CLIVE CUSSLER TESORO (Treasure, 1988) In memoria di Robert Esbenson: nessuno ha mai avuto un amico più fedele La Bibliot...
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CLIVE CUSSLER TESORO (Treasure, 1988) In memoria di Robert Esbenson: nessuno ha mai avuto un amico più fedele La Biblioteca di Alessandria esistette veramente, e se non fosse stata devastata dalle guerre e dal fanatismo religioso ci avrebbe donato non soltanto il patrimonio della conoscenza degli imperi dell'Egitto, della Grecia e di Roma, ma anche delle civiltà poco note che nacquero e tramontarono molto lontano dalle rive del Mediterraneo. Nel 391 d.C. l'imperatore cristiano Teodosio ordinò di bruciare tutti i volumi e le opere d'arte che avevano contenuti sia pur lontanamente pagani e che includevano gli insegnamenti degli immortali filosofi greci. Si ritenne tuttavia che gran parte della raccolta venisse portata segretamente in salvo. Dopo sedici secoli, sono tuttora ignoti la sua sorte e il suo nascondiglio. I PRECURSORI 15 luglio 391 d.C. Una terra sconosciuta Una luce fioca e palpitante guizzava bizzarramente nella tenebra della galleria. Un uomo vestito d'una tunica di lana che gli scendeva sotto il ginocchio si fermò e alzò sopra la testa una lampada a olio. Il chiarore fievole illuminò una figura umana racchiusa in una bara d'oro e cristallo e gettò un'ombra grottesca e tremula contro la parete levigata. L'uomo dalla tunica fissò per qualche attimo gli occhi ciechi, quindi abbassò la lampada e si voltò. Studiò la lunga fila delle figure immobili immerse in un silenzio di morte, così numerose che sembravano allinearsi all'infinito prima di sparire nell'oscurità della grande caverna. Junius Venator riprese il cammino. I sandali scalpicciarono sul pavimento irregolare con un fruscio sommesso. A poco a poco la galleria si allargò. La volta, alta quasi dieci metri, era divisa da una serie di archi che le davano maggior forza strutturale. I canaletti incisi nel calcare scendevano tor-
tuosamente lungo le pareti perché l'acqua filtrata dalla roccia potesse scorrere nei profondi bacini di drenaggio. Le pareti erano costellate di cavità piene di strani recipienti circolari di bronzo. Se non si teneva conto delle grandi casse lignee ammonticchiate ordinatamente al centro della camera, quel luogo sarebbe apparso molto simile alle catacombe scavate sotto la città di Roma. Venator esaminò le etichette di rame fissate alle casse e controllò i numeri corrispondenti sul rotolo che teneva steso su un tavolinetto pieghevole. L'aria era secca e opprimente, e il sudore incominciava a scorrere fra gli strati di polvere che gli coprivano la pelle. Due ore più tardi, quando ebbe accertato che tutto era catalogato e in perfetto ordine, riavvolse il rotolo e l'infilò nella fascia che gli cingeva la vita. Diede un'ultima occhiata agli oggetti contenuti nella galleria ed emise un sospiro di rammarico. Sapeva che non li avrebbe più visti né toccati. Si voltò e, stancamente, reggendo la piccola lampada, ritornò verso la galleria. Venator non era più giovane: stava per compiere cinquantasette anni... molti, per quei tempi. Il viso cinereo e segnato dalle rughe, le guance infossate, i passi affaticati rispecchiavano la stanchezza di un uomo che non aveva più voglia di vivere. Eppure, nel profondo dell'animo, provava il calore della soddisfazione. Il piano immenso era completato: l'onere immane non gravava più sulle sue spalle curve. Ormai non gli restava altro che sopravvivere al lungo viaggio fino a Roma. Passò accanto ad altre quattro gallerie che si addentravano nella collina. Una era ostruita da un grande mucchio di detriti. Dodici schiavi che stavano scavando all'interno erano morti quando la volta era crollata. Erano ancora là dentro, sfracellati e sepolti dov'erano caduti. Venator non provava rimorso per la loro sorte. Per loro era meglio essere morti rapidamente anziché soffrire anni di tormenti nelle miniere dell'impero, avendo a stento di che nutrirsi, prima di crollare vittime di qualche malattia o di venire abbandonati quando fossero diventati troppo vecchi per lavorare. Svoltò nell'ultimo corridoio a sinistra e si avviò verso il fioco barlume della luce del giorno. Il pozzo d'entrata era stato scavato all'interno di una piccola grotta e aveva un diametro di due braccia e mezzo... appena sufficiente per permettere il passaggio delle casse più voluminose. All'improvviso giunse dall'esterno l'eco di un urlo lontano. Venator aggrottò la fronte, preoccupato, e affrettò il passo. Per abitudine, quando uscì nella luce del sole, socchiuse le palpebre per riparare gli occhi. Esitò e stu-
diò l'accampamento che si trovava a poca distanza, su un declivio. Un gruppo di legionari romani attorniava alcune donne barbare. Una di queste, una ragazza molto giovane, urlò di nuovo e tentò di fuggire. Riuscì quasi a passare attraverso la cerchia dei soldati, ma uno l'afferrò per i lunghi capelli neri e la strattonò all'indietro: la ragazza barcollò e cadde in ginocchio. Un uomo vide Venator e si avvicinò. Era un gigante, più alto degli altri di tutta la testa, con le spalle ampie e i fianchi stretti, e due braccia simili a tronchi di quercia che arrivavano quasi alle ginocchia. Latinius Macer era originario della Gallia, ed era il sovrintendente degli schiavi. Salutò Venator con un cenno e parlò con voce sorprendentemente acuta. «È tutto pronto?» chiese. L'altro annuì. «L'inventario è terminato. Puoi far chiudere l'entrata.» «Consideralo già fatto.» «Che cos'è tutto quel chiasso nell'accampamento?» Macer girò verso i soldati i freddi occhi neri e sputò in terra. «Quegli stupidi legionari si annoiano e hanno fatto razzia in un villaggio cinque leghe a nord. È stato un massacro insensato. Hanno ucciso almeno quaranta barbari: soltanto dieci erano uomini, gli altri donne e bambini. Così, senza un motivo. Non c'era oro, non c'era alcunché, neppure un po' di sterco di mulo. Sono tornati con poche donne, per giunta brutte, per giocarsele ai dadi. E poco di più.» Il volto di Venator si tese. «Ci sono stati altri superstiti?» «Mi hanno riferito che due uomini sono scappati nella boscaglia.» «Daranno l'allarme agli altri villaggi. Temo che Severus abbia stuzzicato un nido di calabroni.» «Severus!» Macer sputò il nome con un altro grumo di saliva. «Quel maledetto centurione e i suoi non fanno altro che dormire e dare fondo alla nostra scorta di vino. Secondo me sono soltanto una grossa seccatura.» «Sono stati ingaggiati per proteggerci», gli rammentò Venator. «Da che cosa?» ribatté Macer. «Dai selvaggi primitivi che mangiano insetti e rettili?» «Raduna gli schiavi e fai chiudere in fretta la galleria. Dovrete fare un buon lavoro: i barbari non dovranno essere in grado di scavarla dopo che ce ne saremo andati.» «Non c'è pericolo. A giudicare da quanto ho visto, in questa terra maledetta nessuno conosce l'arte di lavorare il metallo.» Macer s'interruppe e indicò il mucchio massiccio di detriti, in equilibrio sopra l'ingresso del
pozzo, precariamente trattenuto da una gigantesca struttura di tronchi. «Quando quello cadrà, non dovrai più preoccuparti per le tue preziose anticaglie. Nessun barbaro riuscirà mai a raggiungerle. Non ci riuscirà certo scavando con le mani.» Rassicurato, Venator congedò il sovrintendente e si avviò a passo deciso verso la tenda di Domitius Severus. Passò accanto al simbolo del distaccamento militare, la figura argentea di un toro issata su un'asta, e scostò la sentinella che cercava di bloccarlo. Trovò il centurione che, seduto su una sedia da campo, contemplava una barbara nuda e sporca. La donna era accoccolata ed emetteva una successione di strani suoni vocalici. Era giovane; non doveva avere più di quattordici anni. Severus indossava una corta tunica rossa fermata da una fibula sulla spalla sinistra. Le braccia nude erano ornate da fasce bronzee intorno ai bicipiti. Erano le braccia muscolose di un soldato, abituato a maneggiare la spada e lo scudo. Severus non si degnò di alzare la testa quando Venator entrò. «È così che passi il tempo, Domitius?» chiese in tono freddo e sarcastico. «Ti fai beffe del volere di Dio violentando una ragazzina pagana?» Severus girò lentamente verso di lui gli occhi grigi e duri. «Fa troppo caldo per ascoltare le tue sciocchezze cristiane. Il mio Dio è più tollerante del tuo.» «È vero, ma tu adori un Dio pagano.» «Una semplice questione di preferenza. Nessuno di noi ha mai avuto un incontro a faccia a faccia con il suo Dio. Chi può dire chi ha ragione?» «Cristo era il figlio del vero Dio.» Severus gli lanciò uno sguardo esasperato. «Mi stai disturbando. Dimmi che cosa vuoi e vattene.» «Perché tu possa violentare questa povera pagana?» Severus non rispose. Si alzò, afferrò per il braccio la ragazza che continuava a gemere e la buttò bruscamente sul letto da campo. «Vuoi farlo anche tu, Junius? Puoi accomodarti per primo.» Venator fissò il centurione, e un brivido di paura gli corse lungo la schiena. Il centurione romano che comandava un'unità di fanteria doveva essere un tipo duro, ma quello era un selvaggio spietato. «La nostra missione qui è terminata», disse. «Macer e gli schiavi si preparano a bloccare la grotta. Possiamo togliere il campo e tornare alle navi.» «Domani saranno undici mesi da quando siamo partiti dall'Egitto. Un
giorno in più per godere dei piaceri locali non farà una grande differenza.» «Non avevamo l'ordine di abbandonarci ai saccheggi. I barbari vorranno vendicarsi. Noi siamo pochi, loro sono numerosi.» «Sono pronto a opporre i miei legionari alle orde che i barbari possono scagliare contro di noi», ribatté Severus. «I tuoi uomini sono diventati molli e fiacchi come tutti i mercenari.» «Non hanno dimenticato come si combatte», replicò l'altro con un sorriso sicuro. «Ma sono disposti a morire per l'onore di Roma?» «E perché dovrebbero? Perché dovremmo farlo noi? Gli anni grandiosi dell'impero sono passati. La nostra capitale sul Tevere, un tempo così splendida, è diventata una topaia. Nelle nostre vene scorre ben poco sangue romano. Quasi tutti i miei uomini vengono dalle province. Io sono ispanico e tu sei greco, Junius. In questi tempi caotici, chi può provare lealtà verso un imperatore che regna lontano, a oriente, in una città che nessuno di noi ha mai visto? No, Junius, i miei soldati combatteranno perché sono professionisti e perché sono pagati per farlo.» «Forse i barbari non gli lasceranno scelta», disse Venator. «Ci occuperemo di quella marmaglia quando verrà il momento.» «È meglio evitare ogni scontro. Dobbiamo partire prima che scenda la notte...» Venator fu interrotto da un rombo che fece tremare il suolo. Uscì correndo dalla tenda e guardò in direzione del dirupo. Gli schiavi avevano rimosso i puntelli e liberato una valanga tonante che precipitava sopra l'imboccatura della grotta seppellendola sotto una quantità enorme di macigni. Una grande nube di polvere s'innalzò, riversandosi nella gola. L'eco del fragore fu seguito dalle acclamazioni degli schiavi e dei legionari. «È fatta», disse Venator in tono solenne. «Il sapere dei secoli è al sicuro.» Severus lo raggiunse. «È un peccato che non si possa dire altrettanto di noi.» Venator si voltò: «Se Dio ci concederà un felice viaggio di ritorno, che cosa dovremo temere?» «La tortura e l'esecuzione», rispose seccamente Severus. «Abbiamo sfidato l'imperatore, e Teodosio non perdona facilmente. Non troveremo un posto dove nasconderci in tutto l'impero. È meglio che cerchiamo rifugio in terra straniera.» «Mia moglie e mia figlia... devono attendermi nella villa della nostra
famiglia ad Antiochia.» «Probabilmente a quest'ora gli agenti dell'imperatore le avranno già trovate. Saranno morte, o forse sono state vendute come schiave.» Venator scosse la testa, incredulo. «Ho amici potenti che le proteggeranno fino al mio ritorno.» «Anche gli amici si possono comprare o piegare con le minacce.» Gli occhi di Venator si schiusero in un'improvvisa espressione di sfida. «Nessun sacrificio è troppo grave per ciò che abbiamo realizzato. E sarebbe tutto inutile se non tornassimo con un resoconto e una mappa del viaggio.» Severus stava per ribattere quando notò il suo luogotenente, Artorius Noricus, che saliva correndo il pendio per raggiungere la tenda. Il giovane legionario aveva il volto scuro lucido di sudore nel caldo meridiano mentre si sbracciava per indicare l'orlo dei bassi dirupi. Venator alzò una mano per ripararsi gli occhi dal sole e guardò in alto, poi strinse le labbra. «I barbari, Severus. Sono venuti a vendicare il sacco del loro villaggio.» Sembrava che le colline brulicassero di formiche. Più di mille barbari, uomini e donne, guardavano gli intrusi. Erano armati di archi e frecce, scudi di cuoio e lance con le punte d'ossidiana. Alcuni stringevano clave di pietra legate a corti manici lignei. Gli uomini indossavano soltanto i perizomi. Stavano immobili, in silenzio, impassibili e selvaggi, e minacciosi come l'avvicinarsi di una tempesta. «Un altro contingente di barbari si è ammassato fra noi e le navi!» gridò Noricus. Venator si voltò. Era cinereo. «Ecco il risultato della tua stupidità, Severus.» La sua voce era incrinata dalla collera. «Ci hai uccisi tutti.» Poi cadde in ginocchio e incominciò a pregare. «Il tuo Dio non trasformerà i barbari in pecore, vecchio», ribatté Severus in tono sarcastico. «Solo la spada potrà liberarci.» Si voltò, strinse il braccio di Noricus e cominciò a impartire i comandi. «Ordina al bucinator di suonare l'adunata per la battaglia. Di' a Latinius Macer di armare gli schiavi. Disponi gli uomini in quadrato. Marceremo in formazione verso il fiume.» Noricus salutò e corse verso il centro del campo. I sessanta soldati dell'unità di fanteria si schierarono in un quadrato. Gli arcieri siriani si piazzarono sui fianchi, fra gli schiavi armati, mentre i ro-
mani formavano il fronte e la retroguardia. Al centro stava Venator con il suo gruppo di collaboratori egizi e greci e tre medici. Le armi principali dei romani, nel quarto secolo dopo Cristo, erano il gladio, una spada appuntita e a doppio taglio lunga ottantadue centimetri, e il pilo, una lancia di due metri che si poteva scagliare o brandire per gli affondi. Le armi difensive erano un elmo di ferro che aveva i paraguance incardinati legati sotto il mento con un lacciuolo e sembrava un berretto da fantino con la visiera all'indietro; una corazza formata da lamine metalliche sovrapposte che cingeva il torace e copriva le spalle, e gli schinieri che proteggevano gli stinchi. In più c'era lo scudo ovale di legno laminato. Invece di avventarsi all'attacco, i barbari si mossero lentamente e accerchiarono la colonna. All'inizio cercarono di indurre i soldati a rompere le righe: mandarono avanti alcuni uomini che si avvicinarono, gridando parole incomprensibili accompagnate da gesti minacciosi. Ma i nemici, per quanto numericamente inferiori, non cedettero al panico e non fuggirono. Il centurione Severus era un veterano troppo esperto per avere paura. Precedette i suoi di qualche passo e scrutò il terreno che pullulava di barbari. Agitò il braccio in un gesto irridente. Non era la prima volta che si trovava a combattere in condizioni d'inferiorità. Era entrato volontario nella legione a sedici anni; e da soldato semplice aveva fatto carriera conquistando diverse decorazioni al valore nelle battaglie contro i goti lungo il Danubio e contro i franchi sul Reno. Quando aveva terminato il servizio militare era diventato mercenario al soldo del miglior offerente... che in quel caso era Junius Venator. Severus aveva una fiducia incrollabile nei suoi legionari. Il sole dorava i loro elmi e le spade sguainate. Erano forti combattenti, uomini induriti dalle battaglie, che non avevano mai conosciuto la sconfitta. Quasi tutti gli animali, incluso il suo cavallo, erano morti durante il terribile viaggio dall'Egitto: perciò procedeva a piedi alla testa del quadrato, e si voltava a intervalli di pochi passi per sorvegliare continuamente i nemici. Con un ruggito che ingigantì e irruppe come un maremoto, i barbari scesero correndo il declivio assolato e si avventarono sui romani. Quelli della prima ondata furono decimati, trapassati dalle lunghe lance dei soldati e dalle frecce degli arcieri siriani. La seconda ondata avanzò, piombò contro lo schieramento e fu abbattuta come il grano tagliato da una falce. Le spade lucenti si arrossarono di sangue. Spronati da un torrente d'imprecazioni
e minacciati dalla sferza di Latinius Macer, gli schiavi si fecero valere e non cedettero d'un passo. La formazione avanzava molto lentamente mentre i barbari premevano da ogni lato, rafforzati dal continuo afflusso delle riserve. Grandi macchie rosse si formarono sulla terra arida del pendio. I corpi nudi cadevano sempre più numerosi e restavano immobili. Coloro che avanzavano dalle retrovie combattevano sopra i cadaveri dei compagni, si ferivano i piedi nudi sulle armi spezzate, si avventavano contro le terribili punte di ferro che affondavano nel petto e nello stomaco, e stramazzavano sui mucchi dei morti. Negli scontri diretti non erano in grado di avere la meglio contro la disciplina dei romani. Poi vi fu una svolta nella battaglia. I barbari compresero che non l'avrebbero spuntata contro le spade e le lance degli stranieri e indietreggiarono, raggruppandosi. Incominciarono a scagliare nugoli di frecce e lance primitive, mentre le donne tiravano sassi. I romani nella formazione a testuggine alzarono gli scudi sopra le teste e continuarono a marciare verso il fiume, le navi e la salvezza. Solo gli arcieri siriani riuscivano a far vittime fra i barbari. Non c'erano invece scudi a sufficienza per gli schiavi che dovevano battersi allo scoperto e senza protezione contro la grandinata di sassi. Erano indeboliti dal lungo viaggio massacrante e dagli scavi nella caverna. Molti di loro caddero e vennero abbandonati a se stessi. I barbari si avventarono su di loro per spogliarli e mutilarli nel modo più orribile. Severus era un esperto in quel genere di combattimento. Aveva fatto esperienza contro i britanni. Notò che i nemici agivano in modo disordinato e confuso: ordinò quindi ai suoi di fermarsi e di gettare a terra tutte le armi. I barbari l'interpretarono come un atto di resa e si lanciarono alla carica. Allora, a un nuovo comando di Severus, i legionari ripresero le spade e contrattaccarono. Il centurione, piazzato su due grosse pietre, mulinava la spada con colpi regolari, misurati. Quattro barbari stramazzarono ai suoi piedi. Ne stese un altro con un colpo di piatto e tagliò la gola a un sesto che si avventava contro il suo fianco. Poi la marea impazzita indietreggiò: l'orda dei nemici nudi si portò a una certa distanza. Severus approfittò di quella breve pausa per contare i suoi caduti. Su sessanta soldati, dodici erano morti o in agonia. Altri quattordici erano stati feriti. Le perdite più gravi si erano avute tra gli schiavi: oltre la metà erano morti o mancavano all'appello.
Si avvicinò a Venator, che si stava fasciando una ferita al braccio con una striscia di stoffa strappata dalla tunica. Il greco aveva sempre il prezioso rotolo dell'inventario infilato nella cintura. «Sei ancora con noi, vecchio?» Venator alzò la testa. Gli occhi erano colmi di paura, ma anche di un'inflessibile determinazione. «Tu morirai prima di me, Severus.» «È una minaccia o una profezia?» «Che cosa importa? Nessuno di noi rivedrà più l'impero.» Severus non rispose. La battaglia riprese all'improvviso quando i barbari scagliarono altre lance e altri sassi che oscurarono l'aria e martellarono contro gli scudi. Si affrettò a tornare al suo posto, nella prima fila del quadrato. I romani combattevano con accanimento, ma erano sempre meno numerosi. Quasi tutti gli arcieri siriani erano caduti. Il quadrato si stava chiudendo su se stesso, mentre l'assalto continuava implacabile. I superstiti, in gran parte feriti, erano esausti e tormentati dal caldo e dalla sete. Stentavano a brandire le spade e le passavano da una mano all'altra. Anche i barbari erano stremati e stavano subendo perdite gravissime; e tuttavia lottavano ostinatamente per ogni spanna del pendio che scendeva al fiume. Intorno a ogni legionario caduto si poteva contare una dozzina di cadaveri dei nemici. I corpi dei legionari, trafitti da decine di frecce, sembravano puntaspilli. Macer, il gigantesco sovrintendente, fu colpito a un ginocchio e alla coscia. Restò in piedi, ma non riuscì a reggere l'andatura della formazione in movimento. Rimase distanziato e fu circondato quasi subito da una ventina di barbari. Si voltò, mulinò la spada e ne tranciò a metà tre prima che gli altri indietreggiassero, esitando di fronte alla sua forza prodigiosa. Macer gridò e li sfidò a cenni ad avvicinarsi per battersi. I barbari, tuttavia, avevano imparato la lezione e non si lasciarono attirare in uno scontro a corpo a corpo. Rimasero a distanza scagliando contro Macer un torrente di lance: cinque di esse lo colpirono. Il sangue sgorgò copioso quando l'uomo afferrò le aste e divelse le punte. Un barbaro allora gli si avvicinò correndo e avventò la lancia, riuscendo a colpirlo alla gola: Macer stramazzò, ormai quasi dissanguato, e giacque nella polvere. Le donne barbare accorsero come un branco di lupi rabbiosi e lo sfracellarono a colpi di pietre. Soltanto un'altura di arenaria separava i romani dal fiume. Sembrava che il cielo, oltre il dosso, avesse cambiato colore di colpo, passando dall'az-
zurro all'arancio. Poi una colonna di fumo si levò, nera e pesante, e il vento portò l'odore del legno che bruciava. L'orrore che assalì Venator lasciò subito il posto alla disperazione. «Le navi!» gridò. «I barbari stanno attaccando le navi!» Gli schiavi sanguinanti cedettero al panico e tentarono una corsa suicida verso il fiume. I barbari li assaltarono ferocemente dai fianchi. Molti schiavi gettarono le armi in segno di resa e furono massacrati. Gli altri tentarono di aprirsi un varco combattendo dietro una macchia di alberi non molto alti, ma gli inseguitori li sterminarono. La polvere di quella terra sconosciuta divenne il loro sudario, la boscaglia fu il loro sepolcro. Severus e i legionari superstiti continuarono a battersi e raggiunsero la sommità dell'altura. Si fermarono, ignorando il massacro che si compiva tutto intorno, e fissarono allibiti la scena del disastro. Colonne di fumo salivano verso il cielo e si fondevano in un'unica spira che si snodava e si attorceva come un serpente. La flotta, l'unica speranza di fuga, bruciava in riva al fiume. Le gigantesche navi onerarie, requisite in Egitto, si stavano trasformando in enormi mucchi di cenere. Venator si fece largo nella prima fila e si fermò accanto a Severus. Il centurione taceva. Sangue e sudore gli macchiavano la tunica e la corazza. Guardava esasperato e deluso il mare di fiamme e di fumo, le vele che si disintegravano in un vortice di scintille: la realtà spaventosa della sconfitta sembrava impressa nei suoi occhi. Le navi erano state ancorate sulla riva, indifese ed esposte. Un contingente di barbari aveva travolto i marinai, incendiando tutto ciò che poteva bruciare. Solo un piccolo mercantile era sfuggito alla conflagrazione, e l'equipaggio era riuscito a respingere gli assalitori. Quattro marinai si sforzavano di issare le vele, mentre i compagni azionavano i remi per cercare di portarsi in salvo dove l'acqua era più alta. Venator sentiva in bocca il sapore della fuliggine e l'amaro della catastrofe. Persino il cielo gli sembrava arrossato. Stava immobile, sopraffatto da un senso di rabbia impotente. La fiducia che aveva riposto nel suo piano meticoloso per salvaguardare l'inestimabile sapienza del passato gli si spense nel cuore. Sentì una mano posarsi sulla sua spalla. Si voltò e vide la strana espressione di gelido divertimento sul volto di Severus. «Avevo sempre sperato», disse il centurione, «di morire ebbro di buon vino mentre mi godevo una bella donna.» «Solo Dio può scegliere il modo in cui deve morire un uomo», rispose
Venator. «Io credo che sia questione di fortuna.» «Che spreco. Che spreco terribile.» «Almeno i tuoi tesori sono al sicuro», ribatté Severus. «E i marinai che sono riusciti a fuggire diranno ai sapienti dell'impero ciò che abbiamo fatto.» «No.» Venator scosse la testa. «Nessuno crederà ai racconti fantasiosi di marinai ignoranti.» Si voltò a guardare le colline basse, in lontananza. «Sarà tutto perduto per sempre.» «Sai nuotare?» Venator girò di nuovo lo sguardo verso Severus. «Nuotare?» «Ti darò cinque dei miei uomini migliori perché ti aprano un varco fino all'acqua, se credi di farcela a raggiungere la nave.» «Non... non ne sono sicuro.» Lo studioso scrutò il fiume e la distanza crescente che separava la nave dalla riva. «Usa un'asse come zattera, se è necessario», disse Severus in tono aspro. «Ma affrettati, perché fra pochi minuti tutti noi saremo alla presenza dei nostri Dei.» «E tu?» «Questa collina è un posto adatto per tentare l'ultima resistenza.» Venator abbracciò il centurione. «Dio sia con te.» «Sarà meglio che Dio accompagni te.» Severus si voltò e scelse cinque soldati illesi. Ordinò loro di proteggere Venator nella corsa verso il fiume. Poi incominciò a schierare ciò che restava dell'unità decimata per la difesa finale. I legionari si strinsero intorno a Venator, poi corsero verso il fiume, gridando e aprendosi un passaggio a colpi di spada in mezzo ai barbari sconcertati. Sferravano affondi e fendenti come pazzi scatenati. Venator era prostrato e intorpidito, ma la sua spada non esitava mai, il suo passo non vacillava. L'uomo di scienza era diventato uno sterminatore. Ormai aveva superato il punto del non ritorno: gli era rimasta soltanto l'ostinazione. Non aveva più paura della morte. I soldati caddero, proteggendolo fino all'ultimo respiro. All'improvviso Venator si trovò con i piedi nell'acqua. Si slanciò, tuffandosi nel momento in cui gli arrivò sopra le ginocchia. Vide un pennone caduto da una nave incendiata e si mosse a nuoto, affannosamente, per raggiungerlo. Non osava voltarsi a guardare. I soldati che si trovavano sull'altura continuavano a resistere. I barbari
schivavano i colpi e cantilenavano frasi di sfida, cercando un punto debole nelle difese dei romani. Per quattro volte si raggrupparono in formazioni compatte e caricarono; e per quattro volte furono respinti, ma non prima di aver abbattuto altri legionari esausti. Il quadrato divenne un gruppo serrato quando i pochi superstiti chiusero le file e combatterono a spalla a spalla. I mucchi cruenti di morti e di moribondi coprivano la sommità, e il sangue scorreva a rivoli giù per il declivio. E i romani continuavano ancora a resistere. La battaglia infuriava senza soste da quasi due ore, ma i barbari attaccavano con lo stesso accanimento dell'inizio. Sentivano l'odore della vittoria e si ammassavano per l'ultima carica. Severus spezzò le aste delle frecce che gli spuntavano dalla carne e riprese a combattere. Intorno a lui, il terreno era coperto dai cadaveri dei barbari. Al suo fianco erano rimasti soltanto pochi legionari. Caddero a uno a uno, con le spade in pugno, sepolti sotto una tempesta di pietre, frecce e lance. Severus fu l'ultimo a cadere. Le gambe gli cedettero e il braccio non riuscì più a sollevare la spada. Finì in ginocchio, barcollando, tentò invano di rialzarsi, poi guardò il cielo e mormorò: «Madre, padre, accoglietemi fra le vostre braccia». Come in risposta all'invocazione, i barbari si avventarono e lo percossero selvaggiamente con le clave fino a quando la morte pose fine alla sua sofferenza. Nel fiume, Venator si aggrappò convulsamente al pennone e mosse le gambe nel tentativo disperato di raggiungere la nave che si allontanava. Fu uno sforzo vano. La corrente e un refolo di vento spingevano sempre più lontano il mercantile. Gridò per chiamare l'equipaggio e agitò freneticamente il braccio libero. A poppa, un gruppo di marinai e una ragazzina che teneva in braccio un cane lo fissavano senza compassione, senza cercare di far virare la nave. Continuarono la fuga verso il mare come se Venator non esistesse. L'avevano abbandonato, pensò. Non si sarebbero fermati per salvarlo. Batté rabbiosamente il pugno sul pennone e proruppe in singhiozzi irrefrenabili, convinto che il suo Dio l'avesse abbandonato. Poi girò gli occhi verso la riva, verso la scena di carneficina e di devastazione. La spedizione era perduta, svanita in un incubo. PARTE PRIMA
VOLO NEBULA 106
1. 12 ottobre 1991 Aeroporto di Heathrow, Londra Nessuno badò al pilota mentre girava intorno alla folla dei giornalisti che si ammassavano all'interno della sala dei VIP. E nessuno dei passeggeri seduti nell'area di attesa dell'uscita 14 si accorse che portava una grossa sacca di tela anziché una borsa. L'uomo teneva la testa bassa, lo sguardo fisso davanti a sé, ed evitava scrupolosamente la serie di telecamere puntate su una donna alta e piacente dal viso scuro levigato e dagli occhi neris-
simi che era al centro di tutta quella chiassosa attenzione. Il pilota attraversò in fretta la rampa chiusa e si fermò davanti a due agenti del servizio di sicurezza in borghese che bloccavano il portello dell'aereo. Li salutò con un cenno disinvolto e cercò di passare in mezzo a loro, ma una mano gli strinse un braccio. «Un momento, comandante.» Il pilota si fermò: un'espressione interrogativa e amichevole a un tempo comparve sul volto dalla carnagione scura. Sembrava quasi divertito dal contrattempo. Gli occhi olivastri erano penetranti come quelli di uno zingaro. Il naso aveva subito più di una frattura, e una lunga cicatrice segnava la mandibola sinistra. I capelli grigi e corti e le rughe sul viso facevano pensare a un'età di poco inferiore alla sessantina. Era alto più di un metro e novanta, massiccio e con un accenno di pancia. Sicuro di sé, eretto nell'uniforme confezionata su misura, somigliava ad altri diecimila piloti di linea che comandavano i jet passeggeri delle linee internazionali. Il pilota tolse dal taschino il documento d'identità e lo porse all'agente. «Abbiamo a bordo qualche VIP, in questo viaggio?» chiese con aria innocente. L'agente britannico, vestito con eleganza immacolata, annuì. «Un gruppo di pezzi grossi dell'ONU che tornano a New York... incluso il nuovo segretario generale.» «Hala Kamil?» «Sì.» «Non è un incarico per una donna.» «Il fatto di essere una donna non era certo un ostacolo per il primo ministro Thatcher.» «Quella non si trovava in acque così brutte.» «La Kamil è molto sveglia. Se la caverà benissimo.» «Purché i fanatici musulmani del suo paese non la facciano saltare in aria», rispose il pilota con un marcato accento americano. Il britannico gli lanciò un'occhiata strana, ma non fece commenti mentre confrontava la foto del documento d'identità con la faccia che aveva davanti e leggeva il nome a voce alta. «Comandante Dale Lemke.» «Ci sono problemi?» «No, stiamo solo cercando di prevenirli», rispose l'agente senza scomporsi. Lemke allargò le braccia. «Vuole perquisirmi?»
«Non è necessario. È un po' difficile che un pilota dirotti il proprio aereo. Ma dobbiamo controllare le sue credenziali per essere certi che fa veramente parte dell'equipaggio.» «Non ho messo quest'uniforme per andare a una festa in costume.» «Possiamo dare un'occhiata alla borsa?» «Certo.» Lemke posò la sacca di nylon blu sul pavimento e l'aprì. Il secondo agente estrasse i manuali di volo, li sfogliò, poi tirò fuori un congegno meccanico con un piccolo cilindro idraulico.» «Le dispiace spiegarmi che cos'è?» «L'attivatore di un portello per il raffreddamento dell'olio. Si è bloccato, e i nostri addetti alla manutenzione, all'aeroporto Kennedy, mi hanno chiesto di portarlo a casa per controllarlo.» L'agente tastò un oggetto voluminoso sul fondo della sacca. «Ehi, e questo che cos'è?» Poi alzò gli occhi con un'espressione incuriosita. «Da quando i piloti di linea viaggiano con il paracadute?» Lemke rise. «Il paracadutismo è il mio hobby. Quando c'è una sosta prolungata, faccio i lanci con i miei amici a Croydon.» «Immagino che non penserà di lanciarsi da un jet di linea.» «Non certo dà uno che vola sull'oceano Atlantico alla velocità di cinquecento nodi e a un'altitudine di più di diecimila metri.» Gli agenti si scambiarono occhiate convinte. La sacca di tela venne richiusa, il documento d'identità restituito. «Ci scusi se le abbiamo fatto perdere tempo, comandante Lemke.» «È stata una chiacchierata piacevole.» «Faccia buon volo per New York.» «Grazie.» Lemke salì a bordo ed entrò nella cabina di comando. Chiuse la porta e spense le luci in modo che un eventuale osservatore non potesse vedere i suoi movimenti dall'aerostazione. In una sequenza ormai imparata a memoria, s'inginocchiò dietro i sedili, prese dalla tasca della giacca una minuscola torcia elettrica e sollevò una botola che portava allo spazio riservato agli impianti elettronici, un compartimento che un buontempone dimenticato ormai da molto tempo aveva soprannominato «pozzo dell'inferno». Scese la scaletta nell'oscurità, accompagnato dal brusio delle voci degli assistenti di volo che preparavano la cabina passeggeri e dai tonfi dei bagagli che venivano caricati a bordo. Lemke alzò le braccia e si trascinò dietro la sacca, poi accese la torcia elettrica. Un'occhiata all'orologio gli rivelò che aveva a disposizione cin-
que minuti prima dell'arrivo dell'equipaggio. Ripeté i movimenti che aveva provato almeno cinquanta volte; prese il braccio attivatore dalla sacca e lo collegò a un minuscolo timer che aveva nascosto nel berretto. Fissò il congegno ai cardini di una porticina di accesso verso l'esterno che veniva utilizzata dai meccanici della manutenzione a terra. Poi sistemò il paracadute. Quando arrivarono il primo e il secondo ufficiale, Lemke era seduto al posto del pilota, con la faccia china su un manuale d'informazioni aeroportuali. Si scambiarono un saluto distratto e incominciarono la consueta procedura di controllo. Il copilota e l'ufficiale motorista non si accorsero che Lemke sembrava insolitamente chiuso e taciturno. Forse sarebbero stati più attenti se avessero saputo che quella doveva essere l'ultima notte della loro vita. Nella sala affollata, Hala Kamil fronteggiava una foresta di microfoni e di telecamere. Con pazienza inesauribile, teneva testa al torrente delle domande che le venivano lanciate da una folla di giornalisti curiosi. Ben pochi le chiesero del suo viaggio attraverso l'Europa e dei numerosi incontri con vari capi di Stato. Quasi tutti volevano sapere qualcosa dell'imminente caduta del governo egiziano a opera dei fondamentalisti musulmani. Hala Kamil non aveva un panorama molto chiaro della situazione. I mullah fanatici capeggiati da Akhmad Yazid, uno studioso della legge islamica, avevano scatenato passioni religiose che divampavano fra i milioni di contadini poveri della valle del Nilo e fra le masse miserabili delle baraccopoli del Cairo. Molti alti ufficiali dell'esercito e dell'aeronautica militare cospiravano con i radicali islamici per spodestare il presidente Nadav Hasan, insediato da poco. La situazione era estremamente fluida, ma Hala non aveva ricevuto informazioni recenti dal suo governo e perciò era costretta a dare risposte vaghe e ambigue. In apparenza, Hala era infinitamente calma: rispondeva senza manifestare la minima emozione, quasi fosse la sfinge. In realtà si dibatteva tra la confusione e il trauma spirituale. Si sentiva distante e sola, come se quegli avvenimenti incontrollabili turbinassero intorno a qualcun altro, qualcuno che non poteva essere aiutato e per il quale lei provava soltanto commiserazione. Hala Kamil avrebbe potuto posare per il ritratto della regina Nefertiti, custodito nel museo di Berlino. Aveva lo stesso collo esile, gli stessi lineamenti delicati, lo stesso sguardo profondo. A quarantadue anni, snella,
con gli occhi neri, la perfetta carnagione dorata e i lunghi, serici capelli nerissimi pettinati all'indietro e ricadenti sulle spalle, era aita un metro e settantanove con i tacchi, e la figura agile e ben modellata era messa in risalto dal tailleur con la gonna pieghettata. Nel corso degli anni Hala aveva avuto quattro amanti, ma non si era sposata. L'idea di un marito e dei figli le sembrava estranea. Rifiutava di trovare tempo per i legami a lungo termine, e fare l'amore non l'affascinava molto di più dell'idea di assistere a un balletto classico. Quand'era bambina, al Cairo dove la madre era insegnante e il padre regista cinematografico, aveva dedicato ogni minuto del suo tempo libero a eseguire disegni e a effettuare scavi fra le antiche rovine che poteva raggiungere da casa con la bicicletta. Era un'ottima cuoca, un'artista, vantava la libera docenza in antichità egizie, e aveva ottenuto uno dei pochi posti accessibili alle donne musulmane, come ricercatrice del ministero della Cultura. Con grande impegno ed energia prodigiosa, si era battuta con successo contro le discriminazioni islamiche e aveva fatto carriera fino a diventare direttore delle Antichità e, successivamente, capo del dipartimento delle Informazioni. Aveva attirato l'attenzione del presidente Mubarak, che l'aveva inclusa nella delegazione egiziana presso l'assemblea generale dell'ONU. Cinque anni più tardi era stata nominata vicepresidente: Javier Pérez de Cuellar aveva infatti abbandonato la carica a metà del secondo mandato dopo che cinque nazioni dominate dai musulmani si erano ritirate dall'organizzazione durante una controversia per questioni di riforme religiose. E dato che gli uomini che la precedevano nell'elenco dei candidati avevano rifiutato l'incarico, era stata designata come segretario generale nella remota speranza che riuscisse a sanare le spaccature sempre più gravi nelle fondamenta dell'ONU. Ora, mentre il suo governo vacillava sull'orlo della disgregazione, sembrava molto probabile che fosse destinata a diventare il primo massimo rappresentante delle Nazioni Unite senza una patria. Un collaboratore si avvicinò e le bisbigliò qualcosa all'orecchio. Hala annuì e alzò una mano. «Mi hanno avvertita che l'aereo è pronto per il decollo», disse. «Posso rispondere ancora a una sola domanda.» Molte mani si alzarono, una dozzina di domande saturò l'aria. Hala indicò un uomo che stava sulla soglia e teneva fra le mani un registratore. «Leigh Hunt della BBC, madame Kamil. Se Akhmad Yazid sostituirà
una repubblica islamica al governo democratico del presidente Hasan, lei ritornerà in Egitto?» «Sono egiziana e musulmana. Se i dirigenti del mio Paese, quale che sia il governo al potere, vogliono che torni in patria, lo farò.» «Anche se Akhmad Yazid l'ha definita un'eretica e una traditrice?» «Sì», rispose con calma Hala. «Se quello è fanatico anche soltanto la metà dell'ayatollah Khomeini, lei potrebbe andare incontro alla morte sicura. Può dirci che cosa ne pensa?» Hala scosse la testa, sorrise garbatamente e disse: «Ora devo andare. Grazie». Una schiera di agenti del servizio di sicurezza la scortarono lontano dalla folla dei giornalisti fino alla rampa di partenza. I suoi collaboratori e i membri di una numerosa delegazione dell'UNESCO erano già seduti ai rispettivi posti. Quattro alti funzionari della World Bank bevevano una bottiglia di champagne e conversavano sottovoce nella dispensa. Nella cabina passeggeri aleggiavano gli odori del carburante e del filetto alla Wellington. Hala agganciò la cintura di sicurezza e guardò dal finestrino. C'era una nebbia leggera. Le luci azzurre lungo le piste si smorzarono in un chiarore fioco prima di scomparire completamente. Hala si tolse le scarpe, chiuse gli occhi e si assopì prima ancora che la hostess avesse il tempo di venire a offrirle un cocktail. Dopo aver atteso il suo turno dietro un TWA 747, il volo charter 106 delle Nazioni Unite si portò finalmente in fondo alla pista. Quando la torre di controllo diede l'autorizzazione a decollare, Lemke spinse in avanti le leve e il Boeing 720-B avanzò sul cemento bagnato e s'innalzò nell'aria umida. Appena ebbe raggiunto l'altezza di crociera di 10.500 metri ed inserito il pilota automatico, Lemke sganciò la cintura e si alzò. «Una necessità impellente», disse, e si avviò verso la porta. Il secondo ufficiale, un uomo dalla faccia lentigginosa e i capelli color stoppa, sorrise senza staccare gli occhi dal quadro degli strumenti. «Tanto io non scappo.» Lemke rise seccamente ed entrò nella cabina passeggeri. Gli assistenti di volo si stavano preparando a servire il pasto. Il profumo del filetto alla Wellington era più intenso che mai. Lemke fece un cenno e prese in disparte il capo steward. «Desidera qualcosa, comandante?»
«Solo un caffè», rispose Lemke. «Ma non disturbarti, mi arrangio da solo.» «Nessun disturbo.» Lo steward entrò nella dispensa e riempì una tazza. «Un'altra cosa.» «Sì, signore?» «La compagnia ci ha chiesto di partecipare a uno studio meteorologico sponsorizzato dal governo. Quando saremo a duemilaottocento chilometri da Londra, scenderò a millecinquecento metri per una decina di minuti, e registreremo il vento e la temperatura. Poi ritorneremo all'altitudine normale.» «Non riesco a credere che la compagnia abbia accettato. Vorrei tanto che il mio conto in banca ammontasse a quello che verrà a costare il consumo del carburante.» «Puoi scommettere che quegli avaracci dei nostri capi manderanno il conto a Washington.» «Informerò i passeggeri quando verrà il momento, così non si spaventeranno.» «Dacché ci sei, annuncia che, se qualcuno vedrà qualche luce attraverso i finestrini, saranno quelle di una flotta di pescherecci.» «Provvederci.» Lemke girò lo sguardo sulla cabina passeggeri e indugiò per un istante su Hala Kamil che stava dormendo. Poi proseguì: «Non ti è sembrato che le misure di sicurezza fossero molto rigorose?» chiese in tono discorsivo. «Un giornalista mi ha detto che a Scotland Yard hanno avuto notizia di un complotto per assassinare il segretario generale.» «Si comportano come se ci fosse un terrorista in ogni angolo. Ho dovuto mostrargli il documento d'identità mentre perquisivano la mia borsa.» Lo steward alzò le spalle. «Diavolo, è per proteggere anche noi, non soltanto i passeggeri.» Lemke indicò la corsia. «Se non altro, nessuno di loro ha l'aria del dirottatorc» «No, a meno che adesso abbiano perso l'abitudine di indossare giacca e cravatta.» «Comunque, per prudenza, terrò chiusa a chiave la porta della cabina di comando. Chiamami con l'intercom solo se c'è qualcosa d'importante.» «Senz'altro.» Lemke bevve un sorso di caffè, posò la tazza e tornò in cabina di comando. Il primo ufficiale, il copilota, guardava dal finestrino laterale le lu-
ci del Galles, a nord, mentre dietro di lui il motorista stava calcolando il consumo del carburante. Lemke voltò le spalle agli altri ed estrasse un minuscolo astuccio dal taschino della giacca. L'aprì e preparò una siringa che conteneva un agente nervino letale chiamato sarin. Poi si girò di nuovo, mosse un passo incerto come se avesse perso l'equilibrio e si aggrappò al braccio del secondo ufficiale. «Scusa, Frank. Ho inciampato nel tappeto.» Frank Hartley aveva un paio di baffi foltissimi, radi capelli grigi e un viso lungo, piuttosto bello. Non sentì l'ago penetrargli nella spalla. Alzò gli occhi dai contatori e dalle spie del quadro dei suoi strumenti e rise. «Dovresti smettere di bere, Dale.» «So volare diritto», rispose bonariamente Lemke. «Per me è faticoso camminare.» Hartley aprì la bocca come se volesse dire qualcosa, ma di colpo il suo volto perse ogni espressione. Scosse il capo come per schiarirsi la vista. Poi alzò gli occhi al cielo e si accasciò. Lemke si appoggiò contro il corpo di Hartley perché non cadesse, recuperò la siringa e si affrettò a sostituirla con un'altra. «Mi pare che Frank si senta male.» Jerry Oswald si girò di scatto sul sedile del copilota. Era un uomo imponente con i lineamenti taglienti di un cercatore minerario abituato a lavorare nel deserto. Guardò Lemke con aria interrogativa. «Che cosa gli è successo?» «È meglio che venga qui a dare un'occhiata.» Oswald girò intorno al sedile e si chinò su Hartley. Lemke lo colpì con l'ago e premette lo stantuffo, ma Oswald sentì la trafittura. «Che cosa diavolo è?» gridò. Si voltò di scatto e fissò senza capire la siringa che Lemke teneva in mano. Era molto più massiccio e muscoloso di Hartley, e la tossina non aveva avuto un effetto immediato. Spalancò gli occhi come se avesse compreso tutto, avanzò e afferrò Lemke per il collo. «Tu non sei Dale Lemke», ringhiò. «Perché sei truccato in modo da somigliargli?» L'uomo che si faceva chiamare Lemke non avrebbe potuto rispondere neppure se avesse voluto. Le mani poderose di Oswald lo soffocavano. Bloccato contro una paratia dal peso del primo ufficiale, tentò di balbettare una menzogna ma le parole non gli uscirono dalle labbra. Alzò il ginocchio di scatto e colpì il motorista all'inguine. L'unica reazione fu un gru-
gnito soffocato, mentre la sua vista incominciava a offuscarsi. Poi, a poco a poco, la pressione si attenuò e Oswald arretrò barcollando. I suoi occhi si riempirono di terrore quando si rese conto che stava per morire. Fissò Lemke con un'espressione d'odio e di confusione. Quando al suo cuore restavano pochi battiti, avventò il pugno e centrò Lemke allo stomaco. Lemke piombò in ginocchio, stordito e senza fiato. Con gli occhi annebbiati vide Oswald cadere contro il sedile del pilota e stramazzare sul pavimento. Lemke si lasciò scivolare in posizione seduta e riposò per qualche istante. Ansimava e si massaggiava lo stomaco dolorante. Si alzò a fatica e ascoltò, temendo di sentire un suono di voci incuriosite dall'altro lato della porta. Nella cabina passeggeri regnava il silenzio. Nessuno dei viaggiatori o dei membri dell'equipaggio aveva udito qualcosa d'insolito nel rombo monotono dei motori. Lemke grondava sudore quando sollevò Oswald sul sedile del copilota e agganciò la cintura. Quella di Hartley era già agganciata, e Lemke lo ignorò. Finalmente sedette alla guida dell'aereo e calcolò la posizione. Quarantacinque minuti più tardi, Lemke fece deviare l'aereo dalla rotta prestabilita per New York e puntò verso il gelido Artico. 2. È uno dei luoghi più desolati della terra, mai visto o conosciuto dai turisti. Negli ultimi cent'anni, solo pochi esploratori e scienziati si sono aggirati in quel territorio proibitivo. Il mare, lungo la costa accidentata, è gelato per tutto l'anno eccettuate poche settimane e all'inizio dell'autunno la temperatura scende intorno ai 70 gradi sotto lo zero. L'oscurità domina il cielo freddo per tutti i lunghi mesi invernali e persino durante l'estate il sole abbagliante può lasciare il posto in meno di un'ora a una tormenta impenetrabile. Eppure, ombreggiata dalle sfregiate montagne glaciali e spazzata da un vento costante, questa magnifica terra desolata nel tratto superiore dell'Ardencaple Fjord sulla costa nord-orientale della Groenlandia fu abitata quasi duemila anni or sono da tribù di cacciatori. La datazione con il radiocarbonio effettuata sui reperti estratti dagli scavi indica che il sito venne occupato dal 200 al 400 d.C, un periodo di tempo piuttosto breve per l'orologio dell'archeologia. Ma quei cacciatori lasciarono venti abitazioni che furono conservate splendidamente dal clima glaciale.
Una struttura di alluminio prefabbricata era stata trasportata per mezzo di elicotteri e montata sopra l'antico villaggio da un gruppo di scienziati dell'università del Colorado. Un impianto di riscaldamento non troppo efficiente e gli strati isolanti di lana di vetro combattevano una battaglia incerta contro il freddo, ma almeno impedivano l'accesso al vento che ululava senza tregua intorno alle pareti esterne. Quel riparo, inoltre, permetteva a un team di archeologi di continuare a lavorare sul sito anche durante le fasi iniziali dell'inverno. Lily Sharp, docente di antropologia all'università del Colorado, non badava al freddo che si insinuava nel villaggio coperto. Era inginocchiata sul pavimento di un'abitazione monofamiliare, e raschiava cautamente il terriccio ghiacciato con una minuscola cazzuola. Era sola e completamente assorta mentre sondava il remoto passato appartenuto a un popolo preistorico. Erano stati cacciatori di mammiferi marini e avevano trascorso gli spietati inverni artici in abitazioni scavate parzialmente nel terreno, con bassi muri di pietra e tetti di zolle, spesso sostenuti da ossa di balena. Si riscaldavano con lampade a olio e passavano i lunghi mesi di oscurità scolpendo minuscole statuine di avorio, corno e legno gettato a terra dalle correnti. Avevano popolato parte della Groenlandia durante i primi secoli dopo Cristo. Poi, impiegabilmente, al culmine della loro cultura, erano scomparsi lasciando quel tesoro rivelatore. La perseveranza di Lily diede buoni frutti. Mentre i tre uomini del team si rilassavano dopo il pasto nella baracca che serviva come alloggio, era tornata all'insediamento protetto e aveva continuato a scavare, dissotterrando un pezzo di corno di caribù con venti figure d'orso scolpite sulla superficie, un pettine da donna delicatamente intagliato e una pentola di pietra. All'improvviso la cazzuola urtò qualcosa. Lily ripeté il movimento e ascoltò con attenzione. Batté di nuovo, affascinata. Non era il suono abituale della cazzuola che urtava contro una pietra. Sebbene fosse piuttosto smorzato, aveva un eco metallico. Lily si raddrizzò e si stirò. Un paio di ciocche dei lunghi capelli rossoscuri che scintillavano nella luce della lanterna Coleman sfuggirono al pesante berretto di lana. Gli occhi verdazzurri esprimevano curiosità e scetticismo mentre fissavano il minuscolo oggetto che sporgeva dalla terra nera. Qui viveva un popolo preistorico, pensò. Non conosceva il ferro o il bronzo.
Lily si sforzò di conservare la calma, ma era assalita dallo sbalordimento. Poi sopravvenne un'eccitazione tale da farle dimenticare quella passione per la prudenza così comune agli archeologi. Raschiò e scavò furiosamente il suolo incrostato. A intervalli di pochi minuti si interrompeva per rimuovere attentamente con un pennellino da pittore il terriccio smosso. E finalmente il manufatto apparve allo scoperto. Lily si chinò per osservarlo meglio, stupefatta. Brillava d'un colore giallo sotto la fulgida luce bianca della lanterna Coleman. Lily aveva scoperto una moneta d'oro. Era molto vecchia, a giudicare dai bordi consunti. Da un lato c'era un piccolo foro con un pezzo di cinghiolo imputridito: e questo faceva pensare che fosse stata portata come pendente o come amuleto personale. Trasse un profondo respiro. Aveva quasi paura di tendere le mani per prenderla. Dopo cinque minuti Lily era ancora inginocchiata e cercava di trovare una spiegazione, quando all'improvviso la porta del riparo si aprì e un uomo con la pancia, i baffi neri e l'aria mite entrò, accompagnato da un turbine di neve. Respirava esalando nuvole di vapore. Le sopracciglia e la barba erano incrostate di ghiaccio che lo faceva somigliare a un mostro congelato uscito da un film di fantascienza. Poi sfoggiò un ampio sorriso tutto denti. Era il dottor Hiram Gronquist, l'archeologo che dirigeva gli scavi. «Scusa il disturbo, Lily», disse con voce profonda, «ma stai esagerando. Riposati un po'. Torna alla baracca a scaldarti, e io ti servirò una bella razione di brandy.» «Hiram.» Lily si sforzava di dominare l'emozione. «Voglio mostrarti qualcosa.» Gronquist si avvicinò e s'inginocchiò accanto a lei. «Che cos'hai trovato?» «Guarda un po' tu.» Gronquist cercò gli occhiali nel taschino interno del parka e li inforcò. Si chinò sulla moneta fin quasi a sfiorarla e la studiò da ogni angolo. Dopo lunghi istanti, alzò gli occhi verso Lily con aria divertita. «Vuoi prendermi in giro, signora mia?» Lily lo guardò severamente, poi rise. «Oh, mio Dio, credi che l'abbia messa qui apposta?» «Vorrai ammettere che è come trovare una vergine in un bordello.» «Che paragone carino.» Gronquist le diede una pacca amichevole sul ginocchio. «Congratula-
zioni. È una scoperta eccezionale.» «Come pensi che sia finita qui?» «Non esiste un giacimento d'oro sfruttabile entro un raggio di milleseicento chilometri, e di sicuro non è stata coniata dagli abitanti primitivi. Il loro livello evolutivo superava di poco quello dell'età della pietra. È evidente che la moneta è arrivata qui da un'altra fonte e in un'epoca successiva.» «E come spieghi che sia sepolta assieme a manufatti che abbiamo datato tra il 200 e il 400 dopo Cristo?» Gronquist alzò le spalle. «Non so spiegarlo.» «Dimmi almeno la tua ipotesi», insistette Lily. «Così sul momento, direi che probabilmente la moneta fu perduta o barattata da un vichingo.» «Non ci sono prove che i vichinghi si siano spinti tanto a nord lungo la costa orientale», disse Lily. «D'accordo. Allora forse in tempi più recenti gli eschimesi scambiavano merci con gli insediamenti norreni più a sud e si servivano di questo sito per accamparsi durante le spedizioni di caccia.» «Sai bene che non può essere così, Hiram. Non abbiamo trovato tracce d'insediamenti posteriori al 400 dopo Cristo.» Gronquist le lanciò un'occhiata di rimprovero. «Non ti arrendi mai, eh? Non conosciamo neppure la data della moneta.» «Mike Graham è un esperto di monete antiche. Una delle sue specialità è la datazione dei siti sulle rive del Mediterraneo. Lui potrebbe identificarla.» «E la perizia non ci costerà un soldo», disse allegramente Gronquist. «Vieni. Mike potrà esaminare la moneta mentre beviamo il brandy.» Lily mise i guanti foderati di pelliccia, si assestò il cappuccio del parka e spense la Coleman. Gronquist accese una torcia elettrica e aprì la porta. Lily uscì nel freddo tremendo e fu investita dal vento che ululava come uno spettro in un camposanto. L'aria gelida le schiaffeggiò le guance e la fece rabbrividire, una reazione che sembrava coglierla sempre alla sprovvista, anche se ormai avrebbe dovuto esserci abituata. Afferrò la fune che conduceva all'alloggio e avanzò a tentoni dietro la mole protettrice di Gronquist. Lanciò un'occhiata verso l'alto. Non c'erano nubi e le stelle sembravano fondersi in un unico, immenso tappeto di diamanti che illuminava le montagne brulle a ovest e la coltre di ghiaccio estesa dal fiordo al mare, a est. La strana bellezza dell'Artide era avvincen-
te, pensò Lily. Poteva capire perché tanti uomini perdevano l'anima a causa del suo incantesimo. Dopo una marcia di trenta metri nel buio, entrarono nel corridoio antitormenta della baracca, proseguirono per altri, tre metri e aprirono una seconda porta che immetteva nell'alloggio. Per Lily, dopo il freddo abominevole dell'esterno, fu come entrare in una fornace. L'aroma del caffè le accarezzò le narici come un profumo squisito. Si sbarazzò immediatamente dei guanti e del parka e riempì una tazza. Sam Hoskins, con i lunghi capelli biondi e un paio di baffoni a manubrio, era chino su un tavolo da disegno. Era un architetto di New York innamorato dell'archeologia e ogni anno abbandonava per due mesi la professione per partecipare agli scavi intorno al mondo. In quel momento stava disegnando quello che aveva dovuto essere millesettecento anni prima il villaggio preistorico, fornendo preziose indicazioni alla spedizione. L'altro componente della spedizione era un uomo dalla carnagione chiara e dai radi capelli color stoppa. Stava sdraiato su una branda e leggeva un romanzo, un'edizione tascabile molto sciupata. Lily non ricordava di aver mai visto Mike Graham senza un libro d'avventure in mano o in tasca. Graham, che era uno dei più autorevoli archeologi del Paese, aveva l'aria mesta di un impresario delle pompe funebri. «Ehi, Mike!» tuonò Gronquist. «Dai un'occhiata a quello che ha trovato Lily.» Lanciò la moneta attraverso la stanza. Lily si lasciò sfuggire un'esclamazione sgomenta, ma Graham l'afferrò al volo e la scrutò. Dopo un momento alzò la testa e socchiuse gli occhi in un'espressione diffidente. «Mi state prendendo in giro.» Gronquist rise. «L'ho pensato anch'io appena l'ho vista. No, non è uno scherzo. Lily l'ha trovata nel sito otto.» Graham tirò fuori una valigia che stava sotto la branda e prese una lente d'ingrandimento. Tenne la moneta sotto la lente e l'esaminò da ogni angolo. «Allora, qual è il verdetto?» chiese spazientita Lily. «Incredibile», mormorò affascinato Graham. «Un miliarense d'oro. Circa tredici grammi e mezzo. Non ne avevo mai visto uno. Sono molto rari. Un collezionista sarebbe disposto a pagarlo dai sei agli ottomila dollari.» «Chi rappresenta?» «È una figura in piedi di Teodosio il Grande, imperatore di Roma e Bisanzio. La posa è comune nelle monete dell'epoca. Se osservate con atten-
zione, potete distinguere i prigionieri ai suoi piedi, mentre le mani reggono un globo e un labaro.» «Un labaro?» «Sì, un vessillo con le lettere greche XP, cioè chi e rho, una specie di monogramma che sta a significare 'in nome di Cristo'. L'adottò l'imperatore Costantino dopo la conversione al cristianesimo, e poi fu usato anche dai successori.» «Riesci a capire la scritta sull'altra faccia?» chiese Gronquist. L'occhio di Graham parve ingigantire attraverso la lente mentre studiava la moneta. «Tre parole. La prima sembra TRIVMFATOR. Non riesco a decifrare le altre due. Sono quasi consunte. Un catalogo dovrebbe dare la descrizione e la traduzione della legenda. Ma dovrò aspettare di essere tornato nel mondo civile prima di poter controllare.» «Sei in grado di assegnarle una data?» Graham fissò il soffitto con aria pensierosa. «È stata coniata durante il regno di Teodosio che, se non ricordo male, durò dal 379 al 395 dopo Cristo.» Lily fissò Gronquist. «Proprio nel periodo del nostro insediamento.» Gronquist scosse la testa. «È pura fantasia pensare che gli eschimesi del quarto secolo avessero contatti con l'impero romano.» «Non possiamo escludere tutte le possibilità», insistette Lily. «Non appena lo si saprà, i media si lanceranno in una pioggia di ipotesi e di esagerazioni», disse Hoskins, mentre esaminava la moneta per la prima volta. Gronquist trangugiò un sorso di brandy. «È già successo di trovare monete antiche nei posti più impensati. Ma la datazione e la provenienza solo raramente vengono provate con un grado di certezza tale da convincere la comunità degli archeologi.» «Può darsi», mormorò Graham. «Ma io darei la mia Mercedes decappottabile per sapere com'è finita qui.» Tutti fissarono la moneta in silenzio per qualche istante. Ognuno era perduto nei suoi pensieri. Finalmente Gronquist spezzò il silenzio. «L'unica cosa sicura, sembra, è che ci troviamo per le mani un autentico mistero.» 3. Poco prima di mezzanotte, l'impostore incominciò a mettere in atto il
piano appreso a memoria per abbandonare il jet di linea. L'aria era limpida, e la macchia indistinta dell'Islanda spuntava sopra l'orizzonte piatto e nero del mare. L'isola era delineata dal chiarore fievole e verdognolo dell'aurora boreale. Non pensava ai morti che gli stavano accanto. Era abituato all'odore del sangue e non gli dava più fastidio. La morte e le stragi facevano parte del suo lavoro. Era indifferente ai cadaveri mutilati quanto un patologo o un macellaio. Quando si trattava di uccidere; l'impostore aveva una mentalità clinica. I numeri dei morti erano soltanto somme matematiche. Lo pagavano bene: era un mercenario e un fanatico religioso che assassinava per la sua causa. Stranamente, l'unica cosa che l'offendeva era essere chiamato attentatore o terrorista. Detestava quelle parole. Avevano un suono politico; e lui provava una ripugnanza assoluta per i politici. Era un uomo con mille identità, un perfezionista che rifiutava di sparare a casaccio in mezzo alla folla o di installare bombe nelle automobili: li considerava espedienti buoni per ragazzetti idioti. I suoi metodi erano molto più sottili. Non lasciava mai nulla al caso. Per gli investigatori di tutte le nazioni era assai difficile distinguere molti dei suoi attentati dai semplici incidenti. L'uccisione di Hala Kamil era qualcosa di più di un compito assegnatogli: era un dovere. Erano stati necessari cinque mesi per perfezionare il suo piano, e poi era venuta l'attesa paziente del momento opportuno. Era quasi un peccato, pensava. La Kamil era una bella donna. Ma era un pericolo che doveva essere eliminato. Regolò con delicatezza le cloche e spinse leggermente in avanti la barra di comando per incominciare una discesa graduale. Solo un altro pilota avrebbe notato l'impercettibile diminuzione della velocità e dell'altitudine. L'equipaggio in servizio nella cabina passeggeri non era venuto a disturbarlo. In quanto ai passeggeri, sonnecchiavano e cercavano invano di sprofondare nel sonno quasi sempre impossibile durante i lunghi voli. Per la ventesima volta controllò la rotta e studiò i numeri sul computer che aveva riprogrammato perché indicasse il tempo e la distanza dalla zona di lancio. Dopo quindici minuti il jet sorvolò un tratto disabitato della costa meridionale dell'Islanda e puntò verso l'entroterra. Il paesaggio sottostante diventò un mosaico di rocce grigie e di neve candida. L'impostore abbassò gli alettoni e ridusse la velocità fino a che il Boeing 720-B prese a volare a
352 chilometri orari. Innestò il pilota automatico su una nuova frequenza radio irradiata dal faro sull'Hofsjökull, un ghiacciaio alto 1737 metri e situato al centro dell'isola. Poi regolò l'altitudine in modo che l'aereo andasse a sbattere 150 metri al di sotto della vetta. Metodicamente, fracassò gli indicatori di direzione e gli apparecchi di comunicazione. Infine cominciò a scaricare carburante, nell'eventualità che si verificasse un inconveniente nel suo piano minuzioso. Ancora otto minuti. Si calò attraverso la botola e scese nel «pozzo dell'inferno». Portava un paio di stivali francesi da paracadutista con le suole molto spesse ed elastiche. Prese la tuta dalla sacca e l'indossò. Non aveva avuto la possibilità di portare un casco, e dovette accontentarsi di un passamontagna e di un berretto di lana. Poi mise i guanti e gli occhiali, e si affibbiò l'altimetro al polso. Fece scattare i moschettoni dell'imbracatura e controllò le cinghie. Il paracadute di riserva poggiava contro le scapole, quello principale aderiva alle reni. Era un paracadute rettangolare, di quelli che permettono una discesa molto dolce. Diede un'occhiata all'orologio. Un minuto e venti secondi. Aprì il portello di sicurezza e fu investito da un violento getto d'aria. Fissò la lancetta dei secondi e incominciò il conto alla rovescia. Quando arrivò a zero si lanciò con i piedi in avanti attraverso la stretta apertura. La velocità dell'aria lo investì con la violenza gelida di una valanga e gli mozzò il respiro nei polmoni. L'aereo passò sopra di lui con un rombo assordante. Per una frazione di secondo sentì il calore che usciva dagli ugelli della turbina. Poi l'aereo si allontanò, e Lemke continuò a precipitare. A faccia in giù, a braccia protese, con le ginocchia leggermente flesse e le mani aperte, guardò in basso e vide soltanto tenebra. A terra non si scorgeva neppure una luce. Pensò al peggio. La sua squadra non era riuscita a raggiungere il luogo esatto del rendez-vous. Senza una zona-bersaglio ben definita non poteva valutare la direzione della discesa e lo spostamento causato dal vento. Avrebbe potuto atterrare a chilometri e chilometri di distanza o, peggio ancora, piombare sul ghiaccio accidentato, ferirsi seriamente e non essere trovato in tempo. In dieci secondi era già precipitato per quasi 360 metri. L'ago del quadrante luminoso dell'altimetro stava passando sul rosso. Non poteva più at-
tendere. Estrasse il paracadute pilota da una borsa e lo lanciò nel vento, in modo che si ancorasse nel cielo e facesse aprire il paracadute principale. Il paracadute si aprì con uno schiocco rassicurante, e l'uomo fu strattonato in una posizione eretta. Prese la torcia elettrica e la puntò verso l'alto. Il paracadute era sbocciato sopra di lui. Improvvisamente un piccolo cerchio di luci balenò sulla destra, alla distanza di poco più di un chilometro e mezzo. Poi un razzo salì nel cielo e brillò per alcuni secondi, il tempo sufficiente per permettergli di giudicare la direzione e la velocità del vento. Regolò l'inclinazione del paracadute e incominciò a planare verso le luci. Un altro razzo salì nel cielo. Il vento era costante, senza fluttuazioni, mentre l'uomo si avvicinava al suolo. Adesso poteva vedere chiaramente la squadra. Avevano acceso un'altra fila di luci che portava al cerchio già illuminato. Regolò di nuovo l'inclinazione del paracadute e iniziò una virata di centottanta gradi nel vento. Lemke si preparò a toccare terra. La squadra aveva scelto bene il punto. Toccò con i piedi il terreno soffice della tundra, e compì un perfetto atterraggio al centro del cerchio. Senza una parola, sganciò l'imbracatura e uscì dal cerchio abbagliante. Guardò il cielo. L'aereo, con l'equipaggio e i passeggeri ignari di tutto, continuava a volare verso il ghiacciaio che saliva gradualmente. La distanza fra il ghiaccio e il metallo si riduceva sempre di più. Lemke restò a guardare mentre il rombo smorzato dei motori a reazione si spegneva e le luci di navigazione sparivano nel buio della notte. 4. Nella dispensa, un'hostess inclinò la testa e ascoltò. «Cos'è questo rumore strano che viene dalla cabina di comando?» chiese. Gary Rubin, il capo steward, uscì nel corridoio e si girò verso il muso dell'aereo. Sentì qualcosa che sembrava un rombo continuo e smorzato, simile allo scorrere fragoroso di acqua in lontananza. Dieci secondi dopo che l'impostore si era lanciato, il timer dell'attivatore mise in funzione il braccio idraulico, e chiuse il portello del «pozzo dell'inferno». Lo strano rumore cessò. «Ha smesso», disse lo steward. «Non lo sento più.»
