello Nick aveva gli occhi bruciati, era cieco. Il Redentore dice di abbandonare i
feriti... ma loro erano amici miei.» «Il Redentore? E chi sarebbe?» «Lui. Il Redentore. Il vero Signore e Maestro. La guida della Fedeltà Americana. Era lui che volevamo raggiungere.» «No...» disse l'altro. «Non dire...» «La Fedeltà Americana» ripeté Macklin. Ne aveva già sentito parlare, da vagabondi che si erano uniti all'EDE. Era guidata, per quanto ne sapeva, da un ex pastore protestante della California, che un tempo conduceva una trasmissione televisiva via cavo. Macklin non vedeva l'ora d'incontrarlo. «Così si fa chiamare Redentore, eh? Quanti uomini ha? Dove si dirigono?» L'altro prigioniero si alzò sulle ginocchia e cominciò a urlare come un pazzo: «Il Redentore è il mio pastore e non mi serve altro! Mi conduce ai verdi pasco...» Udì lo scatto del cane, quando Roland gli premette la .45 contro il cranio. Roland non esitò. Tirò il grilletto. Sheila sobbalzò al rumore dello sparo. L'uomo cadde bocconi. «Gary?» disse Macklin. Cates, a occhi sbarrati, fissava il cadavere; un tremito nervoso all'angolo della bocca gli torceva le labbra in un ghigno isterico. «Quanti seguono il Redentore? Dove sono diretti?» «Ah... ah... ah...» balbettò Cates. «Ah... ah... tremila» riuscì a dire. «Forse quattromila. Non so.» «Hanno veicoli corazzati?» domandò Roland. «Armi automatiche? Bombe a mano?» «Hanno tutto. Abbiamo trovato un magazzino dell'esercito, nel South Dakota. C'erano camion, autoblindo, mitragliatrici, lanciafiamme, bombe a mano... tutto. Bastava prendere. Perfino... sei carri armati e casse di munizioni pesanti.» Il colonnello Macklin e Roland si scambiarono un'occhiata. Nella loro mente passò l'identico pensiero: sei carri armati e casse di munizioni pesanti. «Carri armati di che tipo?» Il sangue scorreva più in fretta nelle vene di Macklin. «Non so. Grossi carri armati, con grossi cannoni. Ma uno non andava bene fin dall'inizio e ne abbiamo abbandonati altri tre, perché si sono guastati e i meccanici non hanno saputo aggiustarli.» «Quindi ne avete ancora due?» Cates annuì. Chinò la testa per la vergogna, sentiva gli occhi del Redentore bruciargli la nuca. Il Redentore aveva tre comandamenti: Di-
subbidisci e muori; Uccidere è misericordia; Ama me solo. «Bene, Gary.» Macklin passò il dito sulla mascella dell'uomo. «Dove vanno?» Cates borbottò qualcosa; con uno strattone, Macklin gli alzò la testa. «Non ho sentito.» Cates spostò lo sguardo alla .45 impugnata da Roland, poi alla faccia dalla maschera nera con l'unico occhio, azzurro e gelido. «Nella Virginia occidentale» disse. «Vanno nella Virginia occidentale. In un luogo chiamato monte Warwick. Non so esattamente dove si trova.» «Virginia occidentale? Perché proprio là?» «Perché...» Tremò; sentiva che l'uomo con le bende fremeva per la voglia d'ucciderlo. «Se te lo dico, mi lasci vivere?» disse a Macklin. «Non ti uccideremo» promise il colonnello. «Dimmelo, Gary. Dimmelo.» «Vanno nella Virginia occidentale... perché Dio vive là.» Contorse il viso in una smorfia di sofferenza perché aveva tradito il Redentore. «Dio vive in cima a monte Warwick. Fratello Timothy ha visto Dio lassù, molto tempo fa. Dio gli ha mostrato la scatola nera e la chiave d'argento. Gli ha detto come finirà il mondo. E ora Fratello Timothy guida il Redentore a trovare Dio.» Macklin esitò per qualche secondo. Poi rise forte, con un rumore simile al grugnito d'un animale. Quando smise di ridere, afferrò con la sinistra il colletto della camicia di Cates e premette i chiodi della destra contro la guancia dell'uomo. «Ora non sei più fra pazzi fanatici religiosi, amico mio. Sei fra soldati! Perciò piantala con le stronzate e dimmi la verità. Subito!» «Lo giuro! Lo giuro!» Le lacrime rotolarono sulle guance sudice. «Dio vive su monte Warwick! Fratello Timotyh guida il Redentore a trovarlo! Lo giuro!» «Lascialo a me» disse Roland. Ci fu un attimo di silenzio. Macklin fissò Cates negli occhi, scostò la destra. Goccioline di sangue spuntarono dalla guancia dell'uomo. «Penserò io a lui.» Roland rinfoderò la .45. «Gli farò dimenticare il dolore alle gambe. Poi faremo una bella chiacchierata.» «Sì» disse Macklin. «Mi sembra una buona idea.» «Levategli le catene» ordinò Roland ai soldati, che ubbidirono subito. Dietro le spesse lenti, gli occhi scintillavano d'eccitazione. Roland era un giovanotto felice. La vita era dura, certo, e a volte lui sentiva la mancanza di una Pepsi e di una tavoletta di cioccolato, oppure aveva desiderio di una doccia calda e di un film di guerra alla tivù... ma erano tutte cose che ap-
partenevano al passato. Adesso lui era ser Roland e viveva per servire il Re in questo interminabile gioco. Però rimpiangeva il computer: l'unico aspetto davvero brutto della mancanza di energia elettrica. E a volte faceva un sogno bizzarro, in cui gli pareva di trovarsi in un labirinto sotterraneo, a fianco del Re, e nel labirinto c'erano due troll, un uomo e una donna, che gli pareva di conoscere. Le due facce lo turbavano e lo facevano svegliare in un bagno di sudore freddo. Ma non erano facce reali, erano solo un sogno; e lui riusciva sempre a scacciarlo e a riprendere sonno. Dormiva come un sasso, quando aveva la mente sgombra. «Aiutatelo a camminare» ordinò a due soldati. «Da questa parte.» Li precedette verso la roulotte dipinta di nero. Macklin diede un colpetto al cadavere disteso ai suoi piedi. «Fai pulizia» ordinò a una guardia. Si girò a guardare l'orizzonte orientale. Il gruppo Fedeltà Americana non poteva essere molto lontano, forse li precedeva solo di una quarantina di chilometri, appesantito dal bottino fatto in quella che era stata una comunità fiorente, Sutton. Ma aveva armi da fuoco e munizioni in abbondanza... e due carri armati. Possiamo raggiungerli, pensò Macklin. Possiamo raggiungerli e prendere tutto quel che hanno. E schiaccerò sotto lo stivale la faccia del Redentore. Perché nessuno può opporsi all'Esercito d'Eccellenza e nessuno può fermare il grande piano. Dio vive su monte Warwick, aveva detto l'uomo. Dio gli ha mostrato la scatola nera e la chiave d'argento, e gli ha detto come finirà il mondo. I pazzi fanatici andavano distrutti. Non c'era posto per la loro genia, nel grande piano. Macklin tornò a girarsi verso la roulotte. Sheila Fontana era ancora ferma sulla soglia. All'improvviso Macklin si accorse d'avere un'erezione. Ed era anche un'erezione notevole, che prometteva di durare a lungo. Risalì la scaletta intagliata con facce di demoni. Entrò nella roulotte e chiuse la porta. 68 «Sister! Sister! Sveglia!» Sister aprì gli occhi: una figura era china su di lei. Per alcuni istanti non capì dove si trovasse e d'istinto accentuò la stretta sulla borsa di cuoio. Poi ricordò: era nella baracca di Glory Bowen e si era appisolata al tepore della stufa. L'ultima cosa che ricordava era il suono di un flauto, attorno al falò
in mezzo alla strada. Glory l'aveva svegliata. «Josh ti vuole!» disse a Sister, con voce spaventata. «Presto! A Swan succede qualcosa!» Sister si alzò. Lì vicino, anche Paul si era svegliato e si alzava. Seguirono Glory nella stanza accanto. Josh era chino su Swan. Aaron guardava a occhi aperti e stringeva la bacchetta da rabdomante. «Cosa c'è?» domandò Sister. «La febbre! Brucia di febbre!» Dal secchio pieno di neve disciolta Josh prese uno straccio e lo strizzò. Si mise a strofinare la stoffa fredda sul collo e sulle braccia di Swan; avrebbe giurato che riccioli di vapore turbinavano alla luce dorata del lume. Temeva che a un tratto il corpo della ragazza raggiungesse il punto di combustione e bruciasse. «Dobbiamo farle scendere la febbre!» Paul toccò il braccio di Swan e ritrasse subito la mano, come se avesse toccato la grata della stufa. «Cristo! Da quanto tempo è così?» «Non so. Aveva la febbre, quando un'ora fa ho controllato, ma non così alta.» Rimise lo straccio nell'acqua fredda e questa volta lo applicò alle carni di Swan, senza strizzarlo. Swan tremò violentemente; agitò la testa avanti e indietro, emise un gemito, debole e terrificante. «Muore, Josh!» gridò Aaron. Aveva le lacrime agli occhi. «Non lasciarla morire!» Josh mise le mani nell'acqua fredda e le passò sulla pelle ardente di Swan. Non sapeva che cosa fare. Guardò Sister. «Ti prego, aiutami a salvarla!» «Portala fuori!» Sister già allungava la mano per aiutare a trasportare Swan. «La copriremo di neve!» Josh infilò la mano sotto Swan e cominciò a sollevarla. Swan si dibatté, le mani di nuovo fasciate artigliarono l'aria. Josh la prese in braccio, con la spalla le sostenne la testa. Il calore che emanava dalla Maschera di Giobbe quasi gli bruciò la pelle. Aveva fatto solo due passi, quando Swan mandò un grido, fu scossa da un brivido e rimase inerte. Josh sentì che la febbre spariva, che il calore terribile lasciava il corpo di Swan, come se qualcuno avesse aperto lo sportello di un forno proprio in faccia a lui. Swan giacque immobile fra le sue braccia. E Sister pensò: è morta. Mio Dio... Swan è morta. Josh si sentì mancare le ginocchia. «Swan!» disse, e la voce gli morì. Il
corpo lungo e fragile della ragazza si raffreddava. Josh fu quasi accecato da una lacrima bruciante; emise un singhiozzo che gli scosse le ossa. Con attenzione, con tenerezza, depose di nuovo Swan sul letto. Swan giacque come un fiore schiacciato, braccia e gambe allargate. Josh non osava prenderle il polso e cercare il battito. Temeva che questa volta la scintilla di vita si fosse spenta. Ma si costrinse a farlo. Non sentì niente. Chinò la testa. «Oh, no» mormorò. «Oh, no. Credo che sia...» Sentì un debole tremore, sotto le dita. Un altro. Più intenso. Il corpo di Swan tremò... e ci fu uno scricchiolio irreale, che parve il rumore della creta secca che si spezza. «Il suo... viso» mormorò Paul, ai piedi del letto. Una crepa sottile apparve nella Maschera di Giobbe. Si estese nel punto in cui doveva esserci la fronte, tornò indietro a zigzag lungo il naso, poi giù per la guancia sinistra fino alla linea della mascella. Cominciò ad allargarsi, divenne una fenditura che originò altre crepe. Pezzi della Maschera di Giobbe caddero via, come squame della crosta gigantesca d'una piaga profonda e orribile, finalmente guarita. Il polso di Swan batteva selvaggiamente. Josh arretrò d'un passo. L'unico occhio sembrava sul punto di schizzargli dalla testa. Sister disse: «Oh...» «...Signore Iddio» terminò Glory. Afferrò Aaron, lo strinse a sé, gli mise una mano sul viso per impedirgli di guardare. Il bambino spinse via la mano. La Maschera di Giobbe continuò a incrinarsi con una serie di brevi scricchiolii. Swan giaceva immobile, a parte il rapido sollevarsi e abbassarsi del petto. Josh allungò la mano per toccarla di nuovo, ma si trattenne... perché la Maschera di Giobbe all'improvviso si spezzò in due parti e cadde dal viso di Swan. Nessuno si mosse. Paul lasciò uscire il fiato. Sister, troppo stordita, riusciva solo a guardare fissamente. Swan respirava sempre. Dal gancio alla parete Josh staccò il lume e lo tenne sopra la testa di Swan. Swan non aveva più faccia. Fra i frammenti argillosi della maschera spezzata, il viso di Swan era liscio e amorfo come una candela di cera, a parte due piccoli fori per narici e una fessura per bocca. Con mano tremante Josh le passò le dita sulla guancia destra. Sentì una sostanza untuosa che aveva la consistenza della paraffina. Sotto quella roba biancastra c'era una sfumatura di pallida carne rosea.
Disse: «Sister, ti spiace reggere il lume?» Sister vide che cosa c'era nella cavità e quasi svenne. «Tienilo fermo, ora» continuò Josh. Dal secchio di neve disciolta prese lo straccio; piano piano, con cautela, cominciò a ripulire la gelatina. «Dio mio!» La voce di Josh tremava. «Guardate. Guardate!» Glory e Paul vennero avanti, Aaron si alzò sulla punta dei piedi. Sister scostò un frammento della Maschera di Giobbe e toccò un ricciolo dei capelli di Swan. Era scurito dalla gelatina untuosa che lo ricopriva, ma brillava d'oro cupo, con méches rosse. Era la chioma più bella che avesse mai visto e cresceva folta e robusta dal cuoio capelluto di Swan. «Aaron!» disse Josh. «Vai a chiamare Anna e Gene! Presto!» Il bambino corse fuori. Mentre Josh continuava a ripulire la pellicola, i lineamenti di Swan cominciavano a rivelarsi. Allora lui la guardò in viso e le toccò la fronte. La febbre era scomparsa, la temperatura pareva quasi normale. Swan teneva chiusi gli occhi, ma respirava regolarmente. Josh decise di lasciarla dormire. «Cos'è questo casino?» disse Anna McClay, entrando. «Guarda» rispose piano Josh. E si tirò da parte. Anna si bloccò come se avesse urtato un muro; nel suo viso vecchio e duro gli occhi si riempirono di lacrime. 69 «Ecco qua, gente! Ora di colazione!» Robin Oakes sbuffò con aria disinteressata, mentre Anna McClay portava sulla veranda una pentola di minestra e alcune scodelle. Robin e i tre piccoli banditi avevano trascorso la notte dormendo accanto al falò, insieme con gli altri sei o sette che montavano la guardia alla baracca di Glory. Era un altro mattino freddo e buio; piccoli fiocchi di neve turbinavano nel vento. «Su, forza!» li sollecitò Anna. «Volete la colazione o no?» Robin si alzò, con i muscoli irrigiditi, e passò davanti al cavallo legato al palo di sostegno della veranda. Mulo aveva due coperte sulla schiena e stava abbastanza vicino al falò da non rischiare congelamenti. I bambini seguirono Robin e alcune altre persone si mossero a prendere anch'esse la loro razione. Anna versò una scodella di minestra. Robin arricciò il naso. «Ancora questa schifezza? Non l'abbiamo già mangiata a cena?»
«Certo. L'avrai anche per pranzo, quindi è meglio che ti piaccia.» Robin resistette all'impulso di gettare a terra la brodaglia. Sapeva che era fatta con radici bollite e con qualche pezzetto di buona, vecchia carne di topo. Ora perfino il cibo che distribuivano alla cafeteria dell'orfanotrofio sembrava manna dal cielo; lui sarebbe andato a piedi fino in Cina, se avesse saputo di trovarvi un hamburger King Whopper. Si tolse dalla fila, in modo che la persona seguente avesse la sua razione; portò la scodella alle labbra e bevve. Aveva trascorso una notte miserevole, nervoso e irrequieto; era riuscito alla fine a rubacchiare qualche ora di sonno, nonostante il vecchio che, seduto accanto al falò, suonava il flauto. Robin gli avrebbe tirato uno stivale, ma altri sembravano apprezzare sul serio quella musica monotona; e aveva visto la faccia del vecchio risplendere alla luce del fuoco, mentre l'uomo faceva trillare le note nell'aria. Robin ricordava la musica heavy metal: accordi rumorosi di chitarra e rulli di batteria, come se il mondo stesse per saltare in aria. Era quello il suo genere di musica... ma gli venne in mente che il mondo era saltato in aria per davvero. Forse adesso era il momento della pace, pensò. Pace nelle azioni, nelle parole e nella musica, pure. Maledizione, si disse; divento vecchio! Si era svegliato una volta sola, in un momento imprecisato della notte. Si era alzato a sedere, irrigidito e irritabile, per cercare un posto più caldo, quando aveva visto l'uomo in piedi dall'altra parte del fuoco, con il cappotto sporco che svolazzava nel vento, fermo a fissare la baracca di Glory. Robin non ricordava la faccia dello sconosciuto; ma l'uomo si era aggirato lentamente fra le figure addormentate, avvicinandosi a meno di sei metri dalla veranda. Anna e Gene, seduti sui gradini e armati di fucile, sorvegliavano la porta, ma parlavano fra loro e non avevano badato all'estraneo. Gene, con un brivido di freddo, si era alzato il colletto; e Anna si era scaldate le dita soffiandovi sopra, come se fosse stata colta da un gelo improvviso. L'uomo si era girato e si era allontanato a passo deciso. E forse Robin lo ricordava proprio per questo particolare. Ma poi lui aveva cambiato posizione e ripreso a dormire, finché gelidi cristalli di neve sulle palpebre non l'avevano svegliato. «Quando riavremo le nostre armi?» chiese ad Anna. «Finché Josh non lo dice.» «Senti, signora mia! Nessuno mi toglie il fucile! Lo rivoglio!» Anna gli sorrise con indulgenza. «Lo riavrai. Quando lo dice Josh.»
«Ehi, Anna!» chiamò Aaron, un po' più avanti nella strada. Giocava con Crybaby. «Adesso puoi venire a vedere la magia?» «Dopo» rispose lei; e riprese a distribuire la brodaglia di radici e di carne di topo. Cominciò perfino a fischiettare, mentre lavorava: uno dei suoi motivetti preferiti, "Bali Ha'i" dalla rivista South Pacific. Robin capì che per riprendersi il fucile avrebbe dovuto assalire la baracca. Né a lui né ai bambini era stato permesso d'entrare, da quando erano arrivati lì. Cominciava ad arrabbiarsi. «Perché diavolo sei così contenta?» disse, brusco. «Perché questo è un mattino grande e meraviglioso. Tanto meraviglioso che nemmeno un teppista come te riesce a innervosirmi. Vedi?» E gli scoccò un rapido sorriso che mise in mostra tutti i denti. «Cosa c'è di tanto meraviglioso?» Robin buttò via il resto della minestra. «A me sembra uguale agli altri. Freddo e buio.» Ma aveva notato che gli occhi della donna erano diversi da prima: limpidi ed eccitati. «Cosa succede?» Venne fuori Sister, con la borsa di pelle che non abbandonava mai. Inspirò una boccata d'aria fredda per schiarisi il cervello, perché era stata a vegliare Swan, insieme con gli altri, da molto prima dell'alba. «Vuoi che t'aiuti?» domandò ad Anna. «No, ce la faccio. Questa è l'ultima.» Versò la minestra nell'ultima scodella. Tutti meno Robin erano tornati accanto al falò a mangiare la colazione. «Come sta?» «Sempre uguale.» Sister si stiracchiò. «Respira regolarmente, la febbre è scomparsa... ma lei è sempre uguale.» «Cosa succede?» domandò Robin. Anna gli tolse la scodella vuota e la mise dentro la pentola. «Quando Josh vorrà fartelo sapere, te lo dirà. A te e a tutti gli altri.» Robin guardò Sister. «Che cos'ha, Swan?» domandò, con voce più calma. Sister lanciò una rapida occhiata ad Anna, poi guardò di nuovo il giovane in attesa di una risposta che senz'altro meritava. «Swan è... è cambiata.» «Cambiata? In che cosa? In una rana?» Sorrise, ma Sister non ricambiò il sorriso e lui tornò serio. «Perché non posso vederla? Non voglio mica saltarle addosso! E poi, sono io che ho visto lei e il gigante in quel vetro. Senza di me, non saresti qui. Questo non conta proprio niente?» «Quando Josh dirà...» intervenne Anna.
«Non parlo a te, mamma!» la interruppe Robin e la fissò con quel suo sguardo freddo e inespressivo. Anna trasalì un istante, ma poi restituì lo sguardo, con uguale intensità. «Non me ne frega un accidente di quello che Josh dice o vuole» continuò Robin, per niente scosso. «Ho il diritto di vedere Swan.» Indicò la borsa di pelle. «Tu credi che quel cerchio di vetro ti abbia guidato qui» disse a Sister. «Bene, non hai mai pensato che forse ha guidato qui anche me?» L'idea diede a Sister da pensare. Forse il giovane aveva ragione. Era stato l'unico, oltre lei, a scorgere nel cerchio di vetro un'immagine di Swan. «Allora?» insisté Robin. «E va bene» decise Sister. «Vieni dentro.» «Ehi! Non credi che prima sia meglio chiedere a Josh?» «No, è tutto a posto.» Sister andò alla porta e l'aprì. «Perché non ti dai una pettinata?» disse Anna, mentre Robin saliva i gradini. «Con quei capelli sembri un nido ambulante.» Lui le sorrise controvoglia. «E tu perché non ti fai crescere un po' di capelli? Come quelli che hai sul viso.» Passò davanti a Sister ed entrò nella baracca. Prima di seguirlo, Sister domandò ad Anna se Gene e Zachial avevano trovato lo storpio nel carrettino rosso. Anna rispose che ancora non aveva notizie dei due: erano via da un paio d'ore e cominciava a preoccuparsi. «Cosa vuoi da quello storpio?» domandò. «È pazzo nella testa, tutto qui.» «Può darsi. E può darsi pure che sia furbo come una volpe.» Entrò nella baracca, mentre Anna andava a raccogliere le scodelle vuote. «Ehi, Anna!» chiamò Aaron. «Adesso vieni a vedere la magia?» Dentro la baracca, Paul s'interessava alla macchina da stampa: l'aveva aperta e con l'aiuto di Glory puliva ingranaggi e rulli. Glory guardò con diffidenza Robin accostarsi alla stufa e scaldarsi le mani, ma Paul le disse che Robin era a posto e la donna riprese il lavoro. Sister indicò al giovane di seguirla. Mentre stavano per entrare nell'altra stanza, la sagoma massiccia di Josh comparve nel vano della porta. «Cosa ci fa lui qui?» «L'ho invitato io. Gli ho detto che può vedere Swan.» «Dorme ancora. O era spaventosamente esausta, oppure... c'è qualcosa che non va.» Piegò la testa, in modo da fissare Robin. «Non mi pare una buona idea, farlo entrare.» «Via, amico. Che mistero c'è? Voglio solo vederla, nient'altro.» Josh lo ignorò, ma non si spostò dalla soglia. Si rivolse a Sister. «Gene e
Zachial non sono ancora tornati?» «No. Anna è preoccupata, e io pure.» Josh brontolò qualcosa. Anche lui era preoccupato. Sister gli aveva parlato dell'uomo con la mano ardente, nel cinema della Quarantaduesima strada, e di Doyle Halland, nel New Jersey. Gli aveva parlato dell'uomo che percorreva in bicicletta un'autostrada della Pennsylvania, con un branco di lupi alle calcagna, e che per un pelo non si era incontrato con lei, alla stazione di soccorso di Homewood. Quell'uomo poteva cambiare faccia e anche corpo, assumere qualsiasi aspetto, anche quello di uno storpio. Sarebbe stato un ottimo travestimento: chi avrebbe sospettato che un uomo senza gambe fosse pericoloso come un cane rabbioso fra un gregge di pecore? Ma lei non riusciva a capire come l'avesse trovata. Forse era venuto lì ad aspettarla. Secondo Anna, il signor Benvenuto era in paese solo da un paio di giorni, ma questo non significava niente, perché forse era già a Mary's Rest, sotto altri panni. In ogni caso, bisognava ritrovare il signor Benvenuto: Gene e Zachial erano andati a cercarlo, armati fino ai denti. Josh ricordò che Swan aveva detto: «Era qui. L'uomo con l'occhio scarlatto.» «Mandiamo qualcuno a cercare Gene e Zachial?» disse Sister. «Eh?» rispose Josh, scuotendosi dai suoi pensieri. «Gene e Zachial. Dobbiamo cercarli?» «No, ancora no.» Josh avrebbe voluto andare con loro, ma Glory l'aveva afferrato per la manica e gli aveva detto che lui doveva restare accanto a Swan. Ha capito cos'è, si era detto Josh. E forse cercava anche di salvare la vita a lui. «L'uomo con l'occhio scarlatto» ripeté piano. «Come?» Robin corrugò la fronte, non molto convinto d'avere udito bene. «Swan lo chiama così.» Josh non disse al giovane che nella didascalia di quel particolare tarocco era scritto: IL DIAVOLO. «Giusto» lo beffò Robin. «Voi due dovete avere una grande medicina nascosta da qualche parte, gigante.» «Magari.» Josh decise che Robin era un tipo a posto: un po' spigoloso, certo; ma chi non lo era, in quei giorni? «Vado a prendere una tazza di caffè. Entra pure, ma solo per due minuti, capito?» Aspettò che il giovane annuisse, poi passò nell'altra stanza. L'ingresso della camera di Swan era libero. Ma Robin esitò. Aveva le mani sudate. Distingueva una figura distesa sulla branda. Swan aveva la coperta tirata fino al mento; ma il viso era gi-
rato da una parte e lui non riusciva a vederlo. «Entra» disse Sister. Sono spaventato da morire, capì Robin, sorpreso. «Che significa: "È cambiata"? È diventata... non so come dire... una specie di mostro?» «Entra e guarda.» I piedi di Robin si rifiutavano di muoversi. «Lei è assai importante, vero? Cioè, se ha fatto crescere di nuovo il granturco, dev'essere davvero una ragazza speciale. Vero?» «Meglio che entri. Non sprecare i due minuti.» Gli diede una spinta. Robin entrò nella stanza e Sister lo seguì. Robin si accostò al letto. Era nervoso come se le suore dovessero dargli bacchettate sulle mani perché aveva sputato addosso agli altri. Vide i capelli d'oro sparsi sul guanciale. Splendevano come fieno appena mietuto, ma erano macchiati qua e là da screziature rosse. Con le ginocchia urtò il bordo del letto. Era rimasto incantato da quei capelli. Non ricordava più che aspetto avessero, i capelli puliti. Swan cambiò posizione, si girò sulla schiena, mostrò il viso. Dormiva ancora, i lineamenti erano distesi in pace. I capelli fluivano come criniera dalla fronte alta e priva di rughe; dalle tempie si dipartivano striature di rosso, simili a lingue di fiamma in un campo dorato. Aveva il viso ovale ed era... sì, pensò Robin. Sì. Era bellissima. La fanciulla più bella che avesse mai visto. Le sopracciglia fra il biondo e il rossiccio formavano due mezzelune sopra gli occhi chiusi. Il naso era dritto, elegante; gli zigomi, ben rilevati; nel mento c'era una fossetta a stella. La pelle era pallidissima, quasi diafana; ricordò a Robin la luna in una chiara notte d'estate nel mondo di una volta. Il giovane lasciò girare lo sguardo sul viso di Swan... ma timidamente, come chi esplori un grazioso giardino privo di sentieri. Si chiese che aspetto avesse da sveglia, quale fosse il colore degli occhi, il suono della voce, il movimento delle labbra. Non si stancava d'ammirarla. Sembrava figlia del ghiaccio e del fuoco. Svegliati, pensò; per favore, svegliati. Swan giaceva addormentata e immobile. Ma in Robin si destò qualcosa. Svegliati. Svegliati, Swan. Gli occhi rimasero chiusi. Una voce lo strappò bruscamente all'incantesimo. «Josh! Glory, venite a vedere!» Quella vecchia zoccola di Anna! Chiamava da fuori.
Riportò l'attenzione su Swan. «Vado a vedere cosa succede» disse Sister. «Torno subito.» Robin non la udì nemmeno. Allungò la mano per toccare la guancia di Swan, ma si trattenne. Non si sentiva abbastanza pulito per toccarla. Aveva i vestiti laceri e incrostati di sudore e di sporcizia, le mani sudice. Anna aveva ragione a dire che la sua testa sembrava un nido d'uccelli. Perché diavolo gli era venuta l'idea d'infilarsi nei capelli piume e ossicini? A quel tempo pensava d'essere assai elegante, adesso si sentiva solo sciocco. «Svegliati, Swan» mormorò. Nessuna reazione. Una mosca all'improvviso si librò sul viso di Swan; Robin l'afferrò al volo e la schiacciò contro la gamba, perché uno sporco insetto non aveva niente a che fare con lei. La mosca gli punse un po' la mano, ma lui non se ne accorse. Rimase a fissare il viso di Swan e a pensare a tutte le cose che aveva sentito dire sull'amore. Accidenti, pensò; i ragazzi si metterebbero a ululare, se mi vedessero in questo istante! Ma Swan era così bella che lui credette di sentirsi spezzare il cuore. Sister sarebbe tornata da un momento all'altro. Se voleva fare quel che desiderava intensamente, avrebbe dovuto sbrigarsi. «Svegliati» mormorò di nuovo. Visto che Swan non si muoveva, Robin abbassò la testa e le baciò lievemente l'angolo della bocca. Il calore delle sue labbra lo sorprese; il profumo della sua pelle gli parve una debole brezza fra alberi di pesco. Il cuore gli batteva come la batteria di un complesso heavy metal. Robin lasciò che il bacio indugiasse. E indugiasse. Poi vi pose termine, per paura che Sister o un altro entrassero di sorpresa. Il gigante l'avrebbe sbattuto a calci così in alto e così lontano da fargli fare un giro su un satellite, se ancora ce ne fossero sta... Swan si mosse. Robin ne fu sicuro. C'era stato un movimento... il sopracciglio, o l'angolo della bocca, o forse un fremito della guancia o della mascella. Si chinò su di lei, la faccia solo a qualche centimetro dalla sua. Swan aprì gli occhi all'improvviso. Robin ne fu così sorpreso che ritrasse di scatto la testa, come se lei fosse una statua venuta in vita. Gli occhi erano azzurro scuro, punteggiati di rosso e d'oro, colori che gli ricordarono il cerchio di vetro. Swan si alzò a sedere, si portò la mano alle labbra, dove il bacio aveva indugiato; sulle pallide guance fiorì un vivido rossore. Alzò la mano. E Robin, prima che potesse pensare a scansarsi, ricevette
sulla guancia uno schiaffo bruciante. Arretrò barcollando di qualche passo: ora anche lui aveva la guancia arrossata, ma riuscì bene o male a fare un sorriso sciocco. Non riuscì a pensare a niente di meglio da dire: «Salve.» Swan si fissò le mani. Si toccò il viso. Si passò le dita sul naso, sulle labbra; si tastò la linea degli zigomi, del mento. Si sentiva scossa, sul punto di piangere, non sapeva chi fosse il ragazzo con le piume e gli ossicini nei capelli, ma l'aveva colpito perché credeva che stesse per assalirla. Ogni cosa era confusa e pazzesca, ma aveva di nuovo un viso, vedeva chiaramente da tutt'e due gli occhi. Colse una fuggevole visione d'oro rossastro e strinse fra le dita un lungo filo dei suoi stessi capelli. Lo fissò come se non sapesse che cos'era. L'ultima volta che aveva capelli, ricordò, era il giorno in cui con la mamma era entrata in quella polverosa drogheria del Kansas. I miei capelli erano biondo chiaro, ricordò. Adesso avevano il colore del fuoco. «Ci vedo!» disse al ragazzo, mentre le lacrime le scivolavano sulle guance lisce. «Ci vedo di nuovo!» Anche la voce, senza la Maschera di Giobbe che premeva sulla bocca e sulle narici, era diversa: la voce morbida e velata di una ragazza sul punto di diventare donna... e la voce tradì la tensione, mentre chiamava: «Josh! Josh!» Robin corse fuori a chiamare Sister, conservando impressa nel cervello l'immagine della ragazza più bella che avesse mai visto. Ma Sister non era nell'altra stanza. Era ferma ai piedi dei gradini, con Glory e Paul. Josh e Anna stavano ai fianchi di Aaron, a circa dieci metri dalla veranda, quasi nel centro esatto della strada. Aaron era l'oggetto di tanta attenzione. «Vedi?» diceva. «Ti avevo detto che era magia! Basta sapere come tenerla!» I due rametti che sporgevano ad angolo da Crybaby erano in equilibrio sulla punta degli indici di Aaron. L'altra estremità della bacchetta da rabdomante si muoveva su e giù, su e giù, come una pompa. Aaron, tutto occhi e denti luccicanti, sorrise con orgoglio al trucco magico, mentre altra gente si radunava. «Credo che tu abbia trovato un pozzo» disse Josh, stupito. «Eh?» disse Aaron, mentre Crybaby continuava a indicare la via verso l'acqua pura. Ai piedi dei gradini, Sister sentì una mano afferrarle la spalla. Si girò e vide Robin, lì fermo. Cercava di parlare, ma era così sconvolto da non riu-
scire a spiccicare parola. Sulla guancia aveva l'impronta rossa di una mano. Sister stava per scostarlo e precipitarsi nella baracca, quando Swan comparve nel vano della porta, con la coperta avvolta attorno al corpo magro e l'andatura incerta d'un cerbiatto nato da poco. Socchiuse gli occhi e batté le palpebre nella luce fioca e grigia. Sarebbe bastato un fiocco di neve, per gettare a terra Sister. Robin mormorò: «Oh», come se avesse ricevuto un colpo... e Sister capì. Anna alzò gli occhi dalla bacchetta. Josh si girò e vide quel che gli altri avevano già visto. Avanzò di qualche passo, poi si lanciò in una corsa che avrebbe steso sulla schiena anche Haystacks Muldoon. La gente s'affrettò a togliersi di mezzo. Josh salì con un balzo i gradini. Swan già tendeva le braccia verso di lui, era sul punto di cadere. Josh l'afferrò appena in tempo, la sollevò in aria, la strinse al petto. Grazie, Signore, pensò, grazie di avermi restituito mia figlia! Abbassò la testa deforme contro la spalla di Swan e scoppiò a piangere... e questa volta a Swan non parve un suono di dolore, ma un canto di gioia ritrovata. DODICI: le vere facce Il figlio del signor Caidin / Visita al Redentore / Una vera signora / Assalto alla roccaforte / La tana 70 Swan camminava tra i filari di granturco verde e rigoglioso, mentre fiocchi di neve sfrigolavano sui falò. Ai lati aveva Josh e Sister, affiancati da due uomini armati di fucile che stavano in guardia contro le linci rosse... o qualsiasi altro tipo di predatore. Erano passati tre giorni dal suo risveglio. Per proteggersi dal freddo Swan indossava il cappotto che Glory aveva cucito per lei utilizzando ritagli di stoffa di vari colori e portava un berretto bianco lavorato a maglia, uno dei molti capi di vestiario che i riconoscenti abitanti di Mary's Rest le avevano lasciato in dono e che lei aveva in gran parte distribuito a chi possedeva solo stracci.
I suoi occhi di un intenso azzurro scuro con pagliuzze rosse e dorate contemplarono i nuovi steli di granturco, ormai alti più d'un metro, che cominciavano a diventare d'un verde più cupo. Dall'orlo del berretto, i capelli svolazzavano come lingue di fuoco. Le pelle era ancora molto pallida, arrossata sulle guance dal vento freddo; il viso scarno avrebbe avuto bisogno di cibo per rimpolparsi, ma questo sarebbe avvenuto più tardi. Per il momento l'attenzione di Swan era concentrata sul granturco. I falò ardevano qua e là nel campo; volontari di Mary's Rest stavano di guardia notte e giorno per tenere lontano linci rosse, corvi e qualsiasi cosa potesse rovinare il granturco. Di tanto in tanto, un altro gruppo di volontari portava secchi e ramaioli per distribuire l'acqua potabile del nuovo pozzo, scavato due giorni prima. A chi l'assaggiava, quell'acqua risvegliava ricordi di cose quasi dimenticate: il profumo della fredda e pulita aria di montagna; la dolcezza dei dolci di Natale; preziosi liquori invecchiati cinquant'anni in bottiglia prima della degustazione; decine di altre cose, ciascuna unica, ciascuna parte d'una vita più felice. Non bevendo più acqua ricavata dalla neve radioattiva, la gente già si sentiva rinvigorita, non aveva più mal di gola, emicrania e altri malanni. Gene Scully e Zachial Epstein non erano tornati, ma nessuno ne aveva ritrovato i cadaveri. Sister, comunque, era sicura che fossero morti. Ed era anche sicura che "l'uomo con rocchio scarlatto" si trovasse ancora a Mary's Rest. Teneva più stretta che mai la borsa di pelle, ma ora si domandava se quel mostro non avesse perso interesse nel cerchio di vetro e non avesse spostato l'attenzione su Swan. Sister e Josh avevano discusso sulla natura dell'uomo con l'occhio scarlatto. Sister forse non credeva al Diavolo con le corna e la coda biforcuta, ma conosceva abbastanza bene il Male. Se l'uomo li aveva cercati per sette anni, non era certo onnisciente. Astuto, sì; e forse dotato d'intuizione eccezionale; e poteva cambiare faccia a piacimento e con un semplice tocco appiccare fuoco alle persone; ma era anche imperfetto e stupido. Forse la sua maggiore debolezza era proprio il credersi tanto più intelligente degli esseri umani. Swan si accostò a uno degli steli più piccoli, con foglie ancora chiazzate delle macchie rosse del sangue seminato dalle sue mani. Si tolse un guanto e toccò lo stelo sottile, sentì il formicolio che risaliva dai piedi, si muoveva lungo le gambe e la spina dorsale, attraversava il braccio e le dita, si riversava nella pianticella, come corrente elettrica a basso voltaggio. Fin da bambina l'aveva ritenuta una sensazione normale; ma ora si chiedeva se il
suo corpo, in un certo modo, non fosse simile a Crybaby: era ricettivo e traeva energia dalla batteria elettrica della terra e la incanalava verso semi, alberi, piante. Forse non ne avrebbe mai capito le reale natura; ma se chiudeva gli occhi, vedeva ancora le scene meravigliose che il cerchio di vetro le aveva mostrato e sapeva a quale compito dedicare la vita. Dietro suo suggerimento, stracci e vecchi giornali erano stati legati alla base delle piantine, per riparare il più possibile le giovani radici. Tra i filari, la terra dura era stata sbriciolata; ogni metro e mezzo, era stato scavato un buco, nel quale veniva versata l'acqua pura; se si tendeva l'orecchio con attenzione e se il vento non soffiava, si poteva udire l'ansito della terra che si abbeverava. Swan continuò l'ispezione, fermandosi di tanto in tanto a toccare uno stelo o a impastare il terriccio. Sembrava che dalle sue dita scaturissero scintille. Ma lei era a disagio, attorniata da tanta gente... soprattutto da uomini armati. Trovava bizzarro che ci fossero persone che la sorvegliavano, che desideravano toccarla, che le regalavano vestiti togliendoseli di dosso. Non si era mai sentita speciale, e non si sentiva speciale neppure adesso. Far crescere il granturco era solo un dono di natura, come quello di Glory che le aveva cucito il cappotto, o quello di Paul che aveva rimesso in funzione la piccola macchina da stampa. Ognuno aveva il suo talento. Percorse ancora alcuni passi. Si accorse che qualcuno la fissava. Girò la testa per guardare alle sue spalle in direzione di Mary's Rest e lo vide in piedi al limitare del campo, con i capelli lunghi che svolazzavano nel vento. Sister seguì lo sguardo di Swan e anche lei lo vide. Si era accorta che Robin Oakes aveva gironzolato attorno a loro per tutta la mattina, ma senza avvicinarsi. Negli ultimi tre giorni Robin aveva declinato tutti gli inviti a entrare nella baracca di Glory: si accontentava di dormire accanto al fuoco. Ma Sister notò con interesse che si era tolto dai capelli piume e ossicini. E vide anche Swan arrossire, prima di girare in fretta lo sguardo. Josh, occupato a tenere d'occhio i boschi per paura delle linci, non si accorse del piccolo dramma. Gli uomini sono tutti uguali, si disse Sister; vedono gli alberi, ma non la foresta. «Crescono bene» disse Swan a Sister, per togliersi di mente Robin Oakes. La voce era nervosa e un po' acuta. «I fuochi mantengono tiepida l'aria, qui intorno. Credo che il granturco cresca bene.» «Sono felice di saperlo» disse Sister. Sotto la Maschera di Giobbe, sorrise.
Swan era soddisfatta. Passò da ogni falò a parlare con i volontari, per vedere se qualcuno aveva bisogno del cambio, o di acqua, o di una scodella della minestra di radici che Glory, Anna o una delle altre donne tenevano sempre pronta. Ringraziò tutti perché collaboravano a sorvegliare il campo e a scacciare i corvi che vi giravano sopra. Certo, anche i corvi avevano bisogno di cibo: ma che lo cercassero altrove. Swan notò che una ragazza non aveva guanti e le diede i suoi. La pelle morta si squamava ancora dal palmo delle mani, ma in pratica le scorticature erano guarite. Swan si fermò davanti all'asse di legno che segnava la tomba di Rusty. Ancora non ricordava nulla di quella terribile notte, a parte il sogno riguardante l'uomo dall'occhio scarlatto. Non aveva avuto il tempo di dire a Rusty quanto bene gli volesse. Lo ricordava quando faceva comparire e scomparire palline rosse, nel numero di magia dello Spettacolo viaggiante e si guadagnava una scatola di fagioli o di macedonia di frutta. Adesso la terra lo aveva in sé, lo stringeva fra le braccia perché dormisse un sonno lungo e indisturbato. E la magia di Rusty viveva ancora... in lei, in Josh, negli steli verdi che ondeggiavano nel vento, con la promessa di altra vita futura. Swan, Josh e Sister tornarono indietro, accompagnati dalle due guardie armate. Swan e Sister notarono che Robin Oakes era già sparito. E Swan provò una punta di delusione. Una torma di bambini festanti circondò Swan, mentre percorrevano i vicoli diretti alla baracca di Glory. Sister osservava con trepidazione ogni vicolo, aspettandosi un movimento improvviso e repentino... e credette di udire il cigolio del carrettino rosso, da qualche parte lì intorno; ma il rumore svanì e non fu sicura che ci fosse stato davvero. Un uomo alto e magro, con cheloidi azzurro chiaro impresse in diagonale sulla faccia, li aspettava ai piedi della scaletta, parlando con Paul Thorson. Paul aveva le mani macchiate di marrone scuro, a causa del fango e delle tinture che lui e Glory mescolavano per ottenere una specie d'inchiostro utilizzabile per il giornalino locale. Nella strada e intorno alla baracca c'erano decine di persone venute a dare un'occhiata a Swan; le aprirono un varco, mentre lei si avvicinava all'uomo in attesa. Sister si frappose, tesa e pronta a tutto. Ma dallo sconosciuto non provenne nessuna ondata di gelo, fetida e repellente... solo l'odore del corpo. Gli occhi dell'uomo avevano quasi lo stesso colore delle cheloidi. Indossava un leggero cappotto di tela ed era a capo scoperto. Ciocche di capelli neri scendevano dallo scalpo segnato dalle ustioni.
«Il signor Caidin aspettava di vedere Swan» disse Paul. «È a posto.» Sister si rilassò subito, fidandosi del giudizio di Paul. «La sua storia mi sembra interessante.» Caidin si girò verso Swan. «Io e la mia famiglia viviamo laggiù» disse, con un gesto in direzione della chiesa incendiata. Aveva la cadenza piatta del Midwest e la voce scossa, ma chiara. «Mia moglie e io abbiamo tre figli. Il maggiore ha sedici anni; fino a stamattina aveva in faccia la stessa cosa che mi sembra aveva anche lei.» Con la testa indicò Josh. «Come quella. Le escrescenze.» «La Maschera di Giobbe» disse Sister. «Cosa significa, fino a stamattina?» «Ben aveva febbre altissima. Era così debole da non riuscire a muoversi. E poi, stamattina presto, la maschera si è aperta.» Sister e Swan si scambiarono un'occhiata. «Ho sentito dire che a lei è accaduta la stessa cosa» continuò Caidin. «Sono qui per questo. So che un mucchio di gente desidera vederla, ma... potrebbe venire da me a dare un'occhiata a Ben?» «Non credo che Swan possa fare qualcosa per suo figlio» disse Josh. «Non è un medico.» «Non si tratta di questo. Ben sta benissimo. Ringrazio Iddio che quella roba si sia aperta, perché respirava a stento. Solo che...» Guardò di nuovo Swan. «È diverso» terminò a bassa voce. «Per favore, venga a vederlo. Non ci vorrà molto.» L'espressione intensa dell'uomo commosse Swan. La ragazza annuì e seguirono Caidin nella via, in un vicolo fra le macerie annerite della chiesa di Jackson Bowen, in mezzo al labirinto di baracche, casupole, mucchi di rifiuti umani e di detriti e perfino di scatole di cartone che alcuni avevano ammucchiato per ripararsi. Attraversarono una pozza di fango che arrivava fino alle caviglie e salirano il paio di gradini che portava a una baracca anche più piccola e piena di correnti d'aria di quella di Glory. Nell'unica stanza, uno strato isolante di vecchi giornali e riviste era stato inchiodato sulle pareti, tanto che dappertutto c'erano titoli ingialliti, articoli, fotografie di un mondo morto. La moglie di Caidin, giallastra in faccia alla luce dell'unico lume, reggeva fra le braccia magre un neonato addormentato. Un bambino di una decina d'anni, fragile e timoroso, si teneva stretto alle gambe della madre e cercò di nascondersi, quando entrarono gli sconosciuti. La stanza conteneva un divano con le molle rotte, una vecchia macchina per lavare, a mano-
vella, e una stufa elettrica nella quale pezzetti di legno, braci e spazzatura tenevano in vita un focherello triste che mandava un debole tepore. Una sedia di legno era sistemata vicino al mucchio di materassi stesi per terra, sui quali il primogenito dei Caidin era disteso sotto una ruvida coperta marrone. Swan si accostò a guardare in viso il ragazzo. Attorno alla testa c'erano pezzi della Maschera di Giobbe, simili a cocci di terracotta grigia; la sostanza viscida e gelatinosa era ancora incollata all'interno dei frammenti. Il ragazzo, con la faccia cerea e gli occhi ancora lucidi di febbre, cercò di alzarsi a sedere, ma era troppo debole. Si scostò dalla fronte i capelli folti e scuri. «Tu sei quella, vero?» disse. «La ragazza che ha fatto crescere il granturco.» «Sì.» «Una cosa magnifica davvero. Il granturco si presta a un mucchio di usi.» «Penso di sì.» Swan esaminò i lineamenti del ragazzo; la pelle era liscia e priva di difetti, quasi trasparente alla luce del lume. La mascella era forte e quadrata, il naso dal setto sottile era leggermente appuntito. Nel complesso, era un bel ragazzo e Swan pensò che sarebbe diventato un bell'uomo, se fosse sopravvissuto. «Certo!» Questa volta il ragazzo riuscì a mettersi a sedere, con occhi scintillanti d'eccitazione. «Puoi friggerlo e bollirlo, farne ciambelle e torte, perfino ricavarne olio. E anche whisky. So tutto, perché a scuola avevo fatto un'esercitazione scientifica sul granturco. Ho vinto il primo premio alla fiera.» S'interruppe, poi si toccò la guancia sinistra, con mano tremante. «Cosa m'è successo?» Swan diede un'occhiata a Caidin, che rivolse a lei, a Josh e a Sister un segno, per invitarli a uscire. Girandosi, Swan notò il titolo di un giornale incollato alla parete: CONFERENZA SUL DISARMO KO PER L'OK A "GUERRE STELLARI" . Più sotto, c'era la fotografia di uomini dall'aria importante, in giacca e cravatta, che sorridevano e alzavano la mano in chissà quale celebrazione di vittoria; sembravano molto soddisfatti di sé, indossavano abiti puliti e nuovi, erano ben pettinati, tutti avevano il viso rasato. Swan si domandò se uno di loro si fosse mai accucciato sopra un secchio per andare a gabinetto. Uscì a raggiungere gli altri. «Suo figlio è un bel ragazzo» diceva Sister a Caidin. «Dovrebbe essere contento.»
«Sono contento. E ringrazio Iddio che quella roba gli sia caduta dal viso. Ma non è questo, il punto.» «Va bene. Qual è?» «Quella non è la faccia di mio figlio. Almeno... non è la faccia che aveva prima di beccarsi quella robaccia.» «Anche Swan rimase ustionata, quando caddero le bombe» disse Josh. «Nemmeno lei ha l'aspetto di prima.» «Mio figlio non rimase sfigurato il 17 luglio» replicò con calma Caidin. «Non ebbe nemmeno un graffio. È sempre stato un bravo ragazzo, mia moglie e io lo amiamo molto, ma... Ben è nato con una voglia rossa che gli copriva tutto il lato sinistro del viso, una macchia di vino. E con una malformazione alla mascella. L'abbiamo fatto operare da uno specialista a Cedar Rapids, ma il guaio era così serio che... che non c'erano molte speranze. Però Ben ha sempre avuto coraggio. Ha voluto frequentare la scuola normale ed essere trattato come chiunque altro, né più né meno.» Guardò Swan. «Il colore degli occhi e dei capelli è sempre lo stesso; la forma del viso è identica. Ma la voglia è sparita e la mascella non è più deforme e...» La voce gli morì, mentre scuoteva la testa. «E?» lo incitò Sister. Caidin esitò, cercò di trovare le parole, la guardò negli occhi. «Gli dicevo sempre che la vera bellezza è all'interno, nel cuore e nell'anima.» Una lacrima rotolò sulla guancia destra di Caidin. «Ora Ben ha l'aspetto della persona che racchiudeva dentro di sé. Penso che... che la faccia della sua anima si è rivelata.» Non sapeva se ridere o piangere. «È un'idea tanto pazza?» «No» rispose Sister. «È un'idea meravigliosa. Ben è un bel ragazzo.» «Lo è sempre stato» disse Caidin; questa volta si permise di sorridere. L'uomo tornò alla sua famiglia e gli altri ripercorsero in silenzio il labirinto di vicoli fangosi fino alla strada, ciascuno immerso nei propri pensieri: Josh e Sister pensavano alla storia di Caidin e si chiedevano se anche la loro Maschera di Giobbe si sarebbe spaccata... e che cosa ne sarebbe uscito; Swan ricordava le parole di Leona Skelton: «Ciascuno ha due facce, bambina mia... la faccia esterna e la faccia interna. Una faccia sotto l'altra, capisci. Quella interna è la tua vera faccia e se fosse portata in superficie mostreresti al mondo che tipo di persona sei». Swan ricordò di avere domandato: «Portata in superficie? Ma come?» E Leona aveva sorriso. «Be', Dio non ha ancora escogitato il modo. Ma Egli lo troverà...»
La faccia della sua anima si è rivelata, aveva detto il signor Caidin. «Ma Egli lo troverà...» «...faccia della sua anima...» «Ma Egli lo troverà...» «Arriva un camion!» «C'è un camion!» Lungo la strada avanzava molto lentamente un camioncino scoperto, con le fiancate e il cofano incrostati di ruggine. Tutt'intorno una marea di gente vociava e rideva. Da un mucchio di tempo gran parte di loro non vedeva un'auto o un camion funzionanti. Josh posò la mano sulla spalla di Swan; Sister rimase dietro di loro, sul ciglio della strada, mentre il camioncino arrivava sferragliando. «Eccola qui, signore!» gridò un bambino, arrampicandosi sul paraurti anteriore e sul cofano. Il camioncino si arrestò, tirandosi dietro la scia di gente. Il motore balbettò, schioccò, ebbe un ritorno di fiamma; ma il veicolo avrebbe potuto essere una Cadillac nuova di zecca, da come la gente si spingeva per toccare la lamiera corrosa. L'uomo al volante, un tipo dal viso grassoccio, con un berretto da baseball rosso e fra i denti il mozzicone d'un vero sigaro, guardò stancamente dal finestrino la folla eccitata, come se non sapesse bene in quale manicomio s'era cacciato. «Swan è proprio qui, signore!» disse il bambino appollaiato sul cofano, indicandola. Parlava con l'uomo seduto a fianco del guidatore. La portiera si aprì; un uomo dai capelli ricci e bianchi, con una lunga barba incolta sul viso rugoso, si sporse dal camioncino e allungò il collo. Gli occhi castano scuro, passarono in rassegna la folla. «Dove?» disse l'uomo. «Non la vedo.» Ma Josh capì chi era venuto a cercare quell'uomo. Alzò un braccio e disse: «Swan è qui, Sly!» Sylvester Moody riconobbe il gigante... e capì con un sobbalzo perché quando l'aveva conosciuto portasse la maschera da sci nera. Spostò lo sguardo sulla ragazza al suo fianco e per un momento rimase senza parole. «Cristo santissimo!» esclamò infine, scendendo dal camioncino. Esitò, non ancora sicuro che fosse proprio lei; diede un'occhiata a Josh e lo vide annuire. «La tua faccia!» disse. «È guarita!» «È successo qualche giorno fa» disse Swan. «E credo che anche altri comincino a guarire.» Se il vento avesse soffiato un po' più forte, lo avrebbe buttato a terra.
«Sei bella» disse Sly. «Oh, Signore... sei bellissima!» Si girò verso il camioncino. «Bill! La ragazza è qui! Swan è qui!» Bill McHenry, il vicino di Sly e proprietario del camion, aprì cautamente la portiera e scese. «Abbiamo passato l'inferno, su quella strada!» si lamentò Sly. «Ancora un sobbalzo e addio schiena! Fortuna che ci siamo portati benzina di scorta, altrimenti gli ultimi trenta chilometri li facevamo a piedi!» Si guardò intorno, alla ricerca di un altro. «Dov'è il cowboy?» domandò. «L'abbiamo seppellito alcuni giorni fa» disse Josh. «In un campo qui vicino.» «Oh!» Sly corrugò la fronte. «Mi spiace. Davvero una brutta notizia. Sembrava proprio un tipo per bene.» «E lo era.» Josh piegò la testa a guardare il camioncino. «Cosa ci fai, qui?» «Sapevo che andavate a Mary's Rest. L'avete detto quando avete lasciato la fattoria. Sono venuto a farvi visita.» «Perché? Ci sono almeno ottanta chilometri di strada dissestata, da casa tua!» «Come se le mie natiche doloranti non lo sapessero! Dio onnipotente, mi siederei volentieri su un bel cuscino morbido!» Si accarezzò il deretano. «Non è certo un viaggio di piacere» ammise Josh. «Ma lo sapevi anche tu, prima d'iniziarlo. Non hai ancora detto perché hai fatto tutta questa strada.» «No.» Gli occhi scintillarono. «Non mi pare proprio.» Diede un'occhiata alle baracche di Mary's Rest. «Dio santo, è un villaggio o un cesso pubblico? Cos'è quest'odore spaventoso?» «Se ti fermi un poco, ti abitui.» «Be', starò qui un giorno solo. Mi basta un giorno per pagare il debito.» «Debito? Quale debito?» «Il debito che ho con Swan, e con te che l'hai portata alla mia porta. Tira via, Bill!» E Bill McHenry, che si era spostato sul retro del camioncino, tirò via il telo che copriva il cassone. Il camion era pieno di piccole mele rosse, duecento o anche più. Alla vista delle mele, ci fu un'esclamazione collettiva di sorpresa che passò come un'onda sulla folla di spettatori. Il profumo di mele fresche addolcì l'aria. Sly scoppiò a ridere come un matto; si arrampicò sul cassone e prese una pala. «Ti ho portato un po' di mele del mio albero, Swan!» gridò, con un gran
sorriso. «Dove le scarico?» Swan non seppe che cosa dire. Non aveva mai visto tante mele, se non nei supermercati. Erano color rosso vivo, ciascuna grossa come un pugno di bambino. Rimase a fissarle, con l'impressione di passare da sciocca... ma capì dove doveva farle scaricare. «Lì» rispose, indicando la gente che si affollava alla sponda del camioncino. Sly annuì. «Sì, signora.» Prese una palata di mele e la gettò sulla testa della gente. Le mele piovvero dal cielo e gli abitanti affamati di Mary's Rest le presero al volo mentre cadevano. Mele rimbalzarono sulla testa, sulla schiena, sulle spalle delle persone, ma nessuno vi badò. Ci fu un ruggito di voci, mentre altri arrivavano di corsa dai vicoli e dalle baracche, saltando e battendo le mani, per prendersi una mela. Sly Moody continuò a lavorare di pala; dai vicoli arrivò ancora gente, ma non ci furono liti per accaparrarsi le preziose leccornie. Sly rideva come fuori di sé, voleva dire a Swan che due giorni prima si era svegliato e aveva trovato il suo albero con i rami che quasi strisciavano per terra sotto il peso di centinaia di mele. E mentre le raccoglieva, gemme nuove già spuntavano e l'intero ciclo incredibilmente breve stava per ripetersi. Era la cosa più sorprendente, più miracolosa, che avesse mai visto in vita sua: un albero che sembrava pronto a produrre ancora centinaia di mele... forse migliaia. Lui e Carla avevano già riempito fino all'orlo secchi e barili. A ogni palata di mele, si alzava un ruggito di grida e di risate. La folla accorreva da tutte le direzioni, le mele rimbalzavano e rotolavano a terra. Swan, Sister e Josh furano urtati e spinti da parte; a un tratto Swan si sentì portare via dalla folla come una canna nel fiume. Udì il grido di Sister: «Swan!»; ma ormai era a dieci metri da lei e Josh faceva del suo meglio per aprirsi la strada senza far male a nessuno. Una mela colpì la spalla di Swan, cadde a terra davanti a lei, rotolò li vicino. Swan si chinò a raccoglierla; e mentre stringeva le dita intorno alla mela, un paio di malconci stivali marrone avanzò a un metro da lei. Swan sentì freddo. Un freddo penetrante, che le indolenziva le ossa. E capì di chi si trattava. Il cuore prese a batterle all'impazzata. L'uomo con gli stivali marrone non si mosse: la gente non lo urtava, quasi respinta dal senso di gelo. Le mele continuarono a cadere e la folla venne avanti, ma nessuno raccolse quelle rotolate fra Swan e l'uomo che la fissava. Swan quasi cedette all'impulso di chiamare in aiuto Josh o Sister... ma
capì che lui non aspettava altro. Appena avesse aperto bocca, la mano ardente le avrebbe stretto la gola. Era così atterrita da rischiare di farsela addosso. Strinse i denti, piano piano si raddrizzò, con la mela in mano, e lo guardò, perché voleva vedere la faccia dell'uomo con l'occhio scarlatto. L'uomo aveva l'aspetto di un nero magrissimo con jeans e T-shirt dei Boston Celtics sotto il cappotto verde oliva, un fazzoletto rosso al collo. Gli orribili occhi penetranti erano color dell'ambra chiara. Si fissarono. Swan vide il bagliore di un incisivo d'argento, quando lui sogghignò. Sister era troppo lontana. Josh lottava ancora per aprirsi un varco tra la folla. L'uomo con l'occhio scarlatto era a un metro da lei. A Swan parve che tutti girassero intorno a loro due, in un lento movimento da incubo; che fossero soli in una stasi temporale. La sua sorte dipendeva da lei stessa, perché non c'era nessuno che potesse aiutarla. Swan notò anche un'altra cosa, negli occhi del mostro, sotto il velo d'odio gelido e animalesco: una luce più profonda... quasi umana. L'aveva vista anche negli occhi di zio Tommy, la notte in cui le aveva calpestato i fiori: un desiderio represso, per sempre tagliato fuori dalla luce, impazzito come una tigre nella gabbia buia. Era sciocca arroganza e orgoglio bastardo, era stupidità e rabbia attizzate a livello d'energia atomica; ma ricordava anche un bambino piangente e sperso. Swan capì la natura di quell'uomo, che cosa aveva fatto e che cosa avrebbe fatto. E in quell'istante d'intuizione allungò la mano verso di lui... e gli offrì la mela. «Ti perdono» gli disse. Il sogghigno dell'altro s'incrinò come l'immagine in uno specchio rotto di colpo. L'uomo batté le palpebre, incerto. Nei suoi occhi Swan vide fuoco e ferocia, un nucleo di dolore al di là dell'umana sofferenza, così furioso che quasi le lacerò il cuore. Era un urlo avvolto in fili di paglia, un'essenza piccola, debole e maligna che digrignava i denti dietro una facciata mostruosa. Swan vide di che cosa era fatto e lo capì assai bene. «Prendila» gli disse. Era terrorizzata, ma capiva che lui l'avrebbe assalita, al primo segno di paura. «È il momento.» Il sogghigno svanì. Gli occhi andarono rapidamente dal viso di Swan alla mela e viceversa, come un micidiale metronomo. «Prendila» lo sollecitò lei; il sangue le pulsava nelle orecchie con tale
forza da non permetterle nemmeno di udire la propria voce. L'uomo la fissò negli occhi, le sondò la mente come un gelido scalpello da ghiaccio. Piccoli tagli qui e là, e poi un tenebroso esame dei ricordi. Ogni momento della sua vita era come invaso, raccolto, insozzato da mani sporche, buttato via. Ma Swan mantenne fermo lo sguardo e non si ritirò davanti a lui. L'uomo tornò a fissare la mela e il gelido scalpello smise di pungere la mente di Swan. I suoi occhi si velarono, la bocca si aprì, dalla cavità strisciò fuori una mosca verde che girò debolmente intorno alla testa di Swan e cadde nel fango. La mano si alzò. Lentamente, molto lentamente. Swan non la guardò, ma intuì che si ergeva come la testa d'un cobra. Aspettava che s'infiammasse. Ma la mano non s'infiammò. Le dita si tesero verso la mela. E Swan vide che la mano tremava. Lui quasi prese la mela. Quasi. L'altra mano scattò ad afferrare il polso, a tirare indietro la mano colpevole e bloccarla con il mento. L'uomo emise un gemito sospiroso che parve il vento fra gli spalti merlati dei castelli dell'inferno. Si ritrasse da Swan, con i denti serrati in un ringhio; per un istante perdette il controllo di sé: un occhio si schiarì in celeste, pigmenti bianchi chiazzarono la carne color ebano. Una seconda bocca, piena di lucide protuberanze bianche, si spalancò come una cicatrice lungo lo zigomo destro. Nei suoi occhi c'erano l'odio, la rabbia, il desiderio di quel che non poteva mai essere. L'uomo si girò e fuggì: la stasi temporale s'interruppe, la folla turbinò di nuovo intorno a Swan, afferrando le ultime mele. Josh era solo a qualche passo, cercava di proteggerla. Ma ormai, capì Swan, era tutto finito. Non le occorreva più protezione. Qualcuno le prese di mano la mela. Swan guardò negli occhi di Robin. «Mi auguro che sia per me» disse lui. E sorrise prima di addentarla. Corse fra i vicoli fangosi di Mary's Rest, con la mano bloccata sotto il mento, e non sapeva dove andava. La mano si tese e tremò, quasi cercasse di liberarsi, guidata da volontà propria. Cani randagi si dispersero in fretta davanti a lui, che inciampò nei detriti e cadde nel fango, si rialzò e prose-
guì barcollando. E se qualcuno avesse visto la sua faccia, avrebbe assistito a migliaia di trasformazioni. Troppo tardi, gridò dentro di sé. Troppo tardi! Troppo tardi! Aveva pensato di darle fuoco, lì fra la gente, e ridere guardandola danzare. Ma nei suoi occhi aveva visto il perdono: non poteva sopportare una cosa simile. Perdono, perfino per lui! Aveva quasi preso la mela; per un istante aveva desiderato prenderla, quasi a fare il primo passo in un corridoio buio che riportava alla luce. Ma poi la rabbia e il dolore erano divampati dentro di lui. Aveva sentito distorcersi le pareti stesse dell'universo, le ruote del tempo iniziare a incepparsi e a bloccarsi. Troppo tardi! Troppo tardi! Ma non aveva bisogno di nessuno e di nulla, per sopravvivere, si disse. Aveva, e avrebbe, sopportato. Questa era la sua festa. Era sempre andato avanti da solo. Sempre andato avanti da solo. Sempre andato avanti... Un grido echeggiò al limitare di Mary's Rest: coloro che lo udirono, pensarono che a mandarlo fosse una creatura scorticata viva. Ma la maggior parte della gente era occupata a raccogliere mele, a mangiarle vociando e ridendo. E non lo udì. 71 Un cerchio di torce illuminava la notte, lungo il perimetro dell'enorme parcheggio, venti chilometri a sud delle macerie di Lincoln, nel Nebraska. Al centro del parcheggio c'era un complesso di edifici in mattoni, collegati da passaggi coperti, con lucernari e ventilatori nei tetti piatti. Sulla parete di un edifico che fronteggiava la Statale 77 Sud, alcune lettere metalliche arrugginite dicevano: CENTRO DI VEN ITA ORE NBRIAR. Al limitare ovest del parcheggio, i fari di una jeep lampeggiarono due volte. Venti secondi dopo ci fu la risposta: un duplice lampo di fari, proveniente da un camioncino con il parabrezza corazzato, fermo nelle vicinanze di un ingresso del mall, la zona pedonale ricca di negozi. «Ecco il segnale» disse Roland Croninger. «Avanti.» Judd Lawry guidò lentamente la jeep nel parcheggio, diretto verso i fari che diventavano sempre più grandi mentre il camioncino s'avvicinava. Le gomme sobbalzavano su mattoni, pezzi di metallo, vecchie ossa e altri detriti sparsi sul cemento scivoloso per la neve. Alle spalle di Roland sedeva un soldato armato di mitra; Lawry portava nella fondina ascellare una .38;
Roland era disarmato. La distanza fra i due veicoli continuò a diminuire. Dall'antenna radio della jeep e del camioncino sventolava un pezzo di stoffa bianca. «Non ti lasceranno uscire vivo da lì» disse Lawry, quasi con indifferenza. Diede un rapido sguardo alla faccia bendata del capitano Croninger, coperta dal cappuccio del cappotto. «Perché ti sei offerto volontario?» La testa incappucciata si girò lentamente verso Lawry. «Mi piace l'avventura.» «Già. Be', fra poco ne avrai quanta ne vuoi... signore!» Lawry girò intorno alla carcassa di un'automobile incendiata e schiacciò il pedale del freno. A una quindicina di metri, il camioncino cominciò a rallentare. I due veicoli si fermarono a dieci metri l'uno dall'altro. Nel camion non ci furono movimenti. «Siamo in attesa!» gridò Roland dal finestrino; il fiato formò nuvolette di vapore, uscendo dalle labbra grinzose. I secondi trascorsero senza che ci fosse risposta. Poi dalla portiera del lato passeggeri scese un uomo biondo che indossava una giacca a vento blu scuro, calzoni marrone e stivali. Si allontanò di qualche passo e puntò contro il parabrezza della jeep un fucile a canne mozze. «Calma» ammonì Roland, mentre Lawry allungava la mano verso la .38. Un altro uomo scese dal camion e si fermò accanto al primo. Era smilzo e portava i capelli scuri tagliati molto corti; alzò le mani per mostrare che non era armato. «Va bene!» gridò quello con il fucile, innervosendosi. «Facciamo lo scambio!» Roland aveva paura. Ma da tempo aveva imparato come spingere da parte il bambino Roland e far comparire ser Roland, il cavaliere di ventura al servizio del Re. Dentro i guanti neri, aveva le mani sudate. Ma aprì la portiera e scese. Il soldato con il mitra lo seguì e si fermò a qualche passo da lui, tenendo sotto tiro l'altro uomo armato. Roland lanciò un'occhiata a Lawry per assicurarsi che lo stupido non piantasse casino, avanzò verso il camion. L'uomo dai capelli scuri iniziò a camminare verso la jeep, saettando gli occhi qua e là, nervoso. I due si oltrepassarono senza guardarsi in faccia; l'uomo con il fucile a canne mozze afferrò il braccio di Roland, quasi nello stesso istante in cui il soldato dell'EDE spingeva il prigioniero contro la fiancata della jeep. Roland fu obbligato ad appoggiarsi al camion, ad allargare le braccia e le gambe, a lasciarsi perquisire. Al termine, l'uomo gli girò intorno e gli pre-
mette sotto il mento il muso del fucile. «Cos'hai alla faccia?» domandò. «Cosa c'è sotto le bende?» «Sono rimasto gravemente ustionato» rispose Roland. «Tutto qui.» «Non mi piace!» L'uomo aveva capelli biondi lisci e radi, spietati occhi azzurri. «L'imperfezione è opera di Satana, sia lodato il Salvatore.» «Lo scambio è stato fatto» disse Roland. L'ostaggio della Fedeltà Americana era già stato spinto nella jeep. «Il Salvatore mi aspetta.» L'uomo esitò, nervoso e incerto. Poi Lawry cominciò a muovere a marcia indietro la jeep, ribadendo l'accordo. Roland non capì se era una mossa intelligente o stupida. «Sali!» Il soldato della Fedeltà Americana spinse Roland nella cabina del camion, fra sé e il guidatore robusto, dalla barba nera. Con un ampio giro, il camion tornò verso il mall. Attraverso la stretta feritoia del parabrezza blindato, Roland vide i fari illuminare altri veicoli che proteggevano la roccaforte della Fedeltà Americana: un camion corazzato sulla cui fiancata si leggeva ancora con difficoltà: BRINK'S, una jeep sul cui sedile posteriore era montata una mitragliatrice; un autotreno le cui fiancate presentavano decine di portelli da cui sporgeva la canna d'un fucile o mitragliatrice; un camion postale con una torretta di rete metallica; altre auto e altri camion; e poi il veicolo che provocò in gola a Roland un groppo grosso come uovo di gallina... un basso carro armato dall'aria micidiale, coperto di graffiti multicolori che dicevano cose come: IL VIRUS D'AMORE e: IL SALVATORE È VIVO! Il cannone principale del carro armato, notò Roland, era puntato nella direzione generica della roulotte del colonnello Macklin, dove il Re, colpito dalla febbre la notte prima, al momento era fuori gioco. Il camion passò fra il carro armato e un'altra automobile corazzata, superò il cordolo e risalì una rampa per invalidi; entrò nel mall attraverso il vano buio che un tempo conteneva una porta. I fari illuminarono un'ampia area pedonale centrale, fiancheggiata da negozi saccheggiati e distrutti molto tempo prima. Soldati armati di carabine, di pistole, di fucili a canne mozze, salutarono il passaggio del camion. Centinaia di lumi accesi nel corridoio centrale e nei magazzini bagnavano l'edificio, con un tremulo bagliore arancione, simili alle luci di una festa di Halloween. Centinaia di tende occupavano tutto lo spazio disponibile, tranne la sorta di sentiero percorso dal camion. L'intero esercito della Fedeltà Americana era accampato all'interno dello shopping mall. Mentre il camion svoltava in un atrio più vasto con il soffitto a lucernario, Roland udì dei canti e vide il bagliore
di un falò. Forse un migliaio di persone ammassate nell'atrio batteva ritmicamente le mani, cantava e si dondolava intorno a un grande fuoco di bivacco, il cui fumo turbinava verso il lucernario rotto. Quasi tutti avevano il fucile a tracolla. Il Salvatore, capì Roland, aveva invitato lì un ufficiale dell'EDE, solo per mettere in mostra il suo esercito e il suo armamento. Ma Roland aveva accettato l'invito solo per trovare un punto debole nella roccaforte. Il camioncino non entrò nell'atrio, ma girò in un corridoio che si diramava dal primo, anch'esso fiancheggiato da negozi saccheggiati che ora contenevano tende, bidoni di benzina e di nafta, casse di cibi in scatola e d'acqua in bottiglia, indumenti, armi e altre provviste. Il camion si fermò davanti a un negozio; il biondo con il fucile a canne mozze scese e con un gesto invitò Roland a seguirlo. Prima d'entrare, Roland vide sopra l'ingresso i resti di un'insegna: LIBRERIA B. DALTON. Tre lumi ardevano sul banco della cassa, i cui due registratori erano ridotti a un mucchio di ferraglia. Le pareti erano bruciacchiate; gli stivali di Roland calpestarono scheletri carbonizzati di vecchi libri. Nemmeno un volume rimaneva negli scaffali e sui tavoli d'esposizione. Tutto era stato ammucchiato e incendiato. Altri lumi brillavano dietro il banco delle informazioni. L'uomo con il fucile a canne mozze spinse Roland verso la porta chiusa del magazzino, dove un altro soldato della Fedeltà Americana, armato di fucile automatico, era fermo sull'attenti. Al suo avvicinarsi, il soldato abbassò il fucile e tolse la sicura. «Alt!» disse. Roland si fermò. Il soldato bussò alla porta. Spuntò la testa d'un uomo basso e calvo, dal viso volpino, che sorrise calorosamente. «Ah, salve! È quasi pronto a riceverti. Vuole sapere come ti chiami.» «Roland Croninger.» L'uomo ritrasse la testa e chiuse di nuovo la porta. La riaprì all'improvviso e domandò: «Sei ebreo?» «No.» Il cappuccio di Roland fu tirato bruscamente indietro. «Guarda!» disse l'uomo con il fucile a canne mozze. «Fagli sapere che ci hanno mandato un malato!» «Oh. Ahimè.» L'altro guardò con stizza la testa fasciata di Roland. «Cos'hai, Roland?» «Sono rimasto ustionato, il diciasse...» «È un bugiardo dalla lingua biforcuta, Fratello Norman!» La canna del fucile premette contro le rigide escrescenze sul cranio di Roland. «Ha la
Lebbra di Satana!» Fratello Norman corrugò la fronte e schioccò le labbra in segno di simpatia. «Aspetta un minuto» disse; e scomparve di nuovo nel magazzino. Tornò, si accostò a Roland e gli disse: «Apri la bocca, per favore». «Eh?» Il fucile gli diede una spintarella sulla testa. «Aprila.» Roland aprì la bocca. Fratello Norman sorrise. «Va bene. Ora tira fuori la lingua. Ohi, ohi, mi sa che hai bisogno d'uno spazzolino nuovo!» Posò sulla lingua di Roland un piccolo crocifisso d'argento. «Adesso tienilo in bocca per qualche secondo, va bene? E non inghiottirlo!» Roland ritrasse la lingua e tenne in bocca il crocifisso. Fratello Norman sorrise allegramente. «Il crocifisso è stato benedetto dal Salvatore» spiegò. «È speciale. Se c'è corruzione in te, il crocifisso diventerà nero. E allora Fratello Edward ti farà saltare la testa.» Per un attimo, dietro gli occhialoni, Roland sbarrò gli occhi. Passarono forse quaranta secondi. «Apri la bocca!» annunciò Fratello Norman, con voce allegra. Roland aprì la bocca, lentamente tirò fuori la lingua, spiò sul viso dell'altro la reazione. «Indovina!» disse Fratello Norman. Prese il crocifisso e lo tenne davanti agli occhi. Era ancora lucido e argenteo. «Promosso! Il Salvatore ti riceverà.» Fratello Edward diede a Roland ancora un colpetto alla testa, per buona misura. Roland seguì nel magazzino Fratello Norman. Sentiva il sudore colargli lungo i fianchi, ma aveva la mente fredda e lucida. Un uomo dai capelli grigi e ondulati, pettinati all'indietro, seduto in piena luce nella poltrona davanti al tavolo, era sottoposto alle cure di un altro uomo e di una giovane donna. Nella stanza c'erano altre persone, tre o quattro, in piedi, al limitare del cerchio di luce. «Ciao Roland» disse gentilmente l'uomo dai capelli grigi, senza alzarsi; un sorriso gli increspò l'angolo sinistro delle labbra. L'uomo teneva la testa dritta e immobile: Roland vedeva solo il profilo del lato sinistro... fronte alta e aristocratica, naso forte e a becco, sopracciglio castano e dritto, limpido occhio azzurro, guancia ben rasata, mascella volitiva, mento robusto come un mazzuolo. Probabilmente il Salvatore era vicino alla sessantina, ma sembrava in ottima salute e non aveva alcun segno sul viso. Indossava un abito completo, a righe, con panciotto e cravatta blu; sembrava pronto a predicare davanti alle telecamere in una delle sue trasmissioni televisive
via cavo... ma dopo un'attenta osservazione, Roland notò zone assai lise nei punti di tensione della giacca e rinforzi alle ginocchia dei calzoni. Il Salvatore calzava scarponi da escursionista. Dal collo penzolavano sul davanti del panciotto almeno quindici crocifissi d'oro e d'argento, alcuni tempestati di pietre preziose. Le mani robuste del Salvatore erano ornate da cinque o sei anelli di brillanti. L'uomo e la giovane donna gli ritoccavano il viso, con matite e piumini per cipria. Sul tavolo c'era una scatola per il trucco, aperta. Il Salvatore sollevò leggermente la testa in modo che la donna potesse incipriargli il collo. «Fra circa cinque minuti, Roland, devo presentarmi al mio popolo. Già tutti cantano per me. Hanno voci angeliche, non credi?» Roland non rispose e il Salvatore sorrise debolmente. «Da quanto tempo non ascolti musica?» «La faccio da me» rispose Roland. Il Salvatore inclinò la testa verso destra, mentre l'uomo gli passava la matita sul sopracciglio. «Mi piace avere l'aspetto migliore» disse. «Non ci son scuse, per un aspetto trasandato, neppure in questi giorni e in quest'epoca. Voglio che il mio popolo mi guardi e tragga fiducia. E la fiducia è una buona cosa, vero? Significa che sei forte, che puoi affrontare le trappole tese da Satana. Oh, Satana è assai affaccendato, di questi tempi, Roland... sì, è molto impegnato!» Piegò le mani in grembo. «Naturalmente, Satana ha molte facce, molti nomi... e uno di questi potrebbe essere Roland. È così?» «No.» «Be', Satana è un bugiardo; perciò, cosa pretendo?» Si mise a ridere e gli altri lo imitarono. Tornato serio, permise alla donna di applicargli il belletto alla guancia sinistra. «E va bene, Satana... cioè, Roland: dimmi che cosa vuoi. E perché, negli ultimi due giorni, tu e il tuo esercito di demoni ci avete seguiti e adesso circondati. Se conoscessi le tattiche militari, penserei che volete assediarmi. E non mi piacerebbe. Sarei turbato, al pensiero di tanti poveri demoni sul punto di morire per il loro Padrone. Parla, Satana!» La voce schioccò come una frusta: tutti nella stanza sobbalzarono, tranne Roland. «Sono il capitano Roland Croninger, dell'Esercito d'Eccellenza. Il mio ufficiale superiore è il colonnello James Macklin. Vogliamo le vostre provviste di benzina, nafta, cibo, armi. Se ce le darete entro sei ore, ci ritireremo e vi lasceremo in pace.» «Vuoi dire pace eterna, vero?» Il Salvatore sogghignò e quasi girò il vi-
so verso Roland, ma la donna in quel momento gli incipriava la fronte. «L'Esercito d'Eccellenza. Mi pare d'averne sentito parlare. Credevo che foste nel Colorado.» «Ci siamo spostati.» «Be', immagino che sia quel che gli eserciti fanno normalmente, no? Oh, abbiamo già incontrato "eserciti".» Strascicò la parola, come se gli desse una sensazione disgustosa. «Alcuni indossavano misere divise e impugnavano fucili giocattolo: sono crollati come pupazzetti di carta. Nessun esercito può affrontare il Salvatore, Roland. Torna a riferirlo al tuo "ufficiale superiore". Riferiscigli pure che pregherò per le vostre anime.» Sembrava un congedo. Roland decise di tentare un'altra tattica. «Chi pregherai? Il dio in cima a monte Warwick?» Seguì il silenzio. I due artisti del trucco impietrirono e guardarono Roland. Si udiva il respiro del Salvatore. «Fratello Gary si è unito a noi» continuò con calma Roland. «Ci ha raccontato tutto... dove andate e perché.» Sottoposto alle tecniche di persuasione di Roland, nella roulotte nera, Gary Cates aveva ripetuto le stesse cose: Dio viveva su monte Warwick, nella Virginia occidentale, dove c'era anche una scatola nera e una chiave d'argento che avrebbero deciso il futuro della terra. Nemmeno l'uso della mola gli aveva fatto cambiare la storia. Mantenendo la parola, Macklin aveva risparmiato la vita a Fratello Gary: l'aveva fatto scorticare vivo e appendere per le caviglie all'asta della bandiera sulla facciata dell'ufficio postale di Sutton. Il silenzio perdurò. Alla fine il Salvatore disse, piano: «Non conosco alcun Fratello Gary». «Lui conosce te. Ci ha detto quanti soldati hai. Ci ha parlato dei due carri armati. Uno l'ho già visto; il secondo sarà dall'altra parte. Fratello Gary è una miniera d'informazioni! Ci ha raccontato di Fratello Timothy, che ti guida a monte Warwick a trovare Dio.» Roland sorrise, mettendo in mostra i denti guasti. «Ma Dio è più vicino della Virginia occidentale. Molto più vicino. È proprio qui fuori. E fra sei ore ti farà saltare all'inferno, se non avremo quel che vogliamo.» Il Salvatore sembrava incollato alla sedia. Roland lo vide tremare. Vide l'angolo sinistro della bocca vibrare e l'occhio sinistro gonfiarsi, come spinto da una pressione vulcanica. Il Salvatore scostò i due truccatori. Girò la testa verso Roland... e mostrò entrambi i lati del viso. Il lato sinistro era perfetto, ravvivato dal belletto e lisciato dalla cipria. Il
lato destro era un incubo di tessuto cicatriziale, con la carne scavata da un'orribile ferita, l'occhio bianco e morto come un ciottolo di fiume. Il Salvatore puntò su Roland l'occhio buono, come se fosse l'Ora del Giudizio; si alzò, afferrò la sedia e la scagliò lontano. Con un tintinnio di crocifissi avanzò verso Roland e alzò il pugno. Roland non si spostò d'un millimetro. Si fissarono in un silenzio profondo come quello che precede lo scontro fra una forza irresistibile e un oggetto inamovibile. «Salvatore» disse una voce. «Costui è pazzo, vuole solo esasperarti.» Il Salvatore esitò, sbatté la palpebra dell'occhio buono. Roland intuì il movimento delle rotelle che tentavano di dare un senso a quella scena. Una figura avanzò dalla penombra, alla destra di Roland. Era un uomo alto, dall'aria fragile, vicino alla trentina, con capelli neri pettinati all'indietro e occhiali cerchiati di metallo, occhi castani e infossati. Una cicatrice da ustione gli andava a zigzag come un fulmine dalla fronte alla nuca; lungo il percorso, i capelli erano incanutiti. «Non toccarlo, Salvatore» disse piano l'uomo. «Loro hanno Fratello Kenneth.» «Fratello Kenneth?» Il Salvatore scosse la testa, senza capire. «Hai mandato Fratello Kenneth in cambio di quest'uomo. Fratello Kenneth è un bravo meccanico. Non vogliamo che gli succeda qualcosa, giusto?» «Fratello Kenneth» ripeté il Salvatore. «Un bravo meccanico. Sì. È un bravo meccanico.» «È quasi ora che tu vada» disse l'uomo. «Cantano per te.» «Sì. Cantano. Per me.» Il Salvatore guardò il pugno fermo a mezz'aria; aprì la mano e lasciò ricadere il braccio lungo il fianco. Fissò il pavimento; e l'angolo sinistro della sua bocca vibrò in un sogghigno. «Povero me, povero me!» si crucciò Fratello Norman. «Terminiamo il lavoro, ragazzi! Ora è sconvolto. Invece deve apparire fiducioso!» Altre due persone emersero dalla penombra, presero per le braccia il Salvatore e lo girarono come un burattino, in modo che i truccatori finissero il lavoro. «Sei uno sciocco e stupido infedele» disse a Roland l'uomo con gli occhiali. «Devi avere una gran voglia di morire.» «Vedremo chi vive e chi muore, appena le sei ore scadranno.» «Dio è davvero sul monte Warwick. Vive nei pressi della vetta, dove ci sono le miniere di carbone. Io l'ho visto. L'ho toccato. Sono Fratello Timothy.»
«Tanto piacere.» «Puoi venire con noi, se ti aggrada. Puoi unirti a noi, venire a trovare Dio e scoprire come i malvagi morranno nell'ora finale. Lui sarà ancora lì, ad aspettarci. Lo so.» «Quando sarà, l'ora finale?» Fratello Timothy sorrise. «Lo sa solo Dio. Ma mi ha mostrato come il fuoco pioverà dal cielo, e in questo diluvio anche l'arca di Noè sarebbe sommersa. Nell'ora finale tutte le imperfezioni e le malvagità saranno lavate via e il mondo tornerà nuovo e pulito.» «Giusto» disse Roland. «Sì. Giusto davvero. Sono stato con Dio, sette giorni e sette notti, su monte Warwick; mi ha insegnato la preghiera che reciterà nell'ora finale.» Fratello Timothy chiuse gli occhi; con un sorriso estatico iniziò a recitare: «Qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce, la Dama delle situazioni. Ecco qui l'uomo con le tre aste, ecco la Ruota, e qui il mercante con un occhio solo, e questa carta, che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso, e che a me non è dato di vedere. Non trovo l'Impiccato. Temete la morte per acqua.» Quando li aprì, gli occhi luccicavano di lacrime. «Portate via quel Satana!» gracchiò il Salvatore. «Portatelo fuori!» «Sei ore» disse Roland; ma la preghiera per l'ora finale gli echeggiò nella mente come il ricordo d'una campana funeraria. «Scompari dalla mia vista, Satana; scompari dalla mia vista, Satana; scompari dalla mia vista, Sata...» intonò il Salvatore. E Roland fu portato fuori del magazzino e affidato di nuovo a Fratello Edward. S'impresse in testa tutto quel che vedeva, per riferirlo al colonnello Macklin. Non aveva scoperto chiari punti deboli, ma se avesse messo sulla carta quel che aveva visto, forse uno sarebbe comparso. Il rito dei fari si ripeté. Tornato sulla jeep, Roland respirò con maggiore tranquillità, mentre Judd Lawry guidava la macchina verso l'accampamento dell'Esercito d'Eccellenza. «Ti sei divertito?» domandò Lawry. «Sì. Portami subito al quartier generale.» Non trovo l'Impiccato, pensò Roland. Aveva la sensazione di conoscere la preghiera di Dio per l'ora finale... ma non era una preghiera. No. Era... era... Intorno alla roulotte del colonnello ferveva una certa attività. Le guardie avevano abbandonato la posizione e una di esse con il calcio del fucile martellava la porta. Roland saltò giù dalla jeep ancora in moto e corse verso la roulotte. «Cosa succede?»
Una guardia gli rivolse in fretta il saluto. «Il colonnello si è chiuso dentro, signore! Non riusciamo ad aprire la porta e... be', meglio che lei ascolti di persona!» Roland salì i gradini, spinse via l'altra guardia e tese l'orecchio. Dalla porta metallica dell'Airstream proveniva il rumore di mobili rotti e di vetri infranti. E un gemito a malapena umano che provocò i brividi perfino a Roland Croninger. «Gesummio!» mormorò Lawry, sbiancandosi. «Lì dentro con lui dev'esserci chissà quale belva!» L'ultima volta che Roland aveva visto il colonnello, Macklin era immobile sul lettino e bruciava di febbre. «Con lui doveva esserci sempre qualcuno!» disse bruscamente Roland. «Cos'è accaduto?» «Sono uscito solo per cinque minuti a fumare una sigaretta» disse l'altra guardia; negli occhi aveva la paura di chi sapeva che quella sigaretta gli sarebbe costata assai cara. «Solo cinque minuti, signore!» Roland batté il pugno contro la porta. «Colonnello! Apri! Sono Roland!» Il gemito divenne un grugnito gutturale che sembrava l'equivalente animalesco d'un singhiozzo. Un altro oggetto si fracassò... e scese il silenzio. Roland batté ancora, poi indietreggiò e disse alla guardia di aprire la porta anche a costo di farla saltare dai cardini. Ma un altro salì con calma i gradini e tese verso la porta la mano armata di un coltello dalla lama sottile. «Ti dispiace se faccio un tentativo, capitano?» L'aria sibilò nel foro che una volta era stato il naso di Alvin Mangrim. Roland non poteva soffrire Alvin, e neppure quel maledetto e orribile nano che gli saltellava sempre a qualche passo di distanza. Ma valeva la pena fare un tentativo. «Procedi pure» disse. Mangrim inserì nella serratura la lama del coltello. La girò avanti e indietro, una frazione di millimetro alla volta. «Se ha messo i catenacci, non c'è niente da fare» disse. «Vedremo.» «Fai quel che puoi.» «I coltelli conoscono il mio nome, capitano. Mi parlano e mi dicono cosa fare. Questo qui proprio ora mi parla. Mi dice: "Piano, Alvin, piano: il trucco è tutto qui".» Girò gentilmente la lama. Con uno scatto secco la serratura cedette. «Vedi?» Il colonnello non aveva messo i catenacci. La porta si aprì. Roland entrò nella roulotte buia, con Lawry e Mangrim alle calcagna. «Luce» disse; la guardia che era andata di nascosto a fumarsi una sigaretta
azionò l'accendino e glielo porse. L'ingresso era una rovina: il tavolo era capovolto, la sedia a pezzi, i fucili erano stati staccati dalla parete e adoperati per fracassare i lumi e il mobilio. Roland entrò nella stanza da letto, ugualmente in rovina. Il colonnello Macklin non era lì, ma la fiamma dell'accendino mostrò quelli che sembravano frammenti di terraglie, sparsi dappertutto sul cuscino bagnato di sudore. Roland ne raccolse uno e lo esaminò, senza riuscire a capire che cosa fosse; ma si sporcò le dita di una sostanza gelatinosa e lo buttò via. «Qui non c'è!» gridò Lawry, dall'altro capo della roulotte. «Sarà pure da qualche parte!» gridò Roland in risposta. Nel silenzio che seguì, udì un rumore. Un piagnucolio. Proveniva dall'armadio della stanza da letto. «Colonnello?» Il piagnucolio cessò, ma Roland udì ancora un ansimare di paura. Roland si accostò all'armadio, posò la mano sulla maniglia. «Vattene, maledizione!» tuonò una voce, da dietro l'anta. Roland impietrì. La voce era una scimmiottatura da incubo di quella del colonnello Macklin. Sembrava gorgogliare fra lame di rasoio. «Devo... devo aprire, colonnello» protestò Roland. «No... no... ti prego, vattene!» Il grugnito gutturale si ripeté. Roland capì che Macklin piangeva. Allora irrigidì la schiena. Non sopportava che il Re si mostrasse debole. Non era comportamento adatto a un re. Un re non dovrebbe mai mostrare debolezza, mai! Roland girò la maniglia, spalancò l'armadio, alzò l'accendino per vedere all'interno. Urlò. Arretrò in fretta, senza smettere di urlare, mentre la belva dentro l'armadio... la belva che indossava l'uniforme del colonnello Macklin e perfino la mano chiodata... strisciava fuori e con un ghigno folle cercava di reggersi in piedi. La crosta d'escrescenze si era staccata dal viso e dalla testa del colonnello. Mentre arretrava, Roland capì che erano quelli i pezzi sparsi sul guanciale. La faccia di Macklin si era rigirata come un guanto. La carne era color dell'osso, il naso era crollato all'interno; le vene, i muscoli, le cartilagini correvano sulla superficie del viso, si contorcevano e vibravano, mentre le orrende mascelle si spalancavano in una risata stridula come unghia grattata sulla lavagna. I denti si erano incurvati in zanne scabre, le gengive erano
chiazzate e ingiallite. Le vene del viso, dense come vermi, s'intrecciavano sulle guance ossute, sotto le orbite degli occhi azzurro ghiaccio, storditi e fissi, sulla fronte, fra la massa di capelli brizzolati e folti, appena spuntati. Sembrava che lo strato esterno del viso fosse stato pelato via, o fosse imputridito, mostrando la cosa più simile a un teschio vivente che Roland avesse mai visto. Macklin rideva. I muscoli della mascella, orribilmente esposti, vibravano e tremolavano. Le vene si contorcevano, gonfiate dalla pressione del sangue. Ma anche nel riso, gli occhi erano pieni di lacrime; e Macklin cominciò a battere contro la parete la mano chiodata e a strisciare i chiodi contro i pannelli di rivestimento. Lawry e Mangrim erano entrati nella stanza. Lawry si fermò di botto, nel vedere il mostro con gli abiti del colonnello Macklin; allungò la mano verso la .38, ma Roland gli afferrò il polso. Mangrim si limitò a sorridere. «Fantastico, amico!» commentò. 72 Sister sognava il sole, caldissimo in un abbagliante cielo azzurro, e vedeva di nuovo la propria ombra. Il regale calore le giocava sul viso, scendeva fra le rughe e le pieghe, filtrava fino alle ossa. Era magnifico, non sentire più freddo, vedere di nuovo il cielo azzurro e la propria ombra! La giornata d'estate prometteva d'essere afosa e lei già sudava, ma anche il sudore era piacevole. Ammirare un cielo non più fosco e rannuvolato era uno dei momenti più felici della sua vita: se doveva morire, pregava Iddio che avvenisse sotto la luce del sole. Tese le braccia verso il sole e mandò un grido di gioia, perché il lungo e terribile inverno era finalmente terminato. Seduto accanto al letto, Paul Thorson credette che Sister dicesse qualcosa... un semplice mormorio assonnato. Si sporse per sentire meglio, ma Sister rimase in silenzio. Intorno a lei, l'aria pareva incresparsi di calore, anche se fuori il vento fischiava e con il buio la temperatura era scesa ben al di sotto dello zero. Quel mattino Sister aveva detto a Paul di sentirsi debole, ma aveva tirato avanti per tutta la giornata, finché, prostrata dalla febbre, non era caduta sulla veranda; da sei ore dormiva e di tanto in tanto delirava. Anche nel sonno, però, Sister teneva stretta la borsa con il cerchio di vetro e nemmeno Josh era riuscito a farle allentare la presa.
Paul pensava che il ritrovamento di Swan mettesse fine al sentiero del sogno. Ma quella mattina aveva visto Sister scrutare con attenzione nelle profondità del vetro, proprio come aveva fatto prima di raggiungere Mary's Rest. Aveva visto le luci riflesse negli occhi della donna e riconosciuto quello sguardo fisso: ancora una volta il cerchio l'aveva portata via e Sister camminava nel sogno, in qualche luogo al di là del regno dei sensi e della fantasia di Paul. Tornata in sé, dopo solo una ventina di secondi, Sister non aveva voluto parlare della sua esperienza. Aveva rimesso nella borsa il cerchio di vetro e non l'aveva più guardato. Ma era turbata; e Paul aveva capito che questa volta il sentiero del sogno aveva fatto una svolta tenebrosa. «Come sta?» Swan era ferma dietro di lui, chissà da quanto tempo. «Sempre uguale» rispose Paul. «Brucia come un fuoco di primo grado.» Swan si accostò al letto. Ormai conosceva bene i sintomi. Nei due giorni trascorsi da quando Sly Moody le aveva portato in dono le mele, lei e Josh avevano visto altre otto vittime della Maschera di Giobbe scivolare in un sonno febbrile e comatoso. Quando le escrescenze erano cadute a pezzi, sette di loro avevano la pelle priva del minimo segno e il viso uguale a prima... o addirittura migliore. Ma l'ottavo caso era stato diverso. Si trattava di un certo DeLauren, che abitava da solo in una piccola baracca sul limitare di Mary's Rest. Josh e Swan erano stati chiamati da un vicino, che aveva trovato DeLauren disteso sul lurido pavimento della baracca, privo di sensi e in preda alla febbre. Josh l'aveva portato sul letto... e con il suo peso aveva rotto un'asse del tavolato. Nel chinarsi a rimetterla a posto, aveva sentito l'odore di carne in putrefazione e aveva visto un luccichio umido nel buio. Dal foro aveva estratto una mano umana, mozzata al polso, le dita in parte rosicchiate. E in quel momento la maschera di DeLauren si era rotta, rivelando qualcosa di nero e di abietto. L'uomo si era alzato a sedere urlando; quando aveva capito che la sua riserva di cibo era stata scoperta, si era messo a strisciare e aveva cercato di azzannare Josh, con piccoli denti appuntiti. Swan aveva distolto lo sguardo, prima che tutta la maschera cadesse dal viso, ma Josh aveva afferrato per la collottola DeLauren e l'aveva scagliato a testa avanti fuori della porta. L'avevano visto fuggire verso i boschi, stringendosi al viso le mani. Era impossibile dire quanti corpi fossero stati fatti a pezzi e nascosti sotto l'assito della baracca, né risalire al nome delle vittime. Il vicino di De-
Lauren, sconvolto, disse che l'uomo era sempre stato un tipo tranquillo, affabile, incapace di fare male a una mosca. Dietro suggerimento di Swan, Josh aveva dato fuoco alla baracca e l'aveva lasciata bruciare completamente. Tornato da Glory, Josh aveva passato quasi un'ora a lavarsi le mani, finché non si era tolto dalla pelle la sozzura di DeLauren. Swan toccò la Maschera di Giobbe che copriva la parte inferiore del viso di Sister e tutto il cranio. Anch'essa scottava. «Secondo te, che aspetto ha, nel suo intimo?» domandò a Paul. «Eh?» «Fra poco comparirà la sua vera faccia» disse Swan; i suoi occhi blu scuro, con le scintille multicolori, fissarono quelli di lui. «C'è questo, sotto la Maschera di Giobbe: la vera faccia di ciascuno.» Paul si grattò la barba. Non capiva che cosa dicesse Swan; ma quando la ragazza parlava, anche lui, come tutti, ascoltava la sua voce gentile, che trasmetteva però una forza di pensiero molto più matura di lei. Il giorno precedente Paul aveva lavorato con gli altri nel campo, aiutando a scavare buche e guardando Swan piantare i torsoli raccolti dopo la grande festa delle mele. Aveva spiegato con cura quanto dovevano essere profonde e distanziate le buche; poi, mentre Josh la seguiva spingendo una carriola piena di torsoli, Swan aveva preso manciate di terriccio, l'aveva impastato con la saliva e con quello aveva strofinato ogni torsolo prima di deporlo nella buca e di ricoprirlo. E la cosa più folle era che la presenza di Swan aveva dato a Paul la voglia di lavorare, anche se scavare la terra gelata non era la sua idea sul modo migliore di trascorrere il giorno. Ed era bastata una sua parola d'incoraggiamento per ridargli energia, come una batteria sotto carica. Paul aveva visto che Swan aveva lo stesso effetto anche sugli altri ed era convinto che avrebbe fatto crescere un melo da ogni torsolo piantato; era orgoglioso di scavare buche per lei, finché la tromba di Gedeone non avesse suonato jazz di New Orleans. Credeva davvero in lei; e se Swan diceva che fra poco sarebbe comparso il vero viso di Sister, non lo metteva in dubbio. «Secondo te, che aspetto ha, nel suo intimo?» domandò di nuovo Swan. «Non so» rispose infine Paul. «Non ho mai conosciuto nessuno coraggioso come lei. È una donna eccezionale. Una vera signora.» «Sì, hai ragione.» Swan guardò la superficie bitorzoluta della Maschera di Giobbe. Presto, pensò; molto presto. «Non stare in pensiero per lei» disse. «Perché non ti riposi un poco?» «No, rimango qui. Se mi viene sonno, mi stendo per terra. Gli altri dor-
mono tutti?» «Sì. È tardi.» «Già. Faresti bene anche tu a dormire un poco.» «Certo. Ma quando succederà, mi piacerebbe assistere.» «Ti chiamerò» promise Paul. E poi credette che Sister dicesse di nuovo qualcosa e si sporse ad ascoltare. Sister mosse lentamente la testa qua e là, ma non emise suono e giacque di nuovo immobile. Quando Paul alzò gli occhi, Swan era uscita. Swan era troppo tesa per dormire. Si sentiva come una bambina la vigilia di Natale. Attraversò la stanza d'ingresso, dove gli altri dormivano per terra intorno alla stufa, e aprì la porta. Il vento freddo entrò nella stanza, ravvivò le braci. Swan uscì in fretta, si strinse nel cappotto e si chiuse la porta alle spalle. «È tardi per stare ancora alzata» disse Anna McClay. Sedeva sui gradini della veranda, accanto a un ex operaio metallurgico di Pittsburgh di nome Polowsky; indossavano entrambi cappotto pesante, berretto, guanti; ed erano armati di fucile. All'alba, altri due avrebbe preso il loro posto per qualche ora: i turni continuavano giorno e notte. «Come sta Sister?» «Nessun cambiamento, ancora.» Swan guardò il fuoco che ardeva nel centro della via. Il vento lo frustò e alzò al cielo una cascata di scintille. Una trentina di persone dormiva intorno al fuoco; parecchi altri se ne stavano seduti a fissare le fiamme o a chiacchierare per trascorrere la notte. Finché non avesse scoperto dove si trovava l'uomo con l'occhio scarlatto, Sister aveva chiesto che la baracca fosse sorvegliata in continuazione, richiesta che Josh e gli altri avevano subito approvato. Altri volontari restavano tutta la notte intorno ai fuochi accesi nel campo, a sorvegliare le piante di granturco e la zona dove erano stati seminati i meli. Swan aveva raccontato a Josh e a Sister d'avere affrontato l'uomo con l'occhio scarlatto, quel giorno fra la folla; pensava di capire, almeno in parte, perché lui era deciso a infliggere tanta sofferenza agli esseri umani. L'uomo aveva quasi accettato la mela, ma all'ultimo istante aveva ceduto alla rabbia cieca e all'orgoglio. Swan aveva visto che lui la odiava, e che odiava se stesso per avere desiderato di superare la propria condizione. Ma aveva avuto paura di lei; e mentre lo guardava andare via a passo malfermo, Swan aveva capito che il perdono menomava il male, ne estraeva il veleno, come se incidesse una pustola. Non sapeva che cosa sarebbe accaduto se lui avesse accettato la mela, ma quell'attimo era fuggito. Però ora non temeva più l'uomo dall'occhio scarlatto: da quel giorno non si era più
guardata alle spalle per vedere chi aveva dietro. Camminò fino all'angolo della veranda, dove Mulo era legato al palo di sostegno. Il cavallo era tenuto al caldo da alcune coperte e aveva vicino un secchio d'acqua di pozzo. Trovargli il cibo era un problema, ma Swan aveva conservato per lui i torsoli d'una decina di mele e glieli dava da mangiare, oltre alle radici e a un po' di fieno di cui era imbottito il materasso del signor Polowsky. A quest'ultimo piacevano i cavalli e si era offerto di aiutare a trovare cibo e acqua per Mulo. In genere il cavallo non aveva simpatia per gli estranei, ma a quanto pareva, aveva accettato senza irritarsi troppo le attenzioni di Polowski. Mulo teneva la testa ciondoloni, ma dilatò le narici appena colse l'odore di Swan e subito alzò la testa, con occhi spalancati e attenti. Swan lo accarezzò fra gli occhi e gli passò la mano sul muso vellutato; Mulo le mordicchiò le dita. All'improvviso Swan guardò verso il fuoco e scorse l'uomo là in piedi, stagliato contro le fiamme e le scintille; non riusciva a vedere la faccia, ma aveva l'impressione che lui la fissasse e si sentì accapponare la pelle. Distolse in fretta lo sguardo e badò solo ad accarezzare il muso di Mulo. Ma poi si volse a guardare Robin, che si era avvicinato di qualche passo alla veranda. Sentì che il cuore accelerava i battiti e di nuovo distolse lo sguardo. Ma con la coda dell'occhio guardò Robin avvicinarsi e fermarsi a far finta d'esaminare qualcosa per terra, spingendolo con la punta dello stivale. E ora di tornare dentro, si disse; di controllare come sta Sister. Ma le gambe non volevano muoversi. Robin venne più vicino; si fermò, scrutò al di là del fuoco, come se la sua attenzione fosse stata attirata da qualcosa. Infilò le mani in tasca, parve incerto se tornare al caldo. Swan si sentì nervosa come una cavalletta sopra una roccia ardente. Robin avanzò ancora d'un passo. Aveva preso una decisione. Ma l'autocontrollo di Swan cedette e la ragazza si avviò a tornare dentro la baracca. Fu Mulo, a decidere, stringendole per gioco fra i denti le dita e tenendola prigioniera i pochi secondi sufficienti perché Robin si avvicinasse. «Credo che il tuo cavallo abbia fame» disse Robin. Swan liberò le dita. Cominciò di nuovo a voltarsi, anche se il cuore le batteva con tanta forza da farle credere che lui non potesse non udirlo come un tuono lontano all'orizzonte. «Non andare via» disse Robin, piano. «Per favore.» Swan si bloccò. Lui non assomigliava ai divi del cinema le cui foto
riempivano le riviste della madre, perché non aveva le fattezze regolari e hollywoodianamente belle; non sembrava uno dei ragazzi ben curati delle telenovelas che Darleen Prescott guardava. Il viso, nonostante le linee dure e gli spigoli, era giovane, ma gli occhi erano vecchi. Avevano il colore della cenere, ma sembravano pronti a infiammarsi. Swan incontrò il suo sguardo, vide che lui aveva allentato la maschera di durezza. I suoi occhi erano miti, forse perfino teneri, mentre la guardava. «Ehi!» disse Anna McClay. «Pensa agli affari tuoi. Swan non ha tempo per te.» Il viso di Robin s'indurì. «Chi t'ha nominato sua sorvegliante?» «Non sorvegliante, furbastro. Protettrice. Ora, perché non fai il bravo bambino e te ne vai a...» «No» la interruppe Swan. «Non mi occorrono sorveglianti né protettrici. Ti ringrazio perché ti preoccupi di me, Anna, ma so badare a me stessa.» «Oh. Scusa. Pensavo solo che t'infastidisse di nuovo.» «Non m'infastidisce. Sul serio.» «Sei sicura? Quelli del suo stampo li vedevo gironzolare per il luna park in cerca di tasche da ripulire.» «Sono sicura» rispose Swan. Anna lanciò a Robin un'ultima occhiata d'ammonimento e tornò a chiacchierare con Polowski. «Questo si chiama parlar chiaro» disse Robin, con un sorriso di gratitudine. «Sarebbe ora che qualcuno la pigliasse a calci nel sedere.» «No. Forse a te Anna non piace, e tu a lei non piaci di sicuro; ma lei fa quel che ritiene meglio per me, e gliene sono grata. Se tu mi dessi fastidio davvero, lascerei che ti cacciasse via.» Il sorriso di Robin impallidì. «Allora pensi di essere migliore di tutti?» «Non intendevo questo.» Swan si sentì agitata e nervosa, la lingua le si impigliava fra il pensiero e la parola. «Volevo solo dire... che Anna fa bene a essere prudente.» «Ah-hah. Allora t'infastidisco mostrandomi amichevole?» «Sei stato un po' troppo amichevole, quando sei venuto nella baracca a... a svegliarmi in quel modo» replicò lei, in tono vivace. Arrossì e avrebbe voluto tornare indietro, cominciare da capo la conversazione in modo diverso; ma ormai non poteva farci niente ed era un po' spaventata, un po' arrabbiata. «E non offrivo a te quella mela, l'altro giorno!» «Oh, capisco. Be', io tengo i piedi per terra. Non su un piedistallo, come altri. Forse non ho potuto fare a meno di baciarti; forse, quando t'ho vista lì in piedi con una mela in mano e gli occhi spalancati, non ho potuto evitare
di prenderla. Ti ritenevo una persona a posto, non una piccola principessa piena d'arie.» «Non è vero!» «No? Be', da come ti comporti, non si direbbe. Senti, ho girato il mondo, ho conosciuto un mucchio di ragazze: riconosco la boria, quando la vedo!» «E io...» Piantala, si disse; piantala subito! Ma non poteva, perché non osava fargli capire fino a che punto era spaventata. «E io riconosco uno... uno sciocco spaccone e villano, quando lo vedo.» «Già, sono uno sciocco, hai ragione!» Scosse la testa e rise senza allegria. «Sono sciocco, a pensare di fare amicizia con la principessa di ghiaccio, eh?» Si allontanò a passo deciso prima che lei potesse rispondere. Swan riuscì solo a dire: «Non infastidirmi più!» Ma rimase dispiaciuta e strinse i denti per non richiamarlo. Se si comportava da sciocco, lo era davvero! Un bambino con un brutto carattere. Non voleva avere più niente a che fare con lui. Ma una parola gentile l'avrebbe fatto tornare. Una sola parola gentile, nient'altro. Era un'impresa così difficile? Robin l'aveva fraintesa e forse anche lei l'aveva frainteso. Anna e il signor Polowsky la guardavano e forse Anna aveva sulle labbra il sorrisino di chi la sa lunga. Mulo brontolò e soffiò una nuvoletta di vapore in faccia a Swan. Lei mise da parte l'orgoglio e si apprestò a richiamare Robin, ma proprio in quel momento la porta della baracca si aprì e Paul Thorson, tutto eccitato, disse: «Swan! È ora!» Swan guardò Robin camminare verso il falò. Poi seguì Paul dentro la baracca. Robin si fermò al limitare del fuoco. Strinse il pugno e se lo posò sulla fronte. «Scemo, scemo, scemo, scemo!» disse, colpendosi da solo. Ancora non capiva che cosa fosse accaduto; sapeva solo d'avere avuto una paura folle anche solo a parlare con una ragazza bella come Swan. Aveva voluto fare colpo su di lei... e ora si sentiva come se avesse camminato scalzo in un pascolo di mucche. «Scemo, scemo, scemo!» continuò a ripetersi. Naturalmente non aveva affatto conosciuto un mucchio di ragazze: a dire il vero, non ne aveva conosciuta nessuna. Non sapeva come comportarsi, con loro. Erano creature di un altro pianeta. Come fai a parlare con loro senza... sì, senza fare la figura dello sciocco spaccone? Be', si disse, ormai il guaio è fatto! Ma era sconvolto e sentiva un nodo alla bocca dello stomaco. E quando chiuse gli occhi, ancora vedeva Swan in piedi davanti a lui, radiosa come il suo sogno più fantastico. Dal primo
giorno non era più riuscito a togliersela dalla mente. Me ne sono innamorato, pensò. Aveva sentito parlare dell'amore, ma non sapeva che l'amore ti fa sentire stordito, sofferente e insicuro, tutto nello stesso tempo. L'amava. E non sapeva se gridarlo al vento o piangere: rimase a fissare le fiamme e non vedeva altro che il viso di Swan. «M'è parso di sentire due frecce colpire un paio di sederi» disse Anna al signor Polowsky. Si guardarono in faccia e risero. 73 L'uomo con il viso simile a un teschio, in piedi sulla jeep, sollevò un megafono a pila. Dischiuse i denti frastagliati e gridò: «Uccideteli! Uccidete! Uccidete! Uccidete!» Il ruggito di Macklin si mischiò al rombo di motori accesi e fu soffocato dal fragore di automezzi in movimento, quando nel parcheggio più di seicento veicoli corazzati, auto, camion, jeep e furgoni, avanzarono verso la roccaforte del Salvatore. La luce grigia dell'alba fu sporcata da colonne di fumo: nel parcheggio si alzavano fiamme dalle carcasse dei duecento veicoli distrutti nelle due ondate d'assalto precedenti. Soldati dell'EDE, morti o moribondi, giacevano sul cemento pieno di crepe. Si udirono nuove grida di dolore, quando la terza ondata passò sopra i feriti. «Uccideteli! Uccideteli tutti!» continuava a gridare Macklin nel megafono, agitando la destra guantata di nero per dirigere i mostruosi veicoli. I chiodi che ne trafiggevano il palmo riflettevano le fiamme della distruzione. Centinaia di soldati, armati di fucili, di pistole e di bombe Molotov, seguivano a piedi i mezzi corazzati. In semicerchio intorno allo shopping mall, tre fitte file di camion, auto e furgoni della Fedeltà Americana aspettavano l'assalto, così come avevano atteso, e respinto, i primi due. Ma anche un gran numero di morti della Fedeltà ingombrava il parcheggio e molti automezzi bruciavano. Le fiamme guizzavano, il fumo acre riempiva l'aria. Ma Macklin guardò la roccaforte del Salvatore e sogghignò, perché la Fedeltà non poteva resistere alla forza d'urto dell'Esercito d'Eccellenza. Il nemico sarebbe caduto... se non al terzo attacco, al quarto, al quinto, al decimo. Macklin sapeva di poter vincere la battaglia. Avrebbe costretto il Salvatore a mettersi in ginocchio e a baciargli gli stivali, prima di rompergli il grugno. «Più vicino!» gridò al suo autista. Judd Lawry trasalì; non sopportava la
vista della faccia di Macklin. Mentre portava la jeep più vicino alla prima linea di veicoli, non sapeva chi temeva maggiormente: la creatura ghignante e scalmanata in cui si era mutato il colonnello Macklin, oppure i tiratori scelti della Fedeltà Americana. «Avanti! Avanti!» ordinò Macklin ai soldati, girando lo sguardo in cerca del minimo segno d'esitazione. «Stanno per cedere! Avanti! Avanti!» Macklin udì uno strombettio di clacson e si girò: una Cadillac rossa, rimessa a nuovo, con il parabrezza corazzato, rombò nel parcheggio, passando a zigzag fra altri veicoli, per portarsi avanti a tutti. Il guidatore aveva lunghi capelli biondi e ricci; un nano era accucciato nella torretta da cui sporgeva il muso di una mitragliatrice. «Più vicino, tenente!» ordinò Macklin. «Voglio un posto in prima fila!» Oh, Cristo, pensò Lawry. Era tutto sudato. Una cosa era attaccare un branco di contadini armati di pale e di zappe, un'altra assalire una fortezza di mattoni difesa da bastardi che disponevano di artiglieria pesante! Ma la Fedeltà Americana ancora non apriva il fuoco, mentre i veicoli dell'EDE avanzavano ad andatura costante. Macklin sapeva che tutti i suoi ufficiali erano al loro posto, alla guida dei battaglioni. A destra, nella sua jeep di comando, Roland Croninger spingeva nella battaglia duecento uomini e più di cinquanta veicoli corazzati. I capitani Carr, Wilson e Satterlee, i tenenti Thatcher e Meyers, i sergenti McCowan, Arnholdt, Benning e Buford... tutti i suoi subalterni di fiducia erano al loro posto, decisi a vincere. Penetrare nelle difese del Salvatore era solo questione di disciplina e di autocontrollo, aveva concluso Macklin. Non importava quanti soldati dell'EDE sarebbero morti, né quanti veicoli dell'EDE sarebbero esplosi e bruciati... quella era una prova di disciplina e autocontrollo sua personale. Giurò di combattere fino all'ultimo uomo, prima di lasciarsi sconfiggere dal Salvatore. Era impazzito un poco, quando si era guardato allo specchio, dopo che quella robaccia si era spaccata; ma adesso era a posto. Perché, passata la crisi di pazzia, aveva capito che ora la sua faccia era quella del Soldato Ombra, che erano diventati un tutt'uno. Quel miracolo rivelava che Dio stava dalla parte dell'Esercito d'Eccellenza. Macklin sogghignò. «Muovetevi! Disciplina e autocontrollo!» ruggì nel megafono, con voce animalesca. Un'altra voce gridò il suo buum sordo, seguita da un lampo arancione nei pressi dell'ingresso barricato del mall. Un sibilo stridulo parve passare
proprio sulla testa del colonnello. A una settantina di metri alle sue spalle, l'esplosione scagliò in aria pezzi di cemento e i rottami contorti di un furgone già rovinato. «Avanti!» ordinò Macklin. Quelli della Fedeltà Americana potevano anche avere carri armati, pensò, ma non sapevano una merda di traiettorie e di granate. Un'altra salva sibilò nell'aria ed esplose nell'accampamento. E poi un'ondata di fucileria scaturì dalle difese della Fedeltà Americana: i proiettili strapparono scintille dal cemento e rimbalzarono sulla corazza dei veicoli. Alcuni soldati caddero. Macklin gridò: «Attacco! Attacco! Fuoco!» L'ordine fu ripetuto da altri ufficiali; quasi nello stesso istante le mitragliatrici, le pistole e i fucili automatici dell'Esercito d'Eccellenza crepitarono contro lo sbarramento della linea difensiva nemica. I veicoli EDE all'avanguardia scattarono, acquistando velocità per schiantarsi nel mall. Una terza granata esplose nel parcheggio e sollevò in aria una colonna di fumo e di detriti, mentre il suolo tremava. E poi alcuni veicoli pesanti della Fedeltà avanzarono a tutto gas: i camion e le auto corazzate dei due eserciti si scontrarono, con un'orribile cacofonia di lamiere strappate, di esplosioni assordanti. «All'attacco! Uccideteli tutti!» continuò a gridare Macklin, mentre Judd Lawry spostava il volante a destra e a sinistra per evitare cadaveri e relitti. Un proiettile rimbalzò sull'orlo del parabrezza e Lawry ne sentì le vibrazioni, come lo schiocco di un diapason. Il fuoco di mitragliatrici spazzò a zigzag il parcheggio; alcuni soldati dell'EDE rotearono come ballerini impazziti. Macklin buttò da parte il megafono, estrasse la Colt .45 e sparò ai soldati della Fedeltà che ora dalla linea di difesa sciamavano nel gorgo di corpi, di veicoli che sbandavano, di esplosioni, di carcasse in fiamme. Due camion si scontrarono proprio davanti alle jeep; Lawry schiacciò il freno e girò il volante nello stesso tempo, lanciando la macchina in una slittata laterale. Travolse due soldati, non sapeva se dell'EDE o della Fedeltà. Tutto era confusione e follia, l'aria era piena di fumo accecante e di scintille, al di sopra delle urla e delle grida si alzava la risata di Macklin che sparava a casaccio. I fari della jeep inquadrarono un uomo armato di pistola e Lawry lo travolse. Una raffica colpì con tonfi sordi la fiancata della jeep; sulla sinistra, un'auto dell'EDE esplose e scagliò in aria il guidatore che ancora stringeva il volante in fiamme. Fra i veicoli che cozzavano e sbandavano, i fanti erano impegnati in un
selvaggio corpo a corpo. Lawry sterzò per evitare un camion. Udì il fischio acuto di una granata in arrivo e si sentì raggrinzire lo scroto. Mentre urlava: «Andiamo via di qui!», mosse di scatto il volante verso destra e schiacciò il piede a tavoletta. La jeep balzò avanti, passò sopra due soldati avvinghiati. Un tracciante colpì la fiancata della jeep e Lawry mandò un gemito. «Tenente!» gridò Macklin. «Gira la jeep...» Non riuscì a dire altro, perché la terra tremò e ci fu un'esplosione accecante, tre metri davanti alla jeep. Il veicolo vibrò, si rizzò sulle ruote posteriori, come un cavallo spaventato. Macklin udì l'urlo soffocato di Lawry... e saltò giù pensando solo a salvarsi, mentre l'incandescente onda d'urto dell'esplosione lo colpiva e quasi gli strappava di dosso l'uniforme. Andò a sbattere di spalla sul cemento e udì il gemito di gomme e lo schianto della jeep contro un'altra macchina. Quando riuscì di nuovo a connettere, si ritrovò in piedi, con il cappotto e l'uniforme a brandelli, a fissare Judd Lawry, supino, a braccia spalancate, fra i resti della jeep: il corpo si contorceva come se cercasse di strisciare in salvo, ma la testa era una massa maciullata e sanguinolenta in cui i denti rotti sbattevano con rumore di nacchere. Macklin aveva la pistola nella sinistra. La falsa destra, con il palmo chiodato, era ancora attaccata al polso mediante robuste bende adesive. Il sangue gli colava dal braccio destro lungo le dita guantate di nero e gocciolava sul cemento. Si era prodotto una lacerazione dalla spalla al gomito, ma per il resto era incolume. I soldati turbinarono intorno a lui, sparando e lottando; un proiettile strappò schegge d'asfalto a dieci centimetri dal suo stivale. Macklin si guardò in giro, cercando il modo di tornare al campo dell'EDE; senza un automezzo, era inerme come il più misero dei fanti. A causa delle urla, delle grida, delle scariche di fucileria, non riusciva a pensare con chiarezza. Vide un uomo bloccare a terra un soldato dell'EDE e colpirlo ripetutamente con un coltello da macellaio; Macklin gli premette contro il cranio la canna della .45 e gli spappolò le cervella. Il rinculo che gli si trasmise lungo il braccio e la vista del corpo inginocchiato gli schiarirono la mente: doveva muoversi, se non voleva fare la fine di quel soldato della Fedeltà. A testa bassa, si mise a correre, evitando i gruppi di uomini in lotta e scavalcando a balzi i corpi distesi e insanguinati. L'esplosione gli scagliò addosso una pioggia di pezzi di cemento. Macklin inciampò, cadde, strisciò freneticamente al riparo di un'auto corazza-
ta dell'EDE, rovesciata sul fianco. Lo aspettava un corpo con la faccia quasi cancellata. Sembrava il sergente Arnholdt. Scosso, Macklin inserì nella .45 un caricatore pieno. Proiettili fischiarono contro l'auto corazzata e lui si acquattò sul cemento, cercando il coraggio sufficiente per continuare la corsa verso il campo. Al di sopra della confusione, udì grida di: «Ritirata! Ritirata!» Il terzo assalto era fallito. Non sapeva che cosa fosse andato storto. A quel punto, l'esercito della Fedeltà avrebbe già dovuto cedere; ma aveva troppi uomini, troppi veicoli, troppa potenza di fuoco: gli bastava starsene ben chiuso in quel maledetto mall. Eppure doveva esserci un sistema per farlo uscire. Doveva esserci! Nel parcheggio, camion e auto correvano in direzione opposta al mall. I soldati li seguivano, parecchi zoppicando, feriti; si fermavano a sparare qualche colpo contro gli inseguitori e riprendevano la ritirata. Macklin si costrinse ad alzarsi e a mettersi a correre; mentre usciva allo scoperto, sentì uno strappo al cappotto: un proiettile aveva attraversato la stoffa. Sparò quattro colpi a casaccio, senza mirare, poi fuggì con i resti del suo Esercito d'Eccellenza, mentre proiettili di mitragliatrice marciavano sul cemento e altri uomini morivano intorno a lui. Quando Macklin arrivò al campo, il capitano Satterlee già riceveva i rapporti degli ufficiali superstiti e il tenente Thatcher predisponeva le squadre di sorveglianza per prevenire un contrattacco. Macklin si arrampicò su un'auto corazzata e fissò il parcheggio: pareva un mattatoio. Centinaia di cadaveri erano ammucchiati intorno ai relitti in fiamme. Già gli sciacalli della Fedeltà correvano a raccogliere armi e munizioni. Dal mall provenivano grida di vittoria. «Non è finita!» ruggì il colonnello Macklin. «Non è ancora finita!» Sparò contro gli sciacalli i suoi ultimi proiettili, ma tremava talmente che non avrebbe colpito un fienile. «Colonnello!» Era il capitano Satterlee. «Prepariamo un altro attacco?» «Sì. Immediatamente! Non è ancora finita! E non finirà, finché non sarò io a dirlo!» «Non possiamo permetterci un altro attacco frontale!» intervenne una voce. «È suicidio!» «Come?» replicò, brusco, Macklin. Guardò chi osava discutere un suo ordine. Era Roland Croninger, con il cappotto macchiato di sangue. Ma era sangue di altri, perché Roland era incolume, aveva ancora le bende luride intorno al viso. Il sangue striava gli occhialoni. «Come hai detto?»