«Che cosa credi che fosse?» «Non lo so. Non avevo mai sentito niente di simile. Per un momento ho pensato che ci fosse una perdita di pressione.» In quel momento si accese una spia luminosa per indicare che uno dei passeggeri aveva chiamato. La hostess si assestò i capelli biondi e passò nella cabina principale. «Forse sarà meglio che lo chieda al comandante», disse girando la testa. Rubin esitò. Ricordava che Lemke aveva ordinato di non disturbarlo se non per ragioni della massima importanza. Ma la prudenza non era mai troppa, e la sicurezza dei passeggeri veniva al primo posto. Prese il microfono dell'intercom e premette il tasto per chiamare la cabina di comando. «Comandante, sono il capo steward. Abbiamo appena sentito un rumore strano a prua. C'è qualche problema?» Non ebbe risposta. Ritentò tre volte, ma il ricevitore rimase muto. Per qualche istante restò nell'incertezza, chiedendosi perché nella cabina di comando non rispondeva nessuno. Volava da dodici anni, e quella era per lui un'esperienza del tutto nuova. Stava ancora cercando una spiegazione all'enigma quando l'hostess tornò in fretta e gli disse qualcosa. In un primo momento non le badò; ma poi si rese conto del tono concitato della sua voce. «Che... che cos'hai detto?» «Stiamo sorvolando la terraferma!» «La terraferma?» «È proprio sotto di noi», disse la donna, confusa. «Me l'ha indicata un passeggero.» Rubin scrollò la testa. «Impossibile. Dobbiamo essere in mezzo all'oceano. Probabilmente avrà visto le luci di qualche peschereccio. Il comandante aveva detto che avremmo potuto vederne durante la discesa per il programma di studi meteorologici.» «Guarda tu», insistette la hostess. «Ci stiamo avvicinando al suolo. Credo che stiamo per atterrare.» Rubin si avvicinò al finestrino della dispensa e guardò in basso. Sotto di lui non c'erano le acque buie dell'Atlantico, ma un brillio bianco. Un'immensa distesa di ghiaccio scorreva sotto l'aereo a una distanza che non superava i duecentoquaranta metri, abbastanza vicino perché i cristalli di ghiaccio rispecchiassero i lampi stroboscopici delle luci di navigazione. Rubin rimase immobile, senza capire, e si sforzò di ricavare un senso da
ciò che gli rivelavano i suoi occhi. Se si trattava di un atterraggio d'emergenza, perché il comandante non aveva avvertito il personale? Le scritte «Allacciate le cinture» e «Vietato fumare» non s'erano accese. Quasi tutti i funzionari dell'ONU erano svegli, e leggevano o parlavano tra loro. Soltanto Hala Kamil dormiva profondamente. Alcuni delegati messicani, di ritorno da una missione alla sede della World Bank, erano seduti intorno a un tavolino nel settore di coda. Il direttore dei Finanziamenti Esteri, Miguel Salazar, parlava sottovoce in tono irritato. Intorno al tavolo regnava un'atmosfera di sconfitta. Il Messico aveva subito un collasso economico disastroso e si avvicinava ormai alla bancarotta senza che ci fosse in vista la possibilità di aiuti monetari. Rubin fu assalito dalla paura. «Che cosa diavolo succede?» furono le parole che gli uscirono impulsivamente dalle labbra. L'hostess era altrettanto spaventata. Impallidì e sgrano gli occhi. «Non dovremmo incominciare la procedura d'emergenza?» «Non allarmiamo i passeggeri. Almeno per ora. Dammi il tempo di sentire il comandante.» «Ma abbiamo davvero il tempo?» «Non lo so.» Con uno sforzo Rubin dominò la paura: si avviò quasi correndo verso la cabina di comando e simulò uno sbadiglio annoiato per sopire la curiosità che i passeggeri potevano provare nel notare il suo passo rapido. Chiuse la tenda che separava il vano d'entrata dalla cabina principale. Poi provò ad aprire la porta. Era bloccata dall'interno. Bussò convulsamente. Nessuno rispose. Fissò stordito la sottile barriera che chiudeva la cabina di comando. La sua mente non riusciva a formulare un solo pensiero. Poi, in uno scatto di disperazione, sferrò un calcio e forzò la porta. Era un uscio fragile, montato in modo da aprirsi verso l'esterno, ma il colpo lo mandò a sbattere contro la paratia interna. Rubin varcò la soglia e girò lo sguardo sullo spazio ristretto. Incredulità, sbalordimento, paura e orrore turbinarono nella sua mente come una piena che travolge una diga crollata. Bastò un'occhiata per scorgere Hartley accasciato sulla plancia, Oswald steso riverso sul pavimento con gli occhi vitrei fissi verso il soffitto della cabina. Lemke era sparito. Rubin scavalcò il corpo di Oswald, si sporse al di sopra del sedile vuoto
del pilota e, in preda al terrore, guardò all'esterno. La vetta massiccia dell'Hofsjökull torreggiava davanti al muso dell'aereo, a meno di quindici chilometri di distanza. La luce palpitante dell'aurora boreale delineava i bastioni di ghiaccio e chiazzava la superficie irregolare di sfumature spettrali grigie e verdi. Spinto dalla disperazione e dal panico, lo steward si buttò sul sedile del pilota e strinse convulsamente la barra di comando, tirandola verso il petto. E non successe nulla. La barra non cedeva, eppure, stranamente, l'altimetro indicava una riduzione lenta ma costante della quota. Rubin strattonò di nuovo la barra, con maggiore forza, e la sentì cedere leggermente. Non c'era il tempo per riflettere. Rubin era troppo inesperto per rendersi conto del fatto che stava cercando di dominare con la forza bruta il pilota automatico quando sarebbe stata sufficiente una pressione di undici chili. L'aria fredda e limpida faceva sembrare il ghiacciaio abbastanza vicino da toccarlo. Rubin spinse in avanti le cloche e tirò indietro la barra di comando. Ancora una volta, la sentì cedere lentamente, come il volante di una macchina lanciata a velocità folle che ha perso la capacità di sterzare. Con lentezza torturante, il Boeing sollevò il muso e superò la vetta del ghiaccialo con un margine inferiore a una trentina di metri. Sulle balze più basse del ghiacciaio l'uomo che a Londra aveva assassinato il vero Dale Lemke, comandante del volo 106, e ne aveva preso il posto, scrutò in distanza con un binocolo per la visione notturna. L'aurora boreale era sbiadita in un riverbero fioco, ma il profilo irregolare dell'Hofsjökull spiccava ancora contro il cielo. Regnava il grande silenzio dell'attesa. Gli unici suoni erano quelli dei due uomini che stavano caricando i riflettori e il radiofaro a bordo di un elicottero. Gli occhi di Suleiman Aziz Ammar si adattarono al buio e riuscirono a distinguere le balze accidentate che sfregiavano la muraglia di ghiaccio. L'uomo stava immobile come una statua e contava i secondi, in attesa del lampo di fiamma che avrebbe segnato lo schianto del volo 106. Ma la vampata lontana non apparve. Alla fine Ammar abbassò il binocolo e respirò. Intorno a lui si estendeva il silenzio freddo e remoto del ghiacciaio. Si tolse la parrucca grìgia e la scagliò via, nel buio. Poi si tolse anche gli stivali confezionati su misura e tolse i rialzi interni dai tacchi. E vide che il suo servitore e amico, Ibn
Telmuk, gli si era affiancato. «Una truccatura eccellente, Suleiman. Neppure io ti avrei riconosciuto», disse Ibn, un uomo dalla carnagione olivastra con una massa di capelli ricciuti color ebano. «Avete caricato l'attrezzatura?» chiese Ammar. «Tutto a posto. La missione è riuscita?» «C'è stato un trascurabile errore di calcolo. Chissà come, l'aereo ha superato la cresta del ghiacciaio. Allah ha concesso a Hala Kamil qualche minuto di vita in più.» «Akhmad Yazidnon sarà contento.» «Hala Kamil morirà come è stato deciso», ribatté Ammar in tono sicuro. «Niente è stato lasciato al caso.» «Ma l'aereo sta ancora volando.» «Neppure Allah potrà tenerlo in volo all'infinito.» «Hai fallito la missione», disse un'altra voce. Ammar si voltò di scatto e si trovò di fronte alla smorfia gelida di Muhammad Ismail. La faccia tonda dell'egiziano era uno strano miscuglio di malevolenza e d'innocenza infantile. Gli occhietti neri brillavano con intensità perversa sopra i baffi folti, ma non avevano forza di penetrazione. La spavalderia senza sostanza, una facciata di durezza, la capacità di premere un grilletto erano le sue uniche qualità. Ammar era stato costretto a collaborare con Ismail. L'oscuro mullah di villaggio gli era stato imposto da Akhmad Yazid. L'idolo dei musulmani concedeva la sua fiducia con parsimonia, e la dispensava solo a coloro che gli sembravano dotati di spirito battagliero e di devozione tradizionalista alle leggi originarie dell'Isiam. Per Yazid le convinzioni religiose erano più importanti della competenza e della professionalità. Ammar si proclamava un vero credente, ma Yazid diffidava di lui. Il sicario aveva l'abitudine di parlare con i capi musulmani come se fossero comuni mortali, e questo Yazid non lo gradiva. Insisteva perché Ammar svolgesse le sue missioni di morte sotto l'occhio vigile di Ismail. Ammar aveva accettato il suo cane da guardia senza protestare. Era un maestro nel gioco dell'inganno. E aveva prontamente rovesciato il ruolo di Ismail, usandolo come strumento per i suoi scopi spionistici. Ma la stupidità degli arabi costituiva per lui un continuo motivo d'irritazione. Erano incapaci di un ragionamento freddo e analitico. Scosse stancamente la testa e poi, con pazienza, spiegò a Ismail la situazione. «Possono sempre accadere avvenimenti che sfuggono al nostro control-
lo. Una corrente ascendente, un'avaria nel pilota automatico o negli altimetri, un cambiamento improvviso del vento. Ci sono cento variabili diverse che potrebbero avere evitato all'aereo di sfracellarsi contro la vetta. Ma tutte le probabilità erano state prese in considerazione. Il pilota automatico è bloccato su una rotta verso il polo. L'aereo non rimarrà in aria più di novanta minuti.» «E se qualcuno scoprisse i cadaveri nella cabina di comando e uno dei passeggeri sapesse pilotare un aereo?» «Abbiamo esaminato attentamente i fascicoli personali di tutti coloro che ora si trovano a bordo dell'aereo. Nessuno ha esperienza come pilota. Ho fracassato la radio e gli strumenti di navigazione. Se qualcuno tentasse di prendere il comando sarebbe perduto. Non avrebbe una bussola e non potrebbe orientarsi con qualche punto di riferimento. Hala Kamil e i suoi amici dell'ONU scompariranno nelle acque dell'oceano Artico.» «Non c'è alcuna possibilità che sopravvivano?» chiese Muhammad Ismail. «No», rispose Ammar in tono sicuro. «Assolutamente no.» 5. Dirk Pitt si rilasciò sulla poltroncina girevole e allungò le gambe fino a portarsi su un piano quasi orizzontale in tutta la lunghezza del suo metro e novanta. Poi sbadigliò e si passò le mani tra i folti capelli neri e ondulati. Pitt era magro e muscoloso, in ottima forma fisica anche se non correva ogni giorno per sedici chilometri e non considerava il sudore del bodybuilding come un tonico divino contro la vecchiaia. Aveva il volto abbronzato di chi ama la vita all'aria aperta e preferisce il sole alle luci fluorescenti di un ufficio. Gli occhi d'un verde intenso irradiavano una strana combinazione di calore e di crudeltà, mentre le labbra sembravano eternamente atteggiate in un sorriso amichevole. Si trovava a suo agio fra i ricchi e i potenti, ma prediligeva la compagnia di uomini e donne che bevevano i liquori senza annacquarli e non sdegnavano di sporcarsi le mani. Era uscito dall'accademia aeronautica e figurava in servizio attivo con il grado di maggiore sebbene fosse «in prestito» da quasi sei anni alla National Underwater & Marine Agency, la NUMA, come direttore dei Progetti Speciali. In compagnia di Al Giordino, suo amico fin dall'infanzia, si era avventu-
rato in tutti i mari, in superficie e negli abissi, e in un lustro aveva conosciuto più esperienze incredibili di quante possano averne tanti altri uomini anche se vivessero dieci volte più a lungo del normale. Aveva scoperto il treno scomparso della Manhattan Limited dopo aver attraversato a nuoto una caverna sotterranea di New York, aveva recuperato il transatlantico Empress of Ireland, affondato nel fiume San Lorenzo con mille persone a bordo. Aveva ritrovato il sottomarino nucleare perduto Starbuck in mezzo al Pacifico e la nave fantasma Cyclops nella sua tomba caraibica. E aveva riportato a galla il Titanic. Come diceva spesso Giordino, era un uomo votato alla riscoperta del passato e nato con ottant'anni di ritardo. «Immagino che questo vorrai vederlo», lo chiamò all'improvviso Giordino dall'altra parte del locale. Pitt staccò gli occhi dal monitor a colori che mostrava il fondo marino cento metri al di sotto dello scafo del rompighiaccio Polar Explorer, una nave nuova e solida costruita per solcare le acque coperte dai ghiacci. La massiccia sovrastruttura torreggiante sembrava un palazzo d'uffici a cinque piani, e la grossa prua, spinta da motori che sviluppavano una potenza di ottantamila cavalli, era in grado di aprirsi un varco attraverso il ghiaccio dello spessore di un metro e mezzo. Pitt appoggiò un piede contro un banco, piegò un ginocchio e spinse. Era un movimento perfezionato in settimane di pratica e armonizzato con il lieve rollio della nave. Virò di centottanta gradi sulla poltroncina a rotelle e si spostò di tre metri sul ponte inclinato del compartimento elettronico. «Sembra un cratere in formazione.» Al Giordino stava alla console e studiava un'immagine del sonar Klein. Al era basso, non più di un metro e sessantadue, con i piedi grandi, le spalle robuste che davano alla sua figura la bizzarra forma di un cuneo: sembrava costruito con i pezzi di ricambio di un bulldozer. I capelli scuri e ricciuti erano un'eredità dei suoi antenati italiani, e, se avesse portato un fazzoletto al collo e un orecchino d'oro, avrebbe potuto passare per un suonatore d'organetto. Deciso, dotato di un pungente senso dell'umorismo affidabile come una marea, Giordino rappresentava per Pitt la polizza d'assicurazione contro la legge di Murphy, secondo la quale se qualcosa può andar male, lo farà. E la concentrazione di Giordino non venne meno mentre Pitt, con i piedi protesi per ammortizzare l'urto, andava a fermarsi bruscamente contro la console accanto a lui.
Pitt osservò la sonografia ingrandita dal computer mentre il fianco d'un cratere saliva lentamente, diventava una cresta e quindi discendeva ripido nel vuoto. «È una caduta brusca», disse Giordino. Pitt lanciò un'occhiata all'ecoscandaglio. «Dai 140 ai 180 metri.» «Non c'è quasi pendenza sull'orlo esterno.» «200 metri, e continua a scendere.» «È una formazione strana per un vulcano», notò Giordino. «Non ci sono tracce di rocce laviche.» Un uomo alto, dal viso florido e dai folti capelli bruni brizzolati che cercavano di sfuggire dal berretto da baseball inclinato all'indietro, aprì la porta e si affacciò. «Vecchi gufi, volete qualcosa da mangiare o da bere?» «Un sandwich al burro d'arachidi e una tazza di caffè senza panna andrebbero bene», rispose Pitt senza voltarsi. «Ecco, si sta appianando a 220 metri.» «Un paio di ciambelle e latte», aggiunse Giordino. Il comandante Byron Knight, capitano della nave, annuì. Oltre a Pitt e a Giordino, era l'unico che avesse accesso al compartimento elettronico, vietato al resto degli ufficiali e dell'equipaggio. «Passerò le ordinazioni in cambusa.» «Sei un essere meraviglioso, Byron», disse Pitt con un sorriso sarcastico. «Qualunque cosa dica di te il resto della Marina.» «Hai mai assaggiato il burro d'arachidi con l'arsenico?» ribatté Knight prima di uscire. Giordino continuò a osservare con attenzione mentre l'arco della formazione si allargava. «Il diametro è di circa due chilometri.» «L'interno è sedimento liscio», disse Pitt. «Il fondo non presenta fratture.» «Doveva essere un vulcano gigantesco.» «Non era un vulcano.» Giordino si voltò con un'espressione incuriosita negli occhi. «Che altro nome daresti, tu, a un cratere sommerso?» «Non andrebbe bene 'cratere da impatto meteoritico'?» Giordino fece una smorfia scettica. «Un cratere meteoritico a questa profondità sul fondo marino?» «Probabilmente si è formato migliaia o milioni di anni fa, in un'epoca in cui il livello del mare era più basso.»
«Che cosa te lo fa pensare?» «Ci sono tre indizi», spiegò Pitt. «Innanzi tutto abbiamo un orlo ben definito senza un pendio esterno prominente. In secondo luogo, il profiler indica una sezione a conca. Infine...» S'interruppe, e additò un ago che si muoveva a scatti furiosi su un rotolo di carta millimetrata. «Infine il magnetometro ha le convulsioni. Là sotto c'è tanto ferro da costruirci una flotta di corazzate.» Giordino s'irrigidì di colpo. «Abbiamo un bersaglio!» «E dove?» «Duecento metri a dritta, perpendicolare al pendio del cratere. La lettura è piuttosto vaga. L'oggetto è mascherato in parte dalla struttura geologica.» Pitt prese il telefono e chiamò la sala comando. «Abbiamo un'avaria all'equipaggiamento. Continuate a procedere sino alla fine del percorso. Se riusciremo a effettuare la riparazione in tempo, potremo tornare indietro sulla stessa direttrice.» «Sì, signore», rispose l'ufficiale di turno. «Avresti dovuto fare il venditore d'olio di serpente», disse Giordino con un sorriso. «Non possiamo sapere quanto siano grandi le orecchie dei sovietici.» «Le videocamere mostrano qualcosa?» Pitt lanciò un'occhiata ai monitor. «È appena fuori portata. Dovrebbero inquadrarlo al prossimo passaggio.» L'immagine sonar iniziale apparsa sul grafico sembrava una chiazza marrone sullo sfondo più chiaro della parete del cratere. Poi passò oltre il mirino del sidescan e sparì in un computer che ingrandì il particolare. L'immagine apparve su un monitor a colori ad alta risoluzione. La chiazza aveva assunto una sagoma nettamente delineata. Pitt azionò un joystick, puntò il collimatore al centro dell'immagine e premette il pulsante per l'ingrandimento. Il computer lavorò in silenzio per qualche secondo, poi mostrò sullo schermo un'immagine nuova, più grande e ancor più particolareggiata. Intorno al bersaglio apparve automaticamente un rettangolo che ne indicava le dimensioni. Nello stesso tempo, un altro apparecchio riprodusse l'immagine a colori su un foglio di carta patinata. Il comandante Knight tornò precipitosamente nel compartimento. Dopo giorni e giorni di noia trascorsi andando avanti e indietro, come per falciare un immenso prato, e osservando per ore intere il video e i dati del sidescan, adesso si sentiva galvanizzato. L'attesa e l'eccitazione sembravano
trasparire da ogni ruga del suo volto. «Mi hanno passato il vostro messaggio a proposito di un'avaria. Avete trovato un bersaglio?» Pitt e Giordino non risposero. Sorrisero come cercatori d'oro che hanno scoperto un ricco filone. A Knight bastò guardarli per capire. «Buon Dio del cielo!» esclamò. «L'abbiamo trovato? L'abbiamo trovato veramente?» «Si nasconde sul fondale», disse Pitt e indicò il monitor mentre gli porgeva la riproduzione. «L'immagine perfetta di un sottomarino sovietico classe Alfa.» Knight fissò affascinato le due immagini sonar. «I russi hanno sondato tutto questo tratto di mare. È incredibile che non fossero riusciti a trovarlo.» «È facile lasciarselo sfuggire», spiegò Pitt. «Nel periodo in cui i sovietici hanno condotto le loro ricerche, lo strato del pack era più pesante. Non potevano procedere in linea retta. È probabile che abbiano aggirato il lato opposto del pendio, e il loro sonar ha mostrato soltanto un'ombra dove si trovava il sottomarino. E comunque, l'eccezionale concentrazione di ferro sotto il cratere deve aver confuso il loro profilo magnetico.» «I nostri servizi segreti faranno salti di gioia quando vedranno le foto.» «No, se i rossi fiutano qualcosa», disse Giordino. «Non credo che staranno con le mani in mano mentre noi ripetiamo lo scherzetto che fece nel 1975 la Glomar Explorer con il loro sottomarino della classe Golf.» «Vuoi insinuare che non hanno bevuto la storia che stiamo svolgendo un rilevamento geologico del fondo marino?» chiese Pitt in tono sarcastico. Giordino gli lanciò un'occhiata fulminante. «Lo spionaggio è una strana faccenda», disse. «L'equipaggio che sta al di là di queste paratie non ha la più pallida idea di quello che stiamo facendo, ma gli agenti sovietici a Washington hanno fiutato il vero scopo della nostra missione già parecchie settimane fa. Se non si sono intromessi è solo perché la nostra tecnologia subacquea è più efficiente, e vogliono che siamo noi a guidarli al loro sottomarino.» «Non sarà facile imbrogliarli», ammise Knight. «Due loro pescherecci hanno seguito ogni nostra mossa da quando abbiamo lasciato il porto.» «E anche i loro satelliti spia», soggiunse Giordino. «È per questo che ho chiesto alla sala comando di arrivare sino in fondo al percorso prima di tornare indietro a dare un'occhiata da vicino» concluse Pitt.
«Ottima idea, tuttavia ai russi non sfuggiranno i nostri movimenti.» «Senza dubbio; ma quando passeremo sopra il sottomarino, proseguiremo e passeremo al prossimo percorso, e continueremo come al solito. Poi comunicherò via radio ai nostri ingegneri a Washington che abbiamo problemi alle apparecchiature e chiederò istruzioni per la manutenzione. E a intervalli di circa tre chilometri, rifaremo un percorso per rendere più verosimile la cosa.» Giordino lanciò un'occhiata a Knight. «Può darsi che la bevano. È abbastanza credibile.» Knight rifletté. «D'accordo, non resteremo in zona. Sarà l'ultima occhiata al bersaglio. Poi proseguiremo e ci comporteremo come se non avessimo trovato niente.» «E quando avremo finito con questa griglia», disse Pitt, «potremo incominciarne una nuova a cinquanta chilometri di distanza e fare una scoperta.» «Un'abile mossa», approvò Giordino. «Semineremo una falsa pista dietro di noi.» Knight sorrise ironicamente. «Mi sembra un copione accettabile. Procediamo.» Il rompighiaccio rollò e la tolda s'inclinò leggermente a dritta quando il timoniere invertì la rotta per tornare indietro. Lontano, a poppa, come un segugio ostinato tenuto da un lungo guinzaglio, un sommergibile robot chiamato Sherlock orientò automaticamente le sue cineprese e la macchina fotografica, mentre continuava a sondare il fondo con onde sonar. Lo Sherlock, che l'ideatore aveva chiamato così in omaggio al celebre detective, rivelava particolari del fondo marino che nessun essere umano aveva mai visto. I minuti trascorrevano lentissimi. Finalmente la cresta del cratere incominciò ad apparire sul sidescan. La rotta del Polar Explorer rimorchiava lo Sherlock lungo il pendio scosceso dell'interno del cratere. Tre paia d'occhi erano fissi sull'immagine. «Eccolo», disse Giordino con un fremito d'emozione nella voce. Il sottomarino sovietico riempiva quasi completamente il lato sinistro del sonografo. Giaceva ad angolo, con la poppa verso il centro del cratere e la prua verso l'orlo. Lo scafo era diritto e tutto d'un pezzo, diversamente dai sommergibili americani Thresher e Scorpion che erano implosi in centinaia di frammenti quando erano affondati, negli anni '60. La leggera inclinazione sulla destra non superava i due o tre gradi. Erano passati dieci
mesi da quando era stato dato per disperso, ma nelle gelide acque dell'Artico le strutture esterne non erano incrostate di ruggine o di creature marine. «Non c'è dubbio, è proprio un classe Alfa», disse Knight. «Propulsione atomica, scafo al titanio, non magnetico e non corrodibile dall'acqua marina, tecnologia con eliche silenziose ultimo modello. Sono i sottomarini più veloci che esistano, nonché in grado di immergersi alle massime profondità, e questo vale non soltanto per la Marina sovietica, ma anche per quella americana.» L'intervallo fra la registrazione sonar e l'immagine video era di circa trenta secondi. Come se seguissero un incontro di tennis, i tre giravano la testa all'unisono dal sonar ai monitor televisivi. Le linee levigate del sottomarino apparvero sotto le luci delle telecamere, rivelate in uno spettrale grigioazzurro. Per gli americani era difficile credere che il sommergibile russo fosse la tomba di centocinquanta uomini ancora chiusi là dentro. Sembrava un giocattolo posato sul fondo di una piscina. «Qualche indicazione di radioattività insolita?» si informò Knight. «C'è un aumento, ma è lievissimo», rispose Al Giordino. «Probabilmente è causato dal reattore del sottomarino.» «Non c'è stata una fusione», commentò Pitt. «No, secondo tutte le indicazioni.» Knight fissò i monitor e fece una stima approssimativa dei danni. «Ammaccature a prua. Il timone di profondità di sinistra è stato strappato via. C'è un lungo squarcio sul fondo a sinistra, circa venti metri.» «Sembra anche profondo», osservò Pitt. «È penetrato nei serbatoi della zavorra e ha raggiunto lo scafo pressurizzato interno. Deve aver urtato contro l'orlo opposto del cratere, e l'impatto l'ha sventrato. Non è difficile immaginare che l'equipaggio abbia tentato di riportarlo in superficie mentre continuava la corsa attraverso il cratere. Ma ha imbarcato più acqua di quanta poteva eliminare con le pompe, è sceso ancora, ed è andato a sbattere a metà del pendio, da questa parte.» Nel compartimento scese il silenzio mentre il sottomarino veniva superato dallo Sherlock e spariva lentamente dai teleschermi. I tre continuarono a guardare i monitor mentre il profilo accidentato del fondo marino passava sotto di loro. Visualizzavano la morte orribile che minacciava gli uomini quando osavano navigare nelle profondità ostili degli abissi. Per circa mezzo minuto nessuno parlò. Respiravano appena. Poi ognuno
di loro si scrollò di dosso l'incubo e distolse lo sguardo dai monitor. Il ghiaccio era rotto. Cominciarono a rilassarsi e a ridere con l'entusiasmo spontaneo dei tifosi che celebrano una vittoria della squadra del cuore. Adesso Pitt e Giordino potevano mettersi tranquilli e prendersela calma per il resto del viaggio. Avevano completato la loro parte del progetto, trovando il proverbiale ago nel pagliaio. Poi Pitt assunse di nuovo un'espressione seria e guardò nel vuoto. A Giordino quei sintomi non sfuggirono: li conosceva per esperienza. Quando un progetto veniva portato a termine con successo, Pitt si deprimeva. La sfida s'era dissolta, e la sua mente irrequieta ne cercava prontamente un'altra. «Ottimo lavoro, Dirk, e questo vale anche per te, Al», disse calorosamente Knight. «Voi della NUMA conoscete bene le tecniche della ricerca. Deve essere il colpo più sensazionale dei servizi segreti negli ultimi vent'anni.» «Non entusiasmarti troppo», lo frenò Pitt. «La parte più difficile deve ancora venire. Sarà un'operazione delicata recuperare il sottomarino sotto lo sguardo vigile dei russi. Niente Glomar Explorer, questa volta. Niente recuperi per mezzo di navi di superficie ben visibili. L'intera operazione dovrà svolgersi sott'acqua...» «E quello che cosa diavolo è?» Gli occhi di Giordino erano rivolti di nuovo verso il monitor. «Sembra una fiasca.» «Direi piuttosto un'urna», confermò Knight. Pitt fissò a lungo il monitor con aria pensierosa. Gli occhi stanchi e arrossati assunsero un'intensità improvvisa. L'oggetto era diritto. Due manici sporgevano dai lati opposti del collo stretto, e si allargavano in un largo corpo ovale che a sua volta si assottigliava verso la base affondata nei sedimenti. «Un'anfora di terracotta», annunciò alla fine Pitt. «Credo che abbia ragione», disse Knight. «I greci e i romani le usavano per trasportare vino e olio d'oliva. Ne hanno recuperate dappertutto, nel Mediterraneo.» «E quella che cosa ci fa, nel mare di Groenlandia?» chiese Giordino. «Ecco là, sulla sinistra dello schermo. Ce n'è un'altra.» Poi la telecamera inquadrò un gruppo di tre anfore, seguite da altre cinque sgranate in una linea irregolare da sud-est a nord-ovest. Knight si rivolse a Pitt. «L'esperto di naufragi sei tu. Come l'interpreti?» Trascorsero almeno dieci secondi prima che Pitt si decidesse a risponde-
re. Quando finalménte lo fece, la sua voce era distante, come se giungesse dal compartimento accanto. «Secondo me, portano verso il relitto di un antico naufragio che, a quanto affermano i libri di storia, non dovrebbe trovarsi qui.» 6. Rubin avrebbe dato l'anima pur di poter abbandonare quel compito impossibile, togliere le mani madide di sudore dalla barra di comando, chiudere gli occhi stanchi e rassegnarsi a morire. Ma il senso di responsabilità nei confronti dei passeggeri e dei compagni d'equipaggio lo spronava a continuare. Neppure nei suoi incubi più neri s'era mai trovato in una situazione così pazzesca. Un movimento sbagliato, un minimo errore di giudizio, e cinquanta persone avrebbero trovato nel mare una tomba profonda e sconosciuta. Non era giusto, gridava la sua mente. Non era giusto. Gli strumenti di navigazione non funzionavano. Gli apparecchi radio erano inservibili. Nessuno dei passeggeri aveva mai pilotato un aereo, neppure uno di quelli leggeri da turismo. Rubin era completamente disorientato e smarrito. Senza apparente motivo, gli aghi degli indicatori del carburante tremolavano sull'indicazione «Vuoto». La mente dell'uomo era travolta dalla confusione. Dov'era il pilota? Che cosa aveva causato la morte dei due ufficiali? Chi era il responsabile di quella follia? Le domande turbinavano nella sua mente, ma le risposte si perdevano nello sconforto. L'unica consolazione, per Rubin, stava nel fatto che non era solo. Nella cabina di comando c'era un altro uomo. Eduardo Ybarra, membro della delegazione messicana, un tempo aveva prestato servizio come meccanico nelle forze aeree del suo Paese. Erano passati trent'anni dall'ultima volta che aveva usato una chiave inglese per la manutenzione di un aereo a elica, ma qualche ricordo frammentario gli era tornato in mente e adesso, seduto al posto del copilota, leggeva gli strumenti per Rubin e azionava le cloche. Ybarra aveva un viso tondo e scuro, i capelli folti, neri, sfumati di grigio, gli occhi castani distanti e privi d'espressione. Indossava un abito elegante che appariva fuori posto nella cabina di comando. Stranamente, non aveva la fronte sudata, non aveva allentato la cravatta e non s'era tolto la
giacca. Indicò il cielo attraverso il parabrezza. «A giudicare dalle stelle, direi che stiamo volando verso il polo Nord.» «Probabilmente stiamo volando a est sopra la Russia, per quello che ne so», disse in tono rabbioso Rubin. «Non ho la più vaga idea della nostra direzione.» «Ci siamo lasciati un'isola alle spalle.» «Crede che fosse la Groenlandia?» Ybarra scosse la testa. «Da diverse ore c'è il mare sotto di noi. Se fosse stata la Groenlandia, saremmo ancora sulla banchisa. Secondo me abbiamo sorvolato l'Islanda.» «Mio Dio, da quanto tempo ci stiamo dirigendo a nord?» «È impossibile capire in quale momento il pilota ha abbandonato la rotta Londra-New York.» Un'altra paura aggravò la confusione straziata di Rubin. Le calamità continuavano a susseguirsi. Se prima c'era una probabilità su mille di uscirne vivi, adesso era al massimo una su un milione. Doveva prendere una decisione disperata... l'unica possibile. «Farò virare l'aereo di novanta gradi a sinistra.» «Non abbiamo altra scelta», riconobbe Ybarra in tono solenne. «Qualcuno potrà sopravvivere, se tentiamo un atterraggio sulla terraferma. È quasi impossibile scendere sull'acqua al buio con le onde alte, anche per un pilota esperto. E se per un miracolo ce la facessimo ad ammarare senza danni, nessun essere umano con indosso abiti da città resisterebbe più di qualche minuto nel mare gelato.» «Forse è già groppo tardi.» Il delegato messicano all'ONU indicò con un cenno il quadro degli strumenti. Le spie rosse del carburante lampeggiavano. «Temo che non ce la facciamo più a stare in aria.» Sgomento, Rubin fissò gli strumenti. Non si rendeva conto che volando a 200 nodi all'altitudine di 1500 metri il Boeing consumava la stessa quantità di carburante che usava volando a 500 nodi a 10.500 metri. «D'accordo. Continueremo a volare verso ovest fino a quando precipiteremo.» Si strofinò le mani sui pantaloni e strinse la barra di comando. Non pilotava l'aereo da quando avevano superato la vetta del ghiacciaio. Respirò profondamente e premette il pulsante con la scritta Autopilote Release. Era troppo insicuro per far virare il Boeing con gli alettoni, e quindi usò soltanto i comandi del timone per cambiare direzione. Non appena furono su una rotta rettilinea, si accorse che qualcosa non andava.
«Il motore numero quattro perde giri», disse Ybarra con un tremito nella voce. «È senza carburante.» «Non dovremmo spegnerlo?» «Non conosco la procedura», rispose Ybarra. Oh, buon Dio, pensò Rubin: un cieco che guida un altro cieco. L'altimetro cominciò a registrare una netta perdita d'altitudine. La velocità era egualmente in diminuzione. Con un irragionevole sforzo mentale, Rubin tentava di sostenere in volo l'aereo con la volontà, invece di guidarlo. E intanto la distanza fra il Boeing e il mare si stava implacabilmente riducendo. Poi, all'improvviso, la barra di comando cominciò a vibrargli fra le mani. «Siamo in stallo», gridò Ybarra. Il volto, fino ad allora impassibile, tradiva ormai la paura. Rubin spinse in avanti la barra di comando, sebbene si rendesse conto di affrettare l'inevitabile. «Abbassi i flap per aumentare la potenza!» ordinò a Ybarra. «Flap abbassati», rispose Ybarra stringendo le labbra. «Ci siamo», mormorò Rubin. «Ci siamo.» Un'hostess era apparsa sulla soglia della cabina di comando. Ascoltava con gli occhi sbarrati per la paura, il volto pallido come un foglio di carta. «Stiamo precipitando?» chiese con un filo di voce. Rubin si tese sul sedile. Era troppo assorto per voltarsi. «Sì, accidenti!» esclamò. «Allacciati la cintura!» L'hostess si voltò e, barcollando, tornò di corsa nella cabina principale per avvertire gli altri assistenti di volo e i passeggeri. Tutti si resero conto che era impossibile sfuggire all'inevitabile, e non ci furono scene di panico. Persino le preghiere furono sussurrate a voce bassa. Ybarra si girò sul sedile e si voltò a guardare. Hala Kamil stava facendo coraggio a un uomo anziano assalito da un tremito irrefrenabile. Il suo viso era calmissimo e sembrava avere una strana espressione soddisfatta. Era davvero molto bella, pensò Ybarra. Peccato che la sua bellezza fosse destinata a scomparire. Sospirò e si voltò verso il quadro degli strumenti. L'altimetro stava scendendo sotto i duecento metri. Ybarra decise di rischiare e aumentò l'alimentazione dei tre motori ancora funzionanti. Era un gesto inutile, dettato dalla disperazione. I motori avrebbero bruciato gli ultimi litri di carburante con un ritmo accelerato e si sarebbero spenti prima. Ma Ybarra non ragionava: non poteva semplicemente restare immobile senza fare alcunché. Si sentiva in dovere di compiere un ultimo gesto di
sfida, quale che fosse, a costo di affrettare la propria morte. Trascorsero cinque minuti torturanti. Il mare nero continuò a salire come se volesse afferrare l'aereo. «Vedo una fila di luci!» gridò all'improvviso Rubin. «Proprio davanti a noi!» Ybarra alzò di scatto gli occhi e guardò davanti a sé. «Una nave!» gridò. «È una nave!» Quasi nello stesso istante l'aereo sorvolò rombando il Polar Explorer e mancò di meno di dieci metri l'asta del radar. 7. L'equipaggio del rompighiaccio era stato avvertito dal radar dell'avvicinarsi dell'aereo. Gli uomini che si trovavano in sala comando si chinarono istintivamente quando, con gli ugelli di due motori che ululavano come spettri annunciatori di sventura, l'aereo passò sopra di loro e si diresse verso ovest, verso la costa della Groenlandia. Il rombo invase il compartimento elettronico e poi si svuotò come un lago attraverso la falla di una diga. Knight si precipitò in sala comando, seguito da Pitt e Giordino. Nessuno degli uomini che si trovavano in plancia si voltò quando il comandante fece irruzione. «Che cosa diavolo era?» chiese Knight all'ufficiale di turno. «Un aereo non identificato che per poco non ha speronato la nave, comandante.» «Un aereo militare?» «No, signore. Ho intravisto la parte inferiore delle ali quando è passato sopra di noi. Non c'erano contrassegni.» «Forse era un aereo-spia?» «Ne dubito. I finestrini erano illuminati.» «Un aereo di linea?» suggerì Giordino. Knight assunse un'espressione vaga, un po' irritata. «Come si è permesso, quel pilota, di mettere in pericolo la mia nave? E poi, che cosa ci fa da queste parti? Siamo lontani centinaia di chilometri dalle rotte commerciali.» «L'aereo sta perdendo quota», spiegò Pitt, mentre seguiva con gli occhi le luci che si allontanavano verso est. «Direi che fra poco scenderà in mare.» «Dio li aiuti, se finiscono in mare con questo buio.»
«È strano che il pilota non abbia acceso le luci per l'atterraggio.» L'ufficiale di turno annuì. «Sì, è davvero strano. Un pilota in difficoltà avrebbe trasmesso una richiesta di soccorso. Ma la nostra sala comunicazioni non ha ricevuto alcunché.» «Avete cercato di contattarlo?» chiese Knight. «Sì, non appena l'abbiamo avvistato sul radar. Nessuna risposta.» Knight andò alla finestra e guardò all'esterno. Tamburellò pensosamente con le dita per qualche secondo, poi si girò verso l'ufficiale di turno. «Manteniamo la rotta. Continuiamo a seguire la griglia.» Pitt lo guardò. «Capisco la decisione, ma non posso dire che l'approvo.» «Siamo a bordo di una nave della Marina, Pitt», disse Knight in tono severo. «Non siamo la Guardia Costiera. La nostra missione ha la precedenza assoluta.» «Potrebbero esserci donne e bambini su quell'aereo.» «I fatti non indicano che sia in atto una tragedia. Se il Polar Explorer è l'unica speranza di salvezza in questa zona del mare, perché non hanno chiesto aiuto, perché non hanno tentato di farci segnali con le luci di atterraggio e di farci capire quel che stavano per fare? Tu voli: spiegami un po' perché il pilota non ha girato in cerchio sulla nave, se era in difficoltà.» «Forse sta cercando di atterrare.» «Chiedo scusa, comandante», intervenne l'ufficiale di turno. «Avevo dimenticato di dire che gli alettoni erano abbassati.» «Questo, comunque, non prova che stesse per precipitare», disse ostinatamente Knight. «Al diavolo la compassione e avanti a tutta forza!» commentò con freddezza Pitt. «Non siamo in guerra, Byron. Stiamo parlando di una missione umanitaria. Non vorrei avere sulla coscienza la morte di cento persone solo perché non sono intervenuto. La Marina può anche permettersi di consumare il carburante che occorrerà per andare a vedere.» Knight indicò con la testa la sala delle carte nautiche dove non c'era nessuno. Quando Pitt e Giordino furono entrati, chiuse la porta. «Dobbiamo pensare alla nostra missione», insistette con calma. «Se abbandoniamo la rotta proprio adesso, i russi sospetteranno che abbiamo trovato il loro sottomarino e piomberanno in quest'area.» «Giustissimo», ammise Pitt. «Ma puoi comunque mandare me e Giordino.» «Sentiamo.» «Prenderemo il nostro elicottero della NUMA, e tu ci darai il medico e
gli infermieri e un paio di marinai robusti. Inseguiremo l'aereo mentre il Polar Explorer continua la sua missione.» «E i russi? Che cosa penseranno i loro analisti dei servizi segreti?» «All'inizio non la considereranno una coincidenza, anzi con ogni probabilità staranno già cercando di stabilire un nesso. Ma se l'aereo precipita, Dio non voglia, e risulta che è un aereo di linea, allora avrai almeno una ragione legittima per abbandonare la rotta e iniziare un'operazione di soccorso. Poi riprenderemo la ricerca, imbroglieremo i russi e cercheremo di trasformare un disastro in un successo.» «Ma il volo dell'elicottero... sorveglieranno tutti i vostri movimenti.» «Io e Al useremo le comunicazioni aperte e continueremo a parlare della nostra ricerca dell'aereo misterioso. Dovrebbe bastare per sopire i loro sospetti.» Knight abbassò gli occhi. Poi sospirò, rialzò la testa e fissò Pitt. «Stiamo sprecando tempo. Andate a scaldare il vostro eli. Vi manderò il personale medico e una squadra di volontari.» Rubin non aveva tentato di girare in cerchio sopra il Polar Explorer perché era a quota troppo bassa e comunque non sapeva volare. Era quasi certo che avrebbe mandato in stallo l'aereo e lo avrebbe fatto piombare fra le onde. La vista della nave, comunque, aveva acceso un barlume di speranza. Erano stati avvistati e i soccorritori avrebbero saputo dove cercare i superstiti. Non era una grande consolazione, ma era sempre meglio che niente. Il mare nero lasciò bruscamente il posto al ghiaccio del pack che, sotto la luce delle stelle, vorticò all'impazzata al di sotto dell'aereo, tanto che Rubin aveva quasi la sensazione di slittare sulla superficie. Mancavano pochi minuti all'impatto quando finalmente si ricordò di ordinare a Ybarra di accendere le luci per l'atterraggio. Il messicano scrutò febbrilmente il quadro degli strumenti, trovò gli interruttori contrassegnati e li fece scattare. Un orso polare venne inquadrato per un momento dal chiarore improvviso, poi sparì. Stavano sfrecciando sopra una piana desolata e gelida. «Madonna santa», mormorò Ybarra. «Vedo una fila di colline sulla nostra destra. Siamo sopra la terraferma.» Il pendolo della fortuna aveva finalmente cambiato direzione in favore di Rubin. Le colline indicate da Ybarra erano una catena di montagne che sovrastava la costa accidentata della Groenlandia per centocinquanta chi-
lometri nell'una e nell'altra direzione. Ma Rubin le aveva evitate, e miracolosamente aveva portato il Boeing nel centro dell'Ardencaple Fjord. Stava sorvolando la stretta baia, fra le sommità dei dirupi scoscesi che la fiancheggiavano. E la fortuna faceva spirare un vento frontale che contribuiva a sostenere in aria il Boeing. Il ghiaccio sembrava così vicino da dargli l'impressione di poterlo toccare con la mano. Le luci si riflettevano su un caleidoscopio di colori vibranti. Una massa scura torreggiava davanti a lui. Premette delicatamente il pedale del timone di destra e la massa scivolò via, sulla sinistra. «Giù il carrello!» gridò Rubin. Ybarra obbedì in silenzio. Secondo le normali procedure per un atterraggio d'emergenza quella era la decisione peggiore: ma, nella loro ignoranza, i due uomini avevano compiuto la scelta più adatta a quel tipo di terreno. Il carrello si abbassò e l'aereo perse velocità a causa dell'accresciuta resistenza del vento. Rubin strinse convulsamente la barra dei comandi e lanciò un'occhiata in basso, verso il ghiaccio che sfrecciava sotto di lui. I cristalli sfolgoranti diventavano sempre più grandi e sembravano salire per andargli incontro. Chiuse gli occhi e si augurò che l'aereo scendesse sulla neve soffice anziché sul ghiaccio durissimo. Ormai lui e Ybarra non potevano fare di più. La fine si avvicinava a velocità spaventosa. Per sua fortuna non sapeva e non poteva sapere che il ghiaccio aveva lo spessore di un metro soltanto. Era troppo sottile per reggere il peso di un Boeing 720-B. Le innumerevoli spie degli strumenti erano impazzite e lampeggiavano di luci rosse. Il ghiaccio salì precipitosamente dalla tenebra. Rubin ebbe la sensazione di squarciare un sipario nero e di giungere in un vuoto assoluto e bianchissimo. Tirò all'indietro la barra di comando e la velocità del Boeing si ridusse di colpo mentre il muso si alzava per l'ultima volta nel vano tentativo di risalire nel cielo. Ybarra rimase immobile, impietrito. Dimenticò la velocità di trecentoventi chilometri orari e, raggelato dallo shock, non tentò di tirare indietro le cloche. La sua mente stordita non pensò a spegnere gli interruttori del carburante e dell'impianto elettrico. Poi ci fu l'impatto. Istintivamente, Rubin e Ybarra alzarono le mani e chiusero gli occhi. Le ruote toccarono, slittarono, scavarono solchi gemelli nel ghiaccio. Il motore interno di destra si piegò, fu strappato via e si perse roteando nell'oscuri-
tà. I due motori di destra affondarono nel ghiaccio nello stesso istante e distorsero l'ala in una massa contorta. Poi l'energia venne a mancare e tutte le luci si spensero. Il Boeing continuò la corsa sul ghiaccio del fiordo lasciando dietro di sé pezzi stridenti di metallo simili a particelle di una cometa, poi si schiantò contro una cresta formata dalla pressione quando il ghiaccio del pack era entrato in collisione. Il muso cozzò, rientrò su se stesso e sfondò il «pozzo dell'inferno». La prua si abbassò e affondò nel ghiaccio, ripiegando contro la cabina di comando le sottili lastre di alluminio. Finalmente la forza d'inerzia si esaurì e l'aereo, distorto e smembrato, giunse alla fine del viaggio disastroso. Si fermò a trenta metri da un ammasso di grossi macigni nei pressi della riva. Per qualche secondo regnò un silenzio di morte. Poi il ghiaccio emise una serie fragorosa di crepitii, il metallo stridette contro il metallo e l'aereo semidistrutto affondò lentamente attraverso il ghiaccio nell'acqua gelida. 8. Gli archeologi sentirono il Boeing che volava sul fiordo. Uscirono correndo dalla baracca in tempo per scorgere fuggevolmente la sagoma dell'aereo riflessa sul ghiaccio dalle luci per l'atterraggio e distinsero chiaramente le finestre illuminate della cabina e il carrello abbassato. Quasi immediatamente giunse il suono del metallo dilaniato, e una frazione di secondo più tardi la vibrazione dell'impatto arrivò attraverso la superficie gelata. Le luci si spensero, ma la protesta del metallo torturato continuò per diversi secondi. Poi, bruscamente, un silenzio di morte calò dalla tenebra, un silenzio che soffocava anche il gemito doloroso del vento. Gli archeologi rimasero immobili, sopraffatti dall'incredulità. Storditi, insensibili al freddo, scrutavano la notte nera come statue stregate. «Mio Dio», mormorò finalmente Gronquist. «È precipitato nel fiordo.» Lily non riuscì a nascondere l'orrore. «È terribile! Non è possibile che qualcuno sia rimasto illeso.» «Molto probabilmente sono morti tutti, se l'aereo è finito in acqua.» «Dev'essere andata così perché non si vedono fiamme», soggiunse Graham. «Qualcuno ha visto che aereo era?» chiese Hoskins. Graham scosse la testa. «È successo troppo in fretta. Ma era piuttosto grosso e aveva diversi motori. Forse era in servizio di ricognizione sul
ghiaccio.» «Pensate che sia molto lontano da qui?» chiese Gronquist. «Direi un chilometro, o poco più.» Lily era pallida e tesa. «Dobbiamo fare qualcosa per aiutarli.» Gronquist valutò la direzione, poi si passò le mani sul viso. «Torniamo dentro prima di morire assiderati e facciamo un piano preciso. Non possiamo andare allo sbaraglio.» Lily si avviò. «Prendete coperte e tutti gli indumenti pesanti che abbiamo», ordinò. «Io provvedere ai medicinali.» «Mike, tu va' alla radio», disse Gronquist. «Informa la stazione meteorologica di Daneborg. Penseranno loro a informare le unità di soccorso dell'aeronautica a Thule.» Graham fece un cenno affermativo con la mano ed entrò per primo nella baracca. «È meglio portare anche gli attrezzi per liberare i superstiti bloccati dai rottami», disse Hoskins. Gronquist annuì e indossò il parka e i guanti. «Buona idea. Cerchiamo di farci venire in mente che cos'altro può servire. Attaccherò il rimorchio a una delle motoslitte. Potremo caricare tutto il materiale.» Cinque minuti prima stavano tutti dormendo; adesso invece erano sveglissimi, e si affrettavano a indossare gli indumenti protettivi e a svolgere i loro compiti. Avevano dimenticato l'enigmatica moneta bizantina e il calore confortevole del sonno: la sola cosa importante era raggiungere l'aereo precipitato, e al più presto possibile. Gronquist uscì di nuovo e, affrontando il vento che era cambiato di colpo, girò intorno alla baracca e raggiunse il piccolo capannone coperto di neve che proteggeva le due motoslitte. Scrostò a calci il ghiaccio che s'era formato alla base della porta e l'aprì. All'interno, una piccola stufa a petrolio lottava, con la stessa efficienza di una candela dentro un congelatore, per mantenere una temperatura di venti gradi superiore a quella esterna. Premette i pulsanti dell'avviamento, ma le batterie erano semiscariche dopo i mesi di uso continuo, e i due motori non volevano saperne di avviarsi. Lanciando imprecazioni che si concretizzavano in sbuffi di vapore condensato, Gronquist si sfilò i guanti con i denti e cominciò a tirare le cordicelle per l'accensione manuale. Il motore della prima motoslitta si accese al quinto tentativo, ma il secondo fu più ostinato. Finalmente, dopo che Gronquist ebbe tentato per trentadue volte, il motore si avviò tossendo. Gronquist fissò una grossa slitta al gancio del veicolo il cui motore ave-
va avuto più tempo per scaldarsi. Finì appena in tempo: cominciava a sentire le dita intirizzite. Gli altri avevano già accatastato materiale e attrezzi davanti all'ingresso della baracca quando Gronquist li raggiunse. A parte lui, erano tutti infagottati in tute di piumino. Il rimorchio fu caricato completamente in meno di due minuti. Graham distribuì a tutti una grossa torcia elettrica. Ormai erano pronti per la partenza. «Se precipitando hanno sfondato il ghiaccio», gridò Hoskins nel vento, «tanto varrebbe lasciar perdere.» «Ha ragione», gridò Graham. «A quest'ora saranno morti a causa dell'ipotermia.» Dietro la visiera, gli occhi di Lily s'indurirono. «Il pessimismo non ha mai salvato nessuno. Muovetevi.» Gronquist le passò un braccio intorno alla vita e la sollevò a bordo della motoslitta. «Obbedite alla signora, ragazzi. C'è gente che sta morendo, là fuori.» Balzò sul sedile davanti a Lily e azionò la leva del cambio mentre Hoskins e Graham correvano verso l'altro veicolo che era ancora nel capannone con il motore acceso. Con un rombo smorzato, i cingoli addentarono la neve. Gronquist invertì la marcia e si diresse verso la riva, trascinando il rimorchio sobbalzante. Passarono sulle pietre della spiaggia e si spinsero sul ghiaccio del fiordo. Il fascio luminoso dell'unico faro tremolava sul pack in un caos di lampi candidi contro le ombre nere; era quindi impossibile vedere le creste di pressione la cui presenza risultava chiara solo dal movimento ascendente e discendente delle motoslitte, che oscillavano come scialuppe di salvataggio fra le onde. E per quanto Gronquist fosse abile nella guida, non poteva impedire che la pesantissima slitta di rimorchio sbandasse di continuo nella loro scia. Lily serrava le braccia intorno allo stomaco abbondante di Gronquist: teneva la testa contro una spalla di lui, a occhi chiusi. Gli gridò di rallentare, ma inutilmente. Si voltò e vide la luce ondeggiante dell'altra motoslitta che li seguiva a poca distanza. Il secondo veicolo, che non era intralciato dal rimorchio e aveva Hoskins ai comandi e Graham dietro, li raggiunse e li superò poco dopo. Ancora qualche istante, e Lily riuscì a vedere soltanto la chiazza indistinta di due figure curve attraverso una nuvola turbinante di neve finissima. Lily sentì Gronquist tendersi quando un grande oggetto metallico appar-
ve nella tenebra all'estremità del raggio luminoso. L'uomo sterzò bruscamente verso sinistra. Gli sci anteriori affondarono nel ghiaccio e la motoslitta sterzò, evitando per un metro appena di andare a cozzare contro l'ala accartocciata dell'aereo. Gronquist tentò freneticamente di raddrizzare il veicolo, ma la forza centrifuga fece scattare con violenza la slitta a traino come un serpente a sonagli infuriato. Il rimorchio troppo carico sbandò, scivolò contro la motoslitta e spezzò il gancio. Le punte dei pattini s'impiantarono: il veicolo si capovolse, spargendo nell'aria il carico come i detriti di un'esplosione. Gronquist urlò qualcosa, ma s'interruppe quando la parte piatta di un pattino lo colpì alla spalla e lo sbalzò dalla motoslitta, lo scagliò in un grande arco come la sfera di una macchina per la demolizione che si avventa per sfondare un muro. Il cappuccio si rovesciò all'indietro e il ghiaccio volò e lo colpì alla testa. Lily si sentì strappare Gronquist dalle braccia nell'istante in cui l'uomo svaniva nell'oscurità e pensò che sarebbe stata sbalzata via. Il rimorchio la mancò, si fermò con un tonfo a pochi metri di distanza, ma la motoslitta sembra avere altre intenzioni. Senza Gronquist alla guida si arrestò, barcollando precariamente a un angolo di quarantacinque gradi: il motore rimase in folle. La motoslitta restò in bilico per un momento, poi s'inclinò lentamente, cadde sulle gambe di Lily e la bloccò sul ghiaccio dai fianchi in giù. Hoskins e Graham non si accorsero subito dell'incidente, ma stavano per incorrere a loro volta in un disastro. Dopo altri duecento metri, Graham si voltò, per curiosità più che per intuizione, per controllare di quanto avevano distanziato Lily e Gronquist. Solo allora si accorse, sbalordito, che la luce del loro faro era molto più indietro, immobile e puntata verso il basso. Batté la mano sulla spalla di Hoskins e gli gridò in un orecchio: «Credo che agli altri sia successo qualcosa». Hoskins aveva avuto intenzione di cercare la depressione scavata nel ghiaccio dall'aereo dopo che aveva toccato terra, e di seguirla fino al punto dove s'era arrestato. Cercava di penetrare l'oscurità con lo sguardo, quando Graham spezzò la sua concentrazione. Le parole suonavano indistinte nel rombo della motoslitta. Girò la testa e gridò a Graham: «Non ti sento». «Torna indietro. È successo qualcosa.» Hoskins annuì e tornò a concentrare l'attenzione sul terreno che si estendeva davanti a lui. Quella distrazione doveva costare cara a entrambi.
Troppo tardi, quando ormai stava per piombarvi dentro, vide uno dei solchi scavati dal carrello. La motoslitta volò sopra l'apertura di due metri nel ghiaccio; il peso dei due passeggeri fece abbassare il muso del veicolo che andò a urtare contro la parete di fronte con un suono secco come un colpo di pistola. Hoskins e Graham furono scaraventati oltre l'orlo sulla superficie ghiacciata e rotolarono all'impazzata come pupazzi imbottiti di ovatta e lanciati su un pavimento incerato. Trenta secondi più tardi Graham, intontito, si mosse adagio come un vecchio novantenne e si sollevò sulle mani e sulle ginocchia. Rimase immobile, stordito, quasi senza rendersi conto di come fosse finito li. Poi sentì uno strano sibilo e si guardò intorno. Hoskins era seduto, e stava piegato in due con le mani premute sull'inguine. Aspirava l'aria e l'esalava attraverso i denti serrati, dondolandosi avanti e indietro. Graham si sfilò la muffola esterna e si toccò cautamente il naso. Non sembrava rotto, ma il sangue scorreva dalle narici e lo costringeva a respirare attraverso la bocca. Si stirò e si accorse che non aveva fratture e che poteva ancora muoversi. Non era troppo strano, tenuto conto del fatto che portava indumenti imbottiti. Si trascinò fino a Hoskins, che adesso non sibilava più, ma emetteva una successione di gemiti lamentosi. «Che cos'è successo?» chiese Graham, e si accorse della stupidità della domanda nel momento stesso in cui la fece. «Abbiamo urtato un solco aperto nel ghiaccio dall'aereo», mormorò Hoskins fra un lamento e l'altro. «Gesù, credo di essermi castrato.» «Fammi dare un'occhiata.» Graham gli scostò le mani e gli aprì la tuta. Prese dalla tasca una torcia elettrica, premette il pulsante e non seppe trattenere un sorriso. «Tua moglie avrà bisogno di un'altra scusa per piantarti. Non c'è traccia di sangue. La tua vita sessuale è al sicuro.» «Dove sono Lily... e Gronquist?» chiese Hoskins ansimando. «Duecento metri più indietro. Dobbiamo girare intorno allo squarcio e controllare la situazione.» Hoskins si alzò faticosamente e, zoppicando, si avvicinò all'orlo dell'apertura nel ghiaccio. Il faro della motoslitta era ancora acceso, e il chiarore fioco puntava sul fondo del fiordo illuminando le bollicine che salivano per sei metri fino alla superficie. I due si scambiarono un'occhiata. «Come soccorritori», commentò avvilito Hoskins, «è meglio che ci limitiamo all'archeologia...»
«Zitto!» ordinò all'improvviso Graham. Si portò le mani agli orecchi e girò la testa come un'antenna radar. Poi si fermò e indicò le luci che lampeggiavano in lontananza. «Accidenti!» gridò. «C'è un elicottero che risale il fiordo.» Lily si trovava in uno stato di semincoscienza. Non capiva perché diventasse sempre più difficile pensare in modo lucido. Alzò la testa e si guardò intorno per cercare Gronquist. Lo vide: giaceva immobile a qualche metro di distanza. Gridò, cercando disperatamente di ottenere una risposta; ma sembrava che fosse morto. Lily desistette e a poco a poco si lasciò andare, abbandonandosi al mondo quasi onirico che le invadeva la mente, mentre le gambe perdevano completamente la sensibilità. Solo quando incominciò a rabbrividire si rese conto di essere in un lieve stato di shock. Era certa che Graham e Hoskins sarebbero tornati da un momento all'altro: ma i secondi divennero minuti e i due non comparivano. Era stanchissima e stava per abbandonarsi definitivamente all'incoscienza quando sentì uno strano suono martellante che giungeva dall'alto. Poi una luce molto forte fendette il cielo buio e l'accecò. La neve fu sollevata in un vortice da una ventata improvvisa che la fece turbinare intorno a lei. Il suono martellante perse d'intensità e una figura indistinta e alonata di luce si avvicinò. La figura divenne un uomo dal pesante parka di pelliccia che valutò fulmineamente la situazione, afferrò la motoslitta, la sollevò e la rimise diritta, togliendola dalle gambe di Lily. Le girò intorno fino a che la luce gli rischiarò la faccia. Gli occhi di Lily erano piuttosto appannati; ma quando fissò gli scintillanti occhi verdi dell'uomo si sentì mancare il respiro. Sembravano rispecchiare durezza, gentilezza e sincera preoccupazione, tutto nello stesso tempo. Si socchiusero leggermente, quando lo sconosciuto si accorse che era una donna. Stordita, Lily si chiese da dove era arrivato. Lily non seppe che dire, se non: «Oh, sono molto contenta di vederla». «Mi chiamo Dirk Pitt», rispose una voce calda. «Se non è impegnata, perché non viene a cena con me domani sera?» 9. Lily guardò Pitt e cercò di scrutarlo. Non era sicura di aver sentito bene. «Forse non sarò in condizioni di accettare.»
Pitt ributtò all'indietro il cappuccio del parka e le passò le mani sulle gambe, stringendole delicatamente le caviglie. «Non mi sembra che ci siano fratture o gonfiori», disse in tono amichevole. «Le fa male?» «Ho troppo freddo per accorgermene.» Pitt prese due coperte cadute dalla slitta-rimorchio e la coprì. «Lei non poteva essere sull'aereo. Come è arrivata fin qui?» chiese. «Faccio parte di una squadra di archeologi. Stiamo scavando in un antico villaggio eschimese. Abbiamo sentito l'aereo che risaliva il fiordo, siamo usciti dalla baracca e abbiamo fatto in tempo a vederlo atterrare sul ghiaccio. Eravamo diretti sul punto dell'incidente con le coperte e i medicinali quando...» Con un gesto fiacco, Lily indicò la motoslitta rovesciata. «Eravate?» Nella luce irradiata dall'elicottero, Pitt si rese immediatamente conto dei segni dell'incidente sulla neve che copriva il ghiaccio: la traccia in linea retta della motoslitta, la brusca deviazione intorno all'ala tranciata dell'aereo, i tagli netti scavati dai pattini del rimorchio... e solo allora scorse un'altra figura umana che giaceva una decina di metri più in là. «Un momento.» Pitt andò a inginocchiarsi a fianco di Gronquist. L'archeologo respirava in modo regolare, e Pitt lo esaminò rapidamente. Lily l'osservò per qualche istante, poi chiese, ansiosa: «È morto?» «No, no. Ha preso una brutta botta alla fronte. È probabile una commozione cerebrale; forse c'è anche una frattura, ma non credo. Ha una testa solida come il caveau di una banca.» Graham si avvicinò a passo pesante, seguito da Hoskins che zoppicava. Sembravano due pupazzi di neve, con le tute impolverate di bianco, i passamontagna incrostati dai cristalli di ghiaccio dell'alito. Graham sollevò il passamontagna rivelando la faccia insanguinata, scrutò Pitt per un momento, poi accennò un sorriso. «Benvenuto, straniero. Che tempismo perfetto.» Nessuno, a bordo dell'elicottero, aveva visto dall'alto gli altri due archeologi, e Pitt cominciò a chiedersi quanti altri individui malconci si stavano aggirando nel fiordo. «Qui abbiamo due feriti, un uomo e una donna», disse senza badare alle formalità. «Fanno parte del vostro gruppo?» Il sorriso sparì dalla faccia di Graham. «Che cosa è successo?» «Una brutta caduta.» «Siamo caduti anche noi.»
«Avete visto l'aereo?» «L'abbiamo visto scendere, ma non l'abbiamo raggiunto.» Hoskins girò intorno a Graham, guardò Lily, poi sbirciò tutto intorno fino a che scorse Gronquist. «Sono gravi?» «Ne sapremo di più dopo le radiografie.» «Dobbiamo aiutarli.» «Abbiamo personale medico a bordo dell'elicottero...» «E allora che cosa diavolo aspetta?» l'interruppe Hoskins. «Li chiami.» Fece per passare davanti a Pitt, ma si sentì trattenere da una stretta ferrea al braccio. Girò la testa, senza capire, e si trovò a fissare un paio di occhi decisi. «I suoi amici dovranno aspettare», disse Pitt in tono fermo. «I superstiti dell'aereo caduto hanno la precedenza. Il vostro campo è lontano?» «Un chilometro più a sud», rispose Hoskins. «La motoslitta funziona ancora. Voi due farete bene a riagganciare il rimorchio e a portare i vostri colleghi al campo. Andate piano, nell'eventualità che abbiano lesioni interne. Avete una radio?» «Sì.» «La regoli sulla frequenza trentadue e resti in attesa», gli ordinò Pitt. «Se l'aereo era un jet di linea con passeggeri, ci troveremo per le mani un bel guaio.» «Staremo in attesa», gli assicurò Graham. Pitt si chinò su Lily e le strinse la mano. «Non dimentichi il nostro appuntamento», mormorò. Poi si assestò sulla testa il cappuccio del parka, si voltò e tornò correndo all'elicottero. Rubin sentì un peso enorme che lo stringeva da ogni parte, come se una forza inarrestabile lo spingesse all'indietro. La cintura di sicurezza premeva dolorosamente contro il ventre e le spalle. Aprì gli occhi e scorse soltanto immagini vaghe, indistinte. Mentre attendeva che la vista si schiarisse, cercò di muovere le mani e le braccia, ma sembravano bloccate. Poi a poco a poco i suoi occhi si abituarono all'oscurità e comprese. Una valanga di neve e di ghiaccio era penetrata attraverso il parabrezza sfondato e l'aveva imprigionato fino al petto. Fece un tentativo disperato per liberarsi, ma desistette dopo qualche minuto. La pressione lo tratteneva come una camicia di forza. Non poteva uscire dalla cabina di comando senza un aiuto.
Lentamente lo shock si attenuò, e Rubin strinse i denti per resistere ai dolori lancinanti alle gambe fratturate. Gli sembrava strano: aveva la sensazione che i suoi piedi fossero immersi nell'acqua. Pensò che fosse sangue. Ma aveva torto. L'aereo aveva sfondato il ghiaccio ed era finito nell'acqua profonda circa tre metri che aveva inondato la cabina fino all'altezza dei sedili. Solo in quel momento si ricordò di Ybarra. Girò la testa sulla destra e socchiuse gli occhi per scrutare nell'oscurità. Il lato destro del muso dell'aereo era stato schiacciato fin quasi all'altezza del quadro degli strumenti del motorista. La sola cosa che poteva vedere del delegato messicano era un braccio rigido e sollevato che affiorava dalla neve e dai rottami. Rubin si voltò, sopraffatto dalla nausea all'idea che l'uomo rimasto al suo fianco durante i terribili momenti conclusivi del volo fosse morto stritolato. E si rese conto che anche a lui restava poco tempo prima di morire per il freddo. Pianse. «Dovrebbe essere visibile!» gridò Giordino per farsi sentire nel rombo dei motori. Pitt annuì e guardò lo squarcio che si apriva nel ghiaccio, circondato da frammenti e rottami. Adesso lo vedeva. Un oggetto individuabile perché delimitato da linee rette innaturali che si intravedeva a malapena nell'oscurità. Poi vi furono sopra. L'aereo accartocciato aveva un aspetto triste e minaccioso. Un'ala era stata strappata via completamente, l'altra era ripiegata all'indietro contro la fusoliera. La sezione di coda era inclinata in un angolo impossibile. Sembrava un insetto schiacciato su un tappeto bianco. «La fusoliera ha sfondato il ghiaccio ed è immersa nell'acqua per due terzi», commentò Pitt. «Non si è incendiato», soggiunse Giordino. «È già una fortuna.» Alzò la mano per ripararsi gli occhi dal riflesso abbagliante, mentre i riflettori dell'elicottero spazzavano l'aereo in tutta la sua lunghezza. «Guarda com'è lucido. Gli addetti alla manutenzione lo curavano bene. Scommetto che era un Boeing 720-B. Nessun segno di vita?» «No», rispose Pitt. «Non promette niente di buono.» «Niente di utile per l'identificazione?» «Tre linee lungo la fusoliera: celeste e violaceo separato da una fascia
dorata.» «Non conosco alcuna linea aerea che abbia quei colori.» «Abbassiamoci e giriamogli intorno», propose Pitt. «Mentre tu cerchi un punto per atterrare, tenterò di leggere la sigla.» Giordino virò e scese a spirale verso il relitto. Le luci per l'atterraggio montate sul muso e sulla coda dell'elicottero inondavano l'aereo semisommerso d'un mare di luce. Il nome dipinto sopra le fasce decorative era in corsivo, anziché nelle solite maiuscole così facili da leggere. «NEBULA», disse Pitt. «NEBULA AIR.» «Mai sentita», replicò Giordino senza staccare gli occhi dal ghiaccio. «Una linea aerea di lusso al servizio dei VIP. Fa soltanto voli charter.» «E che diavolo ci faceva, così lontano dalla rotta?» «Lo scopriremo presto, se troveremo qualcuno vivo che possa spiegarcelo.» Pitt si girò verso gli otto uomini seduti nel ventre caldo dell'elicottero, tutti adeguatamente abbigliati per affrontare il clima artico. Uno era il medico di bordo, tre erano infermieri, e quattro erano esperti di controllo dei danni. Chiacchieravano tranquilli fra loro come se fossero su un autobus in viaggio per Denver. Sul pavimento, fissati da cinghie, c'erano cassette di medicinali e mucchi di coperte, mentre numerose barelle erano ammonticchiate accanto alle tute di asbesto e a una cassa di materiale antincendio. Un'unità ausiliaria di riscaldamento era fissata di fronte al portello principale: i cavi erano collegati a un argano, e al fianco c'era una motoslitta con la cabina chiusa e i cingoli laterali. Alle spalle di Giordino era seduto un uomo con barba, baffi e capelli grigi che guardò Pitt e sorrise. «Era ora che ci guadagnassimo la paga, eh?» osservò allegramente. A quanto pareva, nulla poteva guastare il buon umore del dottor Jack Gale. «Stiamo per scendere», annunciò Pitt. «Nessun movimento intorno all'aereo. Nessuna traccia d'incendio. La cabina di comando è affondata e la fusoliera appare storta ma intatta.» «Non c'è mai niente di facile.» Gale alzò le spalle. «Comunque, sempre meglio che dover curare persone ustionate.» «E questa è la buona notizia. Quella brutta è che la cabina passeggeri è invasa da almeno un metro d'acqua e noi non abbiamo portato le galosce.» Gale ridivenne serio. «Dio aiuti i feriti che non sono rimasti all'asciutto. Non possono essere sopravvissuti neppure otto minuti nell'acqua gelata.»
«Se nessuno dei superstiti è in grado di aprire un portello dell'uscita di sicurezza, dovremo entrare tagliando la fusoliera.» «Le scintille hanno la pessima abitudine d'incendiare il carburante che galleggia», commentò il tenente Cork Simon, il massiccio capo del team di esperti di controllo dei danni del Polar Explorer. Aveva l'aria sicura di chi conosce alla perfezione il suo mestiere. «È meglio entrare dal portello della cabina passeggeri. Doc Gale avrà bisogno di spazio per portar via i feriti.» «D'accordo», disse Pitt. «Ma ci vorrà parecchio tempo per forzare un portello pressurizzato che l'impatto con il suolo ha certamente incastrato. E intanto, se ci sono superstiti, moriranno assiderati. Il nostro primo compito è praticare un'apertura per inserire il tubo dell'impianto di riscaldamento...» S'interruppe mentre Giordino virava bruscamente e scendeva verso un tratto pianeggiante in prossimità del relitto. Tutti si tesero. All'esterno, il turbinare dei rotori sollevò una piccola tormenta di neve e di particelle di ghiaccio, trasformando il sito dell'atterraggio in un pulviscolo color alabastro che riduceva di molto la visibilità. Giordino aveva appena posato le ruote sul ghiaccio e messo i motori in folle quando Pitt spalancò il portellone, balzò nell'oscurità e si avviò verso il relitto. Doc Gale incominciò a dirigere le operazioni di scarico del materiale, mentre Cork Simon e la sua squadra calavano sul ghiaccio, per mezzo dell'argano, l'unità di riscaldamento e la motoslitta. Correndo e scivolando, Pitt girò intorno alla fusoliera ed evitò prudentemente le aperture nel ghiaccio. L'aria era satura dell'odore minaccioso del carburante. Salì sul mucchio di ghiaccio che si ammassava per circa un metro contro i finestrini della cabina di comando: muoversi su quella superficie scivolosa era come strisciare su una rampa lubrificata. Tentò di aprire un varco, ma vi rinunciò quasi subito. Ci sarebbe voluta un'ora e anche più per scavare nel ghiaccio e riuscire a penetrare all'interno. Pitt si lasciò scivolare alla base del mucchio e corse a esaminare l'unica ala rimasta. La sezione principale era contorta e spezzata, la punta era rivolta verso la coda: giaceva sul ghiaccio, schiacciata contro la fusoliera sprofondata, appena un braccio al di sotto della fila dei finestrini. Pitt si servì dell'ala come di una piattaforma per evitare di calarsi nell'acqua, si mise carponi e cercò di scrutare all'interno. Le luci dell'elicottero si rispecchiavano sul plexiglas: dovette ripararsi gli occhi con le mani per sfuggire al riverbero. Sulle prime non scorse il minimo movimento: c'erano soltanto la tenebra
e un'immobilità di morte. Poi, all'improvviso, un volto grottesco si materializzò al di là del finestrino, a pochi centimetri dai suoi occhi. D'istinto, Pitt indietreggiò. L'apparizione improvvisa di una donna con un taglio sopra un occhio e il sangue che le colava su metà del viso, in un'immagine distorta dalle infinite esilissime crepe che incrinavano il vetro, lo lasciò per un momento allibito. Poi cercò di scuotersi dallo shock e studiò la metà illesa del volto. Gli zigomi alti, i lunghi capelli bruni, un occhio scurissimo bastavano a far supporre che fosse una donna molto bella, pensò. Si chinò verso il finestrino e gridò: «È in grado di aprire uno dei portelli di sicurezza?» Il sopracciglio depilato s'inarcò lievemente, ma l'occhio rimase privo d'espressione. «Mi sente?» In quell'istante, gli uomini di Simon misero in funzione il generatore ausiliario: una batteria di riflettori si accese, illuminando l'aereo di un chiarore fulgido. Collegarono in fretta il riscaldamento, e Simon incominciò a trascinare sul ghiaccio il tubo flessibile. «Qui, sopra l'ala», gridò Pitt agitando le braccia. «E portate qualcosa per aprire un varco nel finestrino.» La squadra per il controllo dei danni era attrezzata per le riparazioni d'emergenza; si mise subito all'opera con competenza e precisione in ogni movimento, come se fosse abituata a salvare ogni giorno i passeggeri di aerei precipitati. Quando Pitt si voltò, la faccia della donna era sparita. Simon e uno dei suoi uomini si inerpicarono sull'ala contorta e cercarono di non perdere l'equilibrio mentre si tiravano dietro il grosso tubo del riscaldamento. Pitt sentì un soffio di aria quasi bollente e si stupì che l'impianto avesse richiesto così poco tempo per funzionare al massimo. «Avremo bisogno di una scure da pompieri», disse rivolto a Simon. L'altro gli lanciò un'occhiata di superiorità. «La Marina degli Stati Uniti sa fare di meglio. Abbiamo superato quei metodi rudimentali.» Pescò dalla tasca del giubbotto imbottito un utensile compatto e alimentato da una batteria. Fece scattare l'interruttore e il piccolo disco abrasivo cominciò a girare. «Questo taglia l'alluminio e il plexiglas come se fossero burro.» «Procedi pure», disse Pitt in tono asciutto, e si scostò. Simon mantenne la parola. Il piccolo utensile tagliò lo spessore del fine-
strino esterno in meno di due minuti. La lastra interna, più sottile, richiese appena trenta secondi. Pitt si accostò, tese il braccio all'interno e puntò la torcia elettrica. Non c'era traccia della donna. Sotto il fascio luminoso brillava l'acqua gelida del fiordo che lambiva il bordo dei sedili vuoti. Simon e Pitt fecero passare l'imboccatura del tubo attraverso il finestrino, quindi accorsero nella sezione di prua dell'aereo. Gli uomini della Marina avevano operato sott'acqua, riuscendo a forzare la serratura del portello principale che tuttavia, com'era prevedibile, era bloccato. Allora si affrettarono ad aprire fori con i trapani e a inserire i ganci di acciaio inossidabile, fissati ai cavi che portavano alla motoslitta. Il guidatore innestò la marcia e il veicolo avanzò lentamente fino a tendere i cavi. Poi diede la massima potenza al motore, i cingoli affondarono nel ghiaccio, e la piccola motoslitta si sforzò di procedere. Per qualche secondo parve che non accadesse nulla. Si sentivano solo il rìnghio del motore e il suono strìdente dei cingoli che addentavano il ghiaccio. Dopo un'attesa carica d'ansia, un nuovo suono lacerò il freddo... l'urlio lacerante del metallo. Poi l'orlo inferiore del portello si sollevò dall'acqua. I cavi furono sganciati e gli uomini si chinarono, appoggiando le spalle contro il portello e spingendo verso l'alto fino ad aprirlo quasi completamente. L'interno dell'aereo era buio, minaccioso. Pitt si sporse attraverso il breve tratto d'acqua e scrutò nell'ignoto, mentre una curiosità morbosa gli attanagliava lo stomaco. La sua figura gettava un'ombra sull'acqua che riempiva la cabina passeggeri e in un primo momento non scorse altro che il luccichio riflesso dalle pareti della dispensa. C'era uno strano silenzio. E non c'era traccia di resti umani. Pitt esitò, poi si guardò alle spalle. Doc Gale e gli infermieri erano dietro di lui, seri e intenti, mentre gli uomini di Simon srotolavano il cavo del generatore per illuminare l'interno dell'aereo. «Io vado», disse Pitt. Balzò attraverso il varco e atterrò nell'acqua che gli arrivava alle ginocchia. Ebbe l'impressione che mille aghi gli trapassassero all'improvviso le gambe. Avanzò a guado intorno alla paratia, giunse nella corsia che separava i sedili della cabina passeggeri. Quello strano silenzio era snervante. L'unico suono era lo sciabordio causato dai suoi movimenti. Poi si fermò, inorridito. Le sue peggiori paure si schiusero come i petali di un fiore velenoso.
Pitt si trovò di fronte a un mare di pallide facce spettrali. Nessuno si muoveva, nessuno batteva le palpebre, nessuno parlava. Erano legati sui sedili e lo fissavano con gli occhi accecati dalla morte. 10. Un gelo ancora più intenso di quello dell'aria alitò sulla nuca di Pitt. La luce proveniente dall'esterno filtrava dai finestrini e gettava ombre bizzarre sulle pareti. Girò lo sguardo da un sedile all'altro come se si aspettasse che uno dei passeggeri agitasse una mano in segno di saluto o dicesse qualcosa. Ma erano tutti immobili come mummie. Si chinò su un uomo dai capelli biondorossicci divisi da una scriminatura centrale, seduto in un posto a fianco della corsia. Il volto non aveva un'espressione di sofferenza. Gli occhi erano semiaperti come se stessero per chiudersi nel sonno, le labbra erano accostate con naturalezza, la mandibola era un po' cascante. Pitt sollevò una mano inerte, posò le dita sotto la base del pollice e premette l'arteria che passava all'interno del polso. Non sentì la minima pulsazione. Il cuore s'era fermato. «C'è qualcosa?» chiese Doc Gale mentre gli passava accanto per esaminare un altro passeggero. «È andato», rispose Pitt. «Anche questo.» «La causa?» «Non saprei dirlo, per il momento. Non ci sono ferite evidenti. Sono morti da poco e non ci sono segni di sofferenze intense o di lotta. Il colorito non fa sospettare che si sia trattato di asfissia.» «Questo sembra logico», disse Pitt. «Le maschere a ossigeno sono ancora al loro posto.» Gale passò da un cadavere all'altro. «Ne saprò di più dopo un controllo più completo.» Si fermò per un momento mentre Simon terminava di montare una lampada sopra l'entrata, molto più in alto dell'acqua. Poi rivolse un cenno agli uomini rimasti all'esterno e la cabina passeggeri fu inondata dalla luce. Pitt si guardò intorno. L'unico danno notevole era una distorsione del soffittò. Tutti i sedili erano in posizione eretta, con le cinture agganciate. «È impossibile credere che siano rimasti seduti nell'acqua gelata a morire per l'ipotermia senza tentare di muoversi», disse mentre esaminava una
donna anziana e bruna cercando in lei un segno di vita. Il volto non mostrava tracce di sofferenza. Sembrava addormentata. Teneva fra le dita un piccolo rosario. «Evidentemente erano morti tutti prima che l'aereo urtasse il ghiaccio», suggerì Gale. «È una spiegazione valida», mormorò Pitt mentre scrutava le file dei sedili. «La morte è stata causata probabilmente da vapori tossici.» «Senti qualche odore strano?» «No.» «Neppure io.» «E questo che cosa ti fa pensare?» «Che avessero ingerito un veleno.» Gale fissò Pitt per un lungo istante. «Stai parlando di un massacro.» «Sembra che sia l'unica deduzione possibile.» «Sarebbe utile avere un testimone.» «L'abbiamo.» Gale s'irrigidì e si voltò a guardare le facce sbiancate. «Vedi qualcuno che respira ancora? Indicalo.» «Prima che entrassimo», spiegò Pitt, «una donna mi ha guardato attraverso un finestrino. Era viva. Adesso non la vedo più.» Prima che Dale potesse rispondere, Simon si avvicinò e si fermò. Aveva gli occhi stralunati per lo shock e l'incredulità. «Ma che diavolo è successo?» S'irrigidì e si guardò intorno convulsamente. «Sembrano le statue di un museo delle cere.» «Sarebbe più esatto dire i cadaveri di un obitorio», lo corresse bruscamente Pitt. «Sono morti? Tutti? Siete sicuri?» «Qualcuno è vivo», rispose Pitt. «È nella cabina di comando, o forse si nasconde in uno dei bagni in fondo.» «Allora hanno bisogno delle mie cure», concluse Gale. Pitt annuì. «Credo sia meglio che continui a esaminarli, nell'eventualità che qualcuno sia ancora vivo. Simon può controllare la cabina di comando e io andrò a vedere i bagni.» «E tutti questi cari defunti?» chiese Simon in tono irriverente. «Non dovremmo informare il comandante Knight e cominciare a portarli via?» «Lasciali dove sono», disse Pitt senza alzare la voce. «E non usare la radio. Faremo rapporto di persona al comandante Knight. Tieni fuori i tuoi
uomini. Chiudi il portello e vieta l'accesso all'interno dell'aereo. Lo stesso vale per i tuoi collaboratori, Doc. Non toccate niente se non è assolutamente necessario. È successo qualcosa che non possiamo capire. La notizia dell'incidente si è già diffusa. Fra poche ore gli investigatori e i media piomberanno qui come cavallette. È meglio tener segreto quel che abbiamo trovato fino a che le autorità competenti non ci diranno che cosa fare.» Simon rifletté per un momento. «Capito.» «Allora muoviamoci e cerchiamo un superstite.» Quello che normalmente sarebbe stato un percorso di venti secondi richiese quasi due minuti di faticosa avanzata nell'acqua alta: tuttavia, alla fine Pitt raggiunse i bagni. Aveva già i piedi intirizziti, e non aveva bisogno d'interpellare Doc Gale per sapere che doveva asciugarli e riscaldarli entro mezz'ora per non rischiare il congelamento. I morti sarebbero stati ancora più numerosi se tutti i posti fossero stati occupati. Ma anche se molti sedili erano vuoti, Pitt contò cinquantatré cadaveri. Si fermò per esaminare una hostess seduta contro la paratia di fondo. Teneva la testa inclinata in avanti e i capelli biondi le nascondevano il volto. Il polso non batteva più. Raggiunse il compartimento che comprendeva i bagni. Tre avevano la scritta LIBERO. Guardò all'interno. Erano vuoti. Il quarto indicava OCCUPATO ed era chiuso dall'interno. Doveva esserci dentro qualcuno. Bussò energicamente alla porta. «Mi può sentire? Siamo una squadra di soccorso. Per favore, cerchi di sbloccare l'uscio.» Accostò l'orecchio ed ebbe l'impressione di sentire un singhiozzo soffocato, seguito da un mormorio sommesso, come se due persone stessero bisbigliando. Pitt alzò la voce. «Stia indietro. Ora sfonderò la porta.» Sollevò la gamba grondante e sferrò un calcio energico ma controllato, sufficiente per spezzare il catenaccio senza mandare a sbattere la porta contro chi stava all'interno. Colpì con il tacco poco al di sopra della manopola e la serratura si staccò. La porta cedette di un paio di centimetri. Una spinta non troppo violenta con la spalla bastò a spostarla verso l'interno. C'erano due donne: stavano in piedi sull'asse del gabinetto per non bagnarsi. Erano scosse da brividi e si stringevano l'una all'altra per sostenersi. Per la precisione, quella che si aggrappava era una hostess in uniforme, con lo sguardo simile a quello di una cerbiatta in trappola, colmo di allarme e di paura. Si reggeva sulla gamba destra, e teneva la sinistra protesa
rigidamente di lato. Doveva avere il ginocchio slogato, pensò Pitt. L'altra donna si raddrizzò e lo guardò con aria di sfida. Pitt la riconobbe immediatamente: era la stessa che aveva visto attraverso il finestrino. Parte del viso era ancora incrostato dal sangue coagulato, ma gli occhi erano aperti e avevano una fredda espressione d'odio. Pitt rimase sbalordito di fronte a quell'ostilità. «Chi è e che cosa vuole?» chiese la donna con una voce un po' roca e lievemente accentata. Il primo pensiero che passò per la mente di Pitt fu che si trattava di una domanda stupida; poi attribuì quel comportaménto allo shock, e sfoggiò il suo più convincente sorriso da boy-scout. «Mi chiamo Dirk Pitt. Faccio parte di una squadra di soccorso inviata dalla nave americana Polar Explorer.» «Può provarlo?» «Mi dispiace, ma ho lasciato a casa la patente.» La scena sfiorava il ridicolo. Pitt tentò un approccio diverso. Si appoggiò allo stipite e incrociò le braccia. «State tranquille», disse in tono suadente. «Voglio aiutarvi, non farvi del male.» L'hostess sembrò rilassarsi per un istante. I suoi occhi si addolcirono e gli angoli delle labbra s'incurvarono in un sorriso timido. Poi fu riassalita dalla paura e singhiozzò istericamente. «Sono tutti morti. Assassinati.» «Sì, lo so», disse Pitt, gentilmente. Tese la mano. «Venite. Vi accompagnerò in un posto caldo, dove il medico di bordo potrà curare le vostre ferite.» Il viso di Pitt era immerso nell'ombra formata dai riflettori installati nella cabina, e la più energica delle due donne non poteva leggergli negli occhi. «Lei potrebbe essere uno dei terroristi che hanno causato tutto questo orrore», disse in tono fermo. «Perché dovremmo fidarci?» «Perché, se non lo farete, morirete assiderate.» Pitt s'era stancato di quelle schermaglie verbali. Avanzò cautamente, sollevò fra le braccia la hostess e la portò nella corsia. La giovane donna non oppose resistenza; ma era irrigidita dall'apprensione. «Si rilassi», disse. «Faccia finta di essere Rossella O'Hara. Io sono Rhett Butler venuto a sedurla.» «Non mi sento come Rossella. Devo essere orrenda.» «Non direi.» Pitt sorrise. «Perché non andiamo a cena insieme, una di queste sere?»
«Può venire anche mio marito?» «Solo se sarà lui a pagare il conto.» La hostess, stremata, finalmente si rilassò. Gli cinse il collo con le braccia e gli appoggiò la testa su una spalla. Pitt si fermò e si rivolse all'altra donna. La luce rivelò il suo sorriso e il brillio degli occhi. «Mi aspetti. Tornerò subito a prenderla.» Per la prima volta, Hala si rese conto di essere salva. E in quel momento crollò la diga che aveva trattenuto l'incubo della paura, l'incapacità di credere che tutto questo potesse accadere proprio a lei. Le emozioni represse l'assalirono. Pianse. Rubin sapeva che stava perdendo i sensi. Il freddo e la sofferenza avevano cessato di esistere. Le voci sconosciute, le luci improvvise non avevano un significato. Per la sua mente confusa erano come ricordi oscuri di un luogo remoto, di un tempo passato. Si sentiva lontano, distante da tutto. All'improvviso una luce bianca invase la cabina di comando devastata. Rubin si chiese se era quella la luce all'estremità del tunnel che quanti erano tornati in vita dopo una morte temporanea affermavano di aver visto. Accanto a lui una voce disse: «Stia tranquillo, stia tranquillo». Rubin cercò di mettere a fuoco una figura vaga che torreggiava al suo fianco. «Lei è Dio?» Per un attimo, il viso di Simon perse ogni espressione. Poi sorrise, comprensivo. «Sono un comune mortale che si è trovato da queste parti per caso.» «Allora non sono morto?» «Be', se non ho sbagliato a giudicare la sua età, credo che dovrà aspettare almeno cinquant'anni.» «Non posso muovermi. Ho le gambe bloccate. Credo che siano fratturate. La prego... mi tiri fuori.» «Sono qui apposta», rispose allegramente Simon. Rimosse con le mani una trentina di centimetri di ghiaccio e neve dal corpo di Rubin e gli liberò le braccia intrappolate. «Ecco, adesso può grattarsi il naso fino a quando tornerò con un badile e gli attrezzi per tagliare il metallo.» Simon rientrò nella cabina passeggeri. Pitt, nel frattempo, passava l'hostess attraverso il portello e la affidava agli infermieri di Gale che la sistemarono delicatamente su una barella. «Ehi, Doc, ne ho trovato uno vivo nella cabina di comando.» «Vengo subito», rispose Gale.
«Mi farebbe comodo anche il tuo aiuto», disse Simon a Pitt. Pitt annuì. «Lasciami un paio di minuti per portare un'altra superstite dal settore di coda.» Hala si lasciò scivolare in ginocchio e si guardò allo specchio. La luce era sufficiente per permetterle di vedere la sua immagine riflessa. Il viso era inespressivo, gli occhi opachi. Era ridotta come una prostituta già avanti negli anni dopo un pestaggio del suo magnaccia. Tese la mano e prese alcuni asciugamani di carta, li immerse nell'acqua fredda e rimosse il sangue raggrumato e il rossetto sbavato intorno alla bocca. Il mascara e l'ombretto sembravano applicati da Jackson Pollock su un quadro sgocciolato. Hala rimosse anche quelli. I capelli erano quasi intatti, e si limitò a rassettarli. Aveva ancora un aspetto orribile, pensò. S'impose di sorridere quando Pitt tornò, e si augurò di sembrare un po' più presentabile. Pitt la fissò a lungo, quindi assunse un'espressione di curiosità intimidita. «Mi scusi, bella signora, ha forse visto da qualche parte una vecchia megera?» Con le lacrime agli occhi, Hala rispose tra il riso e il pianto: «È davvero un brav'uomo, signor Pitt. La ringrazio». «Cerco di fare del mio meglio», rispose lui. Aveva portato alcune coperte e le usò per avvolgerla; poi le passò un braccio sotto le ginocchia, l'altro intorno alla vita e la sollevò senza sforzo. Mentre la portava lungo la corsia, le gambe intirizzite cominciarono a tradirlo. Barcollò per qualche passo prima di riprendersi. «Tutto bene?» chiese Hala. «Non ho niente che non possa guarire con un bicchierino di whisky Jack Daniel's.» «Appena tornerò a casa gliene manderò una cassa.» «Dov'è casa sua?» «Per il momento a New York.» «La prima volta che ci verrò andremo a cena insieme.» «Sarà un onore, signor Pitt.» «Anche per me, signorina Kamil.» Hala inarcò le sopracciglia. «Mi ha riconosciuta anche se sono ridotta in questo stato?» «Devo ammettere che l'ho riconosciuta solo dopo che si è ripulita un po' la faccia.» «Mi perdoni per tutti gli inconvenienti che le ho causato. Immagino che
avrà le gambe congelate.» «Una cosa da nulla, se pensa che potrò dire di aver tenuto fra le braccia il segretario generale dell'ONU.» Era davvero sorprendente, pensò Pitt. Era una giornata eccezionale. Doveva essere una specie di primato: nel giro di mezz'ora aveva dato appuntamento alle uniche tre donne, per giunta tutte belle, esistenti entro un raggio di tremila chilometri di gelido deserto. Per lui era molto più importante della scoperta del sottomarino russo. Un quarto d'ora più tardi, dopo che Hala, Rubin e la hostess furono sistemati a bordo dell'elicottero, Pitt si piazzò davanti all'apparecchio e agitò le braccia per dare il segnale a Giordino, che rispose alzando i pollici. I rotori girarono più in fretta e l'elicottero s'innalzò al di sopra di una nuvola turbinante di neve, virò di centottanta gradi e si diresse verso il Polar Explorer. Solo quando lo vide allontanarsi, Pitt si avviò zoppicando verso l'impianto di riscaldamento ausiliario. Si tolse gli stivali e i calzettoni fradici; tenne i piedi davanti allo scarico per assorbire il calore e accolse con sollievo la sensazione di pungente formicolio che gli segnalava il riattivarsi della circolazione. Poi si accorse che Simon si stava avvicinando. Simon si fermò a guardare la fiancata accartocciata dell'aereo. Non aveva più l'aria desolata. Ai suoi occhi, la certezza che all'interno erano tutti morti dava all'apparecchio l'aspetto di un carnaio. «Delegati delle Nazioni Unite», disse Simon in tono distaccato. «È questo che erano?» «C'erano diversi membri dell'Assemblea Generale», rispose Pitt. «Gli altri erano dirigenti e collaboratori di varie organizzazioni specializzate dell'ONU. Secondo quanto ha detto la Kamil, molti tornavano da un giro d'ispezione.» «E chi poteva guadagnarci assassinandoli tutti?» Pitt strizzò i calzettoni e li mise ad asciugare sopra il tubo. «Non ne ho idea.» «I terroristi del Medio Oriente?» insistette Simon. «Non sapevo che avessero cominciato a usare il veleno per assassinare i loro nemici.» «Come vanno i piedi?» «Si stanno scongelando. E i tuoi?» «La Marina ci fornisce stivali impermeabili, e i miei piedi sono caldi e
asciutti.» «Evviva gli ammiragli premurosi», borbottò Pitt in tono sardonico. «Direi che a fare il lavoro sporco è stato uno dei tre superstiti.» Pitt scosse la testa. «Se davvero quelli sono morti di veleno, probabilmente è stato messo nel cibo già nella cucina che prepara i pasti, prima che venisse caricato sull'aereo.» «Il capo steward o un assistente di volo avrebbe potuto farlo tranquillamente nella dispensa.» «È un po' troppo difficile avvelenare cinquanta pasti in una volta sola senza farsi scoprire.» «E le bevande?» chiese Simon. «Sei proprio insistente, eh?» «Possiamo vagliare tutte le ipotesi fino a che verranno a darci il cambio.» Pitt esaminò i suoi calzettoni. Erano ancora umidi. «D'accordo, può darsi che abbiano avvelenato le bevande, soprattutto il caffè e il tè.» Simon sembrava soddisfatto perché una delle sue teorie era stata accettata. «Bene, furbacchione, fra i tre superstiti chi è il tuo sospetto?» «Nessuno.» «Vuoi dire che il colpevole ha preso il veleno consapevolmente e si è suicidato?» «No. Voglio dire che è stato il quarto superstite.» «Io ne ho visti tre soli.» «Dopo l'atterraggio. Ma prima erano quattro.» «Stai alludendo al piccolo messicano che stava sul sedile del copilota?» «Appunto.» Simon fece una smorfia scettica. «E quale brillante ragionamento logico ti ha portato a questa conclusione?» «Elementare», disse Pitt con un sorriso malizioso. «Secondo la miglior tradizione dei gialli l'assassino è sempre l'individuo meno sospetto.» 11. «Chi ha dato questo schifo di carte?» Julius Schiller, sottosegretario per gli Affari Politici, fece una smorfia bonaria e studiò la sua mano. Strinse i denti sul sigaro spento, alzò gli occhi azzurri e scrutò uno dopo l'altro i compagni di gioco. Con lui, al tavolo da poker, erano seduti quattro uomini. Nessuno fuma-
va, e per questo Schiller si asteneva diplomaticamente dall'accendere il sigaro. I ceppi di legno di cedro scoppiettavano in un'antica stufa e attenuavano il freddo dell'inizio d'autunno. Il cedro che bruciava diffondeva un profumo piacevole nella sala da pranzo rivestita di pannelli di tek, a bordo dello yacht di Schiller. La bella motobarca di trentacinque metri era ormeggiata sul fiume Potomac nei pressi di South Island, proprio di fronte ad Alexandria, in Virginia. Il vicecapo della missione sovietica Aleksej Korolenko, massiccio e composto, ostentava l'immutabile espressione gioviale che era diventata notissima nella società di Washington. «È un peccato che non siamo a Mosca», disse in tono fintamente severo. «Conosco un bel posticino in Siberia dove potremmo mandare chi ha dato le carte.» «Mi associo alla mozione», disse Schiller, e guardò l'uomo che le aveva distribuite. «La prossima volta, Dale, vedi di mischiarle.» «Se avete carte tanto disastrose», borbottò Dale Nichols, assistente personale del presidente degli Stati Uniti, «perché non rinunciate a giocare?» Il senatore George Pitt, presidente della commissione senatoriale per le Relazioni Estere, si alzò e si tolse la giacca sportiva color salmone, l'appoggiò sulla spalliera della sedia e si rivolse a Jurij Vyhouskij. «Non so proprio di che si lamentino, questi qui. Io e te non abbiamo ancora vinto.» Il consigliere speciale per gli Affari Americani presso l'ambasciata sovietica annuì. «Io non ho ancora visto una buona mano da quando abbiamo cominciato a giocare tutti insieme cinque anni fa.» Le partite a poker del giovedì sera si svolgevano, dal 1986, a bordo dello yacht di Schiller, e andavano ben al di là di un semplice gioco fra amici che avevano bisogno di rilassarsi una sera la settimana. All'inizio erano state una piccola crepa nel muro che separava le due superpotenze. Soli, senza uno sfondo ufficiale, inaccessibili ai media, potevano scambiarsi i loro punti di vista in modo informale ignorando la burocrazia e il protocollo diplomatico. E tutto questo aveva portato a scambi di idee e di informazioni che spesso riguardavano direttamente le relazioni sovieticoamericane. «Apro per cinquanta cent», annunciò Schiller. «Rialzo a un dollaro», disse Korolenko. «E poi si meravigliano perché non ci fidiamo di loro», gemette Nichols. Il senatore parlò a Korolenko senza guardarlo. «Quali sono le previsioni
della vostra parte su una rivolta aperta in Egitto, Aleksej?» «Non credo che al presidente Hasan restino più di trenta giorni prima che il suo governo venga rovesciato da Akhmad Yazid.» «Non prevedete una lotta prolungata?» «No, se dalla parte di Yazid si schiereranno i militari.» «Ci stai, senatore?» chiese Nichols. «Ci sto.» «Jurij?» Vyhouskij buttò sul piatto tre monete da cinquanta cent. «Da quando Hasan ha preso il potere dopo le dimissioni di Mubarak, ha raggiunto un livello di stabilità. Io credo che potrà durare», affermò Schiller. «Lo dicevi anche dello scià dell'Iran», commentò Korolenko. «Non posso negare che avevamo puntato sulle carte sbagliate.» Schiller s'interruppe per buttare sul tavolo le sue carte. «Due», chiese. Korolenko alzò un indice per chiedere una carta. «Per me, è come se gettaste gli aiuti in un pozzo senza fondo. Le masse egiziane sono sull'orlo della fame. È una situazione che fomenta il fanatismo religioso nelle baraccopoli e nei villaggi. Non potrete fermare Yazid come non avete fermato Khomeini.» «E qual è la posizione del Cremlino?» chiese il senatore Pitt. «Noi aspettiamo», rispose impassibile Korolenko. «Aspettiamo che il polverone ricada.» Schiller esaminò le sue carte e le mescolò. «Qualunque sia il risultato, non vincerà nessuno^» «È vero, perderemo tutti. È vero che i fondamentalisti islamici vi vedono come Satana, ma neppure noi comunisti atei siamo molto amati. Non ho bisogno di dirvi che chi ci rimetterà di più sarà Israele. Dopo la sconfitta disastrosa dell'Iraq a opera dell'Iran e l'assassinio del presidente Saddam Hussein, adesso Iran e Siria possono minacciare le nazioni arabe moderate e costringerle a unire le loro forze per un massiccio attacco trilaterale contro Israele. Questa volta gli ebrei verranno sicuramente sconfitti.» Il senatore scosse la testa con fare dubbioso. «Gli israeliani hanno la più efficiente macchina bellica del Medio Oriente. Hanno sempre vinto, e sono preparati per vincere ancora.» «Non ci riusciranno contro attacchi di ondate umane di due milioni di arabi», disse Vyhouskij. «Le forze di Assad si spingeranno verso sud mentre l'Egitto di Yazid attaccherà verso nord attraverso il Sinai, come ha fatto
nel 1967 e nel 1973. Ma questa volta l'esercito iraniano invaderà l'Arabia Saudita e la Giordania, e varcherà il Giordano. Nonostante il loro valore di combattenti e le tecnologie superiori, gli israeliani verranno sopraffatti.» «E quando finirà il massacro», soggiunse Korolenko con aria cupa, «l'Occidente precipiterà in uno stato di depressione economica, perché i governi musulmani che controllano il cinquantacinque per cento delle riserve petrolifere mondiali imporranno prezzi astronomici e lo faranno di certo.» «Tocca a te puntare», disse Nichols a Schiller. «Due dollari.» «Altri due», ribatté Korolenko. Vyhouskij buttò le carte sul tavolo. «Io mi ritiro.» Il senatore contemplò per un momento la sua mano. «Vada per i tuoi quattro... e rilancio di altri quattro.» «Ecco gli squali in azione», commentò Nichols con un sorriso a denti stretti. «Io mi ritiro.» «Non facciamoci illusioni», riprese il senatore. «Non è un segreto che gli israeliani abbiano un piccolo arsenale di armi nucleari. E non esiteranno a usarle, se si troveranno con le spalle al muro.» Schiller sospirò. «Non voglio neppure pensare alle conseguenze.» Poi alzò la testa quando il comandante dello yacht bussò alla porta ed entrò esitando. «Mi scusi se disturbo, signor Schiller, ma c'è una telefonata urgente per lei.» Schiller spinse le sue carte verso Nichols. «Non ha senso prolungare la tortura con questa mano. Volete scusarmi?» Una delle regole ferree delle partite settimanali stabiliva che non erano ammesse telefonate a meno che si trattasse di qualcosa d'urgente che riguardava tutti i presenti. La partita continuò, ma i quattro giocavano automaticamente, mentre la loro curiosità cresceva. «Tocca a te puntare, Alekseij», disse il senatore. «Rilancio di altri quattro dollari.» «Vedo.» Korolenko alzò le spalle con aria rassegnata e posò le sue carte scoperte. Aveva soltanto una coppia di quattro. Il senatore sorrise ironicamente e scoprì le sue. Aveva vinto con una coppia di sei!» «Ho, mio Dio», gemette Nichols. «E io che mi sono ritirato con una
coppia di re!» «Ci hai rimesso i quattrini del pranzo, Alekseij», rise Vyhouskij. «È stato tutto un bluff», disse Korolenko. «Ora capisco perché non comprerei mai una macchina usata da un politico americano.» Il senatore si appoggiò alla spalliera della sedia e si passò una mano tra i folti capelli argentei. «Per la verità, io mi sono pagato gli studi alla facoltà di legge vendendo automobili. È stato l'allenamento migliore per la candidatura al Senato.» Schiller rientrò e sedette al tavolo. «Dovete scusarmi, ma mi hanno appena comunicato che un aereo noleggiato dalle Nazioni Unite è precipitato sulla costa settentrionale della Groenlandia. Ci sono cinquanta morti accertati, e non si sa se ci sono superstiti.» «C'era qualche rappresentante sovietico a bordo?» chiese Vyhouskij. «L'elenco dei passeggeri non è ancora pervenuto.» «Un attentato terroristico?» «È troppo presto per dirlo, ma secondo i primi rapporti non è stato un incidente.» «Che volo era?» chiese Nichols. «Londra-New York.» «La Groenlandia settentrionale?» mormorò pensieroso Nichols. «Dovevano aver deviato dalla rotta per più di millecinquecento chilometri.» «Per me, puzza di dirottamento», commentò Vyhouskij. «Ci sono sul posto le squadre di soccorso», spiegò Schiller. «Dovremmo saperne di più entro un'ora.» Il senatore Pitt si oscurò. «Mi è venuto il sospetto terribile che a bordo ci fosse Hala Kamil. Doveva tornare alla sede dell'ONU dall'Europa per la riunione dell'Assemblea Generale che si terrà la settimana prossima.» «Temo che George abbia ragione», disse Vyhouskij. «E con lei viaggiavano due nostri delegati.» «È una pazzia», mormorò Schiller scuotendo la testa. «Una pazzia enorme. Chi ci guadagnerebbe assassinando una schiera di dirigenti dell'ONU?» Nessuno rispose immediatamente. Vi fu un lungo attimo di silenzio. Korolenko fissò il centro del tavolo. Poi, a voce bassa, disse: «Akhmad Yazid». Il senatore lo guardò negli occhi. «Lo sapevi!» «L'ho immaginato.» «Credi che sia stato Yazid a ordinare di uccidere Hala Kamil?»
«Posso dire soltanto che, secondo le nostre fonti, al Cairo una fazione islamica stava preparando un attentato.» «E siete rimasti zitti mentre morivano cinquanta innocenti!» «È stato un errore di calcolo», ammise Korolenko. «Non sapevamo come e quando sarebbe avvenuto l'attentato. Pensavamo che la vita della Kamil sarebbe stata in pericolo solo se fosse tornata in Egitto, e che non sarebbe stato Yazid ad agire, bensì qualcuno dei suoi seguaci fanatici. Yazid non è mai stato collegato ad atti terroristici. Il profilo che ne avete fatto voi corrisponde al nostro: un uomo geniale che si considera un Gandhi musulmano.» «Il che dimostra quanto siano attendibili i profili realizzati dal KGB e dalla CIA», dichiarò Vyhouskij. «Un altro caso classico in cui gli esperti si sono lasciati infinocchiare da un'abile campagna di relazioni pubbliche», sospirò il senatore. «Quell'individuo è più psicopatico di quanto immaginassimo.» Schiller annuì. «Deve essere Yazid, il responsabile della tragedia. I suoi seguaci non sarebbero mai giunti a tanto senza la sua benedizione.» «Il movente l'aveva», aggiunse Nichols. «La Kamil ha un immenso carisma, e la sua popolarità agli occhi del popolo e dei militari supera quella del presidente Hasan. Era un grosso ostacolo. Se è morta, in Egitto mancano poche ore all'insediamento di un governo dominato dai mullah estremisti.» «E quando Hasan sarà caduto?» chiese Korolenko. «Quale sarà la posizione della Casa Bianca?» Schiller e Nichols si scambiarono un'occhiata. «La stessa del Cremlino», rispose Schiller. «Aspetteremo che ricada il polverone.» Per un momento il sorriso svanì dal viso di Korolenko. «E se... anzi, quando le nazioni arabe attaccheranno lo Stato ebraico?» «Appoggeremo Israele come è avvenuto in passato.» «Manderete in campo le forze americane?» «Probabilmente no.» «I dirigenti arabi potrebbero essere meno prudenti, se lo sapessero.» «Si accomodino. Ma ricorda, Alekseij.... questa volta non useremo la nostra influenza per impedire agli israeliani di occupare il Cairo, Beirut e Damasco.» «Vuoi dire che il presidente non li fermerà se dovessero ricorrere alle armi nucleari?» «Qualcosa del genere», rispose Schiller con studiata indifferenza. Poi si
rivolse a Nichols. «A chi tocca dare le carte?» «A me, credo», disse il senatore, sforzandosi di assumere un tono casuale. Quella svolta nella politica mediorientale del presidente gli giungeva nuova. «Vogliamo fare una puntata preliminare di cinquanta cent?» I russi non intendevano lasciar cadere l'argomento. «Trovo che sia una cosa molto preoccupante», disse Vyhouskij. «Prima o poi bisogna assumere una posizione diversa», ammise Nichols. «Secondo le ultime proiezioni, le riserve di petrolio degli Stati Uniti ammontano a ottanta miliardi di barili. Con i prezzi che sfiorano i cinquanta dollari al barile, le nostre compagnie petrolifere possono permettersi di organizzare un massiccio programma esplorativo. E naturalmente possiamo fare ancora affidamento sulle riserve messicane e sudamericane. Insomma, non dobbiamo più contare per forza sul petrolio del Medio Oriente. Perciò abbiamo intenzione di darci un taglio. Se il governo sovietico vuole ereditare le grane arabe, si accomodi.» Korolenko non riusciva a credere alle proprie orecchie. L'innata diffidenza lo rendeva scettico. Ma conosceva troppo bene gli americani per sospettare che bluffassero o cercassero di portarlo fuori strada in una questione di quella portata. Anche il senatore Pitt aveva qualche dubbio sul piano che il presidente stava facendo pervenire ai rappresentanti sovietici. C'era la possibilità che il petrolio non affluisse oltre il Rio Grande quando l'America ne avesse avuto bisogno. Il Messico era una rivoluzione che attendeva soltanto il segnale di partenza per esplodere. L'Egitto aveva la disgrazia di un fanatico medievale come Yazid. Ma anche il Messico aveva il suo pazzo: Topiltzin, una specie di Benito Juarez o di Emiliano Zapata, un messia che predicava il ritorno a uno Stato teocratico basato sulla cultura azteca. Come Yazid, Topiltzin era sostenuto da milioni di miserabili del suo Paese, e stava per travolgere il governo esistente. Da dove venivano tutti quei pazzi? si chiese il senatore. Chi generava quei demoni? Fece uno sforzo per impedire che gli tremassero le mani mentre cominciava a distribuire le carte. «Stud a cinque carte, signori, e i jolly possono assumere qualunque valore.» 12.
Le enormi figure si ergevano nel silenzio misterioso della notte e guardavano con occhi ciechi il paesaggio brullo, come se attendessero che una presenza sconosciuta desse loro vita. Erano rigide e alte come costruzioni a due piani, e le loro facce torve e inespressive erano rischiarate dalla luna piena. Mille anni prima avevano sostenuto il tetto del tempio situato alla sommità della piramide di Quetzalcoatl nella città tolteca di Tula. Il tempio era scomparso, ma la piramide era rimasta: era stata ricostruita dagli archeologi e le rovine si estendevano lungo una bassa cresta. Durante il suo periodo di massimo splendore la città era stata abitata da sessantamila persone. Erano pochi i visitatori che vi giungevano, e quei pochi che si addossavano la fatica erano sopraffatti dalla desolazione ossessiva di Tula. La luna gettava ombre spettrali sulla città morta, mentre un uomo saliva i ripidi gradini della piramide per raggiungere le statue di pietra alla sommità. Portava un doppiopetto con cravatta e aveva in mano una borsa. Si soffermò per qualche istante su ognuna delle cinque terrazze e scrutò i fregi macabri che decoravano i muri. Le facce umane sporgevano dalle fauci spalancate dei serpenti, le aquile dilaniavano con i rostri cuori umani. L'uomo proseguì, passò davanti a un altare scolpito a motivi di teschi e di ossa incrociate, i simboli usati secoli più tardi dai pirati dei Caraibi. Era tutto sudato quando arrivò finalmente in cima alla piramide e si guardò intorno. Non era solo. Due uomini si avvicinarono e lo perquisirono, poi indicarono la borsa. Il visitatore l'aprì e i due la frugarono. Non trovarono armi e si ritirarono in silenzio sul bordo della piattaforma. Rivas si rilassò e premette un pulsante nascosto nel manico della borsa. Un registratore miniaturizzato nascosto all'interno entrò in funzione. Dopo un minuto, una figura uscì dall'ombra delle grandi statue di pietra. Indossava una lunga tunica bianca e portava i capelli legati in modo da ricordare una coda di gallo. I piedi erano nascosti dalla veste, ma il chiaro di luna rivelava i bracciali scolpiti in oro e tempestati di turchesi. L'uomo era basso: la faccia ovale e glabra faceva pensare a una discendenza india. Gli occhi scrutarono il visitatore alto, dalla carnagione chiara e abbigliato in modo decisamente insolito. Incrociò le braccia e pronunciò strane parole che avevano un suono quasi lirico. «Io sono Topiltzin.» «Io mi chiamo Guy Rivas, e sono un rappresentante del presidente degli Stati Uniti.» Rivas s'era aspettato d'incontrare un uomo più vecchio. Era difficile in-
dovinare l'età di quella sorta di messia messicano, ma l'uomo non dimostrava più di trent'anni. Topiltzin indicò un muretto. «Vogliamo sederci per parlare?» Rivas fece un cenno di ringraziamento e sedette. «Ha scelto un luogo molto insolito.» «Sì, ho pensato che Tula fosse appropriata.» Il tono di Topiltzin divenne sprezzante. «Il suo presidente aveva paura che questo incontro diventasse di dominio pubblico. Non voleva causare imbarazzo e irritazione ai suoi amici di Città di Messico.» Rivas sapeva che non era il caso di abboccare all'amo. «Il presidente mi ha incaricato di esprimerle la sua gratitudine per avermi permesso di parlare con lei.» «Mi aspettavo qualcuno di rango più importante.» «Lei aveva posto come condizione di parlare con un solo interlocutore. E noi l'abbiamo inteso nel senso che non volesse interpreti dalla nostra parte. E dato che non vuole parlare né inglese né spagnolo, io sono l'unico funzionario governativo che conosca il nahuátl, la lingua degli aztechi.» «La parla molto bene.» «La mia famiglia è emigrata negli Stati Uniti da Escampo. Me l'hanno insegnata quando ero piccolo.» «Conosco Escampo. Un piccolo villaggio abitato da gente orgogliosa che stenta a sopravvivere.» «Lei afferma che porrà fine alla miseria del Messico. Il presidente è molto interessato ai suoi programmi.» «Perciò ha mandato lei?» chiese Topiltzin. Rivas annuì. «Desidera aprire una linea di comunicazione.» Vi fu un silenzio. Un sorriso truce apparve sulle labbra di Topiltzin. «Molto astuto. Lui sa che, a causa del collasso economico del mio paese, il mio movimento travolgerà il Partido Revolucionario Institucional oggi al potere e teme un rivolgimento nelle relazioni fra Stati Uniti e Messico. Perciò gioca con i due estremi contro il centro.» «Non posso leggere i pensieri del presidente.» «Presto scoprirà che la stragrande maggioranza del popolo messicano ha finito di fare da zerbino alla classe dei ricchi e dei potenti. Sono tutti stanchi delle frodi e della corruzione, stanchi di scavare tra i rifiuti delle baraccopoli. Non vogliono più soffrire.» «E costruiranno un'utopia sulle ceneri degli aztechi?» «Anche la vostra nazione farebbe bene a tornare alle usanze dei vostri
padri fondatori.» «Gli aztechi erano i peggiori macellai delle due Americhe. Creare un governo moderno sulla base di antiche credenze barbariche sarebbe...» Rivas s'interruppe. Stava per dire «demenziale», ma si trattenne e disse invece: «da ingenui». Il volto ovale di Topiltzin si tese, le mani si contrassero convulsamente. «Dimentica che furono i conquistadores spagnoli a massacrare i nostri comuni antenati.» «La Spagna potrebbe dire lo stesso dei mori, ma questo non giustificherebbe il reinsediamento dell'Inquisizione.» «Che cosa vuole da me il suo presidente?» «Nient'altro che la pace e la prosperità del Messico», rispose Rivas. «E la promessa che non vi avvicinerete al comunismo.» «Non sono marxista. Detesto i comunisti quanto lui. Fra i miei seguaci non esistono guerriglieri armati.» «Il presidente sarà lieto di saperlo.» «La nostra nuova nazione azteca raggiungerà la grandezza non appena avremo sacrificato i ricchi criminali, i funzionarii corrotti e gli attuali capi del governo e dell'esercito.» Rivas non era sicuro di aver interpretato esattamente la risposta. «Sta parlando dell'esecuzione di migliaia di persone.» «No, signor Rivas. Sto parlando di vittime sacrificate ai nostri venerati dei, Quetzalcoatl, Huitzilopochtli e Tezcatlipoca.» Rivas lo fissò senza capire. «Vittime sacrificate?» Topiltzin non rispose. All'improvviso, mentre scrutava quella faccia impassibile, Rivas comprese. «No!» esclamò. «Non può parlare sul serio.» «Il nostro Paese riprenderà il suo nome azteco, Tenochtitlán», continuò Topiltzin. «Sarà uno Stato religioso. Il nahuátl diventerà la nostra lingua ufficiale. La popolazione verrà dominata con misure severe. Le industrie straniere saranno nazionalizzate. Solo i nativi potranno vivere entro i nostri confini. Tutti gli altri verranno espulsi dal Paese.» Rivas era allibito. Rimase ad ascoltare, pallidissimo. Topiltzin continuò senza pause. «Non vorranno più acquistare merci negli Stati Uniti, e voi non potrete più acquistare il nostro petrolio. I nostri debiti verso le banche mondiali saranno annullati, e tutti i beni stranieri confiscati. Inoltre, esigo la restituzione delle nostre terre della California, del Texas, del Nuovo Messico e dell'Arizona. Per riaverle, intendo scate-
nare milioni di miei compatrioti oltre il confine.» Le minacce di Topiltzin erano spaventose. Rivas non riusciva a concepirne le conseguenze. «È una pazzia», disse, disperatamente. «Il presidente non ascolterà mai richieste tanto assurde.» «Non crederà a ciò che dico?» «Nessun uomo sano di mente lo crederebbe.» Spinto dall'inquietudine, Rivas era andato troppo in là. Topiltzin si alzò lentamente, con gli occhi sbarrati e la testa abbassata. Parlò con voce atona. «Allora dovrò mandargli un messaggio che potrà capire.» Alzò le mani sopra la testa, tendendole verso il cielo buio. Quattro indios vestiti di mantelli bianchi annodati al collo si avvicinarono e sopraffecero Rivas, che era rimasto paralizzato dallo sbalordimento. Lo portarono all'altare di pietra scolpita a fregi di teschi e ossa incrociate e lo gettarono riverso, trattenendolo per le braccia e le gambe. In un primo momento Rivas rimase troppo stordito per protestare, troppo incredulo per comprendere le intenzioni di Topiltzin. Poi, quando capì, urlò inorridito. «Oh, Dio! No! No!» Freddamente, Topiltzin ignorò le grida dell'americano terrorizzato e si accostò all'altare. Fece un cenno, e uno dei suoi seguaci strappò la camicia di Rivas e gli scoprì il petto. «No!» implorò Rivas. Un coltello di ossidiana affilato come un rasoio parve materializzarsi nella mano sinistra di Topiltzin. Il chiaro di luna brillò sulla lama nera e vitrea. Rivas urlò: e fu l'ultimo suono della sua vita. Poi il coltello saettò. Le statue assistettero alla scena sanguinosa con fredda indifferenza. Avevano visto migliaia di volte quell'orribile manifestazione della crudeltà umana, molti secoli prima. Non c'era pietà negli occhi logorati dal tempo mentre il cuore ancora palpitante veniva strappato dal petto di Rivas. 13. Nonostante la gente e l'attività intorno a lui, Pitt era affascinato dal silenzio profondo del grande nord. Era un silenzio incredibile che sembrava
sopraffare le voci e i rumori delle macchine. Aveva l'impressione di trovarsi in piena solitudine all'interno di un frigorifero in un mondo desolato. Finalmente spuntò la luce del giorno, filtrata da una strana nebbia grigia che non lasciava ombre. A metà mattina il sole cominciò a cancellare la foschia gelida e il cielo si colorò d'un tenero bianco-arancio. La luce eterea che investiva i picchi rocciosi intorno al fiordo li faceva apparire come lapidi funerarie in un cimitero coperto di neve. La scena intorno al luogo dell'atterraggio disastroso cominciava a somigliare a un'invasione militare. I primi ad arrivare erano stati cinque elicotteri dell'Aeronautica: avevano portato un contingente dei servizi speciali dell'Esercito, uomini armati fino ai denti e con l'aria molto decisa, che avevano circondato la fusoliera e pattugliavano l'intera area. Un'ora dopo, gli inquirenti dell'aviazione federale erano atterrati e avevano cominciato a marcare i rottami per farli portar via. Poi era arrivata una squadra di patologi che avevano etichettato i cadaveri e li avevano caricati sugli elicotteri per trasportarli al più presto all'obitorio della base aerea di Thule. La Marina era rappresentata dal comandante Knight e dalla comparsa inaspettata del Polar Explorer. Tutti avevano interrotto il lavoro e s'erano voltati a guardare il mare quando gli ululati della sirena della nave erano echeggiati fra le montagne scoscese. Il Polar Explorer evitò le nuove formazioni di ghiaccio basse e opache che galleggiavano sull'acqua e i primi iceberg dell'inverno, simili a rovine di castelli gotici, e avanzò lentamente nell'imboccatura del fiordo. Per qualche tempo il mare azzurro-cenere frusciò sommessamente intorno alla prua sfregiata, poi si colorò di bianco. La prua enorme del rompighiaccio aprì agevolmente un percorso attraverso il pack, e s'arrestò a meno di cinquanta metri dal relitto. Knight ordinò di fermare i motori, fece scendere una scaletta e mise la sua nave a disposizione come posto di comando per le squadre addette alla sicurezza e alle indagini... e l'offerta fu accettata con gratitudine, senza un attimo di esitazione. Pitt era molto impressionato dall'efficienza del servizio di sicurezza. Il blackout delle notizie non era stato ancora violato; la versione diffusa all'aeroporto Kennedy rivelava solo che il volo delle Nazioni Unite era in ritardo. Ma ormai era questione di un'altra ora al massimo prima che un corrispondente sveglio intuisse che qualcosa non andava e desse l'allarme. «Credo che i miei occhi si siano gelati dietro le palpebre», disse lugubremente Giordino. Era seduto ai comandi dell'elicottero della NUMA e
cercava di bere un caffè prima che si gelasse. «Dev'essere più freddo delle tette d'una vacca del Minnesota in gennaio.» Pitt gli lanciò un'occhiata dubbiosa. «E come fai a saperlo? Non sei uscito dalla cabina riscaldata per tutta la notte.» «A me vengono i geloni solo se guardo un cubetto di ghiaccio in un bicchiere di scotch.» Giordino alzò una mano a dita aperte. «Vedi? Sono così gelato che non, riesco a stringere il pugno.» Pitt guardò dal finestrino laterale e vide il comandante Knight che arrivava dalla direzione della nave. Tornò nella cabina passeggeri e aprì il portello del carico quando Knight raggiunse la scaletta. Giordino gemette nel sentire il caldo che fuggiva e un soffio d'aria gelida che penetrava nell'elicottero. Knight accennò un saluto e salì a bordo alitando nuvolette di vapore. Infilò una mano all'interno del parka e tirò fuori una borraccia ricoperta di pelle. «L'ho portato dall'infermeria. Cognac. Non conosco la marca. Ho pensato che potrebbe servirvi.» «Hai appena mandato Giordino in paradiso», rise Pitt. «Io preferirei essere all'inferno», borbottò Giordino. Inclinò la borraccia e assaporò il cognac mentre gli scendeva nelle viscere. Poi alzò di nuovo la mano e la strinse a pugno. «Credo d'essere guarito.» «Tanto vale che ci mettiamo comodi», disse Knight. «Ci hanno ordinato di restare qui per le prossime ventiquattr'ore. Se mi perdonate l'atroce gioco di parole, vogliono tenerci in ghiaccio fino a quando avranno finito di far pulizia.» «Come stanno i superstiti?» chiese Pitt. «La signorina Kamil sta riposando. A proposito, ha chiesto di vederti. Ha parlato di un appuntamento per cena a New York.» «Per cena?» chiese Pitt con aria innocente. «È strano», continuò Knight. «Poco prima che Doc Gale operasse i legamenti lacerati del ginocchio della hostess, anche lei ha detto di aver appuntamento a cena con te.» Pitt aveva assunto un'espressione candida. «Immagino che avranno molta fame.» Giordino alzò gli occhi al cielo e si attaccò di nuovo alla borraccia. «Mi pare di aver già sentito questa storia.» «E lo steward?» «È conciato piuttosto male», rispose Knight. «Ma Doc è convinto che se
la caverà. Si chiama Rubin. Prima di addormentarsi sotto l'effetto dell'anestetico ha detto qualcosa di incredibile a proposito del comandante che avrebbe assassinato il primo e il secondo ufficiale e poi sarebbe sparito durante il volo.» «Forse non è tanto incredibile», disse Pitt. «Il cadavere del pilota non è stato ancora trovato.» «Non è di mia competenza.» Knight alzò le spalle. «Ho già tante cose di cui preoccuparmi, e non ho bisogno di impegolarmi in un giallo senza soluzione.» «Come stiamo con il sottomarino russo?» chiese Giordino. «Terremo nascosta la scoperta fino a quando potremo riferire di persona ai pezzi grossi del Pentagono. Sarebbe da stupidi buttare al vento il risultato per una fuga di notizie. L'incidente dell'aereo è stato un colpo di fortuna, almeno per noi. Ci ha offerto il pretesto logico per fare rotta verso casa e attraccare a Portsmouth non appena i superstiti saranno stati portati in un ospedale con un aereo. Speriamo che questa diversione imprevista confonda gli analisti dei servizi segreti sovietici quanto basta per toglierceli dalle costole.» «Non ci contare», lo ammonì Giordino, che cominciava ad avere la faccia lucida. «Se i russi hanno anche solo un vago sospetto che abbiamo trovato il sottomarino, sono abbastanza paranoici da credere che abbiamo organizzato l'incidente come diversione: accorreranno quindi con navi per il recupero, una flotta di corazzate, uno stormo di aerei e, quando individueranno il sottomarino, lo riporteranno a galla e lo rimorchieranno alla base di Severomorsk nella penisola di Kola.» «O lo faranno saltare», soggiunse Pitt. «Pensi che lo distruggeranno?» «I sovietici non dispongono di una grande tecnologia per i recuperi. Il loro primo obiettivo sarebbe assicurarsi che nessun altro possa mettere le mani sul sottomarino.» Giordino passò il cognac a Pitt. «È inutile stare a discutere di guerra fredda. Perché non torniamo a bordo della nave, dove c'è un bel calduccio?» «È un'idea», disse Knight. «Voi due avete già fatto più del vostro dovere.» Pitt si stiracchiò e chiuse la lampo del parka. «Credo che andrò a fare due passi.» «Non vieni con noi?»
«Fra un po'. Voglio andare a trovare gli archeologi per vedere come stanno.» «È un viaggio inutile. Doc ha mandato al loro campo un infermiere che è già rientrato. A parte i lividi e qualche strappo muscolare, stanno tutti benone.» «Potrebbe essere interessante vedere che cosa hanno trovato negli scavi», insistette Pitt. Giordino aveva imparato da tempo a leggere nella mente di Pitt. «Forse hanno trovato qualche antica anfora greca.» «Perché non chiederlo?» Knight fissò Pitt con fermezza. «Attento a quello che dici.» «Conosco bene la favola del rilevamento geologico.» «E i passeggeri e l'equipaggio dell'aereo?» «Sono rimasti intrappolati nella fusoliera e sono morti per l'ipotermia in seguito all'immersione nell'acqua gelata.» «Credo che sia stato imbeccato a dovere», commentò Giordino in tono asciutto. «Bene.» Knight annuì. «Hai capito tutto. Basta che non ti lasci sfuggire qualcosa che quelli non hanno motivo di sapere.» Pitt aprì il portello del carico e fece un cenno disinvolto. «Non restate alzati ad aspettarmi.» E uscì nel freddo. «Un tipo ostinato», borbottò Knight. «Non sapevo che Pitt s'interessasse alle anticaglie.» Giordino guardò all'esterno mentre Pitt si avviava attraverso il fiordo. Poi sospirò. «Non lo sapeva neppure lui.» La distesa di ghiaccio era solida e piatta, e Pitt attraversò il fiordo abbastanza in fretta. Scrutò le minacciose nubi grigie che avanzavano da nordovest. In pochi minuti il sole fulgido avrebbe lasciato il posto a una tormenta così forte e accecante da cancellare tutti i punti di riferimento, e Pitt non aveva proprio voglia di smarrirsi. Non aveva neppure la bussola e quindi affrettò il passo. Due girifalchi bianchi volteggiarono sopra di lui. Sembravano immuni al gelo artico, e facevano parte del gruppo poco numeroso di uccelli che restavano al nord anche durante il durissimo inverno. Pitt avanzò in direzione sud, attraversò la linea della costa e si orientò con il fumo che saliva dalla baracca degli archeologi. La chiazza lontana e
indistinta sembrava inquadrata in un telescopio rovesciato. Gli mancavano dieci minuti appena per arrivare al campo quando la tempesta lo investì. Un attimo prima poteva vedere a una distanza di circa venti chilometri, un attimo dopo la visibilità si era ridotta a meno di cinque metri. Incominciò a correre, sperando con tutto il cuore di procedere in linea quasi retta. La neve che l'investiva orizzontalmente gli batteva contro la spalla sinistra, e Pitt si tendeva in avanti per compensare la deviazione. Il vento divenne forte e lo martellò sino a che gli fu difficile reggersi in piedi. Continuò a scalpicciare alla cieca, guardandosi i piedi e contando i passi, con le braccia strette intorno alla testa. Sapeva che era impossibile procedere in quel modo senza finire per muoversi in cerchio. E sapeva che avrebbe potuto passare accanto alla baracca degli archeologi a una distanza di pochi metri e insistere nella marcia fino a quando fosse crollato per lo sfinimento. Tuttavia, anche con quel vento gelido, sentì che gli abiti pesanti gli permettevano di stare abbastanza al caldo; il battito del cuore, poi, gli assicurava che non si stava sforzando troppo. Quando, secondo i suoi calcoli, pensò di essere arrivato approssimativamente nelle vicinanze della baracca si fermò un attimo. Procedette poi per altri trenta passi prima di fermarsi di nuovo. Svoltò verso destra, avanzò per circa tre metri, fino a che poté continuare a vedere le sue impronte che si perdevano nel turbine di neve dalla direzione opposta. Poi riprese a camminare parallelamente al percorso originale, con la massima metodicità, come se cercasse un oggetto sotto il mare. Dopo una sessantina di passi le vecchie impronte svanirono nella neve. Seguì cinque percorsi paralleli prima di deviare ancora verso destra: allora ripeté il procedimento fino a quando fu sicuro di aver ripercorso la linea centrale ormai cancellata. Poi continuò dall'altra parte. Al terzo percorso inciampò in un mucchio di neve e cadde contro una parete di metallo. La seguì intorno a due angoli prima d'incontrare una fune che conduceva a una porta. L'aprì con un gran respiro di sollievo, assaporando la certezza di aver corso un pericolo mortale e di averlo superato. Entrò e s'irrigidì. Non era un alloggio, ma una grande baracca che copriva una serie di scavi. La temperatura non era molto superiore allo zero, tuttavia era già molto trovarsi al riparo dal vento furioso. L'unica luce era quella che giungeva da una lanterna Coleman. In un primo momento Pitt pensò che la struttura fosse deserta. Ma poi una testa e
due spalle emersero da una trincea. La figura stava inginocchiata e gli voltava le spalle. Sembrava impegnatissima a raschiar via la ghiaia smossa da un piccolo cornicione. Pitt uscì dall'ombra e guardò verso il basso. «È pronta?» chiese. Lily si voltò di scatto, più perplessa che allarmata. Aveva la luce negli occhi e riusciva a scorgere soltanto una forma indistinta. «Pronta per che cosa?» «Per venire in città a divertirsi.» Quando le giunse la risposta, Lily alzò la lampada e si rimise lentamente in piedi. Lo guardò in faccia, affascinata ancora una volta dagli occhi di Pitt, mentre lui ammirava i capelli rossoscuri che brillavano come il fuoco sotto la luce fulgida della lampada sibilante. «Il signor Pitt... vero?» Lily si sfilò il guanto destro e tese la mano. Anche Pitt si tolse il guanto e le strinse la mano energicamente. «Preferisco che le belle signore mi chiamino Dirk e mi diano del tu.» Lily si sentiva come una ragazzina intimidita. Le dispiaceva di non essere truccata e si chiedeva se Pitt s'era accorto che aveva le mani callose. Inoltre, per aggravare la situazione, si sentì arrossire. «Lily... Sharp», balbettò. «Io e i miei amici ci auguravamo di poterti ringraziare per questa notte. Pensavo che scherzassi, quando hai parlato dell'invito a cena. Davvero, non credevo che ti avrei rivisto.» «Come puoi sentire...» Pitt s'interruppe e inclinò la testa verso il gemito del vento. «...neppure una tormenta è stata sufficiente per tenermi lontano.» «Devi essere proprio matto.» «No, solo tanto stupido da illudermi di poter battere in velocità una tempesta artica.» Risero entrambi e la tensione si dileguò. Lily si mosse per uscire dalla trincea. Pitt le prese il braccio e l'aiutò, poi si affrettò a lasciarla quando la vide rabbrividire. «Non dovresti restare alzata.» Lily sorrise con aria coraggiosa. «Sono indolenzita per un mare di lividi blu e neri che non posso mostrarti. Ma sopravvivrò.» Pitt sollevò la lanterna e girò lo sguardo sulle pietre e sugli scavi. «Che cos'è?» chiese. «Un antico villaggio eschimese che fu abitato dal 100 al 500 dopo Cristo.»
«E come si chiama?» «L'abbiamo battezzato Gronquist Bay Village in onore del dottor Hiram Gronquist che l'ha scoperto, cinque anni fa.» «È uno dei tre uomini che ho conosciuto stanotte?» «Quello grande e grosso che aveva perso i sensi.» «Cosa sta, adesso?» «Ha un grosso bozzo violaceo sulla fronte, ma lui giura di non avere mal di testa né capogiri. Quando ho lasciato la baracca, stava arrostendo un tacchino.» «Un tacchino?» ripeté Pitt, sorpreso. «Dovete avere un sistema di rifornimenti di primissimo ordine.» «Un aereo Minerva a decollo verticale, prestato all'università da un ricco ex allievo. Arriva da Thule ogni due settimane.» «Pensavo che, a queste latitudini, il periodo degli scavi fosse limitato al cuore dell'estate, quando le temperature sopra lo zero scongelano il terreno.» «In generale è così. Ma con il riparo prefabbricato e riscaldato sopra la sezione principale del villaggio, possiamo lavorare da aprile fino a tutto ottobre.» «Avete trovato niente di straordinario, per esempio un oggetto che non avrebbe dovuto esserci?» Lily lanciò a Pitt un'occhiata strana. «Perché vuoi saperlo?» «Per curiosità.» «Abbiamo ritrovato centinaia di manufatti interessanti per ricostruire il tenore di vita e la tecnologia degli eschimesi preistorici. Li abbiamo nella baracca, se vuoi vederli.» «Posso sperare di vederli davanti a una porzione di tacchino?» «Certamente. E il dottor Gronquist è un ottimo cuoco.» «Avrei voluto invitarvi tutti a cena a bordo della nave, ma questa tormenta ha sconvolto i miei progetti.» «E noi siamo sempre contenti di vedere una faccia nuova al nostro tavolo.» «Avete scoperto qualcosa di eccezionale, non è vero?» chiese bruscamente Pitt. Lily sgranò gli occhi in un'espressione sospettosa. «Come fai a saperlo?» «Greco o romano?» «Impero romano. Per la precisione, di Bisanzio.» «Di Bisanzio... ma che cosa?» insistette Pitt con un'espressione dura ne-
gli occhi. «È molto antico?» «È una moneta d'oro della fine del quarto secolo.» Pitt parve rilassarsi. Trasse un respiro profondo e lo esalò mentre Lily lo fissava confusa e piuttosto irritata. «Avanti, sentiamo!» esclamò la donna. «E se ti dicessi», cominciò lentamente Pitt, «che c'è una fila di anfore sparse sul fondo marino, proprio davanti al fiordo?» «Anfore?» ripeté sbalordita Lily. «Ho una registrazione effettuata dalle nostre telecamere subacquee.» «Erano arrivati veramente fin qui.» Lily sembrava in trance. «Avevano veramente attraversato l'Atlantico. I romani erano sbarcati in Groenlandia prima dei vichinghi.» «Le prove sembrano confermarlo.» Pitt passò il braccio intorno alla vita di Lily e la guidò verso la porta. «A proposito, devi restare bloccata qui dentro per tutta la durata della tempesta oppure la corda là fuori conduce alla baracca?» Lily annuì. «Sì, è tesa fra le due costruzioni.» Si fermò a guardare il punto dove aveva scoperto la moneta. «Pitea, il navigatore greco, aveva compiuto un viaggio epico nel 350 avanti Cristo. Secondo le leggende, navigò l'Atlantico in direzione nord e finì per raggiungere l'Islanda. È strano che non esistano leggende o documenti su un viaggio dei romani qui a nord-ovest, settecentocinquant'anni più tardi.» «Pitea fu fortunato. Riuscì a tornare a casa per raccontare la sua avventura.» «Credi che i romani, dopo essere venuti fin qui, si siano persi durante il viaggio di ritorno?» «No, credo che siano ancora qui.» Pitt guardò Lily con un sorriso energico. «E noi due, mia bella signora, li troveremo.» PARTE SECONDA LA »SERAPIS« 14. 14 ottobre 1991 Washington, D.C. Un'acquerugiola fredda e uggiosa avvolgeva la capitale degli Stati Uniti
nel momento in cui un taxi si fermava all'incrocio fra la Diciassettesima e la Pennsylvania Avenue, davanti al vecchio Executive Office Building. Un uomo in uniforme da fattorino ne scese e disse al tassista di aspettare. Poi si chinò, prendendo dall'interno dell'auto un pacco avvolto nella seta rossa. Attraversò a passo svelto il marciapiedi, scese alcuni gradini, varcò una porta ed entrò nell'anticamera dell'ufficio postale. «Per il presidente», disse con accento spagnolo. Un impiegato annotò la consegna del pacco e l'orario. Poi alzò gli occhi e sorrise. «Piove ancora?» «Una pioggerella.» «Quanto basta per rovinare l'esistenza.» «E rallentare il traffico», replicò il fattorino con aria acida. «Comunque, buona giornata.» «Grazie, altrettanto.» Il fattorino uscì mentre l'impiegato prendeva il pacco e lo passava al fluoroscopio. Poi indietreggiò d'un passo e osservò lo schermo mentre i raggi x rivelavano l'oggetto sotto l'incarto. Lo identificò senza difficoltà. Era una borsa, ma l'immagine lo sconcertava. Niente indicava che contenesse fascicoli ó documenti, né oggetti solidi dal contorno caratteristico, o qualcosa che sembrasse un esplosivo. L'uomo era un esperto nelle identificazioni ai raggi x, ma il contenuto del pacco lo sconcertava. Prese il telefono e rivolse una richiesta alla persona che gli rispose. Non erano passati neppure due minuti quando un agente del servizio di sicurezza comparve in compagnia di un cane. «C'è qualcosa per Sweetpea?» chiese l'agente. L'impiegato annuì e posò il pacco sul pavimento. «Non riesco a identificarlo con il fluoroscopio.» Sweetpea era una bastarda, frutto di un breve incontro fra un bracchetto e un bassotto. Aveva enormi occhi castani, un corpo piccolo e grasso sostenuto da corte zampette. Era stata addestrata per riconoscere al fiuto tutti i tipi di esplosivo, dal più comune al più raro. Mentre i due uomini la osservavano, la bestiola girò intorno al pacco con il naso fremente come quello di un'anziana e ricca vedova davanti a un'esposizione di profumi. All'improvviso la cagna s'irrigidì, rizzò il pelo del collo e della schiena e incominciò a indietreggiare. Il muso assunse una strana espressione di disgusto e di sospetto. Poi incominciò a ringhiare. L'agente era sorpreso. «Di solito non reagisce così.»
«Lì dentro dev'esserci qualcosa di strano», disse l'impiegato postale. «A chi è indirizzato?» «Al presidente.» L'agente si mosse e compose un numero al telefono. «È meglio che facciamo venire Jim Gerhart.» L'agente speciale Gerhart, responsabile del servizio di sicurezza della Casa Bianca, ricevette la telefonata mentre, seduto alla scrivania, stava mangiando. Andò immediatamente all'ufficio della posta in arrivo. Osservò la reazione del cane, ed esaminò il pacco al fluoroscopio. «Non vedo fili né congegni detonatori», disse con l'accento strascicato della Georgia. «Non è una bomba», convenne l'impiegato postale. «D'accordo, apriamo.» L'involucro di seta rossa fu rimosso con estrema attenzione e rivelò una borsa di pelle nera. Non c'erano monogrammi, o il marchio del fabbricante o il numero del modello. C'erano solo serrature a combinazione, apribile con una chiave. Gerhart provò a far scattare le due serrature. Si aprirono entrambe. «Il momento della verità», disse con un sorriso diffidente. Posò le mani sugli angoli del coperchio e lo sollevò piano piano fino a scoprirne il contenuto. «Gesù!» esclamò Gerhart. L'agente del servizio di sicurezza impallidì e si girò dall'altra parte. L'impiegato postale soffocò un conato di vomito e corse barcollando verso il bagno. Gerhart richiuse la borsa. «Portalo immediatamente al George Washington Hospital.» L'agente non riuscì a rispondere fino a che non ebbe ingoiato il fiotto di bile che gli era salito alla gola. Infine tossì. «È proprio vera, oppure è una specie di pesce d'aprile?» «È autentica», disse cupamente Gerhart. «E, credimi, non è uno scherzo.» Nel suo ufficio alla Casa Bianca, Dale Nichols si assestò sulla poltroncina girevole e inforcò gli occhiali da lettura. Per la decima volta ricominciò a esaminare il contenuto di un grosso fascicolo che gli era stato inviato da Armando Lopez, direttore degli Affari Latino-Americani. Nichols aveva l'aspetto del professore universitario, e in effetti lo era al
tempo in cui il presidente l'aveva convinto ad abbandonare la tranquillità delle aule per la bolgia politica di Washington. La riluttanza iniziale si era comunque trasformata ben presto in stupore quando Nichols aveva scoperto di possedere il talento segreto necessario per manovrare la burocrazia della Casa Bianca. I folti capelli color caffè erano spartiti da una scriminatura centrale. Gli occhiali antiquati, con le piccole lenti rotonde e la montatura metallica, rispecchiavano un temperamento metodico e determinato che lo rendeva capace di isolarsi dal mondo per concentrarsi sui compiti che gli venivano affidati. E infine ostentava altri due attributi caratteristici dell'uomo accademico: la cravatta a farfalla e la pipa. Accese la pipa senza staccare gli occhi dagli articoli ritagliati da quotidiani e riviste messicani, tutti sullo stesso argomento. Topiltzin. Erano incluse anche numerose interviste concesse dal messia carismatico ad alti rappresentanti dei Paesi del Centro e del Sud America; Topiltzin però si era rifiutato di parlare ai giornalisti e agli incaricati del governo degli Stati Uniti. Nessuno era riuscito a superare il suo esercito di guardie del corpo. Nichols aveva imparato lo spagnolo durante due anni di servizio in Perù con il Peace Corps, e quindi non aveva difficoltà a leggere gli articoli. Prese un bloc-notes e cominciò a redigere un elenco delle pretese e delle affermazioni venute alla luce nel corso delle interviste. 1. Topiltzin afferma di provenire da una famiglia poverissima, di essere nato in una baracca di cartone ai margini dell'immensa discarica dei rifiuti alla periferia di Città di Messico e di non conoscere il giorno, il mese e l'anno della nascita. È sopravvissuto e ha imparato che cosa significa vivere tra il puzzo, le mosche, il letame e la sporcizia degli affamati senza casa. 2. Dichiara di non aver studiato. La sua storia, dall'infanzia al momento in cui si è presentato come sedicente sommo sacerdote dell'arcaica religione tolteco-azteca, è avvolta nel buio più totale. 3. Pretende d'essere la reincarnazione di Topiltzin, sovrano tolteco vissuto nel decimo secolo e identificato con il leggendario dio Quetzalcoatl. 4. La sua filosofia politica è un miscuglio pazzesco tra la cultura e la religione antiche da una parte e una specie di autocrazia senza partiti dall'altra. Intende recitare il ruolo del padre benevolo per il popolo messi-
cano. Non risponde a chi gli chiede come si propone di ricostruire l'economia disastrata. Rifiuta di discutere il modo in cui ristrutturerà il governo se prenderà il potere, 5. È un oratore carismatico. Stabilisce uno strano rapporto con gli ascoltatori. Parla soltanto nell'antica lingua azteca e usa gli interpreti. Si tratta di una lingua ancora usata da molti indios del Messico centrale. 6. I suoi sostenitori sono fanatici. La sua popolarità è dilagata nel Paese come una marea. Gli analisti politici prevedono che potrebbe vincere le elezioni nazionali con quasi sei punti di vantaggio. Tuttavia rifiuta di partecipare alle elezioni libere perché afferma, non a torto, che i dirigenti corrotti non cederebbero mai il potere anche se perdessero. Topiltzin è sicuro di impadronirsi del Paese per mezzo d'una specie di plebiscito popolare. Nichols posò la pipa sul portacenere, fissò pensieroso il soffitto per qualche momento e ricominciò a scrivere. SOMMARIO: Topiltzin è incredibilmente ignorante o incredibilmente dotato. È ignorante se è ciò che dice di essere. È dotato se nella sua pazzia ci sono un metodo e un fine che lui solo riesce a vedere. Guai, guai, guai. Nichols aveva cominciato a rileggere gli articoli alla ricerca di una chiave che permettesse di decifrare il carattere di Topiltzin, quando il telefono squillò. Sollevò il ricevitore. «Il presidente sulla uno», annunciò la segretaria. Nichols premette il pulsante. «Sì, signor presidente.» «Abbiamo notizie di Guy Rivas?» «No, niente.» Il presidente tacque per qualche attimo. Poi disse: «Doveva venire da me due ore fa. Sono preoccupato. Se ha avuto problemi, a quest'ora il suo pilota ci avrebbe avvertiti». «Non è andato a Città di Messico con un jet della Casa Bianca», spiegò Nichols. «Per ragioni di segretezza ha viaggiato su un aereo di linea come turista.» «Capisco», rispose il presidente. «Se il presidente De Lorenzo venisse a sapere che ho mandato un mio rappresentante personale a contattare l'opposizione, la prenderebbe come un'offesa e annullerebbe la nostra confe-
renza della settimana prossima in Arizona.» «È la nostra preoccupazione principale», assicurò Nichols. «Ha avuto notizie dell'incidente del volo charter dell'ONU?» chiese il presidente cambiando argomento. «No, signore», rispose Nichols. «So soltanto che Hala Kamil è sopravvissuta.» «Sì, oltre a due membri dell'equipaggio. Gli altri sono morti avvelenati.» «Avvelenati?» chiese incredulo Nichols. «Così riferiscono gli inquirenti. Pensano che il pilota abbia cercato di avvelenare tutti coloro che si trovavano a bordo prima di lanciarsi con il paracadute sopra l'Islanda.» «Il pilota doveva essere un impostore.» «Non lo sapremo fino a che non l'avremo ritrovato vivo o morto.» «Cristo! Quale movimento terroristico avrebbe avuto un motivo per sterminare più di cinquanta rappresentanti dell'ONU?» «Finora nessuno ha rivendicato l'attentato. Secondo Martin Brogan della CIA, se è opera dei terroristi, questa volta hanno agito secondo schemi diversi dal solito.» «È possibile che il bersaglio fosse Hala Kamil», suggerì Nichols. «Akhmad Yazid ha giurato di eliminarla.» «È una possibilità che non possiamo ignorare», ammise il presidente. «I media hanno saputo qualcosa?» «La notizia sarà diffusa dalla stampa e dalla TV entro un'ora. Non mi pareva che avesse senso tenerlo nascosto.» «Vuole che faccia qualcosa, signor presidente?» «Le sarei grato, Dale, se sondasse le reazioni dei collaboratori del presidente De Lorenzo. Su quel volo c'erano undici delegati e altri rappresentanti del governo messicano. Presenti le mie condoglianze e offra tutta la collaborazione possibile entro certi limiti. Oh, sì, è meglio che tenga informato Julius Schiller al Dipartimento di Stato, in modo da non pestarci i piedi l'uno con l'altro.» «Me ne occuperò subito.» «E m'informi immediatamente non appena ha notizie di Rivas.» «Sì, signor presidente.» Nichols riattaccò e tornò a concentrare l'attenzione sul dossier. Cominciava a domandarsi se Topiltzin avesse qualcosa a che fare con lo sterminio dei delegati dell'ONU, e stava cercando qualcosa di concreto cui afferrarsi.
Nichols non era un investigatore. Non aveva l'abilità di sezionare freddamente, strato per strato, un personaggio sospetto, nel tentativo di comprenderlo. La sua specializzazione accademica era focalizzata sulle proiezioni dei sistemi dei movimenti politici internazionali. Per lui Topiltzin era un enigma. Hitler aveva avuto una visione distorta della supremazia ariana. Travolto dal fanatismo religioso, Khomeini aveva cercato di far piombare il Medio Oriente nel fondamentalismo musulmano più oscurantista. Lenin aveva predicato la crociata del comunismo mondiale. Qual era l'obiettivo di Topiltzin? Il Messico degli aztechi? Un ritorno al passato? Nessuna società moderna poteva funzionare con regole così arcaiche. Il Messico non era una nazione che si poteva governare con le fantasie di un don Chisciotte. Dietro quell'uomo doveva esserci un'altra forza motrice. Nichols stava facendo congetture nel vuoto. Vedeva Topiltzin soltanto come una caricatura, un cattivo da cartone animato. La segretaria entrò senza annunciarsi e posò un fascicolo sulla scrivania. «Il rapporto che ha chiesto alla CIA... e c'è una chiamata per lei sulla tre.» «Chi è?» «Un certo James Gerhart», rispose la segretaria. «Fa parte del servizio di sicurezza della Casa Bianca», disse Nichols. «Ha spiegato che cosa vuole?» «Ha detto solo che è urgente.» Incuriosito, Nichols prese la chiamata. «Dale Nichols.» «Sono Jim Gerhart, signore, responsabile del...» «Sì, lo so», interruppe Nichols. «C'è qualche problema?» «Penso che farebbe bene a venire al laboratorio di patologia del George Washington.» «L'ospedale dell'università?» «Sì, signore.» «E perché?» «Preferirei non dirlo al telefono.» «Ho molto da fare, signor Gerhart. Si spieghi meglio.» Vi fu un breve silenzio. «È una questione che riguarda lei e il presidente. È tutto ciò che posso dirle.» «Non può darmi un'indicazione più precisa?» Gerhart ignorò la richiesta. «Uno dei miei uomini sta aspettando davanti al suo ufficio per condurla al laboratorio. Ci vedremo nella sala d'aspetto.»