«Non possiamo permetterci un altro assalto frontale. Abbiamo meno di tremila uomini in condizione di combattere. Se corriamo ancora a capofitto contro quelle mitragliatrici, ne perdiamo altri cinquecento e non concludiamo niente.» «Vuoi dire che non abbiamo la forza di volontà di sfondare le difese... o parli per te stesso?» Roland trasse un respiro profondo, cercò di calmarsi. Non aveva mai visto un massacro come quello e a quest'ora sarebbe stato anche lui un cadavere, se non avesse sparato a bruciapelo a un soldato della Fedeltà. «Dico che dobbiamo trovare un'altra via per entrare nel mall.» «E io dico di attaccare di nuovo. Subito, prima che riorganizzino le difese.» «Non sono mai state disorganizzate, maledizione!» gridò Roland. Ci fu silenzio, rotto solo dai gemiti dei feriti e dal crepitio delle fiamme. Macklin fissò con ferocia Roland. Era la prima volta che osava alzare la voce e mettere in discussione i suoi ordini davanti a tutti gli ufficiali. «Dammi retta» continuò Roland, prima che il colonnello aprisse bocca. «Credo d'avere trovato un punto debole nella roccaforte... anzi, più di uno. I lucernari.» Per un attimo Macklin non rispose. Con lo sguardo incenerì Roland. «I lucernari» ripeté poi. «I lucernari. Sono sul tetto. Come cazzo ci arriviamo, sul tetto? Volando?» Una risata interruppe la discussione. Alvin Mangrim era appoggiato al cofano contorto della Cadillac rossa. Il vapore sibilava dal radiatore rotto. Fori di proiettile butteravano la lamiera e rivoli di sangue erano colati dalla feritoia della torretta. Mangrim, con la fronte sfregiata da schegge metalliche, sogghignò. «Vuoi salire sul tetto, colonnello? Ti ci metto io, lì sopra.» «Come?» Mangrim mostrò le mani e mosse le dita. «Una volta ero falegname» rispose. «Gesù era falegname. Gesù sapeva molte cose sui coltelli, anche lui. Per questo l'hanno crocifisso. Quando ero falegname, costruivo cucce per cani. Solo, non erano cucce ordinarie, oh, no! Erano castelli, come quelli in cui vivevano i cavalieri. Sai, leggevo libri sui castelli e stronzate del genere, perché volevo che le cucce fossero davvero speciali. Alcuni libri dicevano cose interessanti.» «Per esempio?» chiese Roland, impaziente. «Oh... come arrivare ai tetti, per esempio.» Rivolse l'attenzione al colonnello Macklin. «Procurami alcuni pali del telefono, filo spinato e buon le-
gname; e dammi il permesso di utilizzare i pezzi di alcune macchine distrutte. Ti metterò io su quel tetto.» «Cosa intendi costruire?» «Creare» lo corresse Mangrim. «Ma mi occorre tempo. E aiuto... tutti gli uomini di cui puoi fare a meno. Se trovo i pezzi giusti, termino in tre giorni, massimo quattro.» «Ti ho chiesto cosa intendi costruire.» Mangrim scrollò le spalle, infilò le mani in tasca. «Andiamo nella roulotte, ti faccio il disegno. Non vorrei che ci fossero spie, qui intorno.» Macklin esaminò la roccaforte del Salvatore, da cima a fondo. Guardò gli sciacalli sparare il colpo di grazia ai soldati EDE feriti. Quasi si mise a gridare di frustrazione. «Non è finita» giurò. «Non è finita, finché non lo dirò io.» Scese dall'auto corazzata e disse ad Alvin Mangrim: «Fammi vedere cosa vuoi costruire». 74 «Sì» disse Josh «possiamo ricostruirla.» Glory gli strinse il braccio e appoggiò la testa contro la spalla di lui. Josh la strinse a sé; rimasero lì insieme a guardare le macerie bruciate della chiesa. «Possiamo farlo» disse lui. «Certamente. Cioè... non sarà domani, né la settimana prossima, ma possiamo farlo. Non sarà la stessa di prima, forse sarà più brutta... ma potrebbe anche essere più bella. D'accordo?» Glory annuì. «D'accordo» rispose senza guardarlo, con voce soffocata dall'emozione. Poi alzò il viso rigato di lacrime. Gli passò lentamente le dita sulla Maschera di Giobbe. «Sei un... un uomo magnifico, Josh» disse piano. «Anche con questa. Anche se non dovesse mai aprirsi, saresti sempre l'uomo più bello che abbia mai conosciuto.» «Oh, non sono mai stato una bellezza. Neanche prima. Dovevi vedermi quando facevo il wrestler. Sai qual era il mio nome di battaglia? Frankenstein Nero. Ora avrei l'aspetto giusto, vero?» «No. E non credo che tu l'abbia mai avuto.» Con le dita seguì le croste dure e rugose, poi lasciò ricadere la mano. «Ti amo, Josh» disse; e la voce le tremò, ma gli occhi color rame erano fermi e sinceri. Josh aprì bocca per risponderle, ma pensò a Rose e ai figli. Era passato tanto di quel tempo! Forse vagavano chissà dove, in cerca di cibo e di rifu-
gio; forse erano fantasmi, vivi solo nel ricordo. Era doloroso, non sapere se fossero vivi o morti. Guardò Glory negli occhi e capì che non l'avrebbe mai saputo. Era crudele e sleale, rinunciare alla speranza che Rose e i suoi figli fossero ancora vivi? O solo realistico? Ma di una cosa era sicuro: voleva restare nella terra dei vivi, non vagare nelle cripte dei morti. Circondò le spalle di Glory e la tenne stretta. Attraverso il cappotto sentì la magrezza della donna e desiderò che venisse presto il giorno in cui avrebbero raccolto le messi. Desiderava anche riacquistare l'uso di tutt'e due gli occhi, respirare di nuovo liberamente. Si augurava che la sua Maschera di Giobbe si aprisse presto, ma nello stesso tempo aveva paura. Quale aspetto avrebbe avuto? E se non avesse riconosciuto la propria faccia? Però al momento scoppiava di salute, non aveva la minima traccia di febbre. Era l'unica volta della sua vita che voleva davvero essere messo a tappeto! Per terra, in una pozzanghera ghiacciata a mezzo metro da loro, vide qualcosa. Sentì un nodo allo stomaco. Disse, piano: «Glory? Perché ora non torni a casa? Ti raggiungo fra qualche istante». Glory si staccò da lui, perplessa. «Cosa c'è?» «Niente. Tu vai avanti. Faccio un giro qui attorno, per studiare come rimettere a posto la chiesa.» «Resto con te.» «No, vai a casa. Voglio stare da solo, per un poco. D'accordo?» «D'accordo» rispose lei. S'incamminò lungo la via, poi si girò. «Non sei obbligato a dire che mi ami» aggiunse. «Fa lo stesso, se non mi ami. Volevo solo farti sapere che cosa provo io.» «Ti amo» disse lui, con voce tesa. Glory lo guardò ancora per qualche istante, poi tornò a casa. Quando lei fu scomparsa, Josh si chinò a spezzare la crosta di ghiaccio della pozzanghera per raccogliere quel che aveva visto. Un pezzo di stoffa a quadri, macchiata di chiazze marrone scuro. Proveniva dal cappotto di Gene Scully. Josh strinse in mano lo straccetto macchiato di sangue e si raddrizzò. Inclinò la testa di lato per esaminare il terreno intorno. A pochi metri di distanza, vide un altro brandello della stessa stoffa, nel vicolo che costeggiava le macerie. Josh raccolse anche quello, vide più avanti altri stracci macchiati di sangue. Pezzi del cappotto di Gene Scully erano disseminati come neve di stoffa da tutte le parti. Un animale feroce l'ha sbranato, pensò Josh.
Ma in cuor suo sapeva che non era stato un animale. Gene Scully era rimasto vittima di una belva diversa, forse travestita da invalido in un carrettino rosso o da nero con incisivi d'argento. Scully aveva trovato l'uomo con l'occhio scarlatto... o era stato trovato da lui. Devo chiedere aiuto, si disse Josh; devo chiamare Paul e Sister; per l'amor di Dio, devo procurarmi un fucile! Invece seguì i brandelli di stoffa, mentre il cuore gli batteva all'impazzata e la gola gli diventava secca. Vide per terra altri rifiuti; nel vicolo, un topo grosso quanto un gatto persiano gli tagliò la strada, gli lanciò un'occhiata, con occhietti piccoli come perline, s'infilò in un buco. Josh udì squittii e fruscii tutt'intorno: quella parte di Mary's Rest era infestata dai topi. Sul terreno c'erano chiazze di sangue congelato. Josh le seguì per cinque metri, giunse davanti a un pezzo rotondo di lamiera accostato alle fondamenta in mattoni della chiesa in rovina. Altro sangue congelato striava la lamiera e altri brandelli di stoffa erano sparsi per terra. Josh puntò il piede contro il pezzo di lamiera, simile per forma e dimensioni a un tombino; raccolse il coraggio e spinse via di colpo quella sorta di coperchio, balzando subito indietro. Aveva messo allo scoperto un buco scavato sotto le fondamenta della chiesa. Ne uscì un puzzo gelido e acre che gli fece accapponare la pelle. Ti ho trovato, fu il primo pensiero di Josh. Ma subito dopo si disse di scappare via a tutta velocità, di correre come se avesse il diavolo alle calcagna. Però esitò, fissando il buco. Dall'interno non proveniva rumore, né segno di movimento. Josh mosse un passo esitante, poi un secondo e un terzo. Arrivò all'altezza del buco, tese l'orecchio. Nessun suono, nessun movimento. La tana era vuota. L'uomo con l'occhio scarlatto se n'era andato. Swan l'aveva affrontato e lui aveva certo lasciato Mary's Rest. «Grazie a Dio!» mormorò Josh. Udì un fruscio alle sue spalle. Si girò di scatto, a braccia alzate per parare un eventuale colpo. In cima a una scatola di cartone, un ratto lo fissava a denti snudati. Si mise a squittire come un padrone di casa infuriato. Josh disse: «Sta' zitto, piccolo bastar...» Due mani — una bianca, una nera — scattarono dal buco, afferrarono Josh per le caviglie e gli diedero uno strattone. Josh non ebbe nemmeno il tempo di mandare un grido: cadde lungo e disteso, con violenza tale da re-
stare senza fiato. Intontito, cercò di liberarsi, artigliò il terreno ghiacciato; ma le mani gli serravano le caviglie, con la forza di fasce di ferro, e lo trascinavano all'interno. Josh era già dentro per metà, prima di capire appieno che cos'era gli accaduto. Si dibatté, scalciò, ma riuscì solo a far aumentare la stretta. Sentì puzza di stoffa bruciata, si contorse, vide fiamme livide danzare sulle mani dell'uomo. La pelle di Josh cominciò a bruciacchiare; le mani dell'uomo colavano come guanti di cera che si sciogliessero al calore. L'attimo dopo, le fiamme s'indebolirono e si spensero. Le mani, di nuovo gelide, tirarono Josh nel buio. Poi lasciarono le caviglie. Josh scalciò, sentì lo stivale sinistro andare a segno. Una sagoma fredda e pesante cadde su di lui, più simile a un sacco di ghiaccio che a un corpo. Ma il ginocchio che gli premeva sulla gola era solido e cercava di spezzargli la carotide. Colpi da rompere le ossa gli si abbatterono sulle spalle, sul petto, sulle costole. Josh afferrò una gola viscida e conficcò le dita in quella che sembrava plastilina gelida. I pugni dell'avversario lo colpirono alle testa e al viso, ma non gli procurarono danni, grazie alla Maschera di Giobbe. Ma gli sbatacchiarono il cervello nella scatola cranica. Josh, rintronato, stava per perdere conoscenza. Non aveva altre scelte: o lottava come un disperato, o sarebbe morto. Vibrò il pugno destro, sentì sotto le nocche la linea angolosa della mascella; nello stesso istante avventò con forza il sinistro contro la tempia dell'avversario. Udì un grugnito, più di sorpresa che di dolore; non era più schiacciato dal peso. Si alzò in ginocchio, ansimando. Da dietro, un braccio gelido gli circondò la gola. Josh gli afferrò le dita e le piegò al contrario; ma quelle che prima erano ossa, adesso erano ganci d'attaccapanni: si piegavano, ma non si spezzavano. Sfruttando solo la forza, Josh si sollevò da terra e si gettò all'indietro, schiacciando l'uomo con l'occhio scarlatto contro gli scabri mattoni del muro portante della chiesa. Il braccio gelido scivolò via e Josh cercò di uscire dal buco. Fu afferrato e tirato giù di nuovo. Mentre lottavano come belve, Josh vide che le mani dell'uomo emettevano un tremolio di fiamma: quasi si accesero... ma non presero fuoco, come se l'interruttore si fosse guastato. Sentì un odore che gli parve una via di mezzo fra uno zolfanello acceso e una candela fusa. Vibrò un calcio allo stomaco dell'uomo e lo sbatté all'indietro. Mentre si rimetteva in piedi, ricevette un colpo sulla spalla che quasi gli slogò il braccio e lo mandò bocconi. Si girò su se stesso per affrontare il nemico; perdeva sangue dalla bocca
e sentiva che le forze lo abbandonavano rapidamente. Con un tremolio di fiammella, le mani presero fuoco di nuovo. Alla luce livida Josh vide la faccia dell'uomo, una maschera d'incubo, una bocca farfugliante ed elastica che sputava mosche come denti rotti. Le mani ardenti si mossero verso la faccia di Josh; all'improvviso le fiamme di una vacillarono e si spensero, come un tizzoni sotto un getto d'acqua. Quelle dell'altra si ridussero a minuscole lingue di fuoco che guizzavano intorno alle dita. Per terra, accanto a Josh, c'era un mucchio insanguinato di carne e di ossa spezzate; e alcuni cappotti, calzoni, maglioni, scarpe, berretti. Più in là, un carrettino rosso. Josh tornò a guardare l'uomo dall'occhio scarlatto, che era stato anche il signor Benvenuto. La mano ardente era quasi spenta. L'uomo fissava la fiamma morente, con occhi che in un viso umano si sarebbero detti folli. È meno forte di prima, capì Josh. Si tuffò verso il carrettino, lo afferrò e lo schiantò in faccia a quel mostro. Udì un muggito ultraterreno. La fiamma si spense del tutto, mentre l'uomo arretrava barcollando. Josh vide una luce grigia e strisciò verso il buco. Ne distava meno di un metro, quando i resti del carrettino lo colpirono alla nuca. In quell'istante, Josh ricordò quando a Gainesville era stato sbattuto giù dal ring e aveva scoperto che cosa significava colpire un impiantito di cemento; poi giacque immobile. Qualche tempo dopo, tornò in sé, al suono di una risatina acuta. Non riusciva a muoversi. Pensò di non avere più un osso intero in tutto il corpo. La risatina proveniva da un punto a tre, quattro metri. Si affievolì e lasciò posto a una serie di sbuffi che si mutò in una sorta di linguaggio, forse era tedesco. Josh colse frammenti d'altre lingue... cinese, francese, danese, spagnolo, altre parlate che si sovrapponevano. Poi la voce rauca e orrenda passò all'inglese, con la cadenza strascicata del sud: «Sono sempre andato avanti da solo... sempre andato avanti da solo... sempre... sempre...» Josh si esaminò per scoprire quali danni aveva riportato. La destra gli parve morta, forse rotta. Fasce di dolore gli serravano le costole e le spalle. Ma in fondo era stato fortunato: era sopravvissuto a un colpo che gli avrebbe sfondato il cranio, senza la protezione della Maschera di Giobbe. La voce cambiò, si mutò in un dialetto cantilenante che Josh non capiva, poi tornò all'inglese, con la piatta cadenza del Midwest: «La puttana... la
puttana... morirà... ma non per mano mia... oh, no... non per mano mia...» Piano piano Josh cercò di girare la testa. Sentì una fitta di dolore saettare lungo la spina dorsale, ma riusciva ancora a muovere il collo. A poco a poco girò la testa verso il mostro delirante acquattato all'altro capo della tana. L'uomo con l'occhio scarlatto si fissava la destra e le fiammelle livide che guizzavano lungo le dita. Il viso era incerto fra una serie di maschere. Capelli biondi e sottili mescolati con altri neri e ispidi; un occhio azzurro e uno castano; uno zigomo sporgente, l'altro piatto. «Non per mano mia» disse l'uomo. «Indurrò loro a farlo.» Il mento si allungò, emise peli ispidi che nel giro di secondi si mutarono in barba rossa e altrettanto rapidamente furono riassorbiti nella sostanza tremolante del viso. «Troverò il modo per indurre loro a farlo.» La mano dell'uomo tremò, si chiuse a pugno; le livide fiammelle si spensero. Josh strinse i denti e prese a strisciare verso la luce grigia in cima al buco... dolorosamente, un centimetro alla volta. Si irrigidì nell'udire di nuovo la voce dell'uomo canticchiare in un sussurro: «Giro giro tondo, casca il mondo...» La voce si perdette in un borbottio soffocato. Josh si spinse avanti. Più vicino al buco. Più vicino. «Corri» disse l'uomo con l'occhio scarlatto, con voce debole e stanca. Josh si sentì mancare il cuore, perché capì che l'uomo parlava a lui. «Vai, corri. Dille che farò fare il lavoro da una mano umana. Diglielo... diglielo...» Josh strisciò verso la luce. «Diglielo... sono sempre andato avanti da solo...» E Josh emerse dal buco. Sentiva un dolore lancinante alle costole e doveva sforzarsi per rimanere cosciente: se non si allontanava da lì, sarebbe morto. Continuò a strisciare, mentre i topi zampettavano intorno. Aveva le ossa prosciugate da un gelo intenso, si aspettava con terrore di essere afferrato dall'uomo con l'occhio scarlatto. Quando non accadde niente, capì che il mostro l'aveva risparmiato... forse perché era meno forte di prima, forse perché era esausto, forse perché voleva che a Swan giungesse un messaggio. Dille che farò fare il lavoro da una mano umana. Josh provò a reggersi in piedi, ma cadde di nuovo bocconi. Gli occorse un paio di minuti per trovare la forza di mettersi sulle ginocchia; poi finalmente riuscì ad alzarsi e a camminare come un vecchio decrepito e tra-
ballante. Percorse il vicolo fino alla strada e si diresse al falò che ardeva davanti alla baracca di Glory. Ma prima d'arrivarci, esaurì le ultime energie: cadde a terra come una sequoia abbattuta e non vide Robin e il signor Polowsky correre verso di lui. TREDICI: un generale a cinque stelle La terra desolata / Il premio di Roland / Quel che vide il Rigattiere / Friend / La decisione di Swan / Il sangue freddo di Robin / Acre odore di cenere / Una marea di morte e distruzione / Artigli d'acciaio / Maestri d'efficienza 75 Roland Croninger si portò agli occhi il binocolo. La neve turbinava nell'aria gelida e aveva già coperto gran parte dei cadaveri e dei veicoli distrutti. Alcuni fuochi ardevano attorno all'ingresso del mall: anche i soldati della Fedeltà Americana montavano la guardia. In alto, il lento brontolio del tuono percorse le nubi e una lancia di luce livida saettò fra la neve. Roland esaminò il parcheggio; il binocolo rivelò una mano congelata che sporgeva da un cumulo di neve, una catasta di cadaveri saldati insieme dal gelo nella morte, la faccia grigia d'un ragazzo che fissava il buio. La terra desolata, pensò Roland. Sì. La terra desolata. Abbassò il binocolo e si appoggiò all'auto che lo riparava dai tiri dei cecchini. Il vento portava il rumore di martelli al lavoro. La terra desolata. Riguardava proprio questo, la preghiera di Dio per l'ora finale. Roland aveva cercato di ricordare dove l'aveva già sentita; ma, a quel tempo, non era una preghiera e non era stato ser Roland a sentirla. Era un ricordo dell'infanzia di Roland. Era una poesia. Quella mattina si era svegliato sul nudo materasso nella roulotte nera e si era ricordato della signorina Edna Merritt, una di quelle maestre zitelle che nascono già con l'aspetto di sessantenni: teneva il corso d'inglese alla scuola di Flagstaff. Mentre si alzava a sedere, l'aveva vista, in piedi accanto allo schiacciapollici: reggeva una copia aperta del The New Oxford Book of English Verse, un'antologia di poesie.
«Adesso leggo» aveva annunciato la signorina Edna Merritt, con voce così secca da far sembrare bagnata la polvere. E, girando lo sguardo a destra e a sinistra per assicurarsi che la classe stesse attenta, aveva iniziato: E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce, La Dama delle situazioni. Ecco qui l'uomo con le tre aste, ecco la Ruota, E qui il mercante con un occhio solo, e questa carta. Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso, E che a me non è dato vedere. Non trovo L'Impiccato. Temete la morte per acqua. Terminato di leggere, aveva annunciato che la classe intera avrebbe fatto una ricerca scritta su alcuni aspetti della poesia La terra desolata di Thomas Stearns Eliot, di cui quello era solamente un piccolo brano. Roland aveva fatto un ottimo compito; la signorina Edna Merritt aveva scritto in rosso sulla prima pagina: "Eccellente. Dimostra interesse e intelligenza". Secondo Roland, il compito dimostrava solo che lui aveva scritto un mucchio di cazzate. Scommetto che della vecchia signorina Edna restano solo le ossa, si disse ora, con lo sguardo fisso al di là del parcheggio; i vermi se la sono mangiata dal di dentro. Due possibilità lo rendevano perplesso. Primo, Fratello Timothy era pazzo e guidava la Fedeltà Americana nella Virginia occidentale alla ricerca di un sogno fantastico; secondo, sul monte Warwick c'era davvero qualcuno che si spacciava per Dio e declamava versi. Forse li prendeva da qualche libro. Ma lui ricordava, senza riuscire a spiegarla, una frase di Fratello Gary, quando erano ancora a Sutton: «Dio gli ha mostrato la scatola nera e la chiave d'argento; e gli ha detto come finirà il mondo». La scatola nera e la chiave d'argento, pensò. Che cosa significavano quelle cose? Lasciò penzolare il binocolo dalla cinghia a tracolla e ascoltò la musica dei martelli. Poi si girò a guardare al di là dell'accampamento, dove i soldati completavano la creazione di Alvin Mangrim, alla luce dei fuochi, a un chilometro e mezzo dal campo, fuori vista delle sentinelle nemiche. Il lavoro procedeva da tre giorni e tre notti; il colonnello Macklin aveva messo a disposizione tutto ciò di cui Mangrim aveva bisogno. Roland non la vedeva, a causa della nevicata, ma sapeva che cos'era. Una cosa semplicissima, ma alla quale lui non avrebbe mai pensato; e, anche se ci avesse pen-
sato, non avrebbe saputo come costruirla. Roland non provava la minima simpatia per Alvin Mangrim e diffidava di lui, ma doveva ammettere che quell'uomo aveva cervello. Se un aggeggio del genere era sufficiente a un esercito medievale, andava certamente bene anche per l'Esercito d'Eccellenza. Roland sapeva che a quest'ora il Salvatore cominciava a innervosirsi, chiedendosi quando sarebbe arrivato il nuovo attacco. Certo i suoi uomini erano lì a cantare a gran voce i loro inni... Sentì un dolore atroce al viso e si premette le mani sulle bende. Si lasciò sfuggire un gemito. Credette che la testa gli stesse per esplodere. E poi, sotto le dita e le fasce, sentì le escrescenze muoversi e gonfiarsi verso l'esterno, come il magma che ribolle sotto la crosta d'un vulcano. Barcollò, per la sofferenza e per la paura, mentre l'intero lato sinistro della faccia si gonfiava fin quasi a strappare le fasce. Si premette freneticamente le mani sul viso, per impedire che scoppiasse. Ripensò ai frammenti sul guanciale del Re e a quel che avevano messo in mostra; e piagnucolò come un bambino. Il dolore diminuì. Il movimento della fascie scomparve. Poi la sofferenza passò e Roland si sentì di nuovo bene. Il viso non si era crepato. Inoltre, questa volta il dolore era durato meno del solito. Al colonnello Macklin era accaduta una cosa fuori del normale. Non si sarebbe ripetuta. Lui era contento di tenersi per tutta la vita il viso fasciato. Aspettò finché non smise di tremare. Non era bene che lo vedessero in quello stato. Lui era un ufficiale. Poi si diresse a passo vivace alla roulotte del colonnello Macklin. Macklin, seduto al tavolo, esaminava il rapporto del capitano Satterlee sulla disponibilità di carburante e di munizioni. Le scorte diminuivano in fretta. «Avanti» disse, quando Roland bussò alla porta. Roland entrò e Macklin aggiunse: «Chiudi la porta». Roland rimase in piedi davanti al tavolo, aspettando che il colonnello alzasse gli occhi... e temendo anche quel momento. La faccia da scheletro, con gli zigomi sporgenti, le vene e i muscoli esposti, faceva sembrare Macklin la morte ambulante. «Cosa vuoi?» chiese Macklin, impegnato con la realtà spietata delle cifre. «È quasi pronta.» «La macchina? Sì. E allora?» «Attaccheremo, vero, quando sarà terminata?»
Il colonnello posò la matita. «Già. Se mi darai il permesso di attaccare, capitano.» Roland capì che Macklin era ancora risentito per la precedente divergenza d'opinione. Era quindi tempo di riparare allo screzio, perché lui amava il Re... e anche perché non voleva ritrovarsi sbattuto fuori al freddo, se Alvin Mangrim fosse entrato nelle grazie del Re. «Volevo... volevo scusarmi» disse. «Ho parlato senza riflettere.» «Li avremmo spezzati!» disse Macklin, in tono brusco e vendicativo. «Bastava solo un altro attacco! Li avremmo spezzati senza misericordia!» Roland tenne gli occhi bassi, in segno di sottomissione, ma sapeva maledettamente bene che un altro attacco frontale avrebbe solo mandato al macello altri soldati dell'EDE. «Signorsì» rispose. «Se qualsiasi altro m'avesse parlato in quel modo, l'avrei fatto fucilare sul posto! Avevi torto, capitano! Guarda queste maledette cifre!» Spinse verso Roland le carte, che volarono via dal tavolo. «Guarda quanta benzina ci resta! Guarda l'inventario delle munizioni! Vuoi sapere quanto cibo abbiamo ancora? Moriamo di fame: e tre giorni fa potevamo avere le provviste della Fedeltà. Se avessimo attaccato allora!» Batté sul tavolo la mano guantata di nero e il lume a petrolio sobbalzò. «Tutto per colpa tua, capitano. Non mia. Io volevo attaccare. Io ho fede nell'Esercito d'Eccellenza. Avanti. Esci.» Roland non si mosse. «Ti ho dato un ordine, capitano!» «Devo farti una richiesta» disse Roland, calmo. «Non sei in posizione di fare richieste!» «Vorrei chiederti» continuò Roland, caparbio «di guidare il primo assalto, quando penetreremo nella roccaforte.» «Lo guida il capitano Carr.» «So che gli hai dato il permesso. Ma volevo chiederti di cambiare idea. Voglio essere io, a guidarlo.» «È un onore, guidare il primo assalto. Non mi pare che ti sia meritato onori, giusto?» S'interruppe e si appoggiò alla spalliera. «Non hai mai chiesto di guidare un assalto. Perché vuoi guidare questo?» «Perché voglio trovare un tale e catturarlo vivo.» «Chi sarebbe?» «L'uomo che si fa chiamare Fratello Timothy. Lo voglio vivo.» «Non prendiamo prigionieri. Moriranno tutti. Dal primo all'ultimo.» «La scatola nera e la chiave d'argento.»
«Eh?» «Dio ha mostrato a Fratello Timothy la scatola nera e la chiave d'argento; e gli ha detto come il mondo finirà. Vorrei saperne di più, su quel che Fratello Timothy dice d'avere visto su quella montagna.» «Sei impazzito? O ti hanno fatto il lavaggio del cervello, quando sei andato da loro?» «Probabilmente Fratello Timothy è pazzo» disse Roland, mantenendo la calma. «Ma se non lo è... allora chi si autodefinisce Dio? E cosa sono la scatola nera e la chiave d'argento?» «Non esistono.» «Probabilmente no. Può darsi che non esista neppure monte Warwick. Ma se esiste... Fratello Timothy forse è l'unico che sa come trovarlo. Penso che valga la pena catturarlo vivo.» «Perché? Vuoi che l'Esercito d'Eccellenza vada alla ricerca di Dio?» «No. Ma voglio guidare il primo assalto e voglio prendere vivo Fratello Timothy.» La frase sembrava quasi un ordine, ma Roland se ne fregava. Fissò il Re. Nel silenzio, Macklin strinse a pugno la sinistra, poi lentamente la riaprì. «Ci penserò» disse. «Vorrei saperlo subito.» Macklin si sporse in avanti, con le labbra incurvate in un debole e orribile sorriso. «Non spingere troppo, Roland. Non sopporto di essere spinto. Neppure da te.» «Fratello Timothy dev'essere preso vivo. Possiamo uccidere tutti gli altri, ma non lui. Voglio che sia in grado di rispondere alle domande e voglio sapere cosa sono la scatola nera e la chiave d'argento.» Macklin si alzò come un ciclone scuro che si dispieghi lentamente. Ma prima che riuscisse a replicare, bussarono alla porta. «Cosa c'è?» La porta si aprì ed entrò il sergente Benning. Si accorse subito della tensione. «Ah... ho portato un messaggio del caporale Mangrim, signore.» «Sentiamo.» «Dice che è pronto. Vuole che lei venga a vedere.» «Rispondi che sarò lì fra cinque minuti.» «Signorsì.» Benning si girò per uscire. «Sergente?» lo fermò Roland. «Digli che saremo lì fra cinque minuti.» «Ah... signorsì.» Benning diede una rapida occhiata al colonnello e uscì in fretta. Macklin fremeva di rabbia gelida. «Cammini su ghiaccio sottile, Roland.
Molto sottile.» «Lo so. Ma non farai niente. Non puoi. Ti ho aiutato a costruire tutto questo. Ti ho aiutato a metterlo insieme. Se non ti avessi amputato la mano, a Casa Terra, ora saresti polvere. Se non ti avessi detto di usare le droghe come merce di scambio, saremmo ancora nella terra delle larve. E se non avessi ucciso per te Freddie Kempka, non esisterebbe alcun Esercito d'Eccellenza. Mi chiedi consiglio e fai come dico. È sempre stato così. I soldati s'inchinano a te... ma tu t'inchini a me.» La fasciatura si tese, mentre Roland sorrideva. Aveva visto negli occhi del Re il lampo d'incertezza... no, di debolezza. E capì la verità. «Ho sempre tenuto in azione le brigate, ho trovato le comunità da assalire. Non puoi nemmeno assegnare le provviste, senza andare a pezzi.» «Tu... piccolo bastardo» riuscì a dire Macklin. «Dovrei... farti... fucilare...» «Non lo farai. Dicevi sempre che ero la tua mano destra. E ci credevo. Ma non è mai stato vero, no? Tu sei la mia destra. Io sono il vero Re: ti ho solo lasciato portare la corona.» «Fuori... fuori... fuori...» Macklin si sentì girare la testa e si aggrappò al bordo del tavolo per riprendersi. «Non ho bisogno di te! Non l'ho mai avuto!» «L'hai sempre avuto. E ce l'hai adesso.» «No... no... non è vero.» Scosse la testa e distolse lo sguardo da Roland, ma sentiva ancora lo sguardo del giovane trapanargli l'anima, con precisione da chirurgo. Ricordò gli occhi del ragazzino magro seduto nella sala del Municipio di Casa Terra e rammentò d'avervi letto qualcosa che gli ricordava se stesso... determinazione, forza di volontà e, soprattutto, astuzia. «Sarò ancora il Cavaliere del Re» disse Roland. «Mi piace il gioco. Ma d'ora in avanti, non fingeremo più che sia tu a fare le regole.» All'improvviso Macklin sollevò il braccio destro e lo mosse la mano chiodata per schiaffeggiare Roland. Ma Roland non si mosse, non trasalì. Il viso da scheletro di Macklin era contorto di rabbia; il colonnello tremò, ma non concluse il gesto. Emise un ansito, come sibilo di pallone forato, e gli parve che la stanza roteasse follemente. Udì la risata sorda e saputa del Soldato Ombra. La risata durò a lungo. Quando terminò, Macklin lasciò ricadere il braccio. Rimase a fissare il pavimento, con la mente sprofondata in un pozzo lurido dove solo i forti sopravvivevano.
«Ora dovremmo andare a vedere la macchina di Mangrim» suggerì Roland; questa volta la voce era più gentile, quasi dolce. Di nuovo la voce di un bambino. «Ti darò un passaggio sulla mia jeep. D'accordo?» Macklin non rispose. Ma quando Roland si diresse alla porta, Macklin lo seguì come un cane mortificato dal nuovo padrone. 76 A fari spenti, tre file di veicoli dell'Esercito d'Eccellenza avanzarono lentamente nel parcheggio, mentre il vento sibilava e soffiava turbini accecanti di neve. La visibilità non superava i tre metri, ma la bufera aveva dato all'EDE l'opportunità di togliere dal parcheggio una parte dei detriti, usando due dei tre bulldozer. Le macchine avevano formato due muraglie di cadaveri congelati e di lamiere contorte, ai lati di quella che i fanti dell'EDE chiamavano ora la "Valle della morte". Roland era nella jeep al centro della prima fila, con il sergente McCowan al volante. Sotto il cappotto portava la fondina ascellare con la .38 e al fianco aveva l'M-16. Per terra, accanto al piede destro, c'era il lanciarazzi e due razzi rossi. Sarebbe stata una giornata magnifica. I soldati sedevano sui cofani, sui portabagagli, sui paraurti dei veicoli per favorire con il loro peso la trazione. Altri 1200 uomini dell'EDE seguivano le prime tre ondate. Il capitano Carr comandava il fianco sinistro; il capitano Wilson, il destro. Tutt'e due, insieme con gli altri ufficiali impegnati nell'operazione Crucifige, avevano ripassato varie volte il piano. Non dovevano esserci esitazioni, ai segnali; e le manovre andavano eseguite nel modo esatto in cui Roland le aveva delineate. Non ci sarebbe stata ritirata: il primo che avesse pronunciato quella parola, sarebbe stato fucilato sul campo. E mentre si davano gli ordini e si ripassava il piano, il colonnello Macklin era rimasto seduto in silenzio dietro il tavolo. Oh, sì, pensò Roland, delirante per l'acuto miscuglio d'eccitazione e di paura; sarà davvero una giornata magnifica! I veicoli proseguirono l'avanzata, un passo alla volta; l'ululato del vento copriva il rombo dei motori. Roland ripulì gli occhialoni dalla neve. Lungo la prima linea di camion e di auto, i soldati scivolarono giù dai cofani e dai paraurti e avanzarono carponi nella neve. Appartenevano alla brigata di ricognizione, organizzata da Roland: uomini piccoli e veloci, che si sarebbero avvicinati senza farsi
scoprire alla linea difensiva. Roland si sporse dal sedile della jeep cercando di scorgere i falò nemici. In quello stesso momento, i soldati della sua brigata prendevano posizione sulle ali della linea difensiva e, al segnale, sarebbero stati i primi ad aprire il fuoco. Se riuscivano ad attirare l'attenzione sulle ali, forse al centro ci sarebbe stata confusione... ed era lì che Roland contava di sfondare. Una luce arancione tremolò più avanti: un fuoco della linea di difesa. Roland si pulì di nuovo gli occhialoni, vide il bagliore di un altro falò sulla sinistra, forse a una trentina di metri. Raccolse il lanciarazzi e inserì nella culatta un bengala. Poi, reggendo nella sinistra il secondo razzo, si alzò e attese che l'onda d'assalto avanzasse ancora di cinque metri. Ora!, decise Roland; puntò il lanciarazzi proprio sopra i parabrezza dei veicoli del fianco sinistro. Premette il grilletto. Il lanciarazzi tossì, il vivido bengala rosso striò il cielo: il primo segnale era partito. I veicoli del fianco sinistro ruotarono e l'intera linea deviò più a sinistra. Roland ricaricò in fretta e lasciò partire il secondo segnale. I veicoli del fianco destro rallentarono e deviarono a destra. Anche il sergente McCowan sterzò a destra. Per qualche secondo le gomme slittarono sulla neve, prima di fare presa. Roland contò: otto... sette... sei... Dal fianco sinistro provennero i lampi della fucileria, a brevissima distanza dalla linea difensiva: la brigata di ricognizione, da quella parte, aveva iniziato il lavoro. ... cinque... quattro... Sul lato destro aprirono il fuoco. Roland vide le scintille provocate dai proiettili che rimbalzavano sul metallo. ...tre... due... Sul lato sinistro, i veicoli dell'EDE accesero di colpo i fari; le luci accecanti trafissero la neve e colpirono negli occhi le sentinelle, da meno di dieci metri. Con una frazione di secondo d'intervallo, si accesero anche i fari del fianco destro. Proiettili di mitragliatrice, sparati nel panico da una sentinella, sollevarono schizzi di neve a un metro e mezzo dalla jeep di Roland. ...uno, contò Roland. E la cosa massiccia, metà macchina e metà costruzione uscita da un incubo medievale, che seguiva a dieci metri la jeep di comando, mandò un rombo improvviso e avanzò, con i cingoli che appiattivano cadaveri e detriti, con la pala di ferro sollevata come protezione dal fuoco di fucileria.
Roland guardò la gigantesca macchina da guerra passargli davanti, acquistare velocità, puntare al centro delle difese nemiche. «Avanti!» gridò. «Avanti! Avanti!» Il frutto dell'ingegno di Mangrim era mosso dal terzo bulldozer, guidato da un uomo dentro la cabina corazzata; rimorchiata da cavi d'acciaio, dietro il bulldozer veniva un'ampia piattaforma di legno, con assali di camion e ruote. Dalla piattaforma si alzava una complessa intelaiatura realizzata con robusti pali del telefono imbullonati e legati per sorreggere una scala centrale alta più di venti metri. La scala era stata presa da case del distretto residenziale intorno allo shopping center. In cima sporgeva leggermente e terminava in una rampa che poteva essere sganciata e abbassata come il ponte levatoio d'un castello. Filo spinato e pezzi di lamiera recuperati dalle automobili distrutte ricoprivano la parte esterna, nella quale qua e là erano praticate feritoie su diversi livelli. Per sostenere il peso, alcuni pali del telefono erano stati conficcati in chiodi di ferro saldati al bulldozer e s'innalzavano per tenere dritta la macchina da guerra. Roland sapeva che cos'era. Ne aveva visto il disegno nei libri. Alvin Mangrim aveva costruito una torre d'assedio, come solevano fare gli eserciti medievali per prendere d'assalto i castelli fortificati. La pala del bulldozer urtò violentemente un furgone postale corazzato, coperto di graffiti come AMA IL SALVATORE e UCCIDI IN NOME DELL'AMORE e cominciò a spingerlo all'indietro, al di là della linea di difesa. Il furgone sbatté contro un'automobile e quest'ultima fu schiacciata contro un camioncino Toyota corazzato, mentre il bulldozer continuava l'avanzata, con il motore che rombava e i cingoli che scagliavano in aria scie di neve. La torre d'assedio vibrò, scricchiolò come ossa artritiche; ma era costruita solidamente e resse. La sparatoria divampava sul fianco sinistro e sul fianco destro della linea di difesa, ma i soldati della parte centrale erano costretti ad arretrare nella confusione; alcuni furono travolti, quando il bulldozer venne avanti a tutta velocità. Nel varco sciamò un'ondata di fanti dell'EDE che distribuivano morte. I proiettili sibilavano e rimbalzavano traendo scintille dal metallo; più giù lungo la linea, un serbatoio di benzina esplose illuminando di luce infernale il campo di battaglia. Il bulldozer spinse da parte i rottami e continuò l'avanzata. Quando la pala di ferro urtò contro il muro della roccaforte, il guidatore spense il motore e tirò il freno. Un camion, con un carico di soldati e dieci bidoni di benzina, rombò nel varco aperto dal bulldozer e dalla torre d'assedio; si
fermò slittando a fianco della macchina da guerra. Mentre altri fanti fornivano il fuoco di copertura, alcuni soldati scaricarono i bidoni, mentre gli altri, che portavano matasse di corda, corsero alla torre d'assedio e salirono i gradini. In cima, sbloccarono la rampa e la spinsero avanti: la parte inferiore era munita di centinaia di lunghi chiodi che si conficcarono nella neve sul tetto del mall. Ora un ponte di legno lungo due metri collegava la torre al tetto. A uno a uno, i soldati lo attraversarono di corsa; appena sul tetto, calarono le funi ai compagni che spingevano contro il muro i bidoni di benzina. Le funi terminavano in un nodo scorsoio; fu sufficiente infilare ogni bidone in due cappi, perché i soldati sul tetto li tirassero su uno dopo l'altro in rapida successione. Altri soldati sciamarono su per la torre d'assedio, presero posizione alle feritoie e aprirono il fuoco contro la fanteria nemica che, più in basso, si ritirava verso l'ingresso del mall. E poi i soldati sul tetto spinsero dal lucernario centrale i bidoni di benzina nella fitta massa di uomini della Fedeltà Americana, parecchi dei quali si erano appena svegliati e non sapevano ancora che cosa succedesse. Quando i bidoni toccarono terra, i soldati li forarono a colpi di fucile, provocando getti di benzina. I proiettili causarono scintille. Con un terribile whump! la benzina prese fuoco. In piedi sulla jeep, Roland vide le fiamme guizzare nella notte dal lucernario fracassato. «Sono nostri!» gridò. «Ora li abbiamo in pugno!» Sotto il lucernario, nell'atrio affollato dello shopping mall, uomini, donne e bambini ballavano alla musica di Roland Croninger. Altri bidoni di benzina caddero dal tetto ed esplosero come bombe al napalm. Nel giro di due minuti, l'intero pavimento dell'atrio era coperto di benzina in fiamme. Centinaia di corpi umani bruciavano, mentre centinaia di altri lottavano per mettersi in salvo, calpestavano fratelli e sorelle, cercavano varchi per una boccata d'aria in quella tempesta di fuoco. Ora i restanti veicoli dell'Esercito d'Eccellenza assalivano la linea di difesa della Fedeltà Americana e l'aria bruciava di proiettili. Una figura in fiamme oltrepassò la jeep di Roland e fu travolta dalle ruote di un camion in arrivo. I difensori, in preda al panico, non sapevano da che parte scappare; coloro che cercarono di combattere furono massacrati. Dall'ingresso principale del mall usciva fumo; gli uomini sul tetto continuavano a buttare giù bidoni di benzina. Le esplosioni superavano il frastuono delle grida e della fucileria. I soldati dell'Esercito d'Eccellenza penetravano nel mall. Roland afferrò l'M-16 e saltò dalla jeep; corse nella confusione verso l'ingresso. Un
proiettile tracciante gli sfiorò il viso; Roland inciampò e cadde fra i corpi martoriati, ma si rialzò subito e riprese la corsa. I guanti gli erano diventati cremisi e il sangue di qualcuno gli macchiava il davanti del cappotto. Quel colore gli piacque: era il colore d'un soldato. Dentro il mall, fu circondato da decine di fanti dell'EDE che sparavano ai soldati nemici rifugiati dentro i negozi. Fumo grigio sconvolgeva l'aria; gente in fiamme giungeva di corsa dal corridoio, ma la maggior parte crollava dopo qualche metro. Il pavimento tremò per l'esplosione degli ultimi bidoni di benzina; Roland sentì provenire dall'atrio una nauseante ondata di calore e il lezzo inebriante di carne, capelli, stoffa bruciati. Altre esplosioni scossero il pavimento; Roland ritenne che fossero le munizioni del nemico che saltavano in aria. I soldati della Fedeltà Americana cominciarono a gettare le armi e a uscire dai negozi supplicando pietà. Non ne ottennero. «Tu! Tu! E tu!» gridò Roland, segnando a dito tre soldati. «Seguitemi!» Si precipitò in direzione della libreria. L'atrio era una muraglia di fiamme. Il tremendo calore liquefaceva le centinaia di cadaveri. Folate di vento ardente urlavano intorno agli angoli. Il cappotto di Roland mandava fumo, mentre lui superava di corsa l'atrio e imboccava il corridoio in cui c'era la libreria. I tre soldati gli rimasero alle calcagna. All'improvviso Roland di fermò, con occhi sbarrati di terrore. Un carro armato — il Virus dell'Amore — era fermo proprio davanti alla libreria B. Dalton. Il soldato dietro Roland disse: «Oh Cri...» Il cannone del carro armato sparò; un rombo assordante mandò in frantumi gli ultimi vetri delle vetrine. Ma l'alzo del cannone era eccessivo: il proietto passò sopra la testa di Roland e dei tre uomini, ma l'aria calda della scia li gettò a terra. Il proietto forò senza esplodere il tetto in fondo al corridoio e scoppiò con rumore di tuono a un'altezza di quindici metri, uccidendo gran parte dei soldati che avevano gettato i bidoni di benzina. Roland e i tre soldati aprirono il fuoco, ma i proiettili rimbalzarono inoffensivi sulla corazza. Il carro armato balzò avanti, per schiacciarli sotto i cingoli; si fermò, tornò indietro, cominciò a girare verso destra. La torretta ruotò e il cannone sparò di nuovo; stavolta aprì nella parete di mattoni un foro grosso quanto un camion. Con fragore d'ingranaggi e un ritorno di fiamma che sputò fumo grigio, la macchina del costo di svariati milioni di dollari vibrò e s'immobilizzò.
O il guidatore è una schiappa, pensò Roland, oppure il carro armato è un trabiccolo! Il portello si spalancò. Ne emerse un uomo con le braccia alzate. «Non sparate!» gridò. «Non spa...» Fu interrotto dalla forza dei proiettili che gli attraversarono il viso e il collo; scivolò all'interno del carro. Due soldati armati di fucile comparvero all'ingresso della libreria e iniziarono a sparare. Il fante dell'EDE alla destra di Roland rimase ucciso, ma nel giro di un secondo i due caddero, crivellati di proiettili, e la sparatoria cessò. L'accesso al negozio era sgombro. Roland si tuffò nella libreria e lasciò partire una raffica, subito seguita da un'altra. Gli altri due uomini spararono a ripetizione nel buio in fondo al negozio, ma non ci fu altra resistenza nemica. Con un calcio Roland spalancò la porta del magazzino e saltò di lato, pronto a riempire di proiettili il locale, se altri soldati stavano a guardia del Salvatore. Ma niente si mosse. Un unico lume a petrolio brillava nel magazzino. Con il fucile pronto, Roland balzò dentro e si acquattò a terra. Il Salvatore, con indosso un cappotto verde tiglio e larghi calzoni beige rattoppati alle ginocchia, sedeva sulla poltrona. Le mani stringevano i braccioli. La testa era rovesciata all'indietro: nella bocca spalancata si vedevano le otturazioni dei molari. Il sangue colava da un foro di proiettile in mezzo agli occhi. Un secondo foro nero e bruciacchiato attraversava il cappotto verde tiglio, all'altezza del cuore. Sotto gli occhi di Roland, le mani del Salvatore all'improvviso si aprirono e si serrarono convulsamente. Ma l'uomo era morto. Roland sapeva riconoscerli fin troppo bene. Qualcosa si mosse, appena al di là del cerchio di luce. Roland puntò il fucile. «Vieni fuori. Subito. Mani sopra la testa.» Ci fu una lunga pausa. Roland fu sul punto di sparare un paio di raffiche, ma poi la figura venne avanti alla luce, con le mani alzate. Stringeva una .45 automatica. Era Fratello Timothy, cereo in viso. E Roland seppe d'avere avuto ragione: era certo che il Salvatore non avrebbe permesso a Fratello Timothy di allontanarsi troppo da lui. «Getta la pistola» ordinò Roland. Fratello Timothy sorrise lievemente. Abbassò le mani, si portò alla tem-
pia la canna della .45 e premette il grilletto. «No!» gridò Roland, lanciandosi a bloccarlo. Ma la .45 scattò a vuoto. «Avevo il compito di ucciderlo» disse Fratello Timothy, mentre la .45 continuava a scattare a vuoto. «Me l'ha detto lui. Ha detto che i pagani hanno vinto e che la mia ultima azione era quella di liberarlo dalle mani pagane... e poi liberare me stesso. Questo, mi ha detto. Mi ha indicato dove sparargli... in due posti.» «Mettila giù» disse Roland. Fratello Timothy ridacchiò. «Ma nella pistola c'erano solo due proiettili. Come potevo liberare anche me... se c'erano solo due colpi?» Continuò a premere il grilletto, finché Roland non gli tolse la pistola; allora scoppiò a piangere e si accasciò sulle ginocchia. Il pavimento tremò, mentre il tetto dell'atrio, indebolito dalle fiamme, da sette anni d'incuria e dalle tonnellate d'acqua della neve disciolta, crollava sui cadaveri in fiamme. La fucileria diminuiva. La battaglia era quasi conclusa e Roland aveva avuto il suo premio. 77 Un pomeriggio, mentre la nuova neve cadeva su Mary's Rest, un camion furgonato con una sospensione fuori uso entrò da nord nel villaggio. Il ritorno di fiamma del motore richiamò immediatamente l'attenzione di tutti, anche se ormai quasi ogni giorno giungeva gente nuova, alcuni in vecchie auto e camion ammaccati, altri in carri tirati da cavalli, la maggior parte a piedi, portandosi dietro scatole di cartone o valigie con le loro cose. I forestieri non attiravano la curiosità di un tempo. Una scritta era dipinta a lettere rosse sulle fiancate del camion: IL RIGATTIERE. L'uomo al volante si chiamava Vulcevic; lui, sua moglie, i due figli e la figlia avevano seguito lo schema di una nuova società di nomadi: si fermavano in un villaggio il tempo necessario a trovare cibo, acqua e riposo, poi partivano alla ricerca di un posto migliore, da qualche altra parte. Vulcevic era un ex autista di pullman di Milwaukee, a letto con l'influenza il giorno in cui la sua città era stata distrutta; e non era ancora riuscito a stabilire se la circostanza fosse stata una fortuna o una disgrazia. Nelle ultime due settimane aveva udito delle voci, da gente incontrata per strada: più avanti c'era un villaggio chiamato Mary's Rest, che aveva una sorgente d'acqua pura come la Fonte della Giovinezza; c'era anche un
campo di granturco e le mele cadevano dal cielo e c'era un giornale e una chiesa in costruzione. E in quel villaggio, così dicevano le voci, c'era una ragazza di nome Swan, che aveva il potere della vita. Vulcevic e la sua famiglia avevano i capelli neri, gli occhi e la carnagione olivastra di generazioni di zingari. La moglie era molto attraente: viso orgoglioso dai tratti ben delineati, lunghi capelli neri striati di grigio, occhi castano scuro che sembravano scintillare di vita. Meno d'una settimana prima, il casco di escrescenze che le copriva la testa era caduto a pezzi; e Vulcevic aveva lasciato, nel cuore d'un bosco ammantato di neve, un lume acceso alle Vergine Maria. Mentre s'inoltrava nel villaggio, Vulcevic vide davvero un pozzo d'acqua, proprio nel centro della strada. Poco più in là, ardeva un fuoco; ancora più avanti, la gente costruiva un edificio d'assi che poteva anche essere una chiesa. Vulcevic capì che era il posto giusto e si comportò come lui e la sua famiglia avevano fatto in ogni altro villaggio: fermò il camion sul ciglio della strada e i suoi due figli aprirono il pannello scorrevole posteriore e cominciarono a tirare fuori le scatole piene di oggetti da vendere o da barattare, fra i quali c'erano parecchie invenzioni fatte dal loro padre in persona. Madre e figlia sistemarono dei tavoli su cui esporre la merce; intanto Vulcevic aveva già alle labbra un vecchio megafono e iniziava il suo imbonimento da venditore ambulante: «Venite, gente, venite, non siate timidi! Guardate cosa vi ha portato il Rigattiere. Utili attrezzature, utensili e marchingegni da tutto il paese! Giocattoli per i bambini, pezzi d'antiquariato di un'epoca scomparsa, le mie personali invenzioni per aiutare e rallegrare quest'età moderna... e lo sa Iddio se non abbiamo bisogno d'aiuto e d'allegria! Forza, venite! Avanti uno, avanti tutti!» Diverse persone si radunarono intorno ai tavoli e rimasero a bocca aperta nel vedere che cosa il Rigattiere aveva portato: vistosi abiti femminili, compresi vestiti da sera ornati di lustrini e costumi da bagno dai colori vivaci; scarpe a tacco alto, mocassini, scarpe basse da passeggio e scarpe da ginnastica; scatole intere di camicie estive a manica corta da uomo, la maggior parte ancora con il talloncino del negozio; apriscatole, padelle, tostapane, frullatori, orologi, radio a transistor e apparecchi televisivi; lanterne, tubi di gomma, sedie da giardino, ombrelli e mangiatoie per uccelli; yo-yo, hula-hoop, giochi da tavolo come Monopoli e Risiko, orsacchiotti di pezza, modellini di auto e di camion, bambole e scatole di montaggio di aeromodelli. Le invenzioni dello stesso Vulcevic comprendevano un ra-
soio che sfruttava l'energia di elastici arrotolati, occhiali con piccoli tergicristalli azionati a elastico, un piccolo aspirapolvere a motore che funzionava anch'esso a elastico. «Cosa vuoi per questa?» domandò una donna, prendendo una sciarpa adorna di lustrini. «Hai elastici?» rispose lui. La donna scosse la testa e Vulcevic le disse d'andare a prendere quel che aveva da barattare e forse si sarebbero messi d'accordo. «Cambio tutto ciò che avete!» dichiarò alla gente radunata. «Polli, cibo in scatola, pettini, stivali, orologi da polso... portate qui e facciamo l'affare!» Colse nell'aria un profumo fragante e si rivolse alla moglie: «Sono impazzito, o sento profumo di mele?» Una mano femminile prese un oggetto, dal tavolo di fronte a Vulcevic. «Quello lì è unico, signora!» disse Vulcevic. «Sì, non ne vedrà mai più, di simili! Forza. Lo scuota!» La donna lo scosse. Minuscoli fiocchi di neve turbinarono sopra i tetti del villaggio racchiuso nella boccia di vetro. «Bello, vero?» disse Vulcevic. «Sì» rispose la donna. Gli occhi celeste chiaro guardarono cadere i fiocchi lucenti. «Quanto?» «Oh, direi come minimo due scatolette di cibo. Ma... visto che le piace così tanto...» S'interruppe, esaminando la potenziale cliente. La donna aveva le spalle quadrate, era robusta, sembrava il tipo che scopre una bugia lontano un chilometro. Aveva capelli folti e grigi, tagliati all'altezza della spalla e tirati all'indietro da un nastro. La pelle era liscia e priva di rughe, come quella di un neonato; difficile giudicare quanti anni avesse. Forse i capelli erano ingrigiti prematuramente... ma nei suoi occhi c'era una luce vecchia, come se avesse visto e ricordasse una vita intera di lotta. Era una donna bella, con lineamenti regolari e simpatici... aveva un'aria regale, decise Vulcevic; e pensò che prima del 17 luglio indossasse pellicce e brillanti, e avesse la casa piena di servitù. Ma c'era anche gentilezza, nel suo viso; ripensandoci meglio, forse era stata un'insegnante, o un'assistente sociale, o addirittura una missionaria. Sottobraccio teneva stretta una borsa. Una donna d'affari, pensò Vulcevic. Sì. Ecco cos'era stata. Forse era anche padrona della ditta. «Be'» disse «cosa può darmi in cambio, signora?» Accennò alla borsa. Lei sorrise lievemente, guardandolo negli occhi. «Chiamami pure Sister» disse. «E, mi spiace, non posso darti quel che tengo qui dentro.»
«Non si possono tenere le cose per sempre» commentò Vulcevic, con un'alzata di spalle. «Bisogna farle girare. Il sistema di vita americano.» «Può darsi» ammise Sister, ma non allentò la stretta sulla borsa. Scosse di nuovo la boccia di vetro e guardò turbinare i fiocchi di neve. Poi la posò al suo posto. «Grazie» disse. «Guardavo soltanto.» «Accidenti!» Un uomo accanto a lei tolse da una scatola uno stetoscopio ossidato. «Quando si parla di cimeli!» Hugh Ryan se lo mise al collo. «Come ti sembro?» «Hai un'aria molto professionale.» «L'immaginavo.» Hugh non poteva fare a meno di fissare il nuovo viso di Sister, anche se negli ultimi due giorni l'aveva visto di frequente. Robin era tornato alla grotta e aveva condotto a Mary's Rest lui e gli altri bambini. «Cosa vuoi, per questo?» domandò Hugh a Vulcevic. «Una cosa preziosa come questa... dipende. Sai, un giorno o l'altro potrei imbattermi in un medico che ne abbia davvero bisogno. Non posso venderlo al primo che capita. Ah... con cosa lo scambieresti?» «Credo di poterti procurare alcuni elastici.» «Affare fatto.» Una figura gigantesca si accostò a Sister; Vulcevic vide, mentre Hugh s'allontanava, una faccia bitorzoluta e coperta di escrescenze. Trasalì solo un poco, perché era abituato a spettacoli del genere. Il gigante aveva un braccio al collo e le dita rotte, fasciate e steccate grazie al nuovo medico del villaggio. «Che te ne sembra, di questo?» disse Josh a Sister, prendendo un abito nero con lustrini. «Credi che le piacerebbe?» «Oh, certo. Farebbe un figurone, alla prossima prima teatrale.» «Credo che a Glory piacerà» decise lui. «Cioè... anche se non le piacesse, potrebbe usare la stoffa, no? Lo prendo» disse a Vulcevic, posando il vestito sul tavolo. «E prendo anche questo» aggiunse, indicando un trattore di plastica verde. «Buona scelta. Ah... cos'hai da scambiare?» Josh esitò. «Aspetta un minuto, torno subito» disse poi; e si diresse alla baracca di Glory, zoppicando dalla gamba sinistra. Sister lo seguì con lo sguardo. Josh era forte come un bufalo, ma l'uomo con l'occhio scarlatto l'aveva quasi ucciso. Il gigante aveva una brutta lussazione alla spalla, un'ammaccatura alla rotula sinistra, tre dita rotte, una costola fratturata, ed era pieno di graffi e di tagli ancora in via di guarigione. Era stato molto fortunato a restare vivo. Ma l'uomo con l'occhio scar-
latto aveva abbandonato la tana sotto la chiesa; quando Sister vi era arrivata, con Paul, Anna e sei uomini armati di fucili e di doppiette, l'uomo era già andato via; avevano sorvegliato il buco per quattro giorni filati, ma lui non era ricomparso. Allora l'avevano riempito e i lavori per la ricostruzione della chiesa erano in svolgimento. Ma Sister non sapeva se il mostro avesse lasciato davvero Mary's Rest. Ricordava il messaggio riferito da Josh: «Farò fare il lavoro da una mano umana.» Altra gente si affollava a esaminare gli oggetti esposti, come se fossero frammenti di una civiltà aliena. Sister diede un'occhiata qua e là... quella roba era paccottiglia, adesso, ma nessuna famiglia ne avrebbe fatto a meno, anni prima. Prese un timer per la cottura delle uova e lo rimise nella scatola accanto a mattarelli, formine per dolci e utensili da cucina. Vide sul tavolo un cubo multicolore, che un tempo chiamavano Cubo di Rubik. Prese un calendario illustrato con il disegno di un pescatore con la pipa in bocca che gettava la mosca in un torrente azzurro. «Ha soltanto otto anni» disse Vulcevic. «Puoi calcolare la data, se vai a ritroso. A me piace tenere conto dei giorni. Oggi è l'11 di giugno. O il 12. Be', uno dei due.» «Dove prendi tutta questa roba?» «Qua e là. Giriamo da un mucchio di tempo. Troppo, forse. Ehi! Ti interessa un grazioso medaglione d'argento? Guarda.» Lo aprì. Ma Sister si affrettò a distogliere gli occhi dal contenuto, la foto ingiallita d'una bimbetta sorridente. «Oh» disse Vulcevic: la sua abilità d'imbonitore gli aveva giocato un brutto scherzo. «Scusami.» Chiuse il medaglione. «Forse non dovrei venderlo, eh?» «Sì, dovresti seppellirlo.» «Già.» Lo mise via e guardò le nubi basse e scure. «Un mattino di giugno, eh?» Lasciò vagare lo sguardo sulle baracche, mentre i suoi due figli trattavano con i clienti. «Quante persone ci vivono, qui?» «Non so. Cinquecento, forse seicento. Arriva sempre gente nuova.» «Mi pareva. Sembra che qui abbiate una buona fornitura d'acqua potabile. Le abitazioni non sono poi così brutte. Abbiamo visto di peggio. Sai cosa abbiamo sentito dire, venendo qui?» Sorrise. «Che avete un grande campo di granturco e che le mele piovono dal cielo. Non è la cosa più buffa che si sia mai sentita?» Sister sorrise. «E pare che ci sia una ragazza, una certa Swan o qualcosa di simile, che
sa far crescere le messi. Basta che tocchi la terra, e spuntano! Che ne dici? Secondo me, tutto morirebbe, se mancasse la fantasia.» «Conti di fermarti qui?» «Sì, per qualche giorno, almeno. Sembra un buon posto. A nord non ci tornerei più... nossignora!» «Perché? Cosa c'è a nord?» «Morte» disse Vulcevic. Si accigliò, scosse la testa. «Certa gente ha perso le rotelle. Abbiamo sentito che si combatte, su a nord. C'è una sorta di maledetto esercito, lassù, da questa parte del confine dello Iowa. O di quello che era lo Iowa. Comunque, è assai pericoloso andare a nord, perciò puntiamo a sud.» «Un esercito? Che genere d'esercito?» «Il genere che uccide, signora mia! Sai, uomini e fucili. Pare che ci siano due o tremila soldati in marcia, lassù, in cerca di gente da ammazzare. Non so che diavolo vogliono concludere. Piccoli bastardi di latta! Gentaglia come loro ci ha cacciati in questa situazione!» «Li hai visti?» La moglie di Vulcevic era stata ad ascoltare; venne a fianco del marito. «No» disse a Sister. «Ma una notte abbiamo scorto le luci dei loro fuochi. Erano lontani, sembravano una città in fiamme. Subito dopo, sulla strada abbiamo trovato un uomo... pieno di ferite e mezzo morto. Si faceva chiamare Fratello David e ci raccontò della battaglia. Disse che il peggio era dalle parti di Lincoln, nel Nebraska, ma che davano ancora la caccia alla gente del Salvatore... disse così e morì prima che riuscissimo a capirci qualcosa. Ma girammo a sud e ce ne andammo subito.» «Vi conviene pregare che non vengano da queste parti» disse Vulcevic. «Piccoli bastardi di latta!» Sister annuì e Vulcevic passò a contrattare con un uomo che voleva un orologio da polso. Se c'era davvero un esercito in marcia da questa parte del confine dello Iowa, significava che forse era a centocinquanta chilometri da Mary's Rest. Se due o tremila "soldati" invadevano Mary's Rest, l'avrebbero rasa al suolo! Sister pensò a quel che aveva visto di recente nel cerchio di cristallo e si sentì gelare il cuore. Quasi nello stesso istante fu sommersa da un'ondata gelida di... sì, di odio; capì che il mostro era dietro di lei, o lì accanto, o molto vicino, chissà dove. Ne sentì lo sguardo, come un artiglio sospeso a un millimetro dalla nuca. Si girò di scatto, con i nervi che gridavano l'allarme. Ma la gente intorno a lei sembrava interessata soltanto agli oggetti espo-
sti sui tavoli o nelle scatole. Nessuno la guardava; ora l'ondata di gelo sembrava rifluire, come se l'uomo con l'occhio scarlatto si fosse mosso. Tuttavia la presenza gelida permaneva nell'aria. Lui era vicino... chissà dove, ma molto vicino, nascosto fra la folla. Sister colse un movimento improvviso alla sua destra, una figura che allungava la mano verso di lei. La mano le sfiorò il viso. Sister si girò, vide un uomo con il cappotto scuro, tanto vicino da impedirle la fuga. Si ritrasse... e il braccio magro dell'uomo le passò davanti agli occhi, con la rapidità d'un serpente. «Quanto vuoi di questo?» disse l'uomo a Vulcevic. In mano teneva una scimmietta a molla che berciava e batteva due piccoli piatti metallici. «Cos'hai da darmi?» L'uomo trasse di tasca un coltellino e glielo porse. Vulcevic l'esaminò attentamente, poi annuì. «Il giocattolo è tuo, amico.» L'altro sorrise e diede la scimmietta al bambino fermo accanto a lui in paziente attesa. «Eccomi» disse Josh Hutchins, accostandosi al tavolo. Nella mano buona reggeva un involto di stoffa marrone. «Che ne dici di queste?» Posò sul tavolo l'involto, accanto al vestito con i lustrini. Vulcevic aprì la stoffa. Guardò attonito il contenuto. «Oh... Dio mio» mormorò. Aveva davanti a sé cinque pannocchie di granturco dorato. «Pensavo che vi sarebbe piaciuto averne una a testa» disse Josh. «Vanno bene?» Vulcevic prese una pannocchia, mentre la moglie, senza parole, guardava da sopra la sua spalla. L'annusò e disse: «È vera! Mio Dio, è vera! Così fresca che profuma ancora di terra!» «Certo. Non lontano da qui abbiamo un campo intero di granturco.» Vulcevic sembrava uno sul punto di crollare stecchito. «Allora?» disse Josh. «Affare fatto, o no?» «Sì. Sì. Certo. Prendi il vestito! Prendi quel che vuoi. Mio Dio! Granturco fresco!» Si rivolse all'uomo che voleva l'orologio da polso. «Prendilo!» disse. «Al diavolo, prendine una manciata! Ehi, signora! Vuoi la sciarpa? È tua! Non... non posso crederci!» Toccò il braccio di Josh, che piegava con cura il vestito nuovo per Glory. «Mostramelo!» disse con aria supplichevole. «Per favore, mostrami il campo! Sono anni che non vedo crescere una pianta! Per favore!» «Va bene, ti ci accompagno.» Con un gesto lo invitò a seguirlo. «Ragazzi, state attenti alla merce!» disse Vulcevic ai suoi figli. Girò lo
sguardo sulla folla, cambiò idea. «Al diavolo! Date loro quel che vogliono! Che prendano pure liberamente!» Con la moglie e la figlia seguì Josh fino al campo, dove c'erano tante pannocchie di granturco dorato e maturo da raccoglierle a ceste. Scossa e nervosa, Sister avvertiva ancora la presenza gelida. Si avviò alla baracca di Glory, tenendo stretta la borsa. Si sentiva osservata; se lui era davvero da quelle parti, voleva rientrare in casa e stargli lontana. Era quasi alla veranda, quando udì un grido «NO!», e subito dopo il rombo del motore del camioncino. Si girò di scatto. Il camion del Rigattiere, in retromarcia, passava sopra i tavoli e schiacciava le scatole di mercanzia. La gente urlava e si toglieva di mezzo. I due figli di Vulcevic cercavano di arrampicarsi per bloccare il guidatore, ma uno inciampò e cadde, l'altro non fu abbastanza veloce. Le ruote del camion passarono sopra una donna caduta per terra e Sister udì la schiena della sventurata spezzarsi. Un bambino, che si trovava sul percorso del camion rombante, fu strappato via e tratto in salvo. Poi il camion ondeggiò e sterzò, andò a sbattere contro la facciata d'una casa e si girò. Le ruote schizzarono neve e terriccio, mentre il veicolo scattava in avanti, aveva un ritorno di fiamma, si lanciava a tutta velocità fuori da Mary's Rest e puntava a nord. Sister si costrinse a muovere i piedi e corse ad aiutare i caduti che per un pelo non erano stati travolti. Delizie, antichità e invenzioni del Rigattiere erano sparpagliate per la via; alcuni oggetti volarono dal camion che si allontanava a razzo, sbandava lungo la curva e scompariva alla vista. «Ha rubato il camion di papà!» gridava, quasi isterico, uno dei due figli di Vulcevic. «Ha rubato il camion di papà!» L'altro corse dal padre. Sister provò un senso di terrore che la colpì allo stomaco come un pugno. Corse accanto al ragazzo, l'afferrò per il braccio. Il ragazzo era ancora stordito, dagli occhi scuri gli scendevano lacrime di rabbia. «Chi era?» gli domandò Sister. «Che aspetto aveva?» «Non so! La faccia... non so!» «Ha detto qualcosa? Pensaci!» «No.» Il ragazzo scosse la testa. «No. Era semplicemente lì. Proprio di fronte a me. E l'ho visto... l'ho visto sorridere! Poi le ha prese ed è corso al camion.» «Le ha prese? Ha preso cosa?» «Le pannocchie» disse il ragazzo. «Ha rubato anche le pannocchie.»