«Stia a sentire, Gerhart...» Nichols s'interruppe. L'altro aveva interrotto la comunicazione. L'acquerugiola s'era trasformata in una pioggia insistente e l'umore di Nichols era intonato al maltempo quando entrò nell'ospedale e si avviò verso il laboratorio di patologia. L'odore d'etere che pervadeva i corridoi lo disgustava. Come aveva promesso, Gerhart lo attendeva in anticamera. Si conoscevano di vista, ma non s'erano mai parlati. Gerhart si avvicinò senza però tendere la mano. «La ringrazio per essere venuto», disse in tono ufficiale. «Perché sono qui?» chiese Nichols. «Per un'identificazione.» Nichols fu assalito da uno spiacevole presentimento. «Di chi si tratta?» «Preferirei che fosse lei a dirmelo.» «Non me la sento di guardare cadaveri.» «Non è esattamente un cadavere, ma avrà bisogno di uno stomaco forte.» Nichols alzò le spalle. «D'accordo, sbrighiamoci.» Gerhart aprì la porta e lo guidò in fondo a un lungo corridoio e in una grande stanza piastrellata di bianco. Il pavimento era leggermente concavo, con un tombino al centro. Un tavolo d'acciaio inossidabile spiccava solitario nel mezzo, e un telo opaco di plastica bianca copriva un lungo oggetto che non doveva avere uno spessore superiore a un paio di centimetri. Nichols si voltò sbalordito verso Gerhart. «Che cosa dovrei identificare?» Senza una parola, Gerhart sollevò il telo e lo rimosse, lasciandolo cadere sul pavimento. Nichols fissò l'oggetto sul tavolo. In un primo momento pensò che fosse l'immagine di carta della figura di un uomo. Poi, con un tremito, comprese la macabra verità. Si chinò sul tombino e vomitò. Gerhart uscì e tornò subito dopo con una sedia pieghevole e una salvietta. Fece sedere Nichols e gli porse l'asciugamano. «Ecco», disse freddamente. «Usi questo.» Nichols rimase seduto per un paio di minuti. Tenne la salvietta premuta contro la faccia, scosso da conati a vuoto. Infine si riprese un po', guardò Gerhart e balbettò:
«Mio Dio... non è altro che...» «Pelle», concluse Gerhart. «Pelle umana.» Nichols dovette fare uno sforzo per guardare l'oggetto macabro steso sul tavolo. Sembrava un pallone sgonfio. Era l'unico modo per descriverlo. Era stata fatta un'incisione dalla nuca fino alle caviglie, e la pelle era stata staccata dal corpo come la pelliccia di un animale. Sul petto c'era una lunga fenditura verticale ricucita rozzamente. Gli occhi non c'erano, ma c'era tutto il derma, e includeva anche le mani e i piedi raggrinziti. «È in grado di dirmi chi potrebbe essere?» chiese Gerhart a voce bassa. Nichols fece uno sforzo, ma i lineamenti distorti del volto rendevano impossibile l'identificazione. Solo i capelli sembravano vagamente familiari. Eppure... eppure aveva compreso. «Guy Rivas», mormorò. Gerhart non parlò. Prese Nichols per il braccio e lo condusse in un'altra stanza, dove c'erano alcune poltrone comode e una macchina per il caffè. Ne versò una tazza e gliela porse. «Beva. Torno fra un momento.» Nichols sedette. Aveva la sensazione di vivere in un incubo. Era ancora sconvolto e nauseato da ciò che aveva visto nell'altra stanza. Non riusciva a capacitarsi della realtà della morte orribile di Rivas. Gerhart tornò. Aveva con sé una borsa. La posò su un tavolino. «È stata lasciata all'ufficio postale. La pelle era piegata all'interno. In un primo momento ho pensato che fosse opera di uno psicopatico. Poi ho cercato meglio e ho trovato un registratore miniaturizzato nascosto dentro la fodera.» «E ha ascoltato il nastro?» «Non è servito a molto. Sembra la conversazione fra due uomini che parlano in codice.» «Come mai è risalito da Rivas a me?» «La carta d'identità governativa di Rivas era stata messa all'interno della pelle. Chi l'ha assassinato voleva essere sicuro che identificassimo i resti. Sono andato all'ufficio di Rivas e ho interrogato la segretaria, e alla fine mi ha detto che Rivas aveva avuto un incontro di due ore con lei e il presidente prima di andare all'aeroporto per partire per una destinazione ignota. Quest'ultimo particolare mi è sembrato strano e quindi ho dedotto che Rivas fosse in missione segreta. Perciò ho contattato lei.» Nichols lo fissò socchiudendo le palpebre. «Ha detto che c'è una conver-
sazione registrata?» Gerhart annuì. «La conversazione e le urla di Rivas mentre stavano per farlo a pezzi.» Nichols chiuse gli occhi e cercò di scacciare la visione che era apparsa nella sua mente. «È necessario informare la famiglia», continuò Gerhart. «Era sposato?» «Sì. E aveva quattro figli.» «Lo conosceva bene?» «Guy Rivas era un brav'uomo. Una delle poche persone veramente oneste che ho conosciuto da quando sono arrivato a Washington. Avevamo lavorato insieme in varie missioni diplomatiche.» Per la prima volta la faccia impassibile di Gerhart s'intenerì. «Mi dispiace.» Nichols non l'ascoltava. I suoi occhi assunsero una luce fredda e amara. L'incubo era svanito. Non sentiva più il sapore del vomito, la nausea dell'orrore. La brutale barbarie di cui era stato vittima qualcuno che conosceva bene aveva scatenato una valanga di collera, una collera che Nichols non aveva mai provato. Il professore dal potere limitato alle quattro pareti di un'aula universitaria non esisteva più. Al suo posto c'era un collaboratore del presidente, uno del piccolo gruppo eletto dei mediatori del potere, capaci di cambiare gli eventi e di creare scompiglio in tutto il mondo. Con tutti i mezzi e i poteri di cui disponeva alla Casa Bianca, con o senza l'approvazione ufficiale del presidente, Nichols era deciso a vendicare l'assassinio di Rivas. Topiltzin doveva morire. 15. Il piccolo executive jet Beechcraft atterrò con un leggero stridore di pneumatici e rallentò sulla pista di un aeroporto privato una ventina di chilometri a sud di Alessandria d'Egitto. Meno d'un minuto più tardi si arrestò davanti a una Volvo verde con la scritta TAXI sulle portiere. Il rombo dei motori cessò e il portello della cabina passeggeri si aprì. L'uomo che scese a terra portava un abito bianco con la cravatta bianca e la camicia blu. Era alto circa un metro e ottanta e aveva una corporatura snella. Si fermò per un momento, passandosi un fazzoletto sulla fronte stempiata, e poi si accarezzò con l'indice i vistosi baffi neri. Gli occhi erano nascosti dalle lenti scure, e le mani erano coperte da guanti di pelle
candida. Suleiman Aziz Ammar non somigliava affatto al pilota che era salito sul volo 106 a Londra. Si avvicinò alla Volvo e salutò l'autista basso e muscoloso che aveva lasciato il volante. «Buongiorno, Ibn. Hai avuto qualche difficoltà per il ritorno?» «È tutto in ordine», rispose Ibn. Aprì la portiera posteriore senza cercare di nascondere l'arma nella fondina sotto l'ascella. «Portami da Yazid.» Ibn annuì in silenzio, mentre Ammar prendeva posto sul sedile posteriore. L'esterno del taxi era ingannevole quanto i numerosi travestimenti di Ammar: i vetri scuri e la carrozzeria erano a prova di proiettile. A bordo, Ammar stava su una comoda poltroncina di pelle davanti a una piccola scrivania dotata di una completa attrezzatura elettronica che comprendeva due telefoni, un computer, una radiotrasmittente e un monitor TV. C'erano anche un mobiletto bar e una rastrelliera con due fucili automatici. Mentre la macchina aggirava il centro affollato di Alessandria e svoltava sulla strada della spiaggia di al-Jaysh, Ammar controllò i suoi investimenti. Possedeva una ricchezza enorme, nota a lui solo. I suoi successi finanziari erano dovuti più alla spietatezza che all'astuzia. Se un dirigente d'azienda o un funzionario governativo ostacolavano un affare redditizio per Ammar, il loro destino era quello di essere eliminati. Dopo una ventina di chilometri, Ibn rallentò, fermandosi davanti al cancello di una piccola villa che coronava una collinetta, affacciata sull'ampio lido sabbioso. Ammar spense il computer e scese dalla macchina. Quattro guardie in tenuta da fatica color sabbia lo circondarono e lo perquisirono. Per maggior precauzione lo fecero passare attraverso un detector a raggi x del tipo usato negli aeroporti. Poi le guardie del corpo di Yazid lo condussero per una scalinata di pietra, eretta fra le costruzioni di cemento. Ammar sorrise quando passarono davanti all'arcata principale, l'accesso riservato agli ospiti d'onore, ed entrarono da una porticina laterale. Accantonò con il pensiero quell'insulto; sapeva che Yazid, con la sua mentalità meschina, tendeva a umiliare coloro che facevano per lui i lavori più sporchi, ma che non appartenevano alla cerchia intima dei suoi adoratori fanatici. Ammar fu fatto entrare in una stanza spoglia, dove c'erano soltanto uno
sgabello di legno e un grande tappeto di Kāshā'n appeso a una parete. L'aria era calda e soffocante. Non c'erano finestre e la luce filtrava dal lucernario. Le guardie uscirono senza pronunciare una parola e chiusero la porta. Ammar sbadigliò e alzò il polso come per controllare l'orologio. Poi si tolse gli occhiali scuri e si soffregò gli occhi. Quei gesti studiati gli permisero di localizzare il minuscolo obiettivo di una telecamera nascosta tra i fregi del tappeto, senza per questo tradire la sua scoperta. Rimase ad attendere per quasi un'ora prima che il tappeto si scostasse e Akhmad Yazid entrasse dalla piccola arcata nascosta. Il capo spirituale dei musulmani egiziani era giovane: non aveva più di trentacinque anni. Era piccolo di statura ed era costretto ad alzare la testa per guardare Ammar negli occhi. Il viso non aveva i lineamenti ben delineati della maggior parte degli egiziani: il mento e gli zigomi erano più morbidi e arrotondati. La testa era coperta da un drappo bianco avvolto a turbante e la figura esile era drappeggiata in un caffettano di seta candida. Quando passò dall'ombra alla luce, il colore degli occhi sfumò dal nero al castano scuro. In segno di rispetto, Ammar accennò un lieve inchino senza guardarlo negli occhi. «Ah, amico mio», disse calorosamente Yazid, «sono felice di rivederti.» Ammar alzò la testa, sorrise e incominciò a giocare la sua partita. «È un onore trovarmi alla sua presenza, Akhmad Yazid.» «Siedi, prego», disse Yazid. Era un ordine, non un invito. Ammar obbedì e sedette sullo sgabello in modo che Yazid potesse guardarlo dall'alto in basso. Yazid aveva studiato anche un'altra forma di umiliazione. Cominciò a girare intorno alla stanza mentre parlava, e costrinse Ammar a voltarsi di continuo per seguirlo. «Ogni settimana porta una nuova, grande sfida alla fragile autorità del presidente Hasan. Solo la fedeltà dei militari impedisce la sua caduta. Può ancora contare su trecentocinquantamila uomini dell'Esercito. Per il momento il ministro della Difesa Abu Hamid sta alla finestra. Mi ha assicurato che darà il suo appoggio al nostro movimento per una repubblica islamica, ma soltanto se vinceremo un referendum nazionale senza spargimenti di sangue.» «È una prospettiva spiacevole?» chiese Ammar con aria innocente. Yazid lo fissò con freddezza. «Quell'uomo è un ciarlatano filoccidentale, troppo vigliacco per rinunciare agli aiuti americani. Per lui contano soltan-
to i reattori, gli elicotteri da combattimento e i carri armati. Teme che l'Egitto prenda la stessa strada dell'Iran, e da quell'idiota che è insiste per una transizione ordinata da un governo all'altro, in modo che continuino ad affluire i prestiti delle banche mondiali e gli aiuti finanziari americani.» S'interruppe e guardò Ammar negli occhi, come se sfidasse il suo sicario numero uno a contraddirlo di nuovo. Ammar rimase in silenzio. Aveva la sensazione che la stanza soffocante si stringesse intorno a lui. «Inoltre, Abu Hamid pretende da me la promessa che Hala Kamil continuerà a essere segretario generale delle Nazioni Unite», soggiunse Yazid. «Eppure lei mi aveva ordinato di eliminarla», osservò incuriosito Ammar. Yazid annuì. «Sì, la volevo morta perché si serve della sua posizione all'ONU come di una piattaforma per esprimere la sua opposizione al nostro movimento e per istigare contro di me l'opinione pubblica mondiale. Abu Hamid, però, mi avrebbe sbattuto la porta in faccia se fosse stata uccisa apertamente... e per questa ragione contavo che tu, Suleiman, la togliessi di mezzo con un incidente tale da non suscitare sospetti. Purtroppo hai fallito. Sei riuscito a uccidere tutti coloro che erano a bordo di quell'aereo tranne Hala Kamil.» Le ultime parole furono come un colpo di maglio. La calma apparente di Ammar si disintegrò. Alzò gli occhi verso Yazid in preda alla confusione. «È ancora viva?» Lo sguardo di Yazid divenne ancora più freddo. «La notizia è arrivata a Washington meno di un'ora fa. L'aereo è precipitato in Groenlandia. Tutti i passeggeri, tranne Hala Kamil, e tutti i membri dell'equipaggio tranne due sono stati uccisi dal veleno.» «Veleno?» mormorò Ammar in tono scettico. «I nostri informatori nei media americani lo hanno confermato. Che cosa avevi pensato di fare, Suleiman? Mi avevi assicurato che l'aereo sarebbe sparito in mare.» «Hanno detto com'è arrivato fino in Groenlandia?» «Uno steward ha scoperto i cadaveri dei due ufficiali. Con l'aiuto di un delegato messicano, ha preso i comandi ed è riuscito a compiere un atterraggio d'emergenza in un fiordo lungo la costa. Hala Kamil sarebbe morta congelata, togliendoti dall'imbarazzo, se non ci fosse stata nei pressi una nave della Marina militare americana. Sono accorsi immediatamente e l'hanno salvata.» Ammar era sbalordito. Non era abituato all'insuccesso. Non riusciva a
immaginare come il suo incarico meticolosamente studiato fosse fallito in modo tanto clamoroso. Chiuse gli occhi e rivide l'aereo che quasi sfiorava la sommità del ghiacciaio e la superava. Subito cominciò a valutare i fattori imponderabili, concentrandosi su un frammento del rompicapo che non collimava. Yazid rimase in silenzio per qualche istante, poi spezzò la concentrazione di Ammar. «Naturalmente ti rendi conto che io sarò accusato di questo disastro.» «Non esistono prove che possono collegare l'attentato a me o a lei», disse con fermezza Ammar. «Può darsi. Ma io avevo un movente. Le voci e le ipotesi mi indicheranno come colpevole, e ciò avverrà soprattutto per mezzo dei media occidentali. Dovrei farti giustiziare.» Ammar non pensò ad alcunché e alzò le spalle con indifferenza. «Sarebbe uno spreco. Sono pur sempre il più abile sicario del Medio Oriente.» «E anche il più pagato.» «Non ho l'abitudine di presentare il conto per gli incarichi non portati a termine.» «Lo spero», disse Yazid in tono acido. Girò bruscamente sui tacchi e si avviò verso il tappeto. Tese la mano sinistra e lo scostò, poi si voltò di nuovo verso Ammar. «Ora devo preparare la mente alla preghiera. Puoi andare, Suleiman Aziz Ammar.» «E Hala Kamil? Il lavoro non è stato completato.» «Affiderò la sua eliminazione a Muhammad Ismail.» «Ismail», borbottò Ammar. «È un cretino.» «Posso fidarmi di lui.» «Per che cosa? Per pulire le fogne?» Gli occhi freddi di Yazid fissarono minacciosamente Ammar. «Hala Kamil non ti riguarda più. Rimarrai in Egitto al mio fianco. Io e i miei fedeli consiglieri abbiamo messo a punto un altro progetto per favorire la nostra causa. Avrai un'occasione per riscattarti agli occhi di Allah.» Prima che Yazid passasse oltre l'arcata, Ammar si alzò. «Il delegato messicano che ha aiutato lo steward a pilotare l'aereo... anche lui è morto avvelenato?» Yazid si voltò e scosse la testa. «Secondo il rapporto, è rimasto ucciso nell'atterraggio.» Il tappeto ricadde. Ammar tornò a sedere sullo sgabello. A poco a poco la rivelazione affio-
rò tra le nebbie dell'enigma. Avrebbe dovuto infuriarsi, ma non provava il minimo sentimento di collera. Un sorriso divertito gli incurvò le labbra sotto i baffi. «Allora eravamo in due», mormorò rivolgendosi alla stanza vuota. «E l'altro ha avvelenato i pasti.» Poi scosse la testa, meravigliato. «Veleno nel filetto alla Wellington. Mio Dio, che strano.» 16. In un primo momento nessuno prestò attenzione alla macchiolina che si spostava lentamente lungo il margine esterno della carta millimetrata del sonar. Dopo sei ore di ricerche avevano trovato numerosi manufatti. C'erano pezzi dell'aereo precipitato che venivano identificati per il recupero, un peschereccio affondato, rottami gettati in mare da altri pescherecci che avevano cercato rifugio dalle tempeste all'interno del fiordo. Tutto era stato identificato dalla videocamera ed eliminato. L'ultima anomalia non stava sul fondo del fiordo come era prevedibile. Si trovava in una piccola cala circondata da dirupi ripidissimi, quasi perpendicolari. Soltanto un'estremità sporgeva nell'acqua limpida: il resto era sepolto sotto un muro di ghiaccio. Pitt fu il primo a comprenderne il significato. Era seduto davanti al registratore. Intorno a lui c'erano Giordino, il comandante Knight e gli archeologi. Parlò nella trasmittente. «Girate il pesce. Uno-cinque-zero gradi.» Il Polar Explorer era ancora fermo nel fiordo ghiacciato. Fuori, sul pack, una squadra comandata da Cork Simon aveva trivellato il ghiaccio e calato nell'acqua l'apparecchio ricettore. Facevano girare lentamente il «pesce», come lo chiamavano, per esaminare una griglia di trecentosessanta gradi. Dopo aver esplorato un'area, srotolavano ancora di più il cavo e provavano in un altro punto più lontano dalla nave. Simon diede il ricevuto all'ordine di Pitt e girò il cavo fino a che le sonde sonar del «pesce» puntarono a centocinquanta gradi. «Come va?» chiese. «Sei esattamente sul bersaglio», rispose Pitt dalla nave. Visto da un angolo più favorevole, il bersaglio divenne più nitido. Pitt lo segnò con un pennarello nero. «Credo che abbiamo trovato qualcosa.»
Gronquist si avvicinò e annuì. «Non si vede abbastanza per identificarlo. Che ne pensa?» «È indistinto», rispose Pitt. «Dobbiamo ricorrere all'immaginazione perché l'oggetto è coperto in gran parte dal ghiaccio caduto dai dirupi. Ma la parte che sporge sott'acqua fa pensare a una nave di legno. È una forma nettamente angolata che termina in quella che potrebbe essere una poppa alta e curva.» «Sì», disse Lily, animandosi. «Alta ed elegante. Tipica di un mercantile del quarto secolo.» «Non si lasci trasportare troppo dall'entusiasmo», l'ammonì Knight. «Potrebbe anche essere un vecchio peschereccio a vela.» «È possibile.» Giordino aveva un'aria pensierosa. «Ma se la memoria non mi tradisce, i danesi, gli islandesi e i norvegesi che hanno pescato per secoli in queste acque usavano navi più strette e con le due estremità molto simili.» «Hai ragione», ammise Pitt. «La prua e la poppa affilate risalgono alla tradizione vichinga. Quella che vediamo potrebbe avere anch'essa le due estremità simili, ma molto più ampie.» «Non riesco ad avere un'immagine chiara della sezione dello scafo coperta dal ghiaccio», disse Gronquist. «Ma potremmo calare una telecamera dietro la poppa nell'acqua libera, per vedere se riusciamo a identificarla meglio.» Giordino gli lanciò un'occhiata dubbiosa. «Una telecamera potrebbe confermare che è la sezione poppiera di una nave naufragata, ma poco di più.» «A bordo abbiamo una schiera di uomini robusti», commentò Lily. «Potremmo scavare nel ghiaccio e andare a vedere con i nostri occhi.» Gronquist prese un binocolo, uscì dalla sala elettronica e salì in plancia. Dopo mezzo minuto ritornò. «Secondo me, lo strato di ghiaccio che copre il relitto ha uno spessore di almeno tre metri. Ci vorranno come minimo due giorni per aprire un passaggio.» «Purtroppo dovrete scavare senza la nostra collaborazione», disse Knight. «Ho l'ordine di partire prima delle diciotto. Non resta molto tempo per uno scavo.» Gronquist fece una smorfia di stupore. «Mancano cinque ore appena.» Knight allargò le braccia, rassegnato. «Mi dispiace. Non spetta a me decidere.» Pitt studiò la chiazza nera sulla carta millimetrata. Poi si rivolse a
Knight. «Se potessi dimostrare senza ombra di dubbio che si tratta di una nave romana del quarto secolo, riusciresti a convincere il Comando del Nord Atlantico a tenerci qui ancora per un giorno o due?» Gli occhi di Knight brillarono d'astuzia. «Che cosa hai intenzione di combinare?» «Ci stai?» chiese Pitt. «Sì», rispose con fermezza Knight. «Ma solo se dimostrerai senz'ombra di dubbio che si tratta di un relitto di mille anni fa.» «Allora siamo d'accordo.» «Come pensi di riuscirci?» «È semplice», rispose Pitt, ormai certo di aver preso Knight all'amo. «Mi immergerò sotto il ghiaccio ed entrerò nello scafo.» Cork Simon e i suoi lavorarono in fretta e aprirono un foro d'accesso con le seghe a catena nel ghiaccio spesso un metro. Estrassero una quantità di cubi di ghiaccio fino a quando arrivarono all'ultimo strato; lo sfondarono con un maglio montato su un lungo tubo, rimuovendo poi i frammenti acuminati con i grappini, in modo che Pitt potesse immergersi senza pericolo. Quando ebbe constatato che il passaggio era pronto, Simon percorse pochi passi ed entrò in un piccolo riparo coperto da un telone. L'interno era riscaldato, e affollato di uomini e di materiale per le immersioni. Un compressore stava accanto all'impianto di riscaldamento e funzionava ansimando. Lily e gli altri archeologi erano seduti a un tavolo pieghevole in un angolo del riparo: facevano un disegno dppo l'altro e li discutevano con Pitt che stava indossando la muta. «Noi siamo pronti», annunciò Simon. «Ancora cinque minuti», rispose Giordino mentre controllava le valvole e il regolatore della maschera Mark I in dotazione alla Marina. Pitt aveva indossato una muta impermeabile speciale sopra il sottotuta di nylon pesante con i pesi a sganciamento rapido mentre cercava di imparare in tutta fretta i dati relativi alla costruzione delle navi antiche. «Nei primi vascelli mercantili i costruttori preferivano il cedro e il cipresso e spesso utilizzavano il pino per il fasciame», gli stava spiegando Gronquist. «Per la chiglia usavano quasi sempre la quercia.» «Non sono in grado di distinguere un legno dall'altro», obiettò Pitt. «Allora studi lo scafo. Le tavole venivano unite per mezzo di tenoni e
mortase. In molte navi, la superficie subacquea era rivestita di lastre di piombo. Le parti metalliche potrebbero essere di ferro o di rame.» «E il timone?» chiese Pitt. «Devo controllare se ha qualcosa di particolare nel disegno e nel modo in cui è fissato?» «Non troverà un timone centrato a poppa», spiegò Sam Hoskins. «Quel tipo fu adottato otto secoli più tardi. Tutti gli antichi mercantili del Mediterraneo usavano come timoni due speciali remi gemelli che si estendevano da poppa.» «Vuoi una bombola d'aria di riserva?» intervenne Giordino. Pitt scosse la testa. «Non è necessaria per un'immersione a poca profondità, purché io sia legato a un cavo di sicurezza.» Giordino prese la maschera e aiutò Pitt a indossarla. Controllò che si adattasse esattamente al viso, regolò la posizione e strinse i cinghioli. La valvola della bombola venne aperta e quando Pitt segnalò che l'aria gli arrivava regolarmente, Giordino fissò alla maschera il cavo per le comunicazioni. Mentre uno degli uomini della Marina srotolava e raddrizzava il tubo dell'aria e il cavo per le comunicazioni, Giordino legò una cima di sicurezza intorno alla vita di Pitt; poi eseguì i soliti controlli che precedevano ogni immersione e mise la cuffia con microfono. «Mi senti bene?» chiese. «Chiaro ma debole», rispose Pitt. «Alza un po' il volume.» «Così va meglio?» «Molto meglio.» «Tutto bene?» «Benone, finché respiro aria riscaldata.» «Tutto a posto?» Pitt rispose facendo il segnale di okay con pollice e indice. Poi si soffermò per agganciarsi alla cintura una torcia subacquea. Lily l'abbracciò e lo scrutò attraverso il vetro della maschera. «Buona caccia, e sii prudente.» Pitt le strizzò l'occhio. Si voltò e lasciò il riparo. Uscì nell'aria gelida, seguito da due uomini della Marina che badavano al tubo e ai cavi. Giordino si mosse per andare con loro, ma Lily gli strinse il braccio. «Potremo sentirlo?» chiese ansiosamente. «Sì. L'ho collegato con un altoparlante. Lei può restare qui al calduccio con il dottor Gronquist e ascoltare. Se ha un messaggio per Pitt, basterà
che lo dica a me e io glielo passerò.» A passi rigidi, Pitt arrivò all'orlo del foro nel ghiaccio e sedette. La temperatura dell'aria era bassissima. Era una giornata di novembre pungente e cristallina a causa del vento che soffiava a sedici chilometri orari. Mentre calzava le pinne, Pitt alzò lo sguardo verso i fianchi ripidi delle montagne che torreggiavano sopra la cala. Le tonnellate di neve e di ghiaccio, aggrappate alle pareti perpendicolari, sembravano sul punto di precipitare da un momento all'altro. Si girò verso la parte alta del fiordo, dove i bracci del ghiacciaio si attorcevano scendendo verso il mare. Poi guardò in basso. L'acqua all'interno del foro sembrava di giada, minacciosa e gelida. Il comandante Knight si avvicinò e gli posò la mano sulla spalla. Non riuscì a vedere altro che un paio di intensi occhi verdi attraverso il vetro della maschera. Parlò alzando la voce perché Pitt potesse sentirlo. «Restano un'ora e ventitré minuti. Ho pensato che fosse il caso di ricordartelo.» Pitt gli lanciò un'occhiata tagliente ma non rispose. Alzò i pollici per segnalare che andava tutto bene e scivolò attraverso il foro nell'acqua freddissima. Scese lentamente tra le pareti candide. Gli sembrava di calarsi in un pozzo. Quando ne uscì, fu abbagliato dal caleidoscopio dei colori creati dai raggi solari attraverso il ghiaccio. Lo strato inferiore era irregolare e accidentato, costellato da minuscole stalattiti formate dall'acqua pura portata nel fiordo dai ghiacciai. Sott'acqua, la visibilità orizzontale era di un'ottantina di metri. Guardò in basso e vide una piccola colonia di alghe aggrappate alle rocce che tappezzavano il fondo. Migliaia di minuscoli crostacei simili a gamberetti e sospesi nell'acqua immota passarono turbinando davanti ai suoi occhi. Una grossa foca barbata di tre metri lo sbirciò incuriosita da una certa distanza. I ciuffi di setole spuntavano irti dal muso. Pitt agitò le braccia e la foca gli lanciò uno sguardo diffidente e poi si allontanò. Pitt toccò il fondo e si fermò per compensare gli orecchi. Era pericoloso immergersi con un giubbotto salvagente sotto il ghiaccio, e quindi Pitt non lo portava. Si sentiva un po' troppo pesante, e perciò sganciò dalla cintura un peso di piombo. L'aria che fluiva dal compressore attraverso un filtro e un accumulatore e gli arrivava nella maschera era tiepida ma pura. Alzò gli occhi e si orientò con il chiarore del foro nel ghiaccio. Controllò la bussola. Non aveva portato un profondimetro, dato che doveva lavorare
nell'acqua alta non più di quattro metri. «Parla.» La voce di Al Giordino gli giunse attraverso gli auricolari della maschera. «Sono arrivato sul fondo», rispose Pitt. «Tutti i sistemi funzionano.» Poi si voltò a scrutare il vuoto verde. «Il relitto è dieci metri a nord. Ora mi avvicino. Mollate un po' i cavi.» Pitt si mosse lentamente a nuoto per evitare che i cavi s'impigliassero nelle sporgenze di roccia. Il freddo intenso dell'acqua incominciava a filtrare sino al suo corpo. Era una fortuna che Giordino avesse avuto l'ispirazione di pompare aria riscaldata. «Riferisci a Lily e a Doc Gronquist che vedo uno scafo di legno senza timone a poppa, ma anche senza tracce di remi timonieri.» «Ricevuto», disse Giordino. Pitt estrasse il coltello dal fodero legato alla gamba e scalfì la parte inferiore dello scafo, presso la chiglia. Il graffio rivelò un metallo tenero. «Mi sembra promettente», rispose Giordino. «Doc Gronquist vuol sapere se c'è qualcosa scolpito sul dritto di poppa.» «Un momento.» Pitt rimosse meticolosamente le alghe su un tratto del dritto di poppa, vicino al punto dove spariva nel ghiaccio, e attese con pazienza che i minuscoli frammenti vegetali ricadessero sul fondo. «C'è una targa di legno duro fissata al dritto di poppa. Riesco a distinguere una scritta e una faccia.» «Una faccia?» «Sì, con i capelli ricci e la barba.» «Che cosa c'è scritto?» «Mi dispiace, non conosco il greco.» «Non è latino?» chiese Giordino in tono scettico. Le lettere in rilievo erano indistinte nella luce tremula che filtrava attraverso il ghiaccio. Pitt si accostò fin quasi a toccare la targa con la maschera. «È greco», confermò. «Sicuro?» «Una volta uscivo con una ragazza della confraternita universitaria Alpha Delta Pi.» «Aspetta. Hai fatto venire le convulsioni ai nostri scavaossa.» Dopo un paio di minuti la voce di Giordino si fece sentire di nuovo. «Secondo Gronquist, tu hai le allucinazioni, ma Mike Graham dice che ha
studiato il greco classico al college e vuol sapere se sei in grado di descrivergli le lettere.» «La prima somiglia a una S tracciata come un fulmine. Poi c'è una A con la gambetta destra mancante. Poi una P seguita da un'altra A zoppa e qualcosa che sembra una L capovolta o una forca. E c'è una I. L'ultima lettera è un'altra S tracciata a fulmine. Questo è il massimo che posso dirvi.» Graham, che ascoltava attraverso l'altoparlante nel riparo, trascrisse le lettere dettate da Pitt su un foglio di quaderno fino a che ottenne
Fissò a lungo quella che sembrava una parola. C'era qualcosa che non andava. Si sforzò di frugare nella memoria, e finalmente comprese. Le lettere appartenevano sì alla lingua greca classica ma orientale. La sua espressione pensierosa lasciò il posto all'incredulità. Scrisse furiosamente una parola, strappò il foglio e lo guardò. In maiuscole moderne, era SARAPIS Lily lo fissò con aria interrogativa. «Ha un significato?» Gronquist disse: «Mi pare che sia il nome di un dio greco-egizio». «Era una divinità molto popolare nell'area mediterranea», confermò Hoskins. «Di solito la grafia moderna, però, è 'Serapis'.» «Dunque la nostra nave è la Serapis», mormorò Lily. Knight borbottò: «Abbiamo un relitto che potrebbe essere romano, greco o egiziano. Che cos'è, per la precisione?» «Non lo sappiamo», rispose Gronquist. «Per risolvere l'enigma abbiamo bisogno della consulenza di uno specialista di archeologia marina che conosca bene le antiche navi del Mediterraneo.» Al di sotto del pack, Pitt si mosse sul lato destro dello scafo. Si fermò nel punto dove il fasciame spariva nel ghiaccio. Nuotò intorno al dritto di poppa, verso sinistra. Il fasciame appariva distorto e piegato verso l'esterno. In breve, pinneggiando, riuscì a scorgere la sezione che era stritolata dal lastrone compatto. Si sollevò fino all'apertura e infilò la testa all'interno. Era come guardare in uno sgabuzzino buio. Scorse soltanto sagome vaghe, irriconoscibili. Allungò una mano all'interno e toccò qualcosa di duro e rotondo. Valutò allo-
ra la distanza fra le assi spezzate e capì che il varco era troppo stretto per infilarvi le spalle. Si afferrò all'asse superiore, puntellò un piede contro lo scafo e tirò. Il legno era ben conservato; si piegò leggermente ma non cedette. Pitt puntò entrambi i piedi e strattonò con tutte le sue forze: l'asse continuò a resistere. Tuttavia, proprio quando Pitt stava per rinunciare, i chiodi si staccarono d'un colpo dalla costolatura interna e il legno zuppo d'acqua gli rimase fra le mani. L'uomo fu scagliato all'indietro, contro una grossa roccia. Qualunque archeologo marino avrebbe avuto un arresto cardiaco di fronte a quella brutalità irriverente commessa ai danni di un manufatto antico, ma Pitt non aveva scrupoli accademici. Aveva freddo, sempre più freddo, e la spalla gli doleva per l'urto contro la roccia. Sapeva che non poteva resistere sott'acqua ancora per molto tempo. «Ho trovato una falla nello scafo», disse, ansimando come un maratoneta. «Mandatemi giù una telecamera.» «Ricevuto», rispose la voce impassibile di Giordino. «Torna indietro, te la passerò.» Pitt tornò al foro dal quale si era calato e seguì fino alla superficie la scia delle sue bollicine. Giordino era sdraiato bocconi sul ghiaccio. Si tese e gli passò una telecamera subacquea. «Gira qualche metro e poi esci», disse Giordino. «Hai già fatto abbastanza.» «E il comandante Knight?» «Aspetta, te lo passo.» La voce di Knight arrivò attraverso gli otofoni. «Dirk?» «Parla pure, Byron.» «Sei sicuro al cento per cento che abbiamo trovato una nave millenaria in ottime condizioni?» «Tutti gli indizi concordano.» «Avrò bisogno di qualcosa di tangibile per convincere il Comando del Nord Atlantico a tenerci qui per altre quarantotto ore.» «Resta in attesa e chiuderò il messaggio con un bacio.» «Mi basta un'anticaglia identificabile», ribatté Knight. Pitt agitò una mano e sparì. Non penetrò subito nel relitto. Non seppe mai con certezza per quanto tempo rimase immobile davanti all'apertura triangolare. Probabilmente per un minuto all'incirca, ma non più di due. Non sapeva perché esitava tanto. Forse attendeva che una mano scheletrita lo invitasse con un cenno, forse
temeva di non trovare altro che i resti di un peschereccio islandese vecchio di ottant'anni, o forse era riluttante a penetrare in quella che poteva essere una tomba. Finalmente abbassò la testa, strinse le spalle e scalciò adagio con le pinne. L'ignoto tenebroso si spalancò davanti a lui. 17. Quando Pitt fu entrato, si fermò e restò immobile. Si posò lentamente sulle ginocchia e ascoltò il battito del cuore e il suono del respiro che usciva dalla valvola di scarico mentre attendeva che i suoi occhi si abituassero alla semioscurità fluida. Non sapeva più che cosa avesse previsto di trovare; ma vide una serie di giare, brocche, coppe e piatti di terracotta ammonticchiati in ordine sugli scaffali fissati alle paratie. C'era anche la grossa pentola di rame che aveva toccato quando aveva teso la mano attraverso il varco: era coperta da una spessa patina verde. In un primo momento credette di aver posato le ginocchia sulla superficie dura del ponte. Tastò con le mani e scoprì d'essere su di un focolare a piastrelle. Alzò gli occhi e vide le bollicine che salivano e si disperdevano ondeggiando. Si risollevò ed emerse nell'aria limpida: era uscito con la testa e le spalle al di sopra del livello dell'acqua del fiordo. «Sono nella cambusa della nave», comunicò agli ascoltatori in attesa sul pack. «La metà superiore è asciutta. La telecamera è in funzione.» «Ricevuto», rispose Giordino. Pitt sfruttò i minuti successivi per filmare l'interno della cambusa al di sopra e al di sotto del livello dell'acqua, mentre continuava a comunicare l'inventario. Trovò uno stipo aperto pieno di eleganti recipienti di vetro. Ne sollevò uno e guardò all'interno. Conteneva una certa quantità di monete. Ne estrasse una, la liberò dalle alghe con le dita guantate mentre continuava ad azionare la telecamera con l'altra mano. La moneta rivelò un colore dorato. Si sentì invadere da un senso di reverenza e di apprensione. Si guardò intorno come se si aspettasse che un equipaggio fantasma o almeno un'apparizione scheletrica facesse irruzione per accusarlo di furto. Ma non c'era nessuno. Era solo, e toccava oggetti appartenuti a uomini che avevano camminato sullo stesso ponte, avevano preparato il cibo e l'avevano con-
sumato lì dentro... uomini che erano morti da sedici secoli. Incominciò a domandarsi quale era stata la loro sorte. Com'erano giunti nel gelido nord se non esistevano tracce di quel viaggio storico? Dovevano essere morti di freddo, ma dov'erano finiti i corpi? «Ti conviene risalire», disse Giordino. «Sei in acqua da quasi mezz'ora.» «Ancora un momento», rispose Pitt. Mezz'ora, pensò. Gli sembravano cinque minuti. Il tempo gli sfuggiva e il freddo cominciava a influire sui suoi pensieri. Lasciò ricadere la moneta nel recipiente di vetro e proseguì l'ispezione. Il soffitto della cambusa saliva mezzo metro al di sopra del ponte principale, e le piccole finestre ad arco che normalmente permettevano la ventilazione erano sventrate nella parte superiore della paratia di prua. Pitt ne aprì parzialmente una e si trovò di fronte una compatta muraglia di ghiaccio. Eseguì una misurazione approssimativa e si accorse che il livello dell'acqua era più alto verso poppa. Questo, pensò, doveva indicare che la prua e la sezione centrale dello scafo erano posate sul pendio della riva coperta di ghiaccio. «Trovato qualcos'altro?» chiese Giordino che bruciava per la curiosità. «Per esempio?» «Ci sono resti dell'equipaggio?» «Mi dispiace, ma qui non vedo ossa.» Pitt si immerse e scrutò il ponte per assicurarsene. Non c'era nulla. «Probabilmente sono stati presi dal panico e hanno abbandonato la nave», suggerì Giordino. «Niente, qui, fa pensare al panico», ribatté Pitt. «La cambusa è così in ordine che potrebbe superare un'ispezione generale.» «Puoi entrare nel resto della nave?» «C'è un boccaporto nella paratia di prua. Vado a vedere che cosa c'è dall'altra parte.» Pitt si chinò e s'infilò nell'apertura bassa e stretta, trascinandosi dietro cautamente la cima di sicurezza e il tubo dell'aria. Il buio era opprimente. Sganciò la torcia elettrica dalla cintura e fece scorrere il raggio nel piccolo compartimento. «Ora sono in una specie di magazzino. Qui l'acqua è più bassa, mi arriva poco al di sopra delle ginocchia. Vedo vari attrezzi, sì, gli utensili del carpentiere di bordo, una grossa stadera...» «Una stadera?» l'interruppe Giordino.
«Una bilancia a un piatto, appesa a un gancio.» «Capito.» «C'è anche un assortimento di scuri, pesi di piombo e reti da pesca. Aspetta, filmo tutto.» Una stretta scala di legno saliva attraverso un'apertura nel ponte principale. Pitt fece qualche ripresa, poi controllò e, con sua meraviglia, scoprì che la scala era ancora abbastanza solida per reggere il suo peso. Salì lentamente e si affacciò fra i resti della cabina del ponte. C'era poco da vedere, a parte alcuni detriti sepolti. La cabina era stata quasi completamente stritolata dall'accumularsi del ghiaccio. Si lasciò cadere sul ponte e avanzò verso un altro portello che si apriva nella stiva. Girò il fascio luminoso da dritta a sinistra e subito si sentì mancare. Non era soltanto una stiva. Era una cripta. Il freddo estremo aveva trasformato la stiva asciutta in una camera criogenica. Otto corpi in stato quasi perfetto di conservazione erano raggruppati intorno a una piccola stufa di ferro, verso prua. Erano tutti coperti da un sudario di ghiaccio, e si aveva l'impressione che ognuno fosse stato meticolosamente avvolto in un grosso foglio di plastica trasparente. Le espressioni dei volti erano pacifiche, gli occhi spalancati. Come manichini nella vetrina di un negozio, gli uomini erano atteggiati in pose diverse, quasi studiate. Quattro erano seduti a un tavolo e mangiavano, con i piatti in mano, le coppe sollevate verso la bocca. Due erano sdraiati contro lo scafo e sembrava stessero leggendo i rotoli che tenevano fra le dita. Uno era chino su una cassapanca di legno, e l'ultimo era seduto nell'atto di scrivere. Pitt ebbe la sensazione di essere entrato in una macchina del tempo. Non poteva credere di avere sotto gli occhi uomini che erano stati cittadini della Roma imperiale, antichi marinai che avevano navigato in porti sepolti sotto le macerie di civiltà più tarde, antenati vissuti sessanta generazioni prima. Non erano preparati al freddo dell'Artico. Nessuno portava indumenti pesanti; erano infagottati in ruvide coperte. Sembravano piccoli di statura in confronto a Pitt; dovevano essere più bassi di tutta la testa. Un ometto era quasi calvo, con pochi capelli grigi e lanosi. Un altro era fulvo e aveva una gran barba. Quasi tutti avevano la faccia rasata. Per quel che poteva capire attraverso lo strato di ghiaccio, il più giovane era sui diciotto anni, il
più vecchio era prossimo alla quarantina. Il marinaio che era morto mentre scriveva aveva una calotta di cuoio sulla testa, e lunghe strisce di lana avvolte intorno alle mani e ai piedi. Stava chino su un mucchietto di tavolette incerate, posate sulla superficie sfregiata di un tavolino pieghevole. Nella destra stringeva ancora uno stilo. I membri dell'equipaggio non avevano l'aria di essere morti di fame o di freddo. La fine era giunta all'improvviso, inaspettata. Pitt ne intuiva la causa. Tutti i boccaporti erano stati chiusi ermeticamente per tener fuori il freddo, e l'unica apertura per la ventilazione era stata ostruita dal ghiaccio. Le pentole con l'ultimo pasto erano ancora sul piccolo fornello a olio. Il caldo e il fumo non avevano avuto la possibilità di fuoriuscire. Nella stiva s'era accumulato il letale monossido di carbonio. Quegli uomini avevano perso i sensi senza accorgersene, e ognuno era morto dove si trovava. Come se temesse di svegliare il marinaio defunto da tanto tempo, Pitt scrostò delicatamente il ghiaccio dalle tavolette incerate fino a che le ebbe liberate. Poi aprì la tuta impermeabile e le ripose all'interno. Non si accorgeva più del freddo tormentoso, del sudore nervoso che gli sgorgava dai pori, dei brividi che lo scuotevano. Era così assorto in quella scena che non sentiva la voce di Giordino chiedere con insistenza una risposta. «Mi senti ancora?» chiese Giordino. «Rispondi, accidenti!» Pitt mormorò poche parole inintelligibili. «Ripeti. Sei in difficoltà?» Il tono preoccupato dell'amico strappò finalmente Pitt dalla trance. «Informa il comandante Knight che il suo timore ha avuto conferma», rispose Pitt. «La nave è veramente antica. E a proposito», continuò con voce monotona, «puoi anche dirgli che, se ha bisogno di testimoni, posso presentargli l'equipaggio.» 18. «Ti vogliono al telefono», chiamò la moglie di Julius Schiller attraverso la finestra della cucina. Schiller alzò gli occhi dal barbecue nel giardino alberato di Chevy Chase. «Ha detto chi è?» «No, ma mi sembra Dale Nichols.» Schiller sospirò e posò le pinze. «Vieni a tener d'occhio le bistecche per-
ché non brucino.» La signora Schiller diede un bacio frettoloso al marito quando s'incrociarono sotto il portico. Schiller entrò nello studio, chiuse la porta e prese il ricevitore. «Sì?» «Julius, sono Dale.» «È successo qualcosa?» «Mi dispiace disturbarti di domenica», disse Nichols. «Ho interrotto qualcosa d'importante?» «Solo un barbecue in famiglia.» «Sei davvero irriducibile. Fuori ci saranno sì e no cinque gradi.» «È sempre meglio che affumicare il garage.» «Bistecca e uova strapazzate sono il mio piatto preferito.» Schiller capì l'allusione alle uova e regolò il telefono su una linea di sicurezza antintercettazioni. «Allora, Dale, che cosa è successo?» «Hala Kamil. Lo scambio è andato bene.» «La sua sosia è al Walter Reed Hospital?» chiese Schiller. «Sotto strette misure di sicurezza, per rendere la commedia più credibile.» «Chi la impersona?» «L'attrice Teri Rooney. Ha fatto un ottimo lavoro con il trucco. Non riusciresti a distinguerla dal vero segretario generale se non ti trovassi a naso a naso con lei. Poi abbiamo organizzato una conferenza stampa dei medici dell'ospedale, e hanno parlato di condizioni piuttosto gravi.» «E la vera Kamil?» «È rimasta a bordo dell'aereo militare che l'ha portata dalla Groenlandia. Dopo il rifornimento, è proseguito fino al Buckley presso Denver; e da lì, la Kamil è stata trasportata con l'elicottero a Breckenridge.» «La località sciistica nel Colorado?» «Sì, ora sta riposando tranquilla nello chalet del senatore Pitt, appena fuori città. Non ha niente di serio: solo qualche livido e un leggero principio di congelamento.» «Come ha preso questa convalescenza forzata?» «Finora non ha detto niente. Era sotto l'effetto dei sedativi quando l'hanno portata via dall'ospedale di Thule. Ma starà al gioco quando saprà che lo scopo della nostra operazione è condurla sana e salva al palazzo dell'ONU per tenere il discorso dell'Assemblea Generale. Una fonte attendibile e molto vicina a lei riferisce che intende pronunciare un rovente atto d'accu-
sa contro Yazid, smascherarlo come ciarlatano e fornire le prove delle sue attività terroristiche clandestine.» «Anch'io ho letto un rapporto della stessa fonte», ammise Schiller. «Mancano cinque giorni alla seduta inaugurale», disse Nichols. «Yazid non si fermerà di fronte ad alcunché per cercare di eliminarla.» «Sarà necessario tenerla in ghiaccio fino a quando salirà sul podio», disse Schiller. «È al sicuro», dichiarò Nichols. «E tu, hai saputo nulla dal governo egiziano?» «Il presidente Hasan ci sta dando la più completa collaborazione per quanto riguarda Hala Kamil. Cerca di affrettare il lancio delle nuove riforme economiche e di sostituire i pezzi grossi militari con uomini di sua fiducia. Hala Kamil è la sola cosa che impedisce a Yazid di tentare di impadronirsi del governo egiziano. Se i suoi sicari la fermassero prima che il discorso venisse diffuso via satellite in tutto il mondo, ci sarebbe veramente il pericolo che, entro la fine del mese, l'Egitto diventasse un secondo Iran.» «Stai tranquillo. Yazid non si accorgerà del trucco prima che sia troppo tardi», disse Nichols in tono fiducioso. «Immagino che Hala Kamil sarà ben protetta.» «Sì, da una squadra di agenti del servizio segreto. Il presidente segue di persona l'operazione.» La moglie di Schiller bussò alla porta e annunciò: «Le bistecche sono pronte, Julius». «Vengo subito», rispose Schiller. Nichols aveva sentito. «Per il momento è tutto. Torna pure alle tue bistecche.» «Mi sentirei più tranquillo se ci desse una mano anche l'FBI.» «Il servizio di sicurezza della Casa Bianca ha considerato ogni possibile evenienza. Il presidente è convinto che sia meglio tenere l'intera faccenda entro una cerchia ristretta.» Schiller tacque per un momento. Poi disse: «Non combinare pasticci, Dale». «Non preoccuparti. Ti prometto che Hala Kamil arriverà alla sede dell'ONU a New York in condizioni perfette e piena di fuoco.» «Me lo auguro.» «Il sole non tramonta forse a occidente?» Schiller posò il telefono. Era assillato da un senso d'inquietudine. Spera-
va con tutto il suo cuore che alla Casa Bianca sapessero cosa facevano. Dall'altra parte della strada, tre uomini erano a bordo d'un furgoncino Ford con la scritta «Idraulico Capitol - Servizio 24 ore su 24». Lo spazio limitato era ingombro di apparecchi per lo spionaggio elettronico. La noia aveva incominciato ad assalirli cinque ore prima. La sorveglianza era forse il compito più tedioso, secondo soltanto al guardare i binari mentre arrugginiscono. Uno dei tre fumava, gli altri due no, e non sopportavano l'aria viziata. Erano tutti infreddoliti. Ed erano ex agenti del controspionaggio che avevano dato le dimissioni per mettersi in proprio. Moltissimi agenti dimissionari o in pensione accettano ogni tanto un incarico per conto del governo, ma quei tre erano fra i pochi che rispettavano il denaro più del patriottismo, e vendevano al miglior offerente tutte le informazioni riservate che riuscivano a scoprire. Uno dei tre, un tipo biondo che somigliava a uno spaventapasseri, scrutò con il binocolo attraverso una finestra azzurrata della casa di Schiller. «Sta uscendo dallo studio.» Il grassone curvo sul registratore e con la cuffia in testa annuì. «Sì, ha smesso di parlare.» Il terzo, che aveva due enormi baffi imbrillantinati, azionò una parabola laser, un microfono sensibilissimo che riceveva i suoni prodotti all'interno di una stanza per mezzo delle vibrazioni dei vetri delle finestre e li potenziava passandoli attraverso le fibre ottiche in un canale audio. «C'è qualcosa d'interessante?» chiese il biondo. Il grassone si tolse la cuffia e si asciugò la fronte sudata. «Credo che la mia parte in questa faccenda basterà a pagarmi la barca da pesca.» «Mi piace avere merce da vendere.» «E queste informazioni valgono parecchio per l'acquirente giusto.» «A chi stai pensando?» chiese l'uomo dai baffoni. Il grassone ghignò come un coyote famelico. «A un imbecille ricco e altolocato che vuole fare bella figura con Akhmad Yazid.» 19. Il presidente si alzò dalla scrivania e accennò un saluto quando Martin Brogan, il direttore della CIA, entrò nella Sala Ovale per il briefing mattutino. La formalità della stretta di mano fra i due s'era persa per la strada poco
dopo l'inizio di quegli incontri quotidiani. All'esile, raffinato Brogan non dispiaceva affatto. Aveva mani affusolate da violinista mentre il presidente, che era molto alto e pesava novanta chili, aveva due manacce enormi e una stretta che stritolava le ossa. Brogan attese che il presidente si fosse seduto prima di prendere posto su una poltrona di cuoio. Come se fosse un rito, il presidente versò una tazza di caffè, aggiunse un cucchiaino di zucchero e la porse a Brogan. Poi il presidente si passò la mano sui capelli argentei e fissò il visitatore con i limpidi occhi grigi. «Dunque, quali segreti ha il mondo questa mattina?» Brogan scrollò le spalle e posò sulla scrivania un dossier rilegato in pelle. «Alle nove, fuso orario di Mosca, il presidente sovietico Georgij Antonov si è sbattuto l'amante sul sedile posteriore della berlina che lo portava al Cremlino.» «Invidio il suo metodo per iniziare la giornata», disse il presidente con un gran sorriso. «E ha fatto due chiamate con il radiotelefono. Una a Sergeij Kornilov, capo del programma spaziale sovietico, l'altra al figlio che lavora nell'ufficio commerciale dell'ambasciata a Città di Messico. Troverà la trascrizione del colloquio alle pagine quattro e cinque.» Il presidente aprì la cartelletta, inforcò gli occhiali da vista e diede una scorsa alla trascrizione. Come sempre, provava un senso di stupore per l'efficienza dei servizi segreti. «E com'è andato il resto della giornata di Georgij?» «Ha dedicato quasi tutto il tempo agli affari interni. Immagino che lei non vorrebbe essere nei suoi panni per nulla al mondo. Le prospettive dell'economia sovietica peggiorano di giorno in giorno. Le riforme nell'agricoltura e nell'industria sono finite in niente. La vecchia guardia del Politburo sta cercando di tagliargli l'erba sotto i piedi. I militari sono insoddisfatti delle sue proposte per gli armamenti e hanno espresso pubblicamente la loro opposizione. I cittadini sovietici si fanno sentire sempre più spesso, via via che le code davanti ai negozi si allungano. Con qualche spintarella da parte dei nostri operatori, incominciano ad apparire in tutte le città scritte che attaccano il governo. La crescita economica complessiva si è ridotta al due per cento. C'è la forte possibilità che Antonov sia cacciato dal potere prima della prossima estate.» «E se il nostro deficit non si riduce, può darsi che finisca anch'io nella stessa barca», concluse il presidente con un moto d'irritazione.
Brogan non fece commenti. Non era compito suo. «Quali sono le ultime notizie dall'Egitto?» chiese poi il presidente. «Anche il presidente Hasan è in una posizione molto difficile. L'Aviazione gli è rimasta fedele, ma i generali dell'Esercito stanno per schierarsi con Yazid. Il ministro della Difesa Abu Hamid ha avuto un incontro segreto con Yazid a Port Said. Secondo i nostri informatori, Hamid non si schiererà dalla sua parte se non gli verrà assicurata una forte posizione politica. Non intende subire le imposizioni dei mullah fanatici di Yazid.» «Crede che Yazid cederà?» Brogan scosse la testa. «No, non ha alcuna intenzione di spartire il potere. Hamid ha sottovalutato la sua ferocia. Abbiamo già scoperto una cospirazione per piazzate una bomba a bordo dell'aereo privato di Hamid.» «Ha già avvertito Hamid?» «Ho bisogno della sua autorizzazione.» «Concessa», disse il presidente. «Hamid è furbo. Potrebbe pensare che sia un nostro trucco per impedire che si schieri dalla parte di Yazid.» «Possiamo fare i nomi dei sicari di Yazid. Se Hamid vuole le prove, può approfondire la cosa.» Il presidente si appoggiò alla spalliera e fissò il soffitto per un momento. «Possiamo collegare Yazid all'incidente dell'aereo dell'ONU su cui viaggiava Hala Kamil?» «Abbiamo prove indiziarie, niente di più», ammise Brogan. «Non disporremo di conclusioni concrete fino a che gli inquirenti non avranno terminato le indagini e presentato il rapporto. Per il momento, il disastro è un vero enigma. Sono stati accertati pochissimi fatti. Sappiamo che il vero pilota è stato assassinato. Il cadavere è stato trovato nel portabagagli di una macchina parcheggiata all'aeroporto di Heathrow.» «Sembrerebbe un delitto di mafia.» «Sì, quasi; ma il pilota ha fatto un lavoro magistrale, si è camuffato così bene da passare per il pilota. Dopo il decollo, ha assassinato il primo e il secondo ufficiale iniettando loro un agente tossico nervino chiamato sarin, ha deviato dalla rotta e ha abbandonato l'aereo mentre sorvolava l'Islanda.» «Deve aver lavorato con una squadra di professionisti molto preparati», commentò il presidente. «Abbiamo motivo di credere che abbia agito da solo», disse Brogan. «Da solo?» Il presidente lo guardò con aria incredula. «Deve essere un individuo molto efficiente.» «La sottigliezza e la complessità sono caratteristiche tipiche di un arabo
che si chiama Suleiman Aziz Ammar.» «Un terrorista?» «Non certo nel senso più rozzo. Ammar è uno dei sicari più abili che esistano sulla piazza. Vorrei che fosse dalla nostra parte.» «Non si faccia sentire dai progressisti del Congresso», commentò ironico il presidente. «O dai media», soggiunse Brogan. «Avete un dossier su Ammar?» «Un dossier lungo un metro. È un maestro dei travestimenti. È un musulmano praticante che s'interessa poco di politica, un mercenario senza legami noti con i fanatici islamici. Chiede cifre enormi e le ottiene. È un abile uomo d'affari, e la sua ricchezza è stimata oltre i sessanta milioni di dollari. Raramente segue i metodi tradizionali. Le sue azioni sono pianificate ed eseguite sempre in modo molto ingegnoso, e studiate in modo da sembrare incidenti. È impossibile attribuirgliene qualcuna con certezza. Non si preoccupa delle vittime innocenti pur di togliere di mezzo il bersaglio designato. Sospettiamo che sia responsabile di più di cento morti negli ultimi dieci anni. Se venisse provato, il tentativo di uccidere Hala Kamil sarebbe il suo primo fallimento documentato.» Il presidente si assestò gli occhiali ed esaminò il rapporto sull'incidente aereo. «Deve essermi sfuggito qualcosa. Se questo Ammar voleva che l'aereo sparisse nell'oceano, perché si è preso il disturbo di avvelenare i passeggeri? Che ragione poteva avere per ucciderli due volte?» «Il problema è proprio questo», spiegò Brogan. «I miei analisti pensano che non sia stato Ammar ad avvelenare i passeggeri.» Lo sguardo del presidente assunse un'espressione di stupore. «Non riesco a seguirla, Martin. Di che diavolo sta parlando?» «I patologi dell'FBI hanno raggiunto Thule in aereo e hanno fatto l'autopsia delle vittime. Hanno trovato nei corpi del primo e del secondo ufficiale una quantità di sarin cinquanta volte superiore a quella necessaria per uccidere, ma le analisi hanno dimostrato che i passeggeri sono morti per aver ingerito succo di mancinella nel pasto consumato durante il volo.» Brogan s'interruppe per bere un sorso di caffè. Il presidente attese e batté nervosamente una penna contro il calendario da tavolo. «La mancinella, o guava velenosa come viene anche chiamata, è un'euforbiacea dei Caraibi e della costa messicana del Golfo», continuò Brogan. «Una pianta che dà frutti a forma di mela, dolci e letali. Gli indios caraibici
usavano la linfa di questa pianta per avvelenare le frecce. Molti marinai naufragati nei secoli scorsi e molti turisti moderni sono moni per aver mangiato questi frutti velenosi.» «E i suoi ritengono che un sicario del calibro di Ammar non si sarebbe abbassato a usare la mancinella.» «Qualcosa del genere.» Brogan annuì. «Gli amici di Ammar non avrebbero faticato a comprare o a rubare il sarin presso un'industria chimica europea. Ma la mancinella è tutta un'altra cosa. Non si trova in vendita. E ha un effetto molto lento. Non credo che Ammar avrebbe mai pensato di servirsene.» «E se non è stato l'arabo, chi è stato?» «Non lo sappiamo», rispose Brogan. «Certo non è stato uno dei tre superstiti. L'unica pista, comunque molto debole, porta a un delegato messicano, un certo Eduardo Ybarra. Era l'unico passeggero, oltre a Hala Kamil, che non aveva mangiato la carne.» «Qui c'è scritto che è morto nell'atterraggio.» Il presidente alzò gli occhi dal dossier. «Com'è possibile che avesse messo il veleno nelle porzioni senza che nessuno lo vedesse?» «Il veleno è stato messo nella cucina della ditta che serve la linea aerea. Gli investigatori britannici stanno controllando questa pista.» «Forse Ybarra era innocente. Forse non aveva mangiato per una ragione molto semplice.» «Secondo l'assistente di volo superstite, Hala dormiva quando è stato servito il pasto, ma Ybarra aveva dichiarato di aver lo stomaco sottosopra.» «E questo è possibile.» «L'assistente di volo, però, l'ha visto mangiare un sandwich che aveva portato nella borsa.» «Allora sapeva.» «Sembra proprio di sì.» «Perché ha corso il rischio di salire a bordo se sapeva che tutti sarebbero morti tranne lui?» «È partito per precauzione, nell'eventualità che il bersaglio principale o i bersagli che erano probabilmente tutti i messicani non ingerissero il veleno.» Il presidente alzò di nuovo lo sguardo al soffitto. «D'accordo, la Kamil è una spina nel fianco di Yazid. Yazid paga Ammar perché la tolga di mezzo. La missione fallisce e l'aereo non sparisce in mezzo al mar Glaciale Ar-
tico ma atterra in Groenlandia. Questo risolve il primo enigma. Ci sono fatti concreti e convincenti. Chiamiamola la pista egiziana. Enigma numero due, la pista messicana. È molto più nebulosa. Non c'è un movente per un massacro, e l'unica persona sospetta è morta. Se fossi un giudice, dichiarerei il non luogo a procedere per mancanza di indizi.» «Sono d'accordo», concordò Brogan. «Non abbiamo prove dell'esistenza di un movimento terroristico con base in Messico.» «Ha dimenticato Topiltzin», disse il presidente. Brogan fu sorpreso nel vedere l'espressione fredda e furiosa apparsa sul volto del suo interlocutore. «La CIA non ha dimenticato Topiltzin», dichiarò. «Né quel che ha fatto a Guy Rivas. Lo farò togliere di mezzo non appena lei mi darà l'ordine.» Il presidente sospirò e si rilasciò sulla poltrona. «Se fosse tanto semplice... Io faccio schioccare le dita e la CIA elimina un capo dell'opposizione straniera. È un rischio troppo grande. Kennedy se ne accorse quando autorizzò la mafia a tentare di assassinare Fidel Castro.» «Reagan non fece obiezioni ai tentativi di colpire Gheddafi.» «Già», disse il presidente in tono stanco. «Non sapeva che Gheddafi avrebbe fregato tutti e sarebbe morto di cancro.» «Con Topiltzin non avremo la stessa fortuna. Secondo i rapporti medici, è sano e forte come un mulo del Missouri.» «È un pazzo furioso. Se s'impadronirà del Messico, ci troveremo ad affrontare un disastro.» «Ha ascoltato la registrazione fatta da Rivas?» chiese Brogan che conosceva già la risposta. «Quattro volte», disse il presidente in tono amareggiato. «Ce n'è abbastanza per farsi venire gli incubi.» «E se Topiltzin rovesciasse il governo attuale e mettesse in atto la minaccia di mandare milioni di suoi compatrioti oltre il confine nel tentativo folle di impadronirsi del sud-ovest americano...?» Brogan non terminò la domanda. Il presidente rispose in tono stranamente blando. «Allora non potrò far altro che ordinare alle nostre forze armate di trattare come invasori gli immigranti illegali.» Brogan tornò nel suo ufficio alla sede centrale della CIA, a Langley, e trovò ad aspettarlo il vicesegretario della Marina, Elmer Shaw. «Scusi il disturbo», disse Shaw, «ma ho diverse notizie che dovrebbero
interessarle.» «Devono essere importanti, se è venuto di persona.» «Sì, sono importanti.» «Venga, si accomodi. Sono notizie buone o cattive?» «Ottime.» «Da un po' di tempo non ne va bene una», disse Brogan con aria cupa. «Sarà un piacere sentire qualcosa di decente, per una volta.» «La nostra nave da ricognizione, il Polar Explorer, stava cercando il sottomarino sovietico della classe Alfa che era stato dato per disperso...» «Sono informato della missione.» «Bene, l'hanno trovato.» Brogan sgranò gli occhi e batté la mano sulla scrivania in una manifestazione di gioia piuttosto rara in lui. «Congratulazioni. I sottomarini della classe Alfa sono i migliori che esistano. I suoi hanno fatto un colpo magistrale.» «Non abbiamo ancora messo le mani sul sottomarino», precisò Shaw. Brogan socchiuse le palpebre. «E i russi? Si sono accorti della scoperta?» «Pensiamo di no. Poco dopo che gli strumenti hanno individuato il sottomarino, e fra parentesi abbiamo il videotape del relitto, la nave ha abbandonato la rotta della ricerca per contribuire alle operazioni di salvataggio dell'aereo dell'ONU. Una cortina fumogena inviata dal cielo. Le informazioni che ci pervengono dalla Marina sovietica confermano che per loro tutto procede normalmente. Anche il KGB non sospetta di nulla. E il nostro servizio di sorveglianza spaziale sulla loro flotta nell'Atlantico settentrionale non ha rilevato alcun cambiamento di rotta in direzione dell'area della ricerca.» «È strano che non avessero mandato un peschereccio-spia a pedinare il Polar Explorer.» «Oh, l'avevano mandato», spiegò Shaw. «E tenevano d'occhio le nostre operazioni. Seguivano i movimenti e le comunicazioni della nave per mezzo dei satelliti. L'hanno lasciata fare, nella speranza che la nostra tecnologia più avanzata per le ricerche subacquee desse risultati dove la loro era fallita. Poi hanno puntato tutto sulla possibilità che il nostro equipaggio rivelasse involontariamente la posizione esatta con qualche piccolo errore.» «Ma non è andata così.» «No», rispose Shaw con fermezza. «Il servizio di sicurezza da parte nostra era impenetrabile. Esclusi il comandante e due esperti della NUMA,
tutto l'equipaggio era convinto che si trattasse di una ricerca geologica sul fondale marino e sugli iceberg. Il rapporto che ho ricevuto sul successo della missione mi è stato portato personalmente dalla Groenlandia dall'ufficiale esecutivo del Polar Explorer, e quindi non c'è stato il rischio che le comunicazioni venissero intercettate.» «Molto bene, e adesso?» chiese Brogan. «Ovviamente i sovietici non ci lascerebbero ripetere un'altra impresa come quella della Glomar Explorer. E hanno ancora una nave che pattuglia l'area dove hanno perso nell'86 il sottomarino lanciamissili al largo della Costa Orientale.» «Stiamo pensando a un'operazione di recupero subacqueo», disse Shaw. «Quando?» «Se cominciamo a preparare l'operazione adesso, ridisegnando e modificando i sommergibili e l'equipaggiamento esistenti, dovremmo essere pronti al recupero fra sei mesi.» «Perciò ignoreremo il sottomarino fino a quella data o fingeremo di ignorarlo?» «Appunto», rispose Shaw. «Nel frattempo, ci è caduto nel piatto un altro avvenimento che confonderà i sovietici. La Marina ha bisogno della vostra collaborazione per procedere.» «La sto ascoltando.» «Durante il salvataggio dei superstiti dell'aereo e le successive indagini, quelli della NUMA che collaborano con noi nella ricerca si sono imbattuti casualmente in qualcosa che sembra il relitto di un'antica nave romana imprigionata nei ghiacci.» Brogan fissò Shaw con aria scettica. «In Groenlandia?» Shaw annuì. «Secondo gli esperti, è autentica.» «E che cosa può fare la CIA per aiutare la Marina in questa faccenda del relitto?» «Può aiutarci con la disinformazione. Vorremmo far credere ai russi che il Polar Explorer fosse andato a cercare proprio la nave romana.» Brogan notò una spia luminosa che lampeggiava sull'intercom. «Mi sembra una buona idea. Mentre la Marina si prepara a soffiargli il sommergibile più moderno, noi spargiamo briciole di pane per condurli nella direzione opposta.» «Qualcosa del genere.» «E voi, come vi comporterete con il relitto romano?» «Istituiremo un progetto archeologico come copertura per una base delle operazioni sul posto. Il Polar Explorer resterà là, in modo che l'equipaggio
possa dare una mano negli scavi.» «Il sottomarino è molto vicino?» «Una quindicina di chilometri.» «Avete un'idea delle sue condizioni?» «Ci sono danni strutturali per la collisione contro una sporgenza del fondo marino, ma a parte questo è intatto.» «E la nave romana?» «I nostri che sono sul posto dicono di aver trovato i corpi congelati dell'equipaggio in eccellente stato di conservazione.» Brogan si alzò dalla scrivania e accompagnò Shaw alla porta. «Incredibile», mormorò affascinato. Poi sorrise maliziosamente. «Chissà se riusciremo a scoprire anche qualche antico segreto di Stato?» Shaw ricambiò il sorriso. «Sarebbe meglio se fosse un tesoro.» Nessuno dei due avrebbe immaginato che quello scambio di battute scherzose sarebbe tornato a ossessionarli entro le successive quarantotto ore. 20. Sotto la direzione degli archeologi, l'equipaggio del Polar Explorer aprì un passaggio nel ghiaccio che imprigionava la nave, strato per strato, fino a che il ponte superiore fu messo allo scoperto dalla prua al dritto di poppa. Tutti coloro che si trovavano nel fiordo erano accorsi sul posto, spinti dalla curiosità. Soltanto Pitt e Lily non c'erano. Erano a bordo del rompighiaccio e studiavano le tavolette incerate. Un silenzio impressionante dominava la folla dei marinai, degli archeologi e degli investigatori venuti a indagare sull'incidente aereo. Stavano intorno allo scafo e guardavano il vascello parzialmente liberato come se fosse la tomba segreta di un antico sovrano. Hoskins e Graham misurarono la scafo e giunsero a stabilire una lunghezza complessiva poco inferiore a una ventina di metri, con una larghezza massima di sette. L'albero maestro s'era spezzato all'altezza di due metri, e la parte superiore era scomparsa. I resti del sartiame di canapa serpeggiavano sul ponte e sulle fiancate come se fossero stati raggomitolati e poi lasciati cadere da un uccello gigantesco. Alcuni brandelli di tela erano quanto restava dell'ampia vela. L'assito del ponte, a un accurato controllo, risultò solido come il giorno
in cui la nave era stata varata in qualche cantiere mediterraneo dimenticato ormai da molto tempo. I manufatti sparsi sul ponte furono fotografati, etichettati, trasportati alla superficie e trasferiti a bordo del Polar Explorer per essere puliti e catalogati. Poi ogni oggetto venne riposto nella cella frigorifera per evitare che si deteriorasse nel corso del viaggio verso una nazione che ancora non esisteva quando l'antico mercantile era salpato per l'ultimo viaggio. Gronquist, Hoskins e Graham non toccarono la cabina del ponte e non entrarono nella cambusa. Lentamente e con estrema delicatezza, sollevarono un lato del portello della stiva e lo puntellarono. Gronquist si stese bocconi e infilò la testa e le spalle nel varco per scrutare al di sotto delle travature. «Sono lì?» chiese Graham, emozionatissimo. «Sono come li ha descritti Pitt?» Gronquist scrutò gli spettrali volti bianchi, le espressioni da maschere. Gli sembrava che, se avesse raschiato via il ghiaccio e li avesse scrollati, avrebbero sbattuto le palpebre e ripreso a vivere. Esitò prima di rispondere. La luce viva del giorno gli permetteva di vedere chiaramente l'intera stiva. Scorse due figure raggomitolate vicine nell'angolo estremo della prua. A Pitt erano sfuggite. «Sono esattamente come li ha descritti Pitt», disse. «A parte il cane e la ragazzina.» Al riparo della gru, Pitt rimase a guardare mentre Giordino portava l'elicottero della NUMA sopra la poppa del Polar Explorer. Quindici secondi più tardi i pattini toccarono i cerchi concentrici dipinti sul ponte, il ronzio stridulo della turbina si spense e le pale si arrestarono lentamente. Il portello di destra si aprì, e balzò sul ponte un uomo alto che portava un maglione verde dolcevita sotto una giacca sportiva di velluto a coste marrone. Si guardò intorno per un momento come se cercasse di orientarsi, poi vide Pitt che aveva alzato la mano. Si avviò a passo svelto, con le spalle curve, le mani infilate nelle tasche per proteggersi dal freddo. Pitt gli andò incontro e lo fece entrare al caldo. «Il dottor Redfern?» «Lei è Dirk Pitt?» «Sì.» «Ho letto le sue imprese.» «Grazie per aver trovato il tempo di venire.»
«Vuol scherzare?» esclamò Redfern. Gli occhi gli brillavano d'entusiasmo. «Mi sono subito buttato sul suo invito. Non c'è al mondo un archeologo che non darebbe un occhio per partecipare alla scoperta. Quando potrò dare un'occhiata?» «Fra dieci minuti farà buio. Credo che sarebbe meglio se si facesse mettere al corrente dal dottor Gronquist, l'archeologo che ha diretto gli scavi. Le mostrerà i manufatti che ha recuperato sul ponte principale. Poi, alle prime luci, potrà mettere piede sulla nave e assumersi la responsabilità del progetto.» «Benissimo.» «Ha bagagli?» chiese Pitt. «Non molti. Solo una borsa e una sacca.» «Al Giordino...» «Il pilota dell'elicottero?» «Sì. Al farà portare tutto nel suo alloggio. Ora, se vuole seguirmi, le offrirò qualcosa per scaldarsi lo stomaco e comincerò ad assediarla per sapere che cosa ne pensa, di questo enigma.» «La seguo.» Il dottor Redfern era ancora più alto di Pitt, e doveva chinarsi per passare dalle porte. I capelli biondi e un po' radi sul davanti avevano l'attaccatura a punta sulla fronte; portava un paio di occhiali firmati che riparavano gli occhi grigiazzurri. Era ancora abbastanza snello per un quarantenne, ma aveva un accenno di pancia. Redfern era stato un asso della pallacanestro ed era passato al professionismo per pagarsi gli studi fino al dottorato in antropologia. Più tardi s'era dedicato alle esplorazioni subacquee ed era diventato uno dei maggiori esperti mondiali nel campo dell'archeologia classica marina. «Ha fatto un buon volo da Atene a Reykjavik?» chiese Pitt. «Ho dormito quasi sempre. Ma il volo sull'aereo della Marina dall'Islanda all'abitato eschimese centocinquanta chilometri a sud di qui mi ha trasformato in un ghiacciolo. Spero di farmi prestare qualcosa di pesante da mettermi addosso. Avevo fatto i bagagli per le isole assolate della Grecia, e non avevo previsto un viaggio urgente al Circolo Polare Artico.» «Il comandante Knight, il capitano del rompighiaccio, potrà sistemare tutto. Su che cosa stava lavorando?» «Su un mercantile greco del secondo secolo avanti Cristo, affondato con un carico di sculture di marmo.» Redfern non resistette alla tentazione d'incominciare a interrogare Pitt. «Nel messaggio radio non ha precisato
che cosa trasportava la nave.» «A parte i cadaveri dei membri dell'equipaggio, ho trovato la stiva vuota.» «Non può andare sempre bene», commentò filosoficamente Redfern. «Ma ha detto che là nave è in pratica intatta.» «Sì, è vero. Se ripariamo lo squarcio nello scafo, mettiamo un albero nuovo e il sartiame nuovo e aggiungiamo due remi timonieri, potremmo farla navigare fino al porto di New York.» «Dio, è sbalorditivo. Il dottor Gronquist è riuscito a stabilire una datazione approssimativa?» «Sì, grazie alle monete coniate intorno al 390 dopo Cristo. Conosciamo persino il nome, Serapis. È scolpito in greco sul dritto di poppa.» «Una nave mercantile bizantina del quarto secolo conservata perfettamente», mormorò Redfern. «Credo che sia la più grande scoperta archeologica del secolo. Non vedo l'ora di metterci le mani.» Pitt lo condusse nel quadrato degli ufficiali, dove Lily era seduta a un tavolo e copiava sulla carta le parole scritte sulle tavolette incerate. Pitt fece le presentazioni. «La dottoressa Lily Sharp. Il dottor Mel Redfern.» Lily si alzò e tese la mano. «È un onore, dottore. Anche se il mio campo riguarda gli scavi terrestri, sono sempre stata una grande ammiratrice del suo lavoro subacqueo.» «L'onore è tutto mio», disse Redfern. «Ma lasciamo perdere i titoli e diamoci del tu.» «Che cosa possiamo offrirti?» chiese Pitt. «Quattro litri di cioccolata bollente e una scodella di zuppa basteranno a scongelarmi.» Pitt passò l'ordine a uno steward. «Bene, qual è l'enigma al quale hai accennato?» chiese Redfern, smanioso come un ragazzino che balza dal letto la mattina di Natale. Pitt lo fissò e sorrise. «Come stai a latino, Mel?» «Lo conosco abbastanza bene. Ma mi pareva che la nave fosse greca.» «Infatti», rispose Lily. «Ma il capitano aveva scritto in latino il diario di bordo sulle tavolette incerate. Sei di esse sono scritte, ma sulla settima sono state tracciate linee come se si volesse realizzare una mappa. Dirk le ha recuperate quando è penetrato per primo nella nave. Ho trasposto gli scritti sulla carta in forma più leggibile, in modo che sia possibile farne copia a macchina. Ho riportato su scala ampliata quella specie di mappa, ma finora
non siamo riusciti a farla corrispondere a una località geografica perché non ci sono indicazioni.» Redfern sedette e prese una tavoletta. La studiò con aria reverente per lunghi istanti, poi la posò. Quindi prese i fogli con le trascrizioni di Lily e incominciò a leggere. Lo steward portò una tazza di cioccolata calda e una razione abbondante di zuppa di frutti di mare alla bostoniana. Redfern era così assorto nella traduzione da dimenticare l'appetito. Si portò la tazza alle labbra come un robot e assaggiò la cioccolata senza staccare gli occhi dalle pagine. Dopo una decina di minuti si alzò e incominciò a camminare avanti e indietro fra i tavoli, mormorando fra sé frasi latine, completamente dimentico del suo pubblico attentissimo. Pitt e Lily rimasero in silenzio per non disturbare i suoi pensieri, e spiarono incuriositi le sue reazioni. Redfern si fermò come se, d'un tratto, riuscisse a inquadrare il problema nell'esatta prospettiva. Tornò al tavolo ed esaminò di nuovo i fogli. L'atmosfera era satura di un'attesa fremente. Altri minuti trascorsero, interminabili, poi Redfern posò sul tavolo i fogli con mani tremanti. Alzò la testa e guardò nel vuoto con occhi stranamente velati. Non era difficile capire che era profondamente scosso. «A guardarti si direbbe che hai appena trovato il Santo Graal», disse Pitt. «Di che si tratta?» chiese Lily. «Che cosa hai scoperto?» Redfern aveva abbassato la testa. Riuscirono a stento a sentire la risposta. «È possibile, è almeno lontanamente possibile, che la vostra scoperta casuale possa portare alla più grande collezione di tesori artistici e letterari che il mondo abbia conosciuto.» 21. «Ora che pendiamo dalle tue labbra», disse Pitt, «ti dispiacerebbe metterci a parte della grande rivelazione?» Redfern scosse la testa come se volesse schiarirsi le idee. «È una storia... una vicenda incredibile. Non riesco a comprenderla.» Lily chiese: «Le tavolette spiegano perché una nave greco-romana si era spinta tanto lontano dalle rotte abituali?» «Non era greco-romana. Era bizantina», la corresse Redfern. «Quando la Serapis partì, la capitale dell'impero era stata trasferita da Costantino il
Grande da Roma alle rive del Bosforo, dove un tempo stava la città greca di Bisanzio.» «Che poi diventò Costantinopoli», disse Pitt. «E successivamente Istanbul.» Redfern si rivolse a Lily. «Scusa se non ti ho dato una risposta diretta. Ma sì, le tavolette rivelano come e perché la nave venne qui. Per spiegare meglio la situazione, dobbiamo fare un quadro più ampio, a partire dal 323 avanti Cristo, l'anno in cui Alessandro il Grande morì a Babilonia. I suoi generali si divisero l'impero e uno di loro, Tolomeo, tenne per sé l'Egitto e ne divenne re. Tolomeo era un uomo abile e astuto. Riuscì a impadronirsi anche della salma di Alessandro e la fece chiudere in una bara d'oro e cristallo. Più tardi collocò il feretro in un elegante mausoleo e vi costruì intorno una città che superava Atene in magnificenza. In onore del suo re, Tolomeo la chiamò Alessandria.» «E la Serapis che cosa c'entra?» chiese Lily. «Abbi pazienza un momento», rispose Redfern in tono gioviale. «Tolomeo fondò un immenso museo-biblioteca. L'inventario era monumentale. I suoi discendenti fino a Cleopatra, e in seguito anche i successori, gli imperatori romani, continuarono ad acquistare manoscritti e oggetti d'arte fino a che il museo e soprattutto la biblioteca divennero uno dei massimi repertori d'arte, scienza e letteratura che siano mai esistiti. La collezione durò fino al 391 dopo Cristo. In quell'anno l'imperatore Teodosio e il patriarca di Alessandria, Teofilo, che era un maniaco religioso, decisero che tutto ciò che non si riferiva al cristianesimo era pagano. Così progettarono la distruzione del contenuto della biblioteca. Le statue, le opere d'arte favolose di marmo, bronzo, oro e avorio, quadri e tappezzerie incredibili, innumerevoli libri scritti su pergamene e papiri, persino la salma di Alessandro, tutto doveva essere ridotto in cenere o in polvere.» «I libri erano davvero innumerevoli?» chiese Pitt. «Erano centinaia di migliaia.» Lily scosse mestamente la testa. «Una perdita terribile.» «Rimasero solo gli scritti biblici ed ecclesiastici», continuò Redfern. «Poi la biblioteca e il museo furono rasi al suolo quando le orde islamiche arabe travolsero l'Egitto intorno al 646 dopo Cristo.» «Gli antichi capolavori raccolti nel corso dei secoli andarono perduti per sempre», commentò Pitt. «Sì», ammise Redfern. «O almeno gli storici l'hanno creduto fino a oggi. Ma se quello che ho appena finito di leggere è vero, il fior fiore della collezione non è sparito per sempre. Si trova nascosto in qualche posto.»
Lily lo guardò, confusa. «Esiste ancora oggi? Fu portato via di nascosto da Alessandria a bordo della Serapis?» «Sì, secondo quanto è scritto sulle tavolette.» Pitt fece una smorfia dubbiosa. «È impossibile che la Serapis abbia portato via più di una minima frazione del tesoro. Non ha senso. È troppo piccola. Poteva trasportare un carico inferiore alle quaranta tonnellate. L'equipaggio poteva aver stipato qualche migliaio di rotoli e un paio di statue nella stiva, ma non si trattava certo delle quantità di cui stai parlando.» Redfern gli lanciò un'occhiata rispettosa. «È un'osservazione acuta. Hai una buona conoscenza delle navi antiche.» «Torniamo alla Serapis e al fatto che finì in Groenlandia», insistette Pitt mentre Redfern prendeva i fogli trascritti da Lily e li metteva in ordine. «Non starò a fare una traduzione letterale del latino del quarto secolo. È troppo formale. Cercherò di renderlo in una forma discorsiva. La prima annotazione si riferisce alle Idi di aprile del 107: l'anno, calcolato in base al calendario di Diocleziano, corrisponde al 391 dopo Cristo. Comincia così: Io, Cuccius Rufinus, capitano della Serapis al servizio di Nicia, mercante greco della città di Rodi, ho accettato di trasportare un carico per conto di Junius Venator di Alessandria. Mi è stato detto che il viaggio sarà lungo e arduo, e Venator non ha rivelato la destinazione. Mia figlia Hypatia è partita con me e sua madre sarà molto preoccupata per questa lunga separazione. Ma Venator paga venti volte più della tariffa consueta, una somma enorme che arrecherà un grande beneficio a Nicia, a me e all'equipaggio. Il carico è stato portato a bordo di notte con una scorta armata, e inspiegabilmente mi è stato ordinato di restare sul molo con l'equipaggio durante le operazioni di carico. Quattro soldati al comando del centurione Domitius Severus sono rimasti sulla nave e sono partiti con noi. La situazione non mi piace, ma Venator mi ha pagato in anticipo e non posso rimangiarmi il contratto.» «Un uomo onesto», commentò Pitt. «È difficile credere che non avesse scoperto la vera natura del carico.» «Ne parla pù avanti. Le righe seguenti sono una cronaca del viaggio. Accenna anche al dio omonimo della nave. Taglierò corto per arrivare al primo scalo.
Ringrazio il dio Serapide che ci ha permesso di arrivare in quattordici giorni, con il tempo propizio, a Nuova Cartagine, dove abbiamo riposato cinque giorni e abbiamo caricato provviste in quantità quattro volte superiore al normale. Qui siamo stati raggiunti dalle altre navi di Junius Venator. Quasi tutti possono trasportare carichi molto ingenti. In totale, con l'ammiraglia di Venator, sono sedici. La nostra Serapis è la più piccola della flotta.» «Una flotta!» esclamò Lily. Le brillavano gli occhi. «Allora portarono in salvo la collezione!» Redfern annuì sorridendo. «O almeno una buona parte. A quell'epoca i mercantili più grossi potevano portare dalle duecento alle trecento tonnellate. Calcoliamo che due navi trasportassero uomini e provviste e che le altre quattordici avessero un carico medio di duecento tonnellate: il totale doveva essere intorno alle duemilaottocento. Quanto bastava per mettere al sicuro un terzo dei volumi della biblioteca e una quantità ragguardevole dei tesori d'arte del museo.» Pitt chiese una breve pausa. Andò al banco della cambusa e portò due tazze di caffè. Ne mise una davanti a Lily, poi tornò a prendere un piatto di ciambelle. Non sedette. In piedi riusciva a concentrarsi meglio. «Finora il trasferimento della biblioteca è una teoria», disse. «Non ho sentito nulla a conferma del fatto che il materiale venisse veramente portato via.» «Rufinus ne parla più avanti», disse Redfern. «La descrizione del carico della Serapis è quasi alla conclusione del diario.» Pitt gli lanciò un'occhiata impaziente. Tornò a sedere e attese. «Nella tavoletta seguente, Rufinus accenna a qualche riparazione e ai pettegolezzi del porto, e descrive con l'occhio del turista Nuova Cartagine, che oggi si chiama Cartagena. È in Spagna. Stranamente, non esprime più inquietudine per il viaggio che l'attende. Non annota neppure la data della partenza della flotta dal porto. Ma la parte più bizzarra riguarda la censura. Sentite l'annotazione successiva. Oggi siamo salpati verso il grande mare. Le navi più veloci rimorchiano le più lente. Non posso scrivere altro. I soldati mi sorvegliano. Per ordini precisi di Junius Venator non devono esserci documentazioni del viaggio.»
«Proprio quando stavamo per mettere insieme i pezzi del rompicapo», borbottò Pitt, «manca la parte centrale.» «Dev'esserci qualcosa di più», insistette Lily. «Ricordo di aver copiato altro.» «Infatti», ammise Redfern mentre girava le pagine. «Rufinus riprende il racconto undici mesi più tardi. Ora sono libero di parlare del nostro viaggio terribile senza timore di punizioni. Venator e il suo piccolo esercito di schiavi, Severus e i suoi legionari, gli equipaggi di tutte le navi sono stati sterminati dai barbari e la flotta è stata incendiata. La Serapis si è salvata perché la paura di Venator mi aveva reso prudente. Ho scoperto la provenienza e il contenuto del carico e conosco dov'è nascosto fra le colline. Sono segreti che devono essere celati ai mortali. Sospettavo che Venator e Severus intendessero assassinare tutti quanti, tranne i soldati più fidi e l'equipaggio di una sola nave, per assicurarsi il ritorno in patria. Temevo per la vita di mia figlia; perciò ho armato i miei uomini e ho ordinato loro di restare vicino alla nave, in modo da poter salpare al primo segno di tradimento. Ma i barbari hanno attaccato per primi, e hanno massacrato gli schiavi di Venator e la legione di Severus. Le nostre guardie sono morte nella battaglia, e noi abbiamo tagliato gli ormeggi e allontanato la nave dalla riva. Venator ha cercato di salvarsi buttandosi in acqua e ha gridato per invocare aiuto. Non potevo rischiare la vita di Hypatia e dei miei uomini per salvarlo, e mi sono rifiutato di tornare indietro. Sarebbe stato un suicidio compiere una manovra del genere controcorrente.» Redfern fece una pausa nella traduzione prima di continuare. «A questo punto Rufinus fa una specie di salto indietro e parla della partenza della flotta da Cartagena. Il viaggio dalla Spagna alla nostra destinazione nella terra sconosciuta ha richiesto cinquantotto giorni. Il tempo è stato favorevole, con il vento alle spalle. In cambio di questa fortuna, Serapide ha preteso un sacrificio. Due uomini del nostro equipaggio sono morti di un'infermità a noi sconosciuta.»
«Deve riferirsi allo scorbuto», disse Lily. «I marinai antichi navigavano raramente per più di una settimana o due senza toccare terra», precisò Pitt. «Lo scorbuto divenne comune solo durante i lunghi viaggi degli spagnoli. Comunque, potrebbero esser morti per qualche altra ragione.» Lily fece un cenno a Redfern. «Scusa se ti ho interrotto. Continua, ti prego.» Siamo sbarcati dapprima in una grande isola popolata da barbari che somigliavano agli sciti ma avevano la carnagione più scura. Si sono comportati amichevolmente e hanno aiutato la flotta a rinnovare le provviste di viveri e di acqua dolce. Abbiamo avvistato altre isole, ma l'ammiraglia ha proseguito. Solo Venator sapeva dove avremmo dovuto prendere terra. Finalmente abbiamo avvistato una spiaggia brulla e siamo giunti all'ampia foce di un fiume. Siamo rimasti al largo per cinque giorni e cinque notti fino a che i venti hanno incominciato a soffiare in nostro favore. Poi abbiamo risalito il fiume, remando a tratti, fino a quando abbiamo raggiunto i colli di Roma. «I colli di Roma?» ripeté distrattamente Lily. «Non capisco.» «Probabilmente lo intendeva come un paragone», interloquì Pitt. «È un enigma che non sarà facile risolvere», ammise Redfern. Agli ordini dell'intendente Latinus Macer gli schiavi hanno scavato nelle colline sopra il fiume. Otto mesi più tardi il carico è stato trasportato dalle navi al nascondiglio. «Rufinus descrive questo nascondiglio?» chiese Pitt. Redfern prese una tavoletta e la confrontò con la copia eseguita da Lily. «Le parole sono in parte indecifrabili. Dovrò integrarle come posso. Così il segreto dei segreti giace nelle viscere della collina entro una camera scavata dagli schiavi. Il luogo non può essere visto a causa dei dirupi. Dopo che tutto è stato riposto, l'orda dei barbari è discesa dalle colline. Non so se la camera fosse già stata sigillata perché in quel momento stavo aiutando il mio equipaggio a spingere la nave lontano dalla sab-
bia.» «Rufinus non ha mai annotato le distanze», commentò Pitt, deluso. «E non fornisce mai indicazioni. Adesso c'è anche la possibilità che i barbari, quali che fossero, avessero saccheggiato il nascondiglio.» Redfern si oscurò. «È una possibilità che non possiamo trascurare.» «Io non credo che sia accaduto il peggio», disse ottimisticamente Lily. «Cinquantotto giorni alla velocità media di... facciamo tre nodi e mezzo per un vascello progettato come la Serapis... Ecco, potrebbe aver coperto quattromila miglia marine.» «Sì, se hanno navigato in linea retta», osservò Redfern. «E non è probabile. Rufinus dice solo che avevano viaggiato per cinquantotto giorni prima di scendere a terra. Dato che navigavano in acque sconosciute, si può presumere che si tenessero vicini alla costa.» «E dove andavano?» chiese Lily. «La destinazione più logica è la costa meridionale dell'Africa occidentale», rispose Redfern. «Nel quinto secolo avanti Cristo un equipaggio di fenici circumnavigò l'Africa in senso orario. Una parte di quelle coste figurava sulle carte dei tempi di Rufinus. Secondo la logica, Venator dovrebbe aver puntato verso sud con la flotta, dopo aver varcato lo stretto di Gibilterra.» «Non riusciresti mai a convincere una giuria», disse Pitt. «Rufinus parla di isole.» «Potrebbe trattarsi di Madera, delle Canarie o delle isole del Capo Verde.» «Non è convincente neppure questo. Non riesci a spiegare come mai la Serapis sia finita praticamente dall'altra parte del mondo, in Groenlandia. Stai parlando di una distanza di quasi tredicimila chilometri.» «È vero. Mi sono confuso con i calcoli.» «Per me avevano seguito una rotta settentrionale», disse Lily. «Le isole potrebbero anche essere le Shetland o le Färøer. Quindi la località degli scavi dovrebbe essere sulle coste della Norvegia o meglio ancora dell'Islanda.» «Così va meglio», ammise Pitt. «Questa teoria spiegherebbe perché la Serapis andò ad arenarsi in Groenlandia.» «Che cosa dice Rufinus, dopo essersi salvato dai barbari?» chiese Lily. Redfern s'interruppe per finire la cioccolata calda. «Ecco che cosa racconta:
Abbiamo raggiunto il mare aperto. La navigazione era difficile. Le stelle hanno posizioni diverse. Anche il sole non è più lo stesso. Tempeste terribili ci assalgono dal sud. Un marinaio è finito in mare. Siamo stati sospinti di continuo verso il nord. Il trentunesimo giorno il nostro Dio ci ha guidati in una baia sicura dove abbiamo effettuato le riparazioni e caricato le provviste che siamo riusciti a trovare sulla terraferma. Abbiamo caricato anche pietre come zavorra. A una certa distanza dalla spiaggia c'è una grande distesa di pini nani. L'acqua pura filtra dalla sabbia appena vi si infila un bastone. Dopo sei giorni di navigazione tranquilla è venuta un'altra tempesta più violenta della precedente. Le vele sono lacerate e inservibili. La tremenda bufera ha spezzato l'albero e trascinato via i remi timonieri. Siamo andati alla deriva spinti dal vento spietato, per molti giorni, non so per quanti. È diventato impossibile dormire. L'aria è freddissima, e sul ponte si è formato il ghiaccio. La nave è ora molto instabile. Ho ordinato ai miei uomini, esausti e infreddoliti, di gettare fuori bordo le anfore dell'acqua e del vino. «Le anfore che avete trovato sul fondale, fuori del fiordo.» Redfern s'interruppe e fece un cenno a Pitt. Poi continuò la lettura. Poco dopo essere stati sospinti nella lunga baia, siamo riusciti a far arenare la nave e siamo piombati in un sonno profondo per due giorni e due notti. Il dio Serapide è crudele. È incominciato l'inverno e il ghiaccio ha imprigionato la nave. Non ci resta altro che resistere durante l'inverno fino a che ritornerà il caldo. Dall'altra parte della baia c'è un villaggio di barbari, e commerciamo con loro. Facciamo baratti per procurarci il cibo. I barbari usano le nostre monete d'oro come gingilli perché non ne immaginano il valore. Ci hanno insegnato a scaldarci bruciando l'olio di un pesce mostruoso. Siamo sazi e credo che riusciremo a sopravvivere. Mentre me ne sto tranquillo e ho molto tempo a disposizione, scriverò ogni giorno qualche parola. Questa volta annoterò le caratteristiche del carico che gli schiavi di Venator hanno prelevato dalla stiva della Serapis mentre io assistevo inosservato dalla cambusa e facevo una specie d'inventario. Alla vista del grande oggetto, tutti sono caduti rispettosamente in ginocchio.
«A che cosa allude?» chiese Lily. «Un attimo di pazienza», disse Redfern. Trecentoventi cilindri di rame con la dicitura Carte geologiche. Sessantatré arazzi. Tutti questi erano ammucchiati intorno alla grande bara di oro e cristallo di Alessandro. Mi tremavano le ginocchia. Riuscivo a scorgere il suo volto attraverso... «Rufinus non scrisse altro», disse tristemente Redfern. «Non finì mai la frase. L'ultima tavoletta è un disegno che mostra la configurazione generale della costa e il corso del fiume.» «La bara perduta di Alessandro il Grande», disse Lily con un filo di voce. «È possibile che sia ancora sepolta in una caverna, chissà dove?» «Assieme ai tesori della Biblioteca di Alessandria?» soggiunse Redfern. «Non possiamo far altro che sperare.» La reazione di Pitt fu molto diversa, ispirata a una profonda sicurezza. «La speranza va bene per gli spettatori. Credo di poter trovare le tue antichità entro trenta... no, entro venti giorni.» Lily e Redfern sgranarono gli occhi e lo guardarono con l'aria sospettosa riservata di solito a un politico che promette di ridurre le tasse. Molto semplicemente, non gli credevano. Ma avrebbero fatto meglio a credergli. «Mi sembri molto sicuro», disse Lily. Gli occhi verdi di Pitt avevano una luce di assoluta sincerità. «Diamo un'occhiata alla mappa.» Redfern gli porse il foglio su cui l'aveva trascritta Lily. Non c'era molto da vedere, a parte una serie di linee ondulate. «Non dicono molto. Rufinus non ha fornito alcuna indicazione.» «A me basta», disse Pitt, imperturbabile. «È sufficiente per condurci alla meta.» Erano le quattro del mattino quando Pitt si svegliò. Si girò automaticamente per riaddormentarsi ma si rese conto vagamente che qualcuno aveva acceso la luce e gli stava parlando. «Mi dispiace, amico, ma devi alzarti.» Stordito, Pitt alzò lo sguardo verso la faccia seria del comandante Knight. «Che cos'è successo?»
«Ordini dall'alto. Devi partire immediatamente per Washington.» «Hanno spiegato il motivo?» «L'ha ordinato il Pentagono, ma non si è degnato di fornirmi spiegazioni.» Pitt si sollevò a sedere e posò i piedi nudi sul pavimento. «Speravo di restare ancora un po' per seguire gli scavi.» «Niente da fare, purtroppo», disse Knight. «Tu, Giordino e la dottoressa Sharp dovete partire entro un'ora.» «Lily?» Pitt si alzò e si avviò verso il bagno. «Posso capire che i pezzi grossi vogliano interrogare me e Al sul sottomarino sovietico, ma perché s'interessano a Lily?» «I capi di stato maggiore non si confidano con gli schiavi.» Knight sorrise ironicamente. «Non ne ho la più pallida idea.» «E il mezzo di trasporto?» «Partirete com'è arrivato Redfern. In elicottero fino al villaggio eschimese e alla stazione meteorologica, poi con un aereo della Marina fino all'Islanda, e là salirete su un bombardiere B-52 che deve tornare negli Stati Uniti per la revisione.» «Non è così che si fa», borbottò Pitt mentre si puliva i denti. «Se vogliono la mia collaborazione più totale, devono mettermi a disposizione un jet privato, o niente.» «Sei molto impertinente per quest'ora del mattino.» «Quando mi buttano giù dal letto prima dell'alba non esito a dire ai capi di stato maggiore che cosa dovrebbero mettersi fra le emorroidi.» «Posso dire addio alla mia prossima promozione», gemette Knight. «Mi riterranno tuo complice.» «Stai dalla mia parte e finirai per diventare ammiraglio.» «Ci scommetto.» Pitt si batté lo spazzolino sulla fronte. «Il genio ha colpito ancora. Trasmetti un messaggio. Comunica che gli andremo incontro a metà strada. Io e Giordino raggiungeremo con l'elicottero della NUMA la base aerea di Thule. E loro ci faranno trovare un jet del governo pronto per portarci alla capitale.» «Ti converrebbe di più stuzzicare un doberman mentre sta mangiando.» Pitt alzò le mani. «Perché non c'è nessuno che abbia fiducia nelle mie astuzie creative?» 22.
Washington stava chiudendo i battenti dopo una giornata serena e luminosa. Il freddo pungente dell'autunno rendeva l'aria frizzante mentre il sole al tramonto trasformava in porcellana dorata il granito bianco dei palazzi governativi. Il cielo era costellato di nuvole bianche e soffici che sembravano abbastanza solide per permettere l'atterraggio del Gulfstream IV. L'aereo poteva trasportare fino a diciannove passeggeri ma Pitt, Giordino e Lily avevano a loro disposizione l'intera cabina. Giordino si era addormentato prima ancora che le ruote si staccassero dalla pista della base di Thule e non aveva più aperto gli occhi, Lily aveva dormicchiato un po' e poi aveva letto qualche pagina della Soglia di Marlys Millhiser. Pitt rimase sveglio, perduto nei suoi pensieri. Ogni tanto annotava qualcosa su un taccuino. Si voltò a guardare dal finestrino il traffico che si snodava lentamente verso la periferia dal cuore della capitale. Tornò con il pensiero all'equipaggio della Serapis, al comandante Rufinus e a sua figlia Hypatia. Pitt si rammaricava di non aver visto la ragazza nell'oscurità della stiva, anche se la sua telecamera l'aveva inquadrata molto chiaramente, con le braccia strette intorno a un cagnetto a pelo lungo. Per poco Gronquist non aveva pianto quando l'aveva descritta. Pitt si chiese se sarebbe finita in una vetrina refrigerata in un museo, dove file interminabili di curiosi l'avrebbero osservata in silenzio. Pitt guardò il Mall mentre il Gulfstream volava in cerchio per prepararsi all'atterraggio. Distolse i pensieri dalla Serapis e si concentrò sulla ricerca di tesori della Biblioteca di Alessandria. Sapeva esattamente come avrebbe fatto. La parte del piano che non lo entusiasmava era la prospettiva di mettere tutte le sue uova in un unico paniere. Doveva puntare l'esito della ricerca su poche linee tracciate rozzamente sulla cera dalla mano semiassiderata di un morente. La legge di Murphy (se qualcosa può andar male, lo farà) stava già erigendo barricate contro di lui. Le linee della mappa potevano non corrispondere a un sito geografico conosciuto, per molte ragioni diverse: la distorsione della cera per i rapidi cambiamenti di temperatura durante il congelamento iniziale della Serapis e il successivo disgelo a bordo del Polar Explorer; Rufinus poteva aver sbagliato la scala e piazzato erroneamente le curve e gli angoli della costa e del fiume; e c'era l'ipotesi peggiore, la più verosimile... potevano esserci stati grandi cambiamenti nel paesaggio, dovuti al sollevamento o all'erosione del suolo, ai terremoti o ai mutamenti climatici degli ultimi milleseicento anni. Nessun fiume al mondo aveva mantenuto immutato il suo cor-
so per un millennio. Pitt sentiva l'odore inebriante della sfida. Per un uomo irrequieto è come un odore autentico, che si situa fra quello di una donna eccitata e quello dell'erba appena tagliata dopo la pioggia. È tentatore al punto da far dimenticare ogni pensiero di fallimento e di pericolo. Per Pitt, l'emozione della caccia aveva quasi la stessa importanza del successo. Eppure, quando realizzava qualcosa di molto prossimo all'impossibile, poi si sentiva sempre assalire da una depressione inevitabile. Il primo ostacolo era la mancanza di tempo per svolgere una ricerca. Il secondo era il sottomarino sovietico. Lui e Giordino erano i principali candidati alla direzione dell'operazione di recupero subacqueo. I pensieri di Pitt furono interrotti dalla voce del pilota che ordinava di agganciare le cinture di sicurezza. Guardò l'ombra minuscola dell'aereo che si ingrandiva sopra gli alberi spogli. L'erba bruniccia passò sotto di lui e lasciò il posto al cemento. Il Gulfstream toccò terra, si staccò dalla pista principale della base aerea di Andrews e frenò davanti a una Ford Taunus station-wagon. Pitt aiutò Lily a scendere. Poi, con Giordino, scaricò i bagagli e li sistemò sulla Taunus. L'autista, un giovane adetico che sembrava appena uscito da una scuola di lusso, si teneva a distanza come se non osasse disturbare quei due tipi rudi che maneggiavano valigie e sacche come se fossero cuscini. «Qual è il programma?» chiese Pitt all'autista. «Cena con l'ammiraglio Sandecker al suo club.» «Quale ammiraglio?» chiese Lily. «Sandecker», rispose Giordino. «È il capo della NUMA. Dobbiamo aver fatto qualcosa di buono. È molto difficile che inviti a cena qualcuno.» «Per non parlare dell'invito al John Paul Jones Club», aggiunse Pitt. «È un club esclusivo?» Giordino annuì. «È un deposito per vecchi pezzi grossi arrugginiti della Marina con l'acqua della sentina nella vescica.» Era già buio quando finalmente l'autista svoltò in una tranquilla via residenziale di Georgetown. Dopo cinque isolati si fermò su un vialetto, sotto il portico di una imponente costruzione vittoriana di mattoni rossi. Nell'atrio, un ometto che sembrava un gallo da combattimento venne verso di loro. Indossava un abito di seta con panciotto, tagliato su misura. Si muoveva a passi svelti ed energici, come un gatto che s'infila oltre una porta socchiusa. I lineamenti aguzzi ricordavano un grifone. I capelli ros-
soscuri si intonavano con la barbetta meticolosamente curata. Gli occhi sembravano sprizzare scintille. L'ammiraglio James Sandecker non era il tipo che entrava con discrezione in una stanza: la prendeva d'assalto. «Lieto di rivedervi, ragazzi», dichiarò in tono più ufficiale che amichevole. «Ho saputo che la vostra scoperta di quella nave antica potrebbe cambiare i libri di storia. I media stanno facendo un gran chiasso.» «Sì, abbiamo avuto fortuna», disse Pitt. «Posso presentarle la dottoressa Lily Sharp? Lily, questo è l'ammiraglio James Sandecker.» Sandecker si accendeva sempre come un faro in presenza di una bella donna, e infatti s'illuminò. «Dottoressa, lei è la signora più incantevole che abbia mai onorato questo club.» «Mi fa piacere constatare che il club non opera discriminazioni contro le donne.» «Non certo perché i soci hanno una mentalità aperta», insinuò Giordino. «Molte donne preferirebbero farsi l'antitetanica piuttosto di venire qui ad ascoltare vecchi relitti che continuano a parlare dei loro ricordi di guerra.» Sandecker gli lanciò un'occhiata fulminante. Lily guardò entrambi, e si chiese se non era capitata in mezzo a una vecchia faida. Pitt represse una risata ma non riuscì a nascondere un sorriso. Da dieci anni assisteva a quegli scambi di battute. Tutti coloro che li conoscevano bene sapevano che Giordino e Sandecker erano ottimi amici. Lily preferì una ritirata strategica. «Signori, se uno di voi vuol dirmi dove si trova la toilette per le signore, andrei a rinfrescarmi.» Sandecker indicò un corridoio. «Prima porta a destra. Faccia pure con comodo.» Appena Lily si fu allontanata, l'ammiraglio fece segno a Pitt e Giordino di seguirlo in un salottino. Poi chiuse la porta. «Fra un'ora dovrò andare a una riunione con il segretario della Marina, e questa sarà la nostra unica occasione di parlare in privato. Quindi dovrò sbrigarmi prima del ritorno della dottoressa Sharp. Tanto per cominciare, lasciatemi dire che avete fatto un ottimo lavoro ritrovando il sottomarino sovietico e tenendo segreta la scoperta. Il presidente è stato molto soddisfatto quando l'ha saputo e mi ha incaricato di ringraziarvi.» «Quando incominciamo?» chiese Giordino. «Incominciamo... che cosa?» «L'operazione segreta per il recupero.» «I nostri servizi segreti insistono perché aspettiamo. Hanno intenzione di
rifilare ai sovietici una serie di informazioni fuorvianti. Vogliono fargli credere che un'ulteriore ricerca sarebbe uno spreco di soldi dei contribuenti e che ormai l'abbiamo data come una causa persa.» «Per quanto tempo?» chiese Pitt. «Forse per un anno. Il tempo necessario perché gli specialisti preparino i piani e costruiscano le attrezzature per il progetto.» Pitt fissò l'ammiraglio con aria insospettita. «Ho l'impressione che non saremo inclusi.» «Indovinato», rispose Sandecker in tono secco. «Come dicono nei comandi di polizia, il caso non è più vostro.» «Posso sapere il perché?» «Perché ho un incarico più importante da affidare a voi due.» «Che cosa può esserci di più importante che rubare i segreti del più temibile sottomarino sovietico?» insistette Pitt. «Una vacanza in montagna», rispose Sandecker. «Non c'è niente di meglio dell'aria tonificante e della neve delle Montagne Rocciose. Vi abbiamo prenotato tre posti su un volo commerciale per Denver, domattina alle dieci e tre quarti. La dottoressa Sharp vi accompagnerà.» Pitt lanciò un'occhiata a Giordino che si limitò ad alzare le spalle. Si rivolse di nuovo a Sandecker. «È un premio o un esilio?» «Diciamo che è una vacanza di lavoro. Il senatore Pitt vi spiegherà i particolari.» «Mio padre?» «L'aspetta questa sera a casa sua.» Sandecker tirò fuori dal taschino del panciotto un orologio d'oro dal quadrante d'avorio. «Non dobbiamo far aspettare una bella signora.» Sandecker si avviò verso la porta mentre Pitt e Giordino restavano inchiodati al centro del salotto. «Non faccia il misterioso, ammiraglio!» disse bruscamente Pitt. «Se non si decide a giocare a carte scoperte, niente al mondo potrà farmi salire domani su quell'aereo.» «Accetti anche le mie scuse», disse Giordino. «Sento che sta per arrivarmi un attacco di micosi del Borneo.» Sandecker si fermò di colpo, si voltò, inarcò un sopracciglio e fissò Pitt. «Non m'imbroglia neanche per un momento, giovanotto. Non le importa niente del sottomarino sovietico, ma smania di scoprire le reliquie della Biblioteca di Alessandria. Ci tiene tanto che sarebbe disposto a rinunciare per sempre al sesso.»
Pitt assunse un'aria tollerante. «Ottima intuizione, come al solito. E ottimo servizio informazioni. Avevo intenzione di consegnarle la trascrizione del diario di bordo della Serapis al nostro ritorno a Washington. È chiaro che qualcuno mi ha battuto sul tempo.» «È stato il comandante Knight. Ha trasmesso in codice via radio la traduzione del dottor Redfern al dipartimento della Marina, che l'ha inoltrata al Consiglio Nazionale per la Sicurezza e al presidente. Ne ho letto una copia prima che voi partiste dall'Islanda. Avevate scoperchiato il vaso di Pandora e non ve ne rendevate conto. Se quel nascondiglio esiste e se è possibile ritrovarlo, scatenerà il finimondo. Ma non è il caso di parlarne. Questo compito è stato affidato a suo padre per ragioni che potrà spiegarle meglio lui stesso.» «E Lily che cosa c'entra?» «Fa parte della vostra copertura, nell'eventualità che ci sia una fuga di notizie o che il KGB sospetti che il sottomarino è stato effettivamente ritrovato. Martin Brogan vuol fare sapere a tutti che state lavorando, in assoluta legalità, a un progetto archeologico. Perciò vi ho invitati al club, e suo padre le riferirà tutto più tardi. I vostri movimenti devono apparire normalissimi, nel caso che foste pedinati.» «Mi sembra un'esagerazione.» «La burocrazia opera in modi misteriosi», disse Giordino in tono rassegnato. «Chissà se potrò procurarmi i biglietti per una partita dei Denver Broncos.» «Mi fa piacere vedere che la pensiamo allo stesso modo», disse Sandecker con aria soddisfatta. «Adesso andiamo a tavola. Ho fame.» Lasciarono Lily al Jefferson Hotel. Lei li abbracciò entrambi ed entrò nell'atrio, seguita da un facchino che le portava i bagagli. Pitt e Giordino dissero all'autista di condurli al palazzo a vetri alto dieci piani che era la sede centrale della NUMA. Giordino andò direttamente al suo ufficio al quarto piano mentre Pitt rimase in ascensore e salì al reparto comunicazioni e informazioni all'ultimo piano. Lasciò la borsa all'impiegata ma ne prese una busta che mise nella tasca della giacca. Si aggirò tra le file interminabili di apparecchi elettronici e di computer fino a quando trovò un uomo che, seduto a gambe incrociate sul pavimento piastrellato, contemplava un registratore in miniatura estratto da un grosso canguro di peluche.
«Canta Waltzing Matilda con voce stonata?» chiese Pitt. «Come fai a saperlo?» «Ho tirato a indovinare.» Hiram Yaeger alzò la testa e sorrise. Aveva una faccia maliziosa e i capelli biondi e lisci raccolti in una coda di cavallo. La barba riccia sembrava presa a nolo in un magazzino di costumi. Portava un paio di occhialetti rotondi dalla montatura metallica ed era vestito come uno scalcagnato cowboy da rodeo, con vecchi Levi's e stivali che persino un barbone avrebbe buttato nella spazzatura. Sandecker aveva rapito Yaeger a una industria di computer di Silicon Valley in California e gli aveva dato mano libera per creare dal niente il complesso dati della NUMA. Era un matrimonio ideale fra la genialità umana le CPU. Yaeger era il supervisore di una sterminata biblioteca d'informazioni che conteneva tutti i rapporti conosciuti e tutti i libri scritti sugli oceani terrestri. Yaeger studiò il registratore e l'altoparlante del pupazzo con aria critica. «Io avrei potuto realizzare un sistema migliore servendomi degli utensili di cucina.» «Puoi ripararlo?» «Probabilmente no.» Pitt scosse la testa e indicò i computer. «Hai realizzato tutto questo ma non puoi riparare un semplice mangiacassette?» «Non mi va.» Yaeger si alzò, entrò in un ufficio e mise il canguro sulla scrivania. «Forse un giorno, quando mi verrà l'ispirazione, lo modificherò in una lampada parlante.» Pitt lo seguì e chiuse la porta. «Ti andrebbe un progetto più interessante?» «Di che genere?» «Ricerca.» «Vediamo.» Pitt prese la busta dalla tasca e la porse a Yaeger. Il mago dei computer della NUMA si abbandonò su una sedia, aprì la busta ed estrasse il contenuto. Esaminò in fretta la trascrizione battuta a macchina, poi la rilesse, più lentamente. Dopo un lungo silenzio sbirciò Pitt al di sopra degli occhiali. «Questa roba viene dalla vecchia nave che avete trovato?» «Lo sai già?» «Dovrei essere cieco e sordo per non saperlo. Giornali e televisione non
parlano d'altro.» Pitt indicò con un cenno i fogli che Yaeger teneva in mano. «È una traduzione del diario di bordo di quella nave.» «Che cosa vuoi che faccia?» «Dai un'occhiata alla pagina con la mappa.» Yaeger sollevò il foglio e studiò le linee prive di indicazioni. «Vuoi che stabilisca una corrispondenza con una località geografica conosciuta?» «Se è possibile», disse Pitt. «Non c'è molto su cui basarmi. Che cos'è?» «Un tratto di costa dell'oceano e un fiume.» «Quando fu disegnata?» «Nel 391 dopo Cristo.» Yaeger lanciò a Pitt un'occhiata pensierosa. «Tanto varrebbe chiedermi di trovarti i nomi delle vie di Atlantide.» «Programma i tuoi amichetti elettronici per una proiezione della rotta della nave dopo la partenza della flotta da Cartagena. Potresti anche procedere a ritroso dal luogo del naufragio in Groenlandia. Ho incluso la posizione.» «Devi renderti conto che il fiume potrebbe non esistere più.» «Ci avevo pensato anch'io.» «E ho bisogno dell'autorizzazione dell'ammiraglio.» «Te la farò avere domattina.» «D'accordo», promise Yaeger con aria cupa. «Farò del mio meglio. Qual è la scadenza?» «Insisti finché non avrai trovato qualcosa», rispose Pitt. «Io dovrò lasciare Washington per un po'. Mi farò vivo dopodomani per vedere come va.» «Posso fare una domanda?» «Sicuro.» «È davvero molto importante?» «Sì», rispose Pitt. «Credo di sì. Forse è molto più importante di quanto io e te possiamo immaginare.» 23. Quando il padre di Pitt aprì la porta della casa di stile coloniale in Massachusetts Avenue a Bethesda, Maryland, indossava un paio di pantaloni kaki stinti e un maglione sciupato. Il Socrate del Senato era famoso per i
suoi doppiopetto eleganti, sempre ornati all'occhiello da un papavero dorato della California. Ma quando era lontano dagli sguardi del pubblico si vestiva come un allevatore accampato in mezzo ai pascoli. «Dirk!» esclamò abbracciando calorosamente il figlio. «Ti vedo troppo di rado, di questi tempi.» Pitt gli passò un braccio intorno alle spalle. Entrarono in uno studio dalle pareti rivestite di legno e con gli scaffali dei libri che andavano dal pavimento al soffitto. Sotto l'elegante mensola di tek scolpito scoppiettava allegramente un fuoco. Il senatore indicò una poltrona al figlio e andò dietro il banco del bar. «Bombay gin martini con uno spruzzo di limone, non è vero?» «Fa un po' freschetto per il gin. Preferirei un Jack Daniel's liscio.» «A ciascuno il suo veleno.» «Come sta mamma?» «È in un centro salutista alla moda, una fattoria in California, per la sua crociata annuale di dimagrimento. Tornerà dopodomani, ingrassata d'un chilo.» «Non si arrende mai, eh?» «Ma almeno così è contenta.» Il senatore porse al figlio il bourbon e si versò un porto. Alzò il bicchiere: «Al tuo viaggio in Colorado». Pitt non bevve. «Chi ha avuto l'idea geniale di mandarmi a sciare?» «Io.» Pitt bevve un sorso di Jack Daniel's e fissò il padre. «Che interesse hai per i manufatti della Biblioteca di Alessandria?» «Un grosso interesse, se esistono davvero.» «Parli come privato cittadino o come burocrate?» «Come patriota.» «E va bene.» Pitt sospirò. «Mettimi al corrente. Perché l'arte e la letteratura classiche e la bara di Alessandro il Grande hanno un'importanza tanto grande per gli Stati Uniti?» «Questo non c'entra affatto», disse il senatore. «La parte più interessante dell'inventario è costituita dalle mappe che mostrano le ricerche geologiche del mondo antico. Le perdute miniere d'oro dei faraoni, le miniere di smeraldi dimenticate di Cleopatra, la favolosa terra di Punt, celebre per l'abbondanza dell'argento, dell'antimonio e del suo eccezionale oro verde: tutte località conosciute due e tremila anni fa ma poi sepolte nell'oblio del tempo. E c'era anche la leggendaria terra di Ophir con i suoi minerali pre-
ziosi: la sua ubicazione è tuttora un mistero. Le miniere di re Salomone, di Nabucodonosor di Babilonia, e della regina di Saba, il cui regno oggi è solo un ricordo biblico. La ricchezza dei secoli è ancora sepolta sotto le sabbie del Medio Oriente.» «E se anche venisse scoperta? Come possono interessare al nostro governo i giacimenti di minerali preziosi appartenenti ad altri Paesi?» «Possono servire come pedine di scambio», rispose il senatore. «Se saremo in grado di indicare la strada, potremo intavolare trattative e organizzare joint ventures per lo sfruttamento di questi giacimenti. Inoltre potremo acquistare merito agli occhi dei vari dirigenti nazionali e garantirci quelle simpatie di cui abbiamo tanto bisogno.» Pitt scosse la testa. «Per me è una novità che il Congresso si dedichi alle prospezioni minerarie in nome dei buoni rapporti con l'estero. Deve esserci sotto qualcosa d'altro.» Il senatore annuì, un po' sorpreso dall'intuito del figlio. «È vero. Conosci il termine 'trappola stratigrafica'?» «Direi.» Pitt sorrise. «Ne ho trovata una nel mare del Labrador al largo della provincia del Quebec, pochi anni fa.» «Sì, il progetto Doodlebug. Lo ricordo.» «Una trappola stratigrafica è uno dei giacimenti petroliferi più difficili da scoprire. La normale esplorazione sismica non serve. Eppure molto spesso sono giacimenti ricchissimi.» «E questo ci porta al bitume, che veniva usato in Mesopotamia già cinquemila anni fa per impermeabilizzare le costruzioni, i canali, i tubi di drenaggio in argilla e le imbarcazioni. Era utilizzato anche per costruire le strade, curare le ferite, produrre adesivi. Molto più tardi i greci parlarono di sorgenti di petrolio lungo la costa nordafricana. I romani segnalarono una località del Sinai che chiamarono Monte del Petrolio. E la Bibbia dice che Dio ordinò a Giacobbe di estrarre l'olio da una roccia simile alla selce, e descrive la valle di Siddim piena di pozze di fanghiglia, che possono essere interpretate come pozze di catrame.» «Nessuna di quelle aree è stata riscoperta o trivellata?» chiese Pitt. «Ci sono state trivellazioni, sì, ma finora i risultati non sono significativi. I geologi sostengono che ci sono novanta probabilità su cento di trovare cinquecento milioni di barili di greggio soltanto sotto Israele. Purtroppo i siti antichi sono andati perduti e coperti nel corso dei secoli a causa dei terremoti e degli sconvolgimenti.» «Allora lo scopo principale è trovare un mare di petrolio in Israele.»
«Devi ammettere che risolverebbe una quantità di problemi.» «Sì, credo di sì.» Il senatore e Pitt rimasero in silenzio per un minuto, con gli sguardi fissi sul fuoco. Se Yaeger e i suoi computer non avessero scoperto una pista, non c'erano molte speranze. Pitt provò un senso d'irritazione al pensiero che i detentori del potere della Casa Bianca e del Congresso fossero interessati al petrolio e all'oro più che all'arte e alla letteratura grazie alle quali sarebbe stato possibile colmare le lacune della storia. E questo, pensò, non getta una luce molto fulgida sugli affari di Stato. Il silenzio fu spezzato dal trillo del telefono. Il senatore andò alla scrivania e sollevò il ricevitore. Non disse nulla. Rimase in ascolto per un momento e riattaccò. «Mi chiedo se troverò nel Colorado la biblioteca perduta», commentò Pitt in tono brusco. «Tutti gli interessati se ne meraviglierebbero», disse il senatore. «Il mio staff ti ha organizzato un briefing con la massima autorità sull'argomento. Il dottor Bertram Rothberg, professore di storia antica all'università del Colorado, ha dedicato l'intera esistenza allo studio della Biblioteca di Alessandria. Ti fornirà i dati di base che potrebbero aiutarti nella ricerca.» «Perché devo andare io da lui? Mi sembra che sarebbe molto più pratico se venisse a Washington.» «Hai parlato con l'ammiraglio Sandecker?» «Sì.» «Allora sai quanto sia importante separare il più nettamente possibile te e Al Giordino e la scoperta del sottomarino sovietico. La telefonata di un momento fa era di un agente dell'FBI; sta pedinando un agente del KGB il quale sta pedinando te.» «Mi fa piacere sapere di essere così popolare.» «Non devi fare mosse che destino sospetti.» Pitt annuì in segno d'approvazione. «Magnifico. Ma supponiamo che i russi vengano a sapere della missione. Anche loro avrebbero tutto da guadagnare se riuscissero a mettere le mani sui dati della biblioteca.» «La possibilità esiste ma è estremamente remota», disse il senatore con aria guardinga. «Abbiamo preso tutte le precauzioni possibili per tenere segrete le tavolette di cera.» «Un'altra domanda.» «Sentiamo.» «Io sono sorvegliato», disse Pitt. «Che cosa impedirà al KGB di seguir-
mi fin dal dottor Rothberg?» «Niente», rispose il senatore. «Abbiamo intenzione di star seduti ad applaudirli ai bordi del campo.» «Per mettere in scena la commedia dello status quo.» «Esattamente.» «Perché deve toccare a me?» «Per la tua L-29 Cord.» «La mia Cord?» «La macchina d'epoca che hai fatto restaurare a Denver. Il carrozziere al quale l'hai affidata ha telefonato a me la settimana scorsa e ha detto di riferirti che il lavoro è ultimato e che il risultato è una meraviglia.» «Quindi io vado in Colorado sotto la luce dei riflettori per ritirare la mia auto da collezione, ne approfitto per sciare un po' e per partecipare a qualche festa in compagnia della dottoressa Sharp.» «Esattamente», ripeté il senatore. «Prenderai alloggio all'Hotel Breckenridge. Troverai un messaggio che spiegherà dove e quando dovrai metterti in contatto con il dottor Rothberg.» «Ricordami che non dovrò mai comprare un cavallo da te.» Il senatore rise. «Anche tu hai combinato la tua parte di piccoli imbrogli.» Pitt finì il bourbon, si alzò e posò il bicchiere sulla mensola. «Ti dispiace se alloggio nello chalet di famiglia?» «Preferirei che restassi alla larga.» «Ma gli sci e gli scarponi li ho messi nel garage.» «Puoi prendere l'attrezzatura a nolo.» «È ridicolo!» «Non è tanto ridicolo», disse il senatore con voce calma. «Tieni presente che se aprissi la porta dello chalet ti sparerebbero addosso.» «È proprio sicuro di voler scendere qui, amico?» chiese il tassista fermandosi davanti a quello che sembrava un hangar abbandonato in. un angolo dell'aeroporto internazionale di Washington. «Il posto è questo», rispose Pitt. Il tassista girò lo sguardo sull'area buia e deserta. Aveva tutta l'aria di un tentativo di rapina, pensò. Si chinò per prendere sotto il sedile anteriore un pezzo di tubo metallico che teneva a portata di mano per quell'eventualità. Continuò a fissare con aria apprensiva lo specchietto retrovisore mentre Pitt prendeva il portafogli dalla tasca interna. Poi si rilassò un poco. Il
cliente non si comportava come un rapinatore. «Quanto le devo?» «Il tassametro segna otto e sessanta.» Pitt pagò, lasciò il resto come mancia e scese. Poi aspettò che il tassista aprisse il baule e scaricasse il bagaglio. «Che razza di posto», borbottò il tassista. «C'è qualcuno che mi aspetta.» Pitt attese fino a quando vide i faretti rossi del taxi sparire in lontananza, poi disattivò il sistema d'allarme dell'hangar con il telecomando tascabile ed entrò da una porta laterale. Premette un codice sul telecomando e l'interno fu inondato da una vivida luce fluorescente. L'hangar era la casa di Pitt. Il piano terreno era occupato da una scintillante collezione di automobili d'epoca e storiche. C'erano persino una vecchia carrozza ferroviaria Pullman e un aereo, un trimotore Ford. L'oggetto più bizzarro era una vasca da bagno di ghisa con il motore fuoribordo attaccato allo schienale. Pitt si avviò verso l'alloggio, situato al piano rialzato contro la parete di fondo. Salì una scaletta a chiocciola di ferro battuto e arrivò alla porta che dava in un soggiorno fiancheggiato da una parte da una camera da letto e uno studio e dall'altra da una saletta da pranzo e una cucina. Disfece il bagaglio e andò sotto la doccia. Fece scorrere l'acqua calda e orientò il getto contro la parete piastrellata. Si sdraiò con i piedi sollevati sotto le manopole per poter controllare la temperatura dell'acqua. Poi si assopì. Quarantacinque minuti più tardi indossò una vestaglia e accese il televisore. Stava per riscaldare un tegame di chili texano quando suonò il cicalino del citofono. Premette il pulsante, immaginando che gli avrebbe risposto Al Giordino. «Sì?» «Servizio ristoro Groenlandia», rispose una voce femminile. Pitt rise e premette il pulsante che apriva la porta laterale. Andò sul ballatoio e guardò in basso. Lily entrò con un grosso cesto da picnic. Si fermò e si guardò intorno sbalordita, abbagliata dalla luce che si specchiava sul mare di cromature e di vernici brillanti. «L'ammiraglio Sandecker ha tentato di descrivermi la tua tana», disse in tono d'ammirazione. «Ma non credo che le abbia reso giustizia.» Pitt scese la scala per andarle incontro. Prese il cesto da picnic e per po-
co non lo lasciò cadere. «Pesa una tonnellata. Che cosa c'è dentro?» «La nostra cena di mezzanotte. Ho fatto tappa a un delicatessen per comprare qualcosa.» «A giudicare dagli odori dev'essere un menù appetitoso.» «Incominciamo con salmone affumicato seguito da zuppa di funghi di bosco, insalata di spinaci con fagiano e noci, linguine in salsa d'ostriche al vino bianco, il tutto accompagnato da una bottiglia di Principessa Gavi. Per dessert c'è una zuppa inglese al cioccolato e al caffè.» Pitt guardò Lily e sorrise con sincera ammirazione. Il volto era mobilissimo, gli occhi splendenti, accesi da una vibrazione che non aveva mai notato. I capelli erano lunghi e lisci. L'abito aderente lasciava scoperta la schiena e i lustrini neri lampeggiavano a ogni passo. Non più nascosti dal pesante cappotto che aveva indossato dalla partenza dalla Groenlandia, i seni sembravano più colmi, i fianchi più snelli di quanto Pitt avesse immaginato. Le gambe erano lunghe e provocanti, e ogni movimento aveva una vivacità sensuale. Quando entrarono in soggiorno, Pitt posò il cesto su una sedia, poi le prese una mano. «Possiamo mangiare più tardi», disse con voce sommessa. Con un gesto automatico di timidezza Lily abbassò lo sguardo e poi lo rialzò, come attratta da una forza irresistibile. Gli occhi verdi di Pitt erano così penetranti che Lily si sentì piegare le ginocchia e tremare le mani. Arrossì. Era una reazione stupida, pensò. Aveva pianificato con molta calma la seduzione, fino alla scelta del vino, dell'abito e del reggiseno e delle mutandine di pizzo nero. Adesso, però, era travolta dalla confusione e dal dubbio. Non aveva immaginato che tutto procedesse tanto in fretta. Senza una parola, Pitt fece scivolare le spalline e lasciò cadere l'abito a lustrini in una gora scintillante intorno ai tacchi alti. Le passò le mani intorno alla vita e sotto le ginocchia, e la sollevò con un movimento fluido. Mentre la portava nella camera da letto Lily gli nascose il volto contro il petto. «Mi sembra d'essere una sgualdrina spudorata», mormorò. Pitt l'adagiò teneramente sul letto, la guardò e si sentì pervadere da un fuoco ardente. «Sarà meglio», disse con voce rauca, «che ti comporti come se lo fossi.» 24.
Yazid entrò nella sala da pranzo della sua villa. Si soffermò e annuì nel vedere il lungo tavolo coperto di piatti, vassoi, posate e calici, tutti di bronzo. «Spero che i miei amici abbiano gradito la cena.» Mohammed al-Hakim, un dotto mullah che era l'ombra di Yazid, scostò la sedia e si alzò. «Ottima come sempre, Akhmad. Ma ci è mancata la sua illuminata presenza.» «Allah non mi rivela i suoi voleri quando ho lo stomaco pieno», disse Yazid con un lieve sorriso. Girò lo sguardo sui cinque uomini che si erano alzati in piedi e rendevano omaggio alla sua autorità con diverse manifestazioni di rispetto. Erano tutti vestiti in modo diverso. Il colonnello Naguib Bashir, capo di un'organizzazione clandestina di ufficiali fedeli a Yazid, aveva indossato una gellaba con le maniche lunghe e il cappuccio per nascondere la sua identità quando aveva lasciato il Cairo. Un turbante dominava grottescamente la testa di al-Hakim, e la figura fragile era coperta dalle spalle ai piedi da una veste di cotone nero ormai liso. Mussa Moheidin, un giornalista che era il capo della Propaganda di Yazid, portava pantaloni e camicia sportiva aperta sul collo, mentre il giovane turco del gruppo, Khaled Fawzy, anima del consiglio rivoluzionario, ostentava l'uniforme da combattimento. Soltanto Suleiman Ammar era vestito impeccabilmente d'un abito da safari confezionato su misura. «Vi sarete chiesti perché ho indetto d'urgenza questa riunione», disse Yazid. «Quindi non perderò tempo. Allah mi ha ispirato un piano per liberarci del presidente Hasan e della sua banda di ladri corrotti con un sol colpo magistrale. Ora sedete, prego, e finite il caffè.» Yazid andò a una parete e premette un interruttore: una grande carta geografica colorata si srotolò lentamente. Ammar la riconobbe: era una tipica carta dell'America meridionale, usata nelle scuole egiziane. Un ingrandimento della città costiera di Punta del Este, in Uruguay, era circondato da un cerchio rosso. Alla metà inferiore della mappa era fissata una foto ingrandita di una lussuosa nave da crociera. Gli uomini sedettero di nuovo intorno al tavolo, senza cambiare espressione. Erano incuriositi, interessati. Attesero con pazienza la rivelazione che Allah aveva concesso al loro capo religioso. Soltanto Ammar mascherò lo scetticismo. Era troppo realista per credere a quelle pie invenzioni. «Fra sei giorni», esordì Yazid, «gli incontri internazionali per l'econo-
mia, resi inevitabili dalla crisi monetaria mondiale, avranno inizio nella località di villeggiatura di Punta del Este, già sede della conferenza del Consiglio Economico e Sociale Interamericano che proclamò l'Alleanza per il Progresso. Le nazioni debitrici, eccettuato l'Egitto, hanno deciso di ripudiare tutti i prestiti ricevuti e di rifiutarsi di pagarli. Questo atto costringerà al fallimento centinaia di banche negli Stati Uniti e in Europa. I banchieri occidentali e i loro esperti finanziari hanno chiesto colloqui ininterrotti in un ultimo tentativo di scongiurare la catastrofe economica. Il nostro presidente, servo degli imperialisti, è l'unico che non si è associato. Hasan parteciperà al colloquio e minerà la posizione dei nostri fratelli islamici e dei nostri amici del Terzo Mondo implorando i banchieri occidentali di concedere altri prestiti per conservare sull'Egitto quel potere che ormai gli sfugge. Ma noi non lo permetteremo. Bis Millah, con l'aiuto di Dio, approfitteremo di questo momento per imporre al nostro popolo un vero governo islamico.» «Uccidiamo il tiranno e facciamola finita», disse Khaled Fawzy in tono aspro. Era giovane, arrogante e privo di tatto, e la sua impazienza aveva già portato al fallimento di un tentativo di colpo di Stato da parte dei suoi studenti rivoluzionari che era costato trenta vite. Girò gli occhi scuri sui presenti. «Un missile terra-aria ben diretto, quando l'aereo di Hasan partirà per l'Uruguay, e ci saremo liberati per sempre del suo regime corrotto.» «E avremo aperto al ministro della Difesa Abu Hamid la strada per imporsi come dittatore prima che noi siamo pronti», concluse Mussa Moheidin. Il famoso scrittore egiziano aveva sessantacinque anni; era un uomo posato, eloquente e spiritoso, dai modi garbati. Moheidin era l'unico tra i presenti che Ammar rispettasse veramente. Yazid si rivolse a Bashir: «È una previsione valida, colonnello?» Bashir annuì. Era un individuo vanitoso e superficiale che si affrettò a esporre il suo punto di vista limitato. «Mussa ha ragione. Abu Hamid le fa penzolare davanti agli occhi la promessa del suo aiuto con la scusa che si attende da lei un mandato del popolo. È solo una tattica per prendere tempo. Hamid è ambizioso. Conta sulla possibilità di servirsi dell'esercito per proclamarsi presidente.» «È verissimo», disse Fawzy. «Uno dei suoi collaboratori più stretti fa parte del movimento, e ha rivelato che Hamid progetta di diventare presidente e di consolidare la sua posizione sposando Hala Kamil, che è benvoluta dalla popolazione.» Yazid sorrise. «Ha costruito un castello di sabbia. Hala Kamil non sarà
disponibile per la cerimonia nuziale.» «È proprio certo?» chiese Ammar. «Sì», rispose con calma Yazid. «Allah vuole che non viva oltre il prossimo sole.» «La prego di dividere con noi la rivelazione, Akhmad», implorò alHakim. Diversamente dagli altri che gli stavano intorno, al-Hakim aveva la faccia di chi ha trascorso metà della vita in una segreta. La carnagione pallida era quasi trasparente. Ma gli occhi, ingranditi dalle lenti spesse, avevano un'espressione decisa, incrollabile. Yazid annuì. «Le mie fonti messicane mi hanno informato che, in seguito a un imprevisto afflusso di turisti, a Punta del Este scarseggiano le stanze negli alberghi di lusso e nelle residenze principesche. Per evitare che il loro Paese perda l'occasione di ospitare i colloqui internazionali, i dirigenti uruguaiani hanno deciso che i governanti stranieri e i loro seguiti siano ospitati su navi da crociera prese a nolo e ancorate nel porto. Hasan e la delegazione egiziana saranno su un transatlantico britannico, il Lady Flamborough. A bordo ci saranno anche il presidente messicano De Lorenzo e i suoi collaboratori.» Yazid s'interruppe e girò lo sguardo sugli ascoltatori. Poi disse: «Allah mi è apparso in una visione e mi ha ordinato d'impadronirmi della nave». «Allah sia lodato!» esclamò Fawzy. Gli altri si scambiarono occhiate incredule. Poi rivolsero di nuovo l'attenzione a Yazid senza formulare domande. «Vedo dalla vostra espressione, amici miei, che dubitate della mia visione.» «Mai!» rispose al-Hakim in tono solenne. «Ma forse ha interpretato erroneamente il comando di Allah.» «No, era chiarissimo. È necessario impadronirci della nave con il presidente Hasan e i suoi ministri.» «A quale scopo?» chiese Mussa Moheidin. «Per isolare Hasan e impedire il suo ritorno al Cairo mentre le forze islamiche prendono il potere.» «Abu Hamid impiegherà l'esercito per sventare un colpo di Stato se non sarà lui a organizzarlo», ammonì il colonnello Bashir. «Questo lo so con certezza.» «Hamid non potrà arrestare la marea del fervore rivoluzionario», replicò Yazid. «L'inquietudine è al massimo. Le masse sono stanche dell'austerità imposta dalla restituzione dei prestiti stranieri. Lui e Hassan stanno com-
mettendo un suicidio perché non denunciano gli empi prestatori di denaro. L'Egitto può essere salvato solo se abbraccerà la purezza della legge islamica.» Khaled Fawzy balzò in piedi e alzò un pugno. «Basta che mi dia l'ordine, Akhmad, e farò scendere per le strade un milione di persone.» Yazid tacque per un istante, ansimando. Poi disse: «Il popolo aprirà la via. Io lo seguirò». Al-Hakim aveva assunto un'espressione grave. «Devo ammetterlo... ho presentimenti spiacevoli.» «Questa è vigliaccheria!» esclamò Fawzy in tono di sfida. «Mohammed al-Hakim è molto più saggio di lei», disse Moheidin in tono paziente. «E so quel che pensa. Non vuole che si ripeta il fiasco dell'Achille Lauro dell'85, quando i palestinesi sequestrarono la nave da crociera italiana e assassinarono un vecchio ebreo invalido su una sedia a rotelle.» Bashir intervenne. «Un massacro terroristico non aiuterà la nostra causa.» «Vorreste andare contro la volontà di Allah?» chiese Yazid in tono irritato. Tutti cominciarono a parlare contemporaneamente. L'atmosfera si arroventò sempre più mentre infuriava la discussione. Ammar era l'unico che si manteneva distaccato. Sono idioti, pensava. Maledetti idioti. Si astrasse dal dibattito e fissò la foto della nave da crociera. Gli ingranaggi della sua mente cominciarono a mettersi in moto. «Non siamo soltanto egiziani», disse Bashir. «Siamo arabi. Le altre nazioni arabe si schiereranno contro di noi se assassineremo i nostri governanti e i loro che si ritroveranno in mezzo. Non lo considereranno un dono di Allah, ma un complotto terroristico politico.» Moheidin indicò Fawzy. «Khaled ha ragione. È meglio uccidere Hasan sul territorio nazionale piuttosto che causare un bagno di sangue a bordo di una nave dove si trovano anche il presidente messicano e la sua delegazione.» «Non possiamo ammettere un atto di terrorismo di massa», disse alHakim. «Le conseguenze negative sarebbero disastrose per il nostro governo.» «Siete tutti vermi degni di Hasan», sibilò Fawzy. «Io dico che dobbiamo attaccare la nave e mostrare al mondo intero la nostra potenza.» Nessuno prestò attenzione al fanatico militante che odiava con la stessa ferocia gli ebrei e i cristiani.
«Non capisce, Akhmad?» insistette Bashir. «Sarà impossibile penetrare gli sbarramenti di sicurezza di Punta del Este. Le motovedette uruguaiane saranno più numerose delle locuste. Tutte le navi che ospiteranno i partecipanti al vertice saranno ben protette. Lei sta parlando dell'assalto suicida di un commando. Non è possibile.» «Avremo l'aiuto di una fonte che deve restare protetta dal segreto», disse Yazid. Si voltò e fissò Ammar. «Tu, Suleiman... sei il nostro esperto in materia di operazioni clandestine. Se fosse possibile introdurre a bordo del Lady Flamborough una squadra dei nostri combattenti migliori senza che vengano scoperti, si potrebbe impadronirsi della nave e tenerla fino a quando noi avremo istituito una repubblica islamica?» «Sì», rispose Ammar senza staccare gli occhi dalla foto della nave da crociera. La voce era bassa, ma carica di una convinzione assoluta. «Sei giorni non sono molti, ma la nave può essere sequestrata con dieci guerriglieri esperti e cinque marinai, e senza spargimento di sangue, se potremo contare sul fattore sorpresa.» Gli occhi di Yazid s'illuminarono. «Ah, sapevo di poter contare su di te!» «Impossibile!» ruggì Bashir. «Non riuscireste mai a far entrare tanti uomini in Uruguay senza destare sospetti. E anche se per miracolo vi impadroniste della nave e riduceste all'impotenza l'equipaggio, tutte le squadre speciali d'assalto dell'Occidente vi piomberebbero addosso entro ventiquattr'ore. Potreste considerarvi fortunati se riusciste a resistere più di qualche ora.» «Io posso prendere il Lady Flamborough e tenerlo per due settimane.» Bashir scosse la testa. «Sta sognando.» «E come sarebbe possibile?» chiese Moheidin. «M'interessa sapere come si propone di battere un esercito di esperti della sicurezza internazionale senza una battaglia campale.» «Io non intendo combattere.» «Ma è assurdo!» esclamò Yazid. «Non proprio», disse Ammar. «Basta conoscere il trucco.» «Il trucco?» «Precisamente.» Ammar sorrise. «Vedete, io intendo far scomparire il Lady Flamborough con l'equipaggio e i passeggeri.» 25.
«La mia è una visita non ufficiale», disse Julius Schiller a Hala Kamil mentre entravano nel salotto rustico dello chalet del senatore Pitt. «I miei collaboratori stanno dicendo a tutti che sono andato a pescare a Key West.» «Capisco», disse Hala. «Sono lieta di avere la possibilità di parlare con qualcuno, a parte il cuoco e le guardie del servizio segreto.» Hala era molto elegante nella giacca islandese di lana marrone con i pantaloni in tinta, e sembrava ancora più giovane di quanto la ricordasse Schiller. In quanto a lui, si sentiva un po' fuori posto in una località sciistica con l'abito da passeggio, le scarpe a punta e la borsa portadocumenti. «Posso fare qualcosa per rendere più sopportabile il suo soggiorno forzato?» «No, grazie. Non c'è niente che possa alleviare la frustrazione dell'inattività quando avrei tanto da fare.» «Fra pochi giorni sarà tutto finito», disse Schiller per consolarla. «Non mi aspettavo di vederla qui, Julius.» «È emerso all'improvviso qualcosa che riguarda l'Egitto. Il nostro presidente ritiene opportuno che lei venga consultata per quanto riguarda un recente avvenimento.» Hala ripiegò le gambe e bevve un sorso di tè. «Dovrei sentirmi lusingata?» «Diciamo che il presidente le sarebbe grato per la sua collaborazione.» «A quale proposito?» Schiller aprì la borsa, consegnò a Hala un fascicolo e riprese a bere il suo tè. Rimase a osservare mentre il volto angelico si contraeva durante la lettura. Quando terminò l'ultima pagina, Hala chiuse la cartelletta e rivolse a Schiller uno sguardo penetrante. «Il pubblico è stato informato?» Schiller annuì. «La scoperta della nave sarà annunciata questo pomeriggio. Ma non parleremo dei tesori della Biblioteca di Alessandria.» Hala guardò dalla finestra. «La perdita della biblioteca, sedici secoli fa, è paragonabile a quello che succederebbe se all'improvviso il vostro presidente ordinasse di bruciare gli archivi di Washington, la Smithsonian Institution e la National Art Gallery.» Schiller annuì. «È un paragone calzante.» «C'è speranza di recuperare gli antichi libri?» «Per ora non lo sappiamo. Le tavolette incerate trovate sulla nave hanno fornito poche indicazioni. Il nascondiglio potrebbe essere in qualunque lo-
calità fra l'Islanda e il Sud Africa.» «Comunque, avete intenzione di cercarlo», disse Hala, con interesse crescente. «Il progetto per la scoperta è già in corso.» «Chi altri lo sa?» «Soltanto il presidente, io e pochi membri fidati del nostro governo. E ora lo sa anche lei.» «Perché avete incluso me e non il presidente Hasan?» Schiller si alzò e attraversò la stanza. Poi si girò di nuovo verso Hala. «Forse non resterà al potere ancora per molto tempo. Riteniamo che informazioni di tale importanza non debbano cadere nelle mani sbagliate.» «Akhmad Yazid?» «Per essere sincero, sì.» «Il suo governo dovrà trattare con lui, prima o poi», osservò Hala. «Se sarà possibile ritrovare i tesori della biblioteca e i preziosi dati geologici, Yazid pretenderà che vengano consegnati all'Egitto.» «Ce ne rendiamo conto», disse Schiller. «E questo è lo scopo del nostro incontro qui a Breckenridge. Il presidente desidera che lei annunci la scoperta imminente nel suo discorso alle Nazioni Unite.» Hala fissò Schiller per un momento con aria pensierosa. Poi la collera s'insinuò nella sua voce. «Come posso dire che la scoperta è dietro l'angolo quando la ricerca potrebbe richiedere anni e anni e concludersi senza successo? Mi sembra vergognoso che il presidente e i suoi consiglieri si ostinino a fabbricare una menzogna e mi chiedano di avallarla. È un altro dei vostri stupidi giochi di politica estera mediorientale, Julius? Un tentativo dell'ultimo momento per tenere al potere il presidente Hasan ed erodere l'influenza di Akhmad Yazid? Dovrei essere lo strumento usato per ingannare il popolo egiziano e indurlo a credere che nel suo territorio stanno per venire scoperti ricchi giacimenti minerari, tali da trasformare un'economia depressa ed eliminare la miseria?» Schiller rimase in silenzio, senza smentire. «Si è rivolto alla donna sbagliata, Julius. Preferisco veder cadere il mio governo e morire per mano di carnefici di Yazid, piuttosto che illudere il mio popolo con false speranze.» «Nobili sentimenti», commentò Schiller. «Ammiro i suoi princìpi. Ma sono convinto della validità del piano.» «Il rischio è troppo grande. Se il presidente non sarà in grado di fornire
dati attendibili riguardo all'ubicazione della biblioteca, provocherà un disastro politico. Yazid ne approfitterà con una campagna propagandistica che allargherà la base del suo potere e lo renderà molto più forte di quanto riescano a immaginare i vostri esperti. Per la decima volta in dieci anni, gli esperti di politica estera degli Stati Uniti faranno la figura di buffoni dilettanti agli occhi del mondo.» «Sono stati commessi diversi errori», ammise Schiller. «Se almeno non vi foste intromessi nei nostri affari!» «Non sono venuto a discutere la politica mediorientale, Hala. Sono venuto a chiedere il suo aiuto.» Hala scosse la testa e la girò verso di lui. «Mi dispiace. Non posso piegarmi a una simile menzogna.» Schiller le lanciò uno sguardo carico di comprensione. Non insistette; pensava che fosse più prudente far marcia indietro. «Riferirò la sua risposta al presidente», disse. Riprese la borsa e si avviò verso la porta. «Resterà molto deluso.» «Aspetti!» Schiller si voltò e attese. Hala si alzò e gli andò vicino. «Mi provi che i suoi hanno una pista valida per individuare l'ubicazione dei manufatti della biblioteca, e io farò ciò che desidera la Casa Bianca.» «Darà l'annuncio?» «Sì.» «Mancano quattro giorni al suo discorso. Non abbiamo molto tempo.» «Sono le mie condizioni», disse bruscamente Hala. Schiller annuì. «Accetto.» Poi si voltò e uscì dalla porta. Muhammad Ismail guardò la berlina di Schiller che usciva dalla strada privata dello chalet del senatore Pitt e s'immetteva sulla 9 per dirigersi verso la stazione di Breckenridge. Non vide chi c'era sul sedile posteriore; e comunque non gli interessava. La macchina ufficiale, gli uomini che pattugliavano la zona e si parlavano a intervalli regolari con le ricetrasmittenti e le due guardie armate a bordo di un furgone Dodge all'entrata della strada privata gli bastavano per confermare l'informazione che gli agenti di Yazid avevano comprato a Washington. Ismail si appoggiò con noncuranza alla grossa Mercedes diesel, nascon-
dendo l'uomo che, seduto a bordo, scrutava con il binocolo dal finestrino aperto. Sul tettuccio, il portasci conteneva diverse paia di sci. Ismail indossava una tuta bianca da sciatore e un passamontagna dello stesso colore gli nascondeva la faccia. «Visto abbastanza?» chiese mentre fingeva di sistemare gli sci. «Ancora un minuto», rispose l'osservatore. Scrutava lo chalet parzialmente visibile fra gli alberi. Intorno al binocolo si poteva scorgere soltanto una folta barba nera e una massa di capelli in disordine. «Sbrighiamoci. Sto gelando.» «Ancora un minuto.» «Quanti sono?» chiese Ismail. «Non più di cinque uomini. Tre nella casa. Due sul furgone. Un uomo solo alla volta fa il giro all'esterno, e per non più di mezz'ora. Non lo fanno tutti i giorni. Il freddo dà fastidio anche a loro. Seguono lo stesso percorso sulla neve. Non c'è traccia di telecamere, ma probabilmente ne hanno una montata nel furgone, e il monitor è nella casa.» «Ci muoveremo in due gruppi», disse Ismail. «Uno entrerà nella casa, l'altro ucciderà la guardia all'esterno e distruggerà il furgone agendo da dietro, dove meno se l'aspettano.» L'osservatore abbassò il binocolo. «Hai intenzione di agire questa notte, Muhammad?» «No», rispose Ismail. «Domani, quando i porci americani si rimpinzeranno con il pasto del mattino.» «Un attacco di giorno è pericoloso.» «Non agiremo furtivamente al buio come fanno le donne.» «Ma la nostra unica via di fuga per raggiungere l'aeroporto passa per il centro della cittadina», protestò l'osservatore. «Le strade saranno piene di traffico e di centinaia di sciatori. Suleiman Ammar non rischierebbe un'avventura simile.» Ismail si voltò di scatto e schiaffeggiò l'osservatore con la mano guantata. «Sono io che comando, qui!» esclamò. «Suleiman è uno sciacallo sopravvalutato. Non pronunciare il suo nome in mia presenza.» L'osservatore non si lasciò intimorire. Un lampo ostile balenò negli occhi scuri. «Ci farai ammazzare tutti», disse senza alzare la voce. «Così sia», sibilò Ismail in un tono gelido come la neve. «Se moriremo perché muoia Hala Kamil, ne varrà la pena.» 26.
«Magnifica», disse Pitt. «Splendida, davvero splendida», mormorò Lily. Giordino annuì. «Un vero gioiello.» Erano in un'officina specializzata nel restauro di automobili d'epoca, e i loro sguardi di ammirazione erano rivolti a una L-29 Cord del 1930, un modello con il compartimento aperto per l'autista. La carrozzeria era bordeaux, i parafanghi di un color camoscio intonato al tettuccio di pelle che copriva lo scompartimento passeggeri. Elegante e slanciata, la macchina aveva le ruote anteriori motrici e questo contribuiva a darle un profilo basso. Il carrozziere che l'aveva costruita aveva allungato lo chassis al punto che misurava quasi cinque metri e mezzo dal muso al paraurti posteriore. All'incirca metà della lunghezza era occupata dal cofano, che incominciava con un radiatore tipo macchina sportiva e terminava con un parabrezza ad angolo. Era una macchina enorme e agile, un oggetto bellissimo appartenuto a un'epoca venerata dalle generazioni più anziane ma sconosciuta a coloro che erano venuti più tardi. L'uomo che aveva trovato la macchina in un vecchio garage, nascosta sotto il ciarpame di quarant'anni, e l'aveva restaurata, era fiero del risultato del suo lavoro. Robert Esbenson, un individuo alto dalla faccia da folletto e i limpidi occhi azzurri, lustrò affettuosamente il cofano per l'ultima volta con uno straccio e consegnò la Cord a Pitt. «Mi dispiace che se ne vada.» «Ha fatto un lavoro straordinario», commentò Pitt. «Ha intenzione di spedirla a casa sua?» «Non subito. Vorrei guidarla per qualche giorno.» Esbenson annuì. «Bene, allora lasci che regoli la carburazione e la distribuzione per questa altitudine. Qui siamo a milleseicento metri. Poi, quando tornerà in officina, darò disposizioni per spedirla a Washington.» «Posso salire anch'io?» chiese Lily. «Fino a Breckenridge», rispose Pitt. Si rivolse a Giordino. «Vieni con noi, Al?» «Perché no? La macchina presa a nolo possiamo lasciarla davanti al parcheggio.» Trasferirono i bagagli e dieci minuti più tardi Pitt fece svoltare la Cord nell'Interstatale 70 e puntò il muso lunghissimo della macchina verso le colline che conducevano alle Montagne Rocciose incappucciate di neve.