Sister gli lasciò il braccio e rimase a fissare la strada. A fissare verso nord. Là dove c'era l'esercito. «Oh, mio Dio!» mormorò con voce roca. Resse a due mani la borsa e sentì all'interno il cerchio di vetro. Nelle ultime due settimane aveva camminato nel sogno in una terra d'incubo dove i fiumi scorrevano insanguinati, il cielo aveva il colore d'una ferita aperta e uno scheletro in groppa a un cavallo d'ossa mieteva un campo d'esseri umani. Farò fare il lavoro a una mano d'uomo, aveva promesso lui. A una mano d'uomo. Sister si girò a guardare la casa di Glory. Swan, ferma sulla veranda, avvolta nel cappotto cucito con pezzi di stoffa di colori diversi, fissava anche lei il nord. Sister si diresse verso di lei per raccontarle che cosa era accaduto e che cosa temeva che sarebbe accaduto, non appena l'uomo con l'occhio scarlatto avesse raggiunto l'esercito e mostrato a tutti il granturco fresco. Non appena avesse parlato di Swan e spiegato che una marcia di centocinquanta chilometri non era niente, per trovare una ragazza, in grado di far crescere dalla terra morta le messi. Messi e frutti sufficienti a sfamare un esercito. 78 «Portatelo dentro» ordinò Roland Croninger. Le due sentinelle scortarono lo straniero su per gli scalini della roulotte del colonnello Macklin. Con la sinistra lo sconosciuto accarezzò una delle teste demoniache intagliate nella ringhiera; nella destra reggeva un involto di stoffa marrone. Le due sentinelle gli tenevano la pistola puntata alla testa, perché si era rifiutato di consegnare l'involto e aveva rotto il braccio al soldato che aveva provato a strapparglielo. Due ore prima l'uomo era stato fermato da una sentinella, al limitare meridionale del campo dell'EDE, e subito condotto da Roland Croninger per l'interrogatorio. Con una sola occhiata Roland aveva capito che lo straniero era un uomo straordinario; ma lui si era rifiutato di rispondere alle domande, aveva detto che avrebbe parlato solo con il capo dell'esercito. Roland non era riuscito a togliergli l'involto, né a impressionarlo con la minaccia di torture. Ma, a pensarci bene, un uomo che in pieno inverno portava solo jeans sbiaditi, scarpe di tela e una variopinta maglietta estiva a maniche corte, non si sarebbe preoccupa-
to troppo della tortura. Roland si scostò, mentre spingevano dentro lo sconosciuto. Nella stanza c'erano altre guardie armate e Macklin aveva convocato i capitani Carr e Wilson, il tenente Thatcher, il sergente Benning e il caporale Mangrim. Il colonnello sedeva al tavolo; al centro della stanza c'era la sedia riservata allo straniero. Lì accanto, sopra un tavolino, ardeva un lume a petrolio. «Siediti» disse Roland. L'uomo ubbidì. «Penso che sia chiaro a tutti perché ho voluto mostrarvi quest'uomo» continuò piano Roland. «Indossa l'esatto abbigliamento che portava quando l'hanno trovato. Dice che parlerà solo con il colonnello Macklin.» Si rivolse allo straniero. «Bene, amico. Ecco la tua occasione.» Lo straniero fissò tutti i presenti, uno per uno. Si soffermò un po' di più su Alvin Mangrim. «Ehi!» disse Mangrim. «Mi pare d'averti già visto, no?» «Può darsi.» Lo straniero aveva una voce roca, stridula. La voce di chi ha appena superato una malattia. Macklin lo esaminò. Sembrava giovane, sui venticinque, trenta. Aveva capelli neri e ricci, viso piacevole, occhi azzurri, niente barba. La maglietta era decorata con palme rosse e pappagalli verdi. Macklin non ne vedeva una simile dal giorno in cui erano cadute le bombe. Era una maglietta fatta per le spiagge tropicali, non per un pomeriggio con temperatura sotto zero. «Da dove diavolo vieni?» gli domandò. Gli occhi del giovanotto si puntarono su quelli di Macklin. «Oh, sì» disse. «Sei tu il comandante, giusto?» «Ti ho fatto una domanda.» «Ti ho portato una cosa.» Con gesto improvviso il giovanotto gettò il suo dono sul tavolo di Macklin; nello stesso istante due guardie gli puntarono il fucile alla testa. Macklin trasalì, si vide fatto a pezzi da una bomba, si mosse per buttarsi a terra... ma l'involto cadde sul piano del tavolo e si aprì. Il contenuto rotolò sulla cartina del Missouri. Macklin, ammutolito, fissò le cinque pannocchie. Roland ne raccolse una, un paio di ufficiali si avvicinò a guardare. «Toglietemi quegli affari da davanti» disse il giovanotto alle guardie, che esitarono finché Roland non ordinò loro di abbassare i fucili. «Dove le hai prese?» domandò Roland. Sentiva ancora l'odore di terra, nella pannocchia che teneva in mano. «Hai già fatto un mucchio di domande. Ora tocca a me. Quanti uomini ci
sono là fuori?» Roland e il colonnello non risposero. «Se avete voglia di scherzare» continuò lui, con un sorrisino «prendo i miei giocattoli e me ne torno a casa. Ma voi non volete che me ne vada, vero?» Alla fine fu il colonnello Macklin a rompere il silenzio. «Tremila circa. Abbiamo perso un mucchio di soldati, nel Nebraska.» «Tutti in buone condizioni?» «Ma tu chi sei?» domandò Macklin. Aveva molto freddo e si accorse che il capitano Carr si soffiava sulle mani per scaldarsele. «Tutti e tremila sono in grado di combattere?» «No. Quattrocento sono ammalati o feriti. E abbiamo un migliaio fra donne e bambini.» «Allora hai solo milleseicento soldati.» Il giovanotto strinse i braccioli della seggiola. Macklin vide che in lui qualcosa cambiava, qualcosa di quasi impercettibile... si rese conto che l'occhio sinistro del giovanotto diventava castano. «Credevo che fosse un esercito, non una squadra di boyscout!» «Parli a un ufficiale dell'Esercito d'Eccellenza» disse Roland, in tono basso, ma carico di minaccia. «Non mi frega un cazzo di chi...» Vide anche lui l'occhio castano. La frase gli morì in gola. «Ma che grande esercito!» lo derise l'altro. «Maledettamente grande!» Il suo colorito si arrossava, le mascelle sembravano gonfiarsi. «Per quattro fucili e quattro camion pensate d'essere soldati? Siete merda!» Quasi lo gridò; e l'occhio azzurro sbiadì in grigio chiaro. «Tu che grado hai?» domandò a Macklin. Tutti rimasero in silenzio, perché anche loro avevano visto. Poi Alvin Mangrim, sorridente, allegro, già innamorato dello straniero, disse: «È colonnello!» «Colonnello» ripeté l'altro. «Bene, colonnello, penso che sia giunto il momento che l'Esercito d'Eccellenza sia guidato da un generale a cinque stelle.» Una striscia nera s'increspò nei suoi capelli. Alvin Mangrim rise e batté le mani. «Cosa dai da mangiare ai tuoi milleseicento soldati?» Lo straniero si alzò e gli uomini intorno al tavolo di Macklin si ritrassero, urtandosi l'un l'altro. Lui schioccò le dita, quando Macklin non fu abbastanza pronto a rispondere. «Parla!» Macklin era sconvolto. Mai nessuno, tranne le guardie vietcong nel campo di prigionia, una vita prima, aveva osato parlargli in quel modo. Normalmente, avrebbe fatto a pezzi lo sciagurato, per la sua mancanza di
rispetto; ma non poteva discutere con un uomo che aveva il viso d'un camaleonte e indossava solo una maglietta, quando gli altri rabbrividivano in cappotti foderati di pelliccia. A un tratto si sentì debole, come se il giovanotto lo prosciugasse di ogni energia e forza di volontà. Lo straniero dominava l'attenzione come un magnete; la sua presenza riempiva la stanza di ondate di gelo che s'intersecavano come correnti fredde. Macklin si guardò intorno, alla ricerca d'aiuto, ma vide che anche gli altri erano ipnotizzati e impotenti... perfino Roland era arretrato e serrava i pugni lungo i fianchi. Il giovanotto abbassò la testa. Rimase in quella posizione per una trentina di secondi. Quando la sollevò di nuovo, il viso era piacente, gli occhi erano tornati azzurri. Ma nei capelli ricci e castani c'era ancora la striscia nera. «Scusa» disse, con un sorriso disarmante. «Oggi sono fuori di me. Però davvero, mi piacerebbe sapere come sfami l'esercito.» «Ci siamo... ci siamo impadroniti di un po' di cibo in scatola... prendendolo alla Fedeltà Americana» disse infine Macklin. «Cassette di spezzatino in scatola... verdura e frutta in scatola.» «Quanto dureranno? Una settimana? Due?» «Siamo in marcia verso est» disse Roland, riprendendosi. «Ci dirigiamo nella Virginia occidentale. Strada facendo deprederemo altri villaggi.» «Nella Virginia occidentale? Cosa c'è nella Virgina occidentale?» «Una montagna... dove vive Dio» rispose Roland. «La scatola nera e la chiave d'argento. Fratello Timothy ci guiderà.» Fratello Timothy era stato duro, ma alla fine si era spezzato, sotto le attenzioni riservategli nella roulotte nera. Secondo Fratello Timothy, Dio aveva inserito in una scatola nera una chiave d'argento e nella solida roccia si era spalancata una porta. Nel cuore di monte Warwick — così Fratello Timothy aveva detto — c'erano corridoi e luci elettriche e macchine ronzanti che facevano girare bobine di nastro; e le macchine avevano parlato a Dio, gli avevano letto cifre e dati incomprensibili. Più Roland pensava a quella storia, più era propenso a credere che il cosiddetto Dio aveva mostrato a Fratello Timothy una stanza piena di computer ancora collegati a una fonte d'energia. E se c'erano davvero computer ancora in funzione nelle viscere di monte Warwick, nella Virginia occidentale, Roland voleva scoprire perché erano lì, quali informazioni contenevano... e perché qualcuno si era assicurato che funzionassero anche dopo un olocausto nucleare. «Una montagna dove vive Dio» ripeté lo straniero. «Be', piacerebbe anche a me vedere questa montagna.» Batté le palpebre. L'occhio destro era
verde. Nessuno si mosse, neppure le guardie che impugnavano ancora i fucili. «Guardate il granturco» li incitò lo straniero. «Annusatelo. È fresco, staccato dalla pianta un paio di giorni fa. Io so dove cresce un campo intero di granturco... e fra non molto ci saranno anche alberi di mele. Centinaia d'alberi. Da quanto tempo non assaggiate una mela? O pane di granturco? O granturco fritto in padella?» Lasciò vagare lo sguardo sul cerchio d'uomini. «Da un mucchio di tempo, scommetto!» «Dove?» Macklin aveva l'acquolina in bocca. «Dov'è questo campo?» «Oh... a circa duecento chilometri da qui, verso sud. In un villaggio che si chiama Mary's Rest. Hanno anche una sorgente, lì. Potrete riempire bottiglie e barili, con acqua che ha sapore di sole.» Gli occhi di diverso colore scintillarono, mentre lui si accostava al bordo del tavolo di Macklin. «Ci vive una ragazza, in quel villaggio» continuò. «Si chiama Swan. Vorrei che tu la incontrassi. Perché è lei che ha fatto crescere il granturco dalla terra morta, è lei che ha piantato i semi di mela; e anch'essi cresceranno.» Sogghignò, ma era un ghigno di rabbia: un pigmento scuro gli si diffuse sulla guancia, simile a una voglia. «Lei sa far crescere le messi. L'ho visto. E se tu avessi lei... allora potresti sfamare il tuo esercito, mentre tutti gli altri morirebbero di fame. Capisci cosa voglio dire?» Macklin rabbrividì per il freddo che proveniva dallo straniero, ma non riuscì a staccare lo sguardo da quegli occhi scintillanti. «Perché mi... mi racconti tutto questo? Cosa te ne viene?» «Ah... diciamo che mi piace stare dalla parte vincente.» Il pigmento nero scomparve. «Siamo diretti a monte Warwick» replicò Roland. «Non possiamo fare una deviazione di duecento chilometri...» «La montagna aspetterà» replicò lo straniero a bassa voce, continuando a fissare Macklin. «Prima ti porterò dalla ragazza. Poi vai pure a trovare Dio, o Sansone e Dalila, se ne hai voglia. Ma prima la ragazza... e il cibo.» «Sì.» Macklin annuì, con occhi vitrei, la mascella cascante. «Sì. Prima la ragazza e il cibo.» Il giovanotto sorrise, mentre piano piano gli occhi acquistavano la stessa sfumatura d'azzurro. Si sentiva molto meglio, ora, molto più in forze. Sano come un pesce, pensò. Forse era dovuto al fatto di trovarsi lì, fra gente che aveva le idee giuste. Sì, la guerra era una buona cosa! Potava la popolazione e garantiva che sopravvivessero i più robusti, in modo che la generazione seguente fosse migliore. Lui aveva sempre difeso la natura bellicosa
degli uomini. Forse si sentiva più in forze anche perché era lontano dalla ragazza. Quella puttanella maledetta tormentava le povere anime di Mary's Rest, le convinceva che valesse di nuovo la pena di vivere. Non era possibile tollerare illusioni del genere. Con la sinistra prese la cartina del Missouri e la resse davanti a sé, mentre di nascosto muoveva la destra dietro il foglio. Un filo di fumo azzurrognolo si alzò in aria; si sentì odore di candela accesa. Un cerchio bruciacchiato comparve sulla cartina, in un punto a circa duecento chilometri a sud della loro posizione. Quando il cerchio fu completo, lo straniero lasciò scivolare la cartina sul tavolo, davanti a Macklin; intorno alla destra stretta a pugno si muoveva una nebbiolina di fumo. «Ecco dove andiamo» disse. Alvin Mangrim s'illuminò come un bambino felice. «Subito, fratello!» Per la prima volta in vita sua, Macklin si sentì debole. Qualcosa era sfuggito al suo controllo; gli ingranaggi della grande macchina da guerra che era l'Esercito d'Eccellenza si erano messi in moto da soli. In quel momento Macklin capì che in realtà non gli fregava niente del Marchio di Caino, né di purificare la razza umana, né di ricostruire l'America per combattere i russi. Tutte cose che aveva detto agli altri, per indurii a credere che l'EDE avesse una causa più nobile. E per indurre anche se stesso a credervi. Ora capì che aveva sempre voluto essere di nuovo temuto e rispettato, come quand'era giovane e combatteva in territori stranieri, prima che i suoi riflessi si appannassero. Voleva gente che lo chiamasse «Signore», ma senza quel lampo di derisione negli occhi. Voleva essere di nuovo qualcuno, non un parassita chiuso in un flaccido sacco d'ossa a sognare il passato. Aveva oltrepassato il punto dal quale non si torna indietro, in qualche istante della corrente di tempo che aveva spazzato da Casa Terra lui e Roland Croninger. Non poteva più tornare indietro... né ora, né mai. Ma una parte di lui, nell'intimo, all'improvviso urlò e si rincantucciò in un buco buio, aspettando che qualcosa di terrificante venisse ad alzare il coperchio e a offrirgli cibo. «Chi sei?» domandò in un sussurro. Lo straniero si sporse fino ad avere il viso a qualche centimetro da quello di Macklin. Nel profondo degli occhi, Macklin credette di scorgere fessure scarlatte. Lo straniero disse: «Puoi chiamarmi... Friend. Amico».
79 «Arriveranno» disse Sister. «Lo so. La domanda è: cosa faremo, quando saranno qui?» «Gli faremo saltare la maledetta testa!» disse un nero inagrissimo, alzandosi dal banco rozzamente squadrato. «Sissignore! Abbiamo i fucili sufficienti a fargli mostrare la coda!» «Giusto!» convenne un altro, dalla parte opposta della navata. «Non permetteremo a quei bastardi di derubarci!» Un mormorio d'assenso percorse le cento e più persone radunate nella chiesa costruita per metà; ma parecchi dissentirono. «Se quel che lei dice è vero» obiettò una donna, alzandosi «e duemila soldati marciano su Mary's Rest, siamo pazzi a pensare di resistere al loro attacco! Prendiamo tutto quel che possiamo portare e...» «No!» tuonò dal banco vicino un uomo dalla barba grigia, con il viso segnato da ustioni scarlatte, livido di rabbia. «No, perdio! Restiamo qui, dove c'è la nostra casa! Un tempo Mary's Rest non valeva una cicca, ma guardatela ora! Diavolo, abbiamo una città, qui. Abbiamo iniziato a ricostruire.» Si guardò in giro, con occhi scuri e infuriati. A un metro e mezzo sopra di lui, lumi a petrolio pendevano dai travetti scoperti e gettavano sull'assembramento una pallida luce dorata; il fumo s'alzava nel cielo notturno, perché il tetto mancava ancora. «Il mio fucile mi dice che io e mia moglie restiamo qui» continuò. «E qui moriremo, se è necessario. Abbiamo smesso di scappare.» «Un momento! Aspettate un momento!» Un uomo robusto, in giacca di tela e calzoni cachi, si alzò. «Perché sembrate impazziti tutti? Questa donna appende un foglio» e mostrò un bollettino rozzamente stampato con la dicitura "Stasera riunione d'emergenza! Venite tutti!" «e noi ci mettiamo a starnazzare come un branco d'oche! Lei ci viene a dire che un maledetto esercito giungerà qui entro...» Diede un'occhiata a Sister. «Fra quanto tempo hai detto?» «Non so. Tre giorni, forse quattro. Hanno camion e automobili; si muoveranno in fretta, una volta partiti.» «Ah-hah. Allora, vieni qui a dirci che un esercito arriva da questa parte e tutti ce la facciamo sotto. E tu come lo sai? E cosa cercano? Insomma, se vogliono fare guerra, troveranno certo un posto migliore! Qui siamo tutti americani, mica russi!» «Come ti chiami?» domandò Sister. «Bud Royce. Anzi, capitano Bud Royce, ex Guardia Nazionale dell'Ar-
kansas. Vedi, anch'io m'intendo un poco d'eserciti.» «Bene, capitano Royce, ti dico esattamente che cosa vogliono: il nostro raccolto. E anche la nostra acqua, quasi certamente. Non posso spiegarti come faccio a saperlo, ma so che stanno per arrivare e che raderanno al suolo Mary's Rest.» Strinse la borsa e guardò Swan, seduta accanto a Josh in prima fila; si rivolse di nuovo a Bud Royce. «Credimi, arriveranno presto. Ed è meglio decidere subito cosa fare.» «Combattiamo!» gridò un uomo in fondo. «E come?» disse con voce querula un vecchio con il bastone. «Non possiamo affrontare un esercito. Saremmo pazzi anche solo a tentarlo.» «Saremmo dei bei vigliacchi, se non tentassimo!» sbottò una donna, sulla sinistra. «Già, ma è meglio un vigliacco vivo che un eroe morto» replicò un giovane con la barba seduto dietro a Josh. «Io me ne vado!» «Hai detto una gran stronzata!» tuonò Anna McClay, alzandosi dal banco. Mani sui fianchi, labbra arricciate in un ghigno di scherno, guardò l'assemblea. «Dio onnipotente, che viviamo a fare, se non combattiamo per le cose più care? Ci consumiamo il culo fino all'osso per ripulire il paese, ricostruire la chiesa... e alla prima vera difficoltà ce la diamo a gambe?» Scosse la testa, con un brontolio di disgusto. «Ricordo benissimo cos'era Mary's Rest... e anche molti di voi lo ricordano. Ma vedo cos'è ora, cosa può diventare! Se scappiamo, dove andiamo? In un'altra tana? E cosa succederà, quando quell'esercito deciderà di marciare di nuovo su di noi? Se scappiamo una volta, ve lo dico io, siamo morti lo stesso. Perciò tanto vale morire combattendo!» «Sì, la penso così anch'io» aggiunse il signor Polowsky. «Ho moglie e figli!» disse Vulcevic, con il viso stravolto dalla paura. «Non voglio morire e non voglio neppure che muoiano loro! Io non so niente di come si combatte!» «Allora è il momento d'imparare!» Paul Thorson si alzò e percorse il corridoio centrale fino alla prima fila. «State a sentire» disse, mettendosi a fianco di Sister. «Sappiamo tutti cosa c'è in gioco, giusto? Sappiamo dove stavamo una volta e dove stiamo ora. Se cediamo Mary's Rest senza combattere, saremo di nuovo dei vagabondi e sapremo di non avere avuto neppure il coraggio di tentare! Io, da parte mia, sono un gran pigro. Non voglio riprendere la strada... perciò resto qui.» Mentre ciascuno gridava la sua opinione, Sister rivolse a Paul un debole sorriso. «Cos'è? Un altro strato della torta di merda?»
«No» rispose lui, con occhi d'acciaio. «Credo che la mia torta sia già quasi nel forno, giusto?» «Sì, direi di sì.» Sister amava Paul come un fratello e non era mai stata tanto orgogliosa di lui. E aveva già preso la decisione: sarebbe rimasta a combattere, mentre Josh portava in salvo Swan... un piano di cui Swan era ancora all'oscuro. Swan ascoltava il tumulto di voci; avrebbe voluto dire una cosa, ma era intimidita da tutta quella gente. Però sapeva che si trattava di una cosa importante... e doveva parlare, prima che l'occasione passasse. Raccolse il coraggio e si alzò. «Scusatemi» disse, ma la sua voce fu soffocata dal putiferio. Andò accanto a Paul e si rivolse alla folla. La voce le tremò, mentre diceva, solo un po' più forte: «Scusatemi, vorrei soltanto...» Subito la confusione scemò. In un paio di secondi ci fu silenzio, rotto solo dal gemito del vento e dal pianto d'un bimbo in fondo alla chiesa. Swan guardò la folla. Tutti aspettavano che lei parlasse. Era al centro dell'attenzione e il fatto le provocò un formicolio lungo la schiena. In fondo alla chiesa, altra gente si accalcò alla porta: forse duecento persone, radunate sulla strada, ascoltavano la discussione, riferita da quelli all'interno. Swan per un attimo pensò che non sarebbe riuscita a spiccicar parola. «Scusatemi» riuscì a ripetere «ma vorrei dirvi una cosa.» Esitò, per riordinare i pensieri. «Secondo me» cominciò, titubante «siamo tutti preoccupati perché non sappiamo se riusciremo a respingere i soldati... ma è sbagliato. Se li affrontiamo qui a Mary's Rest, perderemo. E se scappiamo e abbandoniamo tutto, distruggeranno ogni cosa... perché questo fanno gli eserciti.» Per qualche istante incrociò lo sguardo di Robin, nelle file di destra, circondato da alcuni dei suoi piccoli banditi. «Non possiamo vincere» continuò «sia che combattiamo, sia che scappiamo. Perciò dovremmo pensare al modo d'impedire che vengano qui.» Bud Royce scoppiò in una risata rauca. «Come diavolo blocchiamo un esercito, senza combattere?» «Facciamo in modo che costi troppo, venire qui. Forse decideranno di fare marcia indietro.» «Giusto.» Royce sorrise, sarcastico. «E tu cosa proponi, signorina?» «Di fortificare Mary's Rest. Come facevano i cowboy nei vecchi film, quando stavano per arrivare gli indiani. Costruiamo un muro intorno a Mary's Rest; usiamo terra, alberi, bastoni... il legname delle case diroccate. Possiamo scavare fosse nella foresta e coprirle di arbusti, in modo che i camion vi cadano dentro; e possiamo bloccare con tronchi le strade, per
costringerli a passare dai boschi.» «Hai mai sentito parlare della fanteria?» replicò Royce. «Anche se costruissimo trappole per i loro veicoli, i soldati striscerebbero sul muro, no?» «Forse no» disse Swan. «Se il muro fosse coperte di ghiaccio.» «Ghiaccio?» una donna dalla faccia olivastra e dai capelli arruffati si alzò. «Da dove lo fai comparire, il ghiaccio?» «Abbiamo una sorgente. Abbiamo secchi, catini e bacinelle. Abbiamo braccia per tirare i carri e tre o quattro giorni di tempo.» Swan percorse il corridoio centrale, guardando da uno all'altro. Era meno nervosa, adesso, perché capiva che volevano darle retta. «Se cominciamo a lavorare subito, possiamo costruire un muro intorno a Mary's Rest e trovare il sistema per portare l'acqua. Possiamo cominciare a versarla anche prima di terminarlo: col freddo che fa, non ci vorrà molto perché geli. Più acqua usiamo, più il ghiaccio sarà spesso. I soldati non riusciranno ad arrampicarsi.» «Niente da fare!» la derise Royce. «Non c'è tempo per un lavoro del genere!» «Diavolo, proviamoci!» disse il nero magrissimo. «Non c'è scelta.» Si alzarono altre voci, divamparono discussioni. Sister iniziò a chiedere silenzio, ma capì che quello era il momento di Swan: era Swan, che la gente voleva sentir parlare. Quando Swan riprese la parola, le discussioni cessarono. «Tu saresti utile più di tutti» disse a Bud Royce. «Visto che eri capitano della Guardia Nazionale, potresti studiare i posti migliori dove disporre trincee e trappole.» «Sarebbe la parte più facile. Ma io non voglio essere utile. Me ne vado di corsa alle prime luci dell'alba.» Swan annuì, guardandolo serenamente. Se era questa la sua decisione, facesse pure. «D'accordo» disse; guardò di nuovo la folla. «Chi vuole, dovrebbe andare via già domattina. A ciascuno auguro buona fortuna, e di trovare quel che cerca.» Scoccò un'occhiata a Robin; il giovane sentì un brivido d'eccitazione, perché gli occhi di Swan sembravano mandare fiamme. «Io resto qui» continuò lei. «Farò il possibile per impedire ai soldati di distruggere quel che abbiamo realizzato... tutti noi, dal primo all'ultimo. Non sono stata solo io a far crescere il granturco: hanno collaborato tutti. Io ho piantato i semi, ma altri hanno acceso i falò per mantenere tiepida l'aria e la terra. Altri hanno tenuto lontano le linci e i corvi, altri hanno fatto il raccolto. E quanti hanno collaborato a scavare il pozzo? Quanti
hanno raccolto i torsoli di mela? Quanti hanno lavorato per ricostruire questo edificio?» Swan vide che tutti ascoltavano, compreso Bud Royce, ed ebbe l'impressione di trarre forza da loro. Proseguì, mossa dalla loro fede. «Non sono stata soltanto io. Tutti hanno voluto ricostruire. Mary's Rest non è più un mucchio di vecchie baracche abitate da estranei: la gente si conosce, s'interessa delle difficoltà altrui, perché sa che nessuno è diverso dagli altri. Sappiamo tutti quel che abbiamo perduto... e se scappiamo, lo perderemo di nuovo. Perciò resterò qui. Se vivo o muoio, fa lo stesso, perché ho deciso di smettere di fuggire.» Ci fu silenzio. «Non ho altro da dire.» Tornò a sedersi accanto a Josh. Il gigante le mise la mano sulla spalla e la sentì tremare. Il silenzio si prolungò. Bud Royce, sempre in piedi, aveva lo sguardo meno duro di prima e sulla fronte rughe di riflessione. Nemmeno Sister parlò. Era orgogliosa di Swan, ma sapeva benissimo che l'esercito non veniva solo per il raccolto e per l'acqua. Veniva anche per Swan. L'uomo con l'occhio scarlatto guidava i soldati e avrebbe usato una mano d'uomo per schiacciarla. «Un muro coperto di ghiaccio» rifletté Royce ad alta voce. «La cosa più folle che abbia mai udito. Diamine... è così pazzesca che potrebbe anche funzionare. Potrebbe, dico. Il muro non fermerà a lungo i soldati, se sono veramente decisi a superarlo. Dipende dal tipo di armi che hanno. Se con le trappole mettiamo fuori uso un bel po' di veicoli, forse ci penseranno due volte.» «Allora è fattibile?» domandò Sister. «Non ho detto questo, signora mia. Sarebbe un lavoraccio, e non so se abbiamo gli uomini per farlo.» «Uomini le palle!» sbottò Anna McClay. «Ci sono anche le donne. E anche un mucchio di ragazzi che possono aiutarci.» Il suo tono litigioso provocò grida d'assenso. «Be', non occorreranno tanti uomini e fucili, per tenere il muro» disse Royce. «Soprattutto se tagliamo i boschi e non lasciamo a quei bastardi dei facili ripari. Così non ci arriveranno addosso di nascosto.» «A questo penseremo noi» disse una vocetta. Un bambino dai capelli castani, di una decina d'anni, stava in piedi sul banco. Aveva messo un po' di carne, dall'ultima volta che Sister l'aveva visto, e aveva le guance bruciate dal vento. E, sotto il cappotto, una piccola cicatrice rotonda, appena sotto il cuore. Bucky disse: «Se sono a nord di qui, possiamo prendere una mac-
china e andarli a cercare». Dalle pieghe del cappotto trasse un coltello dalla lama molto lunga. «Non ci vuole niente a nascondersi nei boschi e tagliare un po' di gomme quando capita.» «Certo farebbe comodo» ammise Royce. «Qualsiasi cosa che li rallenti ci darebbe più tempo per scavare ed erigere. E non sarebbe una cattiva idea piazzare delle vedette a un'ottantina di chilometri lungo la strada.» «Non credo che tu abbia molta esperienza al volante» disse Paul a Bucky. «Se trovo un'auto che non barrisca come un elefante in calore, guiderò io. Ho fatto un po' di pratica nella caccia ai lupi.» «Io ho un'accetta!» disse un altro. «Non è tanto affilata, ma il lavoro lo farà.» Altri si offrirono volontari. «Possiamo abbattere una parte delle baracche vuote e usare il legname» suggerì un uomo d'origine latina, con una cheloide viola in faccia. «D'accordo, dobbiamo radunare tutte le seghe e le scuri che troviamo» disse Bud Royce a Sister. «Cristo, ho sempre pensato d'essere mezzo pazzo! Mi sa che lo sono tutto! Bisogna formare squadre di lavoro e tracciare programmi. Ed è meglio iniziare subito!» «Giusto» disse Sister. «E chi non intende partecipare, si tolga dai piedi, a cominciare da ora.» Una quindicina di persone se ne andò... ma fu subito rimpiazzata da altre che stavano fuori. Quando il movimento cessò, Sister guardò Swan: la ragazza era determinata, aveva preso la decisione... e nessuno l'avrebbe convinta a scappare da Mary's Rest e lasciare gli altri ad affrontare i soldati. Così, pensò Sister, facciamo un passo alla volta. Un passo, e il passo seguente ti porta dove volevi andare. «Sappiamo cosa ci aspetta» disse alla folla. «Mettiamoci al lavoro e salviamo la nostra città.» 80 Il suono di dolore echeggiò nell'aria gelida. Swan trasalì, tirò la briglia di corda e condusse al passo Mulo; il vapore si formò intorno alle froge del cavallo, come se anche lui avesse udito il suono e ne fosse stato disturbato. Altri suoni di dolore giunsero a Swan, simili al gemito alto e rapido di chitarra elettrica. Ma Swan sapeva che avrebbe dovuto sopportarli. Erano i suoni degli alberi ancora vivi, abbattuti per essere aggiunti al
muro alto un metro e venti, fatto di tronchi, arbusti e terra, che racchiudeva Mary's Rest e il campo di granturco. Swan udiva anche i colpi sordi e continui di scuri al lavoro. Disse: «Avanti, Mulo» e guidò il cavallo lungo il perimetro, dove decine di persone ammucchiavano arbusti e legname. Tutti alzarono gli occhi e si fermarono qualche istante a guardarla passare, poi ripresero il lavoro, con nuova lena. Bud Royce aveva detto che il muro doveva essére alto almeno un metro e ottanta, prima di versarvi sopra l'acqua... ma il tempo cominciava a mancare. Erano occorse più di venti ore di lavoro continuato . per arrivare all'altezza e allo spessore attuali. Al limitare dei boschi, squadre di lavoro capeggiate da Anna McClay, Royce e altri volontari, si affannavano a scavare una rete di trincee e a nasconderle sotto graticci di rametti coperti di neve. Davanti a Swan, un gruppo di persone turava con pietre e terriccio le crepe del muro. Fra di loro c'era anche Sister, sporca di terra, il viso arrossato dal freddo. Con un pezzo di spago robusto si era legata a tracolla la borsa di cuoio. Lì accanto, Robin svuotava una carriola. Avrebbe voluto andare con Paul, Bucky e altri tre giovani banditi, che il giorno prima si erano diretti a nord, in una Subaru grigia; ma Sister gli aveva detto che i suoi muscoli erano più utili alla costruzione del muro. Swan fermò Mulo e scese. Sister si accigliò. «Cosa fai qui fuori? Non t'avevo detto di restare in casa?» «Sì.» Swan raccolse una manata di terra e turò una fessura. «Ma non ci resto, mentre tutti lavorano.» Sister mostrò le mani sporche di sangue e piene di tagli. «Tu devi risparmiarle per cose migliori» disse. «E ora vattene!» «Le tue guariranno. E le mie pure.» Ammucchiò altra terra nello spazio fra due tronchi. A una ventina di metri, alcuni uomini mettevano in posizione altri tronchi e arbusti, mentre il muro cresceva. Robin diede un'occhiata al cielo, basso e brutto. «Fra un'ora sarà buio. Se sono nelle vicinanze, forse scorgeremo i loro fuochi.» «Paul ci farà sapere se si avvicinano.» Almeno, Sister se lo augurava. Paul si era offerto volontario per un lavoro assai rischioso; se lui e i bambini erano stati catturati, erano bell'e morti. Preoccupata per Paul, Sister guardò Swan. «Vattene, Swan!» disse. «Non c'è bisogno che tu stia qui a rovinarti le mani!» «Non sono diversa dagli altri, maledizione!» sbottò Swan, rossa in viso, con occhi che lampeggiavano d'ira. «Sono un essere umano, non... non un
soprammobile! Posso lavorare come tutti, non è giusto che mi tieni nella bambagia!» Sister rimase sorpresa per la reazione di Swan e si accorse che anche gli altri la guardavano. «Scusa» riprese Swan, più calma. «Ma non devi tenermi in casa per proteggermi. Posso badare a me stessa.» Diede un'occhiata agli altri, a Robin, poi si rivolse di nuovo a Sister. «So perché vengono qui e so chi li guida. Vogliono me! Per causa mia, l'intera città è in pericolo.» La voce le mancò. «Vorrei correre, scappare via! Ma i soldati verrebbero lo stesso, prenderebbero ugualmente il raccolto, non lascerebbero vivo nessuno. Non serve fuggire... Ma se moriremo tutti, sarà per causa mia. Mia. Quindi, per favore, lascia lavorare anche me.» Sister capì che Swan aveva ragione: lei, Josh e gli altri avevano trattato Swan come se fosse un fragile pezzo di porcellana... sì, come una di quelle sculture nel negozio di Steuben, nella Quinta Avenue. Tutti pensavano solo che Swan aveva il dono di far nascere la vita dalla terra morta, e si erano dimenticati che era solo una ragazza. Ma Swan era ostinata e decisa ben più di quanto l'età giustificasse, e pronta a lavorare. «Vorrei che tu avessi un paio di guanti» disse Sister. «Ma in giro non devono essercene molti.» Anche i suoi erano a brandelli. «Bene, mettiamoci al lavoro, allora. Non sprechiamo tempo.» Un paio di lisi guanti di lana comparve davanti a Swan. «Prendili» disse Robin, ora a mani nude. «Posso sempre rubarne un altro paio.» Swan lo guardò negli occhi. Dietro la maschera di durezza c'era una scintilla gentile, come se il sole fosse filtrato all'improvviso dalle nubi gonfie di neve. Swan indicò Sister. «Dalli a lei.» Robin annuì. Il cuore gli galoppava. Pensò che se si fosse comportato da stupido anche questa volta, sarebbe andato a nascondersi nel primo buco che trovava. Swan era così bella! Occhio a quel che fai, si ammonì. Sangue freddo, amico! Sangue freddo! Aprì la bocca. «Ti amo» disse. Sister spalancò gli occhi. Interruppe il lavoro, si raddrizzò, si girò verso Robin e Swan. Swan era ammutolita. Robin aveva una smorfia inorridita, quasi pensasse che le sue corde vocali si erano mosse di propria volontà. Ma ormai le due parole erano uscite e tutti le avevano udite.
«Cosa... cos'hai detto?» domandò Swan. La faccia di Robin sembrò quella d'un ragazzo svezzato a ketchup. «Ah... devo andare a prendere dell'altra terra» borbottò. «Nel campo. La prendo da lì, sai?» Arretrò verso la carriola e quasi vi finì dentro. Si girò e si allontanò in fretta. Sister e Swan lo guardarono. Sister borbottò: «Quello lì è pazzo!» «Oh» disse piano Swan. «Mi auguro di no.» Sister la guardò, capì tutto. «Avrà bisogno d'aiuto, per riempire la carriola» suggerì. «Insomma, qualcuno dovrebbe aiutarlo, sul serio. Si fa prima, se si lavora in due, non ti pare?» «Sì.» Swan si trattenne e scrollò le spalle. «Può darsi. Forse.» «Giusto. Be', vai a dargli una mano, allora. Qui ci pensiamo noi.» Swan esitò. Lo guardò camminare verso il campo e si rese conto di sapere ben poco di lui. Probabilmente, se l'avesse conosciuto meglio, non avrebbe provato alcun interesse per lui. No, proprio nessuno! E ci pensava ancora, quando prese le redini di Mulo e si avviò dietro Robin. «Un passo alla volta» disse Sister sottovoce. Ma Swan si era già incamminata. Da otto ore filate Josh alzava tronchi; stava quasi per crollare, quando si avvicinò al pozzo a prendere un mestolo d'acqua. Gran parte dei bambini, Aaron compreso, aveva il compito di portare secchi d'acqua e ramaioli alle squadre di lavoro. Josh bevve a volontà; appese il mestolo al gancio fissato nel grosso barile posto vicino al pozzo. Era stanco, la spalla lussata gli faceva un male cane, quasi non ci vedeva più dalla fessura della Maschera di Giobbe. La testa era così pesante che gli occorreva uno sforzo tremendo solo per non farla ciondolare. Si era messo a caricare tronchi, nonostante le obiezioni di Sister, di Swan e di Glory. Ora, però, voleva solo distendersi a riposare. Anche solo per un'ora; poi sarebbe stato di nuovo in grado di lavorare... perché c'era ancora parecchio da fare e il tempo mancava. Aveva cercato di convincere Glory a prendere con sé Aaron e andarsene, magari nascondersi nei boschi finché non si fosse risolto tutto; ma la donna era decisa a restare con lui. E anche Swan aveva deciso. Inutile provare a farle cambiare idea. Ma i soldati volevano Swan e Josh sapeva che questa volta non avrebbe potuto proteggerla. Sotto la Maschera di Giobbe, il dolore gli percorse il viso come una
scossa elettrica. Josh si sentì debolissimo, sul punto di svenire. Solo un'ora di riposo, si disse; solo un'ora, poi torno a lavorare, e al diavolo le dita rotte e le costole fratturate. Quel bastardo che cambia faccia ha fatto bene ad andarsene, altrimenti l'avrei ammazzato! Si avviò alla baracca di Glory, con le gambe pesanti come pezzi di piombo. Se i tifosi avessero visto ora il vecchio Frankestein Nero, quanto avrebbero fischiato e schiamazzato! Si sbottonò il cappotto e il colletto della camicia bagnata di sudore. L'aria diventa meno fredda, pensò. Il sudore gli colava lungo i fianchi, la camicia era appiccicata al petto e alla schiena. Cristo, pensò, brucio di caldo! Inciampò e quasi cadde, nel salire i gradini; ma riuscì a entrare nella baracca, si tolse il cappotto e lo lasciò cadere a terra. «Glory!» chiamò debolmente, prima di ricordare che la donna era fuori a scavare trincee. «Glory» mormorò. Gli occhi d'ambra di Glory si erano accesi e il viso le brillava come una lanterna nel buio, quando lui le aveva portato l'abito di lustrini. Glory aveva passato le dita sui lustrini, si era accostata l'abito al corpo; e quando aveva guardato di nuovo Josh, una lacrima le scivolava lungo la guancia. In quell'istante Josh aveva avuto voglia di baciarla. Voleva premere le labbra contro le sue, strofinare la guancia contro la sua... ma non aveva potuto farlo, con quella porcheria sul viso. L'aveva scrutata, dalla fessura sempre più stretta dell'occhio buono, e aveva capito di non ricordare più l'aspetto di Rose; la faccia dei ragazzi, naturalmente, gli era impressa nella mente con la chiarezza d'una fotografia... ma quella di Rose si era affievolita. Josh aveva regalato a Glory il vestito perché voleva vederla sorridere. E quando lei aveva sorriso davvero, era stata come un'occhiata fugace in un mondo diverso, migliore. Josh perdette l'equilibrio e urtò il tavolo. Qualcosa svolazzò per terra. Lui si chinò a raccoglierlo. Ma all'improvviso si sentì crollare come un castello di carte e cadde bocconi. La baracca vibrò per l'urto. Brucio, pensò Josh; oh, Dio... brucio... Fra le dita stringeva l'oggetto caduto dal tavolo. Lo accostò all'occhio e scoprì che cos'era. La carta di tarocchi. La giovane donna seduta su uno sfondo di fiori, grano, acqua corrente; con il leone e l'agnello accucciati ai suoi piedi, in mano lo scudo con la fenice che risorgeva fiammeggiante dalle ceneri; sul-
la testa, una corona di vetro, brillante di luce. «L'Impe...ratrice» lesse Josh. Fissò i fiori, la corona di vetro, il viso della giovane donna. Guardò con intensità ed attenzione, mentre la febbre sembrava rifluirgli nella testa e nel corpo come se si fossero aperte le chiuse di un vulcano. Devo dirlo a Sister, pensò; devo dire a Sister... che il suo cerchio di vetro... è una corona. Devo mostrarle questa carta... perché Swan e l'Imperatrice... hanno lo stesso viso. E poi la febbre gli bruciò ogni pensiero. Josh giacque immobile, con la carta di tarocchi stretta in mano. 81 La quarta notte, il fuoco bruciò nel cielo. Robin lo vide mentre riempiva d'acqua secchi e barili da caricare sui carri e da portare al muro. Utilizzavano tutti i contenitori disponibili, dai secchi di plastica ai mastelli; al pozzo, la squadra non faceva in tempo a riempire un carro, che già un altro veniva avanti a caricare. La luce riflessa dalle nuvole basse proveniva dalle torce e dai falò dell'accampamento di soldati, distante forse poco più di venti chilometri. L'esercito sarebbe giunto a Mary's Rest il giorno successivo; in quelle ultime ore, con uno sforzo decisivo, bisognava rinforzare il rivestimento di ghiaccio che copriva i due metri e dieci di muro. Robin aveva le spalle indolenzite: ogni secchio, pentola o vaso che tuffava nel pozzo gli pareva pesante venti chili; ma pensava a Swan, e continuava a lavorare. Quel giorno lei l'aveva aiutato a raccogliere terra, come una qualsiasi normalissima persona. Le loro mani si erano coperte di sangue e riempite di tagli allo stesso modo. E, mentre lavoravano, Robin le aveva raccontato tutto di sé, dell'orfanotrofio e degli anni alla macchia. Swan l'aveva ascoltato senza commenti; quando lui aveva terminato la sua storia, gli aveva raccontato la propria. Robin non badò al dolore, l'aveva messo da parte come una coperta vecchia. Gli bastava pensare al viso di Swan, per trovare energie nuove. Bisognava proteggerla, come un bellissimo fiore: sarebbe morto per lei, se occorreva. Glory, ferma sulla veranda, guardava verso nord; posò la mano sulla spalla di Aaron. «Li prendo a bastonate» giurò Aaron, muovendo Crybaby come se fosse
una mazza. «Tu domani stai a casa» disse Glory. «Hai capito?» «Voglio essere un soldato!» protestò lui. Glory lo costrinse a girarsi. «No!» disse, con un lampo di furia negli occhi d'ambra. «Vuoi imparare a uccidere e a rubare? Vuoi che il tuo cuore diventi di pietra, per calpestare la gente e pensare che è giusto? Figliolo, se pensassi che crescerai così, ti spaccherei la testa in questo istante! Perciò non dire mai più, mai più, che vuoi essere un soldato! Hai capito?» Il labbro inferiore di Aaron tremò. «Sissignora» disse. «Ma... se non ci sono soldati buoni, allora i soldati cattivi vincono sempre!» Glory non seppe che cosa rispondere. Il bambino la guardò negli occhi. Possibile, si domandò lei, che ci fossero sempre soldati in marcia, sotto bandiere e generali diversi? Che la guerra non finisse mai, a prescindere da chi vincesse? Suo figlio, lì davanti a lei, le rivolgeva in pratica la stessa domanda. «Ci penserò» rispose. E non riuscì a dire di meglio. Guardò, lungo la strada, il punto dove poco prima sorgeva la chiesa, adesso vuoto, perché il legname era stato adoperato per fortificare il muro. Tutte le armi da fuoco, le asce, le pale, i picconi, le zappe, i coltelli, tutto ciò che poteva servire da arma, era stato inventariato e distribuito. Purtroppo non c'era un quantitativo adeguato di munizioni. Il Rigattiere si era offerto di costruire "fionde supersoniche" , se gli avessero fornito elastici sufficienti. Paul Thorson e i bambini non erano tornati: Glory non credeva che li avrebbe rivisti. Entrò in casa, nella stanza in cui Josh giaceva sul letto, in uno stato di febbre comatosa. Fissò la maschera bitorzoluta: sapeva che sotto c'era la vera faccia di Josh. Josh stringeva in mano un tarocco. Le sue dita serravano l'Imperatrice con tanta forza che nessuno, neppure Anna, era riuscito ad aprirle. Glory si sedette accanto a lui e attese. Dal bordo settentrionale del muro, una delle vedette appollaiate su scale di fortuna all'improvviso gridò: «Arriva gente!» Sister e Swan, che lavoravano insieme a versare acqua sopra una sezione di muro, udirono l'allarme. Accorsero alla postazione della vedetta. «Quanti sono?» domandò Sister. Troppo presto! Non erano ancora pronti! «Due. No, aspetta. Tre, mi pare.» La vedetta armò il fucile, scrutò nel
buio. «Due a piedi. Credo che uno porti il terzo. Un uomo e due br nbini!» «Oh, Dio!» Sister si sentì mancare il cuore. «Porta una scala!» gridò alla vedetta seguente, lontana qualche metro. «Presto!» Calarono dall'altra parte la seconda scala. Il primo a salire fu Bucky, con il viso sporco di sangue secco. Sister lo aiutò a scendere; il bambino le gettò le braccia al collo e la strinse forte. Poi venne Paul Thorson, con uno squarcio di dieci centimetri sulla guancia, gli occhi cerchiati e sconvolti. Portava in spalla uno dei tre bambini che avevano aiutato lui e Sister ad arrivare a Mary's Rest. Il braccio destro del bambino era coperto di sangue coagulato e una serie di fori di proiettile gli ricamava la schiena. «Portalo a casa del medico!» disse Sister a un'altra donna, affidandole Bucker, che emise un fievole gemito e nient'altro. Paul posò i piedi a terra; le ginocchia gli cedettero, ma Sister e Swan lo afferrarono in tempo. Il signor Polowsky e Anna accorrevano dalla loro parte, precedendo diversi altri. «Portate anche lui» gracchiò Paul. Aveva barba e capelli pieni di neve, viso segnato e stanco. Polowsky e la vedetta gli tolsero di spalla il bambino, quasi irrigidito di freddo. «Si rimetterà!» disse Paul. «Gli ho detto che l'avrei riportato indietro!» Toccò il visetto livido e freddo. «Te l'avevo detto, vero?» Portarono via il bambino; Paul gridò: «Andateci piano! E lasciatelo dormire, se ne ha voglia!» Un uomo stappò una fiasca di caffè caldo e la diede a Paul. Lui bevve con tanta avidità che Sister dovette trattenerlo; e Paul sobbalzò, mentre il liquido caldo gli diffondeva calore in tutto il corpo. «Cos'è accaduto?» domandò Sister. «E gli altri?» «Morti.» Paul rabbrividì, bevve altro caffè. «Tutti morti. Oddio, sono gelato.» Portarono una coperta e Swan aiutò ad avvolgerlo. Lo condussero al fuoco più vicino. Paul rimase un bel po' a scaldarsi le mani per riattivare la circolazione del sangue. Poi raccontò l'intera storia: il secondo giorno avevano trovato il campo dell'esercito, una novantina di chilometri a nord di Mary's Rest. I bambini erano maestri nell'avanzare furtivamente, disse; erano riusciti a entrare nel campo per dare un'occhiata; mentre c'erano, avevano tagliato le gomme di alcuni camion. Ma c'erano moltissimi automezzi, per la maggior parte coperti di lamiere di protezione e muniti di torrette per le mitragliatrici. E
soldati dappertutto, armati di mitra, fucili, pistole. I bambini erano usciti dal campo sani e salvi; con Paul, si erano mantenuti davanti all'esercito in marcia. Ma la sera qualcosa era andato storto. Nell'accampamento c'erano stati lampi di bengala e spari. Solo Bucky e l'altro bambino erano tornati. «Abbiamo cercato di svignarcela in auto» disse Paul, continuando a battere i denti. «Siamo arrivati a una decina di chilometri da qui. A un tratto, i boschi pullulavano di soldati. Forse ci avevano dato la caccia per tutto il giorno, non so. Una mitragliatrice ha aperto il fuoco. I proiettili hanno colpito il motore. Ho cercato di togliermi dalla strada, ma l'auto era finita. Siamo scappati a piedi. Non so per quanto ci hanno inseguiti.» Fissò il fuoco, per un momento mosse le labbra senza emettere suono. «Ci hanno inseguiti» disse infine. «Non so chi siano, ma conoscono il loro mestiere.» Batté con forza le palpebre, guardò Sister. «Hanno un mucchio di armi da fuoco. E razzi, forse anche granate. Un mucchio di fucili. Digli di andarci piano, con il bambino. È stanco. Gli ho detto che l'avrei riportato indietro.» «L'hai riportato» disse Sister, in tono gentile. «Ora voglio che tu vada a casa di Hugh a riposare.» Con un gesto chiese aiuto ad Anna. «Domani avremo bisogno di te.» «Non l'hanno presa» disse Paul. «Non gli ho dato la soddisfazione di uccidermi e di prenderla.» «Prendere cosa?» Con un sorriso esangue, Paul toccò la Magnum infilata nella cintola. «La mia vecchia amica.» «Vai, ora. Riposa un poco, d'accordo?» Paul annuì e si allontanò barcollando, aiutato da Anna. All'improvviso Sister si arrampicò sulla scaletta; con il sangue agli occhi, gridò verso nord: «Venite avanti, bastardi assassini! Venite avanti! Abbiamo visto cosa sapete fare ai bambini! Venite, vigliacchi figli di puttana!» La voce le mancò. Rimase in cima al piolo, a mandare vapore dalla bocca e dalle narici, con il corpo scosso come un parafulmine nella tempesta. Il vento gelido la colpì in viso e lei credette di sentire l'acre odore di cenere. Non aveva senso stare lassù a schiamazzare come una... come una vecchia accattona di New York, si disse; no, c'era ancora un mucchio di lavoro da fare, perché i soldati sarebbero giunti molto presto. Scese la scaletta. Swan le toccò il braccio. «Sto bene» disse Sister, con
voce rauca; tutt'e due avevano capito che la Morte era per strada, sogghignava come un teschio e abbatteva ogni cosa sul suo cammino. Ritornarono al loro posto e ripresero a lavorare al completamento del muro. 82 Spuntò il giorno. La luce fosca rivelò il muro completato, rivestito di otto centimetri di ghiaccio e munito qua e là di paletti acuminati, che racchiudeva Mary's Rest e il campo di granturco. A parte l'occasionale latrato di un cane, il villaggio era silenzioso; non c'erano movimenti, nella distesa di terreno punteggiata di ceppi che separava il muro dal limitare della foresta, quaranta metri più avanti. Un paio d'ore dopo l'alba echeggiò un singolo sparo; una sentinella, sulla sezione orientale del muro, cadde dalla scaletta, con un foro di proiettile in fronte. I difensori di Mary's Rest attesero il primo attacco... che però non venne. Una donna di vedetta sulla sezione occidentale riferì la presenza di movimento nei boschi, ma non poteva determinare il numero di soldati, che scivolarono di nuovo fra gli alberi, senza sparatorie. Un'ora dopo questo episodio, un'altra vedetta sul lato orientale riferì che si udiva in lontananza il rumore di veicoli pesanti in avvicinamento nella foresta. «Arriva un camion!» avvertì una sentinella della sezione nord. Paul Thorson si arrampicò sulla scaletta a controllare. Udì il suono registrato, stridulo e bizzarramente allegro, di uno strumento musicale simile all'organo. Una sorta di camion Good Humor corazzato, con due altoparlanti montati sulla cabina, il parabrezza blindato e una torretta di lamiera, rombò lentamente lungo la strada, arrivando da nord. La musica tacque; il camion continuò l'avanzata, mentre dagli altoparlanti una voce tuonava: «Cittadini di Mary's Rest! Ascoltate la legge dell'Esercito d'Eccellenza!» La voce echeggiò sopra il villaggio, sopra il campo in cui cresceva il granturco e i nuovi meli mettevano radici, sopra le fondamenta della ex chiesa, sopra i falò, sopra la baracca in cui Josh dormiva. «Non vogliamo uccidervi! Chi vuole unirsi a noi è il benvenuto! Scavalcate il muro e unitevi all'Esercito d'Eccellenza! Portate con voi i familiari, le armi e il cibo! Non vogliamo uccidere nessuno!»
«Giusto!» mormorò Paul, sottovoce. Aveva armato il cane della Magnum e si teneva pronto. «Vogliamo il vostro raccolto» ordinò la voce amplificata, mentre il camion rombava più vicino al muro nord. «Vogliamo il vostro cibo e le vostre scorte d'acqua. E vogliamo la ragazza. Portateci la ragazza di nome Swan e vi lasceremo in pace. Portatecela e vi accoglieremo a braccia ape... oh, merda!» In quell'istante le ruote anteriori del veicolo sprofondarono in una fossa mimetizzata e, mentre quelle posteriori giravano a mezz'aria, il camion si rovesciò sul fianco e si abbatté nella fossa. Le altre sentinelle mandarono un grido di vittoria. Un minuto dopo, due uomini si arrampicarono fuori della fossa e si misero a correre nella direzione da cui erano venuti. Uno dei due zoppicava e arrancava dietro l'altro; Paul gli puntò la Magnum al centro della spina dorsale. Voleva premere il grilletto. Avrebbe dovuto uccidere quel bastardo, visto che ne aveva l'opportunità. Ma non sparò e guardò i due scomparire nei boschi. Una mitragliatrice crepitò sulla destra. I proiettili zigzagarono sul muro, penetrarono nel ghiaccio, si conficcarono nei tronchi e nella terra pressata. Paul abbassò la testa, udì le grida provenienti dalla sezione est, il rumore di altri spari: il primo attacco era iniziato. Rischiò un'occhiata: una quarantina di soldati prese posizione al limitare dei boschi e aprì subito il fuoco, ma i proiettili non potevano attraversare il muro. Paul si tenne basso e non rispose al fuoco, aspettando che avanzassero allo scoperto. Sul lato orientale di Mary's Rest, un'ondata di duecento soldati uscì dai boschi. La fanteria dell'EDE mandò grida di guerra, si lanciò all'attacco... e cominciò a cadere nella ragnatela di fosse mimetizzate, dove parecchi soldati si ruppero la gamba o la caviglia. Le sentinelle, tutte armate di fucile, scelsero a caso il bersaglio. Due di esse furono colpite, ma subito altre presero il loro posto. I soldati dell'EDE ruppero la formazione, mentre cadevano da tutte le parti; girarono la schiena, corsero a ritirarsi al riparo dei boschi e precipitarono in altre fosse nascoste. I feriti furono calpestati dagli scarponi dei compagni. Nello stesso tempo, più di cinquecento soldati balzarono fuori dai boschi, sul lato ovest di Mary's Rest, insieme con decine di auto e di camion corazzati e due bulldozer. Si lanciarono alla carica e le fosse si spalancarono sotto i loro piedi. Un bulldozer si capovolse, l'auto seguente lo urtò ed
esplose in una palla di fuoco. Altri veicoli rimasero impigliati nei ceppi e non riuscirono né a proseguire, né a ritirarsi. Decine di soldati caddero nelle fosse, ferendosi gravemente. Le vedette sparavano non appena inquadravano un bersaglio. I soldati dell'EDE caddero morti sulla neve. Ma la maggior parte continuò l'avanzata e assalì la sezione ovest del muro; e dietro veniva una seconda ondata di duecento fanti. Proiettili di mitragliatrice, di fucile, di pistola, scheggiarono il muro, ma non riuscivano ad attraversarlo. «Salite! Fuoco!» gridò Bud Royce. Una fila di uomini e di donne salì sul terrapieno alto sessanta centimetri che correva lungo la base del muro, puntò i fucili e aprì il fuoco. Anna McClay corse lungo il muro gridando: «Su! Mandateli all'inferno!» Un'esplosione di fucileria eruttò dal muro ovest. La prima ondata di soldati dell'EDE vacillò. La seconda ondata andò a sbattere contro la prima e i veicoli travolsero gli uomini che si sparpagliavano. Nelle auto e nelle jeep corazzate, gli ufficiali gridavano ordini, ma i soldati erano in preda al panico. Fuggirono verso i boschi. Nella sua jeep, il capitano Carr si alzò per spingerli di nuovo all'attacco, ma un proiettile gli trapassò la gola e lo sbatté a terra. Nel giro di alcuni minuti l'attacco finì e i soldati si ritirarono nei boschi. Un grido di vittoria si alzò dai difensori del muro ovest, ma una figura a cavallo urlò: «No! Smettetela! Smettetela!» Le lacrime scorrevano lungo le guance di Swan; la fucileria le echeggiava ancora nel cervello. «Smettetela!» gridò, mentre Mulo s'impennava e raspava l'aria. Si diresse verso Sister, ferma lì vicino, con in pugno il fucile a pompa. «Falli smettere! Hanno appena ucciso altri esseri umani! Non possono esserne felici!» «Non sono felici perché hanno ucciso» disse Sister. «Sono felici perché non sono stati uccisi.» Indicò un cadavere a tre metri da lei, colpito in pieno viso. Un altro già gli toglieva pistola e proiettili. «Ce ne saranno altri. Se non sopporti la vista, fai meglio a chiuderti in casa.» Swan si guardò intorno. Una donna, scompostamente distesa per terra, gemeva mentre un uomo e un'altra donna le fasciavano il polso fracassato, utilizzando strisce strappate dalla camicia. Poco lontano, un uomo dai capelli neri era rannicchiato per terra, moribondo; tossiva sangue, mentre altri cercavano di confortarlo. Swan trasalì d'orrore. Sister ricaricava con calma il fucile. «Vattene, è meglio» suggerì di nuo-
vo. Swan era straziata; avrebbe dovuto stare vicino alla gente che combatteva per proteggerla, ma non sopportava di assistere alla morte. Il frastuono della fucileria era mille volte peggio di tutti i suoni di dolore. Ma prima che potesse decidere, udì un rombo cupo, al di là del muro. Qualcuno gridò: «Gesummaria! guardate che roba!» Sister salì di corsa sul camminamento di terra battuta. In quel momento, a una ventina di metri sulla sinistra, dai boschi sbucava un carro armato. I larghi cingoli schiacciavano morti e feriti senza fare differenza. Il cannoncino era puntato dritto contro il muro. E dal carro armato penzolavano, come grotteschi ornamenti, ossa umane legate con fil di ferro: gambe, braccia, casse toraciclle, bacini, vertebre e teschi, alcuni ancora con lo scalpo. Il veicolo si fermò al limitare dei boschi; il rombo del motore in folle parve il ringhio di una belva. Il portello si spalancò. Ne uscì una mano che sventolava un fazzoletto bianco. «Non sparate!» disse Sister agli altri. «Sentiamo prima cosa vogliono.» Spuntò una testa protetta dall'elmetto; il viso era tutto fasciato; gli occhi, nascosti da un paio d'occhialoni. «Chi comanda lì?» gridò Roland Croninger, rivolto alla fila di teste che sporgevano, come prive di corpo, dalla sommità del maledetto muro. Alcuni guardarono Sister; lei non voleva la responsabilità, ma pensò che le toccasse prendersela. «Io» rispose. «Cosa vuoi?» «Pace» rispose Roland. Gettò un'occhiata ai cadaveri per terra. «La tua gente ha fatto un bel lavoro!» Sogghignò, anche se nell'intimo urlava di rabbia. Friend non aveva parlato di trincee e di muro difensivo! Come avevano fatto, i maledetti zappaterra, a erigere una simile barricata? «Avete un ottimo muro!» disse. «Sembra assai robusto! Lo è davvero?» «Quanto basta.» «Sul serio? Mi chiedo quanti colpi occorreranno per aprire una breccia e mandarti all'inferno, signora mia.» «Ah, non lo so!» Sister manteneva sul viso un sorriso rigido, ma sudava a profusione e sapeva che non avevano possibilità, contro quella macchina mostruosa. «Quanto tempo avete?» «Un mucchio! Tutto il tempo del mondo!» Roland batté qualche colpetto sul cannone. Peccato che non avessero granate... ma anche se le avessero avute, nessuno sapeva come caricare e sparare. Il secondo carro armato si era bloccato un paio d'ore dopo Lincoln; e quello lì doveva essere guidato
da un caporale che aveva fatto il camionista su e giù per le Montagne Rocciose, ma perfino lui non sempre riusciva a tenere sotto controllo quel grosso bastardo. Però a Roland piaceva viaggiare sul carro armato, perché dentro c'era odore di metallo surriscaldato e di sudore, e lui non riusciva a immaginare miglior destriero per un Cavaliere del Re. «Ehi, signora!» chiamò. «Perché non ci date quel che vogliamo, così nessun altro si farà male? D'accordo?» «Mi sembra che siete stati voi a farvi male!» «Oh, questa scaramuccia? Signora, non abbiamo ancora iniziato! Era solo un'esercitazione! Vedi, ora sappiamo dove sono le vostre trincee. Dietro di me c'è un migliaio di soldati che ha davvero voglia d'incontrare la tua brava gente. Ma forse mi sbaglio: forse sono sul fianco, o magari fanno il giro per attaccare da sud. Potrebbero essere dovunque.» Sister si sentì male. Impossibile combattere contro un carro armato! Si accorse che Swan era accanto a lei e scrutava al di là del muro. «Perché non ve ne andate per i fatti vostri e non ci lasciate in pace?» «I fatti nostri sono quel che siamo venuti a prendere!» ribatté Roland. «Cibo, acqua e la ragazza! Le vostre armi e le munizioni. E vogliamo tutto subito! Sono stato chiaro?» «Chiarissimo» rispose Sister. Alzò il fucile e premette il grilletto. La distanza era troppa, per un colpo preciso, ma i pallini rimbalzarono contro l'elmetto, mentre Roland ritirava la testa. Il fazzoletto bianco era tutto bucherellato; cinque o sei pallini erano penetrati nella mano di Roland, che imprecò, tremante di rabbia, e si lasciò cadere nelle viscere del carro armato. Sister si sentì rizzare i capelli sulla nuca, nell'attesa del primo colpo di cannone... che non venne. Il motore del carro armato salì di giri e il veicolo arretrò sopra i cadaveri e i ceppi, ritirandosi nei boschi. I nervi di Sister smisero di vibrare solo quando il veicolo scomparve fra i cespugli; allora lei capì che qualcosa non andava nel carro armato: come mai non aveva aperto una breccia nel muro? Dai boschi a ovest, un bengala rosso salì nel cielo ed esplose sopra il campo di granturco. «Ecco che tornano!» gridò Sister, in tono sinistro. Scoccò un'occhiata a Swan. «Fila via, prima che cominci.» Swan guardò gli altri pronti a combattere e capì dov'era il suo posto. «Resto qui» disse. Un altro bengala si alzò dai boschi a est, simile a una chiazza di sangue
contro il grigio del cielo. Le fucilate spazzarono il muro ovest; Sister tirò Swan al coperto. I proiettili si conficcarono nei tronchi, schegge di ghiaccio schizzarono in aria. Venti secondi dopo l'inizio del fuoco di sbarramento, il soldati dell'EDE ammassati nei boschi sul lato est di Mary's Rest iniziarono a sparare, senza provocare danni ma costringendo i difensori a tenersi bassi. Gli spari continuarono e ben presto i proiettili scavarono fessure nel muro: alcuni si persero nel terreno, altri trovarono il bersaglio. Lungo il perimetro sud, altre auto e camion corazzati emersero dai boschi, insieme con una sessantina di soldati. L'Esercito d'Eccellenza assalì il muro. Le trincee mimetizzate bloccarono parecchi veicoli ed eliminarono una ventina o più di soldati; ma i rimanenti continuarono ad avanzare. Due camion, passati indenni nel labirinto di buche e di ceppi, si scagliarono contro la barricata. L'intera sezione meridionale del muro tremò, ma resistette. Intanto i soldati avevano attraversato il tratto scoperto; arrivati alla base del muro, cercarono di arrampicarsi, ma non trovarono appigli nello strato di ghiaccio; mentre i soldati scivolavano a terra, i difensori spararono a bruciapelo. Chi non aveva armi da fuoco usava asce, picconi, badili. Il signor Polowsky, armato di pistola, salì sulla scaletta al posto di una sentinella caduta, sparando con la rapidità con cui riusciva a mirare. «Respingeteli!» gridò. Puntò un soldato nemico, ma non ebbe il tempo di premere il grilletto: un proiettile di fucile lo colpì in pieno petto e un secondo alla tempia. Polowsky cadde dalla scaletta e subito una donna gli tolse di mano la pistola. «Indietro! Indietro!» gridò il tenente Thatcher, mentre i proiettili gli sibilavano intorno alla testa e da ogni parte i suoi soldati cadevano feriti e uccisi. Thatcher non attese che ubbidissero; si girò e si mise a correre, ma al terzo passo un proiettile .38 lo colpì alle reni e lo scagliò in una buca, sopra altri quattro uomini. La carica era stata respinta. I soldati si ritirarono e si lasciarono alle spalle i caduti. «Cessate il fuoco!» gridò Sister. Gli spari cessarono. Qualche minuto dopo, smisero anche sul muro est. «Ho finito i colpi!» disse una donna che impugnava un fucile; lungo la linea, altri erano nella stessa condizione. Terminati i proiettili, non ne avrebbe trovati altri. Ci tendono una trappola, pensò Sister; ci inducono a sprecare munizioni e quando le nostre armi saranno inutili, assaliranno il muro in un'ondata di morte e distruzione. Lei stessa era rimasta con sei
cartucce in tutto. Riusciranno a passare, capì; prima o poi passeranno il muro. Negli occhi scuri di Swan lesse che la ragazza era giunta alla stessa conclusione. «Vogliono me» disse Swan. Il vento le agitò i capelli intorno al viso pallido, come se fossero lingue di fiamma. «Nessun altro. Solo me.» Posò lo sguardo su una scaletta appoggiata al muro. Sister tese di scatto il braccio, prese Swan per il mento, la costrinse a girare la testa. «Toglitelo dal cervello!» disse in tono brusco. «Sì, vogliono te! Lui ti vuole! Ma non pensare nemmeno per un istante che sarebbe finita, se tu andassi da loro!» «Ma... se andassi laggiù, forse potrei...» «Un bel niente!» la interruppe Sister. «Se oltrepassi quel muro, diresti solo a tutti noi che non c'è più niente per cui combattere.» «Non voglio...» Swan scosse la testa, nauseata dalla vista, dal rumore, dall'odore della guerra. «Non voglio che altri muoiano.» «Non puoi farci niente. Altri moriranno. Forse anch'io sarò morta, prima che finisca il giorno. Ma per alcune cose vale la pena combattere e morire. Meglio che l'impari qui e subito, se dovrai guidare la gente.» «Guidare la gente? Cosa vuoi dire?» «Davvero non lo sai?» Sister lasciò il mento di Swan. «Sei una leader nata! Ce l'hai scritto negli occhi, nella voce, nel portamento... in ogni tratto. La gente ti ascolta, crede in quel che dici, vuole seguirti! Se tu dicessi a tutti di posare le armi in questo istante, lo farebbero. Perché sanno che sei una persona straordinaria, Swan... che tu lo creda o no. Sei una leader e farai meglio a imparare a comportarti di conseguenza.» «Io? Una leader? No, sono solo... sono solo una ragazza.» «Sei nata per guidare la gente e per insegnare, anche!» affermò Sister. «È questo a dirlo!» Toccò il contorno del cerchio di vetro nella borsa di cuoio. «Josh lo sa. E anche Robin. E anche lui lo sa, proprio come me.» Con un gesto indicò il territorio al di là del muro, dove era certa che l'uomo con l'occhio scarlatto si trovasse. «Ormai è tempo che te ne convinca anche tu.» Swan era perplessa e disorientata. La sua infanzia nel Kansas, prima del 17 luglio, sembrava la vita di un'altra persona di cent'anni fa. «Insegnare cosa?» domandò. «Cosa può essere il futuro» rispose Sister. Swan pensò a quel che aveva scorto nel cerchio di vetro: le foreste e i
prati verdeggianti, i campi dorati, gli odorosi frutteti di un mondo nuovo. «Ora monta a cavallo» disse Sister «e fai il giro del muro. Stai dritta e orgogliosa, lascia che tutti ti vedano. Cavalca come una principessa» aggiunse, raddrizzandosi anche lei «e lascia che ciascuno sappia che c'è ancora qualcosa per cui valga la pena morire, in questo mondo maledetto.» Swan guardò di nuovo la scaletta. Sister aveva ragione. Volevano lei, certo, ma non si sarebbero fermati, se l'avessero avuta; avrebbero continuato a uccidere, come cani rabbiosi, perché non capivano altro. Si avvicinò a Mulo, afferrò le redini di corda e montò in groppa. Il cavallo scalpitò un poco, ancora innervosito dal frastuono, ma si calmò al tocco di Swan. Con un sussurro la ragazza lo spinse a muoversi e Mulo incominciò a percorrere al passo il perimetro interno del muro. Sister guardò Swan allontanarsi, con i capelli che le sventolavano alle spalle come una bandiera di fuoco; anche gli altri si giravano a guardarla, raddrizzavano un poco la schiena, controllavano le armi e le munizioni, mentre Swan passava. C'era una fermezza nuova, nel loro viso... sarebbero morti tutti, per Swan, e per il loro villaggio, se si giungeva a questo punto. Sister si augurò che non accadesse, ma era sicura che i soldati sarebbero tornati più torti che mai... e in quel momento almeno non c'erano vie d'uscita. Caricò il fucile e risalì sul terrapieno, in attesa dell'attacco. 83 Il buio portò il freddo che gelava le ossa. I falò divorarono legno tolto alle pareti e al tetto delle baracche; i difensori di Mary's Rest si scaldarono, mangiarono, riposarono a turni di un'ora, prima di tornare al ritiro. Sister aveva ancora quattro cartucce. Il soldato da lei ucciso giaceva a tre metri dal muro, con il sangue congelato e scuro intorno a quello che era stato il suo torace. Lungo la sezione nord, Paul era rimasto con dodici proiettili. Nel corso d'una breve scaramuccia poco prima del buio, i due che combattevano ai suoi lati erano rimasti uccisi e lui era rimasto ferito alla fronte e alla guancia destra dalle schegge di legno prodotte da un proiettile di rimbalzo, ma per il resto stava bene. Lungo la sezione est di Mary's Rest, Robin aveva ancora sei colpi per la carabina. A guardia di quel tratto di muro, insieme con lui e una quarantina d'altri, c'era anche Anna McClay, che aveva terminato da un pezzo le munizioni del fucile e ora impugnava una piccola .22 tolta a un morto.
Gli attacchi si erano susseguiti per tutto il giorno, con intervalli di una o due ore: prima martellavano un lato della barricata, poi inondavano di proiettili un altro lato. Il muro si manteneva ancora robusto e deviava gran parte dei colpi, ma i proiettili scavavano fessure fra i tronchi e di tanto in tanto colpivano qualcuno. Bud Royce ci aveva rimesso un ginocchio, ma anche zoppicando, livido di dolore, continuava a presidiare il lato sud. I difensori si erano passati parola di risparmiare i colpi, ma le munizioni diminuivano rapidamente e pareva che il nemico ne avesse da buttare. Tutti sapevano che prima o poi ci sarebbe stato un attacco in massa... ma la domanda era: da quale parte sarebbero venuti? Anche Swan se ne rendeva conto, mentre attraversava in groppa a Mulo il campo di granturco. Gli steli carichi di pannocchie ondeggiavano nel vento che sibilava fra le piante. Nello spiazzo attorno al falò più grosso, una sessantina di persone si riposava e mangiava minestra calda versata da fumanti secchi di legno. Swan andava a dare un'occhiata al gran numero di feriti ricoverati nelle baracche perché il dottor Ryan li aiutasse; mentre passava davanti al falò, il silenzio scese sulla gente raccolta intorno al fuoco. Swan non guardò nessuno. Pur sapendo che Sister aveva ragione, si sentiva come se avesse apposto la firma al loro decreto di morte. Per causa sua, molte persone erano state uccise, ferite, storpiate: accollarsi un fardello del genere era troppo, anche per un leader. Non li guardò, perché gran parte di loro sarebbe morta, prima che spuntasse il giorno. Un uomo le gridò: «Non preoccuparti! Non lasceremo entrare quei bastardi!» «Quando finisco i proiettili» disse un altro «userò il coltello! E se si spezzerà, mi resteranno sempre i denti!» «Li fermeremo!» disse una donna. «Li cacceremo via!» Ci furono altre grida d'incoraggiamento; quando alla fine Swan guardò verso il falò, vide che la gente la fissava, alcuni stagliati contro le fiamme, altri in piena luce, con occhi scintillanti, faccia decisa e piena di speranza. «Non abbiamo paura di morire!» disse un'altra donna. «Arrendermi sì che mi spaventa; ma, perdio, non sono una che si arrende!» Swan fermò Mulo e rimase a guardarli, con occhi pieni di lacrime. Il nero magrissimo che aveva mostrato tanta veemenza alla riunione, si avvicinò a Swan. Aveva il braccio sinistro avvolto in uno straccio insanguinato, ma negli occhi una luce fiera e coraggiosa. «Non piangere ora!» la rimproverò a bassa voce, quando fu abbastanza vicino. «Non è da te, pian-
gere! Se non sei forte tu, chi vuoi che lo sia?» Con il dorso della mano Swan si asciugò gli occhi. «Grazie» gli disse. «Ah-ha! Grazie a te!» «Per cosa?» L'uomo sorrise malinconicamente. «Perché mi hai fatto udire ancora quella musica dolcissima» rispose, accennando al campo di granturco. Swan capì a quale musica si riferisse, perché anche lei la udiva: il fruscio del vento fra le file di steli, come corde d'arpa sfiorate dalle dita. «Sono nato vicino a un campo di granturco» disse lui. «Udivo questa musica, di sera, prima di prendere sonno, e al mattino, appena sveglio. Credevo che non l'avrei udita mai più, dopo che quella gente ha rovinato il mondo.» Fissò Swan. «Ora non ho paura di morire. Ah-ha! Vedi, ho sempre pensato che è meglio morire in piedi che vivere in ginocchio. Sono pronto... e l'ho scelto io. Perciò, non preoccuparti di niente. Ah-ha!» Chiuse gli occhi per qualche secondo e il suo corpo fragile parve ondeggiare al ritmo del granturco. Poi l'uomo riaprì gli occhi e disse: «Stai attenta, adesso, capito?» Ritornò al fuoco e tese le mani al calore della fiamma. Swan spinse avanti Mulo. Oltre ai feriti, Swan voleva dare un'occhiata a Josh; l'ultima volta che l'aveva visto, sul far del giorno, il gigante era ancora in stato comatoso. Aveva quasi attraversato il campo, quando vividi lampi di luce guizzarono sopra il muro orientale. Alle fiammate si mescolarono gli spari, con un martellare simile a quello d'una macchina per cucire. Robin era da quel lato del muro. Swan incitò Mulo e il cavallo si lanciò al galoppo. Dall'altra parte, la fanteria e i mezzi corazzati dell'Esercito d'Eccellenza sbucavano dai boschi. «Aspettate a sparare!» aveva ammonito Sister; ma la gente intorno a lei aveva già aperto il fuoco e sprecava munizioni. Poi qualcosa colpì il muro, a meno di quindici metri: le fiamme guizzarono e il fuoco si propagò sulla superficie di ghiaccio. Un altro oggetto si schiantò qualche metro più vicino. Sister udì uno spicinio di vetro e sentì odore di benzina, un attimo prima d'essere abbagliata da fiamme arancione. Bombe, pensò; scagliano bombe contro il muro! La gente urlava e sparava, in una confusione da manicomio. Bottiglie piene di benzina, con uno stoppino ardente fatto di stracci, volavano sopra il muro ed esplodevano fra i difensori. Una bottiglia scoppiò quasi ai piedi di Sister, che d'istinto si gettò a terra, mentre una cortina di fiamma schizzava da tutte le parti. Sul lato orientale, decine di Molotov sorvolavano il muro. Un uomo ac-
canto a Robin urlò, colpito in pieno, coperto di fiamme. Un altro lo gettò a terra e cercò di spegnere il fuoco usando neve e terriccio. Poi, nel gorgo di fiamme e d'esplosioni, proiettili di mitragliatrice, di pistola 'e di fucile colpirono il muro, con tanta forza da far sobbalzare i tronchi, e le pallottole rimbalzarono attraverso le fenditure. «Picchiamo sodo!» tuonò Anna McClay. La luce arancione mostrò centinaia di soldati fra il muro e i boschi: avanzavano strisciando, si riparavano nelle trincee e dietro i rottami dei veicoli, sparavano o lanciavano le loro bombe artigianali. Mentre altri intorno a lei arretravano per allontanarsi dalle fiamme, Anna gridò: «Rimanete al vostro posto! Non fuggite!» Alla sua sinistra, una donna barcollò e cadde; mentre Anna si girava a recuperare il fucile, un proiettile di carabina sibilò in una fenditura e la colpì al fianco, piegandola sulle ginocchia. Anna sentì in bocca il sapore del sangue e capì che questa volta la sua ora era suonata; ma si rialzò, con un fucile per mano, e si precipitò di nuovo alla difesa del muro. La tempesta di bombe e di pallottole crebbe d'intensità. Una sezione del muro era in fiamme, il legno bagnato scoppiettava e fumava. Mentre le bombe esplodevano e schegge di vetro schizzavano da tutte le parti, Robin mantenne la posizione e continuò a sparare. Colpì due nemici, poi una bomba esplose proprio di fronte a lui, dall'altra parte del muro. Il calore e le schegge lo costrinsero ad arretrare. Inciampò in un cadavere. Sul viso gli colava il sangue da un taglio all'attaccatura dei capelli, la pelle sembrava ustionata. Robin si tolse il sangue dagli occhi; quel che vide gli mozzò il fiato per la paura. Un artiglio di ferro, attaccato a una fune robusta, volò al di qua del muro. La fune si tese e i rebbi del rozzo rampino d'abbordaggio si conficcarono fra i tronchi. Un alto rampino si conficcò accanto al primo; un terzo non trovò appiglio e fu rapidamente ritirato per essere lanciato di nuovo. In rapida successione, un quarto e un quinto fecero presa nel muro e i soldati cominciarono a tirare le funi. Robin capì subito che l'intero tratto di muro, già indebolito dai proiettili e dalle fiamme, stava per crollare. Altri grappini volavano in aria e si piantavano solidamente fra i tronchi; sotto la tensione delle funi, il muro scricchiolò come una gabbia toracica squarciata. Robin si rialzò, corse al muro, afferrò un grappino e cercò di staccarlo. Qualche metro più in là, un uomo robusto, dalla barba grigia, menava colpi d'ascia contro una fune; accanto a lui, una donna esile segava con un coltello da macellaio un'altra corda. Tuttavia le bombe Molotov continuavano
a esplodere e altri grappini facevano presa. Alla destra di Robin, Anna McClay aveva esaurito le munizioni di entrambi i fucili e ora guardava grappini e funi sorvolare il muro. Si girò a cercare un'altra arma, incurante del proiettile al fianco e di un secondo alla spalla destra. Rivoltò un cadavere e trovò una pistola, ma scarica; poi vide una mannaia abbandonata e se ne servì per attaccare le funi. Ne tagliò una. Era quasi riuscita a tagliarne un'altra, quando un metro di muro fu tirato giù, in uno schianto di tronchi e di fiamme. Cinque o sei soldati si precipitarono contro di lei. «No!» urlò Anna. Lanciò la mannaia contro di loro. Una raffica di mitragliatrice mandò la donna a roteare in una macabra piroetta. Mentre cadeva a terra, Anna ebbe come ultimo pensiero il Topo Pazzo, un baraccone del luna park dove il vagoncino sferragliante percorreva una rotaia curva e decollava nel cielo notturno, su, su, con le luci fiammeggianti degli altri baracconi che bruciavano sulla terra sotto di lei e il vento che le sibilava nelle orecchie. Era morta, prima di toccare il suolo. Qualcuno gridò: «Hanno sfondato!» Di fronte a Robin, il muro crollò con un gemito quasi umano e il giovane si trovò allo scoperto in uno spazio sufficiente al passaggio di un autotreno. Un'ondata di soldati puntava dritto su di lui; Robin balzò di lato un istante prima che i proiettili squarciasserro l'aria. Sparò al primo soldato che superò il varco. Gli altri si ritrassero o caddero sotto i suoi colpi... e poi il fucile fu scarico e lui non riuscì più a scorgere i soldati, a causa del fumo che turbinava dai tronchi in fiamme. Udì altri scricchiolii e altri gemiti, mentre altre sezioni di muro venivano abbattute; le fiamme s'innalzavano a ogni esplosione di Molotov. Delle sagome correvano intorno a lui, alcune sparavano e cadevano. «Ammazza i figli di puttana!» gridò un uomo alla sua sinistra; poi dalla confusione emerse una figura in uniforme grigioverde. Robin piantò i piedi per terra, girò il fucile per usarlo come bastone e, quando il soldato gli passò davanti, lo colpì sul cranio. L'uomo cadde e Robin gettò via il fucile per prendere la .45 automatica dell'altro. Un proiettile gli sibilò sopra la testa. Sei metri più in là, una Molotov esplose; una donna con i capelli in fiamme, il viso ridotto a una maschera di sangue, barcollò fuori del fumo, cadde prima di raggiungere Robin. Questi mirò alle sagome che superavano la breccia nel muro e svuotò il caricatore della .45. Proiettili di mitragliatrice ararono il terreno a qualche passo da lui. Robin capì che lì non poteva fare altro; doveva allontanarsi, trovare un
altro luogo difendibile; il muro sul lato orientale di Mary's Rest era ormai distrutto e i soldati si riversavano dai varchi. Robin corse verso il villaggio. Decine di altri correvano come lui nel campo di battaglia disseminato di morti e di feriti. Gruppetti di uomini si erano fermati a opporre l'ultima, disperata resistenza, ma venivano subito abbattuti o dispersi. Due auto corazzate sbucarono dal fumo, con le torrette che'mandavano lampi. «Robin! Robin!» gridava qualcuno, al di sopra del caos. La voce era quella di Swan: la ragazza doveva essere lì intorno. «Swan!» gridò. «Da questa parte!» Swan udì la voce di Robin, deviò a sinistra, spinse Mulo nella direzione da cui pensava provenisse la voce. Il fumo le punse gli occhi, le rese impossibile distinguere la faccia delle persone finché non erano a pochi passi. Le esplosioni continuavano proprio davanti a lei e Swan capì che i soldati avevano sfondato il muro orientale. I difensori, feriti e sanguinanti, si fermavano ugualmente a sparare fino all'ultimo proiettile. Altri ancora, armati solo di asce, coltelli, vanghe, si lanciavano a cercare il corpo a corpo. Una Molotov esplose nei pressi, un uomo urlò. Mulo s'impennò sulle zampe posteriori e raspò l'aria. Quando ricadde a quattro zampe, continuò a sbandare, come se metà volesse andare da una parte e metà dall'altra. «Robin!» gridò Swan. «Dove sei?» «Sono qua!» Robin non la scorgeva ancora. Inciampò in un cadavere con il petto crivellato di proiettili e un'ascia in pugno; perdette un prezioso istante per impadronirsene. Quando si rialzò, si trovò faccia a faccia con un cavallo... ed era difficile dire chi fosse più sorpreso. Mulo nitrì e s'impennò di nuovo; cercò di darsi alla fuga, ma Swan lo tenne sotto controllo. Vide Robin con la faccia macchiata di sangue; gli tese la mano e gridò: «Monta! Svelto!» Robin le afferrò la mano e saltò in groppa dietro di lei. Swan spronò Mulo, lo girò verso il villaggio e lo lasciò correre. Uscirono dal fumo denso. Swan tirò all'improvviso le redini e Mulo ubbidì, piantando gli zoccoli nel terreno. Da quella posizione, Swan e Robin videro che il combattimento si era esteso a tutto Mary's Rest; le fiamme divampavano sul lato meridionale; da quello occidentale, i soldati si riversavano dal muro abbattuto, seguiti da auto e camion corazzati. Il rumore di fucileria, le grida e le urla venivano portati avanti e indietro dal vento... e in quell'attimo Swan capì che Mary's Rest era caduto. Doveva trovare Sister, e presto! Con il viso teso, i denti serrati di rabbia,
spronò Mulo. Il cavallo scattò al galoppo come un purosangue, testa bassa, orecchie tese all'indietro. Accompagnate da un tamburellare sordo, correnti d'aria calda parvero investirli. Mulo rabbrividì e sbuffò come se l'avessero preso a calci; poi le zampe gli cedettero e cadde, sbalzando Robin ma imprigionando sotto di sé la gamba sinistra di Swan. La ragazza rimase stordita e senza fiato, mentre Mulo cercava disperatamente d'alzarsi. Ma Robin aveva visto i fori di proiettile nel ventre del cavallo e capì che Mulo era spacciato. Un motore rombò. Robin vide arrivare una Chevy Nova, con il parabrezza corazzato e una torretta sul tetto. Si piegò accanto a Swan, cercò di liberarle la gamba, senza riuscirci. Mulo, con occhi folli di terrore, lottava ancora per alzarsi: a ogni ansito, schizzava dalle froge vapore e sangue. Dalla torretta della Chevy, una mitragliatrice aprì il fuoco e i proiettili si conficcarono nel terreno, pericolosamente vicini a Swan. Robin capì, con orribile certezza, di non avere la forza di liberarla. Il radiatore dell'auto corazzata sembrava una bocca ghignante piena di denti metallici. Robin strinse il manico della scure. Swan gli afferrò la mano. «Non lasciarmi» disse, intontita, senza rendersi conto che Mulo le moriva addosso. Robin aveva già deciso. Si liberò la mano e scattò contro l'auto corazzata. «Robin!» gridò Swan. Robin avanzò a zigzag, mentre la mitragliatrice riprendeva a sgranare colpi che lo sfiorarono e sollevarono schizzi di neve e di terriccio. La Chevy sterzò verso di lui allontanandosi da Swan, proprio come Robin si augurava. Muovi il culo, si disse, tuffandosi; rotolò e si rialzò per impedire al tiratore di prendere la mira. La Chevy aumentò velocità, ridusse la distanza. Robin scartò a destra e a sinistra, udì il canto della mitragliatrice, vide nell'aria la scia dei traccianti. Merda, si disse, quando un dolore lancinante gli attraversò la coscia sinistra. Era stato colpito, ma non in modo grave, gli parve; continuò a correre. L'auto corazzata lo seguì nel fumo. Lungo il perimetro nord, Paul Thorson e altri quaranta fra uomini e donne furono circondati. Paul aveva gli ultimi due colpi; quasi tutti gli altri avevano esaurito le munizioni già da un pezzo. Impugnando mazze, picconi e vanghe sfidarono i soldati a venire alla carica. Una jeep si arrestò dietro la barriera protettiva della fanteria dell'EDE; il colonnello Macklin si alzò, con il cappotto drappeggiato sulle spalle, e
guardò con occhi infossati nel viso da teschio il gruppo di difensori spinto contro il muro. «La ragazza è fra loro?» domandò all'uomo che occupava il sedile posteriore. Friend si alzò. Indossava l'uniforme dell'Esercito d'Eccellenza e portava un berretto grigio sui capelli sottili, castano scuro; questa volta la sua faccia era piuttosto brutta e comune, priva d'anima e di carattere. Gli insipidi occhi color nocciola scrutarono qua e là per qualche secondo. «No» disse infine, con voce atona. «Non è con loro.» Tornò a sedersi. «Uccideteli tutti» ordinò Macklin ai soldati. Poi disse all'autista di proseguire, mentre i soldati dell'Esercito d'Eccellenza riversavano sugli uomini e le donne presi in trappola una grandine di proiettili. Paul sparò un colpo, vide un soldato barcollare... e poi fu colpito allo stomaco e alla clavicola. Cadde bocconi, cercò di rialzarsi, sussultò quando fu colpito anche al fianco e al braccio. Si abbatté in avanti e giacque immobile. Trecento metri più in là, la Chevy Nova frugava nel fumo, sparando al minimo segno di movimento. Le gomme schiacciavano cadaveri, ma uno dei corpi distesi scompostamente al suolo ritrasse di colpo braccia e gambe, quando il veicolo passò proprio sopra di lui. Evitate le ruote, Robin si alzò a sedere e afferrò l'ascia tenuta nascosta sotto di sé. Si alzò in piedi, percorse tre passi e saltò sul paraurti posteriore della Nova. Avanzò fin sul tettuccio, alzò l'ascia e la calò con tutta la sua forza sulla torretta di lamiera. La torretta si accartocciò. Il mitragliere cercò di girare l'arma, ma con lo stivale Robin bloccò la canna e colpì ancora la torretta: l'ascia penetrò nella lamiera e trovò il cranio del soldato. Al grido d'agonia, il guidatore accelerò. Per lo scatto in avanti della Chevy, Robin fu gettato a terra; mentre si rialzava, vide il manico dell'ascia sporgere in aria: la lama era conficcata per cinque centimetri almeno nel cranio del mitragliere. Il guidatore si era fatto prendere dal panico: l'auto sbandò senza controllo, continuò la corsa, scomparve nel fumo. Mulo, moribondo, mandava vapore dalle froge e dai fori di proiettile nel ventre. Swan, un po' più lucida, capì che cos'era accaduto, ma non poteva fare niente. Mulo si dimenava ancora, come se cercasse d'alzarsi con la pura forza di volontà. Swan vide arrivare altri soldati e cercò di liberare la gamba, ma non ci riuscì. A un tratto una figura si piegò accanto a lei e infilò le braccia sotto il ventre di Mulo. I muscoli e i tendini si tesero, mentre alzavano il cavallo e ne sostenevano parte del peso alleviando la terribile pressione sulla gamba
di Swan. «Tirati via!» disse l'uomo, con voce roca per lo sforzo. «Presto!» Swan tirò la gamba e la spostò di qualche centimetro verso la libertà. Mulo cambiò posizione, come se usasse le ultime energie per aiutarla; con uno sforzo doloroso Swan tirò via la gamba. Serrò i denti per resistere al formicolio del sangue che riprendeva a circolare. L'uomo ritrasse le braccia. Le mani erano chiazzate di bianco e di marrone. Swan guardò in viso Josh. La pelle era tornata dell'intenso color marrone scuro. La corta barba era grigia, il casco di capelli quasi tutto bianco. Ma il naso, rotto tante volte e così deforme, era di nuovo dritto e robusto; e le vecchie cicatrici del football e del wrestling erano scomparse. Gli zigomi erano alti e pronunciati, come scolpiti in pietra nera; gli occhi, di una morbida tonalità di grigio, avevano la limpidezza d'un bambino. Swan pensò che, dopo Robin, Josh era l'uomo più bello che avesse mai visto. Josh notò i soldati in arrivo. Sentì una scarica di adrenalina: per cercare Swan aveva lasciato Glory e Aaron nella baracca; adesso doveva portarli tutti in salvo. Non sapeva dove fosse Sister, ma capiva benissimo che i soldati avevano sfondato il muro su tutti i lati di Mary's Rest e presto avrebbero invaso i vicoli e dato fuoco alle baracche. Prese in braccio Swan, mentre la spalla lussata e le costole rotte gli dolevano da morire. In quell'istante Mulo tremò e mandò uno sbuffo di vapore che si alzò al cielo come un'anima stanca finalmente libera... e Josh sapeva che nessun animale da soma meritava il riposo quanto Mulo. Non ci sarebbe stato mai cavallo altrettanto generoso e bello. Robin sbucò di corsa dal fumo. «Da questa parte!» gridò Josh. Robin corse verso di loro, zoppicando un poco e tenendosi la coscia sinistra. Ma i soldati li avevano visti e uno di loro iniziò a sparare con la pistola. Un proiettile arò il terriccio a un metro da Robin, un altro sibilò sopra la testa di Josh. «Forza!» gridò Josh, mettendosi a correre verso il villaggio, con Swan in braccio e i polmoni che ansimavano come mantici di fucina. A sinistra comparvero altri soldati. Uno gridò: «Alt!», ma Josh non si fermò. Girò la testa per assicurarsi che Robin lo seguisse: il giovanotto gli era alle calcagna, nonostante la ferita alla gamba. Avevano quasi raggiunto il dedalo di vicoli, quando quattro soldati sbu-
carono davanti a loro. Josh decise di travolgerli, ma due sollevarono il fucile. Josh si bloccò, scivolò nel fango, cercò una via d'uscita, come volpe braccata dai segugi. Robin girò di scatto a destra e si trovò davanti tre soldati, uno dei quali già puntava un M-16. Altri soldati si avvicinavano da sinistra. Josh capì che nel giro di un secondo il fuoco incrociato li avrebbe fatti a pezzi. Non c'era più scampo. Esisteva una sola possibilità di salvare Swan... e forse nemmeno quella. Josh non aveva scelta, né tempo per riflettere. «Non sparate!» gridò. E poi fu costretto a dirlo, per impedire che i soldati sparassero ugualmente: «Questa è Swan! La ragazza che cercate!» «Fermi dove siete!» ordinò un soldato, puntando il fucile alla testa di Josh. Gli altri formarono un cerchio intorno a Josh, Swan e Robin. Ci fu una breve discussione, poi due soldati si allontanarono in direzioni opposte, chiaramente per andare a cercare qualcun altro. Swan avrebbe voluto piangere, ma era decisa a non mostrare segni di debolezza, non davanti a quegli uomini. Si mantenne calma e serena come una statua di ghiaccio. «Andrà tutto bene» disse Josh sotto voce, ma le parole sembrarono vuote e stupide. Almeno, per il momento Swan era viva. «Vedrai. Ce la caveremo in qualche mo...» «Chiudi il becco, sporco nerol» gridò un soldato, puntando una .38 in faccia a Josh. Lui rivolse all'uomo il suo miglior sorriso. Il rumore di fucileria, di esplosioni, di urla, aleggiava ancora su Mary's Rest come il residuo d'un incubo. Siamo fottuti, pensò Robin, e non ci possiamo fare un bel niente. Solo su di lui erano puntati due fucili e quattro pistole. Diede un'occhiata verso il muro orientale in fiamme, poi verso ovest, al di là del campo di granturco, dove pareva che i mezzi corazzati si radunassero per accamparsi. Nel giro di cinque minuti uno dei due soldati tornò facendo da guida a un vecchio camioncino marrone dell'United Parcel Service. Josh ricevette l'ordine di mettere a terra Swan, ma la ragazza aveva ancora difficoltà a reggersi in piedi e fu costretta ad appoggiarsi a lui. I soldati la perquisirono accuratamente, senza la minima delicatezza. Soffermarono le mani sui seni in boccio. Josh vide il viso di Robin imporporarsi di rabbia e lo ammonì: «Resta calmo.» «Cos'è questa merda?» Un uomo reggeva la carta di tarocchi che Josh si era messo in tasca. «Solo una carta» rispose Josh. «Niente di speciale.»
«Giustissimo.» L'uomo la strappò in mille pezzi e lasciò cadere a terra l'Imperatrice. Il portello posteriore del camioncino dell'UPS si aprì. Josh, Robin e Swan furono spinti dentro, insieme con un'altra trentina di persone. Quando la porta fu chiusa a catenaccio, i prigionieri rimasero nel buio assoluto. «Portali nella stia!» ordinò al guidatore il sergente in comando. Il camioncino dell'UPS portò via il suo nuovo carico di pacchi. 84 Swan si turò le orecchie, ma continuava a udire i terribili suoni di dolore: la testa le sarebbe scoppiata, prima che smettessero. All'esterno della "stia" , un ampio cerchio di filo spinato in cui erano stati radunati i duecentosessantadue superstiti, i soldati distruggevano il campo di granturco, tagliando le piante o strappandole dal terreno, radici comprese. Poi le ammucchiavano, come cadaveri, sul cassone dei camion. Dentro il recinto non erano permessi falò e intorno al filo spinato le guardie erano pronte a sparare colpi d'avvertimento per dissuadere i prigionieri dal raggrupparsi. Parecchi feriti gelavano a morte. Josh trasalì nell'udire le risate e i canti dei soldati nel villaggio. Con occhi stanchi guardò in direzione delle baracche: un grosso falò bruciava in mezzo alla strada, vicino al pozzo. Attorno a Mary's Rest erano parcheggiate decine di camion, di auto corazzate, di camioncini e di roulotte; altri falò ardevano per mantenre al caldo i vincitori. I cadaveri, spogliati, venivano abbandonati in macabre cataste. I camion giravano a raccogliere indumenti e armi da fuoco. Chiunque fossero quei bastardi, erano maestri d'efficienza: non buttavano via niente, tranne la vita umana. Su Mary's Rest aleggiava un'aria da orgia maledetta, ma Josh si consolò pensando che Swan era ancora viva. Lì vicino, alla distanza minima concessa dalle guardie, c'erano anche Glory e Aaron. Glory era sconvolta al punto da non riuscire neppure a piangere. Aaron se ne stava rannicchiato per terra, con gli occhi sbarrati, il pollice in bocca. I soldati gli avevano strappato Crybaby e l'avevano gettata in un falò. Robin camminava lungo il recinto come una tigre in gabbia. C'era solo un passaggio per entrare e uscire: un cancello di filo spinato, frettolosamente costruito. In lontananza si udirono altri spari in rapida successione. Robin pensò che i bastardi avevano certo trovato qualcuno anco-
ra vivo. Contò nel recinto solo sei dei suoi piccoli banditi, due dei quali feriti in modo grave. Il dottor Ryan, sopravvissuto all'attacco contro l'ospedale di fortuna, gli aveva già detto che sarebbero morti. Bucky si era salvato, ma se ne stava imbronciato e non parlava. Non c'era traccia di Sister. E questo procurava davvero a Robin un nodo allo stomaco. Si fermò, fissò una guardia al di là del filo spinato. L'uomo armò la pistola, lo prese di mira e disse: «Muoviti, pezzo di merda.» Robin sogghignò, sputò per terra e si girò. Si sentì accapponare lo scroto, aspettandosi una pallottola nella schiena. Aveva visto prigionieri colpiti a morte per nessun motivo evidente tranne il divertimento delle guardie, perciò non tornò a respirare finché non si fu allontanato dalla guardia. Ma camminò a passi lenti: non si sarebbe messo a correre. Aveva terminato di correre. Swan si tolse le mani dalle orecchie. Gli ultimi suoni di dolore svanivano in lontananza. Il campo di granturco era un deserto di stoppie; i camion si allontanarono rombando, grassi e felici come scarafaggi. Swan aveva la nausea per la paura e rimpiangeva lo scantinato in cui lei e Josh erano rimasti intrappolati tanto tempo prima. Ma si costrinse a guardare gli altri prigionieri e a rendersi conto della scena: i gemiti e i colpi di tosse dei feriti, il farneticare di chi era impazzito, i pianti e i lamenti delle nenie funebri. In ogni faccia, gli occhi erano spenti, dopo la morte di tutte le speranze. Quella gente aveva combattuto e sofferto per lei; e ora lei se ne stava lì per terra come un insetto in attesa del tacco che lo schiacciasse. Serrò i pugni. In piedi, si disse; in piedi, maledizione! Si vergognava della propria fragilità, della propria debolezza; una scintilla di rabbia la percorse, come scagliata da una ruota di ferro che macinasse pietra focaia. Due guardie risero. In piedi, urlò Swan dentro di sé; la rabbia crebbe, si diffuse, bruciò la nausea e la paura. Sei una leader, aveva detto Sister, ed è meglio che impari a comportarti da leader. Ma Swan non voleva essere una leader. Non aveva chiesto di diventarlo. Udì, poco lontano, il pianto d'un bimbo e capì che, se c'era un futuro per quella gente, doveva iniziare proprio lì... da lei. Si alzò, inspirò a fondo per togliersi dal cervello le ultime ragnatele e camminò fra gli altri prigionieri, incrociò il loro sguardo, lasciò loro l'impressione di un'occhiata in una fornace incandescente. «Swan!» la chiamò Josh; ma lei non gli badò e continuò a camminare.
Josh stava per seguirla, ma vide il suo portamento regale, pieno di fiducia e di coraggio; e gli altri prigionieri si alzavano a sedere, quando passava, e perfino i feriti cercavano di sollevarsi da terra. Josh non intervenne. Anche Swan si rese conto d'infondere forza agli altri... ma non sapeva che avrebbero giurato di sentire intorno a lei una radiazione che per un attimo scaldava l'aria. Raggiunse il bimbo che piangeva. Era tenuto in braccio da un uomo tremante con uno sguarcio gonfio e violaceo sulla tempia. Swan guardò il bimbo... e si tolse il cappotto dai molti colori. Si mise in ginocchio per posarlo sulle spalle dell'uomo, in modo che anche il bimbo vi restasse avvolto. «Tu!» gridò una guardia. «Via di lì!» Swan trasalì, ma continuò. «Vattene!» le disse una prigioniera. «Ti uccideranno!» La guardia sparò un colpo d'avvertimento. Swan aggiustò le pieghe del cappotto per tenere al caldo il bimbo. Solo allora si alzò. «Torna dov'eri e mettiti seduta!» ordinò la guardia. Reggeva il fucile contro l'anca. Il tempo parve fermarsi. Swan sentì che tutti la guardavano. Dio m'aiuti, pensò; deglutì e avanzò verso il filo spinato e la guardia con il fucile. Subito l'uomo sollevò l'arma in posizione di sparo. «Alt!» ammonì un'altra guardia, più lontano sulla destra. Swan proseguì, un passo dopo l'altro, senza staccare gli occhi dall'uomo col fucile. L'uomo premette il grilletto. Il proiettile sibilò sopra la testa di Swan, la mancò di dieci centimetri o anche meno. Swan si fermò, vacillò... e avanzò di un altro passo. «Swan!» gridò Josh, alzandosi. «Swan, non farlo!» La guardia col fucile arretrò, mentre Swan avanzava. «Il prossimo ti arriva fra gli occhi» promise. Swan si fermò. «Questa gente ha bisogno di coperte e di cibo» disse, sorpresa dalla forza della sua stessa voce. «Ne ha bisogno subito! Vai a dire a chi comanda che voglio parlargli.» «Vaffanculo» disse la guardia. Sparò. Ma il proiettile passò sopra la testa di Swan, perché una delle altre guardie aveva afferrato la canna del fucile spostandola verso l'alto. «Non hai sentito il suo nome, testa di cazzo?» disse il secondo. «È la ragazza che il colonnello cerca. Vai a fare rapporto a un ufficiale.»
L'altro era impallidito, rendendosi conto di quanto fosse andato vicino a finire scorticato vivo. Si lanciò di corsa verso il centro comando del colonnello Macklin. «Ho detto» ripeté con fermezza Swan «che voglio parlare con chi comanda.» «Non preoccuparti» rispose l'uomo. «Parlerai fin troppo presto al colonnello Macklin.» Un altro camion si fermò davanti al cancello. Il portello posteriore fu spalancato e altri quattordici prigionieri furono spinti dentro il recinto. Swan li guardò entrare: alcuni, gravemente feriti, camminavano a stento. Si accostò ad aiutarli e fu percorsa da una scossa elettrica. «Sister!» esclamò. Corse incontro alla donna tutta sporca di terra che aveva varcato barcollando il cancello. «Oh, sant'Iddio, sant'Iddio!» singhiozzò Sister, abbracciando Swan. Per un attimo si tennero strette, senza parlare. «Ti credevo morta» disse infine Sister, con la vista offuscata dalle lacrime. «Oh, sant'Iddio, pensavo che t'avessero uccisa!» «No, sto bene. Josh è qui, e anche Robin, Glory e Aaron. Pensavamo che avessero ucciso te!» Swan si scostò, per guardare in viso Sister. Sentì un nodo allo stomaco. Sul lato sinistro del viso, Sister era stata schizzata di benzina in fiamme. Il sopracciglio era tutto bruciato, l'occhio gonfio era quasi chiuso. Il mento e il naso erano sfregiati dalle schegge di vetro. Il terriccio le imbrattava il davanti del cappotto, la stoffa era bruciata e strappata. Sister capì l'espressione di Swan e scrollò le spalle. «Non era destino che fossi bella, mi sa.» Swan l'abbracciò di nuovo. «Guarirai. Non so cos'avrei fatto, senza di te.» «Te la saresti cavata benissimo, come prima d'incontrare me e Paul.» Girò lo sguardo tutt'intorno. «Dov'è?» Swan capì a chi si riferiva, ma disse: «Chi?» «Lo sai, chi. Paul.» La voce di Sister si tese. «È qui anche lui, vero?» Swan esitò. «Dov'è? Dov'è Paul?» «Non so» ammise Swan. «Qui non c'è.» «Oh... mio Dio.» Sister si portò alla bocca la mano sporca di terra. Si sentiva girare la testa e questo nuovo colpo rischiò di metterla a tappeto; era stanca, nauseata di combattere, le ossa le dolevano come se le avessero staccato i vari pezzi del corpo e poi li avessero rimessi insieme. Si era riti-
rata dal muro ovest, quando i soldati avevano sfondato; aveva trovato un coltello da macellaio e ne aveva ucciso uno nel corpo a corpo, poi era stata costretta ad attraversare tutto il campo, davanti alla nuova ondata di assalitori. Si era nascosta sotto una baracca, ma quando l'avevano incendiata, non aveva avuto altra scelta che arrendersi. «Paul» mormorò. «È morto. Lo so.» «Non puoi esserne sicura! Forse è fuggito! Forse è ancora nascosto!» «Ehi, voi due!» gridò la guardia. «Piantatela e andate avanti.» Swan disse: «Reggiti a me» e aiutò Sister a raggiungere gli altri. Josh veniva verso di loro, seguito da Robin. E a un tratto Swan si accorse che Sister non aveva più con sé la borsa. «Il cerchio di vetro! Che fine ha fatto?» Sister si mise il dito sulle labbra. Una jeep ruggì. I due passeggeri erano Roland Croninger, che portava ancora l'elmetto e aveva le bende impiastrate di fango, e l'uomo che si faceva chiamare Friend. Sceserò tutt'e due, mentre l'autista teneva acceso il motore. Friend si accostò a passo deciso al reticolato; socchiuse gli occhi passando in rassegna i prigionieri. Poi vide la ragazza che sorreggeva una donna ferita. «Là!» disse, eccitato, indicandola. «È lei!» «Porta fuori la ragazza» ordinò Roland alla guardia più vicina. Friend si soffermò a fissare la donna che si reggeva a Swan. La faccia gli risultò sconosciuta: l'ultima volta che aveva visto Sister, la donna era sfigurata. Gli pareva d'averla vista, il giorno in cui aveva ascoltato di nascosto il Rigattiere parlare dell'Esercito d'Eccellenza, ma non le aveva badato. In quel periodo stava male e i particolari gli erano sfuggiti. Ma ora capì che, se quella donna era davvero Sister, non aveva più la maledetta borsa con il cerchio di vetro. «Un momento!» disse alla guardia. «Porta fuori anche la donna! Sbrigati!» Con un cenno la guardia chiamò in aiuto un altro soldato e insieme entrarono nel recinto, con i fucili pronti. Josh stava per raggiungere Sister, quando le due guardie ordinarono a Swan di fermarsi. Da sopra la spalla, Swan guardò i due fucili. «Forza» disse una guardia. «Non volevi parlare al colonnello Macklin? Ora ne hai l'occasione. Anche tu, signora.» «È ferita!» intervenne Josh. «Non vedi che...» La guardia sparò un colpo davanti ai piedi di Josh, che fu costretto ad ar-
retrare. «Andiamo.» Con la canna del fucile la guardia diede a Swan una spinta. «Il colonnello aspetta.» Swan sorresse Sister e fu scortata al cancello. Robin si mosse per seguirla, ma Josh lo afferrò per il braccio. «Non fare lo stupido» lo ammonì. Il ragazzo si liberò con un gesto rabbioso. «Vuoi lasciare che la prendano? Mi pareva che tu fossi il suo guardiano!» «Una volta lo ero. Adesso dovrà cavarsela da sola.» «Giusto!» disse Robin, amaro. «E noi cosa facciamo, aspettiamo?» «Se hai un'idea migliore, che non porti alla morte un mucchio di gente, compreso te stesso e Swan, sentiamola!» Robin rimase in silenzio. Guardò i soldati spingere Swan e Sister verso la jeep con i due uomini in attesa. Mentre si avvicinavano, Swan e Sister si sentirono accapponare la pelle. Sister riconobbe l'uomo con il viso fasciato: era quello che dal carro armato aveva chiesto la loro resa... e riconobbe anche l'altro. Forse dagli occhi, o dal sorriso, o dal modo in cui piegava la testa e teneva lungo i fianchi le mani strette a pugno. O forse da come tremava d'eccitazione. Ma lo riconobbe. E anche Swan lo riconobbe. L'uomo non guardò Swan. Invece, avanzò di qualche passo e con un gesto brusco scostò il collo del cappotto di Sister. Sulla pelle c'era la cicatrice scura a forma di crocifisso. «Il tuo viso è diverso» disse l'uomo. «Anche il tuo.» Lui annuì; per un attimo negli occhi gli passò un lampo rosso, simile a uno sguardo fugace su qualcosa di mostruoso e di sconosciuto. «Dov'è?» «Dov'è cosa?» «Il cerchio. La corona. O quel che diavolo è. Dove si trova?» «Non hai detto tu stesso che sai tutto?» Lui esitò, dardeggiò la lingua sul labbro inferiore. «Non l'hai distrutto. Ne sono sicuro, sicuro. L'hai nascosto chissà dove. Oh, credi d'essere furba, vero? Credi di cacare rose, proprio come...» Quasi girò la testa, quasi la guardò, ma si trattenne in tempo. «Proprio come lei» concluse. «Quale corona?» domandò Roland. Friend lo ignorò. «Lo troverò» promise a Sister. «E se non riesco a convincerti ad aiutarmi, il mio socio capitano Croninger è davvero in gamba nell'uso di certi strumenti. Mi perdoni, ora?»
Swan capì che l'uomo si rivolgeva a lei, anche se continuava a fissare Sister. «Ho detto: mi perdoni, ora?» Quando Swan non rispose, il sorriso dell'uomo si allargò. «Non più, lo sapevo. Ora hai assaggiato l'odio. Ti piace?» «No.» «Ah» disse lui, senza fidarsi a scoccarle neppure un'occhiata. «Imparerai ad apprezzarne il gusto. Vogliamo andare, care signore?» Salirono sulla jeep. Andarono dritti alla roulotte del colonnello Macklin. Accanto al muro nord, ormai abbattuto, dove le fiamme ardevano ancora e i camion rombavano avanti e indietro con il loro carico d'armi da fuoco, indumenti e scarpe, una figura solitària trovò un gruppo di cadaveri che la brigata sciacalli non aveva ancora ripulito. Alvin Mangrim girò il cadavere d'un uomo ed esaminò le orecchie e il naso. Il naso era troppo piccolo, decise, ma le orecchie andavano bene. Dal fodero di pelle agganciato alla cintura estrasse un coltello da macellaio, macchiato di sangue, e si dedicò a tranciare le orecchie; le lasciò cadere in un sacchetto di tela che portava a tracolla. Il sacchetto, dal fondo inzuppato di sangue, conteneva altre orecchie, nasi e alcune dita che lui aveva già "liberato" da altri cadaveri. Aveva intenzione di far seccare i macabri resti e confezionare collane. Sapeva che al colonnello Macklin sarebbe piaciuto averne una: sarebbe stato un buon sistema per ottenere in cambio razioni supplementari. In giorni come questi, bisognava aguzzare l'ingegno! Ricordò un motivetto di tanto tempo prima, parte d'un mondo d'ombre. Ricordò di tenere fra le sue una mano di donna — una mano rozza, dura, detestabile, piena di calli — e di andare al cinema a vedere un film di cartoni animati che parlava di una principessa che si scopava sette nani. Gli era sempre piaciuto il motivetto che fischiettavano i nani quando andavano a lavorare in miniera; si mise a fischiettarlo, mentre staccava a una donna il naso e lo riponeva nel sacchetto. Gran parte della musica che fischiettava uscì dal foro dove aveva avuto il naso; gli venne in mente che, se ne avesse trovato uno del formato giusto, poteva essiccarlo e usarlo per tappare il foro. Passò al cadavere seguente, che giaceva bocconi. Probabilmente, si disse Alvin, il naso era fracassato. Ma afferrò la spalla del cadavere e lo girò ugualmente. Era un uomo con la barba brizzolata.
All'improvviso il cadavere spalancò gli occhi, azzurro vivo e iniettati di sangue contro la carne grigiastra. «Oh... merda!» disse Alvin Mangrim. Paul alzò la Magnum, premette la canna contro il cranio dell'altro e con l'ultimo proiettile gli fece saltare le cervella. Il morto cadde addosso a Paul e lo scaldò. Ma Paul stava per morire e lo sapeva; adesso era felice di non avere avuto il coraggio di spararsi quell'ultimo colpo e scegliere la via più facile per farla finita. Non sapeva chi fosse il morto, ma il bastardo ormai non contava più. Attese. Aveva vissuto da solo gran parte della vita e non aveva paura di morire da solo. No, non aveva affatto paura... d'ora in poi erano rose e fiori. Rimpiangeva solo di non sapere che cos'era accaduto alla ragazza... ma Sister era una pellaccia dura: se era sopravvissuta, non avrebbe permesso a nessuno di fare del male a Swan. Swan, pensò; Swan. Non lasciarti spezzare. Sputagli negli occhi e prendili a calci in culo... e pensa qualche volta al Buon Samaritano, d'accordo? Era stanchissimo. Si sarebbe riposato. Forse, al risveglio, sarebbe stato giorno. Sarebbe stato magnifico guardare il sole. Paul si addormentò. QUATTORDICI: preghiera per l'ora finale Il mastro ladro / Tesoro sepolto / Prodezza magica / La via d'uscita / Il massimo potere / La buona, lunga occhiata di Roland / Il regno di Dio / La macchina / Il rintocco funebre di Swan / Un luogo dove riposare / La promessa 85 La luce giallastra della lampada cadde sul viso della Morte. Swan, dritta e rigida, incrociò lo sguardo del colonnello Macklin senza trasalire. Era lui, capì, lo scheletro a cavallo. Sì. Lo riconobbe, seppe che cos'era, capì l'energia famelica che lo spingeva. Lo scheletro aveva mietuto Mary's Rest, ma nei suoi occhi c'era ancora fame. Sul tavolo davanti al colonnello c'era un foglio di carta. Macklin sollevò la destra e la batté sul tavolo, trapassando con i chiodi il rapporto delle
perdite. Staccò i chiodi dal piano tutto segnato e tese la mano verso Swan. «Oggi l'Esercito d'Eccellenza ha perduto 468 soldati. E forse il numero aumenterà, appena i rapporti saranno aggiornati.» Lanciò un'occhiata alla donna ferma accanto a Swan, poi fissò di nuovo la ragazza. Alle loro spalle c'erano Roland e due guardie; alla destra di Macklin, l'uomo che si faceva chiamare Friend. «Tieni» disse Macklin. «Guarda da te. Dimmi se vali 468 soldati.» «La gente che ha ucciso quei soldati ne era convinta» intervenne Sister. «Se avessimo avuto più munizioni, sareste ancora al di là del muro a prendervi calci in culo.» Macklin spostò l'attenzione su di lei. «Come ti chiami?» «Si chiama Sister» intervenne Friend. «Ha una cosa che voglio.» «Credevo che tu volessi la ragazza.» «No. La ragazza per me non ha valore. Ma tu hai bisogno di lei. Hai visto con i tuoi occhi il campo di granturco: è opera sua.» Con aria assente rivolse a Sister un sorriso. «Questa donna ha nascosto un grazioso pezzo di vetro che deve essere mio. Oh, sì! Lo troverò, credimi.» Trapassò con lo sguardo gli occhi di Sister, penetrò nella carne e nelle ossa, fino al magazzino dei ricordi. Nella mente della donna le ombre delle sue esperienze svolazzarono come uccelli sorpresi. Friend vide le rovine di Manhattan, le mani che per la prima volta portavano alla luce il cerchio di vetro, l'inferno d'acqua nell'Holland Tunnel, la statale innevata che si snodava nella Pannsylvania, il branco di lupi in cerca di preda; e, nello spazio di secondi, migliaia d'altre fuggevoli immagini. «Dov'è?» le domandò. E subito vide l'immagine di un piccone sollevato, come se fosse illuminata dal lampo. Sister lo sentì frugare nella sua mente, come un mastro ladro alle prese con la cassaforte: doveva confondere la combinazione, prima che lui entrasse. Serrò con forza gli occhi e iniziò a sollevare il coperchio dell'esperienza più orribile, quella che l'aveva spinta urlando fin sull'orlo della follia, che l'aveva fatta diventare Sister Creep. Il coperchio aveva cardini arrugginiti, perché da molto tempo non lo apriva per guardare dentro; ma ora Sister lo sollevò e si costrinse a guardare quel giorno piovoso sull'autostrada. L'uomo con l'occhio scarlatto fu accecato dalla luce azzurra che roteava, udì una voce maschile dire: «La dia a me, signora. Su, la dia a me.» L'immagine divenne più distinta; a un tratto lui si ritrovò a reggere fra le braccia il cadaverino di una bimba con il viso maciullato; lì accanto, una mac-
china capovolta mandava fumo sibilante dal radiatore. Più in là, sull'asfalto insanguinato c'erano schegge di vetro e minuscoli frammenti scintillanti. «La dia a me, signora. Ce ne prenderemo cura noi, adesso» diceva un giovanotto in impermeabile giallo allungando la mano verso la bambina. «No» disse Sister, piano, dolorosamente, sprofondata appieno in quell'attimo spaventoso. «Non... gliela... darò.» Era una voce confusa, ubriaca. Friend si ritrasse dalla mente e dai ricordi di Sister. Resistette all'impulso di torcerle il collo. O Sister era più forte di quanto aveva creduto... oppure era crollata subito. E intanto lui sentiva su di sé lo sguardo dell'altra piccola puttana! Qualcosa, in lei... la sua stessa presenza... lo prosciugava d'ogni potere! Sì, la maligna aggressività della ragazza lo indeboliva. Sarebbe bastato un solo colpo. Un rapido colpo sul cranio ed era tutto finito. Strinse il pugno e osò guardarla in viso. «Cos'hai da fissarmi?» Swan non rispose. La faccia dell'uomo era orribile, ma anche coperta da un sottile velo umido e lucente. Allora, con tutta la calma di cui disponeva, Swan disse: «Perché hai così paura di me?» «Non ho paura!» ruggì lui. Dalla bocca gli caddero mosche morte. Le guance gli si arrossarono. Un occhio castano divenne nero come il giaietto, sotto la pelle del viso le ossa mutarono posizione come fondamenta marce di una casa di cartapesta. Rughe e crepe si allargarono dagli angoli della bocca, la faccia invecchiò di vent'anni in un istante. Il collo rosso e rugoso tremò, mentre Friend riportava lo sguardo su Sister. «Croninger!» disse. «Porta qui Fratello Timothy.» Senza esitare, Roland uscì dalla roulotte. «Potrei uccidere una persona al minuto, finché non mi dirai dov'è.» Friend si sporse verso Sister. «Da chi potrei iniziare? Dal nero grande e grosso? O dal ragazzo? E se scegliessi fior da fiore? O vi facessi tirare la paglia più corta, o estrarre i nomi dal cappello? Non me ne frega niente. Dove l'hai nascosto?» Di nuovo vide solo il faro girevole azzurro e il luogo dell'incidente. Un piccone, pensò; un piccone. Guardò i vestiti e le mani della donna, sporchi di terra. «L'hai sotterrato, vero?» Il viso di Sister rimase impassibile; gli occhi, strettamente serrati. «L'hai... sotterrato» mormorò lui, sogghignando. Swan tentò di distrarlo. Guardò il colonnello Macklin, «Cosa vuoi da me?» domandò. «Ti ascolto.» «Hai fatto crescere il granturco. È vero?» «La terra fa crescere il granturco.»