Lily e Al erano nel lussuoso compartimento passeggeri, e il vetro divisorio li separava da Pitt. Pitt non aveva alzato il tettuccio che proteggeva il posto dello chauffeur; stava allo scoperto, infagottato in un massiccio giaccone d'agnello, e assaporava il vento gelido che gli investiva la faccia. Per il momento pensava soltanto a guidare: scrutava gli strumenti per essere sicuro che la macchina, vecchia di sessant'anni, si comportasse a dovere. Si teneva sulla corsia di destra e lasciava che gli altri automobilisti lo superassero e si voltassero a guardare sbalorditi. Era soddisfatto ed euforico, mentre ascoltava il mormorio regolare del motore a otto cilindri e il tono smorzato della marmitta. Aveva l'impressione di controllare una creatura vivente. Se avesse avuto il più remoto presentimento di ciò cui andava incontro, avrebbe fatto dietro-front e sarebbe tornato a Denver. L'oscurità era scesa sullo Spartiacque Continentale quando la Cord entrò nella leggendaria cittadina mineraria del Colorado trasformata in una stazione sciistica. Si avviò lungo la strada principale dove le vecchie costruzioni conservavano ancora uno storico sapore western. I marciapiedi erano affollati dalla gente che veniva dalle piste e portava sulle spalle sci e bastoncini. Pitt parcheggiò vicino all'entrata dell'Hotel Breckenridge. Firmò il registro e ritirò al banco due messaggi telefonici. Lesse i due foglietti e li mise in tasca. «Il dottor Rothberg?» chiese Lily. «Sì, ci invita a cena nel suo appartamento. Il condominio è proprio di fronte all'albergo.» «A che ora?» chiese Giordino. «Alle sette e mezzo.» Lily diede un'occhiata all'orologio. «Ho appena quaranta minuti per fare la doccia e mettermi in ordine i capelli. È meglio che mi sbrighi.» Pitt le consegnò la chiave della stanza. «Tu sei alla duecentouno. Io e Al abbiamo le stanze adiacenti, a destra e a sinistra.» Appena Lily fu salita in ascensore con il facchino, Pitt accennò a Giordino di seguirlo nella cocktail lounge. Attese che la barista avesse preso le ordinazioni prima di passare il secondo messaggio all'amico. Giordino lesse a voce bassa. «'Il progetto biblioteca ha la precedenza assoluta. È urgente che trovi un indirizzo permanente per Alex entro i prossimi quattro giorni. Buona fortuna. Papà.'» Alzò gli occhi, confuso. «Ho
capito bene? Abbiamo solo quattro giorni per identificare l'ubicazione?» Pitt annuì. «Leggo il panico tra le righe e sento un brontolio di tuono negli ambienti altolocati di Washington.» «Tanto varrebbe che ci chiedessero di inventare una cura comune per l'herpes, l'AIDS e l'acne», borbottò Giordino. «Possiamo dire addio alla vacanza sugli sci.» «No, resteremo», ribatté Pitt in tono deciso. «Non possiamo far niente fino a che Yaeger non avrà un colpo di fortuna.» Poi si alzò. «A proposito di Yaeger, devo chiamarlo.» Trovò un telefono pubblico nell'atrio dell'albergo e chiamò con la carta di credito. Dopo quattro squilli sentì una voce che sembrava impegnata in uno sbadiglio. «Qui Yaeger.» «Hiram, sono Dirk. Come va la ricerca?» «Procede.» «Trovato niente?» «I miei tesorucci hanno setacciato tutti i dati geologici da Casablanca fino a Zanzibar. Non hanno trovato un solo punto lungo la costa africana che corrisponda al tuo disegno. C'erano tre possibilità remote, ma quando ho programmato i profili sulle trasformazioni delle masse continentali che potrebbero essere avvenute durante gli ultimi milleseicento anni, nessuno è risultato incoraggiante. Mi dispiace.» «E adesso che farai?» «Mi sto già dirigendo verso nord. Ci vorrà più tempo, data la frastagliatura delle coste che includono l'arcipelago Britannico, il Baltico e i Paesi scandinavi fino alla Siberia.» «Puoi farcela in quattro giorni?» «Solo se insisterai perché faccia lavorare ventiquattr'ore al giorno i collaboratori esterni.» «Insisto», disse Pitt. «Mi è stato appena comunicato che il progetto ha assunto la precedenza.» «Ce la metteremo tutta», asserì Yaeger, in un tono più gioviale che serio. «Sono a Breckenridge, nel Colorado. Se trovi qualcosa, chiamami all'Hotel Breckenridge.» Pitt comunicò il numero di telefono dell'albergo e quello della camera. Yaeger ripeté i numeri. «Bene, li ho segnati.» «Mi sembri di buon umore», commentò Pitt. «Perché non dovrei? Abbiamo già fatto parecchio.»
«Che cosa? Non sai ancora dove si trova il nostro fiume.» «È vero», rispose allegramente Yaeger. «Ma almeno sappiamo dove non è.» Cadevano fiocchi di neve enormi mentre i tre attraversavano la strada dall'albergo a un condominio a due piani rivestito in legno di cedro. Una scritta luminosa diceva SKIQUEEN. Salirono una scala e bussarono alla porta dell'appartamento 22B. Bertram Rothberg li accolse con un sorriso cordiale. Aveva una splendida barba grigia e vivaci occhi azzurri. Gli orecchi si ergevano come vele nel mare dei capelli grigi, e la figura massiccia era abbigliata d'una camicia rossa a scacchi e un paio di calzoni di velluto a coste. Se avesse avuto una scure in una mano e una sega nell'altra, avrebbe potuto passare per un boscaiolo. Strinse le mani ai tre calorosamente, senza presentazioni, come se conoscesse tutti da anni. Poi li condusse su per una stretta scala in un soggiorno-pranzo sotto un alto soffitto spiovente con lucernari. «Vi andrebbe un bottiglione di bordeaux scadente prima di cena?» chiese con un sorriso malizioso. Lily rise. «Io ci sto.» Giordino alzò le spalle. «Per me non fa alcuna differenza, purché sia bevibile.» «E lei, Dirk?» «Mi sembra una buona idea.» Pitt non chiese a Rothberg come li aveva riconosciuti; senza dubbio suo padre aveva comunicato le descrizioni. Il comportamento era quasi perfetto: Pitt sospettava che lo studioso di storia antica avesse lavorato in passato per qualcuno dei tanti servizi segreti governativi. Rothberg andò in cucina per versare il vino. Lily lo seguì. «Posso darle una mano a preparare...?» S'interruppe quando vide i piani di lavoro vuoti e i fornelli spenti. Rothberg notò la sua occhiata. «Sono un pessimo cuoco, quindi ho ordinato una cena pronta. Dovrebbero portarla verso le otto.» Indicò il divano del soggiorno. «Su, mettiamoci comodi attorno al fuoco.» Distribuì i bicchieri e sedette su una poltrona di pelle. Poi propose un brindisi. «Al successo della ricerca.» «Evviva!» esclamò Lily.
Pitt intervenne. «Mio padre mi ha detto che lei ha dedicato la vita allo studio della Biblioteca di Alessandria.» «Trentadue anni. Probabilmente avrei fatto meglio se mi fossi sposato, invece di frugare negli scaffali polverosi e rovinarmi gli occhi sui vecchi manoscritti. Per me è come avere un'amante. Donare senza chiedere. Non mi sono mai disamorato.» «Posso capire questa attrazione», disse Lily. Rothberg sorrise. «È logico che capisca, dato che è un'archeologa.» Si alzò e riattizzò il fuoco. Poi, quando fu certo che i ceppi bruciavano a dovere, tornò a sedere e continuò. «Sì, la biblioteca non era soltanto uno splendido monumento del sapere: era anche la più grande meraviglia del mondo antico e conteneva il patrimonio culturale di intere civiltà.» Rothberg parlava come se fosse in trance, come se la sua mente vedesse le ombre del passato. «L'arte e la letteratura dei greci, degli egizi, dei romani, gli scritti sacri degli ebrei, il sapere degli uomini più straordinari che il mondo abbia mai conosciuto, le opere divine della filosofia, le musiche di bellezza incredibile, gli antichi libri di successo, i capolavori della medicina e della scienza: era il più splendido repertorio di materiali e di conoscenza che fosse stato raccolto nell'antichità.» «Era aperta al pubblico?» chiese Giordino. «Non lo era certo a tutti i vagabondi», rispose Rothberg. «Ma gli studiosi e i ricercatori erano liberi di esaminare, catalogare, tradurre, riassumere e pubblicare ciò che volevano. Vedete, la biblioteca e l'annesso museo non erano semplici depositi. Là fu lanciata la vera scienza dell'erudiziene creativa. La biblioteca divenne il primo, vero luogo di consultazione, così come lo concepiamo oggi; i libri erano catalogati e ordinati sistematicamente. Il complesso veniva chiamato la Sede delle Muse.» Rothberg s'interruppe per controllare i bicchieri degli ospiti. «Al, direi che le andrebbe un altro po' di vino.» Giordino sorrise. «Non rifiuto mai.» «Lily? Dirk?» «Io non ho quasi assaggiato il mio», disse Lily. Dirk scosse la testa. «Per me basta così.» Rothberg riempì il bicchiere di Giordino e il proprio prima di proseguire. «Gli imperi e le nazioni che sono esistiti più tardi hanno un debito enorme con la Biblioteca di Alessandria. Poche istituzioni del sapere hanno prodotto tanto. Plinio, nel primo secolo dopo Cristo, scrisse la Storia natu-
rale che si può considerare la prima enciclopedia del mondo. Aristofane di Bisanzio, che diresse la biblioteca duecento anni prima di Cristo, fu il padre del dizionario. Callimaco, scrittore famoso ed esperto della tragedia greca, compilò il primo Chi è in centoventi libri. Il grande matematico Euclide ideò il primo testo di geometria che si conosca. Dionisio Trace organizzò la grammatica in un sistema coerente e pubblicò l'Arte grammatica che divenne il modello per tutte le lingue scritte e parlate. Questi uomini, e migliaia di altri, realizzarono risultati eccezionali mentre lavoravano alla biblioteca.» «Mi sembra che lei stia descrivendo un'università», osservò Pitt. «Infatti. La biblioteca e il museo, presi insieme, erano considerati l'università del mondo ellenistico. Le immense strutture di marmo bianco contenevano gallerie di quadri e di statue, teatri per la lettura delle poesie e le lezioni su ogni argomento, dall'astronomia alla geologia. C'erano anche dormitori, un refettorio, chiostri per la meditazione, un giardino zoologico e un orto botanico. Dieci grandi sale accoglievano le diverse categorie di volumi. Erano centinaia di migliaia, scritti a mano su papiro o su pergamena, quindi arrotolati e custoditi in cilindri di bronzo.» «Che differenza c'era?» chiese Giordino. «Il papiro è una pianta tropicale, e dai suoi steli gli egizi ricavavano una specie di carta. La pergamena, invece, era prodotta con la pelle di animali giovani, soprattutto vitelli, capretti e agnellini.» «È possibile che siano sopravvissuti per tanti secoli?» chiese Pitt. «La pergamena dovrebbe durare più del papiro», rispose Rothberg. Poi guardò Pitt. «Dopo milleseicento anni, le condizioni dipenderebbero dal posto dove sono custoditi. I rotoli di papiro provenienti dalle tombe egizie sono ancora leggibili dopo più di tre millenni.» «Grazie all'atmosfera calda e secca.» «Sì.» «E se i rotoli fossero stati sepolti lungo la costa settentrionale della Norvegia o della Russia?» Rodiberg chinò la testa, pensosamente. «Immagino che il gelo invernale li avrebbe conservati, ma durante l'estate sarebbero marciti per l'umidità.» Pitt sentiva profilarsi la sconfitta. Quella era l'ultima goccia. Le speranze di trovare intatti i manoscritti della biblioteca sembravano più esili che mai. Lily non condivideva il suo pessimismo. Era animata dall'eccitazione. «Se lei fosse stato al posto di Junius Venator, dottor Rothberg, quali libri
avrebbe salvato?» «È un interrogativo difficile», rispose Rothberg, e strizzò l'occhio. «Immagino che innanzi tutto avrei cercato di salvare le opere complete di Sofocle, Euripide, Aristotele e Piatone. Oltre a Omero, ovviamente. Aveva scritto quarantotto libri, ma a noi è giunto ben poco. Credo che avrei salvato tutti i volumi sulla storia della Grecia, degli etruschi, di Roma e dell'Egitto, fra i cinquantamila esistenti su questi temi, che si sarebbero potuti caricare sulle navi. Dovrebbero avere un interesse estremo, poiché l'intero patrimonio della letteratura, del materiale religioso e scientifico dell'Egitto è andato perduto. Non sappiamo quasi nulla degli etruschi, sebbene l'imperatore Claudio avesse scritto un'opera storica su di loro che doveva figurare nella biblioteca. Inoltre, avrei certamente portato via molte opere religiose sulle leggi e le tradizioni ebraiche e cristiane. Le rivelazioni di quei rotoli lascerebbero probabilmente di sasso gli studiosi moderni della Bibbia.» «E le opere scientifiche?» chiese Giordino. «Questo va da sé.» «E non dimentichiamo i libri di cucina», disse Lily. Rothberg rise. «Venator era un uomo efficiente. Avrebbe salvato un campionario generale della conoscenza dei suoi tempi, inclusi libri di cucina e di economica domestica. Qualcosa per tutti, diciamo.» «Soprattutto gli antichi dati geologici», puntualizzò Pitt. «Soprattutto quelli», ammise Rothberg. «Sappiamo che genere di uomo fosse?» chiese Lily. «Venator?» «Sì.» «Era il più noto intellettuale dei suoi tempi, un erudito e un insegnante famoso che proveniva da uno dei centri della cultura di Atene ed era diventato l'ultimo dei grandi curatori della Biblioteca di Alessandria. Fu il principale cronista della sua epoca. Sappiamo che scrisse più di cento opere di commenti politici e sociali sul mondo conosciuto, che coprivano quattromila anni. Nessuna di esse è giunta fino a noi.» «I ricercatori andrebbero a nozze se avessero per le mani i dati compilati da qualcuno più vicino di duemila anni al nostro passato», osservò Lily. «Che cos'altro sappiamo di lui?» s'informò Pitt. «Non molto. Aveva un gran numero di allievi che diventarono illustri esponenti della letteratura e della scienza. Uno di loro, Diocle di Antiochia, parla di lui in uno dei suoi scritti. Descrive Venator come un innova-
tore audace, pronto ad avventurarsi in campi che altri studiosi non osavano affrontare. Sebbene fosse cristiano, vedeva la religione soprattutto come una scienza sociale: e fu appunto questa la causa principale dell'attrito tra lui e il cristiano Teofilo, il fanatico vescovo di Alessandria. Teofilo si scagliò contro Venator e affermò che il museo e la biblioteca erano ricettacoli del paganesimo; alla fine, convinse l'imperatore Teodosio, un altro cristiano fanatico, a incendiare tutto. A quanto sembra, nei disordini che scoppiarono fra cristiani e non cristiani durante la distruzione Junius Venator fu assassinato dai seguaci di Teofilo.» «Ma ora sappiamo che riuscì a fuggire e a portar via il meglio della collezione», si intromise Lily. «Quando il senatore Pitt ha telefonato per comunicarmi ciò che avevate scoperto in Groenlandia», disse Rothberg, «mi sono emozionato come uno spazzino che scopre di aver vinto un milione di dollari alla lotteria.» «Potrebbe dirci dove crede che Venator avesse nascosto il tesoro?» chiese Pitt. Rothberg rifletté a lungo e alla fine disse a voce bassa: «Junius Venator non era un individuo comune. Seguiva una sua linea. Aveva accesso a una montagna di conoscenza. Doveva aver pianificato scientificamente la sua rotta, lasciando al caso solo le incognite. Fece senza dubbio un lavoro molto efficiente, se si considera che tutto è rimasto nascosto per milleseicento anni». Rothberg alzò le mani in un gesto rassegnato. «Non saprei darvi indicazioni. È troppo difficile immaginare che cosa avesse in mente Venator.» «Però un'idea dovrà pure averla», insistette Pitt. Rothberg fissò a lungo le fiamme che guizzavano nel camino. «Posso dire solo questo: il nascondiglio scelto da Venator dev'essere in un posto dove nessuno penserebbe mai di cercare.» 27. L'orologio di Ismail segnava le 7.58. Si nascose dietro un piccolo abete blu e scrutò lo chalet. Il fumo saliva da uno dei due comignoli, e il vapore usciva dagli sfiatatoi del riscaldamento. Sapeva che la Kamil aveva l'abitudine di alzarsi presto ed era una brava cuoca. Era logico immaginare che fosse già in piedi e che stesse preparando la colazione per le guardie. Ismail era un uomo del deserto, non abituato al freddo gelido che lo assaliva. Avrebbe voluto alzarsi, agitare le braccia e pestare i piedi. Aveva le
gambe doloranti, le dita che s'intorpidivano nonostante i guanti. Il tormento del freddo gli riempiva la mente e rallentava i tempi di reazione. Una paura subdola si insinuava in lui, la paura di fallire la missione e di morire senza uno scopo. La sua inesperienza era evidente. Nella fase cruciale dell'operazione si stava innervosendo. Adesso cominciava a chiedersi se gli odiati americani conoscevano o sospettavano la sua presenza. Agitato e impaurito, stava perdendo la capacità di prendere decisioni fulminee. Le 7.59. Un'occhiata al furgone fermo poco oltre l'ingresso sulla strada. Ogni quattro ore, le guardie che stavano nella casa al calduccio davano il cambio a quelle installate nel furgone. Due uomini avrebbero percorso da un momento all'altro i cento metri dallo chalet al furgone. Ismail concentrò l'attenzione sulla guardia che camminava sulla neve, come al solito. Si stava avvicinando alla cassetta della posta. L'alito gli usciva dalle labbra in nuvole di vapore, e l'uomo si guardava intorno per scoprire se c'era qualcosa di anormale. La monotonia dell'incarico e il freddo pungente non avevano allentato la vigilanza dell'agente del servizio segreto. I suoi occhi scrutavano il terreno come un radar. Ancora un minuto, e avrebbe visto le orme di Ismail nella neve. Ismail bestemmiò sottovoce e si acquattò ancora di più. Sapeva d'essere terribilmente esposto. Gli aghi di pino che lo riparavano dalla vista non avrebbero fermato i proiettili. Le otto. La porta dello chalet si aprì e ne uscirono due uomini che portavano berretti di lana e giubbotti di piumino. Scrutarono automaticamente il paesaggio innevato mentre s'incamminavano parlando fra loro. Ismail aveva deciso di attendere sino a quando i due fossero arrivati al furgone per eliminare contemporaneamente le quattro guardie. Ma aveva sbagliato i calcoli e si era piazzato in posizione troppo presto. I due uomini avevano percorso appena cinquanta metri quando la guardia che stava facendo il giro intorno allo chalet scorse le impronte dell'intruso. Si fermò e si portò alle labbra la ricetrasmittente. Le sue parole furono stroncate da una serie di spari del fucile semiautomatico Heckler & Koch MP5 di Ismail. Il piano dilettantesco di Ismail aveva avuto un brutto inizio. Un professionista avrebbe eliminato la guardia con un unico colpo in mezzo agli occhi, sparato con il silenziatore. Ismail gli aveva crivellato il petto con dieci proiettili e altri venti erano finiti nel bosco.
Uno degli arabi incominciò a lanciare freneticamente le bombe a mano contro il furgone, mentre un altro sparava alle fiancate. Le sofisticate tecniche d'assalto erano al di fuori della portata della maggior parte dei terroristi. L'astuzia gli era sconosciuta quanto il sapone liquido. Fu la fortuna a salvarli. Una delle bombe a mano riuscì a penetrare dal parabrezza ed esplose con un rombo violento. L'esplosione non aveva nulla di simile agli effetti speciali cinematografici. Il serbatoio non scoppiò in un globo di fuoco. La carrozzeria si gonfiò e si schiantò come se un petardo fosse deflagrato all'interno d'una lattina. I due uomini morirono sul colpo. Inebriati dalla sete di sangue, i due sicari, entrambi meno che ventenni, continuarono ad attaccare il furgone sventrato fino a scaricare le armi, anziché concentrarsi sugli agenti del servizio segreto che si trovavano sulla strada e che, dopo essersi messi al riparo fra gli alberi, incominciarono a sparare con gli Uzi e li falciarono in pochi istanti. Poi, certi che i colleghi a bordo del furgone fossero morti, incominciarono a ripiegare verso lo chalet. Correvano schiena contro schiena, di traverso, e uno di loro continuava a sparare contro Ismail, che s'era messo al coperto dietro un grosso macigno. La strategia di Ismail fu rovinata dalla confusione. Gli altri dieci uomini del gruppo terroristico avrebbero dovuto far irruzione dall'entrata posteriore quando avessero sentito sparare Ismail: ma persero tempo prezioso perché la neve, alta fino al ginocchio, rallentava i movimenti. Il loro assalto fu tardivo, e gli agenti all'interno riuscirono a inchiodarli. Un arabo riuscì a mettersi temporaneamente al sicuro sotto il muro nord dello chalet. Strappò la sicura a una bomba a mano e la scagliò contro una grande finestra scorrevole. Ma aveva sbagliato nel valutare lo spessore dei doppi vetri e la bomba a mano rimbalzò e tornò indietro. Per un attimo la sua faccia fu stravolta dall'orrore prima che l'esplosione lo dilaniasse. I due agenti salirono precipitosamente gli scalini e balzarono all'interno. Gli arabi incominciarono un fuoco di sbarramento che ne colpì uno alla schiena: stramazzò con i piedi che sporgevano dalla soglia. Il compagno lo trascinò all'interno e sbatté la porta nell'istante in cui tre dozzine di proiettili e una bomba a mano la mandavano in frantumi. Le finestre si disintegrarono in una pioggia di vetri, ma le massicce pareti di tronchi resistettero. Gli agenti uccisero altri due uomini di Ismail, ma gli altri riuscirono ad avvicinarsi usando come copertura i pini e le rocce.
Quando arrivarono a meno di venti metri dalla loggia, cominciarono a scagliare bombe a mano attraverso le finestre. All'interno, un agente spinse bruscamente Hala sul camino spento. Stava issando sul focolare una scrivania per proteggerla quando una gragnola di colpi rimbalzò contro la mensola di pietra e tre proiettili gli penetrarono nel collo e nelle spalle. Hala non poteva vederlo, ma lo sentì stramazzare sul pavimento. Le bombe a mano avevano ormai un effetto letale. A distanza ravvicinata, le schegge erano molto più devastanti dei proiettili. L'unica difesa degli agenti era una mira precisa: ma non avevano previsto un assalto tanto massiccio e la loro scorta limitata di munizioni era ridotta agli ultimi caricatori. Non appena Ismail aveva cominciato a sparare era stata trasmessa una richiesta d'aiuto: ma arrivò all'ufficio del servizio segreto a Denver, e così si perse tempo prezioso prima che venisse informato lo sceriffo della cittadina. Una bomba a mano esplose in un magazzino e incendiò una latta di diluente per vernici. Poi fu la volta di un bidone di benzina usato per riempire il serbatoio di un piccolo spazzaneve, e un intero lato dello chalet fu avvolto dalle fiamme. Gli spari diminuirono mentre il fuoco si diffondeva. Cautamente gli arabi strinsero la rete. Si disposero in cerchio intorno alla costruzione e cominciarono a sparare contro le porte e le finestre. Adesso attendevano che l'incendio costringesse i superstiti a uscire. Erano rimasti in piedi due soli agenti del servizio segreto. Gli altri giacevano nel sangue fra i mobili sventrati. Le fiamme dilagarono nella cucina, salirono la scala posteriore e si diffusero nelle camere dal letto. Ormai era impensabile spegnerle. Il caldo divenne ben presto insopportabile per i difensori al piano terreno. Il suono delle sirene giunse echeggiando nella valle dalla direzione della cittadina, e si avvicinò. Un agente spostò la scrivania che aveva protetto Hala, e la condusse carponi a una finestra bassa. «Stanno arrivando gli uomini dello sceriffo», le disse. «Non appena attireranno il fuoco dei terroristi, cercheremo di fuggire, prima di morire bruciati.» Hala non poté far altro che annuire. Lo sentiva a stento; i timpani le dolevano per il fragore delle bombe a mano. Aveva gli occhi pieni di lacrime
e premeva un fazzoletto contro il naso e la bocca per proteggersi dal fumo. All'esterno, Ismail era steso bocconi e stringeva l'H & K. Era in preda all'indecisione. Lo chalet era diventato un inferno, il fumo e le fiamme eruttavano dalle finestre. Chiunque fosse ancora vivo là dentro doveva fuggire entro pochi secondi o sarebbe morto. Ma Ismail non poteva attendere. Vedeva già le luci rosse e azzurre che lampeggiavano fra gli alberi. Una macchina della polizia, la prima, stava sfrecciando sulla strada. Erano rimasti soltanto in sette, di dodici che erano. I feriti dovevano essere uccisi perché gli americani non potessero interrogarli. Gridò un ordine ai suoi, e quelli si allontanarono dallo chalet e corsero verso la strada d'accesso. La prima macchina della polizia si fermò e bloccò la via per lo chalet. Mentre uno comunicava via radio, l'altro poliziotto aprì cautamente la portiera, scrutò il furgone e lo chalet che bruciava. Impugnava una pistola. Avevano l'ordine di limitarsi a osservare, riferire e attendere i rinforzi. Era una tattica razionale quando si aveva a che fare con criminali armati e pericolosi: purtroppo non funzionò con un piccolo esercito di terroristi invisibili che aprirono improvvisamente il fuoco con una tempesta di proiettili, crivellarono la macchina e uccisero i due poliziotti prima che potessero reagire. A un segnale di uno degli agenti che scrutava dalla finestra, Hala si sentì sollevare di peso e lanciare sul terreno. Gli uomini del servizio segreto la seguirono, la presero per le braccia e cominciarono a correre sulla neve, tagliando in direzione della strada. Avevano percorso appena trenta passi quando uno degli uomini di Ismail li vide e diede l'allarme. Una raffica di colpi investì gli alberi, molti rami caddero intorno ai superstiti in fuga. All'improvviso uno degli agenti alzò le mani, parve artigliare il cielo, avanzò barcollando di qualche passo e stramazzò bocconi nella neve. «Cercano di impedirci di raggiungere la strada», gridò l'altro agente. «Vada! Io tenterò di trattenerli.» Hala fece per dire qualcosa, ma l'agente le diede un brusco spintone per farla muovere. «Corra! Maledizione, corra!» urlò. Ma l'agente si rendeva conto che era già troppo tardi. Le speranze di salvezza avevano subito un colpo mortale. S'erano avviati nella direzione sbagliata per allontanarsi dallo chalet incendiato ed erano avviati verso due
Mercedes parcheggiate nel bosco, sul bordo della strada. Stordito e rassegnato, l'agente comprese che appartenevano ai terroristi. Non aveva alternative. Non poteva fermarli, però li avrebbe almeno costretti a rallentare abbastanza a lungo perché Hala potesse ottenere un passaggio da una macchina. In uno slancio suicida, l'agente corse verso gli arabi, con il dito premuto sul grilletto dell'Uzi, urlando tutte le oscenità che conosceva. Per un momento Ismail e i suoi rimasero immobilizzati da quella carica furiosa. Per due secondi d'incredulità esitarono: poi si ripresero e spararono a raffica contro l'agente del servizio segreto, falciandolo nella corsa. Ma l'agente era riuscito a ucciderne tre. Anche Hala vide le macchine. Vide i terroristi che si lanciavano per raggiungerle. Sentì alle spalle il crepitio degli spari. Ansimando, con gli abiti e i capelli strinati, piombò in un fossatello e risalì dall'altra parte prima di stramazzare su una superficie dura. Alzò leggermente la testa e vide l'asfalto nero. Si sollevò con uno sforzo e cominciò a correre, sebbene sapesse che stava solo procrastinando l'inevitabile, sebbene sapesse con certezza agghiacciante che sarebbe morta entro pochi minuti. 28. La Cord procedeva maestosa lungo la strada di Breckenridge, sotto il sole mattutino che faceva brillare le cromature e la vernice nuova. Gli sciatori avviati a piedi verso gli skilift salutavano con la mano l'elegante auto d'epoca. Giordino dormicchiava sul sedile posteriore, mentre Lily era davanti con Pitt, allo scoperto. Quella mattina Pitt s'era svegliato di malumore. Non aveva alcuna intenzione di prendere a nolo gli sci quando i suoi Olin 921 erano in un ripostiglio a cinque chilometri appena dall'albergo. E poi, aveva pensato, poteva andare allo chalet di famiglia, prendere la sua roba e salire sulla seggiovia impiegando assai meno tempo di quello che avrebbe sprecato per attendere il suo turno in un negozio di sci a nolo. Pitt non aveva preso troppo sul serio l'avvertimento del padre, che gli aveva ingiunto di stare alla larga dallo chalet. Aveva immaginato che fosse un'esagerazione burocratica. Il senatore avrebbe ottenuto lo stesso risultato se avesse invitato Hulk Hagen, il campione di wrestling, a porgere l'altra guancia a un avversario che l'aveva preso a calci nell'inguine. «Chi è che lancia i fuochi d'artificio a quest'ora di mattina?» chiese me-
ravigliata Lily. «Non sono fuochi d'artificio,» Pitt ascoltò il crepitio secco degli spari e gli schianti delle bombe a mano che echeggiavano fra i pendii della valle. «Sembra un combattimento di fanteria.» «Viene dal bosco, là avanti...» Lily indicò con la mano. «Sulla destra della strada.» Pitt socchiuse le palpebre, accelerò e bussò sul divisorio. Giordino si svegliò e abbassò il vetro. «Mi hai disturbato proprio quando stava cominciando l'orgia», disse fra uno sbadiglio e l'altro. «Ascolta», ordinò Pitt. Giordino rabbrividì al soffio d'aria fredda, e si portò le mani alle orecchie. Sul suo volto apparve un'espressione sbalordita. «Sono atterrati i russi?» «Guardate!» gridò Lily. «La foresta brucia!» Giordino scrutò il fumo che eruttava sopra le cime degli alberi, seguito da alte lingue di fiamma. «È troppo concentrato», commentò. «Direi che è un edificio che brucia. Probabilmente uno chalet o un condominio.» Pitt sapeva che l'ipotesi di Al era esatta. Imprecò e batté la mano sul volante. Aveva la certezza assoluta che era lo chalet della sua famiglia ad alimentare il grande fungo di fuoco e di fumo. «Se ci fermassimo sarebbe come andare in cerca di guai. Passeremo oltre e vedremo come vanno le cose. Al, tu vieni davanti. Lily, vai dietro e tieni giù la testa. Non voglio che ti succeda niente.» «E io?» chiese Giordino in tono di indignazione rassegnata. «Non merito un po' di riguardo? Spiegami un po' perché dovrei sedere allo scoperto assieme a te.» «Per proteggere il tuo fido autista da ogni male e dai delinquenti.» «Non è una buona ragione.» Pitt tentò un altro approccio. «Naturalmente, ci sono anche quei cinquanta dollari che mi hai prestato a Panama e che non ti ho mai restituito. «Più gli interessi.» «Più gli interessi», confermò Pitt. «Che cosa non devo fare per proteggere le mie misere sostanze!» La disperazione di Giordino sembrava quasi autentica mentre passava attraverso il divisorio abbassato e si scambiava di posto con Lily. Più avanti lungo la strada, ottocento metri prima dell'ingresso dello chalet, la gente si fermava e si acquattava dietro le macchine per guardare i
vortici di fumo e ascoltare il crepitio delle armi automatiche. Pitt pensò che era strano che lo sceriffo non fosse comparso: poi vide la macchina della polizia crivellata di proiettili che barricava la via d'accesso. Girò la testa verso destra, verso l'inferno di fiamme, quando all'improvviso, con la coda dell'occhio, scorse una figura che arrivava correndo sulla strada, in rotta di collisione con la Cord. Frenò bruscamente e sterzò verso destra. La Cord deviò di novanta gradi e slittò di traverso. I pneumatici alti e stretti stridettero sull'asfalto. La vettura si fermò bloccando le due corsie, a meno di un metro da una donna che adesso stava immobile. Il cuore di Pitt raddoppiò i battiti. Esalò un respiro profondo e guardò la donna che per poco non aveva travolto. Vide la paura e lo shock nei suoi occhi trasformarsi lentamente in un'espressione incredula. «Lei!» esclamò la donna. «È proprio lei?» Pitt la fissò, stordito. «La signora Kamil?» «Credo nel déjà vu», mormorò Giordino. «Ci credo, ci credo, ci credo.» «Oh, Dio sia ringraziato», mormorò Hala Kamil. «La prego, mi aiuti. Sono morti tutti. M'inseguono per uccidermi.» Pitt scese dal posto di guida nel momento stesso in cui Lily lasciava il compartimento passeggeri. Aiutarono Hala a salire e la sistemarono sul sedile posteriore. «Chi è che vuole ucciderla?» chiese Pitt. «I sicari di Yazid. Hanno assassinato gli uomini del servizio segreto che mi proteggevano. Dobbiamo andar via, presto. Ci raggiungeranno da un momento all'altro.» «Stia tranquilla», disse Lily, che aveva notato per la prima volta il viso annerito dal fumo e i capelli strinati. «La porteremo all'ospedale.» «Facciamo in fretta», ansimò Hala, e indicò all'esterno con mano tremante. «Presto, vi prego, o uccideranno anche voi!» Pitt si voltò in tempo per vedere due Mercedes nere che erompevano dal bosco e s'immettevano sulla strada. Le fissò per un secondo, poi balzò al volante. Innestò la prima e premette l'acceleratore. Girò il volante e lanciò la Cord nell'unica direzione aperta... verso il centro di Breckenridge. Guardò per un momento lo specchietto fissato alla ruota di scorta laterale. La distanza fra la Cord e le auto dei terroristi non superava i trecento metri. Non ebbe la possibilità di continuare a guardare. Un proiettile trapassò lo specchietto e mandò in frantumi l'immagine. «Giù!» gridò alle due donne.
La Cord non aveva l'albero che attraversava il compartimento posteriore, e le donne poterono accucciarsi sul pavimento piatto. Hala guardò in faccia Lily e cominciò a tremare. Lily le passò un braccio intorno alle spalle e ostentò un sorriso coraggioso. «Non deve cedere al panico», mormorò. «Quando arriveremo in città saremo al sicuro.» «No», mormorò Hala, sopraffatta dallo shock. «Non saremo al sicuro in alcun posto.» Giordino, sul sedile anteriore, stava curvo per cercare di proteggersi dagli spari e dal vento gelido che sibilava intorno al parabrezza. «A che velocità può andare questo coso?» domandò. «La velocità massima registrata per una L-29 è settantasette», rispose Pitt. «Miglia o chilometri?» «Miglia.» «Ho la spiacevole sensazione che siamo surclassati.» Giordino era costretto a gridare all'orecchio dell'amico per farsi sentire nel rombo della seconda marcia della Cord. «Con che cosa abbiamo a che fare?» Giordino si voltò, si sporse al di sopra della portiera e lanciò cautamente un'occhiata all'indietro. «È difficile capire che modello è una Mercedes guardandola davanti, ma direi che sono due 300 SDL.» «Diesel?» «Sono turbodiesel, per la precisione, capaci di fare duecentoventi all'ora.» «E stanno riducendo le distanze?» «Come tigri che rincorrono un bradipo», rispose Giordino in tono desolato. «Ci azzanneranno la coda prima che arriviamo al bar preferito dallo sceriffo.» Pitt premette il pedale della frizione, strinse la leva del cambio e innestò la terza. «È meglio tenerci a distanza. Quei delinquenti sono capaci di massacrare cento innocenti, pur di assassinare la Kamil.» Giordino si voltò di nuovo indietro. «Adesso posso vedergli il bianco degli occhi.» Ismail proruppe in una dozzina di imprecazioni quando la sua arma s'inceppò. In preda alla rabbia, la scagliò in mezzo alla strada, e ne strappò un'altra dalle mani del compagno che stava sul sedile posteriore. Si sporse
dal finestrino e sparò una raffica contro la Cord. Solo cinque proiettili eruttarono dalla canna prima che il caricatore si vuotasse. Bestemmiò di nuovo, si frugò in tasca per prenderne un altro, lo estrasse e lo inserì. «Non agitarti», disse con calma l'autista. «Li raggiungeremo al prossimo chilometro. Io girerò sulla sinistra mentre Omar e i suoi con l'altra macchina passeranno sulla destra. Li falceremo con un fuoco incrociato a distanza ravvicinata.» «Voglio uccidere quei porci che si sono intromessi», ringhiò Ismail. «Avrai la tua occasione. Pazienza.» Come un bambino capriccioso che non riesce a spuntarla, Ismail si abbandonò sul sedile e guardò rabbiosamente la macchina che li precedeva. Ismail era il killer del tipo peggiore. Era assolutamente incapace di provare rimorso. Sarebbe stato capace di festeggiare dopo aver fatto saltare in aria un reparto maternità. I sicari di prim'ordine registravano le loro azioni e studiavano i modi per migliorarle. Ismail non si prendeva mai il disturbo di riesaminarle o di contare i cadaveri. I suoi piani erano superficiali, e in due occasioni aveva eliminato la preda sbagliata: e questo rendeva ancora più pericoloso un fanatico come lui. Era imprevedibile come uno squalo, e colpiva indiscriminatamente e senza misericordia le vittime innocenti che avevano il torto di mettersi sulla sua strada. Giustificava le sue imprese sanguinarie con la scusa che uccideva per una causa religiosa: ma in altri tempi e in altri luoghi sarebbe stato un assassino capace di lasciarsi dietro una scia di morti per il gusto di farlo. Ismail sarebbe riuscito a ispirare disgusto persino a John Dillinger e a Bonnie e Clyde. Continuò a passare le dita sull'arma come se fosse un oggetto sensuale, in attesa di sparare una raffica di colpi attraverso la carrozzeria sottile della macchina e contro gli individui che gli avevano sottratto temporaneamente la sua preda. «Credo che vogliano risparmiare le munizioni», disse Giordino in tono di sollievo. «Aspettano di averci raggiunti, per essere sicuri di non mancarci», rispose Pitt. Teneva gli occhi fissi sulla strada, ma i suoi pensieri cercavano affannosamente una possibile via di scampo. «Il mio regno per un bazooka.» «Questo mi ricorda che, quando sono salito in macchina stamattina, ho urtato qualcosa sotto il sedile.» Giordino si chinò e cercò a tentoni. Toccò un oggetto freddo e duro e lo
estrasse. «È solo una chiave a bussola», annunciò in tono di rammarico. «Per quel che servirà, tanto varrebbe che fosse un osso di prosciutto.» «Più avanti c'è un sentiero che sale fino all'inizio delle piste. Qualche volta i fuoristrada degli addetti alla manutenzione lo percorrono per portare materiale e rifornimenti. Potrebbe offrirci la possibilità di seminarli nei boschi o in un burrone. Se restiamo sulla strada siamo spacciati.» «È molto lontano? «Dopo la prossima curva.» «Possiamo farcela?» «Non lo so.» Giordino si voltò ancora. «Sono a settantacinque metri e continuano a ridurre le distanze.» «Troppo vicini», commentò Pitt. «Dobbiamo farli rallentare.» «Potrei mostrare la mia brutta faccia e fare gesti osceni», disse Giordino in tono asciutto. «Si arrabbierebbero ancora di più. Dobbiamo adottare il piano uno.» «Non ho assistito al briefing», disse sarcasticamente Giordino. «Come te la cavi con i lanci?» Giordino annuì. Aveva capito. «Tieni in riga il vecchio catorcio, e il grande Giordino concerà per le feste la squadra avversaria.» La macchina scoperta era una piattaforma ideale. Giordino s'inginocchiò sul sedile rivolgendosi all'indietro, con la testa e le spalle esposte al di sopra del tettuccio. Prese la mira, alzò il braccio e scagliò la chiave a bussola in un arco contro la prima Mercedes. Per un istante gli mancò il cuore. Temette di aver fatto un lancio troppo corto quando vide la chiave che piombava sul cofano. Ma poi l'attrezzo rimbalzò e sfondò il parabrezza. L'autista arabo aveva visto Giordino nell'atto di lanciare la chiave. La sua reazione fu pronta, ma non abbastanza. Frenò e sterzò bruscamente proprio nell'attimo in cui il parabrezza esplodeva in mille frammenti e gli grandmava in faccia. La chiave urtò il volante e cadde sulle ginocchia di Ismail. L'autista della seconda Mercedes era vicinissimo al paraurti posteriore della macchina di Ismail, e non vide l'attrezzo che volava nell'aria. Fu colto alla sprovvista quando all'improvviso gli stop della prima Mercedes si accesero e restò a occhi sbarrati mentre la sua macchina la urtava e la faceva sbandare e roteare sino a fermarsi con il muso rivolto nella direzione opposta.
«Era questo che avevi in mente?» chiese tutto allegro Giordano. «Appunto. Tieniti forte, ci stiamo avvicinando alla svolta.» Pitt rallentò e fece girare la Cord su una strada stretta e coperta di neve che saliva il fianco della montagna in una serie di tornanti. Il motore, otto cilindri in linea con una potenza di 115 cavalli, si sforzava di trascinare la macchina pesante sulla superficie irregolare e sdrucciolevole. Le balestre rigide dello chassis facevano sobbalzare i passeggeri come tante palle da tennis in una lavatrice mentre la parte posteriore, più leggera, sbandava a destra e a sinistra. Pitt compensava quei difetti azionando abilmente l'acceleratore e il volante e servendosi della potenza della trazione anteriore per tenere il lungo muso puntato al centro di una strada che aveva tutte le caratteristiche d'un viottolo per escursionisti. Lily e Hala si erano rialzate e adesso stavano sul sedile, con i piedi puntellati contro il divisorio, e si tenevano aggrappate disperatamente alle maniglie. Dopo sei minuti si lasciarono alle spalle il bosco e salirono oltre il limite degli alberi. La strada correva fra pendii ripidi tempestati di rocce e tappezzati di neve alta. Pitt aveva avuto intenzione di abbandonare la Cord e di proseguire la fuga a piedi fra i boschi e il terreno accidentato. Ma la famosa neve del Colorado era molto alta a quelle quote, e rendeva pressoché impossibile il cammino. Non restava altro che raggiungere la cima con un margine di tempo sufficiente per scendere con la seggiovia, arrivare in città e perdersi tra la folla. «Stiamo bollendo», commentò Giordino. Pitt non aveva bisogno di guardare il vapore che cominciava a uscire intorno al tappo del radiatore: aveva visto l'ago della temperatura salire e salire fino alla linea rossa. «Il motore è stato costruito con un margine di tolleranza limitato», spiegò. «L'abbiamo sforzato troppo prima che avesse la possibilità di rodarsi.» «Che faremo quando finirà la strada?» chiese Giordino. «Piano due», rispose Pitt. «Scenderemo comodamente con la seggiovia fino al prossimo saloon.» «Il tuo stile mi piace, ma la guerra non è finita.» Giordino indicò alle sue spalle. «Riecco gli amici.» Pitt era stato troppo indaffarato per tener d'occhio gli inseguitori: s'erano ripresi dall'incidente e stavano salendo la montagna dietro la Cord. Prima che avesse la possibilità di guardare indietro, i proiettili schiantarono il lunotto posteriore fra la testa di Lily e quella di Hala, attraversarono la mac-
china e trapassarono il parabrezza, lasciando tre piccoli fori stellati. Non fu necessario dire alle donne di acquattarsi di nuovo. Questa volta si appiattirono sul pavimento. «Credo che si siano arrabbiati per lo scherzetto della chiave», disse Giordino. «Sono più arrabbiato io per il modo in cui trattano la mia macchina.» Pitt superò un ripido tornante e, quando poté proseguire in linea retta, si voltò per lanciare un'occhiata alle macchine inseguitrici. Era uno spettacolo scoraggiante. Le due Mercedes sbandavano di continuo sulla strada coperta di neve. La loro velocità superiore era in parte controbilanciata dalla trazione anteriore della Cord. Pitt se la cavava bene nelle curve strette, ma gli arabi riducevano le distanze nei tratti rettilinei. Pitt vide l'autista della prima Mercedes che girava il volante come un pazzo, ignorando la prudenza e tenendo in continua sbandata le ruote posteriori. A ogni tornante sembrava essere sul punto di finire nella neve alta dove sarebbe rimasto bloccato. Era strano che le Mercedes non avessero le gomme da neve: ma Pitt non sapeva che gli arabi avevano portato le due macchine dal Messico per confondere le tracce. Erano intestate a un'industria tessile inesistente di Matamaros, e dovevano essere abbandonate all'aeroporto di Breckenridge dopo l'assassinio di Hala Kamil. A Pitt la situazione non piaceva affatto. Le Mercedes si avvicinavano implacabilmente. Erano arrivate a una cinquantina di metri da lui. E non gli piaceva neppure la vista di un uomo che puntava un fucile automatico attraverso il parabrezza fracassato. «Attenti!» gridò, e si chinò sotto il volante, in modo da poter sbirciare appena al di sopra del cruscotto. «Giù tutti quanti!» Aveva appena finito di parlare che i proiettili incominciarono a martellare la Cord. Una raffica squarciò la ruota di scorta montata sul parafanghi di destra. Un'altra dilaniò il tettuccio, sbrindellò l'imbottitura di cuoio e le lamine di metallo. Pitt si tese e cercò di chinarsi ancora di più, mentre il lato sinistro della macchina si apriva come se fosse stato attaccato da un esercito di apriscatole. I cardini schizzarono via dalla portiera posteriore che sbatté grottescamente per qualche momento, poi cadde quando la Cord sfiorò un albero. I frammenti di vetro volavano come gocce di pioggia. Una delle donne urlò. Poi si accorse che uno spruzzo di sangue macchiava il cruscotto. Un
proiettile aveva aperto un solco in uno degli orecchi di Giordino, ma il piccolo italiano non fiatava. Si tastò la ferita quasi con indifferenza, come se fosse l'orecchio di un altro. Poi inclinò la testa e sogghignò: «Temo che il vino di ieri sera stia zampillando». «È grave?» chiese Pitt. «Non è niente che uno specialista di chirurgia plastica non possa riparare per duemila dollari. E le donne?» Pitt gridò senza voltarsi: «Siete ancora intere?» «Qualche graffio per le schegge di vetro», rispose Lily. «A parte questo, tutto bene.» Era spaventata, ma non sull'orlo del panico. Il vapore, adesso, usciva dal radiatore della Cord come un getto a pressione. Pitt sentiva che il motore perdeva giri. Come un fantino che monta un vecchio ronzino stanco, continuava a spingere la macchina per quanto osava farlo. Si concentrò per lanciare la Cord oltre l'ultimo tornante prima della vetta. Aveva tentato di sfuggire ai sicari e non c'era riuscito. Stavano attaccati al suo paraurti posteriore come se fossero incatenati. Il motore cominciò a sferragliare e a protestare contro il calore e lo sforzo eccessivi. Un'altra raffica trapassò il parafanghi posteriore di sinistra e sgonfiò la gomma. Pitt strinse il volante per evitare che la coda sbandasse e trascinasse la macchina giù per il pendio fortemente inclinato, costellato di macigni acuminati. La Cord stava agonizzando. Il fumo blu filtrava attraverso le feritoie del cofano. Sotto il motore, l'olio colava da uno squarcio aperto nella coppa da un sasso che Pitt non aveva potuto evitare. L'indicatore della pressione dell'olio era sceso a zero. La speranza di raggiungere la sicurezza temporanea della vetta diventava più remota a ogni colpo dei pistoni. La prima Mercedes affrontò il tornante con una slittata. Pitt strinse disperatamente il volante. Immaginava l'espressione di trionfo degli inseguitori, ormai certi di poter piombare sulla preda entro pochi secondi. Non c'era la possibilità di fuggire a piedi: erano intrappolati sullo stretto sentiero fra uno strapiombo da un lato e un ripido pendio roccioso dall'altro. Non potevano far altro che continuare fino a che il motore della Cord si fosse arreso. Pitt premette il pedale dell'acceleratore con tutte le sue forze e pregò. Per quanto fosse incredibile, la vecchia automobile sembrava aveva ancora qualcosa da dare. Come se fosse dotata di una volontà indipendente,
attinse dal profondo delle sue strutture di ferro e d'acciaio la capacità di un ultimo, magnifico sforzo. I giri del motore aumentarono, le ruote anteriori addentarono la neve e la Cord si inerpicò sull'ultima salita. Un minuto più tardi, circondata da nuvole di fumo azzurro e di vapore candido, fece irruzione sulla cresta scoperta della pista per sciatori. A meno di cento metri c'era il terminale della seggiovia. In un primo momento a Pitt parve strano che nessuno sciasse sulla pista direttamente sotto la Cord. La gente scendeva dalla seggiovia e si girava verso il lato opposto prima di incominciare la discesa su una pista parallela. Poi vide che la sua sezione del pendio era chiusa dai cordoni. Numerosi cartelli appesi a una fune festonata di vistosi nastri arancione avvertivano gli sciatori che quella pista era ghiacciata e pericolosa. «Siamo arrivati al capolinea», disse Giordino in tono solenne. Pitt annuì, esasperato. «Non possiamo raggiungere la seggiovia. Ci falcerebbero prima che avessimo percorso dieci metri.» «Non ci resta che combattere a pallate di neve oppure correre il rischio di arrenderci.» «Possiamo mettere in atto il piano tre.» Giordino scrutò l'amico con aria incuriosita. «Non può essere peggio dei primi due.» Poi spalancò gli occhi e gemette. «Non vorrai... oh, Dio, no!» Le due Mercedes erano ormai vicinissime. Si erano affiancate per piombare sulla Cord quando Pitt girò il volante e si lanciò giù per la pista. 29. «Allah ci aiuti!» mormorò l'autista di Ismail. «Sono pazzi! Non possiamo fermarli.» «Inseguili!» gridò istericamente Ismail. «Non lasciarteli scappare!» «Tanto moriranno comunque. Nessuno può sopravvivere a bordo di una macchina incontrollabile lanciata giù per una montagna.» Ismail si mosse di scatto e puntò la canna dell'arma contro l'orecchio dell'autista. «Prendi quei porci!» ringhiò. «O vedrai Allah prima di quanto credi.» L'autista esitò. Pensava che la morte era sicura, qualunque cosa facesse. Poi si arrese e girò la Mercedes per seguire la Cord giù per la discesa. «Allah guidi le mie azioni», mormorò in preda alla paura. Ismail abbassò l'arma e indicò oltre il parabrezza sfondato. «Stai zitto e pensa a guidare.»
I compagni di Ismail a bordo della seconda Mercedes non si fermarono. Seguirono doverosamente il capo. La Cord sfrecciava sulla neve compatta come un treno merci impazzito, e accelerava paurosamente. Era impossibile farla rallentare. Pitt guidava con un tocco leggero e sfiorava appena i freni, attento a non bloccarli per non lanciare la macchina in un incontrollabile testacoda. Se fosse scivolata di sbieco giù per il pendio ripido, avrebbe finito per cappottare e piombare alla base della montagna in una scia di frammenti di metallo e di corpi straziati. «Non ti sembra il momento di parlare delle cinture di sicurezza?» chiese Giordino, che teneva i piedi sollevati e puntellati contro il cruscotto. Pitt scosse la testa. «Nel 1930 gli optional non esistevano.» Ebbe l'improvvisa sensazione che la fortuna lo assistesse quando il pneumatico crivellato dai proiettili si staccò dalla ruota posteriore. Liberato dalla gomma, il doppio orlo del cerchione gli assicurava un certo controllo perché affondava nella superficie gelata e faceva schizzare particelle di ghiaccio. Il tachimetro indicava cento chilometri all'ora quando Pitt vide che si stavano avvicinando a una distesa di minuscoli rialzi. Gli sciatori esperti li giudicavano un interessante percorso a ostacoli: e la pensava così anche Pitt quando affrontava una pista a tutta velocità. Ma adesso stava piombando verso valle a bordo di un'automobile che pesava duemilacentoventi chili. Con un abile tocco leggero portò la macchina sul lato della pista, dove il fondo era più liscio. Aveva l'impressione di cercare d'infilare un ago con un bob da competizione. Si tese inconsciamente per affrontare l'urto violento che sarebbe stato immancabile se avesse compiuto un movimento sbagliato, e che avrebbe scagliato la macchina contro un albero sfracellando tutti coloro che si trovavano a bordo. Ma l'impatto non ci fu. Chissà come, la Cord saettò attraverso lo stretto varco, fra i rialzi da una parte e gli alberi dall'altra che passavano loro accanto come una scena confusa. L'autista della prima Mercedes era abile. Aveva seguito le tracce delle ruote della Cord intorno ai rialzi. L'autista della seconda non li vide o non li considerò pericolosi. Si rese conto troppo tardi dell'errore e lo aggravò lanciando all'impazzata la Mercedes da una parte all'altra nel tentativo disperato di evitare le gobbe alte un metro.
L'arabo riuscì a evitarne tre o quattro prima di cozzare a capofitto. Il muso della macchina affondò, la coda si sollevò e restò immobile a un angolo di novanta gradi. Rimase così per un istante, poi si capovolse come un bastoncello rovesciato da un bambino. Urtò di nuovo contro la neve compatta, più volte, con un fragore di metallo e di vetri schiantati. Gli occupanti sarebbero sopravvissuti se fossero stati sbalzati fuori, ma la serie di impatti violenti aveva bloccato le portiere. La macchina cominciò a disintegrarsi. Il motore si staccò e rotolò verso il bosco. Le ruote, le sospensioni anteriori, il treno posteriore non erano stati costruiti per resistere a quella tortura devastante. I pezzi si staccarono dallo chassis e ruzzolarono all'impazzata verso valle. Pitt non ebbe il tempo di osservare la Mercedes che roteava e si accartocciava in un mucchio irriconoscibile prima di finire capovolta in un burroncello. «Sembrerei scortese», disse Giordino, che parlava per la prima volta da quando aveva superato la cresta, «se dicessi: uno di meno?» «Stai zitto, per scaramanzia», borbottò Pitt a denti stretti. «Guarda!» Staccò una mano dal volante e indicò. Giordino si tese nel vedere la pista che si biforcava e si univa a un'altra brulicante di gente dalle coloratissime tenute da sci. Si alzò di scatto aggrappandosi a quel che restava del parabrezza, gridò e agitò freneticamente le braccia mentre Pitt suonava i due clacson della Cord. Sbalorditi, gli sciatori si voltarono e videro le due macchine che scendevano lanciatissime la pista. Si spostarono appena in tempo e restarono a guardare a bocca aperta mente la Cord passava oltre, inseguita dalla Mercedes. Sulla pista si ergeva un trampolino. Pitt ebbe appena il tempo di distinguere la rampa che si confondeva con il fianco della collina. Senza esitare, puntò in quella direzione. «Non vorrai...?» balbettò Giordino. «Piano quattro», rispose Pitt. «Tieniti forte. Può darsi che perda il controllo.» «Mi pareva che l'avessi già perso.» Il trampolino, molto più piccolo di quelli costruiti per le gare olimpiche, veniva usato soltanto per le esibizioni acrobatiche. La rampa era abbastanza ampia per far passare la Cord con un buon margine. Si estendeva per trenta metri in una curva concava prima di finire bruscamente a un'altezza di venti metri dal terreno.
Pitt puntò verso la linea delle partenze, e sfruttò la larghezza della carrozzeria della Cord per nascondere il trampolino alla vista degli occupanti della Mercedes. All'ultimo istante, prima che le ruote anteriori varcassero la linea di partenza, Pitt sterzò e mandò la Cord in testacoda, allontanandola dalla rampa discendente del trampolino. L'autista di Ismail, che seguiva con attenzione ogni suo movimento, sterzò per evitare una collisione, e superò la linea. Mentre Pitt riportava faticosamente la macchina su un percorso diritto, Giordino si voltò a guardare la Mercedes e scorse una faccia contratta in una strana espressione di rabbia e di paura. Poi la faccia sparì quando la macchina dei terroristi sfrecciò giù per il pendio, ormai incontrollabile. Avrebbe dovuto spiccare un balzo nel cielo come un grosso uccello privo d'ali. Ma l'estremità posteriore scivolò, posò le ruote di destra fuori del bordo del trampolino pochi metri prima dell'orlo, e la macchina volò a spirale nell'aria come un pallone da football ben lanciato. La Mercedes doveva sfiorare i centoventi chilometri orari quando decollò. Spinta dalla tremenda forza d'inerzia, roteò nel cielo per una distanza incredibile prima di curvare verso destra e piombare nella neve compatta sulle quattro ruote con un impatto violentissimo. Come se proseguisse al rallentatore, rimbalzò e sfrecciò contro un alto pino ponderoso, fracassandosi contro il tronco. Lo stridore lacerante del metallo dilaniato riempì l'aria rarefatta mentre lo chassis e la carrozzeria si accartocciavano intorno all'albero e il paraurti anteriore e quello posteriore s'incontravano come le estremità di un ferro di cavallo lanciato contro un paletto di acciaio. I vetri esplosero come una pioggia di coriandoli, e i passeggeri vennero spiaccicati come mosche. Giordino scosse la testa, meravigliato. «È lo spettacolo più incredibile che abbia mai visto.» «E ne vedremo altri», disse Pitt. Era riuscito a raddrizzare la Cord ma non a ridurne la velocità. I freni s'erano bruciati a metà del pendio e la barra del volante era storta. Il percorso era inequivocabile. La Cord stava puntando verso la stazione e il ristorante della seggiovia. Pitt non poteva far altro che suonare il clacson e cercare di evitare gli sciatori troppo allibiti per mettersi al riparo. Le due donne avevano assistito alla distruzione della seconda Mercedes con curiosità morbosa e immenso sollievo. Ma il sollievo durò poco. Si voltarono e sgranarono gli occhi nel vedere che si stavano avvicinando fulmineamente a una costruzione.
«Non possiamo fare qualcosa? chiese Hala. «Accetto qualunque suggerimento», ribatté Pitt. Poi ammutolì nel tentativo di evitare un gruppo di ragazzini d'una scuola di sci: piombò sopra un banco di neve e li aggirò. Quasi tutti gli sciatori avevano visto o sentito la fine della Mercedes ed erano galvanizzati dal comportamento della Cord. Si affrettarono a portarsi sui bordi della pista e rimasero a guardare, senza capire, la macchina che passava fra loro come un razzo. Dalla stazione superiore della seggiovia qualcuno aveva segnalato la discesa dei veicoli impazziti e gli istruttori avevano fatto allontanare gran parte della folla. Sulla destra del centro sciistico c'era un laghetto ghiacciato e poco profondo. Pitt sperava di poter tagliare in quella direzione e di piombare sul ghiaccio che si sarebbe spaccato e avrebbe sommerso la macchina fino ai predellini costringendola a fermarsi. L'unico problema era che i curiosi avevano formato involontariamente un corridoio che portava verso il ristorante. «Immagino che non ci sarà un piano cinque», disse Giordino, mentre si puntellava per affrontare la collisione. «Mi dispiace, abbiamo esaurito i piani», disse Pitt. Lily e Hala assistevano, impotenti e inorridite. S'erano acquattate dietro il divisorio e si tenevano abbracciate. Pitt s'irrigidì mentre la macchina investiva una serie di rastrelliere che contenevano sci e bastoncini. Gli sci parvero esplodere e volarono in aria come stuzzicadenti. Per un istante sembrò che seppellissero la Cord; ma subito questa schizzò via e salì la scalinata di cemento, mancò il ristorante ma sfondò la parete di legno della cocktail lounge. La sala era stata vuotata, e c'erano soltanto il pianista, che sedeva paralizzato davanti alla tastiera, e il barista, che preferì rifugiarsi freneticamente dietro il banco nel momento in cui la Cord faceva il suo ingresso esplosivo e avanzava come un bulldozer in un mare di sedie e di tavolini. Per poco non arrivò a sfondare la parete di fondo e a precipitare dall'altezza del secondo piano. Miracolosamente, dopo aver esaurito lo slancio, la macchina mutilata si arrestò con il paraurti anteriore distorto che sporgeva all'esterno. La cocktail lounge sembrava aver subito un bombardamento d'artiglieria. Il salone era pervaso da uno strano silenzio, rotto soltanto dal sibilo del radiatore e dallo scoppiettio del motore surriscaldato. Pitt aveva battuto la testa contro l'intelaiatura del parabrezza; il sangue gli sgorgava da un taglio al di sopra dell'attaccatura dei capelli e gli inondava la faccia. Si voltò
a guardare Giordino che fissava impietrito la parete. Poi si girò verso le donne. Avevano l'aria di chiedersi se erano ancora vive, ma tutto sommato non erano malconce. Il barista era ancora acquattato dietro il banco, e perciò Pitt si rivolse al pianista che sembrava in trance sullo sgabello a tre gambe. Aveva in testa una bombetta, e la sigaretta che gli penzolava dall'angolo della bocca non aveva neppure perduto la cenere. Le mani erano protese sopra i tasti, il corpo irrigidito come se fosse in uno stato di animazione sospesa. Fissò sconvolto l'apparizione insanguinata che stava sorridendo. «Mi scusi», disse educatamente Pitt, «potrebbe suonare Fly me to the Moon?» PARTE TERZA IL »LADY FLAMBOROUGH«
30. 19 ottobre 1991 Uxmal, Yucatán Le pietre della massiccia struttura riflettevano un chiarore ultraterreno sotto la batteria dei riflettori colorati. L'azzurro tingeva i muri della grande piramide, l'arancione inondava il Tempio del Mago alla sommità. I riflettori rossi spazzavano l'ampia scalinata e creavano l'effetto di una cascata di sangue. In alto, sul tetto del tempio, spiccava una figura snella alonata di bianco. Topiltzin allargò le braccia e le mani in un gesto divino e abbassò lo sguardo sulle centinaia di migliaia di facce che circondavano il tempio-
piramide dell'antica città maya di Uxmal, nella penisola dello Yucatán. Concluse come sempre il discorso con una cantilena nella lingua azteca. Il pubblico sterminato riprese ogni frase e la ripeté all'unisono. «La forza e il coraggio della nostra nazione sono riposti in noi che non saremo mai grandi o ricchi. Soffriamo la fame, fatichiamo per i governanti che sono meno nobili e onesti di noi. Non potranno esservi gloria e grandezza nel Messico fino a che il falso governo non sarà caduto. Non tollereremo più la schiavitù. Gli dei si radunano di nuovo per sacrificare i corrotti agli onesti. Il loro dono è una civiltà nuova e noi dobbiamo accettarla.» Mentre le parole si disperdevano, le luci colorate si affievolirono e soltanto Topiltzin rimase illuminato. Poi anche i riflettori bianchi si spensero e lo fecero scomparire. Furono accesi grandi falò e un camion cominciò a distribuire cassette di viveri al popolo riconoscente. Ogni cassetta conteneva la stessa quantità di farina e di scatolame e un volumetto pieno di illustrazioni e con poche didascalie. Il presidente De Lorenzo e i suoi ministri erano rappresentati come diavoli che venivano cacciati lontano dal Messico, fra le braccia d'un infernale Zio Sam, da Topiltzin e dai quattro massimi dei aztechi. Era allegato anche un elenco d'istruzioni che descrivevano modi pacifici ma efficaci per minare l'influenza del governo. Durante la distribuzione dei viveri, uomini e donne si aggiravano tra la folla e reclutavano nuovi seguaci per Topiltzin. L'evento era organizzato e gestito con il professionismo di un concerto rock. Uxmal era una delle tappe nella campagna di Topiltzin per rovesciare il governo di Città di Messico. Predicava alle masse solo nei grandi centri monumentali del passato: Teotihuacan, Monte Alban, Tula e Chichen Itza. Non si presentava mai nelle città del Messico moderno. Il popolo lo applaudiva e gridava il suo nome. Ma Topiltzin non ascoltava più. Appena i riflettori si spensero, le guardie del corpo gli si affiancarono: il gruppetto scese per una scala posteriore per salire poi su un grosso camion. Il motore si accese e il veicolo, preceduto da una macchina e seguito da un'altra, avanzò lentamente fra la folla sino a raggiungere la strada. Poi svoltò verso la capitale dello Yucatán, Mérida, e accelerò. L'interno del camion era arredato lussuosamente e diviso fra una sala per le conferenze e l'alloggio privato di Topiltzin. Topiltzin discusse brevemente il programma dell'indomani con i seguaci più devoti. Al termine della riunione il camion si fermò e tutti gli augura-
rono la buonanotte. I seguaci, esausti, salirono sulle due macchine che li portarono negli alberghi di Mérida. Topiltzin chiuse la porta e si isolò da un mondo per entrare in un altro. Si tolse l'acconciatura piumata e la veste candida, rivelando un paio di pantaloni elegantissimi e una camicia sportiva. Aprì un armadietto, prese una bottiglia di Schramsberg Blanc de Blanc ghiacciato e la stappò. Bevve il primo bicchiere per placare la sete, ma assaporò lentamente il secondo. Poi entrò in uno stanzino che conteneva gli impianti per le comunicazioni, batté un numero in codice sul telefono olografico e si voltò verso il centro del locale. Una figura indistinta incominciò a materializzarsi in tre dimensioni. Nello stesso momento, anche Topiltzin diventò visibile a migliaia di chilometri di distanza. Quando l'immagine si definì, un uomo seduto su un'ottomana fissò Topiltzin. Aveva la carnagione scura e i capelli radi pettinati all'indietro luccicavano di brillantina. Gli occhi avevano uno splendore duro. Indossava una vestaglia di seta a disegni minuti sopra il pigiama. Studiò per un momento la camicia e i pantaloni di Topiltzin e aggrottò la fronte nel vedere che teneva in mano il bicchiere. «Tu vivi pericolosamente», gli disse in inglese americano. «Abiti firmati, champagne... fra poco comincerai con le donne.» Topiltzin rise. «Non indurmi in tentazione. È già abbastanza tremendo comportarmi come il papa e portare un costume ridicolo per diciotto ore al giorno anche senza praticare la castità.» «Anch'io devo sopportare gli stessi inconvenienti.» «Tutti e due abbiamo la nostra croce», disse Topiltzin in tono annoiato. «Non commettere imprudenze quando sei così vicino al successo.» «Non ne ho l'intenzione. Nessuno dei miei oserebbe disturbarmi nell'intimità. Quando sono solo, credono che sia in comunicazione con gli dei.» L'altro sorrise. «Mi sembra di conoscerla, questa routine.» «Bene, qual è la situazione?» «Gli accordi sono conclusi. Tutti saranno al loro posto quando verrà il momento. Ho pagato più di dieci milioni di pesos per organizzare l'incontro. Quando gli imbecilli hanno terminato il loro lavoro sono stati sacrificati, non soltanto per garantire il silenzio ma anche come avvertimento per quelli che attendono di mettere in pratica le nostre istruzioni.» «Complimenti. Sei stato molto meticoloso.» «Lascio l'astuzia a te.» Dopo quelle parole vi fu un silenzio amichevole che durò qualche istan-
te. Poi l'interlocutore di Topiltzin sorrise furbescamente ed estrasse da una piega della vestaglia un bicchiere di cognac. «Alla salute.» Topiltzin rise e alzò il bicchiere di champagne. «Alla riuscita dell'impresa.» Il visitatore incorporeo tacque per un momento. «Alla riuscita dell'impresa», ripeté quindi; poi aggiunse: «Senza inconvenienti». Dopo una pausa ancora più lunga disse in tono pensieroso: «Sarà interessante vedere in che modo i nostri sforzi cambieranno il futuro». 31. Il rombo dei motori si attuti quando il Beechcraft privo di contrassegni si alzò dal Buckley Field nei pressi di Denver e raggiunse l'altitudine di crociera. Le Montagne Rocciose incappucciate di neve rimasero indietro e l'aereo puntò verso le grandi pianure. «Il presidente invia i suoi più fervidi auguri per una rapida guarigione», disse Dale Nichols. «Si è molto irritato quando gli è stato riferito quanto è accaduto...» «Diciamo pure che era furibondo», intervenne Schiller. «Diciamo che non si è rallegrato», continuò Nichols. «Mi ha chiesto di esprimere le scuse più sentite perché non abbiamo saputo fornire maggiori misure di sicurezza e ha promesso che farà quanto è in suo potere per garantire la sua incolumità fino a che lei resterà negli Stati Uniti.» «Gli dica che gli sono grata», rispose Hala, «e che lo prego di dimostrare concretamente la massima gratitudine alle famiglie degli uomini che sono morti per salvarmi.» «Sarà provveduto a loro nel modo migliore», le assicurò Nichols. Hala era semisdraiata su un letto, e indossava una tuta di velour bianco a righe color giada con il colletto di maglia. La caviglia destra era ingessata. Guardò Nichols, poi Julius Schiller e il senatore Pitt, che erano tutti seduti di fronte al letto. «È un onore che tre personaggi tanto illustri abbiano abbandonato i loro compiti per venire in Colorado e riaccompagnarmi a New York.» «Se c'è qualcosa che possiamo fare...» «Avete già fatto molto più di quanto possa aspettarsi uno straniero ospite del vostro Paese.» «Lei ha più vite d'un gatto», commentò il senatore Pitt.
Hala accennò un sorriso. «E ne devo due a suo figlio. Ha il dono di apparire nel posto giusto quando meno lo si aspetta.» «Ho visto la vecchia macchina di Dirk. È un miracolo che siate sopravvissuti tutti e quattro.» «Una macchina splendida», sospirò Hala. «È un peccato che sia stata distrutta.» Nichols si schiarì la gola. «Se possiamo parlare del suo discorso di domani alle Nazioni Unite...» «I vostri hanno scoperto qualche dato concreto che porti ai manufatti della Biblioteca di Alessandria?» chiese bruscamente Hala. Nichols lanciò al senatore e a Schiller l'occhiata di chi ha messo all'improvviso un piede nelle sabbie mobili. Il senatore gli gettò una fune e diede la risposta. «Non abbiamo avuto il tempo di organizzare una ricerca intensiva», ammise sinceramente. «Sappiamo ben poco più di quel che sapevamo quattro giorni fa.» Nichols disse, in tono esitante: «Il presidente... per la verità, sperava...» «Le farò risparmiare tempo, signor Nichols.» Hala girò gli occhi verso Schiller. «Stia tranquillo, Julius, il mio discorso conterrà un breve riferimento alla scoperta imminente delle antichità della Biblioteca di Alessandria.» «Sono lieto di constatare che ha cambiato idea.» «Dopo quello che è successo, sono in debito con il suo governo.» Nichols sospirò di sollievo. «Il suo annuncio darà al presidente Hasan un netto vantaggio politico su Akhmad Yazid, e un'ottima occasione per esaltare il nazionalismo egiziano a scapito del fondamentalismo islamico.» «Non si aspetti troppo», intervenne il senatore. «Noi non facciamo altro che turare le crepe di una fortezza in rovina.» Schiller schiuse le labbra in un sorriso freddo. «Darei un mese di stipendio per vedere la faccia di Yazid quando si accorgerà d'essere stato messo nel sacco.» «Temo che si accanirà ancora di più contro Hala», sospirò Schiller. «Non credo», disse Nichols. «Se l'FBI potrà stabilire un collegamento fra i terroristi morti e Yazid e il sicario responsabile dell'incidente aereo e della morte di sessanta persone, molti egiziani moderati che non ammettono il terrorismo ritireranno il loro appoggio al suo movimento. E quando si vedrà attribuire pubblicamente un attentato del genere, dovrà pensarci due volte prima di ordinarne un altro contro la vita della signora Kamil.»
«Il signor Nichols ha ragione su una cosa», disse Hala. «In maggioranza gli egiziani sono musulmani sunniti che non seguono i sanguinari ideali rivoluzionari degli sciiti iraniani. Preferiscono una linea evolutiva che sposti lentamente la devozione del popolo da un governo democratico a un'autocrazia religiosa. Non accetteranno i metodi di Yazid.» Hala tacque per un momento. «Non sono d'accordo sul secondo punto. Yazid non si darà pace fino a che non sarò morta. È troppo fanatico per desistere. Con ogni probabilità, già in questo momento starà tramando un nuovo attentato contro di me.» «Probabilmente è così. Dobbiamo tener d'occhio Yazid», commentò il senatore. «Che progetti ha dopo il discorso all'ONU?» chiese Schiller. «Questa mattina, prima che lasciassimo l'ospedale, un addetto della nostra ambasciata a Washington mi ha consegnato una lettera del presidente Hasan. Vuole che m'incontri con lui.» «Se lascerà i nostri confini, non potremo più garantire la sua incolumità», disse Nichols. «Lo capisco», rispose Hala. «Ma non è il caso di preoccuparsi. Dopo l'assassinio del presidente Sadat, il servizio di sicurezza egiziano è diventato molto efficiente.» «Posso chiedere dove si svolgerà l'incontro?» chiese Schiller. «Oppure non è affar mio?» «Non è un segreto. Anzi, sarà seguito dai media di tutto il mondo», rispose Hala in tono noncurante. «Io e il presidente Hasan ci incontreremo durante la prossima conferenza economica di Punta del Este, in Uruguay.» La Cord, sfasciata e crivellata dai proiettili, era al centro dell'officina. Esbenson le girò intorno a passo lento e scosse la testa con aria triste. «È la prima volta che mi succede di dover restaurare un'auto d'epoca due giorni dopo averla finita.» «È stata una gran brutta giornata», rispose Giordino, che aveva un collare rigido, un braccio al collo e un orecchio coperto dalle bende. «È già un miracolo che ne siate usciti vivi.» A parte sei punti di sutura, nascosti quasi tutti dai capelli, Pitt era illeso. Batté affettuosamente la mano sul radiatore contorto come se fosse un animale domestico ferito. «Per nostra fortuna, a quei tempi costruivano le macchine perché durassero», disse a voce bassa.
Lily uscì zoppicando dall'ufficio. Aveva un livido sulla guancia sinistra e un altro intorno all'occhio destro. «Mi sono messa in contatto con Hiram Yaeger», annunciò. Pitt annuì e posò la mano sulla spalla di Esbenson. «Deve renderla ancora più bella di quanto fosse prima.» «Sarà questione di sei mesi di lavoro e di un mucchio di soldi», disse Esbenson. «Il tempo non è un problema, i soldi neppure.» Pitt sorrise. «Questa volta sarà il governo a saldare il conto.» Andò nell'ufficio e prese il telefono. «Hiram, hai qualcosa per me?» «Solo un rapporto sullo stato delle ricerche», rispose Yaeger da Washington. «Ho esaminato il mar Baltico e la costa della Norvegia.» «E non hai trovato niente?» «Niente di buono. Non c'è nulla che corrisponda ai contorni geologici e alle descrizioni geografiche del giornale di bordo della Serapis. I barbari di cui parla Rufinus non possono corrispondere agli antichi vichinghi. Dice che sembravano sciti ma avevano la pelle più scura.» «Questo preoccupa anche me», ammise Pitt. «Gli sciti venivano dall'Asia centrale. Non è molto probabile che avessero la carnagione chiara e i capelli biondi.» «Non vedo la ragione per continuare la ricerca con il computer intorno alla Norvegia e nelle acque settentrionali della Russia.» «Sono d'accordo. E l'Islanda? I vichinghi vi arrivarono mezzo millennio più tardi. Forse Rufinus si riferiva agli eschimesi.» «No, è impossibile», disse Yaeger. «Ho controllato. Gli, eschimesi non arrivarono mai in Islanda. E poi Rufinus ha aggiunto anche l'enigma della 'grande distesa di pini nani'. Non può averli trovati in Islanda: e non dimenticare che stai parlando di un viaggio di mille chilometri attraverso uno dei peggiori mari del mondo. La documentazione storica è molto precisa. - Le navi romane si allontanavano raramente fuori di vista della terra per più di due giorni. Il viaggio dalla massa continentale europea più vicina avrebbe richiesto a una nave del quarto secolo, anche in condizioni ideali, quattro giorni e mezzo.» «E allora come proseguiamo?» «Tornerò a passare in rassegna la costa dell'Africa occidentale. Forse ci è sfuggito qualcosa. Gli africani dalla pelle scura e un clima più caldo mi sembrano possibilità più logiche dei territori nordici, soprattutto per uomini che provenivano dal Mediterraneo.»