«È stata lei!» disse Friend, lasciando un attimo Sister. «Lei ha messo i semi nella terra, lei li ha fatti crescere! Nessun altro ci sarebbe riuscito. La terra è morta... e lei è l'unica che può riportarla in vita. Se la tieni con te, l'Esercito d'Eccellenza avrà il cibo che gli occorre! Da una sola pannocchia lei può far crescere un campo di granturco.» Macklin fissò Swan. Non aveva mai visto una ragazza così bella... con un viso forte, molto forte. «È vero?» ripeté. «Sì» rispose Swan. «Ma non farò crescere cibo per te. Non farò crescere cibo per un esercito. Non puoi costringermi.» «Sì che puoi!» sibilò Friend a Macklin, da sopra la spalla. «Ha degli amici, là fuori. Uno sporco nero e un ragazzo. Li ho visti io stesso, poco tempo fa. Quando ci metteremo in marcia, li porteremo con noi; e lei farà crescere le messi per salvarli.» «Josh e Robin preferirebbero la morte!» «Ma tu preferiresti che morissero?» Friend scosse la testa e l'altro occhio gli divenne verde mare. «No, non credo proprio.» Swan lo sapeva. Non poteva rifiutare di aiutarli, se c'era in ballo la vita di Josh e di Robin. «Dove siete diretti?» domandò, con voce atona. «Ecco qui il nostro Fratello Timothy» disse Friend. «Te lo dirà lui!» Roland e Fratello Timothy erano appena entrati nella roulotte; Roland teneva saldamente per il braccio l'uomo emaciato, che camminava come in stato di trance, strisciando i piedi. Swan si girò verso i due e trasalì. Gli occhi del nuovo arrivato erano sbarrati e sconvolti, cerchiati di viola. La bocca era socchiusa; le labbra, grigie e cascanti. Friend batté le mani. «Parla Simon! Di' alla piccola puttana dove andiamo, Fratello Timothy!» L'uomo emise un gemito confuso. Rabbrividì, poi disse: «Sul... monte Warwick. A trovare Dio». «Ottimo. Parla Simon! Di' dove si trova monte Warwick.» «Nella Virginia occidentale. Ci sono stato. Ho vissuto con Dio... per sette giorni... e sette notti.» «Parla Simon! Cosa combina Dio su monte Warwick?» Fratello Timothy batté le palpebre. Una lacrima gli rotolò sulla guancia destra. «Simon s'arrabbia, Fratello Timothy» disse Friend, in tono amabile. L'uomo uggiolò, aprì la bocca, agitò la testa. «La scatola nera... e la chiave d'argento!» disse. Le parole gli uscivano in fretta, ingarbugliate.
«La preghiera per l'ora finale. Temete la morte per acqua! Temete la morte per acqua!» «Ottimo. Ora conta fino a dieci.» Fratello Timothy cominciò a contare sulle dita. «Uno... due... tre... quattro... cinque... sei...» Si fermò, perplesso. Swan si era già accorta che all'uomo avevano mozzato le altre quattro dita della destra. «Non ho detto: "Parla Simon!"» precisò Friend. Le vene sporsero in rilievo sul collo di Fratello Timothy e una rapida pulsazione gli batté sulla tempia. Lacrime di terrore gli riempirono gli occhi. Fratello Timothy cercò di arretrare, ma Roland aumentò la stretta sul braccio. «Vi prego» mormorò Fratello Timothy con voce rauca. «Non fatemi... altro male. Vi porterò da lui, lo giuro! Ma non fatemi... più male...» La voce si ruppe in singhiozzi e l'uomo si fece piccolo piccolo, mentre Friend gli si accostava. «Non ti faremo male.» Friend gli accarezzò i capelli madidi. «Non ce lo sogneremmo neppure. Volevamo solo mostrare alle signore cosa può fare il potere di persuasione. Sarebbero davvero stupide, se non facessero quel che diciamo, vero?» «Stupide» confermò Fratello Timothy, con un ghigno da zombie. «Molto stupide.» «Bravo cane.» Friend gli batté dei colpetti sulla testa. Poi tornò a fianco di Sister, le afferrò la nuca, le girò la testa verso Fratello Timothy; con l'altra mano le aprì a forza un occhio. «Guardalo!» gridò e prese a scuoterla. Il suo tocco diffuse nel corpo di Sister un gelo insopportabile, un dolore alle ossa; la donna non ebbe altra scelta che guardare l'uomo storpiato, fermo davanti a lei. «Il capitano Croninger ha una graziosa stanza da gioco.» La bocca di Friend le sfiorava l'orecchio, «Ti concedo fino all'alba per ricordare dove hai nascosto quella robetta. Se non ti torna la memoria, il buon capitano comincerà a scegliere persone dal recinto e a giocarci. E tu guarderai, perché il primo gioco sarà quello di tagliarti le palpebre.» Strinse la mano come un cappio. Sister rimase muta. Il faro blu continuò a girare nella sua mente, il giovanotto in impermeabile giallo continuò ad allungare la mano verso la bambina morta che lei teneva fra le braccia. «Chiunque fosse» mormorò Friend «spero che sia morta odiandoti.» Friend sentì che Swan lo fissava, che gli occhi della ragazza gli scava-
vano nell'anima; ritrasse la mano, prima che la furia cieca gli facesse spezzare l'osso del collo di Sister. Poi non riuscì più a sopportare lo sguardo e si girò di scatto verso Swan. Il viso della ragazza distava venti centimetri dal suo. «Ti ucciderò, puttana!» ruggì Friend. Swan usò fino all'ultima briciola di forza di volontà per non ritrarsi. Sostenne il suo sguardo, come una mano di ferro che imprigioni un serpente. «No, non mi ucciderai» replicò. «Hai detto che per te non ho alcun valore. Ma mentivi.» Pigmento scuro striò la faccia pallida di Friend. La mascella si allungò, sulla fronte si aprì una falsa bocca, simile a una ferita slabbrata. Un occhio rimase castano, mentre l'altro diventava cremisi, come se si fosse riempito di sangue. Schiacciala, pensò Friend; schiaccia a morte la puttana! Ma non la schiacciò. Non poteva! Sapeva, anche nell'abietto groviglio del proprio odio, che in lei c'era un potere superiore alla sua stessa comprensione e che qualcosa, nel suo intimo, lo bramava come un cuore malato. La disprezzava, voleva romperle le ossa... ma nello stesso tempo non osava toccarla, perché il fuoco in lei avrebbe potuto ridurlo in cenere. Si tirò indietro; assunse la faccia da latino, poi da orientale, infine si bloccò a metà di un cambiamento. «Verrai con noi, quando ci metteremo in marcia» promise. La voce, aspra e acuta, passava da un'estremità all'altra delle ottave. «Prima andremo nella Virginia occidentale... a trovare Dio.» Pronunciò la parola con tono di scherno. «Poi ti troveremo una graziosa fattoria con tanto terreno. E ti procureremo i semi. Troveremo quel che ti occorre, nei silos e nei fienili lungo la strada. Costruiremo un altissimo muro intorno alla fattoria e lasceremo anche alcuni soldati a tenerti compagnia.» La bocca sulla fronte sorrise, poi fu riassorbita. «E per il resto della tua vita produrrai cibo per l'Esercito d'Eccellenza. Avrai trattori, mietitrebbia, macchinali di tutti i tipi! E schiavi! Sono sicuro che quello sporco nero sarà in gamba, a tirare l'aratro.» Lanciò un'occhiata alle due guardie. «Andate a prendere quel bastardo nero. E anche un ragazzo di nome Robin. Divideranno l'alloggio di Fratello Timothy. A te non importa, vero?» Fratello Timothy sorrise timidamente. «Simon non ha detto: parla Simon!» «Dove possiamo sistemare queste due signore?» domandò Friend al colonnello Macklin. «Non so. In una tenda, penso.» «Oh, no! Offriamo alle signore almeno un materasso! Devono star co-
mode, mentre riflettono! Non ci sarebbe una roulotte?» «Quella di Sheila» suggerì Roland. «Così lei le terrà d'occhio.» «Portatele lì» ordinò Friend. «Ma voglio due guardie armate davanti alla porta. Non devono esserci errori. Chiaro?» «Signorsì.» Roland impugnò la pistola. «Dopo di voi» disse. Mentre uscivano e scendevano la scaletta intagliata, Swan strinse la mano di Sister. Friend, fermo sulla soglia, le guardò allontanarsi. «Quanto manca all'alba?» domandò. «Tre, quattro ore» rispose Macklin. Il viso di Swan gli era rimasto impresso nella mente, con la chiarezza di una fotografia. Staccò dai chiodi della mano finta il rapporto sulle perdite, con le cifre suddivise per brigata. Cercò di concentrarsi sui conteggi, ma non riusciva a dimenticare il viso della ragazza. Da moltissimo tempo non vedeva una simile bellezza: trascendeva il sesso... era pulita, potente e nuova. Si ritrovò a fissare i chiodi sporgenti dal palmo e le fasce luride che gli circondavano il polso. Per un istante sentì il proprio odore: il lezzo a momenti lo spinse a vomitare. Alzò gli occhi su Fratello Timothy, fermo sulla soglia; all'improvviso il cervello gli si schiarì, come nubi spazzate da un vento ardente. Oddio, pensò, sono in lega con... Friend girò leggermente la testa. «A cosa pensi?» domandò. «Oh, niente. Riflettevo, tutto qui.» «Pensare inguaia la gente. Parla Simon! Non è vero, Fratello Timothy?» «Verissimo!» rispose l'altro, con voce stridula. E batté le mani mutilate. 86 «Sono l'ospite» disse a un tratto la donna seduta nell'angolo, sopra un mucchio di guanciali sporchi. Erano le sue prime parole, da quando, più di un'ora prima, avevano spinto le due donne nella lurida roulotte. Era rimasta lì seduta e si era limitata a guardarle, mentre Swan si stendeva su un materasso privo di lenzuola e Sister camminava avanti e indietro. «La festa è di vostro gradimento?» Sister smise di camminare nervosamente e la fissò, incredula, per qualche secondo, prima di ricominciare. C'erano nove passi, da una parete all'altra. «Be'» disse la donna, scrollando le spalle «se dobbiamo dormire sotto lo stesso tetto, almeno presentiamoci. Mi chiamo Sheila Fontana.»
«Tanto piacere» brontolò Sister. Swan si alzò a sedere, esaminò attentamente la donna dai capelli neri, alla luce dell'unica lampada a cherosene. Sheila Fontana era magra, quasi emaciata, con la pelle giallastra e il viso tirato. I capelli neri, sporchi e smorti, lasciavano intravedere il cuoio capelluto alla sommità del cranio. Per terra, intorno a lei, erano disseminate lattine vuote, bottiglie, altri rifiuti. La donna indossava indumenti macchiati e sporchi sotto il pesante cappotto di velluto a coste; ma le unghie, per quanto spezzate e rosicchiate fino alla carne, erano meticolosamente smaltate di rosso vivo. Entrando nella roulotte, Swan aveva notato la toeletta coperta di boccette di cosmetici, tubetti di rossetto e simili; ora diede un'occhiata allo specchio sul quale erano attaccati ritagli di riviste con foto di giovani modelle dal viso fresco. Riportò l'attenzione su Sheila. «E tu cosa fai, qui?» «Un po' di tutto, mia cara.» Sheila sorrise, mostrando gengive grigie e rinsecchite. «Sono una DDC.» «DDC? Cosa significa?» «Dama di compagnia. In questo momento, dovrei essere fuori a battere. Dopo una battaglia, una brava DDC trova clienti finché non ne può più. Gli scontri fanno venire agli uomini la voglia di chiavare.» «Eh?» «Vuol dire che è una puttana» spiegò Sister. «Cristo, si sente dall'odore, qui dentro.» «Scusami, ma ho appena terminato il deodorante. Se vuoi, spargi pure in aria un po' di profumo.» Indicò i resti secchi e gommosi nelle boccette sulla toeletta. «No, grazie.» Sister andò alla porta; girò la maniglia, aprì e si trovò faccia a faccia con due guardie, ferme subito fuori. Tutt'e due erano armate di fucile. Una disse: «Torna dentro». «Voglio solo una boccata d'aria pura. Ti dispiace?» La canna del fucile le toccò il petto. «Torna dentro!» ordinò la guardia, dandole una spinta. Sister sbatté la porta. «Gli uomini sono bestie» disse Sheila. «Non capiscono che una donna ha bisogno della sua intimità.» «Dobbiamo andarcene di qui!» La voce di Sister tremò, sull'orlo del panico. «Se lui lo trova, lo distruggerà... e se non gli dico dov'è, si metterà a uccidere la gente!» «Se trova cosa?» Sheila si strinse al petto le ginocchia. «Prestò sarà l'alba» continuò Sister. «Oh, mio Dio!» Si appoggiò alla pa-
rete, incapace di reggersi in piedi. «Lo troverà! Non posso impedirgli di trovarlo!» «Ehi, donna!» disse Sheila. «Nessuno t'ha mai detto che sei pazza?» Sister era vicinissima a crollare, capì Swan. Anche lei era nella stessa situazione, ma evitava di pensare all'immediato futuro. «Da quanto tempo sei con loro?» domandò a Sheila. Sheila sorrise appena... un sorriso orribile, in quel volto smunto e smorto. «Da sempre» rispose. «Oh, Cristo, quanto vorrei avere un po' di coca! O un paio di pillole. Se avessi una sola Bellezza Nera, farei a fettine quel bastardo e starei in paradiso per una maledetta settimana! Non avete per caso un po' di droga, no?» «No.» «Mi pareva. Nessuno ne ha più. L'avranno fumata, sniffata, ingollata tutta. Merda.» Scosse tristemente la testa, come se piangesse la morte di una civiltà perduta. «Come ti chiami, tesoro?» «Swan.» Sheila ripeté il nome. «Grazioso. E insolito. Conoscevo una ragazza che si chiamava Colomba. Faceva l'autostop vicino a El Cerrito. Rudy e io ci siamo fermati...» Si bloccò. «Ascoltate!» mormorò in tono pressante. «Non lo udite?» Swan udì alcuni uomini ridere nei pressi e in lontananza il rumore di spari. «Il bambino!» Sheila si portò la mano alla bocca. I suoi occhi erano pozzi di tenebra. «Non udite piangere il bambino?» Swan scosse la testa. «Oh... Gesummio!» Sheila quasi soffocava di terrore. «Il bambino piange! Fatelo smettere, per favore!» Si turò le orecchie, si raggomitolò in posizione fetale. «Oh, Dio, ti prego, fallo smettere!» «È pazza» disse Sister. Ma Swan si alzò dal materasso e si accostò alla donna. «Meglio lasciarla in pace» l'ammonì Sister. «Sembra fuori di sé.» «Fatelo smettere... fatelo smettere... oh, Cristo, fatelo smettere» farneticava Sheila, rannicchiata nell'angolo. Il viso luccicava di sudore; il puzzo era opprimente. Ma Swan non si ritrasse. Si sedette accanto a lei, esitò, allungò la mano a toccarla. La mano di Sheila trovò quella di Swan e la strinse dolorosamente. «Per favore... fai smettere il pianto del bambino» supplicò Sheila. «Non ci sono bambini, qui. Ci siamo solo noi.» «Lo sento piangere! Lo sento!»
Swan non sapeva quale tormento vivesse la donna, ma non sopportava di vederla soffrire. Strinse la mano di Sheila e si chinò su di lei. «Sì» disse piano «anch'io sento piangere. Un pianto di bimbo. Giusto?» «Sì! Sì! Fallo smettere, prima che sia troppo tardi!» «Troppo tardi? Troppo tardi per cosa?» «Troppo tardi per vivere!» Le dita si Sheila si conficcarono nella mano di Swan. «Lui lo ucciderà, se non smette di piangere!» «Capisco» disse Swan. «Un momento, un momento. Il bambino ora smette di piangere. Il suono svanisce.» «No, non smette! Lo sento ancora...» «Il suono svanisce» ripeté Swan, con il viso a qualche centimetro da quello di Sheila. «Il bimbo si cheta. Si cheta. Non lo sento più. Qualcuno si prende cura di lui. Ora c'è silenzio. Il pianto è cessato.» Sheila trasse un respiro rumoroso, improvviso. Lo trattenne per qualche secondo, lo lasciò uscire in un fievole gemito. «È cessato?» domandò. «Sì» rispose Swan. «Il bimbo ha smesso di piangere. Tutto passato.» «È... è ancora vivo?» Sembrava importantissimo, per lei. Swan annuì. «Ancora vivo.» Dalla bocca socchiusa di Sheila un filo di saliva colò sul labbro e le gocciolò in grembo. Swan cercò di liberare la mano, ma Sheila non la lasciò andare. «Ti serve aiuto?» disse Sister, ma Swan scosse la testa. Lentamente Sheila sollevò la mano e con la punta delle dita toccò la guancia di Swan. Gli occhi della donna erano solo due crateri tenebrosi nella carne cerea. «Tu chi sei?» mormorò Sheila. «Swan. Mi chiamo Swan. Ricordi?» «Swan» ripeté Sheila, con voce gentile, in tono di timore reverenziale. «Il bimbo... non aveva mai smesso di piangere, prima d'ora. Mai smesso di piangere... finché non moriva. Non so neppure se era un maschietto o una femminuccia. Non ha mai smesso di piangere, prima. Oh... sei così bella.» Le dita sporche si mossero sul viso di Swan. «Così bella. Gli uomini sono bestie, sai. Prendono le cose belle... e le fanno diventare brutte.» La voce le mancò. Si mise a piangere piano, la guancia contro la mano di Swan. «Sono stufa d'essere brutta» mormorò. «Oh... così stufa...» Swan lasciò che piangesse, le accarezzò la testa. Le dita toccarono croste e piaghe. Dopo un poco, Sheila alzò la testa. «Posso... posso chiederti una cosa?» «Certo.»
Sheila si asciugò gli occhi, si soffiò il naso. «Mi permetti di... di spazzolarti i capelli?» Swan si alzò e aiutò Sheila a mettersi in piedi; andò alla toeletta e si sedette davanti allo specchio. Sheila si mosse, con passo esitante. Dalla toeletta prese una spazzola piena di capelli aggrovigliati. Lisciò la chioma di Swan e prese a spazzolarla, a colpi lenti e regolari. «Perché sei qui?» le domandò. «Cosa vogliono da te?» Il tono era basso e reverente. Sister l'aveva già udito, a Mary's Rest, quando le persone si rivolgevano a Swan. Prima che la ragazza rispondesse, Sister intervenne: «Ci terranno chiuse qui dentro. Costringeranno Swan a lavorare per loro.» Sheila si bloccò. «Lavorare per loro? Come... come DDC?» «In un certo senso.» Lei esitò per qualche secondo, poi riprese a spazzolare i capelli di Swan. «Una creatura così bella» mormorò. Batté con forza le palpebre, come se cercasse di cimentarsi con pensieri che avrebbe preferito scacciare. Sister non sapeva niente di quella donna, ma vide il modo gentile con cui muoveva la spazzola, l'aria sognante con cui le dita districavano i capelli arruffati, la maniera con cui continuava ad ammirare nello specchio l'immagine di Swan per poi passare esitando a guardare i propri lineamenti grinzosi e sciupati... e decise di correre il rischio. «È una vergogna» disse piano «che debbano farla diventare brutta.» La spazzola si fermò. Sister lanciò una rapida occhiata a Swan, che cominciava a capire le sue intenzioni. Andò a mettersi accanto a Sheila. «Non tutti gli uomini sono bestie» disse. «Ma questi qui fuori lo sono davvero. Sfrutteranno Swan e la renderanno brutta. La schiacceranno, la distruggeranno.» Sheila guardò nello specchio l'immagine di Swan, poi la propria. Rimase impietrita. «Tu puoi aiutarci» disse Sister. «Puoi impedire che la rendano brutta.» «No.» La sua voce era debole e fiacca, come quella di una bambina stanca. «No, non posso... Sono nessuno.» «Puoi aiutarci a uscire di qui. Ti basterà parlare alle guardie. Distrarre la loro attenzione e farle allontanare per un solo minuto. Nient'altro.» «No... no...» Sister posò la mano sulle spalle della donna. «Guardala. Forza. E ora guardati.» Gli occhi di Sheila si spostarono. «Guarda come ti hanno ridotta.»
«Brutta» mormorò Sheila. «Brutta. Brutta. Brutta...» «Per favore, aiutaci ad andarcene.» Per un minuto Sheila non rispose. Sister temette d'averla perduta. A un tratto Sheila riprese a spazzolare i capelli di Swan. «Non posso» disse. «Ci uccideranno. Se ne fregano, a loro piace usare i fucili.» «Non ci uccideranno. Il colonnello non vuole che moriamo.» «Uccideranno me! E poi, dove andiamo? Il mondo è a puttane. Non c'è posto in cui nascondersi.» Dentro di sé, Sister imprecò, ma Sheila aveva ragione. Anche se fossero riuscite a fuggire dalla roulotte, sarebbe stata solo questione di tempo prima che i soldati le riprendessero. Guardò l'immagine nello specchio. Swan mosse d'un millimetro la testa, per farle capire che era inutile continuare con quella tattica. Sister notò le boccette di profumo sul piano della toeletta. Ormai aveva ben poco da perdere. «Sheila» disse «a te piacciono le cose belle, vero?» «Sì.» Per il momento, tutto bene. E ora, l'asso. «Ti piacerebbe vedere una cosa veramente bella?» Sheila alzò gli occhi. «Cosa?» «È... un segreto. Un tesoro sepolto. Ti piacerebbe vederlo?» «So tutto di tesori sepolti. Roland seppellì la droga. Uccise il Grassone, anche.» Sister non badò ai vaneggiameti della donna e continuò con ostinazione. «Sheila» disse, in tono da cospiratrice «io so dov'è sotterrato un tesoro. Un tesoro che potrebbe aiutarci. Se sei una pu...» si corresse in fretta «una DDC, le guardie ti lasceranno uscire. L'hai detto tu stessa, dovresti essere fuori a lavorare. Ma non hai mai visto niente di più bello di questo tesoro. Se tu andassi dove ti dirò, a prenderlo e a portarlo qui, aiuteresti Swan. Non è vero, Swan?» «Sì, è vero.» «Dovrà essere un segreto solo nostro, però» riprese Sister, osservando con attenzione il viso cascante e impassibile di Sheila. «Non devi dire a nessuno dove vai... e non devi farti vedere, mentre lo dissotterri e lo riporti qui. Devi nasconderlo sotto il cappotto. Te la senti di farlo?» «No... non so. Mi sono appena smaltata le unghie.» «Il tesoro sepolto può impedire che la facciano diventare brutta» disse Sister; e vide che a poco a poco l'idea penetrava nel cervello della donna. «Ma sarà il nostro segreto. Un segreto fra noi compagne di stanza. D'ac-
cordo?» Sheila ancora non rispose. Sister aggiunse: «Aiutaci, per favore». Sheila fissò la sua immagine nello specchio. Quasi non riconobbe il mostro che le restituì lo sguardo. Il colonnello non aveva bisogno di lei, capì. Non aveva mai avuto bisogno di lei, se non per sfruttarla e maltrattarla. Gli uomini sono bestie, pensò. E ricordò la mappa del colonnello, la cartina della nuova America, con la zona grigia adibita a campi di prigionia. Non era un paese in cui le sarebbe piaciuto vivere. Posò la spazzola. Sentì che Swan la guardava dallo specchio e capì che non poteva... non doveva... permettere che facessero diventare brutta come lei stessa una creatura così bella. «Sì» disse. «Ti aiuterò.» 87 «Alt!» gridò; e mentre la jeep sbandava sul fango gelido e arato del campo di granturco in rovina, l'uomo dall'occhio scarlatto saltò giù dal veicolo e corse fra le stoppie. L'ho trovato, pensò; è mio! Qualsiasi cosa sia... cerchio di luce, dono mistico, corona... lo farò a pezzi davanti a lei! Il fango gli s'incollava agli stivali. Inciampò nelle stoppie e quasi cadde, per la smania di fare ih fretta. Una luce grigia e fosca tinteggiava le nubi. Nel vento sentiva l'odore di fumo e di sangue. Calpestò i cadaveri nudi che incontrava. Pensava di essere furba, si disse con rabbia. Furba! Bene, ora avrebbe capito che lui non era tipo da lasciarsi prendere per il bavero; avrebbe capito che questa era ancora la sua festa, quando, svanito il fumo, avrebbero contato i cadaveri. Alle prime luci, le guardie avevano condotto Sister nella roulotte del colonnello e l'avevano fatta sedere al centro della stanza. Si era seduto davanti a lei, mentre Roland e Macklin guardavano. Aveva chinato il suo viso da orientale su quello di Sister e aveva detto, con la strascicata cadenza meridionale: «Dove l'hai sotterrato?» Lei gli aveva sputato in faccia... ma andava bene così. Certo! Andava benissimo. Voleva che lei lottasse, che non bloccasse la memoria sulla maledetta luce girevole azzurra, in modo da poterle premere le mani sulle guance fino a farle schizzare il sangue dalle narici. E allora, fra la nebbia del dolore, aveva visto di nuovo il piccone che si alzava e calava nel terreno. Sister aveva cercato di barricarsi di nuovo dietro la luce azzurra e di
accecarlo, ma lui era troppo veloce, le era scivolato con facilità nella mente, perché la piccola puttana non era lì a distrarlo. Ed eccola lì. Era lì. L'asse di legno su cui era intagliato un nome: RUSTY WEATHERS. Aveva sotterrato il cerchio di vetro nella tomba del cowboy. Quasi l'aveva uccisa, vedendolo; ma la voleva viva, perché assistesse alla distruzione del cerchio di vetro. La tomba era poco più avanti, nella radura delimitata dalle stoppie e dalle file di pianticelle di melo, ormai estirpate e caricate su un altro camion. Il terreno era stato schiacciato dalle gomme dei camion e dagli stivali dei soldati; il fango continuava a cercare di afferrarlo e di trattenerlo. Arrivò nella radura e si guardò intorno alla ricerca della lapide di fortuna che segnava la tomba. Non c'era. I segni di pneumatici s'incrociavano nella radura come i quadri del cappotto dell'uomo che aveva fatto a pezzi. Guardò in tutte le direzioni, ritenne di non essere nel punto esatto. Corse ancora una trentina di metri verso ovest, si fermò ed esaminò di nuovo il terreno. Cadaveri denudati ingombravano la radura. Li scagliò lontano, come bambole rotte, mentre cercava segni della tomba. Dopo dieci minuti di ricerche frenetiche, trovò la lapide... ma giaceva per terra ed era coperta di fango. Si mise in ginocchio a scavare, usando le dita e gettandosi alle spalle manciate di terriccio, come un cane che cerchi l'osso sotterrato di cui non ricorda più la posizione. Trovò solo terra. Udì delle voci, alzò lo sguardo. Quattro soldati setacciavano il campo alla ricerca di oggetti sfuggiti alla brigata sciacalli. «Voi! Scavate qui!» gridò; e loro lo fissarono stupidamente, finché lui non si rese conto d'avere parlato in russo. «Scavate!» ordinò, ritrovando l'inglese. «Mettetevi in ginocchio e scavate tutto il maledetto campo!» Uno dei quattro scappò. Gli altri tre esitarono; uno domandò: «Cosa cerchiamo?» «Una borsa! Una borsa di pelle! È qui da qualche parte! È...» Di colpo si bloccò e girò lo sguardo sulla radura fangosa e devastata. Auto e camion corazzati vi erano passati sopra per tutta la notte. Centinaia di soldati avevano marciato nella radura e nel campo di granturco. La lapide poteva essere stata abbattuta un'ora, tre ore, sei ore prima. Forse era stata spostata dalle ruote d'un camion, presa a calci dagli stivali di cinquanta uomini. Impossibile dire il posto esatto della tomba. Fu colto da una rabbia frenetica.
Alzò la testa e urlò. I tre soldati fuggirono, urtandosi nella fretta d'allontanarsi. L'uomo con l'occhio scarlatto sollevò, afferrandolo per il collo e per il braccio teso e rigido, un cadavere ignudo. Lo gettò lontano. Prese a calci la testa di un altro cadavere, come se fosse pallone da football. S'imbatté in un terzo cadavere e gli torse il collo finché non sentì la spina spezzarsi con uno schiocco, come corda di chitarra scordata. Poi, sempre cercando con rabbia, si mise a quattro zampe come un animale e cercò un essere vivente da uccidere. Ma era da solo con i morti. Un momento, pensò. Un momento! Si alzò a sedere, con gli abiti sporchi di terriccio e il viso mutevole schizzato di fango nero. Sogghignò. Cominciò a sorridere, a ridacchiare, poi scoppiò a ridere con tanta forza che gli ultimi cani rimasti ad aggirarsi nei vicoli lo udirono e ulularono in risposta. Se è perduto, pensò, nessun altro potrà averlo! La terra l'aveva inghiottito e nessuno l'avrebbe mai ritrovato! Continuò a ridere, dandosi dello stupido. Il cerchio di vetro era perduto per sempre. Ed era stata la stessa Sister a buttarlo via nel fango! Si sentì molto meglio, più forte e più lucido. Le cose erano andate come dovevano. Era sempre la sua festa: la piccola puttana apparteneva a Macklin, mani umane avevano distrutto Mary's Rest, Sister aveva ceduto il suo tesoro alla terra nera e inesorabile... e lì sarebbe rimasto per sempre, accanto alle ossa carbonizzate del cowboy. Si alzò, soddisfatto che la tomba fosse perduta; a passo deciso attraversò il campo, diretto al punto in cui l'autista lo aspettava a bordo della jeep. Si girò per l'ultima occhiata. I denti luccicarono, bianchi nella faccia sporca di fango. Sarebbe occorsa una prodezza magica, rifletté, per far ricomparire quel maledetto cerchio di vetro... e l'unico mago di cui conoscesse l'esistenza era lui stesso. E ora ci rimettiamo in marcia, pensò. Portiamo con noi la piccola puttana, e portiamo anche Sister, lo sporco nero e il ragazzo, per farla rigare dritta. Gli altri cani vivano pure in queste miserabili baracche finché non marciranno... e non ci vorrà certo molto. Adesso andiamo nella Virginia occidentale e su monte Warwick. A trovare Dio. Sorrise. E l'autista, che lo aspettava a poca distanza, vide l'orribile smorfia inumana e rabbrividì. L'uomo con l'occhio scarlatto era ansioso d'incontrare "Dio", davvero ansioso. Dopo, la piccola puttana sarebbe stata
rinchiusa nella fattoria-prigione e poi... chissà. Gli piaceva, essere generale a cinque stelle. Un compito per il quale sembrava particolamente tagliato. Mentre lasciava vagare lo sguardo sulla distesa di cadaveri ammucchiati, si sentì il re di tutto quel che vedeva: era veramente a casa sua. 88 Al rimbombo che annunciava la cena, Josh sentì l'acquolina in bocca come un animale. La guardia batteva il calcio del fucile contro il portello posteriore del camion, segnalando ai tre prigionieri di muoversi in fondo alla loro prigione su ruote. Josh, Robin e Fratello Timothy conoscevano bene il rumore. Robin aveva resistito più di tutti, rifiutando per quattro giorni di mangiare la brodaglia... finché Josh non gliel'aveva cacciata in gola a forza. Dopo, quando Robin aveva voluto prenderlo a pugni, con uno spintone Josh l'aveva mandato lungo e disteso. Gli aveva detto che l'avrebbe costretto a vivere, gli piacesse o meno. «A quale scopo?» aveva domandato Robin, ansioso di fare a pugni, ma troppo furbo per assalire di nuovo il gigante nero. «Tanto, ci uccideranno comunque!» «Non m'importa una cicca se vivi o muori, teppista da strapazzo!» aveva risposto Josh, cercando di farlo arrabbiare perché ritrovasse la voglia di vivere. «Se fossi stato un uomo, avresti protetto Swan! Per oggi non ci ammazzeranno. Altrimenti non sprecherebbero cibo. Non pensi a Swan? Vuoi piantare tutto e lasciarla in pasto ai lupi?» «Amico, sei pazzo da legare! Swan sarà ormai morta, e Sister pure!» «Mai più! Le tengono in vita... come noi. Perciò, d'ora in avanti, mangia la tua razione o, perdio!, ti metto la faccia nella scodella e te la faccio succhiare dal naso! Chiaro?» «Sei grande» lo aveva schernito Robin, strisciando nel suo solito angolo e avvolgendosi nella coperta lisa. Ma da allora aveva mangiato il cibo senza esitazioni. Il portello posteriore del camion era forato da trentasette piccoli buchi — Josh e Robin li avevano contati molte volte, ne avevano fatto una sorta di gioco mentale, del tipo "unite con un tratto i puntini" — che lasciavano entrare l'aria e la luce fioca e grigia. Servivano anche da spioncini, per guardare che cosa accadeva nell'accampamento e la zona che attraversavano.
Ma ora il portello si alzò rotolando sui rulli. La guardia con il fucile — un sergente che Robin chiamava senza tanta simpatia "lo Smerdato" — abbaiò: «Fuori i secchi!» Accanto a lui, altre due guardie li tennero di mira, pronte a sparare, mentre prima Josh, poi Robin e infine Fratello Timothy portavano fuori il proprio secchio dei rifiuti. «Giù!» ordinò lo Smerdato. «In fila per uno! Scattare!» Josh socchiuse gli occhi nella luce nebbiosa del mattino. Il campo si preparava a muoversi; i soldati smontavano le tende, controllavano gli automezzi, facevano il pieno da bidoni di benzina posti sui camion delle provviste. Josh aveva notato che il numero dei bidoni calava rapidamente e che l'Esercito d'Eccellenza si era lasciato alle spalle parecchi veicoli. Diede un'occhiata al territorio, mentre si allontanava di una decina di metri a versare il secchio in un burrone. Sul lato opposto c'erano fitti cespugli e alberi spogli; in lontananza, montagne aspre e coperte di neve. Percorrevano una strada statale che portava fra quelle montagne, ma Josh non sapeva con esattezza dove si trovassero. Aveva perso la nozione del tempo; pensava che fossero trascorse due settimane dalla partenza da Mary's Rest, ma non ne era certo. Forse erano tre settimane. Comunque, a quest'ora si erano lasciati il Missouri molto indietro. E anche Glory e Aaron. Quando i soldati erano venuti a prendere lui e Robin, Josh aveva avuto solo il tempo di abbracciare Glory e dirle: «Tornerò». La donna l'aveva fissato senza vederlo. «Ascoltami» aveva detto lui, scuotendola... e finalmente lei era tornata in sé e aveva messo a fuoco il viso del bel gigante nero. «Tornerò. Cerca solo di resistere, capito? E prenditi cura del bambino, meglio che puoi.» «Non tornerai più. No. Non tornerai.» «Tornerò, ti dico! Non ti ho ancora vista con il vestito di lustrini. Vale la pena tornare per vederti, no?» Glory gli aveva toccato gentilmente il viso e Josh aveva capito che desiderava disperatamente credergli. Poi un soldato gli aveva piantato fra le costole incrinate la canna del fucile; Josh si era quasi piegato in due per il dolore... ma si era costretto a restare dritto e a uscire con dignità dal recinto. Quando i camion, le auto e le roulotte dell'Esercito d'Eccellenza avevano finalmente abbandonato Mary's Rest, una quarantina di persone avevano seguito il convoglio, gridando il nome di Swan, piangendo e gemendo. I soldati avevano usato quella gente come bersagli da tirassegno, finché gli
ultimi non aveva girato la schiena e si erano allontanati. «Riportare i secchi!» tuonò lo Smerdato, quando Robin e Fratello Timothy abbero vuotato i loro. I tre prigionieri riportarono nel camion i secchi e il sergente ordinò: «Scodelle pronte!» I tre presero le piccole scodelle di legno avute in dotazione; quasi nello stesso istante, dalla cucina da campo arrivò un pentolone di ghisa. La minestra acquosa di pomodori in scatola e di gallette sbriciolate fu versata nelle ciotole; il menù dei pasti distribuiti due volte al giorno cambiava di rado; a volte, nella brodaglia galleggiava una fettina di carne di maiale in scatola. «Bicchieri!» I prigionieri presentarono il bicchiere di stagno; un soldato li riempì d'acqua da una borraccia. Il liquido salmastro e oleoso... non proveniva certo dal pozzo... era ottenuto sciogliendo la neve e lasciava in bocca una patina, provocava dolori alla gola e ulcere alle gengive. Josh sapeva che nei camion della sussistenza c'erano grosse botti d'acqua pura, ma a loro non ne sarebbe toccata neppure una goccia. «Sul camion!» ordinò lo Smerdato. Quando i prigionieri ubbidirono, il portello a serranda del camioncino postale fu abbassato e chiuso a catenaccio: il momento del pasto era terminato. Dentro il camioncino, ciascuno andò al suo solito posto, per consumare il pasto: Robin in un angolo, Fratello Timothy nell'altro, Josh in mezzo. Al termine, Josh si avvolse nella coperta sbrindellata, perché l'interno del camioncino era sempre freddo, e si distese a dormire di nuovo. Robin andò avanti e indietro, per consumare le energie nervose. «Fai meglio a risparmiarti» disse Josh, con voce rauca a causa dell'acqua contaminata. «Per cosa? Oh, sì, oggi faremo il tentativo di fuga, eh? Certo! Meglio risparmiare energie!» Si sentiva debole e intorpidito, la testa gli doleva al punto da rendergli difficile pensare. Era la reazione all'acqua, dopo che a Mary's Rest quella del pozzo gli aveva purificato l'organismo. Ma per non impazzire poteva solo camminare avanti e indietro. «Lascia perdere i tentativi di fuga» gli disse Josh, forse per la cinquantesima volta. «Dobbiamo restare accanto a Swan.» «Non l'abbiamo più vista da quando ci hanno chiusi qui dentro! Amico, chissà cosa le hanno fatto, quei bastardi! Dobbiamo uscire, ti dico... e allora aiuteremo Swan a scappare!» «L'accampamento è grande. Anche se usciamo di qui, come la troviamo?
No, meglio aspettare, tenerci bassi e vedere che intenzioni hanno.» «Tenerci bassi?» rise Robin, incredulo. «Se ci teniamo ancora più bassi, avremo la terra sugli occhi! So io che intenzioni hanno. Ci terranno qui finché non marciremo, oppure ci spareranno lungo la strada.» La testa gli pulsava dolorosamente; fu costretto a mettersi in ginocchio e a stringersi le tempie, finché il dolore non si calmò. «Siamo morti» disse infine, rauco. «Solo, ancora non ce ne rendiamo conto.» Fratello Timothy leccò la ciotola fino all'ultima goccia; ora aveva in viso chiazze di barba nera e la pelle bianca come la striscia a zigzag che gli correva nei capelli unti. «L'ho vista» disse in tono prosaico... le prime parole pronunciate in tre giorni. Josh e Robin, sorpresi, rimasero in silenzio. Fratello Timothy alzò la testa; gli occhiali avevano una lente incrinata ed erano tenuti insieme da un pezzo di nastro adesivo. «Swan» disse. «L'ho vista.» Josh si alzò a sedere. «Dove? Dove l'hai vista?» «Là fuori. Girava intorno a una roulotte. L'altra donna, Sister, era lì anche lei. Le guardie le seguivano. Sarà stata l'ora d'aria.» Prese il gavettino di stagno e sorseggiò l'acqua come se fosse oro liquido. «Le ho viste... ieri l'altro, credo. Sì. Ieri l'altro. Quando sono uscito a leggere le carte topografiche.» Josh e Robin gli si avvicinarono, lo fissarono con interesse nuovo. Negli ultimi giorni, i soldati venivano a prendere Fratello Timothy e lo portavano al centro di comando del colonnello Macklin, dove alle pareti erano appese carte topografiche del Kentucky e della Virginia occidentale. Fratello Timothy rispondeva alle domande del capitano Croninger, di Macklin e dell'uomo che si faceva chiamare Friend; sulla cartina aveva indicato la stazione sciistica di monte Warwick, nella contea di Pocahontas, subito a ovest del confine della Virginia e delle macchie scure degli Allegheny. Ma quello non era il luogo in cui aveva trovato Dio, aveva detto; la stazione sciistica era ai piedi del lato orientale di monte Warwick, ma Dio viveva in alto, sul lato opposto, dove c'erano le miniere di carbone. Dai discorsi confusi e spesso incoerenti di Fratello Timothy Josh riuscì solo a stabilire che molto tempo prima l'uomo si era trovato in un pulmino, o con la famiglia o con un altro gruppo di superstiti, diretto a ovest, in un punto imprecisato della Virginia. Qualcuno li inseguiva: gente in motocicletta che aveva dato loro la caccia per sessanta chilometri. Il pulmino era uscito di strada o aveva fuso il motore, ma loro erano arrivati a piedi all'Hotel Monte Warwick, chiuso... e lì erano stati bloccati dai motociclisti,
che li avevano assaliti con machete, coltelli da macellaio e mannaie. Fratello Timothy ricordava di essere rimasto disteso bocconi in un cumulo di neve. Aveva il viso coperto di sangue e udiva flebili urla di sofferenza. Ben presto le grida erano terminate e dal camino di pietra dell'albergo si era alzato il fumo. Lui si era messo a correre e aveva continuato in mezzo ai boschi; poi aveva trovato una grotta abbastanza grande da offrirgli rifugio durante la lunga e gelida notte. Il giorno dopo si era imbattuto in Dio, che l'aveva ospitato finché i motociclisti non avevano smesso di cercarlo e non se n'erano andati. «Allora, cosa ci dici di lei?» lo incitò Robin, spazientito. «Stava bene?» «Chi?» «Swan. Stava bene?» «Oh, sì. Sembrava in buone condizioni. Un po' smagrita, forse. Per il resto, A-OK.» Sorseggiò l'acqua, la tenne sulla lingua. «Un'espressione che mi ha insegnato Dio.» «Sentimi bene, vecchio pazzo!» Robin lo agguantò per il colletto del cappotto sudicio. «In quale parte del campo l'hai vista?» «So dove la tengono. Nella roulotte di Sheila Fontana, nel settore DDC.» «DDC? Cosa sarebbe?» domandò Josh. «Il settore a luce rossa, lo chiamerei. Dove stanno le puttane.» Josh scacciò il primo pensiero che gli venne in mente: no, no, a Swan non avrebbero fatto fare la prostituta. Macklin voleva sfruttare in favore dell'esercito il suo talento, non avrebbe rischiato che la ferissero o le attaccassero qualche malattia. Josh compiangeva il pazzo che avesse provato ad approfittare di Swan. «Non... penserai...» La voce di Robin si affievolì. Il giovane si sentì mancare il fiato e girare la testa, come se avesse ricevuto un calcio allo stomaco. E se un segno sul viso di Josh avesse confermato il suo timore, sarebbe impazzito all'istante. «No» rispose Josh. «Non è lì per quello.» Robin gli credette. O volle credere, con tutte le sue forze. Lasciò Fratello Timothy e andò a sedersi contro la fiancata, ginocchia strette al petto. «Chi è Sheila Fontana?» domandò Josh. «Una prostituta?» Fratello Timothy annuì e tornò a sorseggiare lentamente l'acqua. «Le sorveglia per conto del colonnello Macklin.» Josh guardò la prigione di fortuna e sentì le pareti premergli addosso. Aveva nausea del metallo freddo, nausea della puzza, nausea di quei tentasette fori nel portello. «Maledizione! Non c'è proprio nessuna via d'usci-
ta?» «Sì» rispose Fratello Timothy. La risposta risvegliò di colpo l'attenzione di Robin. Fratello Timothy alzò il gavettino di stagno. Passò il dito sopra lo spuntone affilato rimasto al posto del manico. «Ecco la via d'uscita» disse piano. «Puoi usarlo per tagliarti la gola, se ne hai voglia.» Bevve l'acqua restante e offrì a Josh il gavettino. «No, grazie. Ma tu fai pure.» Fratello Timothy sorrise appena. Mise da parte il gavettino. «Lo farei, se avessi perso la speranza. Ma spero ancora.» «Che ne dite di far ridere anche me?» sbottò Robin. «Li guido da Dio.» Robin si accigliò. «Scusami se non mi metto a fare salti di gioia.» «Siamo tutt'orecchi» disse Josh. Fratello Timothy rimase in silenzio. Josh pensò che non avrebbe detto più niente. Ma l'uomo si appoggiò contro la fiancata e disse piano: «Dio mi ha rivelato che la preghiera per l'ora finale porterà gli artigli dei cieli sulla testa dei malvagi. Nell'ultima ora, tutto il male sarà spazzato via e il mondo sarà ripulito a nuovo. Dio mi ha detto... che avrebbe aspettato su monte Warwick.» «Aspettato cosa?» domandò Robin. «Di vedere chi avrebbe vinto» spiegò Fratello Timothy. «Il Bene, o il Male. E quando guiderò l'Esercito d'Eccellenza del colonnelo Macklin su per monte Warwick, Dio vedrà da sé chi sono i vincitori. Non permetterà al Male di vincere, oh, no.» Scosse la testa, con occhi sognanti e beati. «Vedrà che è giunta l'ora finale e pregherà la macchina che chiama gli artigli dei cieli.» Guardò Josh. «Capisci?» «No. Quale macchina?» «Quella che parla e che pensa, ora dopo ora, giorno dopo giorno. Non hai mai visto una macchina simile. L'ha costruita l'esercito di Dio, molto tempo fa. E Dio sa come usarla. Aspetta e vedrai.» «Dio non vive in cima a una montagna!» disse Robin. «Se lassù c'è qualcuno, sarà solo un pazzo che crede d'essere Dio.» Fratello Timothy girò lentamente la testa verso Robin. Il viso era teso; gli occhi, fermi. «Vedrai. Nell'ora finale, vedrai. Perché il mondo sarà di nuovo ripulito e tutto ciò che esiste non ci sarà più. L'ultimo Bene deve morire con il Male. Deve morire, perché il mondo rinasca. Tu devi morire. E anche tu.» Guardò Josh. «E io. E perfino Swan.»
«Ma certo!» lo derise Robin. Però la sincerità dell'uomo gli diede i brividi. «Non mi piacerebbe essere al tuo posto, quando il vecchio colonnello Mack scoprirà che l'hai preso in giro.» «Presto, giovanotto» disse Fratello Timothy. «Molto presto. In questo momento siamo sulla Statale 60 e ieri abbiamo attraversato Charleston.» Non era rimasto molto, a Charleston: solo edifici bruciati e deserti, un fiume salmastro e contaminato, forse duecento persone che vivevano in tuguri di legno e di fango. L'Esercito d'Eccellenza si era affrettato a depredare armi da fuoco, munizioni, indumenti e le misere provviste di cibo. L'EDE aveva già razziato cinque villaggi, da quando aveva lasciato Mary's Rest; nessuno aveva opposto la minima resistenza. «Seguiremo la Statale 60 fino all'incrocio con la 219» continuò Fratello Timothy «e poi gireremo a nord. Ci sarà una città fantasma chiamata Slatyfork, entro sessanta o settanta chilometri. Per un poco sono rimasto nascosto lì, quando ho lasciato Dio. Speravo che mi richiamasse, ma non l'ha fatto. Da questa città, una strada va a est, su per monte Warwick. E lì troveremo Dio in attesa.» Gli brillarono gli occhi. «Oh, sì! Lo so bene, perché ho sempre sperato di tornare da lui. Vi suggerisco di prepararvi all'ora finale... e di pregare per la vostra anima.» Strisciò nel suo angolo. Per un bel pezzo Josh e Robin lo udirono borbottare e pregare, con voce acuta e monotona. Robin scosse la testa e si distese sul fianco a pensare. Fratello Timothy aveva lasciato per terra il gavettino di stagno. Josh lo raccolse, lo fissò pensierosamente per qualche secondo. Passò il dito sul bordo tagliente del manico. Sul dito comparve una sottile riga di sangue. 89 «Ti prego» disse Sheila Fontana, toccando la spalla di Sister. «Posso... tenerlo di nuovo?» Sister, seduta per terra sul materasso, beveva l'orribile minestra che le guardie avevano appena portato. Lanciò un'occhiata a Swan, seduta lì vicino, con in mano la ciotola di brodaglia della prima colazione; poi alzò la coperta sottile stesa sulla metà inferiore del materasso, infilò la mano nello squarcio dal quale era stata tolta un po' d'imbottitura e frugò dentro. Ne trasse la logora borsa di cuoio e la tese a Sheila. Con gli occhi accesi, Sheila si sedette per terra, come avevano fatto un
tempo i bambini, la mattina di Natale. Aprì frettolosamente la cerniera, infilò la mano, prese il cerchio di vetro. Fuochi blu scuro ne incresparono la superficie, risplendettero per qualche secondo, si affievolirono. Il blu scuro si adeguò alle pulsazioni rapide di Sheila. «Oggi è più luminoso!» esclamò lei, accarezzando il cerchio di vetro, nel quale ormai rimaneva solo una punta. «Non ti pare più luminoso, oggi?» «Certo» convenne Swan. «Risplende più di ieri.» «Oh... è bello. Bellissimo.» Lo tese a Sister. «Fallo risplendere.» Quando Sister strinse le mani sulla fredda superficie del cerchio, le pietre preziose si accesero e il fuoco divampò lungo i filamenti imprigionati nel vetro. Sheila lo fissò, estasiata; nella luce meravigliosa, la sua faccia perdette la durezza e le rughe; i segni si ammorbidirono, il peso degli anni cadde via. Quella notte di parecchi giorni prima, Sheila aveva seguito alla lettera le istruzioni di Sister. Era andata nel campo, aveva cercato la lapide con la scritta RUSTY WEATHERS. Nel campo passavano camion e auto corazzate, i soldati le avevano rivolto offerte per prenderla in giro, ma nessuno l'aveva infastidita. In principio non era riuscita a trovare la lapide e aveva girato avanti e indietro per il campo. Alla fine l'aveva trovata, ancora infissa nel terreno, ma piegata bizzarramente su un lato e quasi divelta. Si era messa in ginocchio e con le dita aveva scavato la terra sconvolta. Finalmente aveva visto sporgere un angolo della borsa di cuoio e l'aveva dissotterrata. Senza aprirla, l'aveva nascosta sotto il cappotto, perché nessuno gliela portasse via. E aveva seguito l'ultima istruzione di Sister: aveva strappato la lapide, l'aveva portata lontano dalla tomba e l'aveva lasciata lì nel fango. Reggendo la borsa fra le pieghe del cappotto e tenendo nascoste le mani sporche di fango, era tornata alla roulotte. Una delle due guardie l'aveva presa in giro: «Ehi, Sheila, t'hanno pagato o l'hai fatto di nuovo gratis?» L'altro soldato, con un sorriso lascivo, aveva tentato di palparle i seni, ma Sheila gli aveva sbattuto la porta in faccia. «Bellissimo» mormorò Sheila, guardando risplendere le gemme. «Bellissimo.» Sheila era incantata dal cerchio e aveva mantenuto il segreto. Nel periodo trascorso insieme, aveva raccontato a Sister e a Swan che vita faceva prima del 17 luglio e dopo che lei e Rudy erano stati assaliti dal colonnello Macklin e da Roland Croninger nella terra delle larve, al limitare del
Grande Lago Salato. Ormai udiva di rado il bimbo piangere e Rudy non strisciava più verso di lei, negli incubi; appena il bimbo si metteva a piangere, Swan era sempre lì a farlo smettere. «Bellissimo» mormorò. Sister la fissò per un momento... poi spezzò l'ultima punta di vetro. «Ecco» disse, mentre la scheggia s'increspava di luci color smeraldo e zaffiro; la tese a Sheila, che guardava ammutolita. «Prendila. È tua.» «Mia?» «Certo. Non so dove saremo domani, o fra una settimana. Ma voglio che tu la conservi. Prendila.» Lentamente Sheila alzò la mano. Esitò. «Forza» disse Sister. Allora Sheila prese la scheggia e subito i colori divennero più cupi, si mutarono in un blu intenso. Ma nel profondo del vetro c'era una piccola scintilla color rosso rubino, simile alla fiammella d'una candela. «Grazie... grazie» disse Sheila, quasi sopraffatta dall'emozione. Non pensò che avrebbe avuto un valore di parecchie centinaia di migliaia di dollari, nel mondo d'una volta. Accarezzò amorevolmente la minuscola scintilla rossa. «Diventerà più vivida, vero?» domandò, piena di speranza. «Sì» rispose Sister. «Ne sono sicura.» Poi rivolse l'attenzione a Swan e capì che l'ora era giunta. Ricordò la frase del Rigattiere, quando voleva guardare che cosa c'era nella borsa: «Non si possono tenere per sempre le cose. Bisogna farle girare». Sapeva che cos'era il cerchio di vetro. Lo sapeva da molto tempo. Ora, spezzata l'ultima punta, la risposta era ancora più chiara. Beth Phelps l'aveva intuito, molto tempo prima, fra le macerie della chiesa, quando aveva detto che le ricordava la Statua della Libertà. «Potrebbe essere una corona, no?» aveva detto Beth. Anche l'uomo con l'occhio scarlatto l'aveva intuito, quando le aveva domandato dov'era: «Il cerchio. La corona» aveva detto. La corona. E Sister sapeva a chi quella corona apparteneva. L'aveva saputo appena aveva incontrato Swan a Mary's Rest e aveva visto crescere il nuovo granturco. Non si possono tenere per sempre le cose, pensò. Ma desiderava tenerla, davvero. Era diventata la sua vita. La corona di vetro l'aveva tirata su, l'aveva spinta avanti, un passo alla volta, in quella terra d'incubo. Lei si era aggrappata alla corona, con il fervore e la gelosia di un'accattona di New
York: aveva versato il sangue, suo e di altri, per tenerla. E adesso era il momento. Sì. Adesso era il momento. Il sentiero nel sogno era giunto al termine. Quando guardava nel vetro, vedeva splendide gemme e fili d'oro e d'argento, nient'altro. Toccava a Swan compiere il passo successivo. Si alzò dal materasso e si accostò a Swan, reggendo davanti a sé lo scintillante cerchio di vetro. Swan capì che era quella, la figura scorta nello specchio magico di Rusty. «Alzati» disse Sister, con voce tremante. Swan si alzò. «Questa appartiene a te» disse Sister. «È sempre stata tua. Io l'ho soltanto custodita.» Con il dito seguì un filamento di platino, che sfrigolò dentro il vetro. «Ma voglio che tu tenga a mente una cosa, e che non la scordi mai: se un miracolo può trasformare la sabbia in un oggetto come questo... allora immagina... sogna... cosa può diventare la gente.» E posò la corona sulla testa di Swan. Il cerchio si adattava alla perfezione. All'improvviso una luce dorata brillò in tutta la corona, si attenuò, tornò a brillare. La luminosità costrinse Sister e Sheila a socchiudere gli occhi; e all'interno dell'oro, altri colori sbocciarono come giardino ai raggi di sole. Sheila si portò la mano alla bocca; gli occhi le si riempirono di lacrime, cominciò a ridere e a piangere nello stesso tempo, mentre i colori le inondavano il viso. Sister sentì il calore che irradiava dal vetro, sorprendente e forte, come se imprigionasse una vampata di sole. La corona era così fulgida che lei fu costretta a ritrarsi d'un passo, ad alzare la mano a protezione degli occhi. «Cosa succede?» disse Swan, accorgendosi della luminosità e di un caldo formicolio al cuoio capelluto. Preoccupata, alzò la mano per togliersi la corona. Ma Sister disse: «No! Non toccarla!» La luce dorata, infuocata, ruscellava nei capelli di Swan. La ragazza si teneva eretta come se avesse un libro in equilibrio sulla testa, spaventata ma anche eccitata. Le luce d'oro divampò di nuovo. I capelli di Swan parvero in fiamme. La luce si diffondeva in filamenti sulla fronte e lungo le guance; il viso di Swan divenne allora una maschera di luce... uno spettacolo meraviglioso e terrificante, che quasi fece cadere in ginocchio Sister. L'intenso splendore si diffuse sulla gola e sul collo di Swan, serpeggiò come fumo dorato lungo le spalle e le braccia, s'increspò sulle mani e intorno alle dita. Sister allungò la mano verso Swan, penetrò nell'alone luminoso, sfiorò la
guancia... ma ebbe l'impressione d'incontrare una corazza, anche se scorgeva debolmente gli occhi e i tratti del viso. Non riuscì a toccare la pelle... né le guance, né il mento, né la fronte... niente. Oh, Dio, pensò Sister. La corona intesseva un'armatura di luce intorno al corpo di Swan. L'aveva ricoperta fin quasi alla cintola. Swan si sentiva come nel cuore d'una torcia, ma il calore non era spiacevole e l'infuocato riflesso sulle pareti e sul viso di Sister e di Sheila le parve solo lievemente sfumato d'oro. Si guardò le braccia, le vide in fiamme; arricciò le dita e le parve che funzionassero... non sentiva dolore, né rigidità, né altro. La luce si mosse con lei, aderì alla carne come una seconda pelle. Il fuoco cominciò a strisciarle lungo le gambe. Swan si mosse, nel bozzolo di luce, verso lo specchio. Lo spettacolo fu eccessivo anche per lei. Afferrò la corona e se la tolse. Il bagliore dorato impallidì quasi all'istante. Pulsò... pulsò... e l'armatura di luce evaporò come nebbia. Swan tornò quella che era prima, una semplice ragazza che reggeva un cerchio di vetro scintillante. Per un minuto non riuscì a trovare la voce. Poi tese la corona a Sister e le disse: «È meglio... che sia tu a tenerla per me.» Lentamente Sister accettò la corona. La rimise nella borsa e chiuse la cerniera. Poi, muovendosi come sonnambula, scostò la coperta e rimise la borsa dentro il materasso. Ma negli occhi aveva ancora i riflessi di quel fuoco dorato e non avrebbe mai più dimenticato, fino alla morte, lo spettacolo appena visto. Si domandò che cosa sarebbe successo se, per prova, avesse tentato di colpire con un pugno Swan. Ma non aveva alcuna voglia di ritrovarsi con le nocche rotte, solo per il gusto di scoprirlo. L'armatura avrebbe respinto anche la lama d'un coltello? Un proiettile? Le schegge di granata? Di tutti i poteri che il cerchio di vetro conteneva, questo era uno dei massimi... ed era riservato alla sola Swan. Sheila alzò davanti agli occhi il suo frammento di corona. La scintilla rossa era più intensa, ne era certa. Andò a nascondere nel materasso anche il frammento. E forse trenta secondi dopo, bussarono con forza alla porta. «Sheila!» chiamò una guardia. «Stiamo per metterci in marcia!» «Va bene» rispose lei. «Va bene. Siamo pronte.» «Tutto a posto, là dentro?»
«Sì, tutto a posto.» «Oggi guido io la motrice. Partiamo fra quindici minuti.» Una catena sferragliò, quando l'agganciarono alla maniglia per bloccare la porta. Seguì lo scatto secco del lucchetto. «Adesso sei a posto.» «Grazie, Danny!» disse Sheila. Quando la guardia se ne fu andata, Sister s'inginocchiò accanto a Swan e si premette sulla guancia la mano della ragazza. Ma Swan era persa nei suoi pensieri. Rivedeva campi verdeggianti e frutteti. Erano immagini di cose che si sarebbero verificate, oppure che avrebbero potuto verificarsi? Erano visioni della fattoria-prigione, con i campi curati da schiavi e da macchinari sferraglianti, oppure di luoghi privi di filo spinato e di brutalità? Non lo sapeva, ma capì che ogni chilometro percorso la portava più vicino alla risposta, dovunque si trovasse. Nel centro di comando di Macklin, ci si preparava a partire. Sul tavolo c'erano il prospetto delle assegnazioni di carburante della Brigata Meccanici. Roland era in piedi accanto a Friend, davanti alla carta della Virginia occidentale. Una linea rossa segnava il progresso compiuto lungo la Statale 60. Roland si accostò a Friend più che poteva: torturato dalla febbre, traeva conforto dal freddo che l'altro emanava. La notte prima, il dolore al viso l'aveva fatto impazzire: avrebbe giurato d'avere sentito le ossa spostarsi, sotto le bende. «Abbiamo solo nove bidoni» disse Macklin. «Se non troviamo altra benzina, dovremo abbandonare dei veicoli.» Alzò gli occhi dal prospetto. «Quella maledetta strada di montagna costringerà i motori a consumare più benzina. Sono sempre del parere di rinunciare e di andare alla ricerca di carburante.» Gli altri due non risposero. «Non avete sentito? Dobbiamo avere più benzina, prima di cominciare quella...» «Cosa gli prende oggi al colonnello Macreen?» Friend si girò verso di lui e Macklin vide con un sobbalzo d'orrore che la faccia dell'uomo era cambiata di nuovo: gli occhi erano obliqui; i capelli neri, incollati al cranio. La carne era d'un giallo pallido... Macklin vedeva una maschera che lo riportò al Vietnam e al pozzo dove le guardie Cong gli avevano tirato addosso i loro rifiuti. «Colonnello Macreen ha problemi?» La lingua di Macklin era diventata di piombo.
Friend gli si accostò, con un sogghigno sulla faccia da vietnamita. «Colonnello Macreen ha solo un problema: portare noi dove vogliamo andare.» La voce tornò alla cadenza americana. «Perciò lascia indietro dei camion e basta stronzate. E allora?» «Allora... non possiamo portare molti soldati e provviste, se lascio indietro dei camion. Cioè, diventiamo meno forti, di giorno in giorno.» «Bene, che cosa proponi di fare?» Friend tirò verso di sé una sedia, la girò, si sedette, incrociò le braccia sulla spalliera. «Dove andiamo a fare benzina?» «Non... non so. Cercheremo...» «Non sai. E finora i villaggi che hai razziato non avevano una goccia di benzina, giusto? Allora vuoi tornare indietro e piantare casino finché ogni camion e ogni macchina non avrà il serbatoio vuoto?» Piegò la testa di lato. «Tu che ne dici, Roland?» Il cuore di Roland sobbalzava ogni volta che Friend si rivolgeva a lui. La febbre gli aveva rallentato i riflessi, si sentiva pigro e pesante. Era sempre il Cavaliere del Re, ma in una cosa si era sbagliato: il colonnello Macklin non era il Re, e neppure lui, Roland. Oh, no... l'uomo seduto davanti al tavolo di Macklin era il Re. L'indiscusso, il vero e unico Re, che non beveva e non mangiava, che lui non aveva mai visto pisciare né andare di corpo, quasi non avesse tempo per cose così terrene. «Dico di andare avanti.» Roland sapeva che già parecchie auto corazzate e parecchi camion erano rimasti indietro. Il carro armato si era guastato due giorni dopo la partenza da Mary's Rest: un macchinario dello Zio Sam, del valore di alcuni milioni di dollari, era stato abbandonato lungo la strada del Missouri. «Andiamo avanti. Dobbiamo scoprire cosa c'è su quella montagna.» «Perché?» domandò Macklin. «Cosa ce ne viene? Io dico che...» «Silenzio» ordinò Friend. Gli occhi a mandorla lo trapassarono. «Ne abbiamo già discusso abbastanza, colonnello. Roland ha la sensazione che Fratello Timothy abbia visto su monte Warwick un complesso sotterraneo completo di generatori elettrici funzionanti e di computer. Ora, perché lassù c'è ancora energia elettrica? A cosa serve il complesso? Concordo con Roland sulla necessità di scoprirlo.» «Forse c'è anche un deposito di benzina» aggiunse Roland. «Giusto. Perciò andare a monte Warwick potrebbe risolvere il tuo problema. Sì?» Macklin continuò a guardare da un'altra parte. Nella mente rivide la fac-
cia della ragazza, di una bellezza straordinaria; la vedeva di notte, quando chiudeva gli occhi, come visione d'un altro mondo. Al risveglio, non sopportava il proprio odore. «Sì» rispose, a voce bassa, sottomessa. «Sapevo che avresti visto la luce, fratello!» disse Friend, con la voce squillante d'un predicatore revivalista degli stati meridionali. Un rumore di strappo lo spinse a girare di scatto la testa. Roland cadeva; aveva teso la mano per sostenersi e portava mezza carta topografica con sé. Colpì terra. Friend ridacchiò: «Chi cade fa bum.» In quell'istante Macklin quasi scattò in avanti a sbattere il palmo chiodato sul cranio del mostro, quasi conficcò i chiodi nella testa della belva che gli aveva strappato l'esercito e che l'aveva ridotto a un vigliacco piagnucolante... Ma mentre il pensiero gli nasceva e lui si tendeva per l'azione, una piccola fessura si aprì nella testa di Friend, poco più su della nuca. Dalla fessura, un occhio scarlatto dalla pupilla d'argento lo fissò. Macklin rimase immobile, le labbra stirate in una smorfia che snudava i denti. L'occhio scarlatto si raggrinzì e scomparve. Friend si girò verso Macklin. Sorrideva cordialmente. «Non prendermi per stupido, per favore» disse. Qualcosa colpì il tetto della roulotte: bump! Poi ancora: bump bump! Seguì una serie di tonfi che parvero spazzare il veicolo e scuoterlo gentilmente a destra e a sinistra. Macklin si alzò, con gambe di gomma; girò intorno al tavolo, andò alla porta. Rimase sulla soglia a guardare i chicchi di grandine grossi come palline da golf turbinare dal cielo plumbeo e rimbalzare con rumore sordo sui parabrezza, sui cofani, sui tettucci degli altri veicoli parcheggiati intorno. Il tuono echeggiò fra le nuvole come un tamburo in un barile; una lancia blu elettrico si scaricò chissà dove fra le montagne lontane. L'attimo dopo, la grandine cessò e cortine di pioggia nera e fredda scrosciarono sull'accampamento. Uno stivale colpì Macklin nel fondo schiena. Il colonnello perdette l'equilibrio e ruzzolò sui gradini, dove le guardie armate lo fissarono, immobili per lo stupore. Macklin si alzò in ginocchio; la pioggia lo colpì in viso, gli colò fra i capelli. Friend era fermo sulla soglia. «Viaggerai sulla motrice, con l'autista» annunciò. «La roulotte ora è mia!»
«Sparategli!» latrò Macklin. «Sparate a quel bastardo!» Le guardie esitarono; una alzò l'M-16, puntò. «Morirai in tre secondi» promise il mostro. La guardia, incerta, guardò Macklin, poi di nuovo Friend. Bruscamente abbassò il fucile, indietreggiò d'un passo, si asciugò dagli occhi la pioggia. «Aiutate il colonnello a tornare all'asciutto» ordinò Friend. «Poi passate parola: partiamo fra dieci minuti. Chi non è pronto, sarà lasciato indietro.» Chiuse la porta. Macklin scostò le guardie e si rialzò da solo. «È mia!» gridò. «Non me la toglierai!» La porta rimase chiusa. «Non... me la... toglierai» disse Macklin, ma più nessuno ascoltava. I motori cominciarono a borbottare e brontolare come belve ridestate. Nell'aria si diffuse l'odore di benzina e di gas di scarico; la pioggia puzzava di zolfo. «Non me la toglierai» mormorò Macklin. Si avviò verso il camion che trainava il centro di comando. La pioggia gli martellò le spalle. 90 L'Esercito d'Eccellenza si lasciò una scia di veicoli fuori uso, mentre svoltava nella Statale 219 e iniziava l'ascesa delle ripide propaggini occidentali degli Allegheny. Foreste morte coprivano il terreno; di tanto in tanto una città fantasma si sbriciolava lungo il nastro d'asfalto. Non c'erano esseri umani, ma una squadra di ricognizione a bordo d'una jeep inseguì e uccise due cervi, nei pressi delle macerie di Friars Hill... e s'imbatté in una cosa che valeva la pena riferire: un lago ghiacciato, color dell'ebano. Al centro sporgeva la sezione di coda d'un grosso velivolo . sprofondato nel lago. Due esploratori avanzarono sul ghiaccio a investigare, ma sotto il peso la lastra si spezzò e i due annegarono gridando aiuto. La pioggia si alternò alla neve, mentre l'Esercito d'Eccellenza proseguiva la salita oltrepassando le città morte di Hillsboro, Mill Point, Seebert, Buckeye e Marlington. Un camion della sussistenza terminò la benzina a quattro metri dal cartello arrugginito che segnalava l'ingresso nella contea di Pocahontas; fu spinto in un burrone, per consentire agli altri il passaggio. Cinque chilometri dopo il confine di contea, una tempesta di pioggia ne-
rastra e di grandine rese impossibile la guida e bloccò la colonna. Un altro camion fu spinto in un burrone; un autotreno soffocò con l'ultima boccata di benzina. Mentre pioggia e grandine battevano il tetto dell'Airstream, Roland Croninger si svegliò. Era stato sbattuto in un angolo, come un sacco di biancheria sporca; per prima cosa s'accorse d'essersela fatta addosso. Poi notò che per terra c'erano bende sporche e lacere; e grumi che sembravano di creta. Aveva ancora gli occhialoni, ma gli sembrava che stringessero. La faccia e la testa gli pulsavano, gonfi di sangue... e la bocca gli parve diversa dal solito, come se fosse storta. Il mio viso, pensò; il mio viso... è cambiato. Si alzò a sedere. Sul tavolo ardeva un lume. La roulotte tremò sotto la forza della tempesta. A un tratto Friend s'inginocchiò davanti a lui: una maschera pallida e graziosa, dai corti capelli biondi e dagli occhi d'ebano, che lo scrutava curiosamente. «Ehilà» disse Friend, con un sorriso gentile. «Hai fatto un buon sonno?» «Ho... ho male» rispose Roland. La sua stessa voce gli diede i brividi: era un rantolo malato. «Oh, mi spiace. Hai dormito per un bel pezzo. Ormai manca solo qualche chilometro per arrivare alla città di cui Fratello Timothy ci ha parlato. Sì, il sonno ti ha proprio rimesso a posto.» Roland alzò la mano per toccarsi la nuova faccia. Era assordato dal battito del cuore. «Aspetta, ci penso io» disse Friend. Tese la mano. Reggeva un pezzo di specchio. Roland vide il suo viso e scostò di scatto la testa. Rapidissima, l'altra mano di Friend gli strinse la nuca. «Su, non essere ritroso» gli sussurrò il mostro. «Prova a darti una buona, lunga occhiata.» Roland urlò. La pressione interna aveva deformato le ossa in una serie di orribili creste e incavature. La carne aveva un nauseante colore giallastro, screpolata e traforata come un campo di battaglia atomico. Crateri dai bordi rossastri, spalancati sulla fronte e sulla guancia destra, mettevano in mostra ossa color gesso. I capelli, ritirati verso la nuca, erano ispidi e canuti; la mascella inferiore sporgeva come se l'avessero brutalmente strappata dagli alveoli. Ma la cosa più orribile, la cosa che spinse Roland a gemere e a farfugliare,
era un'altra: la faccia era stiracchiata, tanto da trovarsi quasi sul lato della testa, come se i lineamenti si fossero liquefatti e poi rassodati orribilmente di sghembo. In bocca, i denti erano ridotti a mozziconi. Roland colpì con violenza la mano di Friend, sbatté via lo specchio e si rifugiò in un angolo. Friend si sedette sui talloni e scoppiò a ridere, mentre Roland cercava di strapparsi gli occhialoni. Lungo i bordi, la carne si lacerò e il sangue colò sul mento. Il dolore era troppo forte: gli occhialoni erano saldati alla faccia. Roland strillò e Friend strillò con lui, in un orrendo duetto. Friend infine sbuffò e si alzò... ma Roland gli afferrò le gambe e si strinse a lui, singhiozzando. «Sono un Cavaliere del Re» farfugliò. «Cavaliere del Re. Ser Roland. Cavaliere del Re... Cavaliere del Re...» Friend tornò a chinarsi. Il giovanotto era ridotto male, ma aveva ancora talento. Aveva utilizzato abilmente le ultime scorte di benzina e di cibo. Aveva fatto cantare Fratello Timothy come un evirato cantore. Friend passò la mano fra i capelli canuti di Roland. «Cavaliere del Re» mormorò Roland, nascondendo la faccia contro la spalla di Friend. Nella mente gli passarono alla rinfusa scene di Casa Terra, l'amputazione della mano di Macklin, il tempo passato a strisciare nel condótto verso la libertà, la terra delle larve, l'assassinio di Freddie Kempka e via di questo passo, in un panorama di perversità. «Ti servirò» guai. «Servirò il Re. Chiamami ser Roland. Sissignore! Gli ho fatto vedere, gli ho fatto vedere come un cavaliere del Re rende la pariglia, sissignore, sissignore!» «Sst» disse Friend, quasi canticchiando. «Stai zitto, ora. Stai zitto.» Alla fine Roland smise di singhiozzare. Disse con voce sonnolenta: «Mi... mi vuoi bene?» «Come uno specchio» rispose Friend. E Roland non aggiunse altro. Nel giro di un'ora, la tempesta diminuì. L'Esercito d'Eccellenza riprese faticosamente la marcia, nel crepuscolo sempre più scuro. Presto la jeep di ricognizione tornò giù dalla strada di montagna. I soldati riferirono al generale Friend che a meno di due chilometri c'erano edifici di legno. Un'insegna sbiadita diceva: Slatyfork General Store. 91 Arrivarono alle prime luci. Josh fu svegliato dai colpi contro il portello a
saracinesca; si alzò, con le ossa doloranti, per andare in fondo al camion, con Robin e con Fratello Timothy. Il lucchetto scattò e la saracinesca risalì sulle guide. Un biondo dagli occhi color ebano li guardava, affiancato da due soldati armati di fucile. Indossava l'uniforme dell'Esercito d'Eccellenza, con le spalline dorate e sul petto nastrini e medaglie che sembravano appartenere a un ufficiale nazista. «Buon giorno a tutti!» disse allegramente. Appena aprì bocca, Josh e Robin capirono chi era. «Abbiamo dormito bene stanotte?» «Freddo» rispose concisamente Josh. «Metteremo una stufa per te nella piantagione, Sambo.» Spostò lo sguardo. «Fratello Timothy? Vieni fuori, prego.» Mosse il dito piegato a gancio. Fratello Timothy si ritrasse; i due soldati salirono nel camioncino per farlo scendere. Josh si mosse per saltare addosso al primo, ma si ritrovò contro il petto la canna di un fucile e il momento passò. Nei pressi erano parcheggiate due jeep, con il motore che borbottava. In una c'erano tre persone: l'autista, il colonnello Macklin e un soldato armato di mitra; nell'altra, l'autista, un altro soldato armato, una figura rannicchiata dentro un pesante cappotto con cappuccio... e Swan e Sister, magre e pallide. «Swan!» gridò Robin, avanzando verso l'apertura. Anche Swan lo vide e gridò: «Robin!», alzandosi. Il soldato l'afferrò per il braccio e la tirò giù a sedere. Una guardia spinse indietro Robin. Lui s'avventò, stravolto dall'ira; l'uomo sollevò il calcio del fucile per sbatterglielo in testa. Josh scattò ad afferrare Robin e a tenerlo fermo anche se si dibatteva. Il soldato sputò per terra e scese dal camion. La saracinesca fu calata, il lucchetto scattò di nuovo. «Ehi, bastardo!» gridò Josh, scrutando da uno dei trentasette fori. «Ehi, dico a te, verme!» Si rese conto di gridare con la sua vecchia voce da wrestler. Friend spinse Fratello Timothy sulla prima jeep, poi si voltò con aria regale. «A cosa ti servono Swan e Sister? Dove le porti?» continuò Josh. «Andiamo tutti sul monte Warwick a incontrare Dio» rispose Friend. «La strada non è adatta a veicoli più pesanti di una jeep. Questo soddisfa la tua curiosità neroide?» «Non ti servono! Perché non le lasci qui?»
Friend sorrise con aria assente a venne più vicino. «Oh, sono troppo preziose, per lasciarle qui. Pensa se un'astuta vecchia volpe decidesse di volere maggior potere e le rapisse mentre non ci siamo? Non starebbe bene.» Si avviò alla jeep. «Ehi, un momento!» gridò Josh; ma l'uomo con l'occhio scarlatto già saliva sulle jeep, accanto a Fratello Timothy. I due veicoli partirono e scomparvero alla vista. «E adesso?» disse Robin, ancora rabbioso. «Ce ne restiamo qui con le mani in mano?» Josh non rispose. Pensava a una frase di Fratello Timothy: «L'ultimo Bene deve morire con il Male. Deve morire, perché il mondo rinasca. Tu devi morire. E anche tu. E io. E perfino Swan». «Swan non tornerà» disse Robin, con voce smorta. «E Sister neppure. Lo sai, vero?» «No, non lo so.» Ricordò che Fratello Timothy aveva detto: «Pregherà la macchina che chiama gli artigli dei cieli. Preparatevi all'ora finale». «Josh, io amo Swan» disse Robin. Gli strinse con forza il braccio. «Dobbiamo uscire di qui! Dobbiamo fermare... quel che sta per accadere, qualunque cosa sia!» Josh si liberò il braccio. Andò nell'angolo opposto del furgone e guardò per terra. Accanto al secchio di Fratello Timothy c'era il gavettino di stagno, con lo spuntone acuminato. Josh lo prese, sfiorò il bordo tagliente. Troppo piccolo per servire da arma. Josh aveva già scartato l'idea. Ma ora pensava a un vecchio trucco del wrestling, che si faceva con una lametta nascosta, quando l'impresario voleva più "sangue". Era pratica comune, per rendere più reale la violenza. Forse ora avrebbe dato un'altra illusione. Si mise al lavoro. Robin sbarrò gli occhi. «Che diavolo combini?» «Sta' zitto» lo ammonì Josh. «Ma tieniti pronto a urlare, quando te lo dico io.» Le due jeep, già lontane quattrocento metri, risalivano lentamente la tortuosa strada di montagna, viscida per la pioggia mista a neve. Un tempo la strada era asfaltata, ma il manto si era screpolato ed era scivolato via, lasciando uno strato di fango. Le gomme delle jeep slittavano e i veicoli
sbandavano, mentre il motore accelerava per fare presa. Nella seconda jeep, Sister strinse la mano di Swan. La figura incappucciata, seduta davanti, all'improvviso girò la testa verso di loro. Le due donne ebbero una rapida visione della faccia giallastra e butterata. Da dietro le lenti, gli occhi si soffermarono su Swan. Gli autisti lottavano a ogni metro. A destra c'era un basso guard-rail metallico; subito oltre, un precipizio roccioso che sprofondava per una ventina di metri in una gola alberata. La strada continuava a salire, mentre i pezzi d'asfalto cedevano sotto le ruote. Dopo una curva a sinistra, la strada era bloccata da un recinto di rete metallica alto due metri e mezzo; sul cancello c'era un cartello metallico sorprendentemente privo di ruggine: COMPAGNIA MINERARIA MONTE WARWICK. GLI INTRUSI SARANNO PERSEGUITI. Tre metri più avanti c'era un recinto di mattoni che forse un tempo ospitava un uomo di guardia. Il cancello era bloccato da una robusta catena munita di lucchetto. «Aprila» disse Friend al soldato con il mitra. L'uomo scese, si accostò al cancello, allungò la mano per saggiare la resistenza del lucchetto prima di farlo saltare. Si udì uno sfrigolio come di grasso in padella. Il soldato agitò le gambe, con la mano incollata alla catena, la faccia sbiancata e stravolta. Il mitra tartagliò spontaneamente, schizzando proiettili nel terreno. Abiti e capelli mandarono fumo, il viso divenne livido; poi la tensione stessa dei muscoli staccò il soldato dalla catena. L'uomo cadde a terra, continuò a contorcersi e a sobbalzare. L'odore di carne bruciata da corrente elettrica si diffuse nell'aria. Friend si girò di scatto, afferrò per la gola Fratello Timothy. «Perché non hai detto che c'era un recinto elettrificato?» tuonò. «Non... non lo sapevo! C'era un varco, l'altra volta. Forse Dio l'ha riparato!» Friend quasi lo bruciò, ma era chiaro che Fratello Timothy diceva la verità. Il recinto elettrificato rivelava pure che la fonte d'energia, qualunque fosse, funzionava ancora. Friend lasciò Fratello Timothy, scese dalla jeep e si avvicinò al cancello. Infilò la mano nella rete metallica e afferrò il lucchetto. Con le dita cercò di spezzarlo. Swan e Sister videro la manica fumare, la carne della mano rammollirsi come chewing-gum usata. Il lucchetto resistette. Friend sentiva la piccola puttana fissarlo e risucchiargli ogni energia. In un impeto di rabbia, afferrò con tutte le dita la rete metallica e diede uno strattone al
cancello, come un bambino che voglia aprirsi un varco in un campo da gioco cintato. Volarono scintille. Per un istante Friend fu avvolto da un alone blu elettrico, mentre l'uniforme dell'Esercito d'Eccellenza fumava e si anneriva, le spalline dorate s'incendiavano. I cardini del cancello cedettero. Friend gettò da parte il pezzo di rete metallica. «Non credevi che ci riuscissi, eh?» gridò a Swan. La faccia gli si era rammollita, gran parte delle sopracciglia e dei capelli era bruciata, ma l'espressione rimaneva placida. Era un bene, pensò Friend, che la ragazza finisse nel campo di prigionia, perché la puttana sarebbe morta sotto la frusta, piuttosto che imparare il rispetto. Fu costretto a concentrarsi più del solito per far tornare solide le mani. Le spalline bruciavano ancora. Le buttò via, prima di recuperare il mitra del soldato e tornare alla jeep. «Muoviamoci» ordinò. Due dita della destra erano rimaste bruciate e deformi: non riusciva a farle tornare come prima. Le due jeep attraversarono l'apertura e continuarono su per la strada di montagna che si snodava tra fitti boschi di pini e di latifoglie, privi di vita. Giunsero a una seconda garitta di mattoni, nella quale un cartello arrugginito ordinava d'identificarsi. In cima alla garitta c'era una specie di piccola telecamera. «Ci tenevano molto, alla sicurezza, per una semplice miniera di carbone» osservò Sister. Roland Croninger borbottò: «Silenzio!» Dalla foresta la strada sbucò in una radura. C'era un parcheggio lastricato, automobili vuote e, più avanti, un complesso di edifici di mattoni, a un solo piano, e una costruzione più grande, dal tetto di lamiera, addossata alla parete della montagna. Monte Warwick s'innalzava per altri sessanta metri, coperto d'alberi morti e di massi; sulla cima, tre torri arrugginite — antenne, capì Sister — sparivano nel turbine di nubi grigie. «Alt» disse Friend. L'autista ubbidì; un attimo dopo, anche la seconda jeep si arrestò. Per un istante Friend rimase a guardare il complesso, con occhi socchiusi e tutti i sensi all'erta. Non c'era il minimo movimento, la minima traccia di vita. Il vento gelido spazzava il parcheggio, il tuono brontolava fra le nubi. La pioggerellina nerastra riprese a cadere. «Scendi» disse Friend a Fratello Timothy. «Eh?» «Scendi» ripeté Friend. «Cammina davanti a noi e comincia a chiamarlo. Muoviti!» Fratello Timothy scese dalla jeep e si avviò nel parcheggio, sotto la pioggia nerastra. «Dio!» gridò; la voce rimbalzò contro i muri del grande
edificio dal tetto di lamiera. «Sono Timothy. Sono tornato da te!» Friend lo seguì a qualche metro di distanza, mitra al fianco. «Dio! Dove sei? Sono tornato!» «Continua a camminare» disse Friend; Fratello Timothy avanzò, con la pioggia che gli batteva sul viso. Sister era rimasta in attesa del momento buono. L'attenzione di tutti era concentrata sui due uomini. I boschi distavano una trentina di metri. Se fosse riuscita a tenere occupati gli altri, Swan avrebbe potuto farcela: non le avrebbero sparato. Se raggiungeva i boschi, poteva fuggire. Strinse la mano di Swan, mormorò: «Tieniti pronta» e si tese per dare un pugno in viso alla guardia accanto a lei. Fratello Timothy gridò gioiosamente: «Eccolo qui!». Sister alzò gli occhi. Più in alto, una figura era in piedi sul tetto in pendenza. Fratello Timothy cadde sulle ginocchia e alzò le mani al cielo, con il volto diviso fra l'estasi e l'orrore. «Dio!» gridò. «È l'ora finale. Il Male ha vinto! Ripulisci il mondo, Dio! Chiama gli artigli dei cie...» Proiettili di mitra gli squarciarono la schiena. Fratello Timothy cadde in avanti, sempre in ginocchio, in atteggiamento di preghiera. Friend girò verso il tetto la canna fumante del mitra. «Scendi!» ordinò. La figura rimase immobile, a parte l'agitarsi del lungo cappotto sbrindellato attorno al corpo magro. «Te lo ripeto per l'ultima volta» lo ammonì Friend. «Poi vedremo di che colore è il sangue di Dio.» La figura esitò ancora. Swan pensò che l'uomo con l'occhio scarlatto avrebbe sparato... ma in quel momento la figura sul tetto si avvicinò al bordo, sollevò un portello e cominciò a scendere la scaletta dai pioli corrosi infissa nella parete esterna dell'edificio. Giunse a terra, si avvicinò a Fratello Timothy, si chinò a esaminare i lineamenti del morto. Borbottò qualcosa, poi scosse la testa grigia, disgustato. Si rialzò, si accostò a Friend, fermandosi a mezzo metro. Sopra il groviglio sporco e arruffato della barba grigia, gli occhi erano incassati in crateri violacei, la pelle color avorio era un intrico di rughe. Una cicatrice dai bordi scuri attraversava la guancia destra, sfiorava l'occhio e attraversava il sopracciglio, fino all'attaccatura dei capelli, dove si divideva in un reticolato di cicatrici più piccole. La mano sinistra, che penzolava dalle pieghe del cappotto, era scura e raggrinzita, non più grossa della mano d'un bambino.
«Brutto bastardo» disse; con la destra schiaffeggiò Friend. «Aiuto!» gridava Robin Oakes. «Aiuto! Si ammazza!» Lo Smerdato sbucò da una vicina roulotte, armò la .45 e corse sotto la pioggia fino al camion. Da una direzione diversa giunse un altro soldato armato di fucile e un terzo lo seguì. «Presto!» gridò freneticamente Robin, guardando da un foro. «Aiutatelo!» Lo Smerdato spinse sotto il naso di Robin la canna della pistola. «Cosa succede?» «Josh! Vuole uccidersi! Aprite la porta!» «Già. Vaffanculo!» «Si è tagliato i polsi, stronzo! È in un lago di sangue!» «Il trucco era già vecchio ai tempi del cinema muto, coglioncino!» Robin infilò in un foro tre dita e mostrò le macchie di sangue vivo. «Si è tagliato i polsi usando il manico del gavettino! Se non lo aiutate, morirà dissanguato!» «Uno sporco nero in meno!» disse la guardia con il fucile. «Silenzio!» Lo Smerdato non sapeva come comportarsi. Ma sapeva quali sarebbero state le conseguenze, se fosse successo un incidente ai prigionieri. Il colonnello Macklin e il capitano Croninger erano tosti, ma il nuovo generale gli avrebbe tagliato le palle e le avrebbe usate come nappine. «Aiutatelo!» gridò Robin. «Non statevene lì fermi!» «Tirati via dalla porta!» ordinò il sergente. «Muoviti! Vai in fondo. Al primo gesto che non mi piace ti giuro che t'ammazzo!» Robin si ritirò. Il lucchetto scattò e la saracinesca fu alzata di trenta centimetri. «Buttalo fuori! Il gavettino! Buttalo fuori!» Il gavettino di stagno, tutto insanguinato, rotolò fuori. Il sergente tastò il bordo affilato e assaggiò il sangue per controllare che fosse vero. Era proprio sangue. «Maledizione!» imprecò. Spinse in alto la saracinesca. Robin rimase in fondo al camioncino, lontano dal portello. Rannicchiato a terra, ai suoi piedi, c'era il corpo di Josh Hutchins, disteso sul fianco destro, la faccia girata da una parte. Lo Smerdato salì sul camion, pistola puntata alla testa di Robin. Salì anche la guardia armata di fucile; il terzo soldato rimase a terra, con la pistola pronta. «Fatti indietro, con le mani in alto!» ordinò il sergente, avvicinandosi a Josh. Vide le macchie scure sui vestiti del nero e allungò la mano a toccare il
polso proteso. Ritrasse le dita coperte di sangue. «Cristo!» imprecò, rendendosi conto di trovarsi nei guai fino al collo. Rimise nella fondina la .45 e cercò di girare Josh, ma il nero era troppo pesante per lui. «Aiutami a muoverlo!» disse a Robin. Il giovane si chinò a prendere Josh per l'altro braccio. Josh emise un gemito profondo e gutturale. E nello stesso istante accaddero due cose: Robin afferrò il secchio dei rifiuti posto accanto al braccio di Josh e ne scagliò il contenuto in faccia all'uomo armato di fucile; Josh tornò in vita di colpo e con un destro centrò il sergente alla mascella, spezzandogliela. Lo Smerdato si piantò i denti nella lingua e urlò, ma intanto Josh gli aveva strappato dalla fondina la .45. La guardia accecata lasciò partire un colpo; il proiettile sibilò sopra la testa di Robin, che saltò addosso all'uomo, gli afferrò il fucile e gli tirò un calcio all'inguine. Il terzo soldato sparò contro Josh, ma il proiettile colpì alla schiena lo Smerdato e lo sbatté contro Josh come uno scudo. Josh si pulì il sangue dagli occhi e sparò a sua volta, ma il soldato già correva sotto la pioggia gridando aiuto. Robin diede un altro calcio al suo avversario e lo mandò a rotolare per terra giù dal camion. Josh sapeva che avevano un minuto al massimo, prima che il posto brulicasse di soldati; frugò nelle tasche del sergente cercando le chiavi del camion. Il sangue gli colava sul viso da tre tagli in fronte; Josh si era sporcato di sangue i polsi e i vestiti, per far credere d'essersi tagliato le vene. Negli incontri di wrestling, spesso una lametta nascosta nelle fasce veniva usata per procurare ferite superficiali ma appariscenti; Josh aveva usato lo stesso trucco. Due soldati correvano verso il camion. Robin prese la mira e ne abbatté uno, ma l'altro si gettò a terra e strisciò sotto una roulotte. Josh non trovava le chiavi. «Guarda nel cruscotto!» gridò; sparò alcuni colpi a caso, mentre Robin saltava a terra e correva alla cabina. Aprì la portiera, tastò il cruscotto. Non c'erano chiavi. Il soldato sotto la roulotte sparò due colpi che sibilarono vicino, costringendolo a gettarsi lungo e disteso. Dalla sinistra, un altro soldato aprì il fuoco, con un fucile automatico. Sopra la testa di Josh, i proiettili si conficcarono nelle pareti interne del camion, con il rumore di martelli contro il coperchio di bidoni della spazzatura. Robin frugò sotto il sedile e trovò solo cartucce vuote. Aprì il vano portaoggetti. Eccola lì! Nell'interno del vano c'era una chiave opaca e una .38 a canna corta. Infilò la chiave nel nottolino dell'accensione, la girò, schiac-
ciò il piede sull'acceleratore. Il motore tossicchiò con rumore di ferraglia, poi ruggì e scosse tutto il camion. Robin fissò a bocca aperta la leva del cambio. Merda! Quando avevano elaborato il piano di fuga, non aveva detto a Josh di avere un'esperienza di guida davvero limitata. Ma sapeva che bisognava premere la frizione per far entrare la marcia. Riuscì a mettere la prima, nonostante le proteste del meccanismo di trasmissione. Schiacciò l'acceleratore e mollò di colpo la frizione. Il camion balzò in avanti come spinto da razzi. Josh, sbattuto contro il bordo del cassone, evitò per un pelo d'essere scagliato fuori aggrappandosi al montante di scorrimento della saracinesca. Robin mise la seconda. Il camion s'impennò come un cavallo e si lanciò nell'accampamento, strisciò un'auto parcheggiata e disperse alcuni soldati allarmati dal fracasso. Un proiettile colpì il parabrezza e mandò schegge di vetro a ronzare attorno alla testa di Robin, che si riparò gli occhi e andò avanti. Inserì una marcia più alta, mentre il camion acquistava velocità. Nei capelli arruffati, i frammenti di vetro luccicavano come brillanti. Prese la .38, aprì il cilindro e vide che conteneva quattro proiettili. Scansò un altro veicolo parcheggiato, rischiò di urtare in pieno una roulotte, poi si ritrovò sulla strada sgombra e si allontanò a tutta velocità dal campo. Poco più avanti c'era la svolta a destra che portava su per monte Warwick; nel fango Robin vide i segni delle due jeep, mentre rallentava per abbordare la curva. Nel cassone, Josh perdette la presa e fu sbattuto violentemente contro la parete opposta; pensò che quello sarebbe stato certo un giorno da ricordare. Ma dovevano trovare Sister e Swan prima dell'ora finale... qualsiasi cosa fosse. Robin guidò alla disperata su per la strada di montagna. Le gomme slittavano da tutte le parti. Josh si resse meglio che poteva e vide le scintille che il camion provocò strisciando contro il guard-rail di destra. Una lastra d'asfalto scivolò all'improvviso da sotto le gomme posteriori. Robin si lasciò sfuggire il volante. Il camion puntò dritto contro l'orlo del burrone. Robin si buttò con tutto il suo peso contro il volante per girarlo, mentre premeva il pedale del freno. Le gomme sollevarono pennacchi di fango e il paraurti anteriore piegò di quindici centimetri il guard-rail, prima che il camion si fermasse. Le ruote cominciarono a scivolare sui pezzi d'asfalto e sulla poltiglia di fango e neve. Robin tirò il freno a mano, ma non c'era trazione per bloccare le gomme. Il camion slittò all'indietro acquistando velocità. Robin cercò di rimettere la prima, ma capì che non c'era più niente da fare. Aprì la por-
tiera, gridò: «Salta giù!» e si buttò. Josh non aspettò che glielo ripetesse. Saltò di lato nel fango e rotolò su se stesso, mentre il camion gli passava davanti. L'automezzo continuò la corsa: la parte anteriore si mise di traverso come se volesse girare in tondo. Una jeep con cinque soldati sbucò dalla curva e imboccò la salita a velocità troppo alta per fermarsi. Josh vide l'espressione d'orrore sul viso dell'autista. Il soldato d'istinto alzò le mani come se volesse respingere il metallo. Camion e jeep si scontrarono: il camion spinse il veicolo più piccolo al di là del guardrail e lo seguì nel burrone. Josh si sporse in tempo per vedere dei corpi umani roteare nel vuoto; udì il coro di urla acute, mentre sparivano nel burrone; la jeep, o il camion, esplose in una colonna di fiamme e di fumo nero. Josh e Robin non avevano tempo di riflettere su quanto fossero andati vicino a fare un viaggio di sola andata. Josh impugnava ancora la .45 e Robin aveva la .38 con quattro proiettili. Dovevano proseguire a piedi e sbrigarsi. Josh passò all'avanguardia e Robin lo seguì nella salita verso il regno di Dio. 92 Colpito dello schiaffo, Friend afferrò per il colletto l'uomo e lo tirò a sé. Sotto il cappotto, "Dio" portava gli stracci luridi di una camicia celeste a quadretti e un paio di calzoni marrone chiaro. Ai piedi aveva mocassini di pelle e calzini verde smeraldo. Quell'uomo malmesso dagli occhi spiritati, si disse Sister, sarebbe stato nel suo ambiente fra la gente bene di Manhattan, prima del 17 luglio. «Potrei farti male» mormorò Friend. «Non immagini nemmeno quanto potrei farti male...» L'uomo gli sputò in faccia. Friend lo gettò a terra e lo prese a calci nelle costole. L'uomo si rannicchiò nel tentativo di proteggersi, ma Friend continuò a colpirlo, come impazzito. Afferrò "Dio" per i capelli e gli diede un pugno in pieno viso, rompendogli il naso e spaccandogli il labbro inferiore. Poi sollevò di nuovo "Dio" e lo tenne in modo da mostrarlo agli altri. «Guardatelo!» gracchiò. «Ecco il vostro Dio! Un vecchio pazzo che ha solo merda nel cervello! Forza, guardatelo!» Lo afferrò per la barba e gli piegò la testa insanguinata verso Swan e Sister. «È una nullità!» Per sottolinearlo, gli diede un pugno nello stomaco, ma lo tenne dritto anche se al-
l'uomo cedettero le ginocchia. Si mosse per colpirlo di nuovo... e una voce calma e chiara disse: «Lascialo stare». Friend esitò. Swan era in piedi sulla seconda jeep, con la pioggia che le colava fra i capelli e sul viso. Non sopportava veder picchiare il vecchio, non poteva restarsene seduta in silenzio. «Lascialo andare» disse, mentre l'uomo con l'occhio scarlatto sogghignava, incredulo. «Hai capito? Levagli le mani di dosso.» «Faccio come voglio!» ruggì lui; posò le dita sulla guancia dell'uomo. Con le unghie cominciò a lacerargli la pelle. «Lo ammazzo, se voglio!» «No!» protestò Roland. «Non ammazzarlo! Cioè, dobbiamo prima trovare la scatola nera e la chiave d'argento! Siamo venuti per questo. Dopo, ammazzalo pure!» «Non dirmi cosa devo fare!» urlò Friend. «La festa è mia!» Lanciò un'occhiata di sfida al colonnello Macklin, che si limitò a starsene seduto con lo sguardo perso davanti a sé. Poi Friend incrociò lo sguardo di Swan e i loro occhi rimasero avvinti. Per un secondo pensò di vedere se stesso attraverso gli occhi di lei: una cosa brutta e orribile, una piccola faccia nascosta dietro una maschera di Halloween troppo grande, simile a un cancro sotto una garza. Lei mi conosce, pensò. Ed ebbe paura, la stessa paura provata quando il cerchio di vetro si era annerito nella sua stretta. E fu colpito anche dal ricordo della mela offerta e dal desiderio di prenderla. Troppo tardi! Troppo tardi! Vide, solo per un istante, chi e che cosa era lui stesso... e in quel breve attimo si conobbe, anche, in un modo che aveva messo da parte molto, molto tempo prima. Provò una crescente sensazione di ribrezzo di sé; all'improvviso, ebbe paura di vedere troppo: allora si sarebbe lacerato lungo le cuciture, sarebbe caduto a pezzi come un abito vecchio, si sarebbe perso nel vento. «Smettila di fissarmi!» urlò, con voce acuta; alzò la mano per proteggersi dallo sguardo di Swan. I suoi lineamenti si confusero come acqua torbida agitata da un sasso. Sentiva ancora la presenza di Swan, che lo prosciugava di energia come il sole toglie l'umidità dal legno marcio. Scagliò "Dio" per terra, indietreggiò e tenne discosto il viso. Vedeva di nuovo la verità: non doveva avere ribrezzo di sé, ma di lei! Era lei, la rovina e la nemica di tutto il creato, perché lei... Troppo tardi! Troppo tardi!, pensò, continuando a indietreggiare. ...perché lei voleva prolungare la sofferenza e la miseria della razza u-
mana. Lei voleva dare all'uomo false speranze e guardarlo mentre si dibatteva quando gliele avessero strappate. Lei era... Troppo tardi! Troppo tardi! ...il peggior tipo di Male, perché mascherava la crudeltà con la gentilezza, l'odio con l'amore, è troppo tardi! troppo tardi! troppo... «Tardi» mormorò; e abbassò la mano. Aveva smesso d'indietreggiare e si accorse che Swan era scesa dalla jeep ed era ferma davanti al vecchio dalla barba grigia. Gli altri osservavano la scena e c'era un lieve sorriso beffardo sul viso da teschio di Macklin. «Alzati» disse Swan al vecchio. Mantenne un portamento orgoglioso, ma dentro di lei i nervi erano nodi di tensione. "Dio" batté le palpebre, la guardò, si pulì il sangue dalle narici, fissò con terrore l'uomo che l'aveva colpito. «Va tutto bene» disse Swan; gli tese la mano. È solo una bambina, si disse Friend; non vale nemmeno uno stupro. E le piacerebbe che la stuprassi, anche, le piacerebbe che glielo sbattessi dentro su fino in gola! "Dio" esitò, incerto... poi mise la mano in quella di Swan. La stuprerò, decise Friend. Le mostrerò che è sempre la mia festa. Ora, in questo preciso, maledetto momento! Avanzò verso di lei come una potenza mostruosa e malefica; a ogni passo rese più evidente il rigonfio dei calzoni. Ridacchiò lascivamente. Swan capì che cosa c'era dietro quel ghigno lascivo. Lo aspettò, immobile. Il cupo rimbombo di un'esplosione lontana giunse fino a loro. Friend si bloccò di colpo. «Cos'era?» gridò, a tutti e a nessuno. «Cos'è stato?» «Proveniva dalla strada» disse un soldato. «Allora non state lì seduti! Muovete il culo e andate a vedere cos'è stato! Tutti quanti! Via!» I tre soldati attraversarono di corsa il parcheggio. Sparirono, armi in pugno, dietro la curva fittamente alberata. Ma Friend sentì che la sua arma si rattrappiva. Non poteva guardare la puttana senza pensare alla mela: quella aveva piantato anche dentro di lui una sorta di seme malefico che l'avrebbe abbrutito. Ma era sempre la sua festa, era troppo tardi per girare la schiena, l'avrebbe stuprata e poi le avrebbe schiacciato il cranio, quando avesse avuto ottant'anni e si fosse consumata le dita fino all'osso. Ma non oggi. Non oggi. Puntò il mitra contro Sister. «Scendi. Mettiti lì, con la piccola puttana.»
Swan lasciò uscire il fiato: ora Friend rivolgeva l'attenzione ad altre cose, ma era sempre pericoloso come un cane impazzito in una macelleria. Aiutò il vecchio ad alzarsi. L'uomo barcollò, ancora dolorante per il colpo che gli aveva rotto il naso; guardò la faccia deforme di Macklin e di Roland. «È davvero l'ora finale, no?» domandò a Swan. «Il male ha vinto. È l'ora della preghiera finale, no?» Swan non rispose. L'uomo le toccò la guancia, con dita affette da periostite. «Bambina? Come ti chiami?» «Swan.» Lui ripeté il nome. «Sei troppo giovane» aggiunse tristemente. «Troppo giovane, per morire.» Roland scese dalla jeep. Macklin rimase seduto, a spalle basse, adesso che Friend era di nuovo al comando. «Chi sei?» domandò Roland al vecchio. «Cosa fai quassù?» «Sono Dio. Sono caduto dal cielo in terra. Siamo atterrati nell'acqua. L'altro è vissuto per un poco, ma non ho potuto guarirlo. Poi ho trovato la strada fin qui, perché conosco questo luogo.» «Che cos'è la tua fonte d'energia?» "Dio" tese il dito e lo puntò contro la terra ai suoi piedi. «Il sottosuolo?» domandò Roland. «Dove? Nella miniera di carbone?» "Dio" non rispose; sollevò invece il viso al cielo e lasciò che la pioggia gli battesse sulla faccia. Roland trasse dalla fondina la pistola, armò il cane e puntò la canna contro la testa dell'uomo. «Rispondi, quando ti faccio una domanda, vecchio bastardo! Da dove proviene l'energia?» Gli occhi folli del vecchio incontrarono quelli di Roland. «D'accordo» disse; e annuì. «A-OK. Ti mostrerò, se ci tieni a vedere.» «Ci teniamo.» «Mi spiace, bambina» disse il vecchio a Swan. «Il male ha vinto ed è l'ora della preghiera finale. Tu capisci, vero?» «Il male non ha vinto! Non tutti sono così!» «È l'ora finale, bambina. Sono caduto dal cielo in un turbine di fuoco. Sapevo cosa bisognava fare, ma ho aspettato. Non riuscivo a recitare l'ultima preghiera. Ma ora posso farlo, perché vedo che il mondo dev'essere purificato.» Si rivolse agli altri. «Seguitemi» disse; e si avviò verso il grande edificio dal tetto di lamiera. «Colonnello?» disse Friend. «Aspettiamo te.» «Io resto qui.»
«Tu vieni con noi.» Friend gli puntò contro il mitra. «Roland, togli al colonnello la pistola, per favore.» «Signorsì» rispose subito Roland; si accostò a Macklin. Tese la mano. Il colonnello Macklin non si mosse. Ora la pioggia cadeva a scrosci, martellava la jeep, ruscellava sul viso di Macklin. «Roland» disse il colonnello, con voce priva di forza. «Abbiamo creato l'Esercito d'Eccellenza. Noi due insieme. Siamo stati noi a fare progetti per una nuova America, non... non quel mostro laggiù. Lui vuole soltanto distruggere tutto. Se ne frega dell'Esercito d'Eccellenza, della nuova America, del cibo per i soldati. Se ne frega della ragazza; vuole soltanto metterla nella fattoria-prigione per togliersela dai piedi. E se ne frega anche di te! Roland... ti prego... non seguirlo. Non fare quel che dice lui.» Allungò la mano per toccarlo, ma Roland arretrò. «Roland... ho paura!» mormorò Macklin. «Dammi la pistola.» In quel momento Roland disprezzò quel cane accucciato davanti a lui. Aveva già visto i segni della debolezza, quando Macklin delirava in seguito all'amputazione della mano. Ma ora capiva che quella debolezza arrivava fino nell'intimo: Macklin non era mai stato un Re, solo un vigliacco che si nascondeva dietro una maschera di guerriero. Premette la canna della pistola contro la testa del colonnello. «Dammi la pistola» ripeté. «Ti prego... pensa a tutto quel che abbiamo passato... tu e io, insieme...» «Ho un nuovo Re, ora» disse Roland, secco. Guardò Friend. «Lo ammazzo?» «Come vuoi.» Roland tese il dito sul grilletto. Macklin capì che la morte era vicinissima. Il suo odore untuoso gli diede una scossa d'energia. Irrigidì la schiena, si raddrizzò sul sedile. «Chi ti credi di essere?» disse con veemenza. «Sei una nullità! Io lottavo per la vita in un campo di prigionia vietcong quando tu smerdavi ancora i pannolini! Sono il colonnello James B. Macklin dell'Aviazione degli Stati Uniti! Ho combattuto per la mia vita e per il mio paese, bambino! Metti via quel cazzo di pistola!» Roland esitò. «Non ci senti? Se vuoi la mia arma, chiedila con il rispetto che merito!» Ogni muscolo del corpo si tese, mentre aspettava che la pistola sparasse. Ma Roland non si mosse. Friend rise piano. "Dio" li aspettava una decina di metri più in là di Swan e di Sister.
Lentamente Roland spostò la pistola dalla tempia di Macklin. «Mi dia... la pistola... signore» disse. Macklin la tolse dalla fondina e la gettò a terra; poi si alzò e scese dalla jeep... ma senza fretta, con calma. «Andiamo, bambini» disse Friend. Mosse il mitra in direzione di Swan e di Sister; tutti insieme seguirono "Dio" dentro l'edificio dal tetto di lamiera. Appena entrati, fu chiaro che l'edificio era solo un enorme capannone che proteggeva l'ingresso della miniera. Il pavimento era di terra battuta, alcune lampadine pendevano dal soffitto e davano una luce fioca e giallastra. Fasci di cavi e rotoli di fil di ferro erano disseminati in giro, 1tre a tratti di rotaia, mucchi di traversine marce e altri rifiuti che indicavano come un tempo monte Warwick vantasse una fiorente miniera di carbone. Una scaletta di ferro portava a una serie di passerelle in alto; in fondo all'edificio, dove la costruzione si univa alla parete della montagna, c'era il rettangolo buio dell'ingresso della miniera. "Dio" li guidò su per la scaletta e lungo una passerella, fino al pozzo della miniera. Il tunnel, illuminato dalla fioca luce giallastra di alcune lampadine elettriche, scendeva con una pendenza assai accentuata. Sui binari c'era un'ampia gabbia di rete metallica, alta circa due metri e larga uno e mezzo, con ruote simili a quelle dei carrelli ferroviari. All'interno c'erano panche imbottite e cinture di sicurezza per bloccare i viaggiatori. Fratello Timothy aprì il retro della gabbia e aspettò che gli altri entrassero. «In quella trappola non ci entro!» protestò Sister. «Dove ci porti?» «Laggiù.» "Dio" indicò il tunnel. La luce gialla si rifletté su un pezzetto di metallo nella manica della camicia celeste a quadretti. Il vecchio portava i gemelli. L'uomo guardò Friend. «Non è lì che vuoi andare?» «Cosa c'è lì dentro?» domandò Roland. Aveva perso i modi bruschi e minacciosi. «La fonte d'energia che cercavi. E altre cose che forse t'interesserà vedere. Vuoi andarci o no?» «Entra prima tu» disse Friend. «A-OK.» "Dio" si girò verso la parete di roccia, dove c'era un pannello con due pulsanti, uno rosso e uno verde. Premette il pulsante rosso e nel tunnel si alzò un ronzio di macchinari. Poi entrò nella gabbia, si sedette su una panca e si allacciò la cintura di sicurezza. «Tutti a bordo!» disse allegramente. «Ci muoviamo fra dieci secondi.» Friend fu l'ultimo a entrare. Si sistemò in fondo alla gabbia, senza guar-
dare Swan. Il rumore di macchinari aumentò d'intensità, fu seguito da quattro scatti che sbloccavano i freni delle ruote. La gabbia cominciò a scendere, trattenuta da un cavo d'acciaio che si srotolava lentamente dietro di loro. «Scenderemo per più di novanta metri» spiegò "Dio". «Trent'anni fa, questa era una miniera attiva. Poi il governo degli Stati Uniti l'ha comprata. Naturalmente la roccia è rinforzata da cemento armato.» Mosse il braccio per indicare le pareti e il tetto. Sister vide di nuovo lo scintillio di un gemello. Ma stavolta era vicina: le parve d'avere già visto un gemello simile, con l'iscrizione incisa. «È stupefacente quel che sono in grado di fare gli ingegneri» continuò il vecchio. «Hanno aggiunto condotti di aerazione e pompe d'aria; perfino le lampadine hanno una durata di sette, otto anni. Ma ormai cominciano a bruciarsi. Alcuni progettisti di questo impianto hanno realizzato Disney World.» Sister gli prese la manica e guardò da vicino il gemello. Vi era impresso un emblema azzurro, bianco e oro, assai riconoscibile; l'iscrizione lucidissima diceva: SIGILLO DEL PRESIDENTE DEGLI STATI UNITI D'AMERICA. Le dita di Sister s'intorpidirono e lasciarono la manica. Il vecchio, impassibile, la guardò. «Cosa c'è... là sotto?» domandò Sister. «Artigli» rispose lui. «Gli artigli dei cieli.» Attraversarono un lungo tratto dove le lampadine erano fulminate; quando si avvicinarono alla successiva zona illuminata, gli occhi del Presidente bruciavano di febbre interiore e fissavano Friend, in fondo alla gabbia. «Vuoi vedere la fonte d'energia?» disse, con il fiato che si condensava nell'aria fredda «La vedrai. Oh, sì: ti prometto che la vedrai.» Dopo un minuto, i freni stridettero bloccando le ruote, mentre la gabbia vibrava. L'insolito mezzo di trasporto urtò contro una robusta barriera ammortizzante e si fermò. Il Presidente si sganciò la cintura di sicurezza, aprì la sezione anteriore della gabbia e uscì. «Da questa parte» disse con un gesto, come un folle cicerone. Roland spinse Swan davanti a sé; imboccarono un corridoio a destra delle rotaie. Le lampadine brillavano a intervalli irregolari. Il corridoio terminò all'improvviso contro una parete di roccia scabra. «È bloccato!» disse Roland. «Un vicolo cieco!» Ma Friend scosse la testa: aveva già notato la piccola scatola nera incassata nella parete di roccia, a un metro e mezzo d'altezza. La parte supe-
riore sembrava una sorta di schermo, mentre quella inferiore era una tastiera. Il Presidente si portò alla gola la mano buona e dalla camicia tirò fuori la cordicella di pelle intrecciata che gli pendeva sul petto. Vi erano appese diverse chiavi... e il Presidente ne scelse una, piccola e argentata. La baciò, poi la inserì nella serratura della scatola nera. «Un momento!» disse Friend. «Cosa fa quell'affare?» «Apre la porta» rispose l'uomo; girò la chiave verso sinistra. Subito sullo schermo comparvero alcune lettere verde chiaro: SALVE! BATTI IL CODICE ENTRO CINQUE SECONDI. Swan e Sister guardarono il Presidente battere sulla tastiera tre lettere: AOK. CODICE ACCETTATO, rispose lo schermo. BUONA GIORNATA! Con un ronzio di meccanismi e lo scatto attutito di serrature che si aprivano in rapida successione, la falsa parete di roccia si socchiuse come il portone di una solida cripta, sibilando su cardini idraulici. Il Presidente l'aprì quanto bastava per farli entrare. Dalla sala provenne un bagliore bianco e pulito. Roland allungò la mano per prendere la chiave d'argento, ma il vecchio esclamò: «No! Lasciala stare. Se la tocchi quando la porta è aperta, il pavimento si elettrifica». Le dita di Roland si bloccarono a un centimetro dalla chiave. «Prima tu!» Friend spinse il vecchio nella sala. Poi vi spinse anche Swan e Sister. Seguirono Macklin e Roland. Per ultimo entrò l'uomo con l'occhio scarlatto. Tutti strinsero gli occhi alla vivida luce, nella sala dalle pareti bianche e dall'aria asettica, dove sei computer mainframe conversavano in silenzio, mentre i nastri dati giravano lentamente dietro vetrine azzurrate. Il pavimento era rivestito di gomma nera; si udiva il ronzio discreto del sistema di purificazione che immetteva aria pulita da piccole griglie metalliche nelle pareti. Al centro della sala, sopra un tavolo rivestite di gomma, c'era un'altra scatola nera grossa quanto un apparecchio telefonico, collegata ai computer mediante un grosso fascio di cavetti. Roland era estasiato: da un mucchio di tempo non vedeva un computer, aveva quasi scordato quanto fossero belli; per lui, i mainframe erano le Ferrari dei computer, materia cerebrale pulsante spremuta dentro contenitori di lucida plastica e di metallo. Quasi li sentiva respirare. «Benvenuti a casa mia» disse il Presidente. Si accostò a un pannello metallico incassato nella parete, munito di un piccolo interruttore e di una targhetta di plastica con la scritta PERICOLO. Inserì il dito nell'apposita sca-
nalatura e spinse la levetta verso l'alto. La porta si chiuse e i catenacci elettronici scattarono. Dall'interno, la falsa parete di roccia era una lastra d'acciaio. Swan e Sister si erano girate a guardarlo. Friend aveva il dito sul grilletto del mitra e Macklin fissava con aria intontita il vecchio. «Ecco» disse il Presidente. «Ecco.» Si scostò dal pannello, annuendo con soddisfazione. «Apri la porta!» esclamò Macklin. Aveva la pelle d'oca. Le pareti gli premevano addosso. Quella sala gli ricordava troppo Casa Terra. «Non mi piace stare chiuso! Apri la maledetta porta!» «È bloccata» rispose il vecchio. «Aprila!» gridò Macklin. «Per favore, apri» disse Swan. Il Presidente scosse la testa grigia. «Mi spiace, bambina. Se si chiude la porta dall'interno, la si chiude per sempre. Ho mentito, a proposito della chiave. Non volevo che lui la togliesse dalla serratura. Vedi, si può aprire la porta anche dall'interno, se si ha la chiave d'argento. Ma ora il computer l'ha bloccata... e non c'è modo d'uscire.» «Perché?» disse Sister, con occhi sbarrati. «Perché ci hai chiusi dentro?» «Perché resteremo qui fino alla morte. Gli artigli dei cieli distruggeranno tutto il male... fino all'ultima briciola. Il mondo sarà purificato e potrà ricominciare... pulito e nuovo. Capisci?» Il colonnello Macklin assalì la porta d'acciaio inossidabile, martellandola con la mano buona. Il sistema isolante della sala assorbì come una spugna il rumore e Macklin non riuscì nemmeno a scalfire la lastra d'acciaio. La porta non aveva maniglie, nessun appiglio. Macklin si girò e si lanciò contro il vecchio, sollevando la destra micidiale. Ma Friend lo fermò, con una manata di taglio alla gola. Macklin soffocò, cadde sulle ginocchia, gli occhi lucidi di terrore. «No» disse Friend, come un adulto che punisse un bambino cattivo. Guardò il vecchio. «Cos'è questo posto? A cosa servono queste macchine? Da dove viene l'energia?» «Raccolgono dati trasmessi dai satelliti» spiegò il Presidente, indicando i mainframe. «Io so com'è lo spazio. Ho guardato la Terra dall'alto. Una volta credevo... che fosse un buon posto.» Batté lentamente le palpebre, mentre il ricordo della caduta in un turbine di fuoco si agitava di nuovo come un incubo ricorrente. «Sono caduto dal Cielo sulla terra. Sì. Sono caduto. E sono venuto qui, perché sapevo d'essere vicino a questo posto. C'erano due
uomini, qui; ma non ci sono più. Avevano cibo e acqua sufficienti per anni interi. Credo che... che uno sia morto. Non so cosa sia accaduto all'altro. È andato via, semplicemente.» S'interruppe per un momento, riacquistò lucidità. Fissò la scatola nera sul tavolo rivestito di gomma e vi si avvicinò con reverenza. «Questo» disse «farà scendere gli artigli dei cieli.» «Gli artigli dei Cieli? Cosa significa?» «ARTIGLI» disse il Presidente, come se l'altro dovesse saperlo. «Azione di Risanamento della Terra mediante Intervento Globale di Livello Irreparabile. Guarda... e ascolta.» Batté sulla tastiera il codice: AOK. I nastri dei mainframe iniziarono a girare più rapidamente. Roland li osservò, affascinato. Una voce femminile, dolce e seducente, fresca come unguento sulla, carne viva, filtrò dagli altoparlanti: «Buon giorno, signor Presidente. Sono in attesa di sue istruzioni». La voce ricordò a Sister un'assistente sociale di New York che, in una gelida notte di gennaio, le aveva cortesemente spiegato che non c'era più posto nel dormitorio pubblico. Il Presidente batté: E qui è la Belladonna, la Dama delle Rocce, la Dama delle situazioni. «Ecco qui l'uomo con le tre aste, ecco la Ruota» rispose la voce incorporea del computer. «Favoloso!» mormorò Roland. E qui è il mercante con un occhio solo, e questa carta «Che non ha figura, è qualcosa che porta sul dorso» Il Presidente batté: E che a me non è dato vedere. «Cosa combini?» gridò Sister, vicinissima al panico. Swan le strinse la mano. Non trovo l'Impiccato, batté il Presidente. «Temete la morte per acqua» rispose la voce femminile. Ci fu una pausa, poi: «ARTIGLI armati, signore. Dieci secondi per annullare.» Il presidente batté sulla tastiera due lettere: No. «Sequenza iniziale d'annullamento negata. Attivata procedura di lancio ARTIGLI, signore.» La voce era fresca come il ricordo di una limonata in un torrido pomeriggio d'agosto. «ARTIGLI a bersaglio fra tredici minuti e quarantotto secondi.» La voce del computer tacque. «Cos'è successo?» Friend era acutamente interessato. «Cos'hai fatto?» «Fra tredici minuti e quarantotto secondi» disse il Presidente «due satelliti entreranno nell'atmosfera, sopra i poli. Quei satelliti sono piattaforme
di missili nucleari che colpiranno le calotte glaciali, ciascuno con trenta testate atomiche da venticinque megaton.» Lanciò un'occhiata a Swan, distolse rapidamente lo sguardo, perché la bellezza della ragazza lo inteneriva. «Le esplosioni sposteranno l'asse terrestre e scioglieranno i ghiacciai. Il mondo sarà purificato, capite? Tutto il male sarà lavato via dagli artigli dei cieli... e un giorno tutto ricomincerà da capo, e tutto sarà buono, com'era una volta.» Represse una smorfia di dolore. «Abbiamo perso la guerra» disse. «Abbiamo perso... e adesso dobbiamo cominciare tutto da capo.» «Una... macchina dell'Apocalisse» mormorò Friend. Un sogghigno gli scivolò sulle labbra. Il ghigno si allargò in una risata e gli occhi brillarono di gioia maligna. «Una macchina dell'Apocalisse!» gridò. «Oh, sì! Il mondo dev'essere ripulito! E tutto il Male va lavato via! Come lei!» Puntò il dito contro Swan. «L'ultimo Bene deve morire con il Male» replicò il Presidente. «Deve morire, affinchè il mondo rinasca.» «No... no...» gracchiò Macklin, stringendosi la gola contusa. Friend rise e guardò Sister, anche se in realtà parlava a Swan. «Te l'avevo detto!» canticchiò. «Te l'avevo detto che avrei fatto fare il lavoro da una mano d'uomo!» La fredda voce femminile disse: «Tredici minuti all'esplosione». 93 Josh e Robin s'imbatterono nel soldato morto davanti al cancello aperto. Josh si chinò sul cadavere. Robin udì uno sfrigolio, ma non riuscì a capire da dove provenisse. Allungò la mano per toccare la rete metallica. «No!» disse Josh bruscamente; le dita di Robin si bloccarono a qualche centimetro dalla rete. «Guarda qui.» Josh aprì la destra del morto e gli mostrò il segno della catena, impresso a fuoco nella carne. Varcarono l'apertura dove c'era stato il cancello, mentre i cavi strappati del recinto sibilavano come un nido di vipere. Pioveva a dirotto. Grigie cortine d'acqua frustavano gli alberi secchi ai lati della strada. Josh e Robin erano inzuppati e tremanti; la superficie sconvolta della strada alternativamente bloccava i loro stivali nel fango e poi li faceva scivolare su chiazze di ghiaccio. Si muovevano più in fretta che potevano, perché sapevano entrambi che Swan e Sister erano chissà dove più avanti, alle mercé dell'uomo con l'occhio scarlatto, e sentivano che il tempo correva in fretta verso l'ora finale.