«Devi ancora spiegare come mai la Serapis arrivò fino alla Groenlandia.» «Una proiezione del vento e delle correnti potrebbe darci un indizio.» «Stasera tornerò a Washington», disse Pitt. «E domani verrò a trovarti.» «Forse avrò scoperto qualcosa», fece Yaeger, ma non aveva un tono ottimista. Pitt riattaccò e uscì dall'ufficio. Lily lo guardò con un'espressione di speranza, fino a che non gli lesse negli occhi il disappunto. «Nessuna buona notizia?» chiese. Pitt scrollò le spalle. «A quanto pare, siamo ancora al punto di partenza.» Lei gli prese il braccio. «Yaeger ce la farà», disse in tono incoraggiante. «Ma non può fare miracoli.» Giordino mostrò l'orologio che portava al polso illeso. «Non ci resta molto tempo per prendere il nostro volo. È meglio che ci sbrighiamo.» Pitt andò a stringere la mano a Esbenson. «La rimetta in sesto. Ci ha salvato la vita.» Esbenson lo squadrò. «Solo se promette che la terrà lontana dai proiettili volanti e dalle piste di sci.» «D'accordo.» Dopo che i tre se ne furono andati per raggiungere l'aeroporto, Esbenson aprì una delle portiere posteriori della Cord, e la maniglia gli restò fra le dita. «Dio», mormorò tristemente. «Che disastro.» 32. Un applauso fragoroso esplose nelle gallerie del pubblico e fra i delegati quando Hala rifiutò ogni aiuto e si avviò lentamente verso il podio sostenendosi con le grucce. Poi si fermò, calma e serena, e cominciò a parlare con voce energica e convincente. Il suo discorso fu sobrio e abilissimo. Commosse gli ascoltatori con un appello perché si ponesse fine alle inutili uccisioni di tanti innocenti in nome della religione. Solo quando invocò una censura a carico dei governi che tolleravano con troppa benevolenza le organizzazioni terroristiche, alcuni delegati si agitarono nei loro posti e guardarono nel vuoto. Un mormorio accolse l'annuncio della prossima scoperta della Biblioteca di Alessandria mentre gli ascoltatori mettevano a fuoco le immense poten-
zialità dell'avvenimento. Poi Hala attaccò Akhmad Yazid, accusandolo apertamente degli attentati alla sua vita. Hala concluse in tono fermo. Dichiarò che le minacce non l'avrebbero spinta ad abbandonare la carica di segretario generale: sarebbe rimasta fino a che gli altri delegati non avessero chiesto le sue dimissioni. La risposta fu un'ovazione che divenne fragorosa quando Hala si spostò su un lato del podio e la caviglia ingessata divenne visibile a tutti. «È davvero straordinaria», disse il presidente in tono d'ammirazione. «Che cosa non darei per averla nel mio governo.» Premette un tasto del telecomando e lo schermo del televisore si spense. «Un ottimo discorso», disse il senatore Pitt. «Ha fatto a pezzi Yazid... e ha fatto un'ottima propaganda al progetto di ricerca della biblioteca.» Il presidente annuì. «Sì, ci ha fatto un favore anche in questo.» «Naturalmente lei sa che sta per partire per l'Uruguay allo scopo di incontrarsi con il presidente Mubarak.» «Dale Nichols mi ha riferito la conversazione che avete avuto con lei a bordo dell'aereo», disse il presidente che era alla sua scrivania della Sala Ovale. «Come vanno le ricerche?» «I computer della NUMA stanno cercando di identificare l'ubicazione», rispose il senatore. «Sono arrivati vicini a un risultato?» Il senatore scosse la testa. «Non sono più vicini di quanto lo fossero quattro giorni fa.» «Non possiamo accelerare il procedimento? Chiamare in causa un gruppo di esperti, specialisti universitari, organi governativi?» Il senatore Pitt fece una smorfia dubbiosa. «La NUMA ha la miglior biblioteca del mondo per quanto riguarda gli oceani, i laghi e i fiumi. È tutto nei computer. Se non riusciranno a scoprire la destinazione della flotta egiziana, non ci riuscirà nessuno.» «E la documentazione archeologica e storica?» suggerì il presidente. «Forse in passato è stato scoperto qualcosa che potrebbe offrire un indizio.» «Può darsi che valga la pena di tentare. Conosco un tale all'università statale della Pennsylvania che è un ottimo ricercatore. Entro domani, potrebbe aver messo al lavoro trenta persone, qui e in Europa, per frugare negli archivi.» «Bene. Allora lo avverta.»
«Ora che i media e Hala hanno diffuso l'annuncio», disse il senatore, «metà dei governi e quasi tutti i cacciatori di tesori del mondo si saranno messi in cerca della biblioteca.» «Sì, lo ritengo probabile», disse il presidente. «Ma dobbiamo appoggiare il governo del presidente Hasan, e questo ha la precedenza assoluta. Se prima faremo la scoperta e poi fingeremo di fare marcia indietro dopo che Hasan avrà chiesto teatralmente la restituzione dell'intero tesoro all'Egitto, la sua popolarità all'interno del Paese farà un gran balzo in avanti. Diventerà un eroe agli occhi del popolo egiziano.» «E in questo modo si bloccherebbe il pericolo di una presa del potere da parte di Yazid e dei suoi seguaci», soggiunse il senatore. «L'unico problema è proprio Yazid. È imprevedibile. Neppure i nostri migliori esperti riescono a capirlo. È capace di tirar fuori un coniglio dal cappello e di rubare la scena a tutti.» Il presidente lo guardò con fermezza. «Non ci saranno problemi ad allontanarlo dalle luci della ribalta quando i tesori verranno consegnati al presidente Hasan.» «Sono d'accordo con lei, signor presidente, ma è pericoloso sottovalutare Yazid.» «Non è invincibile.» «È vero. Ma diversamente dall'ayatollah Khomeini è molto intelligente. È quello che le agenzie pubblicitarie definiscono un uomo esperto nei concetti.» «Forse in politica, ma non certo negli attentati.» Il senatore alzò le spalle e sorrise. «Senza dubbio sono stati i suoi collaboratori a rovinare i piani. Lei sa meglio di chiunque altro con quanta facilità un consigliere o un assistente può far franare anche il progetto più semplice.» Il presidente ricambiò il sorriso senza allegria. Si assestò sulla sedia e giocherellò con la penna. «Sappiamo pochissimo di Yazid. Ignoriamo da dove viene e che cosa pensi in realtà.» «Sostiene di aver trascorso i primi trent'anni della sua vita vagando nel deserto del Sinai e parlando con Allah.» «Allora ha rubato un'idea a Gesù Cristo. Che cos'altro sappiamo sul suo conto?» «È meglio che lo chieda a Dale Nichols», rispose il senatore. «Mi risulta che stia lavorando con la CIA per preparare un profilo biografico e psicologico.»
«Vediamo se hanno scoperto qualcosa.» Il presidente premette un tasto dell'intercorri. «Dale, può venire un momento da me?» «Subito», rispose la voce di Nichols. Nella Sala Ovale il silenzio durò quindici secondi, il tempo che Nichols impiegò per arrivare dal suo ufficio. Bussò, aprì la porta ed entrò. «Stavamo parlando di Akhmad Yazid», disse il presidente. «Gli uomini di Brogan hanno fornito qualche dato sui suoi precedenti?» «Ho parlato con Martin appena un'ora fa», rispose Nichols. «Ha detto che i suoi analisti dovrebbero preparare un dossier entro un giorno o due.» «Voglio vederlo non appena sarà stato completato», disse il presidente. «Non è per cambiare argomento», disse il senatore Pitt, «ma non sarebbe giusto che qualcuno informasse il presidente Hasan di ciò che abbiamo in mente nell'eventualità che la collezione della biblioteca possa essere ritrovata entro le prossime settimane?» Il presidente annui. «Senza dubbio.» Fissò il senatore. «George, potrebbe filarsela per quarantotto ore e provvedere a tutto?» «Vuole che m'incontri con Hasan in Uruguay.» Era un'affermazione più che una domanda. «Le dispiace?» «Per la verità, sarebbe un compito più adatto a Doug Oates al dipartimento di Stato. Lui e Joe Arnold del Tesoro sono già a Kington per gli incontri preliminari con gli esperti economici stranieri. Ritiene opportuno scavalcarlo in questo modo?» «In una situazione normale, no. Ma lei conosce i dettagli del progetto di ricerca. Si è già incontrato con il presidente Hasan in quattro diverse occasioni ed è in buoni rapporti con Hala Kamil. Per dirla in poche parole, è l'uomo più adatto per questa missione.» Il senatore alzò le mani in un gesto rassegnato. «Al Senato non ci sono in vista votazioni importanti. I miei collaboratori potranno sbrigare l'ordinaria amministrazione. Se metterà a mia disposizione un aereo del governo, potrò partire martedì sul presto, incontrare Hasan la sera stessa e riferire a lei nel pomeriggio seguente.» «La ringrazio, George.» Il presidente tacque per un momento, poi fece scattare la trappola. «C'è un'altra cosa.» «È sempre così», sospirò il senatore. «Vorrei che informasse il presidente Hasan, in privato e con la massima segretezza, che collaborerò pienamente con lui nel caso che decidesse di togliere di mezzo Yazid.»
La voce del senatore assunse un tono scandalizzato. «Da quando la Casa Bianca s'immischia negli assassinii politici? La supplico, signor presidente, non si abbassi al livello di Yazid e degli altri terroristi.» «Se qualcuno avesse avuto la preveggenza di portare Khomeini a fare una passeggiata dodici anni fa, il Medio Oriente sarebbe un posto molto più tranquillo.» «Il re Giorgio d'Inghilterra doveva pensarla allo stesso modo nel 1775 a proposito di Washington e delle colonie.» «Oh, andiamo, potremmo sprecare tutto il giorno a fare confronti. La decisione finale spetta a Hasan. È lui che dovrà dare il via.» «È una pessima idea», disse il senatore con fermezza. «Ho molti e gravi dubbi sulla proposta. Se si risapesse, potrebbe essere la rovina per la sua presidenza.» «Rispetto il suo consiglio e la sua sincerità. Perciò è l'unico di cui mi fido per comunicare il messaggio.» Il senatore cedette. «Farò quel che mi chiede e informerò Hasan della proposta relativa alla biblioteca, ma non si aspetti che gli suggerisca di assassinare Yazid, anche se quello lo meriterebbe.» «Farò avvertire del tuo arrivo i collaboratori di Hasan», disse Nichols, diplomaticamente. Il presidente si alzò dalla scrivania per indicare che l'incontro era terminato. Strinse la mano al senatore. «Le sono grato, amico mio. Aspetto il suo rapporto per mercoledì sera. Ceneremo insieme.» «Allora arrivederci, signor presidente.» «Faccia un buon volo.» Mentre lasciava la Sala Ovale, il senatore Pitt ebbe lo spiacevole presentimento che mercoledì sera il presidente avrebbe cenato da solo. 33. Il Lady Flamborough entrò nel piccolo porto di Punta del Este pochi minuti prima che il sole scendesse nell'entroterra. Una brezza leggera spirava da sud e agitava leggermente l'Union Jack issata a poppa. Era una bella nave da crociera, agile e splendidamente progettata, con le sovrastrutture aerodinamiche. Non seguiva la tradizione britannica che imponeva lo scafo nero e il bianco per la parte superiore. Era dipinta interamente di un azzurro ardesia, con il fumaiolo angolato e ornato da bande
porpora e bordeaux. Il Lady Flamborough apparteneva al nuovo tipo di navi da crociera eleganti e piuttosto piccole, e somigliava a un grande yacht. Lo scafo, lungo centoun metri, offriva tutti i lussi che si potevano trovare a bordo d'un mezzo galleggiante, contava cinquanta suite, e poteva trasportare soltanto cento passeggeri, serviti da un eguai numero di membri dell'equipaggio. Ma in quel viaggio in partenza dal porto abituale di San Juan di Portorico, aveva navigato senza passeggeri. «Due gradi a sinistra», disse il pilota dalla pelle scura. «Due gradi a sinistra», ripeté il timoniere. Il pilota, che indossava calzoncini e camicia kaki, tenne d'occhio la punta che riparava la baia fino a quando la vide passare dietro la poppa del Lady Flamborough. «Cominci a girare verso dritta e continui a zero otto zero.» Il timoniere ripeté il comando e la nave, lentamente, si inserì nella nuova rotta. Il porto era affollato di yacht e altre navi da crociera che ostentavano bandierine coloratissime, a punta e a coda di rondine. Alcuni erano stati noleggiati come hotel galleggianti per la conferenza, altri ospitavano i soliti passeggeri in vacanza. Quando arrivarono a mezzo chilometro dall'ormeggio il pilota ordinò di fermare i motori. La nave avanzò sull'acqua tranquilla, spinta dalla forza d'inerzia, ridusse la distanza e si fermò. Il pilota parlò nella trasmittente portatile. «Siamo in posizione. Adagio a poppa e calare l'ancora.» L'ordine arrivò a prua, e l'ancora scese in mare mentre la nave si spostava leggermente a poppa. Quando l'ancora toccò i sedimenti del fondo, la catena venne tesa e fu dato l'ordine di spegnere i motori. Il comandante Oliver Collins, un uomo snello e diritto come un filo a piombo nell'impeccabile uniforme bianca, fece un cenno con la testa al pilota e gli tese la mano. «Ottimo lavoro come sempre, signor Campos.» Il comandante Collins conosceva il pilota da quasi vent'anni, ma non chiamava per nome nessuno, neppure gli amici intimi. «Se fosse trenta metri più lunga non sarei riuscito a farla entrare.» Harry Campos sorrise scoprendo i denti ingialliti dal tabacco. Aveva un accento più irlandese che spagnolo. «Mi dispiace che non possiamo attraccare al molo, comandante, ma mi è stato detto di ormeggiare nel porto.»
«Per ragioni di sicurezza, immagino», disse Collins. Campos accese un mozzicone di sigaro. «La conferenza dei pezzi grossi ha messo sottosopra tutta l'isola. A vedere come si comporta la polizia, ci sarebbe da giurare che ci sia un cecchino dietro ogni palma.» Collins guardò dalle finestre della sala comando la famosa località di villeggiatura del Sud America. «Non posso lamentarmi. Questa nave ospiterà i presidenti del Messico e dell'Egitto durante la conferenza.» «È proprio vero?» mormorò Campos. «Non mi meraviglia che vogliano tenere la barca lontano dalla riva, allora.» «Posso offrirle un drink nella mia cabina... o meglio, data l'ora, mi farebbe l'onore di cenare con me?» Campos scosse la testa. «Grazie dell'invito, comandante.» Indicò le navi che riempivano il porto. «Ma c'è parecchio da fare. Magari potrò accettare la prossima volta che tornerà qui.» Campos compilò il mandato di pagamento e lo fece firmare al comandante Collins; poi guardò dalle finestre di poppa i ponti immacolati della nave. «Uno di questi giorni mi prenderò una vacanza e m'imbarcherò come passeggero.» «Me lo faccia sapere», disse Collins. «Farò in modo che la compagnia copra tutte le spese.» «È un'offerta molto gentile. Se lo dico a mia moglie, non mi darà pace finché non ne avrò approfittato.» «Sarà un piacere, signor Campos. Non ha che da dirlo.» La lancia del pilota si affiancò alla nave e Campos scese la scaletta e saltò a bordo. Fece un gesto di saluto con la mano mentre la lancia si allontanava e puntava verso il largo per andare incontro a un'altra nave in arrivo. «È stato il viaggio più piacevole che abbia mai fatto», disse Michael Finney, il primo ufficiale. «Equipaggio al completo e niente passeggeri. Per sei giorni ho avuto l'impressione di essere in paradiso.» La compagnia imponeva agli ufficiali di passare gran parte del tempo a intrattenere i passeggeri, un compito che Finney detestava con tutte le sue forze. Era un ottimo marinaio, e stava lontano il più possibile dalla sala da pranzo: preferiva mangiare in compagnia degli altri ufficiali e fare continui giri d'ispezione. Finney non aveva l'aspetto adatto a un frequentatore di avvenimenti mondani. Era grande e grosso, con un torace a botte che minacciava di esplodere dalla costrizione dell'uniforme.
«Non posso credere che non abbia sentito la mancanza delle conversazioni con i passeggeri», disse Collins in tono sarcastico. Finney fece una smorfia. «Non sarebbe così tremendo se non facessero sempre le solite, stupide domande.» «Ci vogliono cortesia e rispetto quando si tratta con i passeggeri, signor Finney», l'ammonì Collins. «È inevitabile. Si comporti bene, nei prossimi giorni. Avremo a bordo personaggi stranieri molto importanti.» Finney non rispose. Alzò gli occhi verso i grattacieli moderni che torreggiavano sopra le villette lungo la spiaggia. «Ogni volta che rivedo questa città», disse malinconicamente, «hanno aggiunto un altro albergo.» «Già, lei è uruguaiano.» «Sono nato poco lontano da Montevideo. Mio padre era rappresentante di un'industria di macchinari belga.» «Le farà piacere tornare a casa», disse Collins. «Non proprio. Avevo sedici anni quando m'imbarcai su una nave panamense che trasportava minerali. Mia madre e mio padre sono morti. Non è rimasto nessuno di quelli con cui sono cresciuto.» Finney s'interruppe per indicare un'imbarcazione che si avvicinava. «Ecco gli stramaledetti ispettori della dogana e dell'immigrazione.» «Dato che non abbiamo passeggeri e che l'equipaggio non scenderà a terra», disse Collins, «dovrebbe bastare un timbro.» «La seccatura peggiore sono gli ispettori sanitari.» «Informi il commissario di bordo, signor Finney. Poi li mandi nella mia cabina.» «Mi scusi, signore, ma non è un po' troppo... voglio dire, ricevere nella sua cabina semplici ispettori della dogana?» «Può darsi, ma voglio che tutto fili liscio con la burocrazia finché siamo in porto. Non si sa mai, prima o poi potremmo aver bisogno di un favore.» «Sì, signore.» Era già l'imbrunire quando i funzionari della dogana e dell'immigrazione si affiancarono al Lady Flamborough e salirono la scaletta. Le luci della nave si accesero all'improvviso e illuminarono i ponti superiori e le sovrastrutture. Ormeggiata in mezzo alle luci della città e delle altre navi da crociera, essa brillava come un diamante in un astuccio da gioielliere. Gli uruguaiani, preceduti da Finney, si avvicinarono alla porta della cabina del comandante. Collins studiò i cinque. Era molto attento e perspicace, e notò subito qualcosa di strano in uno di loro: aveva un cappello di
paglia calato sugli occhi e indossava una tuta, mentre gli altri erano vestiti in modo abbastanza accettabile: portavano le uniformi piuttosto casual caratteristiche delle isole dei Caraibi. L'uomo dal cappello di paglia entrò senza alzare la testa. Quando arrivarono alla porta, Finney si tirò da parte per lasciarli passare per primi. Collins andò loro incontro. «Buonasera, signori. Benvenuti a bordo del Lady Flamborough. Sono il comandante Oliver Collins.» I cinque continuarono a tacere, e Collins e Finney si scambiarono un'occhiata incuriosita. Poi l'uomo con la tuta si fece avanti e la tolse, rivelando un'uniforme bianca con i galloni dorati che era una copia esatta di quella del comandante. Si tolse il cappello di paglia e lo sostituì con un berretto intonato all'uniforme. Collins, che normalmente era un tipo imperturbabile, rimase sconcertato. Aveva l'impressione di guardarsi allo specchio. Lo sconosciuto avrebbe potuto passare facilmente per il suo gemello. «Lei chi è?» chiese Collins. «Che cosa sta succedendo?» «I nomi non sono necessari», disse Suleiman Aziz Ammar con un sorriso disarmante. «Assumo il comando della sua nave.» 34. La sorpresa è il fattore chiave per la riuscita di un'operazione segreta. E la sorpresa, nel caso del Lady Flamborough, fu totale. Eccettuato il comandante Collins, il primo ufficiale Finney e lo sbalordito commissario di bordo, che erano legati, imbavagliati e tenuti sotto sorveglianza nella cabina di Finney, nessuno degli altri ufficiali o dei membri dell'equipaggio sospettava che la nave fosse stata sequestrata. Animar aveva dimostrato un ottimo tempismo. I veri ispettori doganali uruguaiani arrivarono dopo dodici minuti. Li accolse come vecchie conoscenze, nel suo travestimento quasi perfetto. Gli uomini che aveva scelto personalmente per impersonare Finney e il commissario di bordo si tenevano all'ombra. Erano entrambi ufficiali di Marina esperti e somigliavano in modo notevole alle controparti. Pochi membri dell'equipaggio avrebbero notato le differenze nei volti a più di tre metri di distanza. Gli ispettori uruguaiani lasciarono la nave e si allontanarono. Ammar chiamò il secondo e il terzo ufficiale di Collins nella cabina del comandante. Doveva essere la prima prova decisiva. Se l'avesse superata senza destare sospetti, sarebbero diventati preziosi per lui come complici ignari
nella realizzazione del complicato complotto per le successive ventiquattro ore. Non era stato difficile assumere le sembianze di Dale Lemke, il pilota del volo Nebula 106. Ammar aveva fatto un calco in gesso della faccia del pilota dopo averlo assassinato. Ma era diverso passare per il comandante del Lady Flamborough. Era stato costretto a lavorare in base a otto fotografie di Collins, fornite quasi all'ultimo momento da uno dei suoi agenti in Gran Bretagna. Inoltre aveva dovuto iniettarsi una sostanza che aveva alzato la sua voce allo stesso livello delle registrazioni della voce di Collins. Si era rivolto a un artista perché scolpisse il volto di Collins in base alle foto; dal modello erano stati ricavati due stampi, positivo e negativo. Poi un lattice naturale, dello stesso colore della pelle di Collins, era stato pressato fra gli stampi fino a quando si era solidificato; quindi era stato cotto. Ammar aveva rifinito e adattato la maschera, usando un miscuglio di resina e di cera per nascondere le leggere diversità della struttura facciale. Infine si era applicato protesi di gommapiuma alle orecchie e al naso e aveva aggiunto il trucco. Aveva messo una parrucca del colore esatto, lenti a contatto della stessa tinta degli occhi di Collins, le capsule sui denti, ed era diventato l'immagine vivente del comandante della nave da crociera. Ammar non aveva avuto il tempo di studiare in modo approfondito la personalità di Oliver Collins o il suo comportamento. S'era limitato a un corso accelerato sulle sue mansioni e aveva imparato a memoria i nomi e le facce degli ufficiali. Non poteva far altro che tentare un bluff, puntando sul fatto che l'equipaggio non aveva alcun motivo di dubitare. Appena i due ufficiali entrarono nella cabina, Ammar provvide immediatamente a truccare i dadi in proprio favore. «Scusatemi, signori, se ho la voce e l'aria un po' strane, ma ho preso l'influenza.» «Devo chiamare il medico di bordo?» chiese il secondo ufficiale Herbert Parker, che era abbronzato, in ottima forma e aveva una faccia liscia da ragazzo che vedeva il rasoio soltanto il sabato sera. Era stato quasi un errore, pensò Ammar. Un medico che conosceva Collins lo avrebbe smascherato in un attimo. «Mi ha già dato tante pillole da soffocare un elefante. Mi sento in grado di cavarmela.» Il terzo ufficiale, uno scozzese che portava un nome inverosimile, Isaac Jones, si scostò dalla fronte un ciuffo di capelli rossi. «Possiamo fare qual-
cosa, signore?» «Sì, signor Jones», rispose Ammar. «Domani arriveranno i nostri passeggeri VIP. Lei si occuperà delle accoglienze. Non abbiamo spesso l'onore di ospitare due presidenti, e credo che la compagnia si aspetti da noi una cerimonia di prim'ordine.» «Sì, signore», rispose Jones. «Ci può contare.» «Signor Parker...» «Comandante?» «Fra un'ora arriverà un pontone per trasferire un carico per conto della compagnia. Lei si occuperà dell'operazione. Questa sera salirà a bordo anche un gruppo di addetti alla sicurezza. Provveda ad alloggiarli.» «Non ci hanno dato un grande preavviso per il carico, no, signore? E credevo che gli agenti della sicurezza egiziani e messicani non arrivassero prima di domattina.» «I dirigenti della nostra compagnia agiscono in modi misteriosi», disse Ammar con aria filosofica. «In quanto ai nostri ospiti armati, anche questo è un ordine superiore. Vogliono che il personale del servizio di sicurezza sia a bordo, nell'eventualità che insorgano guai.» «Una squadra del servizio di sicurezza che sovrintende l'altra?» «Qualcosa del genere. Credo che i Lloyds abbiano preteso ulteriori precauzioni o abbiano minacciato di innalzare a livelli astronomici i nostri premi assicurativi.» «Capisco.» «Qualche domanda, signori?» I due ufficiali non avevano nulla da chiedere. Si voltarono per andarsene. «Herbert, c'è un'altra cosa», disse Hammar. «Faccia sistemare a bordo il carico al più presto possibile e con la massima discrezione.» «Sì, signore.» Quando si furono allontanati dalla cabina di comando, Parker si rivolse a Jones: «L'hai sentito? Mi ha chiamato per nome. Non ti sembra molto strano?» Jones alzò le spalle, noncurante. «Deve stare peggio di quanto credevamo.» Il pontone si affiancò alla nave, ed entrò in funzione una piccola gru. L'operazione si svolse senza inconvenienti. Gli altri uomini di Ammar, in abiti da passeggio, salirono a bordo poco dopo e furono sistemati in quat-
tro suite libere. Verso mezzanotte il pontone si allontanò nell'oscurità. La gru del Lady Flamborough rientrò nella stiva e i grandi portelloni si richiusero. Ammar bussò cinque volte alla porta della cabina di Finney e attese. La porta si socchiuse e la guardia si scostò. Ammar diede un'occhiata al corridoio ed entrò. Fece un cenno con la testa per indicare il comandante. La guardia tolse il cerotto dalla bocca di Collins. «Mi dispiace causare tanto disturbo, comandante. Ma immagino sarebbe fiato sprecato chiederle di darmi la sua parola che non tenterà di fuggire e di avvertire l'equipaggio.» Collins stava seduto rigido, con le braccia e le gambe incatenate, e fissava Ammar con occhi pieni d'odio. «Sordido rifiuto da fogna.» «Voi britannici avete un garbo letterario nell'insulto che è molto divertente. Un americano avrebbe usato semplicemente una parola sola e dallo stesso significato.» «Non avrà la mia collaborazione né quella dei miei ufficiali.» «Neppure se ordinassi ai miei uomini di tagliare la gola alle donne dell'equipaggio e di gettarle agli squali una ad una?» Finney cercò di scattare, ma la guardia gli affondò nell'inguine il calcio del fucile automatico. Finney ricadde sulla sedia con un gemito soffocato e gli occhi resi vitrei dalla sofferenza. Collins non aveva staccato gli occhi da Ammar. «Non c'è da aspettarsi altro da una banda di terroristi subumani.» «Non siamo ragazzotti ignoranti intenzionati a massacrare gli infedeli», spiegò Ammar in tono paziente. «Siamo professionisti di prim'ordine. Non si ripeterà lo sfortunato episodio dell'Achille Lauro di qualche anno fa. Non abbiamo intenzione di assassinare nessuno. Il nostro scopo è semplicemente chiedere un riscatto per i presidenti Hasan e De Lorenzo e i loro collaboratori. Se non vi metterete in mezzo, ci accorderemo con i rispettivi governi e ce ne andremo per i fatti nostri.» Collins studiò la faccia di Ammar, cercando le tracce della menzogna, ma gli occhi dell'arabo rispecchiavano la più assoluta sincerità. Non poteva sapere che Ammar era un maestro dell'inganno. «Ma non esiterebbe a massacrare il mio equipaggio.» «E anche lei, naturalmente.» «Che cosa vuole da me?» «Da lei, niente. Il signor Parker e il signor Jones mi hanno accettato come Oliver Collins. Ho bisogno dei servigi del primo ufficiale Finney. Lei
gli ordinerà di obbedirmi.» «Perché ha bisogno di Finney?» «Ho aperto lo schedario nella sua cabina e ho letto i dossier personali degli ufficiali. Finney conosce queste acque.» «Non capisco dove voglia arrivare.» «Non possiamo correre il rischio di chiedere un pilota», spiegò Ammar. «Domani, quando sarà buio, Finney si metterà al timone e guiderà la nave attraverso il canale fino al mare aperto.» Collins rifletté. Poi scosse la testa. «Appena le autorità portuali se ne accorgeranno, bloccheranno l'entrata del porto, anche se lei minaccerà di sterminare tutti coloro che sono a bordo.» «Una nave a luci spente può uscire inosservata in una notte buia», gli assicurò Ammar. «E fin dove pensa di arrivare? Tutte le motovedette nel raggio di centocinquanta chilometri avranno circondato la nave prima che faccia giorno.» «Non ci troveranno.» Collins lo fissò, sbalordito. «È pazzesco. Non si può nascondere una nave come il Lady Flamborough.» «È vero», concordò Ammar con un freddo sorriso. «Ma io posso renderla invisibile.» Jones era chino sulla scrivania nella sua cabina e prendeva appunti per le cerimonie di benvenuto dell'indomani mattina quando Parker bussò alla porta ed entrò. Aveva l'aria stanca e l'uniforme macchiata di sudore. Jones si voltò. «Sono finite le operazioni di carico?» «Sì, grazie a Dio.» «Ti andrebbe un bicchierino?» «Il tuo ottimo whisky di malto scozzese?» Jones si alzò e prese una bottiglia da un cassetto. Riempì due bicchieri e ne porse uno a Parker. «Cerca di vederla così», disse. «Domattina non dovrei entrare in servizio presto.» «L'avrei preferito», disse Parker con voce stanca. «E tu?» «Sono appena smontato.» «Non ti avrei disturbato se non avessi visto la luce accesa.» «Sto sgobbando fino a notte alta per assicurarmi che domani tutto vada liscio.» «Finney non è in giro, e avevo voglia di parlare con qualcuno.»
Per la prima volta, Jones notò l'espressione confusa degli occhi di Parker. «C'è qualcosa che ti preoccupa?» Parker bevve lo scotch e fissò il bicchiere vuoto. «Ho appena preso a bordo il carico più strano che abbia mai visto per una nave da crociera.» «E che cos'hai caricato?» chiese Jones, assalito dalla curiosità. Parker rimase in silenzio per qualche istante e scosse la testa. «Materiale per dipingere. Pistole a spruzzo, pennelli, rulli, e cinquanta bidoni che immagino siano di vernice.» «Di che colore?» chiese Jones. Parker scosse di nuovo la testa. «Non saprei. Le scritte sui bidoni sono in spagnolo.» «Non c'è niente di strano. La compagnia vorrà averli sottomano quando il Lady Flamborough andrà in cantiere per la manutenzione.» «Ma non è tutto. Abbiamo caricato anche rotoli enormi di plastica.» «Plastica?» «E grandi fogli di fibra», continuò Parker. «Dobbiamo aver caricato chilometri e chilometri di roba. Anzi, abbiamo stentato a farla passare attraverso i portelloni. Abbiamo sgobbato tre ore buone per sistemare tutto.» Jones fissò il bicchiere a occhi socchiusi. «Che cosa credi che voglia farsene la compagnia?» Parker alzò la testa con aria perplessa. «Non ne ho la più pallida idea.» 35. Gli agenti egiziani e messicani del servizio di sicurezza salirono a bordo poco dopo il levar del sole, ispezionarono la nave in cerca di esplosivi nascosti e controllarono i fascicoli personali dei membri dell'equipaggio per scoprire un eventuale sicario. A parte alcuni indiani e pakistani, erano tutti britannici e non avevano alcun motivo di rancore contro i governi dell'Egitto e del Messico. I terroristi di Ammar parlavano tutti perfettamente l'inglese. Si mostrarono pronti a collaborare, esibirono i passaporti britannici falsi e i documenti dell'assicurazione e offrirono la loro assistenza per l'ispezione. Il presidente De Lorenzo salì a bordo quella mattina, più tardi. Era un uomo poco oltre la sessantina, basso e robusto, con i capelli grigi spettinati, i mesti occhi scuri, e l'aria sofferente di un intellettuale rinchiuso in manicomio.
Ammar, che impersonava il comandante Collins, lo accolse con un'interpretazione che avrebbe meritato un premio. L'orchestra di bordo suonò l'inno nazionale messicano, poi il presidente e il suo seguito furono scortati nelle loro suite, sul lato di destra del Lady Flamborough. A metà pomeriggio lo yacht di un ricco esportatore egiziano si affiancò alla nave, e salì a bordo il presidente Hasan. L'egiziano era l'esatto contrario del collega messicano. Era più giovane, cinquantaquattro anni, e aveva i capelli neri e radi. Era alto ed esile e si muoveva come se fosse ammalato. Gli occhi scuri erano acquosi e avevano un'espressione di sospetto. La cerimonia di benvenuto si ripeté e il presidente Hasan e il suo seguito furono sistemati nelle suite di sinistra. Più di cinquanta capi di Stato del Terzo Mondo erano arrivati a Punta del Este per il vertice economico. Alcuni avevano preferito alloggiare nelle tenute principesche dei loro compatrioti o all'esclusivo Cantegril Country Club. Altri avevano scelto la tranquillità della nave da crociera ancora in porto. Diplomatici e giornalisti affollarono ben presto strade e ristoranti. I funzionari uruguaiani non sapevano come sbrigarsela con quella massa di stranieri importanti venuti ad aggiungersi ai soliti turisti. Le forze armate e la polizia del Paese facevano del loro meglio per controllare la situazione, ma venivano sopraffatte dalla marea umana che invadeva le strade e dovevano rinunciare ai tentativi di controllare il traffico, limitandosi a vegliare sugli alti personaggi che partecipavano alla riunione. Dal ponte di comando, Ammar scrutava la città attraverso il binocolo. L'abbassò per un momento e consultò l'orologio. Il suo amico Ibn lo studiò con attenzione. «Stai contando i minuti che mancano al cader della notte, Suleiman Aziz?» «Il sole tramonterà fra quarantatré minuti», rispose Ammar senza voltarsi. «C'è molto movimento sull'acqua», disse Ibn, indicando la flotta delle piccole imbarcazioni che sfrecciavano nel porto, con i ponti carichi di giornalisti in cerca d'interviste e di turisti ansiosi di vedere qualche celebrità. «Non far salire a bordo nessuno, tranne i delegati egiziani e messicani al seguito di De Lorenzo e di Hasan.» «E se qualcuno vuol scendere a terra prima che partiamo?» «Lascialo fare», disse Ammar. «Tutto deve sembrare normale. La confusione in città torna a nostro vantaggio. Non si accorgeranno della nostra
sparizione fino a che sarà troppo tardi.» «Le autorità portuali non sono stupide. Cominceranno a indagare quando, dopo l'imbrunire, non accenderemo le luci.» «Li informeremo che il nostro generatore principale è in riparazione.» Ammar indicò un'altra nave da crociera ancorata un po' più al largo, tra il Lady Flamborough e la penisola. «Da riva, le loro luci sembreranno le nostre.» «A meno che qualcuno voglia controllare più da vicino.» Ammar alzò le spalle. «Ci basta un'ora per raggiungere il mare aperto. Il servizio di sicurezza uruguaiano non prenderà in considerazione la possibilità di una ricerca fuori del porto prima che faccia giorno.» «Se dobbiamo eliminare in tempo utile gli agenti messicani ed egiziani», disse Ibn, «bisogna incominciare subito.» «Le armi hanno il silenziatore?» «Non faranno più rumore di uno schiocco di dita.» Ammar gli lanciò un'occhiata penetrante. «Furtività e discrezione, amico mio. Ricorrete a tutti gli inganni necessari per isolarli ed eliminarli uno alla volta. Niente chiasso, niente scompiglio. Se qualcuno riuscisse ad abbandonare la nave e ad avvertire le forze di sicurezza a terra, moriremo tutti. Assicurati che i tuoi uomini l'abbiano capito bene.» «Avremo bisogno di tutti, per sbrigare il lavoro di questa notte.» «Allora è venuto il momento di guadagnarci la paga e di fare di Yazid il padrone dell'Egitto.» Le prime a essere eliminate furono le guardie egiziane. Non avevano motivo di diffidare dei falsi agenti di Ammar e si lasciarono attirare facilmente nelle suite vuote dove furono sterminate. Furono usati tutti i trucchi per trarre in inganno gli uomini del servizio di sicurezza. La menzogna che funzionava meglio consisteva nel far credere che uno dei superiori era stato colpito da avvelenamento da cibo e che il comandante della nave voleva parlare con loro. Non appena un agente egiziano varcava la soglia, la porta si chiudeva e uno dei terroristi gli sparava al cuore. Poi il sangue veniva ripulito in fretta e i cadaveri venivano ammucchiati nella camera da letto adiacente. Quando fu il turno dei messicani, due delle guardie di De Lorenzo s'insospettirono e rifiutarono di entrare nella suite; ma furono sopraffatte e accoltellate in un corridoio deserto prima che potessero dare l'allarme. A uno a uno gli agenti di sicurezza furono uccisi: dodici in tutto. Alla fi-
ne rimasero soltanto due egiziani e tre messicani che montavano di sentinella davanti alle suite dei rispettivi presidenti. L'oscurità stava calando quando Ammar si tolse l'uniforme di comandante della nave e indossò una tuta di cotone nero. Poi si tolse la maschera di lattice e ne mise una da clown. Si stava allacciando una cintura con due pistole automatiche e una radio portatile quando Ibn bussò ed entrò nella cabina. «Ne restano cinque», annunciò. «Possiamo eliminarli solo con un assalto diretto.» «Ottimo lavoro», disse Ammar. Fissò Ibn con fermezza. «Non abbiamo più bisogno di ricorrere ai sotterfugi. Attaccateli. Ma raccomanda ai tuoi di essere prudenti. Non voglio che Hasan e De Lorenzo rimangano accidentalmente uccisi.» Ibn annuì e passò l'ordine a uno dei suoi uomini che attendeva fuori della porta. Poi si voltò verso Ammar con un sorriso baldanzoso. «Puoi considerare la nave in mano nostra.» Ammar indicò un grosso cronometro di ottone appeso sopra la scrivania del comandante Collins. «Partiremo fra trentasette minuti. Raduna tutti i passeggeri e i membri dell'equipaggio, eccettuati i macchinisti. Fai in modo che quelli siano pronti a partire quando darò l'ordine. Raduna gli altri nella sala da pranzo principale. È ora che ci riveliamo e che facciamo conoscere le nostre richieste.» Ibn non rispose. Rimase immobile e sorrise fino a scoprire tutti i denti. «Allah ci ha accordato una grande fortuna», disse finalmente. Ammar lo fissò. «Questo lo sapremo meglio fra cinque giorni.» «Ci ha già mandato un segno del suo favore. Lei è qui.» «Lei? Di chi stai parlando?» «Di Hala Kamil.» In un primo momento Ammar non comprese. Poi non riuscì a credere a ciò che aveva sentito. «La Kamil? È su questa nave?» «È salita a bordo meno di dieci minuti fa», annunciò Ibn, raggiante. «L'ho messa sotto guardia in uno degli alloggi per l'equipaggio.» «Allah è davvero magnanimo», esultò Ammar. «Sì, ha mandato la mosca al ragno», disse Ibn. «E ti ha offerto una seconda possibilità di ucciderla in nome di Akhmad Yazid.» All'avvicinarsi dell'oscurità, una leggera pioggia tropicale sgombrò il cielo per dirigersi poi verso nord. Le luci si accendevano nelle vie di Punta
del Este e sulle navi nel porto, e lanciavano sull'acqua riflessi guizzanti. Al senatore Pitt sembrava strano che del Lady Flamborough si vedesse soltanto il profilo contro le luci della nave ancorata poco più indietro. Sembrava buio e deserto mentre la lancia descriveva un arco davanti alla prua e si accostava alla scaletta. Il senatore, che portava una borsa, balzò agilmente sulla stretta piattaforma. Aveva salito appena due gradini quando la lancia si staccò e si diresse verso il molo. Quando arrivò sul ponte si accorse d'essere solo. C'era qualcosa che non andava, assolutamente. Il suo primo pensiero fu il timore di essere salito a bordo della nave sbagliata. Gli unici suoni di vita erano una voce che giungeva attraverso un altoparlante dalla sovrastruttura, e il rombo dei generatori in funzione nelle viscere della nave. Si voltò per richiamare la lancia, ma ormai era troppo lontano perché potessero sentirlo nel fragore del vecchio motore diesel. Poi una figura in tuta nera uscì dalle ombre e gli puntò un fucile automatico allo stomaco. «È questo il Lady Flamborough?» chiese il senatore Pitt. «Lei chi è?» La voce era poco più di un sussurro. «Che cosa vuole?» La guardia continuava a imbracciare l'arma, con la testa inclinata ad angolo mentre il senatore spiegava la sua presenza. «Dice di essere il senatore George Pitt, americano. Non era atteso.» «Il presidente Hasan è stato informato del mio arrivo», ribatté con impazienza il senatore. «Abbassi l'arma e mi porti da lui.» Negli occhi della guardia balenò un lampo sospettoso nel riflesso delle luci della terraferma. «C'è qualcun altro con lei?» «No. Sono solo.» «Deve tornare a terra.» Il senatore indicò con la testa la lancia che si allontanava. «Il mio mezzo di trasporto è ripartito.» La guardia sembrò riflettere. Alla fine abbassò l'arma, percorse pochi passi e si fermò davanti a una porta. Tese la mano libera verso la borsa. «Qui dentro», mormorò come se confidasse un segreto. «La borsa la dia a me.» «Sono documenti ufficiali», ribatté il senatore. Strinse la borsa con entrambe le mani. Andò a urtare contro una pesante tenda nera, la scostò bruscamente e si trovò nell'immenso salone-sala da pranzo. Le pareti erano rivestite di pannelli di quercia, nello stile di un maniero inglese. Una piccola folla di per-
sone, alcune in piedi, altre sedute, in uniforme o in borghese, si voltò all'unisono per guardarlo come se fosse la palla in una partita a tennis. C'erano nove uomini schierati lungo le pareti, silenziosi e seri, in tute nere e scarpe da jogging. Ognuno di loro faceva girare lentamente la canna di un'arma automatica verso il gruppo dei prigionieri. «Benvenuto», disse la voce di qualcuno che stava su un podio davanti a un microfono. L'uomo era identico agli altri, a parte la maschera comica che gli copriva la faccia. «Ci dica chi è, prego.» Il senatore Pitt sgranò gli occhi, confuso. «Che cosa sta succedendo?» «Risponda alla mia domanda», insistette Ammar con gelida cortesia. «Sono il senatore George Pitt del Congresso degli Stati Uniti. Sono venuto per conferire con il presidente egiziano Hasan. Mi è stato detto che era a bordo di questa nave.» «Troverà il presidente Hasan seduto in prima fila.» «Perché quegli uomini tengono le armi puntate contro tutti?» Ammar rispose con simulata pazienza. «Mi sembra ovvio, senatore. Lei è capitato per caso nel mezzo di un dirottamento.» Lo sbalordimento e la paura cominciarono ad affiorare nella mente del senatore Pitt. Si mosse come ipnotizzato, passò davanti al comandante Collins e ai suoi ufficiali, e fissò i volti pallidi e noti dei presidenti Hasan e De Lorenzo. Poi si fermò di colpo quando incontrò gli occhi sgomenti di Hala Kamil. E in quel momento si rese conto che sarebbe morta parecchia gente. Passò un braccio intorno alle spalle di Hala, e si sentì travolgere da una collera improvvisa. «In nome di Dio, si rende conto di quel che sta facendo?» urlò, rivolto al dirottatorc «So benissimo che cosa sto facendo», disse Ammar. «Allah mi ha assistito in ogni passo di questo cammino. Per dirla nel linguaggio del poker, ha rialzato la posta con l'arrivo inaspettato del segretario generale delle Nazioni Unite e con quello di un illustre senatore degli Stati Uniti.» «Ha commesso un errore gravissimo», sibilò il senatore in tono di sfida. «Non sopravvivrà per potersi vantare di questa impresa.» «Ah, e invece ci riuscirò.» «Impossibile!» «Non è affatto impossibile», ribatté Ammar con un tono minaccioso. «E lo vedrete tutti.» 36.
Nichols aveva indossato il cappotto e stava riponendo i documenti nella borsa prima di andare a casa quando la segretaria si affacciò alla porta. «C'è un tale di Langley che è venuto a consegnare qualcosa.» «Lo faccia entrare.» Un agente della CIA che Nichols riconobbe immediatamente entrò con un'antiquata cartella da contabile. «Mi ha trovato appena in tempo, Keith», disse Nichols. «Stavo per tornare a casa.» Keith Farquar aveva un gran paio di baffi ispidi, folti capelli neri e occhiali dalla montatura d'osso. Era un uomo grande e grosso dagli occhi contemplativi: il tipo di agente, pensò Nichols, che costituiva il classico baluardo dell'Agenzia. Farquar sedette senza attendere l'invito, mise la cartella sulle ginocchia e regolò la combinazione che sbloccava la serratura disattivando così il circuito della piccola carica esplosiva interna. Estrasse un fascicoletto e lo mise sulla scrivania di fronte a Nichols. «Il signor Brogan mi ha incaricato di dirle che i dati certi su Akhmad Yazid sono molto scarsi. Non esistono documenti biografici riguardanti la nascita, i genitori, gli antenati, gli studi, il matrimonio, i figli, i precedenti penali o civili. Gran parte di ciò che la nostra sezione mediorientale è riuscita a raccogliere proviene dalle descrizioni di individui che lo hanno conosciuto. Purtroppo quasi tutti, per una ragione o per l'altra, sono diventati nemici di Yazid e quindi le indicazioni fornite da loro sono abbastanza di parte.» «La vostra sezione psicologica ha preparato un profilo?» chiese Nichols. «Hanno realizzato una proiezione approssimativa. Yazid è impenetrabile come una tempesta di sabbia nel deserto. Un sipario protettivo l'ha avvolto nel mistero. Le interviste dei giornalisti con i suoi seguaci sono disseminate di ambiguità e di vaghe alzate di spalle.» «E questo accentua l'effetto miraggio», commentò Nichols. Farquar sorrise. «È la descrizione esatta di Yazid fatta dal signor Brogan. 'Un miraggio sfuggente.'» «Grazie per avermi portato il fascicolo», disse Nichols. «E ringrazi tutti coloro che si sono dati da fare per raccogliere queste informazioni.» «Sempre a disposizione dei clienti.» Farquar fece scattare i fermagli della cartella e si avviò alla porta. «Buonasera.» «Buonasera anche a lei.»
Nichols suonò per chiamare la segretaria che comparve con il cappotto indosso e la borsetta in mano. «Posso fare qualcosa prima di andare?» chiese preoccupata di doversi fermare a fare gli straordinari per la terza sera consecutiva. «Può chiamare mia moglie prima di uscire?» chiese Nichols. «Le dica di non preoccuparsi. Arriverò per la cena, ma con un ritardo di mezz'ora.» La segretaria sospirò, sollevata. «Sì, signore, glielo dirò. Buonanotte.» «Buonanotte.» Nichols mise la pipa fra i denti ma non la caricò e non l'accese. Posò la borsa su un angolo della scrivania e poi, senza togliersi il cappotto, sedette ed esaminò il dossier di Yazid. Farquar non aveva esagerato. C'era pochissimo. Anche se negli ultimi sei anni le notizie non scarseggiavano, la vita di Yazid prima della rapida ascesa occupava poco più di un capoverso. Il suo debutto nei media incominciava con il suo arresto da parte della polizia egiziana durante un sit-in di protesta delle masse affamate del Cairo nell'atrio d'un lussuoso hotel per turisti. Si era distinto predicando nelle aree più miserabili del Paese. Akhmad Yazid affermava d'essere nato nella povertà più squallida, in una capanna d'argilla fra i mausolei cadenti della Città dei Morti che dilagava nelle discariche d'immondizia del Cairo. La sua famiglia aveva tirato avanti ai margini tra la sopravvivenza e la morte fino a che le sorelle e il padre erano stati uccisi da malattie causate dalla denutrizione e dalle pessime condizioni igieniche. Non aveva ricevuto istruzione, a parte quella datagli durante l'adolescenza da santoni islamici, nessuno dei quali era stato rintracciato perché confermasse l'affermazione. Yazid sosteneva che il profeta Maometto parlava per suo tramite, faceva rivelazioni divine ai fedeli e li esortava a trasformare l'Egitto in uno stato utopico musulmano. Yazid aveva una voce sonante, l'abilità e l'eloquenza necessarie per affascinare una folla di ascoltatori, e portarla lentamente a vertici febbrili. Affermava che la filosofia occidentale non poteva risolvere i problemi socioeconomici dell'Egitto, Predicava che tutti gli egiziani appartenevano a una generazione perduta e dovevano ritrovare se stessi tramite la sua visione morale. Sebbene dichiarasse con veemenza il contrario, era ormai chiaro che Yazid non esitava a ricorrere al terrorismo per realizzare i suoi scopi. Cinque incidenti diversi, inclusi l'assassinio di un generale delle forze aeree, l'esplosione di un camion davanti all'ambasciata sovietica, l'assassinio di
quattro docenti universitari che avevano parlato in favore dello stile di vita dell'Occidente, erano stati fatti risalire a Yazid. Non c'erano prove ma, tramite le scarse notizie fornite da informatori musulmani, gli analisti della CIA erano arrivati alla conclusione che Yazid stesse preparando un colpo decisivo per eliminare il presidente Hasan e, sulle ali del consenso popolare, prendere il potere. Nichols posò il rapporto e finalmente riempì la pipa e l'accese. Un'intuizione gli sfiorò la mente. C'era qualcosa, nel rapporto, che gli sembrava vagamente familiare. Posò una foto di Yazid che fissava con aria malevola l'obiettivo. E Nichols trovò la soluzione. Era semplice e sconvolgente. Prese il telefono e fece il numero di una linea diretta, poi rimase a tamburellare con le dita sul piano della scrivania fino a quando gli rispose una voce. «Qui Brogan.» «Martin, grazie al cielo sei ancora in ufficio. Sono Dale Nichols.» «Che cosa posso fare per te, Dale?» chiese il direttore della CIA. «Hai avuto il materiale su Akhmad Yazid?» «Sì, grazie», disse Nichols. «L'ho esaminato e ho trovato qualcosa per cui mi serve il tuo aiuto.» «Sicuro. Che cosa?» «Ho bisogno di due serie di impronte digitali e di gruppi sanguigni.» «Impronte digitali?» «Esatto.» «Oggi noi usiamo i codici genetici e il DNA», rispose Brogan in tono indulgente. «C'è una ragione particolare?» Nichols fece una pausa per raccogliere i suoi pensieri. «Se te lo dicessi, lo giuro, penseresti che sono matto da legare.» Yaeger si tolse gli occhialetti da lettura, li mise nella tasca del giubbotto, riordinò un mucchio di rapporti dei computer, e finalmente si assestò sulla sedia e cominciò a bere una diet soda. «Niente», disse in tono avvilito. «Fatica sprecata su tutta la linea. Una pista vecchia di milleseicento anni è troppo fredda perché sia possibile seguirla senza dati concreti. Un computer non può tornare indietro nel tempo e dirti esattamente come stavano le cose.» «Forse il dottor Gronquist potrà accertare dove aveva fatto scalo la Serapis, dopo che avrà studiato i manufatti», ipotizzò Lily in uno slancio
d'ottimismo. Pitt era seduto un po' in disparte dagli altri due nel piccolo emiciclo della NUMA. «Gli ho parlato per radio un'ora fa. Non ha trovato niente che non sia d'origine mediterranea.» Lo schermo sopra il podio era occupato da una proiezione tridimensionale dell'oceano Atlantico che mostrava i corrugamenti della terra e la geologia irregolare del fondo marino. Tutti sembravano affascinati. I loro occhi ritornavano sempre a quelle immagini mentre parlavano. Tutti, cioè, a eccezione dell'ammiraglio James Sandecker che scrutava sospettoso Al Giordino, e soprattutto il grosso sigaro che gli spuntava da una parte della bocca come se fosse cresciuto da un seme. «Quando ha cominciato a comprare gli Hoyo de Monterrey Excalibur?» Giordino guardò l'ammiraglio con aria innocente. «Sta parlando con me?» «Dato che siamo gli unici, qui dentro, a fumare gli Excalibur e io non ho l'abitudine di parlare a me stesso... sì.» «Ottimo, gusto pieno», disse Giordino. Si tolse il sigaro dalla bocca e lanciò uno sbuffo di fumo azzurro. «Lei è un autentico intenditore.» «Dove l'ha preso?» «In un negozietto di Baltimora. Ho dimenticato il nome.» Sandecker non si lasciò imbrogliare. Giordino gli rubava da anni i suoi preziosi sigari. L'ammiraglio era furioso soprattutto perché non era mai riuscito a scoprire come facesse. Per quanto li nascondesse o li tenesse sottochiave, ogni settimana ne sparivano due. Giordino teneva il segreto con Pitt perché il suo migliore amico non fosse costretto a mentire se gli fossero state chieste spiegazioni in merito. Solo Giordino e un suo vecchio collega dell'Aeronautica, che faceva di professione il ladro per conto di un servizio segreto, conoscevano la verità sull'Operazione Sigaro. «Quasi quasi vorrei vedere la ricevuta», ringhiò Sandecker. «Abbiamo affrontato il problema da un punto di vista sbagliato», intervenne Pitt per tornare in argomento. «C'è un altro punto di vista?» ribatté Yaeger. «Abbiamo seguito l'unico metodo logico possibile.» «Senza indicazioni della direzione era un lavoro impossibile», confermò Lily. «È un vero peccato che Rufinus non annotasse sul diario di bordo la sua posizione e le distanze percorse ogni giorno.»
«Aveva l'ordine preciso di non registrare niente.» «Ma a quei tempi erano in grado di accertare una posizione?» chiese Giordino. Lily annuì. «Il greco Ipparco determinò le posizioni di certi punti di riferimento terrestri calcolandone la latitudine e la longitudine... e lo fece centotrent'anni prima di Cristo.» Sandecker intrecciò le mani sullo stomaco e scrutò Pitt al di sopra degli occhiali. «Conosco bene quell'espressione assorta. C'è qualcosa che l'assilla.» Pitt si assestò sulla poltroncina. «Abbiamo giudicato i fatti e tirato a indovinare senza tenere in considerazione l'uomo che aveva ideato il piano.» «Junius Venator?» «Un individuo geniale», continuò Pitt. «Un contemporaneo lo descrisse come 'un audace innovatore che si avventurava in campi dove altri studiosi non osavano'. Abbiamo dimenticato di porci una domanda: se fossimo stati al posto di Venator, dove avremmo nascosto i più grandi tesori d'arte e della letteratura del nostro tempo?» «Io insisto: in Africa», disse Yaeger. «Preferibilmente oltre il Capo, e risalendo un fiume della costa orientale.» «Ma i tuoi computer non sono riusciti a stabilire una corrispondenza.» «Non ci si sono neppure avvicinati», ammise Yaeger. «Ma Dio sa quanto sono cambiate le formazioni geografiche dai tempi di Venator.» «È possibile che Venator avesse portato la flotta a nord-est, nel Mar Nero?» chiese Lily. «Rufinus parla molto chiaramente di un viaggio durato cinquantotto giorni», disse Giordino. Sandecker tirò una boccata dal sigaro e annuì. «Sì, ma se la flotta fu investita dalle tempeste o dai venti contrari, in cinquantotto giorni potrebbe aver coperto molto meno di milleseicento chilometri.» «L'ammiraglio ha ragione», ammise Yaeger. «Le navi di quel periodo erano costruite per sfruttare il vento e non avevano la velatura adatta per navigare bordeggiando. Il maltempo potrebbe aver ridotto la velocità dell'ottanta per cento.» «Però», obiettò a questo punto Pitt, «Venator aveva fatto caricare sulle navi un quantitativo di provviste quadruplo rispetto al normale.» «Quindi prevedeva un viaggio molto lungo», disse Lily. «Venator non contava certo di prendere terra dopo pochi giorni per rifornire la flotta.» «Per me», interloquì Sandecker, «tutto questo dimostra che Venator vo-
leva mantenere segreto il viaggio per quanto era possibile evitando di prendere terra e di lasciare tracce.» Pitt scosse la testa. «Quando le navi avessero superato lo stretto di Gibilterra, la segretezza non avrebbe più avuto ragione di esistere. Venator sarebbe stato libero di fare tutto ciò che voleva. Le navi da guerra bizantine mandate eventualmente all'inseguimento sarebbero state all'oscuro della sua rotta come lo siamo noi.» Yaeger gli lanciò un'occhiata. «E allora mettiamoci nei panni di Venator. Che cosa contiamo di fare?» «Senza volere il dottor Rothberg ha trovato la chiave del mistero», spiegò Pitt. «Pensa che Venator avesse sepolto il tesoro in un luogo dove nessuno, ai suoi tempi, avrebbe pensato di cercarlo.» Yaeger lo fissò senza capire. «Allora può averlo nascosto in qualunque località del mondo antico.» «Oppure fuori dei confini del mondo conosciuto dai romani.» «La cartografia non si estendeva molto più a sud del Nord Africa o a est del Mar Nero e del Golfo Persico», disse Lily. «Più oltre, nessuno aveva mai fatto esplorazioni.» «Questo non lo sappiamo», obiettò Pitt. «Junius Venator aveva accesso a quattromila anni di scibile umano. Conosceva l'esistenza del continente africano e delle grandi steppe russe. Doveva essere informato dei commerci con l'India, che a sua volta importava ed esportava merci dalla Cina. E doveva aver studiato le cronache di viaggi effettuati molto al di là delle rotte commerciali romano-bizantine.» «Abbiamo la certezza che la Biblioteca di Alessandria includeva una intera sezione riservata alle documentazioni geografiche», disse Lily. «Venator potrebbe essersi servito di mappe compilate in tempi molto più antichi.» «E credi che avesse scoperto qualcosa che lo influenzò?» chiese Sandecker. «Una direzione», rispose Pitt. Tutti lo guardavano incuriositi. Non li deluse. Si avvicinò al podio, prese un puntatore laser e sulla proiezione tridimensionale apparve una minuscola freccia. «L'unico interrogativo, per me», disse Giordino, «è se la flotta svoltò verso sud o verso nord.» «Né l'uno né l'altro.» Pitt spostò la freccia attraverso lo stretto di Gibilterra e l'Atlantico. «Venator condusse la flotta a occidente, verso le Ameri-
che.» L'affermazione fu accolta con il più grande stupore. «Non ci sono prove archeologiche che confermino l'esistenza di contatti precolombiani con l'America», dichiarò Lily. «La Serapis dimostra incontrovertibilmente che potrebbero aver compiuto il viaggio», disse Sandecker. «È una questione controversa, è vero», ammise Pitt. «Ma nell'arte e nella cultura maya ci sono troppe similarità che non si possono ignorare. L'antica America non doveva essere del tutto isolata dall'influenza europea e asiatica come pensavamo una volta.» «Ecco, io ci credo», disse Yaeger con rinnovato entusiasmo. «Sono pronto a scommettere la mia collezione di dischi di Willie Nelson che i fenici, gli egizi, i greci, i romani e i vichinghi sbarcarono tutti in Sud America e in Nord America molto prima di Colombo.» «Nessun archeologo degno di questo nome sarebbe disposto ad accettare la scommessa», disse Lily. Giordino sorrise. «Solo perché non vorrebbe rischiare la reputazione.» Sandecker si girò verso Yaeger. «Facciamo un altro tentativo.» Yaeger guardò Pitt. «Quali coste vuoi che controlli?» Pitt si grattò il mento e ricordò che aveva un gran bisogno di farsi la barba. «Incomincia dal fiordo in Groenlandia e scendi fino a Panama.» S'interruppe e fissò con curiosità pensierosa la proiezione geografica. «Deve essere lì, da qualche parte», concluse. 37. Il comandante Oliver Collins batté la nocca contro il barometro del ponte e socchiuse gli occhi per vedere l'ago, appena visibile nella luce che proveniva da terra. Poi imprecò fra sé nel vedere che preannunciava bel tempo. Se ci fosse stata una tempesta, pensava, la nave non avrebbe potuto lasciare il porto. Il comandante Collins era un ottimo marinaio, ma un pessimo giudice della natura umana. Suleiman Aziz Ammar avrebbe ordinato al Lady Flamborough di prendere il largo anche durante un uragano con i venti a novanta nodi. Stava seduto al posto di comando dietro le finestre, della plancia e si asciugava il sudore che gli colava dal mento al collo. La maschera era una tortura nel clima umido, e lo erano anche i guanti che non si toglieva mai. Ma sopportava stoicamente quei disagi. Se il di-
rottamento fosse fallito e lui fosse riuscito a fuggire, i servizi segreti internazionali non avrebbero potuto identificarlo grazie alle testimonianze e alle impronte digitali. Uno dei suoi uomini aveva preso il timone e lo guardava con aria d'attesa nella sala comando oscurata. Altri due sorvegliavano le porte, con le armi puntate contro Collins e il primo ufficiale Finney, che era accanto al timoniere di Ammar. Era salita la marea che aveva fatto girare la nave all'ancora fino a che la prua s'era puntata verso l'imboccatura del porto. Ammar scrutò per l'ultima volta l'area dei moli con il binocolo, quindi fece a Finney un cenno con la mano mentre parlava in una radio portatile. «Via», ordinò. «Si parte.» Finney, con la faccia contratta per la collera, lanciò un'occhiata implorante a Collins, in cerca d'una reazione di sfida. Ma il comandante alzò le spalle rassegnato, e il primo ufficiale impartì l'ordine di salpare l'ancora. Due minuti più tardi l'ancora, che grondava sedimenti del fondale, emerse dall'acqua nera e fu issata contro la cubia. Il timoniere stava accanto alla ruota, ma non la toccava. Nelle navi moderne si ricorre ai comandi manuali quasi esclusivamente durante il maltempo o quando si è agli ordini di un pilota per entrare e uscire dal porto. Era Finney che guidava la nave e regolava la velocità da un quadro collegato per mezzo di fibre ottiche al sistema di controllo automatizzato. E intanto teneva d'occhio lo schermo radar. Quando la nave era uscita dal porto, il timone veniva collegato all'automatico e il fatto di comunicare al primo ufficiale di macchina «avanti adagio» per mezzo del telegrafo del ponte di comando era ormai diventato più una tradizione che una necessità. Il Lady Flamborough si mosse come un fantasma nell'oscurità, appena visibile per contrasto quando nascondeva le luci della riva. Passò attraverso il porto affollato senza che nessuno lo notasse. I motori diesel sussurravano sommessamente mentre le grandi eliche di bronzo azzannavano l'acqua. Come uno spettro che si muove a tentoni tra le tombe di un cimitero, girò intorno alle altre navi all'ancora e si immise nello stretto canale che comunicava con il mare aperto. Ammar prese il telefono della plancia e chiamò la sala comunicazioni. «Niente?» chiese. «Niente, per ora», rispose il suo uomo che sorvegliava le frequenze radio
delle motovedette uruguaiane. «Trasmetti ogni eventuale comunicazione agli altoparlanti della plancia.» «Affermativo.» «Un'imbarcazione ci taglia la strada», annunciò Finney. «Dobbiamo lasciarla passare.» Ammar puntò la canna della pistola automatica contro la nuca di Finney. «Mantenga la rotta e la velocità.» «Siamo su una rotta di collisione», protestò Finney. «La nave ha le luci spente. Non possono vederci.» Per tutta risposta, Ammar accentuò la pressione. Adesso si vedeva chiaramente l'imbarcazione che si avvicinava. Era un lussuoso motor-yacht, lungo quaranta metri e largo al massimo otto. Era molto bello ed elegante, e sfolgorava di luci. A bordo c'era una festa, e gli invitati conversavano o ballavano sui ponti. Collins, che la stava guardando, rimase allibito nel vedere che l'antenna radar non era in funzione. «Suonate la sirena», implorò. «Avvertiteli finché hanno ancora la possibilità di spostarsi.» Ammar non gli badò. I secondi trascorsero in una nube di paura fino a che la collisione divenne inevitabile. La gente che si divertiva sullo yacht e l'uomo che stava al timone non s'erano accorti del mostro d'acciaio che si stava avventando su di loro nell'oscurità. «È disumano!» gemette Collins. «Disumano!» Il Lady Flamborough cozzò con la prua contro la fiancata di dritta del grosso yacht. Non vi furono sobbalzi, né stridori di metallo contro il metallo. Gli uomini nella plancia della nave da crociera sentirono solo un leggero tremore mentre la prua, alta come un palazzo di quattro piani, spingeva l'imbarcazione più piccola sott'acqua prima di tranciare in due lo scafo. La distruzione fu devastante, come se un maglio avesse schiacciato un giocattolo. Collins stringeva i pugni sul parapetto mentre assisteva inorridito al disastro. Sentì le urla di terrore delle donne quando le sezioni di prua e di poppa dello yacht strusciarono contro le fiancate del Lady Flamborough prima di affondare a meno di cinquanta metri. La superficie scura dell'acqua, nella scia della nave da crociera, era costellata di rottami e di cadaveri. Alcuni passeggeri erano stati scagliati via e stavano cercando di allonta-
narsi a nuoto mentre i feriti si aggrappavano a tutto ciò che poteva servire per tenerli a galla. Poi furono tutti inghiottiti nella notte. L'amarezza e la rabbia salirono alla gola di Finney. «Bastardo assassino!» sibilò rivolgendosi ad Ammar. «Soltanto Allah conosce l'imprevisto», disse Ammar, con indifferenza. E allontanò la pistola automatica dalla nuca di Finney. «Appena avremo superato il canale, punti su uno-cinque-cinque gradi magnetici e innesti il pilota automatico.» Con il volto cinereo sotto l'abbronzatura tropicale, Collins si girò verso Ammar. «In nome di Dio, chiami alla radio il servizio soccorso uruguaiano e gli dia una possibilità di salvare quei poveretti.» «Niente comunicazioni.» «Non è necessario far sapere chi ha dato l'allarme.» Ammar scosse la testa. «Meno di un'ora dopo che le autorità locali saranno state informate dell'incidente, i servizi di sicurezza incominceranno un'indagine. Scopriranno la nostra assenza e ci inseguiranno. Mi dispiace, ma ogni miglio nautico che mettiamo fra noi e Punta del Este può essere decisivo. La risposta è no.» Collins lo fissò negli occhi senza parlare mentre cercava disperatamente di orientarsi. Poi disse: «Che prezzo dovrà essere pagato prima che lasciate la mia nave?» «Se lei e l'equipaggio faranno ciò che ordino, non succederà niente di male.» «E i passeggeri? I presidenti De Lorenzo e Hasan e i loro seguiti? Che intenzioni ha verso di loro?» «Alla fine saranno liberati dietro pagamento di un riscatto. Ma per le prossime dieci ore dovranno sporcarsi tutti le mani.» Collins aveva in bocca un sapore di bile, ma la sua voce rimase impassibile. «Non ha alcuna intenzione di tenerli in ostaggio per farsi pagare un riscatto.» «È un lettore del pensiero, per caso?» chiese Ammar con interesse distaccato. «Non occorre un antropologo per capire che i suoi uomini sono del Medio Oriente. Secondo me, ha intenzione di assassinare gli egiziani.» Ammar sorrise. «È Allah che decide il destino degli uomini. Io mi limito a eseguire le istruzioni.» «Le istruzioni di chi?» Prima che Ammar potesse rispondere, una voce uscì dagli altoparlanti.
«Rendez-vous approssimativamente a zero due-trenta, comandante.» Ammar diede il ricevuto con la trasmittente portatile. Poi guardò Collins. «Non ho più tempo per le conversazioni, comandante. Abbiamo parecchio da fare prima che venga giorno.» «Che piani ha per la mia nave?» chiese Collins. «Mi deve una risposta a questa domanda.» «Sì, certo», mormorò automaticamente Ammar. Stava già pensando ad altro. «Domani sera a quest'ora le agenzie d'informazione internazionale comunicheranno che il Lady Flamborough è disperso, presumibilmente sepolto con tutti i passeggeri e l'equipaggio in duecento braccia d'acqua.» 38. «Senti qualcosa, Carlos?» chiese il vecchio pescatore mentre stringeva i raggi logori del timone di un vecchio peschereccio. Il figlio si portò una mano all'orecchio e scrutò nel buio oltre la prua. «Tu hai un udito migliore del mio, papà. Io sento soltanto il nostro motore.» «Mi è sembrato di sentire qualcuno... come una donna che chiedeva aiuto.» Il figlio ascoltò di nuovo, poi alzò le spalle. «Mi dispiace, ma non sento niente.» «Era là.» Luis Chavez si strofinò contro una manica la barba grigia, poi mise il motore in folle. «Non ho sognato.» Chavez era di buon umore. Aveva fatto buona pesca. Le stive erano piene solo a metà, ma le reti avevano catturato pesci della qualità migliore che avrebbero spuntato i prezzi più alti nei ristoranti. Le sei bottiglie di birra che aveva bevuto contribuivano alla sua gaiezza. «Papà, vedo qualcosa in acqua.» «Dove?» Carlos tese il braccio. «Di prua, a sinistra. Sembrano pezzi di un'imbarcazione.» La vista del vecchio pescatore non era più molto acuta, al buio. Socchiuse gli occhi e scrutò nella direzione indicata dal figlio. Poi le luci del peschereccio cominciarono a rivelare i rottami. Erano verniciati di bianco, e dovevano appartenere a uno yacht. Un'esplosione o una collisione, pensò. Una collisione, probabilmente. Le luci più vicine del porto erano a due chilometri appena. Un'esplosione non sarebbe sfuggita all'attenzione. E non
vedeva traccia di luci che convergessero verso il canale... Quindi i mezzi di soccorso non si erano mossi. Il peschereccio stava avanzando fra i rottami quando sentì di nuovo il suono. In un primo momento gli era sembrato un urlo, ma adesso somigliava a un singhiozzo. Ed era molto vicino. «Chiama Raul, Justino e Manuel dalla cambusa. Presto! Di' che si preparino a tuffarsi per recuperare i superstiti.» Il ragazzo corse via mentre Chavez portava la leva su Stop. Uscì dalla timoneria, accese un riflettore e fece girare lentamente sull'acqua il raggio luminoso. Scorse due figure che giacevano per metà su una sezione di fasciame di tek e per metà in acqua. Erano a meno di venti metri. L'uomo sembrava inerte. La donna, pallidissima, fissava la luce e agitava freneticamente un braccio. All'improvviso cominciò a urlare e a percuotere l'acqua. «Stia calma!» gridò Chavez. «Non abbia paura! Veniamo a prenderla.» Poi si voltò nel sentire i passi frettolosi che si avvicinavano. I suoi uomini si raccolsero intorno a lui. «Vedete qualcosa?» chiese Luis. «Due superstiti su un rottame. Preparatevi a tirarli a bordo. Uno di voi dovrebbe immergersi per dargli una mano.» «Nessuno scenderà in acqua stanotte», disse uno dell'equipaggio. Era impallidito. Chavez si voltò a guardare di nuovo i superstiti. In quel momento udì la donna lanciare un urlo di terrore e si sentì agghiacciare quando vide la pinna falcata, la testa spaventosa, l'occhio nero, le fauci serrate intorno alle gambe della donna. «Santa Maria, madre di Dio!» mormorò Luis, e si fece il segno della croce. Chavez rabbrividì ma non seppe distogliere lo sguardo mentre lo squalo trascinava completamente la donna in acqua. Altri squali nuotavano intorno, attratti dal sangue, e urtavano contro la tolda schiantata. Alla fine, il corpo dell'uomo rotolò via. Uno dei pescatori si voltò e vomitò mentre l'urlo si trasformava in un orribile gorgoglio. Poi nella notte scese il silenzio. Meno di un'ora dopo il colonnello José Rojas, coordinatore capo della Sicurezza Speciale uruguaiana, stava davanti a un gruppo di ufficiali in tenuta da combattimento. Dopo il diploma all'accademia militare del suo Pa-
ese aveva fatto parte dei granatieri britannici e aveva preso l'abitudine rétro di portare un frustino. Stava accanto a un tavolo che conteneva un diorama del porto di Punta del Este e parlava ai presenti. «Ci organizzeremo in tre squadre mobili per pattugliare i moli in turni di otto ore», esordì battendo il frustino sul palmo della mano. «La nostra missione è stare continuamente in guardia per intervenire come rinforzi nell'eventualità di un attacco terroristico. So che per voi sarà difficile passare inosservati, ma fate il possibile. Restate nell'ombra di notte, e di giorno tenetevi lontani dalle strade più frequentate. Non vogliamo spaventare i turisti e dare loro l'impressione che l'Uruguay sia una dittatura militare. Qualche domanda?» Il tenente Eduardo Vazquez alzò una mano. «Colonnello?» «Sì, Vazquez?» «Se vediamo qualcuno che ha l'aria sospetta, che cosa dobbiamo fare?» «Limitatevi a segnalarlo. Probabilmente risulterà che si tratta di un agente dei servizi di sicurezza internazionali.» «E se fosse armato?» Rojas sospirò. «Allora avrete la certezza che è un agente. Lasciamo gli incidenti internazionali ai diplomatici. È tutto chiaro?» Nessuno alzò la mano. Rojas congedò gli uomini ed entrò nel suo ufficio provvisorio, alla capitaneria di porto. Si fermò davanti a una macchina per il caffè e se ne versò una tazza. In quel momento il suo aiutante si avvicinò. «Il capitano Flores degli Affari Navali vuol sapere se può scendere a parlare con lui.» «Ha detto perché?» «Ha detto solo che è urgente.» Rojas non voleva far traboccare il caffè, perciò prese l'ascensore anziché scendere la scala. Flores, impeccabile nell'alta uniforme bianca della Marina, lo attendeva al piano terreno; ma non gli diede spiegazioni mentre lo guidava dall'altra parte della strada, verso un capannone che ospitava i mezzi del soccorso costiero. All'interno, alcuni uomini esaminavano numerosi frammenti che sembravano provenire da un'imbarcazione. Il capitano Flores gli presentò Chavez e il figlio. «Questi pescatori hanno appena portato a terra i rottami che vede. Li hanno scoperti nel canale», spiegò. «Hanno avuto l'impressione che uno yacht sia stato stritolato dalla collisione con una grossa nave.» «E perché mai un incidente del genere dovrebbe interessare alla Sicurez-
za Speciale?» chiese Rojas. Il comandante della capitaneria di porto, un uomo dai capelli corti e dai baffi ispidi, intervenne. «L'incidente potrebbe gettare una nube sul vertice economico.» S'interruppe per un momento, poi soggiunse: «I mezzi di salvataggio sono sul posto. Finora non sono stati trovati superstiti». «Lo yacht è stato identificato?» «Uno dei rottami ripescati nell'acqua dal signor Chavez e dai suoi ha la targa con il nome. Lo yacht era il Lola.» Rojas scosse la testa. «Sono un militare e non conosco le imbarcazioni da diporto. Il nome dovrebbe dirmi qualcosa?» «Era stato dato allo yacht in onore della moglie di Victor Rivera», rispose Flores. «Lo conosce?» Rojas s'irrigidì. «Conosco il presidente della nostra Camera dei deputati. Lo yacht era suo?» «Era intestato a suo nome», confermò Flores. «Abbiamo già contattato a casa la segretaria. Non le abbiamo riferito quel che è successo, naturalmente. Abbiamo solo chiesto dove si trovava il signor Rivera. Ha risposto che era sul suo yacht, dove aveva invitato numerosi diplomatici argentini e brasiliani.» «Quanti?» chiese Rojas, assalito da una paura improvvisa. «C'erano Rivera, la moglie, ventitré ospiti e cinque membri dell'equipaggio. Trenta in tutto.» «I nomi?» «La segretaria non aveva sottomano l'elenco degli invitati. Mi sono preso la libertà di mandare il mio aiutante all'ufficio di Rivera per ritirare una copia.» «Credo sia meglio che a questo punto io assuma il comando delle indagini», dichiarò Rojas in tono ufficiale. «La Marina è pronta a fornire tutta l'assistenza», disse Flores, felice di liberarsi da ogni responsabilità. Rojas si rivolse al comandante della capitaneria di porto. «Qual è la nave coinvolta nella collisione?» «È un mistero. Nessuna nave è entrata o uscita dal porto nelle ultime dieci ore.» «Una nave può entrare a vostra insaputa?» «Un comandante dovrebbe essere molto stupido, per tentare di farlo senza chiedere un pilota.» «Ma è possibile?» insistette Rojas.