Ultimando una curva, Josh si fermò di colpo e Robin lo udì dire: «Maledizione!» Tre soldati, quasi invisibili sotto la pioggia, scendevano la strada e puntavano dritti verso di loro. Due videro Josh e Robin e si fermarono a meno di dieci metri; l'altro continuò per qualche passo, prima di fermarsi anche lui e fissare stupidamente a bocca aperta le due figure che aveva di fronte. Passarono forse quattro secondi. Josh pensò che lui e gli altri si erano tramutati in statue dalle ossa di piombo. Non sapeva che cosa fare... e all'improvviso la scelta fu fatta per lui. Simili a due bande di pistoleri rivali che si incontrino sulla via a mezzogiorno, si misero a sparare senza mirare; nei secondi successivi ci fu una confusione di movimento, di panico, di lampi di colpi di fucile, mentre i proiettili sibilavano verso il bersaglio. «Dieci minuti all'esplosione» annunciò la voce. «Fermali» disse Swan all'uomo coperto di cicatrici che un tempo era stato il presidente degli Stati Uniti. «Per favore.» Il viso era calmo, a parte il rapido pulsare di una vena alla tempia. «Ti sbagli. Il Male non ha vinto.» Il Presidente sedeva per terra, a gambe incrociate, occhi chiusi. Il colonnello Macklin si era alzato e batteva senza forza sulla porta d'acciaio, mentre Roland Croninger andava avanti e indietro fra i computer farneticando d'essere un Cavaliere del Re e passando amorevolmente le dita sui mainframe. «Il Male non vince, se non gli permetti di vincere» disse piano Swan. «C'è ancora una possibilità. La gente tornerà come prima. Imparerà a vivere con quel che ha. Se non intervieni... il Male avrà vinto davvero.» Il Presidente rimase in silenzio, come un idolo pensoso. Poi, senza aprire gli occhi, disse: «Era un mondo bellissimo. Lo so. L'ho visto dall'immenso spazio buio, ed era buono. So com'era. So com'è ora. Il Male perirà nell'ora finale, bambina. Il mondo sarà ripulito dagli artigli dei cieli». «Uccidere tutti non renderà pulito il mondo. Renderà anche te parte del Male.» Il Presidente non si mosse, non rispose. Dopo un poco aprì bocca per parlare, ma la richiuse, come se i pensieri l'avessero sopraffatto. «Nove minuti all'esplosione» disse la voce registrata di una donna ormai morta da tempo. «Per favore, fermalo.» Swan s'inginocchiò accanto al vecchio. «Fuori c'è gente che vuole vivere. Ti prego...» Toccò la spalla magra del braccio av-
vizzito. «Ti prego, concedile una possibilità.» Il Presidente aprì gli occhi. «La gente conosce la differenza fra il Bene e il Male» continuò Swan. «Le macchine, no. Non lasciare che siano queste macchine a prendere la decisione, perché sarà quella sbagliata. Se puoi... ti prego, fermale.» Il Presidente la fissò con occhi morti e disperati. «Puoi fermarle?» gli domandò Swan. Lui chiuse gli occhi. Li riaprì, guardò nei suoi. Annuì. «Come?» «Parola in codice» rispose. «Una parola in codice... mette fine alla preghiera. Ma il Male dev'essere distrutto. Il mondo dev'essere ripulito. La parola in codice impedirebbe l'esplosione, ma non la dirò, perché gli artigli dei cieli devono essere scatenati. Non la dirò. Non posso.» «Puoi, invece. Se non vuoi far parte anche tu del Male, devi dirla.» Il viso dell'uomo parve sconvolto dalle pressioni interiori. Per un istante Swan vide un guizzo di luce nei crateri tenebrosi dei suoi occhi; credette che si sarebbe alzato, che sarebbe andato alla tastiera a battere la parola in codice. Ma la luce morì e lo sguardo tornò quello d'un pazzo. «Non posso» disse il vecchio. «Neppure per una creatura bella come te.» «Otto minuti all'esplosione». Dall'altra parte della sala, Friend aspettò che Swan crollasse. «La fonte d'energia» disse Roland, che con una parte della mente capiva che cosa sarebbe accaduto fra poco, ma lo accantonava, mentre con un'altra parte si ripeteva d'essere un cavaliere del Re, giunto, finalmente, al termine di un viaggio pieno di pericoli. Ma era al fianco del vero Re ed era felice. «Dov'è la fonte d'energia?» Il Presidente si alzò. «Te la mostro.» Si mosse verso una porta in fondo alla sala. Non era chiusa a chiave. Quando la porta si aprì, Swan udì un ruggito d'acqua; seguì il vecchio e Roland, per vedere che cosa c'era oltre la soglia. Una passerella portava a una piattaforma di cemento con una ringhiera metallica alta un metro; sei metri più in basso scorreva un fiume sotterraneo. L'acqua usciva da un tunnel, passava in un canale di cemento, superava un piano inclinato e metteva in movimento una grossa turbina, prima di riversarsi in un altro tunnel scavato nella viva roccia. Una rete di cavi collegava la turbina a due generatori elettrici. L'aria odorava d'ozono. «Sette minuti all'esplosione» annunciò il computer, nell'altra sala. Roland si sporse dalla ringhiera a guardare il movimento della turbina. Udiva
il crepitio della corrente nei cavi. Il fiume sotterraneo forniva una fonte inesauribile d'energia elettrica, più che sufficiente a far funzionare i computer, le luci, il recinto elettrificato. «I minatori l'hanno scoperto molto tempo fa» disse il Presidente. «Per questo il complesso è stato costruito qui.» Piegò la testa, ascoltando il rumore del fiume. «Ha un suono così pulito, vero? Sapevo che c'era. Me ne sono ricordato, dopo la caduta dal Ciclo. Temete la morte per acqua.» Annuì, perso nei ricordi. «Sì. Temete la morte per acqua.» Con la coda dell'occhio Swan colse un movimento: il mostro ghignante in maschera umana varcò la porta e venne sulla piattaforma. «Dio?» disse Friend. Il Presidente si girò, spalle alla ringhiera. «Non c'è altro sistema per fermare i satelliti, vero? Sei l'unico che potrebbe fermarli, se lo volesse. Dico bene?» «Sì.» «Magnifico.» Friend alzò il mitra e sparò una raffica, assordante nella caverna. Una fila di proiettili risalì dallo stomaco al petto del Presidente, lo sbatté contro la ringhiera; il vecchio artigliò l'aria e ballò al ritmo letale del mitra. Swan si turò le orecchie. I proiettili colpirono il vecchio alla testa e lo sbalzarono in aria. Il Presidente cadde oltre la ringhiera, mentre Roland Croninger sbottava in una risata isterica. Il mitra tacque, esaurito il caricatore; il Presidente fu ghermito dall'acqua e trascinato nel tunnel, fuori vista. «Bum bum!» gridò allegramente Roland, sporgendosi dalla ringhiera schizzata di sangue. «Bum bum!» Gli occhi di Swan bruciarono di lacrime. Il vecchio era morto e con lui era morta l'ultima speranza d'interrompere la preghiera per l'ora finale. L'uomo con l'occhio scarlatto gettò nell'acqua il mitra ormai mutile e lasciò la piattaforma. «Sei minuti all'esplosione.» «Tieni giù la testa!» gridò Josh. Un proiettile rimbalzò contro l'albero dietro al quale Robin si era rannicchiato, Josh sparò ai due soldati dall'altra parte della strada, ma il colpo andò a vuoto. Il terzo soldato, in mezzo alla strada, si torceva di dolore, le mani strette attorno alla ferita allo stomaco. Josh non vedeva quasi niente, sotto la pioggia. Mentre si tuffava al riparo, un proiettile gli aveva lacerato la manica. Forse se l'era fatta addosso, ma non ne era sicuro, tanto era bagnato. Non sapeva neppure se era stato lui a colpire il soldato ferito. Per un paio di secondi i proiettili erano sibila-
ti da tutte le parti, fitti come mosche a un ritrovo di spazzini. Ma lui era balzato fra gli alberi e Robin l'aveva imitato, mentre un proiettile di rimbalzo gli graffiava la sinistra. I due soldati spararono ripetutamente. Josh e Robin si tennero al coperto. Alla fine Robin si azzardò a sollevare la testa. Un soldato correva a prendere posizione più in alto. Robin si asciugò la pioggia dagli occhi e sparò gli ultimi due colpi. Il soldato si portò le mani al torace, girò su se stesso come una trottola e cadde. Josh sparò all'ultimo soldato, che rispose al fuoco, schizzò in piedi, corse all'impazzata lungo il ciglio della strada verso il recinto elettrificato. «Non sparate!» gridò. «Non sparate!» Josh puntò la pistola, ma non premette il grilletto. Non aveva mai sparato alla schiena, neppure a un soldato dell'Esercito d'Eccellenza, e non intendeva cominciare adesso. Lasciò che l'uomo fuggisse, poi si alzò e indicò a Robin di andare avanti. Ripresero la strada. Sister chiuse gli occhi, mentre la voce annunciava che mancavano cinque minuti all'esplosione. Aveva le vertigini; allungò la mano per sorreggersi alla parete, ma Swan le prese il braccio e la sostenne. «È finita» disse Sister, con voce rauca. «Oh, mio Dio... moriranno tutti. È finita.» Si sentì mancare le ginocchia, avrebbe voluto lasciarsi scivolare a terra, ma Swan glielo impediva. «Stai su, maledizione!» disse Swan, con rabbia, tirandola in piedi. Sister la fissò con occhi spenti: le parve che la nebbia crepuscolare in cui era vissuta come Sister Creep già s'addensasse attorno a lei. «Oh, lasciala cadere» disse l'uomo con l'occhio scarlatto, in piedi dall'altra parte della sala. «Morirete tutti ugualmente, in ginocchio o in piedi. Non sei curiosa di sapere in che modo?» Swan non gli diede la soddisfazione di rispondergli. «Io sì» continuò lui. «Forse il mondo si spaccherà con un botto e i suoi pezzi continueranno a girare. Forse la fine sarà silenziosa come un ansito. Forse l'atmosfera si strapperà come un lenzuolo vecchio e tutto... montagne, foreste, fiumi, macerie di città... sarà spazzato via come polvere. O forse la gravita schiaccerà ogni cosa.» Incrociò le braccia e si appoggiò con noncuranza alla parete. «Forse il mondo si accartoccerà e brucerà, lascerà solo un tizzone. Be', nessuno vive in eterno!» «E tu?» fu obbligata a domandare lei. «Tu puoi vivere in eterno?» Lui rise. Piano, stavolta. «Io sono eterno!»
«Quattro minuti all'esplosione» promise la voce. Macklin, rannicchiato per terra, respirava come un animale. Al segnale dei quattro minuti, la sua gola contusa emise un gemito terribile, luttuoso. «Ecco il tuo rintocco funebre, Swan» disse l'uomo con l'occhio scarlatto. «Mi perdoni ancora?» «Perché hai così paura di me? Non posso fare niente per ferirti.» Per qualche secondo lui non rispose. Quando parlò, i suoi occhi erano abissi insondabili. «La speranza mi ferisce» disse. «È una malattia. E tu sei il germe che la diffonde. Non possono esserci malattie, alla mia festa. No, non sono permesse.» Fissò in silenzio il pavimento. Un sorriso gli increspò le labbra, quando la voce del computer disse: «Tre minuti all'esplosione». La pioggia batteva con violenza sul tetto di lamiera, quando Josh e Robin arrivarono al lungo edificio simile a un capannone. Erano passati davanti alle due jeep e al cadavere di Fratello Timothy; ora vedevano l'ingresso del pozzo minerario, nella luce fioca e giallastra. Robin salì in fretta i gradini e percorse la passerella. Josh lo seguì; prima di arrivare all'imboccatura del tunnel, udì un rombo: pareva che chicchi di grandine grossi come palline da golf martellassero il tetto. Josh pensò che quel posto maledetto fosse sul punto di crollare. Ma il frastuono cessò all'improvviso, come se avessero spento una macchina. Nel silenzio Josh udì il gemiti del vento contro le pareti dell'edificio. Robin guardò il tunnel e le rotaie; in fondo scorse una specie di veicolo. Dopo una breve ricerca, trovò il pannello con i pulsanti rosso e verde; premette il rosso, ma non accadde niente. Premette il verde e subito udì la vibrazione di macchinari in movimento. Il lungo cavo metallico cominciò a riavvolgersi. «Due minuti all'esplosione.» Il colonnello James B. Macklin udì il suo stesso gemito. Le pareti del pozzo si chiudevano'intorno a lui; molto lontano credette di udire la risata del Soldato Ombra; ma no, no... lui stesso aveva ora la faccia del Soldato Ombra: lui e il Soldato Ombra erano un tutt'uno. La risata, se c'era, era di Roland Croninger, oppure del mostro che si faceva chiamare Friend. Macklin strinse il pugno sinistro e colpì la porta bloccata. Dalla superficie d'acciaio inossidabile, il teschio gli restituì lo sguardo. In quell'istante Macklin vide con chiarezza la faccia della sua anima e barcollò sull'orlo della follia. Prese a pugni quella faccia, cercò di schiac-
ciarla, di farla scomparire, ma invano. I campi gelidi dove soldati privi di vita giacevano a mucchi gli attraversarono la mente in una macabra sfilata. Macerie fumanti di città, veicoli in fiamme, corpi carbonizzati, gli si disposero davanti come un'offerta sull'altare di Ade; in quel momento capì quale sarebbe stata l'eredità della sua vita e dove l'aveva condotto. Era fuggito dal pozzo nel Vietnam, aveva lasciato una mano nel pozzo di Casa Terra, aveva perduto l'anima nel pozzo scavato nella terra delle larve... e ora avrebbe perso la vita in questo pozzo di quattro pareti. E dopo il 17 luglio, invece di strisciare via dal fango e mettersi in piedi, aveva preferito guazzare nella sporcizia, passare da pozzo a pozzo, mentre quello più profondo e più orribile di tutti si spalancava nel suo intimo e lo consumava. Capì con chi era in lega. Lo riconobbe. E capì anche d'essere dannato: il pozzo finale stava per chiudersi sulla sua testa. «Oh, lo spreco, lo spreco» mormorò, mentre le lacrime gli colavano dagli occhi fissi. «Dio, perdonami... oh, Dio, perdonami» singhiozzò. L'uomo che si faceva chiamare Friend rise e batté le mani. Macklin si sentì toccare la spalla. Alzò la testa. Swan si costrinse a non ritrarsi da lui, perché c'era un debole barlume di luce in fondo ai suoi occhi, proprio come c'era stata una fiammella nel pezzetto di vetro di Sheila Fontana. Per un istante che gli allargò lo spirito, Macklin credette di vedere il sole nella faccia di Swan, credette di vedere il mondo come avrebbe potuto essere. Ormai era tutto perduto... tutto perduto... «No» mormorò. Il pozzo non si era rinchiuso su di lui... non ancora. E il colonnello Macklin si alzò come un re e si girò verso i computer che stavano per distruggere il mondo ferito. Assalì il più vicino, lo colpì freneticamente con il palmo chiodato, cercò d'infrangere il vetro azzurrato e di arrivare alle bobine in movimento. Il vetro s'incrinò, ma era rinforzato da fili di metallo e non cedette. Macklin cadde sulle ginocchia, cercò di strappare un cavo. «Roland!» disse Friend, brusco. «Fermalo... subito!» Roland Croninger avanzò alle spalle di Macklin. Disse solo: «Smettila!» L'altro lo ignorò. «Uccidilo!» gridò Friend, avanzando come una tromba d'aria, prima che i chiodi lacerassero il rivestimento e strappassero i fili interni. Il vero Re aveva parlato. Roland era un Cavaliere del Re, doveva ubbidire alla parola del Re. Alzò la .45. Gli tremava la mano. Sparò a bruciapelo due proiettili nella schiena del colonnello Macklin.
Macklin cadde bocconi. Sussultò, giacque immobile. «Bum bum!» gemette Roland. Cercò di ridere, ma dalla gola uscì solo un suono soffocato. «Un minuto all'esplosione.» 94 Friend sorrise. Tutto era sotto controllo. La festa era riuscita magnificamente: ora sarebbe terminata con uno spettacolo pirotecnico. Ma i fuochi artificiali non si ammirano dallo scantinato. Sister e la piccola puttana erano in ginocchio, abbracciate, perché sapevano che era quasi la fine. Anche loro due erano uno spettacolo piacevole, ma lui lì aveva terminato il suo compito. «Cinquanta secondi» continuò il conteggio alla rovescia. Lascio vagare lo sguardo sul viso di Swan. Troppo tardi, pensò; ma spazzò via la debolezza. Fuori di lì c'erano ancora gruppi di persone, altri villaggi da visitare; forse lo spettacolo pirotecnico avrebbe distrutto il mondo in un batter di ciglio, o forse si sarebbe risolto in lento sfacelo. Non capiva bene tutte quelle stronzate nucleari, ma era sempre pronto a festeggiare. In tutti i casi, lei sarebbe rimasta lì, fuori dei piedi. Il cerchio di vetro, o la corona, o qualunque cosa fosse, era perduto. Sister l'aveva fatto penare, ma anche lei ormai era in ginocchio, domata. «Swan?» disse. «Mi perdoni?» Swan non sapeva nemmeno lei che cosa avrebbe detto; aprì la bocca, ma lui si portò il dito alle labbra e sussurrò: «Troppo tardi». La sua divisa, già bruciacchiata, mandava fumo. La faccia cominciava a liquefarsi. «Quaranta secondi» disse la voce del computer. La fiamma che consumava l'uomo con l'occhio scarlatto bruciava senza calore. Sister e Swan si ritrassero, ma Roland rimase a guardare, pieno di timore reverenziale. La falsa carne sfrigolò e mise allo scoperto quel che c'era sotto la maschera... ma Swan distolse lo sguardo all'ultimo istante. Sister mandò un grido e si coprì il viso. Roland guardò. Vide una faccia che mai un essere umano era vissuto tanto da raccontare d'avere visto. Era una piaga infetta con occhi da rettile, una massa ribollente e malata che pulsava e s'increspava di furia vulcanica. Era un'occhiata folle alla fine
del tempo, a mondi in fiamme e all'universo nel caos, buchi neri spalancati nel tessuto del tempo e civiltà ridotte in cenere. Roland cadde in ginocchio ai piedi del vero Re. Sollevò le mani verso la fiamma gelida e supplicò: «Portami con te!» Nell'apocalittica faccia da incubo si aprì qualcosa che poteva essere una bocca e una voce antica rispose: «Sono sempre andato avanti da solo». Un fuoco gelido guizzò dall'uniforme; come una scarica elettrica, sfrigolò sulla testa di Roland. S'innalzò verso un piccolo condotto d'aerazione e lasciò un foro nella griglia metallica, che rimase nello stesso tempo fusa e orlata di ghiaccio sporco. La vuota uniforme dell'Esercito d'Eccellenza, ancora modellata in forma umana, crollò a terra, con uno scricchiolio di ghiaccio nelle pieghe. «Trenta secondi» intonò la voce seducente. Sister vide l'occasione e capì che cosa doveva fare. Si lanciò contro Roland Croninger. Gli afferrò il polso destro. Roland alzò gli occhi verso di lei, ormai impazzito del tutto. Sister gridò: «Swan! Ferma la macchina!» e cercò di strappargli la pistola, ma lui le diede un pugno in faccia. Con tutte le sue forze Sister gli rimase aggrappata al polso; il giovane cavaliere d'un re infernale lottò con furia selvaggia, le passò il braccio intorno alla gola, strinse. Swan si mosse per aiutare Sister, ma la donna cercava di guadagnare secondi preziosi e lei doveva fare del suo meglio per fermare il conto alla rovescia. Si chinò, cercò di strappare i cavi elettrici. Roland lasciò la gola di Sister e le tirò un pugno sulla bocca. Tentò di morderla al viso, ma lei lo tenne a bada con un gomito e non mollò la presa. La pistola sparò, il proiettile rimbalzò contro la parete opposta. Lottarono per l'arma; Sister gli vibrò una gomitata al petto, si chinò, conficcò i denti nel polso magro. Roland urlò di dolore, aprì le dita; la pistola cadde a terra. Sister allungò la mano, ma Roland le artigliò il viso e cercò di strapparle gli occhi. Swan non riuscì a staccare i cavi, saldati al pavimento. E non poteva strappare il rivestimento di gomma, perché era troppo spesso. Guardò la tastiera nera sul tavolo nel centro della sala, ricordò che il vecchio aveva parlato di una parola in codice. Ma non aveva detto quale fosse e ormai era morto. Tuttavia lei dove tentare! Scavalcò le due figure avvinghiate e fu davanti alla tastiera. «Venti secondi.»
Roland artigliò il viso di Sister, ma lei scostò la testa e strinse le dita sul calcio della pistola. Mentre l'alzava, fu colpita da un pugno alla nuca e perdette la presa. Swan cercò di schiarirsi il cervello. Premette sulla tastiera le lettere: Alt. Roland si liberò di Sister e strisciò verso la pistola. La prese e si girò per sparare, ma Sister lo assalì con la furia di un gatto selvatico, gli afferrò di nuovo il polso, prese a pugni la faccia deforme e insanguinata. «Quindici secondi» continuò il conteggio alla rovescia. Fine, batté Swan, concentrata solo sui tasti. Sister sollevò il braccio e lo calò con violenza sulla faccia di Roland. Una lente degli occhialoni andò in pezzi e Roland ululò di dolore. Ma poi la colpì di striscio alla tempia, stordendola, e la scagliò via come un sacco di paglia. «Dieci secondi.» Oh, Dio, aiutami, pensò Swan, mentre il panico minacciava di travolgerla. Serrò i denti per trattenere un grido. Batté: Termine. «Nove...» Aveva un'ultima possibilità. Non doveva sprecarla. Le preghiera per l'ora finale, pensò. La preghiera. «Otto...» La preghiera. Sister afferrò di nuovo il braccio di Roland, lottò per il possesso della pistola. Lui si liberò, con un ghigno orribile sulla faccia terrificante. Premette il grilletto, una volta... due... I proiettili penetrarono nelle costole, le spezzarono la clavicola. Sister fu sbattuta a terra, come se avesse ricevuto un calcio. Aveva la bocca insanguinata. «Sette...» Swan aveva udito gli spari, ma la risposta era vicina e non osava distogliere l'attenzione dalla tastiera. Che cosa mette fine a una preghiera? Che cosa mette fine... «Togliti di lì!» ruggì Roland Croninger, alzandosi da terra, con il sangue che gli colava dalla bocca e dalle narici. «Sei...» Puntò la pistola su Swan, iniziò a premere il grilletto. Un colpo fortissimo scosse la porta d'acciaio e distrasse Roland per una vitale frazione di secondo.
All'improvviso, il colonnello Macklin si alzò. Nell'ultimo guizzo di vita e di forze, piantò la mano chiodata sul cuore di Roland Croninger. Roland sparò, ma il proiettile sibilò sulla testa di Swan. «Cinque...» I chiodi si erano conficcati in profondità. Roland cadde sulle ginocchia. Il sangue scarlatto sgorgò intorno alle dita rigide e guantate di nero del colonnello Macklin. Roland cercò di alzare di nuovo la pistola, scosse la testa, ma il peso di Macklin lo spinse a terra e lui rimase disteso a sussultare. Parve quasi che Macklin lo stringesse in un abbraccio amorevole. «Quattro...» Swan fissò la tastiera. Che cosa mette fine a una preghiera? Trovò la risposta. Mosse le dita sui tasti. Amen. «Tre...» Swan chiuse gli occhi e attese la scansione del secondo successivo. Attese. E attese. Sobbalzò, quando udì di nuovo la voce vellutata: «Esplosione ARTIGLI bloccata a meno due secondi. Istruzioni, prego.» Aveva le gambe molli. Arretrò dalla tastiera e quasi cadde sopra i corpi del colonnello Macklin e di Roland Croninger. Roland si alzò a sedere. Il sangue gli gorgogliava nei polmoni e gli colava dalla bocca. La mano scattò ad afferrare la caviglia di Swan. Lei si liberò con uno strattone e Roland ricadde scompostamente lungo e disteso. Il gorgoglio cessò. Swan guardò Sister. La donna era appoggiata alla parete; aveva gli occhi offuscati, un sottile filo di sangue sul mento. Si premette la mano sulla ferita all'addome e riuscì a trovare un sorriso incerto, stanco. «Qualche culo l'abbiamo rotto, eh?» Swan cacciò indietro le lacrime e s'inginocchiò accanto a Sister. Un altro colpo scosse la porta. «Meglio vedere chi è» disse Sister. «Tanto non hanno intenzione d'andarsene.» Swan andò alla porta, premette l'orecchio lungo la linea di congiunzione fra il metallo e la roccia. Per qualche istante non udì nulla, poi le giunse una voce, soffocata e lontana: «Swan! Sister! Siete lì dentro?»
Era la voce di Josh, che certamente gridava con quanto fiato aveva in gola. Ma Swan lo udiva appena. «Sì!» gridò. «Siamo qui!» «Sst!» disse Josh a Robin. «M'è sembrato di udire qualcosa!» Gridò: «Puoi farci entrare?» Tutt'e due avevano visto la scatola nera con la chiave d'argento infilata nella serratura; ma quando l'aveva girata, Robin si era trovato di fronte alla richiesta del codice entro cinque secondi. Occorse un minuto di scambi a gran voce perché Josh capisse quel che Swan cercava di dirgli. Poi girò la chiave verso sinistra e, alla richiesta del codice, batté sulla tastiera le lettere AOK. La porta si sbloccò e si aprì. Robin fu il primo a varcarla. Swan era davanti a lui, come in sogno; Robin l'abbracciò, la tenne stretta, si disse che finché viveva non l'avrebbe più lasciata. Swan si aggrappò a lui e per un istante due cuori batterono come uno solo. Josh li oltrepassò. Aveva visto Macklin e l'altro, stesi per terra; e poi vide Sister. Oh, no, pensò. C'era troppo sangue. Si accostò, si chinò su di lei. «Non chiedermi dove ho male» disse Sister. «Sono tutta intorpidita.» «Cos'è successo?» «Il mondo... ha avuto una seconda possibilità.» «Istruzioni, prego» disse la voce del computer. «Ce la fai a stare in piedi?» «Non so. Non ho provato. Oh... che casino ho piantato, vero?» «Forza, ti aiuto io.» Josh la mise in piedi. Sister si sentì la testa leggera. Macchiò di sangue le mani di Josh. «Te la caverai?» domandò Robin, sorreggendole con la spalla l'altro braccio. «È la domanda più stupida... che abbia mai udito.» Cominciava a essere a corto di fiato e ora il dolore le pugnalava le costole . Ma non andava poi male. Non andava male, pensò, per una vecchia prossima a morire. «Starò meglio. Fatemi solo uscire da questo buco maledetto.» Swan si soffermò davanti al corpo di Macklin. Il nastro adesivo si era scollato dal polso e la mano chiodata era quasi staccata dal braccio. Swan tolse gli ultimi pezzi di nastro, si costrinse a svellere i lunghi chiodi insanguinati dal petto di Roland Croninger. Si alzò, stringendo fra le dita l'orrenda mano. Lasciarono la sala di morte e di macchine. La voce flautata disse: «Istruzioni, prego».
Swan girò verso destra la chiave d'argento. La porta si chiuse, i lucchetti scattarono. Swan si mise in tasca la chiave. Aiutarono Sister a prendere posto nella gabbia di trasporto. Prima di entrare, Robin premette il pulsante verde, sul pannello vicino alle rotaie. I meccanismi si misero in moto e riportarono il veicolo all'imboccatura del pozzo. Mentre percorrevano la passerella fino alla scaletta, Sister perdette la sensibilità alle gambe. Si aggrappò a Josh, che ne sorresse quasi tutto il peso. Lasciava una scia di sangue e respirava a fatica, con ansiti irregolari. Swan capì che Sister era in punto di morte. Si sentì soffocare, ma disse: «Ti rimetteremo in sesto!» «Non sono malata. Sono impiombata» disse Sister. «Un passo alla volta» aggiunse, mentre Josh e Robin la calavano dalla scaletta. «Oh, mio Dio... mi sento svenire.» «Resisti» disse Josh, severo. «Puoi farcela.» Ma in fondo alle scale le gambe di Sister si piegarono. Le palpebre tremolarono, mentre lei lottava per non perdere conoscenza. Lasciarono l'edificio dal tetto di lamiera e si avviarono verso le jeep, mentre il vento gelido sibilava intorno a loro e le nubi premevano sulle montagne. Sister non riusciva più a tenere dritta la testa. Il collo era debole e il cranio sembrava pesare cento chili. Un passo, si disse; un passo, e quello seguente ti porta dove volevi andare. Ma in bocca aveva un forte sapore di sangue e capì dove i passi strascicati l'avrebbero portata. Le gambe si bloccarono. Aveva visto una cosa, lì, fra l'asfalto pieno di crepe, davanti a lei. Ma era scomparsa. Cos'era? «Vieni» disse Josh; ma Sister si rifiutò di muoversi. La vide di nuovo: una fuggevole apparizione, subito svanita. «Oh, Dio!» disse. «Cosa c'è? Hai male?» «No! No! Aspetta! Un momento solo!» Aspettarono. E il sangue di Sister gocciolava sull'asfalto. Eccola di nuovo, per la terza volta. Una cosa che Sister non aveva più visto da moltissimo tempo. La sua ombra. Era già sparita. «L'avete vista? L'avete vista?» «Che cosa?» Robin guardò per terra, non vide niente.
Ma, l'attimo dopo, tutti se ne accorsero. Calore: come il raggio d'un faro dietro le nuvole, che spazzasse lentamente il parcheggio. Sister guardò il terreno... e mentre sentiva il calore diffondersi lungo la schiena e le spalle come un balsamo salutare, vide le ombre di Josh, di Swan e di Robin, raccolte intorno alla sua. Con uno sforzo possente, sollevò la testa verso il cielo, mentre le lacrime le scorrevano sulle guance. «Il sole» mormorò. «Oh, Dio mio... esce il sole.» Guardarono in alto. Il cielo plumbeo si muoveva, le nubi si scontravano e si squarciavano. «Là!» gridò Robin, segnando a dito. Fu il primo a scorgere una chiazza d'azzurro, mentre le nubi si richiudevano. «Josh! Voglio andare... lassù!» Sister indicò la cima di monte Warwick. «Per favore! Voglio vedere il sole!» «Prima dobbiamo trovare aiuto...» Sister gli strìnse la mano. «Voglio salire lassù» ripeté. «Voglio vedere il sole. Hai capito?» Josh esitò, ma solo qualche secondo, perché sapeva che non c'era molto tempo. Prese Sister in braccio e iniziò a salire monte Warwick. Swan e Robin lo seguirono, mentre si arrampicava fra i sassi e gli alberi secchi e nodosi, portando Sister su verso il cielo turbolento. Swan sentì sulla schiena la carezza del sole, vide comparire l'ombra delle rocce e degli alberi; lontano, verso sinistra, scorse una traccia d'azzurro luminoso, ma le nubi si chiusero subito. Robin le strinse la mano e si aiutarono nella salita. «Presto!» disse Sister a Josh. «Ti prego... fa' presto!» Le ombre s'inseguivano lungo la montagna. Il vento, ancora gelido, soffiava con violenza, ma le nubi cominciavano ad aprirsi. Josh si domandò se quell'ultima tempesta non fosse stata l'ansito finale di un inverno durato sette anni. «Presto!» supplicò Sister. Dal bosco sbucarono in una piccola radura nei pressi della vetta. Massi scabri erano disseminati da tutte le parti; da quell'altezza si vedeva in ogni direzione il panorama che svaniva nella nebbia. «Qui» disse Sister, con voce sempre più debole. «Stendimi qui... così posso vederlo.» Josh la depose delicatamente sul terreno brullo, con la schiena contro la cavità liscia di un masso e il viso rivolto a ovest.
Il vento, ancora pungente, turbinò intorno a loro e spezzò rametti secchi. Swan trattenne il fiato, quando da occidente raggi di luce dorata forarono le nubi e per un attimo ammorbidirono l'aspro panorama, mutando in marrone chiaro e oro rossastro le spente sfumature di nero e di grigio. Rapida com'era comparsa, la luce svanì. «Aspettate» disse Sister, guardando l'avanzata delle nubi. Turbini e correnti vi si muovevano come gorghi e mulinelli in coda alla tempesta. Sister sentì che la vita rifluiva rapidamente e l'abbandonava, che il suo spirito voleva schizzare via dal corpo stanco; ma vi rimase attaccata con la stessa caparbia ostinazione che l'aveva aiutata a portare la corona di vetro fra mille asperità, chilometro dopo chilometro. Aspettarono. Sopra monte Warwick, le nubi si staccavano lentamente le une dalle altre; e dietro di loro c'erano frammenti d'azzurro, che si univano come le tessere d'un mosaico gigantesco finalmente rivelato. «Là.» Sister annuì, socchiuse gli occhi, mentre la luce si diffondeva sopra la terra e sul fianco della montagna, sopra gli alberi secchi, sui massi e sul suo viso. «Là!» Josh mandò un grido di gioia. Squarci enormi si aprivano nelle nubi e da essi sgorgava una luce dorata, bella come una promessa. Giù nelle lontane vallate e nelle conche di monte Warwick, altre grida di gioia echeggiarono dai punti dove piccoli villaggi di baracche erano finalmente toccati dal sole. Un clacson suonò, mentre le grida si fondevano in una voce possente. Swan alzò il viso e lasciò che il magnifico, sorprendente tepore le imbevesse la pelle. Trasse un lungo respiro e sentì il profumo d'aria fresca, incontaminata. Il lungo crepuscolo stava per finire. «Swan» disse Sister, con voce rauca. Il suo volto risplendeva di sole e di sorriso. Sister alzò la mano e Swan la strinse, inginocchiandosi accanto a lei. Si fissarono a lungo. Swan accostò alla sua guancia bagnata la mano di Sister. «Sono orgogliosa di te» disse Sister. «Oh, sono davvero orgogliosa di te.» «Andrà tutto bene, vedrai» disse Swan; ma la gola le si chiudeva e ne uscì un singhiozzo. «Ti riprenderai appena ti porteremo da...» «Sst.» Sister passò il dito sui lunghi capelli color fiamma di Swan. Nel tramonto brillavano con l'intensità di un falò. «Ora voglio che mi ascolti.
Ascoltami bene. E guardami.» Swan la guardò, ma la vedeva confusamente, fra le lacrime. Si pulì gli occhi. «L'estate... finalmente è venuta. Non so quando l'inverno tornerà. Dovrai lavorare, finché è possibile. Lavorare duramente, e in fretta... più che puoi, finché il sole splende ancora. Hai capito?» Swan annuì. «Mi piacerebbe venire con te. Ma... non è possibile. Noi due... ora andiamo in direzioni diverse. Va bene lo stesso.» Gli occhi di Sister brillarono, spostandosi su Robin. «Ehi» disse. «La ami?» «Sì.» Sister guardò Swan. «E tu? Lo ami?» «Sì.» «Allora... mezza battaglia è vinta. Non mollate, aiutatevi... non lasciatevi separare da niente. Continuate per la vostra strada, un passo dopo l'altro... e fate il lavoro che va fatto, finché c'è l'estate.» Girò la testa, socchiuse gli occhi e guardò il gigante nero. «Josh?» disse. «Sai... dove devi andare, vero? Sai chi ti aspetta.» Josh annuì. «Sì» riuscì a dire infine. «Lo so.» «Il sole... è bellissimo» disse Sister, alzando gli occhi al cielo. Ormai aveva la vista annebbiata, non doveva più socchiudere gli occhi. «Bellissimo. Ho fatto... tanta strada... e ora sono stanca. Trovatemi... un posto dove riposare, quassù... per stare vicino al sole.» Swan le strinse la mano, Josh disse: «Te lo troveremo». «Sei buono. Non credo... che nemmeno tu... sappia quanto. Swan?» Sister strinse le mani intorno al viso di Swan. «Ascoltami. Fa' il lavoro. Per bene. Puoi riportare le cose... meglio di com'erano. Sei... una leader nata, Swan... e quando cammini... va' dritta e orgogliosa... e ricorda... quanto bene ti voglio...» Le mani di Sister scivolarono via dal viso di Swan, ma lei le prese e le tenne contro le guance. La scintilla di vita era quasi scomparsa. Sister sorrise. Negli occhi di Swan vedeva i colori della corona di vetro. Le labbra le tremarono e si schiusero. «Un passo» mormorò Sister. E poi mosse il passo seguente. Rimasero intorno a lei, mentre il sole scaldava loro la schiena e toglieva il gelo dai muscoli. Josh mosse la dita per chiudere gli occhi di Sister, ma si bloccò, perché sapeva quanto lei amava la luce.
Swan si alzò. Si allontanò di qualche passo, infilò le mani in tasca. Estrasse la chiave d'argento, si arrampicò sopra un masso, si accostò all'orlo di monte Warwick. Rimase a testa alta, guardando lontano. Ma vedeva altri eserciti di uomini atterriti, altri fucili e altre auto corazzate, altra morte e altra sofferenza ancora in agguato nella mente degli uomini come un cancro in attesa di rinascere. Strinse la chiave d'argento. Mai più, pensò... e lanciò la chiave il più lontano possibile. Il sole scintillò sull'argento. La chiave volò nell'aria, rimbalzò contro il ramo di una quercia, colpì lo spigolo di un masso, cadde per altri quindici metri, finì in un piccolo stagno verdastro seminascosto dagli arbusti. Mentre scivolava nell'acqua e nel fango del fondo, agitò alcune minuscole uova rimaste lì nascoste per moltissimo tempo. Raggi di sole accarezzarono lo stagno e scaldarono le uova: il cuore dei girini cominciò a battere. Josh, Swan e Robin trovarono un posto dove far riposare Sister; non era riparato da alberi, né coperto d'ombra: era un posto dove il sole poteva raggiungerla. Con le mani scavarono la fossa e calarono Sister nella terra. Quando la fossa fu di nuovo riempita, ciascuno di loro disse quel che aveva in mente e terminarono tutti insieme con «Amen». Tre figure scesero la montagna. 95 La luce del sole aveva toccato anche l'accampamento dell'Esercito d'Eccellenza; ogni uomo, donna, bambino, vide che cosa illuminava. Facce celate nel crepuscolo emersero in tutta la loro mostruosità. La luce colpì i grotteschi demoni intagliati nella scaletta della roulotte di comando, cadde sopra i camion con il loro carico d'indumenti insanguinati, illuminò la roulotte nera dove Roland Croninger aveva torturato alla ricerca della verità; e uomini che avevano imparato a convivere con la vista del sangue e il suono delle urla, si ritrassero dalla luce come dall'occhio di Dio. Il panico pervase la gente. Ormai non c'erano più capi, solo seguaci; e alcuni caddero in ginocchio e farfugliarono chiedendo perdono, mentre altri strisciavano nella familiare oscurità sotto le roulotte e si rannicchiarono lì, stringendo le loro armi da fuoco. Tre persone avanzarono fra la massa d'umanità ululante e singhiozzante; parecchi non sopportarono di guardare in faccia la ragazza con i capelli
come fiamma. Altri invocarono il colonnello Macklin e l'uomo conosciuto con il nome di Friend, ma non ricevettero risposta. «Alt!» Un giovane soldato dai lineamenti duri puntò il fucile. Altri due gli stavano alle spalle e un quarto uscì da dietro un camion e puntò la pistola contro Josh. Swan li guardò uno alla volta, dritta e orgogliosa; e quando avanzò d'un passo, i soldati arretrarono, tranne quello che aveva parlato. «Levati di mezzo» disse Swan, con tutta la calma che riuscì a trovare; ma capì che l'uomo era spaventato e voleva uccidere. «Vaffanculo!» la schernì il giovane soldato. «Ti faccio saltare la testa!» Swan gettò qualcosa ai suoi piedi, nel fango fumante. Il giovane guardò. Era la destra guantata del colonnello Macklin, con i chiodi macchiati di sangue secco. Il giovane la raccolse. Ghignò come un folle, mentre capiva. «È mio!» mormorò. «È mio!» La voce crebbe di tono, divenne frenetica. «Macklin è morto!» gridò; alzò la mano, perché gli altri vedessero. «È mio, adesso! Ho io il comando. Ho io il pote...» Fu colpito in piena fronte dal soldato armato di pistola; mentre la mano finta cadeva nel fango, gli altri si lanciarono a prenderla e lottarono per quel simbolo di potere. Ma un'altra figura balzò in mezzo a loro, sbatté via prima un uomo poi un altro, strappò la mano guantata e la tenne fra le sue. Si rialzò. Quando la faccia sporca di fango si girò, Swan vide la sorpresa e l'odio negli occhi dell'uomo; era un tipo brutale dai capelli neri, nell'uniforme dell'Esercito d'Eccellenza... ma c'erano fori di proiettile sul davanti della camicia e sangue secco attorno al cuore. La faccia parve incresparsi solo per una frazione di secondo; poi l'uomo alzò la mano sporca, per proteggersi dalla luce del sole, o dalla vista di Swan. Forse era lui. Forse aveva già indossato una nuova pelle e si era calato nei panni d'un cadavere. Swan non poteva dirlo con certezza; ma se era lui, doveva rispondere alla domanda che le aveva rivolto giù nel pozzo della miniera. Disse: «La macchina è ferma, i missili non esploderanno. Mai». Lui emise un verso confuso e arretrò, continuando a tenere nascosta la faccia. «Non ci sarà la fine» riprese Swan. «Perciò, sì, ti perdono: se non fosse stato per te, non avremmo avuto una seconda possibilità.» «Uccidetela!» cercò di gridare l'uomo dai capelli neri, ma la voce uscì
debole e malata. «Sparatele!» Josh si mise davanti a Swan per proteggerla. I soldati esitarono. «Ho detto di ucciderla!» L'uomo alzò la mano di Macklin, ma sempre senza guardare in viso Swan. «Ora sono io, il vostro padrone! Non fatela andare via di qui...» Un soldato sparò a bruciapelo. Il proiettile di fucile trafisse il petto dell'uomo dai capelli scuri; la forza dell'impatto lo spinse indietro, barcollante. Un altro proiettile lo colpì: l'uomo inciampò nel morto e cadde nel fango; già i soldati gli saltavano addosso, azzuffandosi di nuovo per il possesso della mano chiodata. E altri arrivavano, attirati dagli spari; videro anche loro la mano priva di corpo e si tuffarono nella lotta. «Uccidetela!» gridò l'uomo dai capelli scuri, ma era premuto nel fango sotto i corpi che si agitavano e la voce fu solo un gemito acuto. «Uccidete la piccola putta...» Un soldato aveva un'ascia: cominciò a usarla. L'uomo dai capelli scuri era in fondo al mucchio; al di sopra dei grugniti e delle imprecazioni degli uomini in lotta, Swan udì il suo farnetichio: «È la mia festa! È la mia festa!» Uno scarpone gli schiacciò il viso nel fango. Poi i soldati si chiusero su di lui e lo nascosero completamente. Swan andò avanti. Josh la seguì, ma Robin esitò. Per terra c'era un'altra pistola. Si mosse per raccoglierla... ma si trattenne e non la toccò. Anzi, passando, la spinse più a fondo nel fango. Entrarono nell'accampamento, dove soldati si strappavano le divise sporche e macchiate di sangue e le gettavano in un enorme falò. Camion e auto corazzate passarono rombando: uomini e donne fuggivano verso mete sconosciute. Il grido: «Il colonnello Macklin è morto!» attraversò l'accampamento; risuonarono altri spari che appianarono le ultime liti o indicarono la scelta del suicidio. E, alla fine, arrivarono alla roulotte di Sheila Fontana. Le guardie erano sparite. La porta non era chiusa a chiave. Swan aprì. Sheila, seduta alla toeletta, si guardava allo specchio. Reggeva in mano la scheggia di vetro. «È finita» disse Swan. Sheila si alzò. La scheggia pulsava di luce. «Ti aspettavo» disse. «Sapevo che saresti tornata. Ho... ho pregato per te.» Swan l'abbracciò; Sheila disse in un sussurro: «Ti prego... fammi venire con te. Va bene?» «Sì» rispose Swan. Sheila gli strinse la mano e se la portò alle labbra.
Swan andò a frugare dentro il materasso, prese la malandata borsa di cuoio. Sentì all'interno la forma della corona e se la strinse al petto. L'avrebbe protetta e l'avrebbe tenuta con sé per tutta la vita, perché l'uomo con l'occhio scarlatto sarebbe tornato. Forse non oggi né domani, forse non quell'anno, né l'anno dopo... ma un giorno, da qualche parte, sarebbe emerso dall'ombra, con una faccia nuova e un nuovo nome; e quel giorno lei avrebbe dovuto agire con molta cautela e con molta forza. Non sapeva quali altri poteri la corona contenesse, non sapeva dove il sentiero del sogno l'avrebbe portata, ma era pronta a compiere il primo passo. E quel passo l'avrebbe condotta lungo un sentiero che mai avrebbe immaginato, quando da bambina faceva crescere fiori e piante nella terra battuta d'un parcheggio per roulotte, nel Kansas, un mondo e una vita fa. Ma non era più una bambina; e la terra desolata aspettava un tocco risanatore. Si girò verso Josh e Robin. Sister aveva ragione: se trovi chi ami e sei riamata, mezza battaglia è vinta. Ora sapeva pure che cosa doveva fare perché si avverassero le cose fantastiche viste nella corona di vetro. «Credo... che altri vogliano venire con noi» disse Sheila. «Altre donne... come me. E anche alcuni uomini. Non sono tutti cattivi... sono solo spaventati e non sanno dove andare.» «D'accordo» disse Swan. «Se mettono via le armi, saranno i benvenuti.» Sheila andò a radunare gli altri e tornò insieme con due DDC dall'aria malandata — una ragazzina truccatissima, atterrita, e una nera dall'aria dura, con capelli rossi tagliati alla mohicana — e con tre uomini nervosi, uno dei quali indossava l'uniforme da sergente. Come prova di buona fede, i tre avevano portato zaini pieni di scatolette di carne di maiale, di polpettone e di spezzatino di manzo, nonché borracce dell'acqua pura presa dal pozzo di Mary's Rest. La prostituta nera, che si chiamava Cleo — «Diminuitivo di Cleopatra», annunciò facendo scena — portò un assortimento di anelli, collane e ciondoli vistosi, di cui Swan non sapeva che cosa fare; e la ragazzina — «Mi chiamano Joey» disse, con i capelli che le nascondevano quasi il viso — offrì a Swan il suo tesoro, un unico fiore giallo in un vaso di terracotta rossa che era riuscita chissà come a tenere in vita. Mentre la luce del giorno si affievoliva, un camion con Josh al volante e a bordo Robin, Swan, Sheila Fontana, le due DDC e i tre uomini, lasciò il campo dell'Esercito d'Eccellenza, dove un gruppo di pazzi scalmanati aveva appiccato fuoco alla roulotte del colonnello Macklin e dove le ultime munizioni esplodevano.
Molto tempo dopo la partenza del camion, i lupi iniziarono a scendere dalle montagne e circondarono silenziosamente i resti dell'Esercito d'Eccellenza. Scese la notte. Nel cielo comparvero chiazze di stelle. Il camion, con un solo faro funzionante e poca benzina, girò verso ovest. Nel buio Swan pianse al ricordo di Sister, ma Robin la strinse a sé e lei gli appoggiò la testa sulla spalla. Josh pensò a Mary's Rest e alla donna che sperava lo aspettasse ancora, con il bambino a fianco. Sheila Fontana dormì il sonno dell'innocente e sognò un viso bellissimo che la guardava dallo specchio. A un certo punto della notte, Cleo e uno dei tre uomini saltarono giù dal camion e si portarono via uno zaino di cibo e d'acqua. Josh augurò loro buona fortuna e li lasciò andare. Le stelle impallidirono. Una sottile linea rossa scivolò sull'orizzonte orientale e Josh quasi pianse, quando il sole fece capolino tra le nubi sempre più rade. Un paio d'ore dopo il sorgere del sole, il camion tossicchiò e terminò la benzina. Iniziarono a camminare, seguendo la strada che portava a ovest. E nel pomeriggio di quel giorno, mentre la luce filtrava di sbieco fra gli alberi e nubi bianche si muovevano lentamente nel cielo azzurro, si fermarono a riposare. Ma Swan si accostò al ciglio della strada e vide, nella valle, tre piccole baracche raccolte intorno ai resti scuri di un campo. Un uomo con un cappello di paglia e una donna in tuta lavoravano nel campo, con vanga e zappa; due bambini, in ginocchio, piantavano con cura semi e granaglie prese da sacchetti di tela. Non era un campo molto esteso. Era circondato da alberi rattrappiti, forse noci americani o noccioli. Ma uno scintillante ruscello correva nella valle; e Swan pensò che forse aveva origine dal fiume sotterraneo che aveva fornito energia alle macchine di monte Warwick. Ora, pensò, la stessa acqua può essere usata per la vita, anziché per la morte. «Scommetto che piantano fagioli» disse Josh, accanto a lei. «O anche zucche e malvaccione. Che ne pensi?» «Non so.» Lui sorrise lievemente. «Sì, lo sai.» Swan lo guardò. «Eh?» «Tu sai» replicò Josh. «Sai che devi cominciare da qualche parte. Anche
da un campo piccolo come quello.» «Torno con te a Mary's Rest. Lì inizierò a...» «No» disse Josh, con sguardo gentile, ma addolorato. «Non abbiamo cibo e acqua sufficienti per tutti. Manca ancora un mucchio di strada, per arrivare a Mary's Rest.» «Non tanta.» «Abbastanza» disse Josh. Indicò la valle. «Vedi, laggiù c'è un mucchio di spazio per altre coltivazioni. Immagino che ci siano parecchie baracche, in queste montagne. E gente che da un mucchio di tempo non mangia una minestra di malvaccione, fagioli, zucche.» Si sentì venire l'acquolina in bocca. «Cibo da negri» disse, con un sorriso. Swan guardò l'uomo, la donna e i bambini al lavoro. «Ma... la gente di Mary's Rest? I miei amici?» «Se la cavavano, prima che arrivassi tu. Se la caveranno, finché non tornerai. Sister aveva ragione. Devi lavorare, finché dura l'estate... e non si sa per quanto sarà. Forse un mese, forse sei. Ma il freddo tornerà. E prego Iddio che il prossimo inverno non sia altrettanto lungo.» «Ehi! Ehi, lassù!» Il contadino li aveva visti e agitava la mano. La donna e i bambini interruppero il lavoro per guardare in alto verso la strada. «È ora di fare nuovi amici» disse piano Josh. Swan non rispose. Poi anche lei alzò il braccio e lo agitò. Il contadino disse qualcosa alla moglie, imboccò il sentiero tortuoso che portava alla strada. «Comincia da qui» disse Josh a Swan. «Comincia subito. Penso che la ragazzina, Joey, possa aiutarti. Altrimenti come avrebbe fatto a mantenere in vita quel fiore per tanto tempo?» Gli piangeva il cuore, ma doveva dirlo. «Non hai più bisogno di me, Swan.» «Non è vero!» Il labbro inferiore le tremava. «Josh, avrò sempre bisogno di te!» «L'uccellino deve volare» disse lui. «E anche un cigno prima o poi deve spalancare le ali. Sai dove sarò e sai come arrivarci.» Swan scosse la testa. «Come?» domandò. «Un campo dopo l'altro» disse Josh. Swan gli tese le braccia e Josh la tenne stretta. «Ti voglio bene... tantissimo» mormorò Swan. «Ti prego... non andartene subito. Resta ancora un giorno.» «Ne sarei felice. Ma se mi fermassi... non andrei più via. Devo andare, finché so ancora che voglio farlo.»
«Ma...» La voce si ruppe. «Ma, chi proteggerà te?» Lui allora rise, una risata mista a lacrime. Vide il contadino arrivare dal sentiero e Robin andargli incontro. Gli altri si erano alzati. «Nessuno è mai stato orgoglioso della propria figlia quanto io di te» le mormorò Josh all'orecchio. «Farai cose meravigliose, Swan. Metterai di nuovo tutto a posto. E molto prima che tu venga a Mary's Rest... sentirò il tuo nome dalla bocca dei viandanti. Diranno di conoscere una ragazza di nome Swan che è diventata una donna bellissima. Diranno che ha capelli come lingue di fiamma, che ha in sé il potere della vita. È quello che devi restituire alla terra, Swan. Quello che devi restituire alla terra.» Lei sollevò lo sguardo sul gigante nero e gli occhi le brillarono di luce. «Salve» disse l'uomo con il cappello di paglia. Era magro, ma già aveva le guance abbronzate. E le mani sporche di terra. «Da dove venite?» «Dalla fine del mondo» disse Josh. «Già. Be', non sembra che il mondo debba finire proprio oggi, no? No davvero! Forse domani, ma oggi no.» Si tolse il cappello, si asciugò con la manica la fronte, socchiuse gli occhi per guardare il sole. «Mio Dio, è davvero bello! Non credo di avere visto niente di più bello... tranne forse mia moglie e i miei figli.» Tese la mano a Robin. «Mi chiamo Matt Taylor.» «Robin Oakes.» Gli strinse la mano. «Avete l'aria di gente che accetterebbe volentieri un po' d'acqua e un paio d'ore di riposo. Se venite giù, siete benvenuti. Non abbiamo molto, ma ci lavoriamo. Piantavamo qualche fagiolo e del malvaccione, finché c'è il sole.» Swan guardò più avanti. «Che alberi sono?» «Eh? Quegli alberi secchi? Be', mi rattrista dirlo, ma erano noci americani. A ottobre facevamo l'abbacchiatura. E da quella parte...» indicò un altro boschetto «c'erano pesche a primavera e in estate. Certo, prima che tutto andasse a catafascio.» «Oh» disse Swan. «Signor Taylor, qual è la città più vicina?» domandò Josh. «Be', Amberville è giusto al di là della montagna, a meno di dieci chilometri. Non c'è molto, alcune baracche e una sessantina di persone. Hanno una chiesa, però. Lo so bene: sono il reverendo Taylor.» «Capisco.» Josh fissò la valle, le figure nel campo, il folto d'alberi che, lo sapeva, non erano morti, ma solo in attesa d'un tocco risanatore. «Cosa c'è la dentro?» Il reverendo accennò alla borsa che Swan aveva posato per terra.
«Una cosa... meravigliosa» rispose Josh. «Reverendo Taylor, le chiedo un favore. Vorrei che accogliesse queste persone in casa sua e che ascoltasse la storia che... che mia figlia le racconterà. Vuole farlo?» «Sua figlia?» Il reverendo corrugò la fronte, perplesso, guardando Swan. Poi si mise a ridere e scrollò le spalle. «Be', il mondo è proprio impazzito. Certo» aggiunse. «Tutti sono benvenuti, per un po' di riposo.» «Sarà davvero un riposo d'incanto» rispose Josh. Attraversò la strada e prese uno zaino di cibo e una borraccia d'acqua. «Ehi!» lo chiamò Robin. «Dove vai?» Josh gli si avvicinò con un sorriso e gli strinse la spalla. «A casa» disse; assunse un'espressione severa e minacciosa, una delle maschere torve che portava sul ring. «Attento a te, e prenditi cura di Swan. Mi è molto cara. Capito?» «Sissignore.» «Spero bene. Non ho voglia di tornare da queste parti a prenderti a calci.» Ma aveva già notato gli sguardi che Robin e Swan si scambiavano, come camminavano vicini e parlavano piano, quasi condividessero dei segreti; sapeva di non doversi preoccupare. Diede a Robin una pacca sulla spalla. «Sei un bravo ragazzo, amico mio» disse... e all'improvviso Robin lo abbracciò. «Abbi cura di te, Josh» disse. «E non stare in pensiero per Swan. Anche a me è molto cara.» «Signóre?» intervenne il reverendo Taylor. «Non viene giù con noi?» «No. Ho ancora della strada ed è meglio che m'incammini. Voglio fare un paio di chilometri, prima di sera.» Il reverendo esitò; era chiaro che non capiva. Ma si rese conto che il gigante nero intendeva davvero continuare il viaggio. «Solo un minuto, allora! Aspetti un momento!» Mise la mano nella tasca della giacca di tela e ne trasse un oggetto. «Prenda» disse. «Lo porti con sé.» Josh guardò il piccolo crocifisso d'argento appeso a una catenina. «Lo prenda. Un viandante ha bisogno d'un amico.» «Grazie.» Josh si mise al collo la catenina. «La ringrazio davvero.» «Buona fortuna. Le auguro di trovare quel che cerca, quando arriverà dov'è diretto.» «Me lo auguro anch'io.» Josh s'incamminò verso ovest, lungo la strada di montagna. Percorsi dieci metri, si girò: Robin e Swan, in piedi uno accanto all'altra, lo guardavano allontanarsi. Robin la circondava con il braccio e Swan teneva la testa sulla sua spalla. «Un campo dopo l'altro!» le gridò Josh.
E fu accecato dalle lacrime. Si girò con la bella immagina di Swan impressa per sempre nella mente. Swan rimase a guardarlo finché non fu fuori vista. Gli altri, tranne Robin, avevano già seguito il reverendo Taylor. Swan strinse la mano di Robin e rivolse il viso al paesaggio di montagne e di vallate, dove alberi secchi aspettavano d'essere risvegliati come dormienti inquieti. Credette di udire, molto lontano, l'acuto e gioioso canto d'un uccello... che forse, come lei, provava le ali. «Un campo dopo l'altro» promise. I giorni passarono. E su in alto, dove la cima di monte Warwick toccava quasi il cielo azzurro, minuscoli semi sparpagliati dalle trombe d'aria e riportati alla vita dalle dita di una ragazza con i capelli simili a lingue di fiamma iniziarono a reagire alla luce del sole e a far germogliare fragili steli verdi. Gli steli si allungarono, si aprirono un varco nel terriccio, sbucarono nel tepore e lì sbocciarono in fiori... rossi e viola, giallo vivo, bianco candido, azzurro scuro, pallido lillà. Brillarono come pietre preziose alla luce del sole e segnarono il luogo dove Sister giaceva nel sonno eterno. Le settimane passarono. La strada l'azzoppò. La faccia era grigia di polvere, ma lo zaino era leggero, sulla schiena incurvata e debole. Lui continuò a camminare, un passo dopo l'altro, seguendo la strada che si snodava verso oriente nella campagna. Certi giorni il sole splendeva con piena forza. Certi altri, le nubi tornavano e cadeva la pioggia. Ma era pioggia dolce sulla lingua e i temporali non duravano a lungo. Le nubi si sparpagliavano e il sole splendeva di nuovo. A mezzogiorno la temperatura era estiva, perché quella era certo la stagione, almeno in base al calendario del mondo d'una volta; ma le notti erano fredde e per scaldarsi lui doveva rannicchiarsi in un fienile o in una casa lungo la strada, se aveva la fortuna di trovare un riparo. Ma proseguiva. E continuava a sperare. Lungo la strada aveva barattato un po' di cibo in cambio di fiammiferi; e quando di notte dormiva all'aperto, accendeva il fuoco per tenere lontano le creature notturne. Una notte, nel Kentucky occidentale, si svegliò sotto il cielo sereno; sulle prime non capì che cosa l'avesse disturbato: tese l'orecchio e udì. Un fischiettio, che s'alzava e scendeva, come se provenisse da molto
lontano. Forse stava per impazzire, o per cadere in preda alla febbre... ma era sicuro che il motivetto fosse: "Giro giro tondo, casca il mondo..." Da allora in poi cercò sempre una casa o un fienile dove passare la notte. Sulla strada vide segni di risveglio: piccole gemme verdi in un albero, uno stormo d'uccelli, una chiazza d'erba verde smeraldo, una viola che sbucava da un monticello di cenere. Il mondo tornava alla vita. Molto lentamente. Ma tornava alla vita. E non passava giorno, né più d'un paio d'ore, che Josh non pensasse a Swan. Pensò alle mani della ragazza che impastavano la terra, che toccavano semi e granaglie, che accarezzavano la scabra corteccia dei noci americani e dei peschi, che riportavano alla vita tutte le cose. Attraversò il Mississippi, sopra una zattera traghetto guidata da un vecchio con la barba bianca e con la pelle del colore del fango del fiume; la moglie del vecchio suonò il violino per tutta la traversata e rise alle scarpe consumate di Josh. Quella notte lui rimase con loro e consumò una buona cena a base di fagioli e di porco sotto sale; al mattino, quando ripartì, trovò che lo zaino era più pesante, a causa di un paio di scarpe da ginnastica un po' troppo strette, ma comodissime, una volte tagliate in punta. Entrò nel Missouri e allungò il passo. Un violento temporale lo tenne bloccato per due giorni; trovò riparo dal diluvio in un piccolo villaggio battezzato, con un gioco di parole, All's Well, tutt'e bene... ma c'era davvero un well, un pozzo, al centro del paese. Nella scuola, giocò a poker, con due adolescenti e un anziano ex bibliotecario; finì per perdere 529 mila dollari in graffette. Il sole tornò a splendere e Josh si mise in cammino, grato che quel gruppetto di bari non gli avesse preso anche le scarpe di gomma. Vide rampicanti verdi rivestire gli alberi grigi ai lati della strada; al termine d'una curva si fermò di colpo. In lontananza scorse uno scintillio: qualcosa rifletteva la luce del sole, come una sorta di segnale. Riprese a camminare e cercò d'immaginare da che cosa provenisse lo scintillio. Ma era molto lontano e non poteva capirlo. La strada si snodò sotto i suoi piedi e ora Josh non badava più alle vesciche. Qualcosa scintillava... scintillava... scintillava... Josh si fermò di nuovo e trattenne il fiato. Lontano, sulla strada polverosa, scorgeva una figura. Due figure. Una alta, una bassa. Due figure in attesa. Quella alta indossava un abito nero con
lustrini che riflettevano la luce del sole. «Glory!» gridò Josh. E poi la udì gridare il suo nome e correre verso di lui, con indosso il vestito che aveva portato ogni giorno, tutti i giorni, con la speranza che fosse quello il giorno del suo ritorno a casa. E quel giorno era arrivato. Anche lui si mise a correre; dai suoi vestiti si alzarono nuvolette di polvere, quando sollevò Glory da terra e la strinse al petto, mentre Aaron saltava e gridava di gioia e tirava per la manica il gigante nero. Josh alzò da terra anche Aaron e tenne tutt'e due stretti fra le braccia e si arresero alle lacrime. Andarono a casa... e lì, nel campo dietro le case di Mary's Rest, c'erano alberi di melo, carichi di frutti, il risultato di piantine che l'Esercito d'Eccellenza aveva trascurato. La gente di Mary's Rest si raccolse attorno a Josh Hutchins; alla luce dei lumi nella nuova chiesa in costruzione, lui raccontò quel che era successo; e quando uno chiese se Swan sarebbe tornata, Josh rispose con convinzione: «Sì. A tempo debito.» Strinse Glory a sé. «A tempo debito.» Passò il tempo. Le comunità si strapparono dal fango, costruirono sale di ritrovo e scuole, chiese e baracche, prima con assi di legno, poi con mattoni. Le ultime bande armate trovarono gente pronta a difendere fino alla morte la propria casa e si squagliarono come neve al sole. Fiorirono le attività artigianali, le comunità iniziarono a fare scambi e i viandanti erano bene accetti perché portavano notizie di luoghi lontani. Quasi tutti i villaggi dessero sindaci, sceriffi, consigli cittadini: la legge della pistola inaridì sotto il potere della corte. I racconti cominciarono a diffondersi. Nessuno sapeva come fossero iniziati, né da dove. Ma il nome di lei si diffondeva nella terra risvegliata e conteneva un potere che induceva la gente ad ascoltare e a chiedere ai viandanti se avessero notizie di lei e se le storie erano vere. Perché, più d'ogni cosa, volevano credere. Parlavano di lei nelle case e nelle scuole, nei municipi e nelle botteghe. Lei aveva in sé il potere della vita, dicevano. In Georgia ha fatto rinascere frutteti di peschi e di meli! Nello Iowa, chilometri e chilometri di campi di granturco e di grano! Nella North Carolina ha toccato un campo e i fiori
sono sorti dalla terra e ora si dirige nel Kentucky! O nel Kansas! O nell'Alabama! O nel Missouri! Aspettatela, dicevano. Seguitela, se volete, come fanno centinaia d'altri, perché la giovane donna di nome Swan ha in sé il potere della vita e risveglia la terra! E negli anni a venire avrebbero parlato della fioritura della terra desolata, dei progetti di coltivazioni e dei lavori per scavare canali per le zattere. Avrebbero parlato del giorno in cui Swan aveva incontrato una nave di superstiti provenienti da una terra distrutta un tempo conosciuta come Russia, e nessuno capiva la lingua, ma lei aveva parlato con quella gente e aveva capito, grazie al miracoloso cerchio di vetro tempestato di pietre preziose che portava sempre con sé. Avrebbero parlato della ricostruzione di biblioteche e di musei, e di scuole che per prima cosa insegnavano la lezione appresa dallo spaventoso olocausto del 17 luglio: Mai più. Avrebbero parlato dei due figli di Swan e di Robin — due gemelli, maschio e femmina — e della cerimonia per la quale migliaia di persone si erano radunate nella città di Mary's Rest a vedere quei bambini, chiamati Joshua e Sister. E per narrare ai propri figli la leggenda, a luce di candela nel tepore della loro casa, nelle vie dove i lumi bruciavano sotto stelle che ancora suscitavano il sogno, avrebbero cominciato sempre con le magiche parole: «C'era una volta...» FINE