«No», rispose con fermezza il comandante della capitaneria di porto. «Nessuna nave potrebbe attraccare od ormeggiare nel porto senza che io lo sapessi.» Rojas annuì. «Allora supponiamo che ne sia partita una.» Il comandante della capitaneria di porto rifletté per qualche istante. Poi fece segno di sì con la testa. «Non potrebbe lasciare l'attracco a mia insaputa. Tuttavia, se fosse ancorata in rada, se il comandante o gli ufficiali conoscessero il canale e se navigassero a luci spente, potrebbero raggiungere inosservati il mare aperto. Ma devo dire che sarebbe quasi un miracolo.» «Può fornire al capitano Flores un elenco delle navi ormeggiate?» «Gliene farò avere una copia entro dieci minuti.» «Capitano Flores?» «Colonnello?» «Dato che la sparizione di una nave è un problema che riguarda la Marina, vorrei che prendesse il comando delle ricerche.» «Con piacere, colonnello. Incomincerò immediatamente.» Rojas fissò con aria pensierosa i rottami che costellavano il pavimento. «Prima di domattina si scatenerà il finimondo», mormorò. Poco prima di mezzanotte, quando il capitano Flores ebbe effettuato una ricerca meticolosa nel porto e nelle acque all'esterno del canale, comunicò a Rojas che l'unica nave irreperibile risultava il Lady Flamborough. Il colonnello Rojas rimase allibito quando lesse l'elenco dei passeggeri della nave da crociera. Chiese che le indagini proseguissero, nella vana speranza che il presidente egiziano e quello messicano fossero sbarcati per prendere alloggio a terra. Quando arrivò la conferma che erano scomparsi insieme con la nave si profilò lo spettro di un'azione terroristica. All'alba ebbe inizio una vastissima ricerca aerea. Tutti gli apparecchi che l'Aviazione di Uruguay, Argentina e Brasile poterono lanciare in volo batterono più di quattrocentomila chilometri quadrati di Atlantico meridionale. E non trovarono traccia del Lady Flamborough. Sembrava che la nave fosse stata inghiottita dal mare. 39. Due mani gli passarono sotto la camicia e risalirono sulla schiena. Cercò
di svegliarsi dal sogno in cui era immerso nell'acqua e saliva a nuoto verso la superficie scintillante ma non riusciva mai a raggiungerla. Si stropicciò gli occhi, vide che era sul divano nell'ufficio, si girò e si trovò davanti un paio di bellissime gambe. Pitt si sollevò a sedere e incontrò gli occhi ammalianti di Lily. Sollevò il polso: ma poi ricordò che s'era tolto l'orologio e l'aveva messo sulla scrivania con le chiavi, gli spiccioli e il portafogli. «Che ore sono?» chiese. «Le cinque e mezzo», rispose dolcemente Lily. Gli passò le mani sulle spalle e gli massaggiò il collo. «Notte o giorno?» «Pomeriggio inoltrato. Hai dormito tre ore appena.» «E tu non crolli mai?» «Sono capace di tirare avanti dormendo solo quattro ore su ventiquattro.» Pitt sbadigliò. «Non invidio il tuo futuro marito.» «Ti ho portato il caffè.» Lily posò una tazza sul tavolino. Pitt calzò le scarpe e infilò la camicia nei pantaloni. «Yaeger ha trovato qualcosa?» «Sì.» «Il fiume?» «Non ancora. Fa il misterioso, ma dice che avevi ragione tu. Venator aveva attraversato l'Atlantico prima dei vichinghi e di Colombo.» Pitt bevve un sorso di caffè e fece una smorfia. «È troppo zuccherato.» Lily lo guardò sorpresa. «Al ha detto che ce ne metti sempre quattro cucchiaini.» «Al ha mentito. Bevo sempre il caffè amaro.» «Scusami», disse lei con un sorriso. «Sono cascata nella trappola di un burlone.» «Non sei la prima», disse Pitt, con lo sguardo fisso oltre la porta dell'ufficio. Giordino era seduto con i piedi sulla scrivania di Yaeger e divorava l'ultima fetta di pizza mentre studiava una mappa topografica particolareggiata di una costa. Yaeger teneva gli occhi arrossati fissi sul monitor di un computer e prendeva appunti su un blocco. Non ebbe bisogno di voltarsi quando entrarono Pitt e Lily. Aveva visto le loro immagini riflesse sullo schermo.
«Abbiamo trovato qualcosa», disse in tono soddisfatto. «Che cosa?» chiese Pitt. «Invece di concentrarmi su tutte le baie e le calette a sud della tomba della Serapis in Groenlandia, sono saltato al Maine e ho cominciato a cercare un posto che corrispondesse alle descrizioni.» «Ed è andata bene?» disse Pitt. «Sì. Se lo ricordi, Rufinus scrive che dopo aver abbandonato Venator al suo destino furono assaliti da tempeste che spiravano dal sud per trentun giorni, prima di trovare una baia sicura dove avrebbero potuto effettuare le riparazioni. Durante la tappa successiva, altre tempeste strapparono via le vele e i remi timonieri. Poi la nave andò alla deriva per un numero imprecisato di giorni prima di finire nel fiordo groenlandese.» Yaeger s'interruppe e fece apparire una carta della costa americana dell'Atlantico settentrionale. Poi batté sulla tastiera una serie di codici. Una linea sottile si formò e cominciò a scendere dalla costa orientale della Groenlandia verso il sud in un percorso spezzato e zigzagante intorno a Terranova, oltre la Nova Scotia e il New England, fino a un punto poco al di sopra di Atlantic City. «Il New Jersey?» mormorò Pitt, perplesso. «Barnegat Bay, per la precisione», disse Giordino. Prese una carta topografica e la stese sul tavolo. Poi segnò un tratto della costa con un pennarello rosso. «Barnegat Bay, New Jersey?» ripeté Pitt. «Nel 391 dopo Cristo l'aspetto della zona era diverso», disse Yaeger in tono deciso. «La riva sabbiosa era più frastagliata e la baia più profonda e meno esposta.» «Come siete arrivati al punto esatto?» chiese Pitt. «Quando descrive la baia, Rufinus parla di una grande distesa di pini nani, in un punto dove l'acqua pura fuoriusciva dalla sabbia se vi si infilava un bastone. Nel New Jersey c'è una foresta di pini nani che corrisponde alla descrizione. Si chiama Pine Barrens, e si estende nella parte centromeridionale dello Stato, fino alla costa, a est. Il livello dell'acqua è poco inferiore a quello della superficie. Durante le piene di primavera o dopo una forte pioggia, si può fare un buco nel terreno sabbioso con un bastone e far scaturire l'acqua.» «Mi sembra promettente», disse Pitt. «Ma Rufinus non aggiunge anche che avevano caricato pietre come zavorra?» «Sì, ammetto che questo mi ha sconcertato. Allora ho telefonato a un
geologo del Genio, il quale mi ha segnalato una cava di pietre che corrisponde quasi esattamente al punto dove penso fosse sbarcato l'equipaggio della Serapis.» «Ottimo lavoro», disse Pitt. «Hai trovato la strada giusta.» «E adesso, come proseguiamo?» chiese Lily. «Io continuerò a procedere verso sud», rispose Yaeger. «Nello stesso tempo dirò ai miei collaboratori di calcolare una possibile traccia della rotta di Venator in partenza dalla Spagna. Con il senno di poi, appare evidente che le isole dove la flotta fece la prima sosta dopo aver lasciato il Mediterraneo furono le Indie Occidentali. Continuando il percorso della Serapis dal New Jersey e proiettando la rotta seguita per arrivare in America, dovremmo arrivare a un'intersezione approssimativa a meno di ottocento chilometri da un fiume che corrisponda ai dati in nostro possesso.» Lily sembrava poco convinta. «Non so come possiate sperare di ricostruire la rotta di Venator, dato che aveva vietato di annotare tutte le indicazioni relative a direzioni, correnti, venti e distanze.» «Non è un grosso problema», rispose Yaeger in tono asciutto. «Prenderò i dati dei viaggi di Colombo al Nuovo Mondo, esaminerò la sua rotta calcolata e l'adatterò tenendo conto delle differenze nel disegno dello scafo e nell'attrito con l'acqua, nella superficie delle vele fra le sue navi e una flotta bizantina di mille anni prima.» «A sentirti sembra molto semplice.» «Credimi, non lo è. Forse arriveremo a destinazione, ma per farlo ci vorranno altri quattro giorni di studio.» Tutti parevano aver dimenticato le lunghe ore di lavoro noioso. Gli occhi arrossati di Yaeger sfolgoravano. Lily sembrava galvanizzata. Erano pronti per il segnale di partenza. «Bene», disse Pitt. «Trovate la biblioteca.» Pitt pensava che Sandecker l'avesse mandato a chiamare perché gli riferisse l'andamento delle ricerche. Ma non appena vide l'espressione dell'ammiraglio, sospettò che fosse successo qualcosa. Ciò che lo allarmava di più era lo sguardo mite di Sandecker, di solito duro e gelido. Poi, quando Sandecker gli andò incontro, lo prese per il braccio, lo condusse a un divano e gli sedette accanto, ebbe la certezza che qualcosa di spiacevole era accaduto davvero. «Ho appena ricevuto notizie preoccupanti dalla Casa Bianca», esordì l'ammiraglio. «La nave da crociera che ospitava i presidenti De Lorenzo e
Hasan al vertice economico in Uruguay sarebbe stata sequestrata.» «Mi dispiace moltissimo», disse Pitt. «Ma la NUMA che cosa c'entra?» «A bordo c'era Hala Kamil.» «Accidenti!» «E c'era anche il senatore.» «Mio padre?» mormorò Pitt, sbalordito. «Gli ho parlato al telefono l'altra sera. Come mai è finito in Uruguay?» «Era in missione per incarico del presidente.» Pitt si alzò, mosse qualche passo avanti e indietro, poi tornò a sedere. «Qual è la situazione?» «Il Lady Flamborough... è il nome della nave da crociera britannica... ecco, è scomparso questa notte dal porto di Punta del Este.» «E adesso dov'è?» «È in corso una vasta ricerca aerea ma finora non se n'è trovata traccia. Secondo le autorità locali, il Lady Flamborough è finito in fondo al mare.» «Non posso crederlo senza prove concrete.» «Sono d'accordo con lei.» «Le condizioni meteorologiche?» «Secondo il rapporto il tempo era bello, il mare calmo.» «Le navi possono sparire durante le tempeste», commentò Pitt. «Con il mare calmo succede molto raramente.» Sandecker allargò le mani in un gesto rassegnato. «Fino a che non arriveranno altri particolari, possiamo solo fare ipotesi.» Pitt non riusciva a credere che suo padre fosse morto. Ciò che gli era stato detto non costituiva una prova. «E la Casa Bianca che cosa sta facendo?» «Il presidente ha le mani legate.» «È ridicolo», ribatté bruscamente Pitt. «Potrebbe ordinare a tutte le unità della Marina di recarsi in zona per partecipare alle ricerche.» «Il guaio è proprio questo», disse Sandecker. «Tranne che in occasione delle manovre, e al momento non ce n'è alcuna in corso, non ci sono unità navali degli Stati Uniti che stazionino nell'Atlantico meridionale.» Pitt si alzò di nuovo, andò alla finestra e guardò le luci di Washington. Poi si girò verso Sandecker e lo fissò con occhi penetranti. «Mi sta dicendo che il governo degli Stati Uniti non partecipa in alcun modo alle ricerche?» «Sembra proprio così.» «E che cosa impedisce alla NUMA di intervenire?» «Niente, a parte il fatto che non abbiamo una flotta di guardacoste e una
portaerei.» «Abbiamo il Sounder.» Sandecker lo fissò per un momento con aria pensosa. Poi sul suo volto apparve un'espressione interrogativa. «Uno dei nostri vascelli per le ricerche?» «Sta effettuando un rilevamento sonar della scarpata continentale al largo del Brasile del sud-ovest.» Sandecker annuì. «Sì, ho capito. Ma il Sounder è troppo lento per essere d'aiuto in un'operazione di tale vastità. Che cosa si aspetta di realizzare?» «Se la nave su cui si trova mio padre non è in superficie, la cercherò sui fondali.» «Potrebbe essere costretto a cercarla in mille miglia quadrate o anche di più.» «Il sonar del Sounder ha una fascia d'azione di due miglia. E trasporta un sommergibile. Mi occorre solo la sua autorizzazione a prenderne il comando.» «Avrà bisogno anche di qualcuno che collabori con lei.» «Giordino è Rudi Gunn. Siamo un team efficiente.» «Rudi sta effettuando un'operazione mineraria sottomarina al largo delle Canarie.» «Potrebbe arrivare in Uruguay entro diciotto ore.» Sandecker intrecciò le mani dietro la testa e fissò il soffitto. Aveva la sensazione che Pitt volesse dare la caccia alle ombre, ma sapeva quale sarebbe stata comunque la sua risposta. «Decida lei», disse in tono calmo. «Io l'appoggerò.» «Grazie, ammiraglio», esclamò Pitt. «Le sono molto riconoscente.» «Come va la caccia alla Biblioteca di Alessandria?» «Yaeger e la dottoressa Sharp sono vicini a una soluzione. Non hanno bisogno che io e Al gli stiamo fra i piedi.» Sandecker si alzò e posò le mani sulle spalle di Pitt. «Può darsi che non sia morto, sa?» «Sarà meglio che papà non sia morto», disse Pitt con un sorriso cupo. «Non lo perdonerei mai.» 40. «Accidenti, Martin!» esclamò il presidente in tono brusco. «I suoi specialisti del Medio Oriente non avevano fiutato l'esistenza di un complotto
per sequestrare il Lady Flamborough?» Martin Brogan, direttore della CIA, scrollò le spalle. Era allenato a sentirsi rimproverare per tutte le azioni dei terroristi che uccidevano o prendevano in ostaggio gli americani. I successi della CIA venivano sbandierati di rado, ma i suoi errori diventavano oggetto di inchieste del Congresso e di clamorose rivelazioni dei media. «La nave, con tutti i passeggeri e l'equipaggio, è stata fatta sparire sotto il naso dei più abili agenti del mondo», rispose. «Chi ha ideato e realizzato l'impresa è molto efficiente. Già la sua portata supera i limiti di tutte le attività terroristiche che abbiamo visto in passato. Alla luce di tutto questo, non mi pare sorprendente che la nostra rete antiterrorismo non sia stata avvertita in anticipo.» Alan Mercier, consigliere per la Sicurezza Nazionale, si tolse gli occhiali e pulì le lenti con un fazzoletto. «Anche noi non abbiamo saputo niente», dichiarò a sostegno di Brogan. «Le analisi dei nostri sistemi di ascolto non avevano rivelato nulla che potesse far sospettare il potenziale sequestro di una nave da crociera e il rapimento di due capi di Stato stranieri.» «Quando ho mandato George Pitt a incontrarsi con il presidente Hasan ho condannato a morte un vecchio amico», disse il presidente in tono di rammarico. «Non è stata colpa sua», lo consolò Mercier. Il presidente batté un pugno sulla scrivania. «Il senatore, Hala Kamil, De Lorenzo e Hasan. Non posso credere che non ci siano più.» «Questo non lo sappiamo con certezza», lo corresse Mercier. Il presidente lo fissò. «Non è possibile nascondere una nave da crociera con tutti quelli che stanno a bordo, Alan. Lo capisce persino un politico stupido come me.» «C'è ancora una possibilità...» «Un corno! È stata una missione suicida pura e semplice. Tutti quei poveretti erano probabilmente rinchiusi mentre la nave veniva affondata. E i terroristi non avevano alcuna intenzione di scappare. Sono colati a picco anche loro.» «Non sono ancora arrivati tutti i dati», ribatté Mercier. «Che cosa sappiamo, per la precisione?» chiese il presidente. «I nostri esperti sono già a Punta del Este e collaborano con le forze di sicurezza uruguaiane», spiegò Brogan. «Finora abbiamo solo le conclusioni preliminari. Innanzi tutto, il sequestro viene attribuito a un gruppo arabo. Si sono presentati due testimoni che erano su una lancia di passaggio e
hanno visto il Lady Flamborough prendere a bordo il carico di un pontone. Hanno sentito gli uomini dei due natanti che parlavano arabo. Il pontone non è stato ritrovato, quindi si presume che sia stato affondato nel porto.» «Abbiamo un'idea del carico?» chiese Mercier. «I testimoni ricordano solo di aver visto un certo numero di bidoni», rispose Brogan. «In secondo luogo, alla capitaneria di porto era arrivata una comunicazione falsa dalla nave da crociera, secondo la quale il generatore principale era in avaria e quindi si sarebbero potute accendere solo le luci di navigazione fino al termine delle riparazioni. Poi, non appena si è fatto buio, la nave ha levato l'ancora e a luci spente è uscita dal porto, speronando uno yacht privato su cui si trovavano importanti uomini d'affari e diplomatici sudamericani. L'unica lacuna in un piano altrimenti perfetto. E alla fine la nave è scomparsa.» «Un lavoro accurato», ammise Mercier. «Molto diverso dal pasticcio del secondo attentato contro Hala Kamil.» «Senza dubbio si trattava di un altro gruppo», soggiunse Brogan. Dale Nichols intervenne per la prima volta dall'inizio della riunione. «Che avete collegato direttamente ad Akhmad Yazid.» «Sì, i sicari non erano stati molto prudenti. Sui loro cadaveri sono stati trovati passaporti egiziani. Uno, il capo, è stato identificato come un mullah, un seguace fanatico di Yazid.» «Ritenete che sia Yazid il responsabile del sequestro della nave?» «Senza dubbio aveva il movente», rispose Brogan. «Tolto di mezzo il presidente Hasan, le sue possibilità di impadronirsi del potere in Egitto aumentano notevolmente.» «E lo stesso vale per il presidente De Lorenzo, Topiltzin e il Messico», osservò Nichols in tono secco. «È un legame interessante», disse Mercier. «Che cosa possiamo fare, oltre a mandare in Uruguay qualche agente della CIA specializzato nella caccia ai terroristi?» chiese il presidente. «Come possiamo contribuire alle ricerche del Lady Flamborough?» «La risposta alla sua prima domanda: è 'molto poco'», disse Brogan. «Le indagini sono in buone mani. I dirigenti della polizia e dei servizi segreti uruguaiani hanno seguito corsi qui o in Gran Bretagna. Conoscono il loro mestiere e collaborano senza riserve con i nostri esperti.» S'interruppe ed evitò lo sguardo del presidente. «In quanto alla seconda domanda, possiamo fare egualmente molto poco. La nostra Marina non ha navi in servizio di pattuglia nell'Atlantico al largo del Sud America. Il vascello più vicino
all'area è un sottomarino nucleare che sta effettuando un'esercitazione al largo dell'Antartide. I nostri amici latini se la cavano benissimo senza di noi. Più di ottanta aerei militari e commerciali e almeno quattordici navi argentine, brasiliane e uruguaiane stanno setacciando il mare al largo di Punta del Este fin dall'alba.» «E non hanno trovato nulla che indichi quale fine abbia fatto il Lady Flamborough», terminò per lui il presidente. Il suo scarso ottimismo iniziale stava cedendo all'avvilimento. «Lo troveranno», gli assicurò Mercier. «Senza dubbio si scopriranno rottami e cadaveri», fece presente Brogan. «Una nave di quella grandezza non può svanire senza lasciar tracce.» «La stampa non ha ancora saputo nulla?» chiese il presidente. «Sono stato informato che un'ora fa la notizia è arrivata alle agenzie», rispose Nichols. Il presidente intrecciò le dita e le contrasse. «Al Congresso scoppierà l'inferno quando scopriranno che uno di loro è stato vittima di un'azione terroristica. Impossibile prevedere quale genere di vendetta esigeranno.» «Basterebbe la rivelazione dello scopo della missione del senatore per far scoppiare uno scandalo di proporzioni enormi», disse Nichols. «È strano: i terroristi possono assassinare statisti e diplomatici e un esercito di vittime innocenti, e poi se la cavano con pochi anni di carcere», mormorò il presidente. «Ma se noi giochiamo allo stesso gioco e cominciamo a sparargli, ci bollano come immorali vendicatori assetati di sangue, I media vanno a nozze e il Congresso apre un'inchiesta.» «È un guaio, essere i buoni», fu il commento di Brogan che cominciava ad avere un tono stanco. Nichols si alzò e si stirò. «Non credo che abbiamo da preoccuparci. Non era stato scritto o registrato nulla. E solo i presenti sanno perché il senatore Pitt aveva raggiunto Punta del Este per conferire con il presidente Hasan.» «Dale ha ragione», disse Mercier. «Possiamo trovare una quantità di pretesti per giustificare la sua missione.» Il presidente si soffregò gli occhi. «George Pitt è morto da meno di un giorno, e noi stiamo già cercando di coprirci le spalle.» «È un problema trascurabile, comunque, in confronto ai disastri politici che dovremo affrontare in Egitto e in Messico», disse Nichols. «Ora che sono morti anche De Lorenzo e Hasan, l'Egitto prenderà la strada dell'Iran e sarà irrimediabilmente perduto per l'Occidente. Poi, il Messico...» Esitò. «Ci troveremo una bomba a orologeria pronta a esplodere ai nostri confi-
ni.» «Quale capo del mio staff e mio consigliere, che misure propone di adottare?» Nichols fu assalito da un crampo allo stomaco. Il suo cuore batté più forte. Gli sembrava che il presidente e i due consiglieri studiassero i suoi occhi. Si chiese se lo stress che gli torceva le viscere era dovuto al fatto di sentirsi con le spalle al muro o al presentimento di una catastrofe imminente. «Io propongo di aspettare la prova che il Lady Flamborough e tutti coloro che erano a bordo sono finiti in fondo all'oceano.» «E se le prove non arrivassero?» chiese il presidente. «Continueremo ad attendere fino a che l'Egitto e il Messico, con i presidenti dati per dispersi e presumibilmente morti, cadranno nelle mani di Topiltzin e di Akhmad Yazid, due pazzi megalomani? E poi? Che cosa possiamo fare per fermarli prima che sia troppo tardi?» «Non possiamo fare niente, a meno di ricorrere all'assassinio politico.» Nichols si passò nervosamente la mano sullo stomaco dolorante. «Possiamo soltanto prepararci al peggio.» «Cioè?» «Diamo per perso l'Egitto», rispose Nichols in tono grave, «e invadiamo il Messico.» 41. La pioggia martellava Montevideo, la capitale dell'Uruguay, mentre il piccolo jet scendeva attraverso le nubi e si portava sopra la pista. Dopo l'atterraggio si allontanò dal terminal commerciale e si avviò su una pista in direzione di un gruppo di hangar, fiancheggiati da file di caccia a reazione. Una berlina Ford con i contrassegni militari si fece avanti e guidò il pilota in un'area di parcheggio riservata agli aerei VIP in visita. Il colonnello Rojas, che era nell'ufficio di un hangar, scrutò attraverso una finestra striata di pioggia. Mentre l'aereo si avvicinava, scorse la scritta NUMA sullo sfondo color acquamarina della fusoliera. Il rombo dei motori si spense, e un minuto più tardi tre uomini scesero a terra, presero posto in fretta sulla Ford per sfuggire al diluvio e furono portati all'interno dell'hangar. Il colonnello andò sulla soglia dell'ufficio e li seguì con gli occhi mentre venivano scortati dal suo aiutante, un giovane tenente.
Il più basso aveva una selva di capelli neri e ricciuti e un torace da corazzata, e camminava con energia disinvolta. Le mani e le braccia sembravano prese in prestito da un orso. Gli occhi erano torvi, ma le labbra scoprivano i denti candidi e regolari in un sorriso ironico. L'uomo magro con gli occhiali dalla montatura d'osso, i fianchi e le spalle ossuti aveva l'aria del ragioniere venuto a controllare i registri dell'azienda. Portava sotto un braccio una borsa e due libri. Anche lui sfoggiava un sorriso, ma sembrava più malizioso che allegro. Rojas lo giudicò un tipo simpatico, facile al divertimento ma anche molto efficiente. Il più alto dei tre, che veniva alla retroguardia, aveva i capelli neri e ondulati, le sopracciglia folte, il viso energico e abbronzato. Aveva un'aria indifferente, come se fosse pronto ad accogliere una condanna al carcere con lo stesso interesse di una vacanza a Tahiti. Rojas non si lasciò ingannare. Lo sguardo penetrante dell'uomo lo tradiva. Mentre gli altri due camminavano guardandosi intorno, fissava Rojas con uno sguardo rovente come il sole visto attraverso una lente d'ingrandimento. Rojas si fece avanti e salutò. «Benvenuti in Uruguay, signori. Sono il colonnello José Rojas, al loro servizio.» Poi si rivolse al più alto dei tre e gli parlò in un inglese perfetto con una sfumatura cockney che aveva imparato dai britannici. «Ero ansioso di conoscerla dopo la nostra conversazione telefonica, signor Pitt.» Pitt gli strinse la mano. «La ringrazio per aver trovato il tempo di riceverci.» Si voltò e presentò l'uomo dagli occhiali. «Questo è Rudi Gunn, mentre l'energumeno alla mia destra è Al Giordino.» Rojas accennò un inchino con la testa e si batté il frustino contro i pantaloni perfettamente stirati. «Li prego di perdonare l'ambiente spartano, ma un esercito di giornalisti di tutto il mondo ha invaso il nostro Paese come cavallette, dopo il sequestro della nave. Ho pensato che fosse meglio incontrarsi lontano dall'orda.» «Un'ottima idea», disse Pitt. «Vogliono rilassarsi un po' dopo il lungo volo e cenare al nostro circolo ufficiali?» «Grazie per l'invito, colonnello», rispose garbatamente Pitt. «Ma, se non le dispiace, vorremmo metterci al lavoro.» «Allora, se vogliono accomodarsi da questa parte, li metterò al corrente delle operazioni di ricerca.» Nell'ufficio, Rojas presentò il capitano Ignacio Flores che aveva coordinato la caccia in mare e in cielo. Poi accennò ai tre americani di prendere
posto intorno a un grande tavolo coperto di carte nautiche e di foto scattate dai satelliti. Prima d'incominciare, Rojas fissò Pitt con aria solenne. «Mi è molto dispiaciuto sapere che suo padre si trovava a bordo della nave. Quando abbiamo parlato al telefono, non ha accennato al legame di parentela.» «Vedo che è ben informato», disse Pitt. «Sono continuamente in contatto con il consigliere per la Sicurezza del presidente degli Stati Uniti.» «Le farà piacere sapere che i dirigenti dei servizi segreti di Washington hanno molto elogiato la sua efficienza.» Rojas incominciò a sgelarsi. Non si era aspettato quel complimento. «Purtroppo non posso darle notizie incoraggianti. Non è emerso niente di nuovo da quando loro sono partiti dagli Stati Uniti... Però posso offrire loro il nostro ottimo brandy uruguaiano.» «Mi sembra un'eccellente idea», disse Giordino senza esitare. «Soprattutto con questa pioggia.» Rojas fece un cenno all'aiutante. «Tenente, faccia lei gli onori di casa.» Poi si curvò sul tavolo e allineò diverse foto in bianco e nero ingrandite, riprese da un satellite, fino a comporre un mosaico delle acque che si estendevano sino a trecento chilometri dalla costa. «Immagino che tutti loro conosceranno bene le foto dei satelliti.» Rudi Gunn annuì. «Attualmente la NUMA ha in corso tre programmi oceanografici che si servono dei satelliti, per studiare le correnti, i riflussi, i venti in superficie e i ghiacci marini.» «Ma nessuno inquadra l'Atlantico meridionale», disse Rojas. «Quasi tutti i sistemi d'informazione geografica sono puntati verso il nord.» «Sì, ha ragione.» Gunn si assestò gli occhiali ed esaminò gli ingrandimenti. «Vedo che vi siete serviti dell'Earth Resources Tech Satellite.» «Sì, il Landsat.» «E avete usato un potente sistema grafico che mostra le navi in mare.» «Abbiamo avuto un colpo di fortuna», affermò Rojas. «L'orbita polare del satellite passa sull'oceano al largo dell'Uruguay ogni sedici giorni. È capitato nel momento più opportuno.» «Il Landsat è usato soprattutto per i rilevamenti geologici», disse Gunn. «Di solito le telecamere sono spente quando orbita sopra gli oceani, per risparmiare energia. Come avete ottenuto le immagini?» «Subito dopo l'inizio delle ricerche», spiegò Rojas, «la nostra sezione meteorologica della Difesa è stata incaricata di fornire previsioni del tem-
po alle motovedette e agli aerei. Uno dei meteorologi ha avuto un'ispirazione: ha controllato l'orbita del Landsat e ha scoperto che sarebbe passato sopra l'area della ricerca. Ha inviato al vostro governo la richiesta urgente di metterlo in funzione. Le telecamere sono state attivate in tempo e i segnali sono pervenuti a una stazione ricevente di Buenos Aires.» «E un bersaglio delle dimensioni del Lady Flamborough può essere visibile nelle immagini del Landsat?» chiese Giordino. «Certo, i particolari non si vedono come in una foto ad alta risoluzione di un satellite della Difesa», rispose Pitt. «Ma dovrebbe essere visibile come un puntolino.» «L'ha descritto perfettamente», disse Rojas. «Come si può vedere.» Sistemò una grossa lente d'ingrandimento con luce interna sopra una sezione del mosaico delle foto trasmesse dal satellite. Poi si scostò. Pitt guardò per primo. «Distinguo due natanti... no, tre.» «Li abbiamo identificati tutti e tre.» Rojas si voltò e fece un cenno al capitano Flores, che cominciò a leggere a voce alta un foglio, un po' a disagio con l'inglese, come se recitasse davanti a una scolaresca. «La nave più grande è cilena e trasporta minerali. È il Cabo Gallegos, diretto da Punta Arenas a Dakar con un carico di carbone.» «È la nave diretta a nord che si vede al margine inferiore dell'immagine?» chiese Pitt. «Sì», confermò Flores. «È il Cabo Gallegos. L'altra più in alto è diretta verso sud, e batte bandiera messicana. È una portacontainer, il General Bravo, e porta a San Pablo provviste e attrezzature per le trivellazioni petrolifere.» «Dov'è San Pablo?» chiese Giordino. «È un piccolo porto all'estremità meridionale dell'Argentina», rispose Rojas. «Un anno fa vi hanno scoperto il petrolio.» «La nave che si trova in mezzo, più vicina alla costa, è il Lady Flamborough.» Flores pronunciò il nome come se ne facesse l'elogio funebre. L'aiutante di Rojas arrivò con la bottiglia di brandy e cinque bicchieri. Il colonnello alzò il suo. «Saludos.» «Salute», risposero gli americani. Pitt tracannò un sorso che, come giurò più tardi, gli incenerì le tonsille; riprese a studiare il puntolino per qualche secondo prima di cedere la lente a Gunn. «Non riesco a capire dove sia diretta.» «Dopo aver abbandonato Punta del Este ha navigato verso est senza
cambiare rotta.» «Vi siete messi in contatto con le altre navi?» Flores annuì. «Nessuna delle due ha segnalato di averla avvistata.» «A che ora l'ha sorvolata il satellite?» «Esattamente alle tre e dieci.» «Le foto sono a infrarossi.» «Sì.» «L'uomo che ha pensato di usare il Landsat meriterebbe una medaglia», disse Giordino mentre prendeva posto al visore. «È già stato designato per una promozione», rispose Rojas con un sorriso. Pitt lo guardò. «A che ora ha avuto inizio la ricognizione aerea?» «I nostri aerei hanno incominciato le ricerche alle prime luci. Prima di mezzogiorno avevamo ricevuto e analizzato le immagini del Landsat. Poi abbiamo calcolato la velocità e la rotta del Lady Flamborough e abbiamo mandato le nostre navi e i nostri aerei verso un punto d'intercettazione.» «Ma hanno trovato il mare deserto.» «Infatti.» «E nessun relitto?» Fu il capitano Flores a rispondere: «Le nostre motovedette hanno trovato vario materiale». «È stato identificato?» «Alcuni oggetti sono stati issati a bordo e scartati immediatamente. Sembra che provenissero da un mercantile, più che da una lussuosa nave da crociera.» «Di che cosa si trattava?» Flores aprì una borsa ed estrasse un fascicoletto. «Ho qui un breve inventario trasmesso dal comandante della motovedetta. Ha elencato una poltrona malconcia, due giubbotti salvagente stinti e vecchi almeno di quindici anni, con le istruzioni per l'uso stampigliate in spagnolo e quasi illeggibili; diverse casse prive di scritte; un materasso per cuccetta; contenitori di generi alimentari; tre giornali, uno di Veracruz, Messico, e gli altri due di Recife, Brasile...» «Le date?» l'interruppe Pitt. Flores lo guardò per un attimo con aria interrogativa, poi distolse gli occhi. «Il comandante non le ha riferite.» «Una dimenticanza da correggere», disse in tono severo Rojas, che aveva capito il significato della domanda di Pitt.
«Purché non sia troppo tardi», osservò Flores, un po' impacciato. «Vorrà ammettere, colonnello, che sembra trattarsi di rifiuti gettati in mare, non di rottami.» «Potrebbe darmi le coordinate delle navi così come appaiono nelle foto del satellite?» chiese Pitt. Flores annuì e cominciò a tracciare le posizioni su una carta nautica. «Un altro brandy, signori?» propose Rojas. «È molto forte», disse Gunn, e porse il bicchiere al tenente. «Ho notato un leggerissimo aroma di caffè.» Il colonnello Rojas sorrise. «Vedo che è un intenditore, signor Gunn. Ha proprio ragione. Mio zio lo distilla nella sua piantagione di caffè.» «Per me è troppo dolce», disse Giordino. «Mi ricorda la liquirizia.» «Infatti contiene anche anisette.» Rojas si rivolse a Pitt. «E lei, signor Pitt? Come lo trova?» Pitt alzò il bicchiere e lo studiò alla luce. «Direi che è un liquore a duecento gradi.» I nordamericani non finivano mai di sorprendere Rojas. Un attimo prima erano serissimi, un attimo dopo si mettevano a scherzare. Spesso si domandava come avessero potuto diventare una superpotenza. Poi Pitt rise d'una risata contagiosa. «Stavo solo scherzando. Dica a suo zio che, se decidesse di esportarlo negli Stati Uniti, mi offrirò di distribuirlo.» Il capitano Flores batté l'indice su un riquadro a matita che aveva tracciato sulla carta nautica. «Ieri mattina alle 3.10 erano qui.» Tutti tornarono intorno al tavolo per esaminare la carta. «E tutte e tre le navi erano su rotte convergenti», commentò Gunn. Prese dalla tasca un minicalcolatore e cominciò a premerne i tasti. «Se faccio una stima approssimativa delle velocità, diciamo trenta nodi per il Lady Flamborough, diciotto per il Cabo Gallegos e ventidue per il General Bravo...» S'interruppe per scrivere sul bordo della carta. Dopo qualche attimo batté una matita sulle cifre. «Non è sorprendente che i cileni non abbiano stabilito un contatto visivo. Sono passati a prua della nave da crociera a una distanza di sessantaquattro chilometri più a est.» Pitt fissò pensosamente le linee tracciate sulla carta. «Ma la nave portacontainer messicana non deve essere passata a più di tre o quattro chilometri dal Lady Flamborough.» «Non è strano, però, che non l'abbia visto», disse Rojas. «Dopotutto, la nave da crociera navigava a luci spente.»
Pitt guardò Flores. «Ricorda la fase della luna, capitano?» «Sì, fra il novilunio e il primo quarto.» Giordino scosse la testa. «Non c'era abbastanza luce, se gli uomini di turno in plancia non guardavano nella direzione giusta.» «Immagino che avrete fatto partire le ricerche da questo punto», disse Pitt. Flores annuì. «Sì, gli aerei hanno sorvolato l'oceano sistematicamente per trecentoventi chilometri a est, nord e sud.» «E non hanno trovato niente.» «Solo la portacontainer e la nave con il carico di carbone.» «È possibile che il Lady Flamborough sia tornato indietro e poi si sia diretto verso nord o verso sud», suggerì Gunn. «Abbiamo pensato anche a questo», riferì Flores. «Gli aerei hanno controllato tutti i possibili percorsi verso la terraferma quando sono rientrati per fare il pieno di carburante e sono ripartiti.» «Dopo aver considerato i fatti», disse cupamente Gunn, «temo che il Lady Flamborough possa essere andato in un'unica direzione... in fondo all'oceano.» «Prendi la sua ultima posizione, Rudi, e calcola quale distanza potrebbe aver percorso prima dell'arrivo degli aerei.» Rojas fissò Pitt con aria incuriosita. «Posso chiederle che cosa intende fare? Altre ricerche sarebbero inutili. Abbiamo battuto a palmo a palmo la superficie dell'area dov'è scomparsa la nave.» Pitt lo guardò come se fosse trasparente. «Come ha appena detto il mio collega, può essere finita soltanto in fondo al mare. Ed è appunto là che la cercheremo.» «In che modo posso esserle utile?» «Questa sera dovrebbe arrivare nella zona delle ricerche il Sounder, una nave della NUMA specializzata nelle osservazioni a grandi profondità. Le saremmo grati se potesse mettere a nostra disposizione un elicottero per trasferirci a bordo.» Rojas annuì. «Darò l'ordine di tenerne pronto uno.» Poi soggiunse: «Si renderà conto che sarà come dare la caccia a un particolare pesce in diecimila chilometri quadrati di mare. Potrebbe impiegare tutta una vita». «No», ribatté Pitt, in tono sicuro. «Ci vorranno venti ore al massimo.» Rojas era un uomo pratico, e non credeva molto ai sogni che si avveravano. Guardò Giordino e Gunn, sicuro di vedere lo scetticismo rispecchiato nei loro occhi. Invece si accorse che sembravano perfettamente d'accor-
do. «Ma non crederanno davvero alla possibilità di scoprire qualcosa in un tempo tanto breve?» chiese. Giordino alzò una mano e si guardò con noncuranza le unghie. «In base alla mia esperienza», rispose, «Dirk ha ecceduto nella valutazione.» 42. Esattamente quattordici ore e quarantadue minuti dopo che l'elicottero militare uruguaiano li aveva portati a bordo del Sounder, trovarono un relitto che corrispondeva alle dimensioni del Lady Flamborough in milleventi metri d'acqua. Durante il passaggio che portò alla scoperta, il bersaglio apparve come una macchiolina scura su una piana alla base dello zoccolo continentale. Quando il Sounder si avvicinò, l'operatore sonar ridusse il campo fino a che l'immagine indistinta di una nave diventò una forma discernibile. Il Sounder non aveva il sistema ottico da cinque milioni di dollari che Pitt e Giordino avevano a disposizione a bordo del Polar Explorer. Non c'erano telecamere a colori montate sul sensore sonar. La missione degli scienziati oceanografici consisteva semplicemente nel preparare le mappe di ampie sezioni del fondo marino. Gli apparecchi elettronici erano stati progettati per i rilevamenti a distanza e non per i particolari ravvicinati di oggetti artificiali colati a picco. «Sì, la configurazione è quella», disse Gunn. «Piuttosto vaga. Potrebbe essere uno scherzo della mia immaginazione ma sembra che abbia un fumaiolo inclinato all'indietro sulla sovrastruttura di poppa. Le fiancate sono alte e diritte. È posata con un'inclinazione che non supera i dieci gradi.» Giordino non era del tutto convinto. «Dovremo far avvicinare le telecamere per ottenere un'identificazione sicura.» Pitt non disse nulla. Continuò a osservare le registrazioni sonar molto tempo dopo che il bersaglio era sparito dietro la poppa del Sounder. Le speranze di ritrovar vivo il padre si assottigliavano. Aveva la sensazione di fissare una bara mentre qualcuno spalava la terra sul coperchio. «Ottimo lavoro, amico», disse Giordino. «Ci hai portati proprio sul posto.» «Come sapeva dove cercare?» chiese Frank Stewart, il comandante del Sounder. «Ho immaginato che il Lady Flamborough non avesse cambiato dire-
zione dopo aver tagliato la rotta del General Bravo», spiegò Pitt. «E dato che non era stato avvistato dagli aerei all'esterno della rotta del Cabo Gallegos, ho pensato che il punto migliore per concentrare le ricerche era una linea che si estendesse a est dall'ultima direzione conosciuta rivelata dal Landsat.» «Insomma, uno stretto corridoio fra il General Bravo e il Cabo Gallegos», disse Giordino. «Più o meno», ammise Pitt. Gunn lo fissò. «Mi dispiace che non ci sia una ragione per rallegrarcene.» «Vuole mandare giù un ROV?» chiese Stewart. Un ROV, Remote Operated Vehicle, era un sistema visore subacqueo. «Possiamo risparmiare tempo», rispose Pitt, «rinunciando a una ricognizione con la telecamera e passare direttamente a un'esplorazione. I bracci del batiscafo potranno essere utili se avremo bisogno di prelevare qualcosa dal relitto.» «L'equipaggio preparerà il Deep Rover per l'immersione entro mezz'ora», promise Stewart. «Ha intenzione di pilotarlo lei?» Pitt annuì. «Certamente.» «A mille metri arriverà al limite massimo della profondità possibile.» «Non si preoccupi», disse Rudi Gunn. «Il Deep Rover, a quella profondità, ha un fattore di sicurezza quattro a uno.» «Io preferirei lanciarmi dalle cascate del Niagara con una Volkswagen», disse il comandante, «piuttosto che scendere a mille metri dentro una bolla di plastica.» Con le spalle strette, i lunghi capelli neri e lisci, aveva l'aria del gestore di un negozio di mangimi d'un paesetto o del capo scout. Era un marinaio esperto che sapeva nuotare ma diffidava degli abissi marini e non aveva mai voluto imparare a immergersi. Soddisfaceva le richieste e i capricci degli scienziati per quanto riguardava i loro progetti oceanografici come se fosse un normale rapporto tra una ditta e i clienti. Ma il funzionamento della nave era il suo regno, e se un accademico si azzardava a fare il prepotente con il suo equipaggio veniva rimesso bruscamente al suo posto. «La bolla di plastica», disse Pitt, «è una sfera di acrilico dello spessore di dodici centimetri.» «Sarò ben lieto di starmene seduto al sole sul ponte e di fare ciao-ciao a chi ha il coraggio di immergersi in quel catorcio», borbottò Stewart mentre usciva.
«Mi è simpatico», disse cupamente Giordino. «Manca di savoir faire, ma mi è simpatico.» «Voi due avete qualcosa in comune», disse Pitt con un sorriso. Gunn bloccò un'immagine del relitto trasmessa dal sonar e la studiò con attenzione. Rialzò gli occhiali sulla fronte e socchiuse gli occhi. «Lo scafo sembra intatto. Non ci sono falle. Perché diavolo è affondato?» «E perché non abbiamo trovato rottami in superficie?» soggiunse Giordino. Anche Pitt fissava l'immagine indistinta. «Ricordate il Cyclops? Anche quello andò perduto senza lasciare tracce.» «E come potremmo dimenticarlo?» gemette Giordino. «Portiamo ancora addosso le cicatrici.» Gunn alzò gli occhi verso di lui. «Onestamente, non puoi mettere a confronto una nave caricata malamente e costruita all'inizio del secolo con un moderno transatlantico da crociera con mille accorgimenti di sicurezza.» «Non è stata una tempesta a farlo affondare», disse Pitt. «Forse un'onda anomala?» «O magari qualcosa che ha sfondato lo scafo», disse Giordino. «Lo scopriremo presto», disse Pitt a voce bassa. «Fra due ore saremo sul suo ponte.» Il Deep Rover aveva l'aria di essere fatto per orbitare nello spazio più che per affrontare le profondità dell'oceano. Aveva una forma che poteva piacere solo a un marziano. La sfera aveva un diametro di due metri e quaranta, era divisa da un grande anello e posava su gondole rettangolari che contenevano le batterie da 120 volt. Dietro la sfera spuntavano strane appendici d'ogni tipo: propulsori e motori, bombole d'ossigeno, assorbitori di anidride carbonica, meccanismi per l'attracco, telecamere, unità sonar. Ma i manipolatori anteriori avrebbero fatto diventare verde d'invidia qualunque robot degno di questo nome. Erano bracci meccanici dotati di mani e stranamente capaci di fare tutto ciò che potevano due mani in carne e ossa... e anche qualcosa di più. Un sistema a sensori permetteva di controllare i movimenti di bracci e mani con una precisione di un millesimo di centimetro, mentre la forza consentiva alle mani di reggere con delicatezza una tazza e un piattino di porcellana come di afferrare e sollevare una stufa di ferro. Pitt e Giordino girarono intorno al Deep Rover mentre due tecnici lo controllavano. Era posato su un supporto, in una camera molto ampia
chiamata moon pool. La piattaforma che conteneva il supporto faceva parte dello scafo del Sounder e poteva essere calata in mare per circa sei metri. Uno dei tecnici annuì. «Tutto pronto.» Pitt batté la mano sulla schiena di Giordino. «Dopo di te.» «D'accordo, io mi occuperò dei manipolatori e delle telecamere», disse quello, giovialmente. «Guida tu, ma stai attento al traffico dell'ora di punta.» «Bravo», gridò Stewart dall'alto di una balconata con una voce che echeggiava nella camera spaziosa. «Riportatelo a galla intero e vi darò un bacio.» «Anche a me?» gridò di rimando Giordino. «Sicuro.» «Posso togliermi la dentiera?» «Si tolga tutto quello che vuole.» «E questo sarebbe un incentivo?» esclamò Pitt. Era grato al comandante perché cercava di distogliere il suo pensiero da ciò che avrebbero potuto trovare. «Forse scapperò in Africa, piuttosto che tornare qui.» «Le servirebbe un altro carico di ossigeno», disse Stewart. Gunn si avvicinò senza badare a quello scambio di battute. Aveva in testa una cuffia con il cavo che gli penzolava lungo la gamba. Si sforzò di impartire le istruzioni in tono sbrigativo, ma non riuscì a nascondere una sfumatura di commozione. «Terrò d'occhio il vostro localizzatore audio e le comunicazioni. Non appena vedete il fondo, fai fare al sonar un giro di trecentosessanta gradi fino a che inquadrerà il relitto. Poi trasmettimi la direzione. Voglio che mi tenga informato passo per passo.» Pitt gli strinse la mano. «Ci terremo in contatto.» Gunn lo fissò. «Non pensi che sarebbe meglio se tu restassi qui e lasciassi scendere me?» «Voglio vedere con i miei occhi.» «Buona fortuna», mormorò Gunn. Si voltò e salì una scaletta che portava fuori del moon pool. Pitt e Giordino presero posto sui sedili, simili a quelli di un aereo. I tecnici chiusero la metà superiore della sfera: la fecero combaciare contro il cerchio impermeabile e strinsero le morse. Giordino incominciò a effettuare i controlli prima dell'immersione. «Energia?» «Energia in funzione», disse Pitt. «Radio?»
«Come ci senti, Rudi?» «Forte e chiaro», rispose Gunn. «Ossigeno?» «Ventuno virgola cinque per cento.» Quando ebbero terminato, Giordino disse: «Noi siamo pronti, Sounder». «Siete autorizzati al decollo, Deep Rover», rispose Stewart con il solito tono ironico. «E portate un'aragosta per la cena.» Due sommozzatori si tenevano pronti mentre la piattaforma veniva calata lentamente in mare. L'acqua salì intorno al Deep Rover e l'avviluppò in pochi istanti. Pitt alzò lo sguardo verso le luci del moon pool e vide le figure indistinte che si sporgevano dalle balconate. Tutti gli oceanografi e gli uomini dell'equipaggio erano venuti per seguire l'immersione. Stavano affollati intorno a Gunn e ascoltavano le comunicazioni provenienti dal batiscafo. Pitt si sentiva come un pesce in mostra in un acquario. Quando furono immersi completamente, i sommozzatori intervennero e sganciarono la sfera dal supporto. Uno alzò la mano e fece il segno di «okay». Pitt sorrise, alzò i pollici, poi indicò davanti a sé. Le maniglie all'estremità dei braccioli guidavano i manipolatori, mentre i braccioli veri e propri controllavano i quattro motori di spinta. Pitt pilotava il Deep Rover come se fosse un elicottero subacqueo. Una leggera pressione dei gomiti bastò perché il batiscafo si sollevasse dal supporto. Poi spinse le braccia in avanti e i propulsori orizzontali fecero muovere la sfera. Pitt si allontanò d'una trentina di metri dalla piattaforma, si fermò per orientarsi con la bussola. Finalmente inserì i propulsori verticali e incominciò la discesa. Il Deep Rover sprofondò nel vuoto privo di dimensioni, e l'acqua sempre più buia lo seppellì. Il verdazzurro vibrante della superficie lasciò il posto a un grigio pallido. Uno squalo lungo un metro si avvicinò, girò intorno al batiscafo e poi, non trovando nulla d'invitante, continuò a nuotare nella foschia fluida. Non si avvertiva la sensazione del movimento. Gli unici suoni erano il crepitio sommesso della radio e il ping del faro localizzatore. L'acqua divenne una cortina tenebrosa che circondava il piccolo cerchio di luce. «Stiamo passando i quattrocento metri», riferì Pitt con la calma di un pilota che annuncia l'altitudine del volo. «Quattrocento metri», ripeté Gunn. In condizioni normali, all'interno del batiscafo ci sarebbe stato uno scambio di battute sarcastiche per far passare il tempo, ma questa volta Pitt
e Giordino erano taciturni. La loro conversazione era limitata a poche parole. «Guarda che bellezza», disse Giordino tendendo la mano. Pitt lo vide nello stesso momento: era uno dei più brutti abitanti degli abissi. Un lungo corpo d'anguilla, luminescente come un'insegna al neon. Le fauci non si chiudevano mai in modo completo: erano tenute aperte da denti seghettati, utili per intrappolare le prede più che per masticarle. Un occhio lanciava un brillio maligno mentre un'appendice tubiforme, attaccata a una specie di barba, pendeva dalla mascella inferiore per attirare la prossima vittima. «Ti andrebbe di infilare un braccio in gola a quella creatura?» chiese Pitt. Prima che Giordino avesse il tempo di rispondere, Gunn intervenne. «Uno degli scienziati vuoi sapere che cosa avete visto.» «Un pesce-drago», rispose Pitt. «Vuole una descrizione», disse Giordino. «Digli che gli faremo un disegno quando risaliremo», borbottò Pitt. «Riferirò.» «Stiamo superando gli ottocento metri», annunciò Pitt. «Attenti a non sbattere sul fondo», raccomandò Gunn. «Terremo gli occhi aperti. Nessuno dei due ha voglia di fare un viaggio di sola andata.» «Non è male avere qualcuno che si preoccupa per voi. Come state a ossigeno?» «Benone.» «Ormai dovreste essere vicini.» Pitt rallentò la discesa del Deep Rover con un leggero tocco sul bracciolo scorrevole. Giordino guardò in basso, cercando di individuare l'eventuale presenza di rocce. Pitt avrebbe giurato che il suo amico non avesse battuto ciglio per gli otto minuti necessari perché il fondale si materializzasse gradualmente sotto di loro. «Siamo arrivati», annunciò Giordino. «Profondità millequindici metri.» Pitt diede energia ai propulsori verticali e portò il batiscafo a fermarsi tre metri al di sopra dei sedimenti grigi. A causa della pressione dell'acqua, il peso era aumentato durante la discesa. Pitt girò una valvola del serbatoio della zavorra, tenendo d'occhio il contatore della pressione, e lo riempì di una quantità d'aria necessaria per raggiungere una spinta idrostatica neutra. «Ora effettuiamo la scansione», comunicò a Gunn.
«Il relitto dovrebbe trovarsi approssimativamente a uno uno zero gradi», disse la voce di Gunn, «Affermativo, ti sento», disse Pitt. «Abbiamo un bersaglio radar a duecentoventi metri, uno uno due gradi.» «Ricevuto, Deep Rover.» Pitt si rivolse a Giordino. «Bene, vediamo quel che c'è da vedere.» Aumentò la potenza dei propulsori orizzontali ed eseguì una virata, studiando il fondale deserto mentre Giordino leggeva le indicazioni della bussola. «Un paio di punti a sinistra. Troppo. Bene, ora ci sei. Continua diritto.» Non c'erano lampi di emozione negli occhi di Pitt. Il suo viso era stranamente inespressivo. Si chiedeva, con una paura crescente, che cosa avrebbe trovato. Ricordava l'episodio agghiacciante di un sub sceso per recuperare un traghetto affondato dopo una collisione. Stava lavorando sul relitto a una profondità di trenta metri quando s'era sentito toccare la spalla. S'era girato e s'era trovato di fronte al cadavere di una bella ragazza che lo fissava con gli occhi ciechi e lo toccava come se gli chiedesse di prenderle la mano. Il sommozzatore era stato perseguitato per anni dagli incubi. Pitt aveva già visto molti cadaveri, congelati come l'equipaggio della Serapis, gonfi e grotteschi come gli uomini dello yacht presidenziale Eagle, decomposti e semidisintegrati come quelli negli aerei affondati al largo dell'Islanda e in un lago tra i monti del Colorado. Se chiudeva gli occhi, aveva l'impressione di rivederli tutti. Si augurava di non vedere suo padre ridotto a un corpo galleggiante. Chiuse le palpebre per qualche istante, e per poco non mandò il Deep Rover a sbattere contro il fondo. Voleva ricordare il padre ancora vivo e pieno d'energia... non come un oggetto spettrale nel mare o come un defunto ridicolmente truccato in una bara. «Oggetto nei sedimenti a destra», disse Giordino, strappandolo alle sue fantasticherie morbose. Pitt si tese. «Un bidone da duecento litri. E ce ne sono altri due sulla sinistra.» «Ce n'è dappertutto», disse Giordino. «Sembra una discarica di immondizie.» «Vedi qualche scritta?» «Solo poche lettere stampigliate in spagnolo. Probabilmente dati su peso e volume.»
«Mi avvicinerò a quello che abbiamo davanti. Una traccia del contenuto continua ancora a salire alla superficie.» Pitt accostò il Deep Rover a pochi centimetri dal bidone. La luce mostrava una sostanza scura che usciva dal foro. «Petrolio?» chiese Giordino. Pitt scosse la testa. «Il colore è quello della ruggine. No, aspetta. È rosso. Perdio, è vernice rossa. «Vicino c'è un altro oggetto cilindrico.» «Che cosa ti sembra?» «Direi che è un grosso rotolo di materiale plastico.» «Sì, hai ragione.» «Non sarebbe una cattiva idea portarlo a bordo del Sounder per farlo esaminare. Mantieni la posizione. Lo afferrerò con i manipolatori.» Pitt annuì e tenne fermo il Deep Rover nonostante la leggera corrente sul fondo. Giordino strinse i comandi, fece piegare il braccio intorno al rotolo di plastica come un umano avrebbe piegato entrambi i gomiti per abbracciare un amico. Poi mise in posizione le mani perché stringessero il bordo inferiore. «Preso», annunciò. «Dai una piccola spinta verticale per toglierlo dai sedimenti.» Pitt obbedì e il Deep Rover si sollevò lentamente portando con sé il rotolo, seguito da una nube vorticante di sedimenti. Per qualche attimo non videro nulla. Poi Pitt fece muovere il batiscafo in avanti fino a riportarlo nell'acqua limpida. «Dovremmo essere vicinissimi», disse Giordino. «Il sonar mostra un bersaglio massiccio davanti a noi, un po' sulla destra.» «A quanto risulta a noi, ci siete praticamente sopra», disse la voce di Gunn. Come un'immagine spettrale in uno specchio scuro, la nave emerse dal buio. Ingrandita dalla distorsione causata dall'acqua, era impressionante. «Siamo in contatto visivo», riferì Giordino. Pitt fermò il Deep Rover a sette metri dallo scafo. Manovrò per affiancarsi al ponte di prua del relitto. «Che cosa diavolo...» esclamò all'improvviso. Poi: «Rudi, che colori aveva il Lady Flamborough?» «Un momento.» Dopo meno di dieci secondi, Gunn rispose: «Scafo e sovrastruttura celesti.» «Questa nave ha lo scafo rosso e le sovrastrutture bianche.»
Funn non rispose immediatamente. Quando lo fece, la sua voce era stanca, depressa. «Mi dispiace, Dirk. Dobbiamo esserci imbattuti in una nave silurata da un U-boot tedesco durante la seconda guerra mondiale.» «Non è possibile», mormorò Giordino. «Il relitto è in ottime condizioni. Non ci sono segni di corrosione né incrostazioni. Vedo salire bolle di carburante e d'aria. Non può essere qua sotto da più di una settimana.» «Negativo», intervenne attraverso la radio la voce di Stewart. «L'unica nave dispersa negli ultimi sei mesi in questa parte dell'Atlantico è la vostra.» «Questa non è una nave da crociera», ribatté Giordino. «Aspetta un momento», disse Pitt. «Ora girerò intorno alla poppa per vedere se è possibile identificarla.» Fece virare il Deep Rover e proseguì parallelamente alla fiancata della nave. Quando raggiunsero la poppa, si fermò. Il batiscafo restò immobile a meno di un metro dal nome dipinto. «Oh, mio Dio», mormorò incredulo Giordino. «Ci hanno imbrogliati.» Pitt non rimase paralizzato dallo stupore. Sorrise come un pazzo. Il rompicapo non era ancora completo, ma i pezzi più importanti erano a posto. Le lettere bianche in rilievo sulle lastre d'acciaio dipinte di rosso non erano Lady Flamborough. Erano General Bravo. 43. Da quattrocento metri di distanza neppure i progettisti e i costruttori avrebbero riconosciuto il Lady Flamborough. Il fumaiolo era stato modificato, ogni centimetro quadrato era stato riverniciato. Per completare la messinscena, lo scafo era striato di finta ruggine. La sovrastruttura elegante, le finestre delle cabine e il ponte della passeggiata erano nascosti da grandi fogli di fibra, montati in modo da sembrare container. Dove le strutture moderne della plancia non si potevano eliminare o nascondere, erano state mascherate con intelaiature di legno e di tela su cui erano dipinti oblò e boccaporti finti. Prima che le luci di Punta del Este scomparissero a poppa, tutti i membri dell'equipaggio e i passeggeri erano stati divisi in squadre e costretti a lavorare sino allo sfinimento sotto la minaccia delle armi. Gli ufficiali, i direttori di crociera, gli steward, i cuochi e i camerieri e i marinai avevano
dovuto lavorare di martello tutta la notte per montare i container prefabbricati. Neppure gli ospiti VIP furono risparmiati. Il senatore Pitt e Hala Kamil, i presidenti Hasan e De Lorenzo, con i loro ministri e collaboratori, erano stati costretti a rendersi utili come carpentieri e verniciatori. Quando la nave da crociera arrivò al rendez-vous con il General Bravo, i finti container erano al loro posto e la nave ostentava colori e configurazione quasi identici. Dal bagnasciuga in su, il Lady Flamborough poteva passare facilmente per la portacontainer. Un'ispezione aerea avrebbe rivelato poche discrepanze. Solo un esame ravvicinato dal mare avrebbe permesso di scoprire le differenze più ovvie. Il capitano Juan Machado e i diciotto uomini del General Bravo si trasferirono sulla nave da crociera dopo aver aperto tutte le valvole e i portelloni e aver fatto esplodere le cariche piazzate strategicamente in vari punti dello scafo. Con una serie di scoppi attutiti la nave portacontainer affondò nel mare fra gorgoglii di protesta. Quando il cielo cominciò a schiarirsi a oriente, il Lady Flamborough stava procedendo verso la destinazione ufficiale del General Bravo. Ma quando arrivò a quaranta chilometri dal porto di San Pablo, in Argentina, passò oltre e continuò la rotta verso sud. Il piano ingegnoso di Ammar aveva funzionato. Erano passati tre giorni e il mondo continuava a credere che il Lady Flamborough e i suoi illustri passeggeri fossero finiti in fondo all'oceano. Ammar, seduto a un tavolo, segnò sulla carta nautica l'ultima posizione della nave. Poi tracciò una linea retta verso la destinazione finale e la indicò con una x. Con un sorriso soddisfatto, lasciò cadere la matita e accese una sigaretta Dunhill lanciando sbuffi di fumo sulla carta come un banco di nebbia. Sedici ore, calcolò. Ancora sedici ore di navigazione senza che nessuno li inseguisse e la nave sarebbe stata nascosta al sicuro, dove nessuno avrebbe potuto scoprirla. Il comandante Machado arrivò dalla plancia. Teneva in equilibrio sulla mano un vassoietto. «Vuole una tazza di tè e un croissant?» domandò in inglese. «Grazie, comandante. Ora che ci penso, non ho mangiato da quando siamo partiti da Punta del Este.» Machado posò il vassoio sul tavolo e versò il tè. «So che non ha dormito
da quando siamo saliti a bordo il mio equipaggio e io.» «C'è ancora parecchio da fare.» «Forse dovremmo incominciare presentandoci ufficialmente.» «So chi è lei, o almeno conosco il nome che usa», disse Ammar in tono indifferente. «Non m'interessano le biografie.» «Davvero?» «Sì.» «Le dispiace informarmi dei suoi piani?» disse Machado. «A me non è stato comunicato nulla a parte l'ordine di trasferirci sulla sua nave dopo aver affondato il General Bravo. M'interesserebbe molto conoscere la prossima fase della missione, soprattutto il modo in cui i nostri equipaggi dovranno abbandonare la nave per sottrarsi all'arresto da parte delle forze armate internazionali.» «Mi dispiace di aver avuto troppo da fare per illuminarla.» «Questo potrebbe essere' il momento più adatto», insistette Machado. Ammar bevve con calma il tè e finì il croissant prima di rispondere. Guardò Machado e restò impassibile. «Non intendo abbandonare la nave, per ora», disse. «Le istruzioni che ho ricevuto dal suo superiore e dal mio sono: prendere tempo e ritardare la distruzione finale del Lady Flamborough fino a che avranno avuto la possibilità di valutare la situazione e sfruttarla a loro vantaggio.» Machado si rilassò, guardò i freddi occhi scuri dell'egiziano sotto la maschera, e comprese che quell'uomo aveva il pieno controllo della situazione. «Nessun problema.» Prese la teiera. «Un altro po' di tè?» Ammar gli porse la tazza. «Che cosa fa, quando non affonda le navi?» «Mi dedico agli assassinii politici», disse Machado in tono discorsivo. «Esattamente come lei, Suleiman Aziz Ammar.» Machado non poteva vedere la smorfia diffidente nascosta dalla maschera, ma non faticava a immaginarla. «L'hanno mandata per uccidermi?» chiese Ammar. Fece cadere la cenere dalla sigaretta e spianò una minuscola pistola automatica apparsa come per magia nella sua mano. Machado sorrise e incrociò le braccia tenendo le mani in piena vista. «Stia tranquillo. Ho l'ordine di collaborare con lei nella massima armonia.» Ammar fece rientrare nella manica destra la pistola montata su un congegno a molla. «Come mai mi conosce?» «I nostri capi hanno ben pochi segreti fra loro.» Maledetto Yazid, pensò rabbiosamente Ammar. L'aveva tradito rivelan-
do la sua identità. Non aveva creduto neppure per un istante alla menzogna di Machado. Una volta tolto di mezzo il presidente Hasan, Maometto reincarnato non avrebbe più saputo che farsene del suo sicario prezzolato. Ammar non intendeva confidare il suo piano di fuga all'assassino messicano. Si rendeva conto che la sua controparte non aveva altra possibilità che stringere un'alleanza d'interesse. Lo tranquillizzava la certezza di poter uccidere Machado in qualunque momento, mentre il messicano sarebbe stato costretto ad attendere fino a che ci fosse stata la garanzia della sopravvivenza. Ammar conosceva molto bene la propria posizione. Alzò la tazza. «Alla salute di Akhmad Yazid.» Machado fece altrettanto. «Alla salute di Topiltzin.» Hala e il senatore Pitt erano stati rinchiusi in una suite in compagnia del presidente Hasan. Erano sporchi e macchiati di vernice, troppo sfiniti per dormire. Avevano le mani piene di vesciche, i muscoli indolenziti per la fatica fisica cui non erano abituati. E avevano fame. Dopo la convulsa trasformazione delle strutture esterne della nave da crociera, i sequestratori non avevano dato loro da mangiare. Per bere avevano a disposizione soltanto l'acqua del rubinetto. E per aggravare la situazione, la temperatura continuava a scendere e dalle ventole non arrivava aria calda. Il presidente Hasan era steso su uno dei letti. Soffriva di una malattia cronica alla schiena, e gli sforzi di quelle dieci ore ininterrotte passate a chinarsi e a tendersi gli avevano causato dolori tremendi che cercava di sopportare con stoicismo. Hala e il senatore non si muovevano: sembravano statue di legno. Hala era seduta accanto a un tavolo, con la testa fra le mani. Per quanto fosse scarmigliata, era sempre bella e serena. Il senatore Pitt era sdraiato su un divano e fissava il lampadario. Solo il battito delle palpebre dimostrava che era vivo. Finalmente Hala alzò la testa e lo guardò. «Se almeno potessimo fare qualcosa», disse con un filo di voce. Il senatore si sollevò a sedere. Era ancora in buona forma, per la sua età. Era indolenzito dal collo ai piedi, ma il suo cuore batteva ancora regolarmente come quello di un uomo di vent'anni più giovane. «Quel diavolo con la maschera è troppo furbo», disse. «Non ci dà da mangiare per tenerci in uno stato di debolezza. Tutti sono rinchiusi separa-
tamente in modo che non possano comunicare e organizzare una contromossa. E lui e i suoi terroristi non hanno avuto contatti con noi da due giorni. È tutto calcolato per mantenerci in uno stato di impotenza e di nervosismo.» «Non potremmo almeno tentare di uscire di qui?» «Probabilmente c'è una guardia in fondo al corridoio, in attesa di uccidere il primo che riesce a sfondare una porta. E anche se riuscissimo a superarlo, dove potremmo andare?» «Forse potremmo impadronirci di una scialuppa di salvataggio», suggerì Hala. Il senatore scosse la testa e sorrise. «Ormai è troppo tardi per un tentativo del genere. Il numero dei sequestratori è raddoppiato da quando sono saliti a bordo gli uomini del mercantile messicano.» «E se sfondassimo la finestra e lasciassimo una scia di mobili, lenzuola e tutto quello che possiamo gettare fuori bordo?» insistette Hala. «Tanto varrebbe lanciare bottiglie con i messaggi. Le correnti li porterebbero a cento chilometri dalla nostra rotta prima di domattina.» Il senatore scosse la testa. «Quelli che ci cercano non li troverebbero in tempo.» «Senatore, anche lei sa bene che nessuno ci cerca. Tutto il mondo crede che la nostra nave sia affondata e che siamo tutti morti. A quest'ora tutte le ricerche saranno state interrotte.» «Io conosco qualcuno che non desisterà mai.» Hala lo guardò con aria interrogativa. «Chi è?» «Mio figlio Dirk.» Hala si alzò, si avvicinò zoppicando alla finestra e fissò il foglio di fibra che le nascondeva il mare. «Deve essere molto fiero di lui. È coraggioso e pieno di risorse, ma dopotutto è soltanto un essere umano. Non potrà mai intuire la verità dietro l'inganno...» S'interruppe all'improvviso e scrutò attraverso una crepa che mostrava un tratto d'acqua. «C'è qualcosa che sta passando accanto alla nave.» Il senatore si alzò e si affiancò a Hala. Riuscì a distinguere a stento diversi oggetti bianchi contro l'azzurro del mare. «È ghiaccio», mormorò sbalordito. «Questo spiega il freddo. Dobbiamo essere diretti verso l'Antartico.» Hala si appoggiò a lui e gli nascose il viso contro il petto. «Nessuno potrà salvarci», bisbigliò rassegnata. «Nessuno penserà a venire a cercarci qui.»
44. Nessuno sapeva che il Sounder potesse viaggiare a una simile velocità. I ponti tremavano al rombo del motore e lo scafo sussultava a ogni sobbalzo sulle onde. Era stato varato a Boston nell'estate del 1961, e per quasi tre decenni era stato noleggiato agli istituti oceanografici per vari progetti di ricerca a grandi profondità in tutti i mari del mondo. Dopo essere stato acquistato dalla NUMA nel 1990, era stato completamente ristrutturato. Il nuovo motore diesel da 4000 cavalli era stato studiato per una velocità massima di quattordici nodi, ma Stewart e i suoi ufficiali di macchina riuscivano a fargli raggiungere i diciassette. Il Sounder era l'unica nave lanciata sulle tracce del Lady Flamborough e aveva le stesse probabilità di ridurre le distanze che poteva avere un basset hound nei confronti di un leopardo. Le navi da guerra argentine e le unità britanniche stazionate alle Falkland avrebbero potuto intercettare la nave da crociera, ma non erano state avvertite. Dopo che Pitt aveva inviato all'ammiraglio Sandecker un messaggio in codice per annunciare la sbalorditiva scoperta del General Bravo al posto del Lady Flamborough, i capi di stato maggiore e i dirigenti dei servizi segreti della Casa Bianca avevano raccomandato al presidente di tenere nascosta la rivelazione fino a quando le forze speciali americane avessero potuto raggiungere l'area e coordinare un'operazione di salvataggio. Quindi il vecchio Sounder solcava il mare tutto solo e senza autorizzazioni ufficiali. L'equipaggio e gli scienziati erano tutti contagiati dall'eccitazione della caccia. Pitt e Giordino erano nella sala da pranzo e studiavano una carta dell'estremità meridionale dell'oceano Atlantico che Gunn aveva spiegato e bloccato con le tazzine da caffè. «Sei convinto che siano diretti a sud?» chiese Gunn a Pitt. «Un'inversione di marcia verso nord li avrebbe riportati entro la griglia delle ricerche», rispose Pitt. «E non è possibile che abbiano deviato verso ovest, verso la costa argentina.» «Potrebbero aver puntato verso il mare aperto.» «Con tre giorni di vantaggio, a quest'ora sarebbero quasi arrivati in Africa», soggiunse Giordino. «Troppo rischioso», disse Pitt. «Il regista di questo spettacolo non è stupido. Se avesse tagliato verso est attraverso l'oceano, la nave si sarebbe e-
sposta all'avvistamento da parte degli aerei e di qualunque natante di passaggio. No, l'unica possibilità per sfuggire all'attenzione era continuare sulla rotta annunciata del General Bravo fino a San Pablo nella Terra del Fuoco.» «Ma le autorità portuali avrebbero dato l'allarme, se la nave portacontainer fosse risultata in ritardo», insistette Giordino. «Non sottovalutare quell'individuo. Vuoi scommettere che ha inviato un messaggio alla capitaneria di porto di San Pablo per comunicare che il General Bravo aveva un'avaria al motore?» «Un tocco da maestro», riconobbe Giordino. «In questo modo potrebbe guadagnare facilmente altre quarantotto ore.» «D'accordo», disse Gunn. «Che cosa rimane? Dove sta andando? Ci sono mille isole disabitate dove può far perdere le sue tracce, intorno allo stretto di Magellano.» «Oppure...» Giordino indugiò un momento. «Oppure potrebbe spingersi nell'Antartico, nella convinzione che nessuno andrà mai a cercarlo là.» «Stiamo tutti parlando al presente», osservò Pitt. «Ma per quanto ne sappiamo, potrebbe aver già attraccato in qualche cala deserta.» «Ormai abbiamo scoperto i suoi trucchi», disse Gunn. «Le telecamere del Landsat verranno attivate al prossimo passaggio e il Lady Flamborough, alias General Bravo, verrà rivelato in tutto il suo splendore.» Giordino guardò Pitt in attesa di un commento, ma vide che il suo vecchio amico aveva lo sguardo fisso nel vuoto. Ormai sapeva che Pitt aveva l'abitudine di isolarsi, e riconosceva quei segnali fin troppo bene. Pitt non era più a bordo del Sounder. Era sul ponte del Lady Flamborough e tentava di entrare nella mente dell'avversario. Non era un compito facile. L'uomo che aveva organizzato il dirottamento doveva essere il tipo più astuto con il quale si fosse mai trovato a combattere. «Lui lo sa», disse alla fine Pitt. «Che cosa sa?» chiese incuriosito Gunn. «Sa che può essere individuato per mezzo delle foto scattate dal satellite.» «Allora sa che può scappare ma non nascondersi.» «Io credo che possa farlo.» «Mi piacerebbe sapere in che modo.» Pitt si alzò e si stirò. Gunn adesso era ansioso, impaziente. Pitt si bilanciò per contrastare il beccheggiare della nave e rivolse a Gunn un mezzo sorriso. «Se fossi in lui», disse come se parlasse di qual-
cuno che conosceva bene, «farei scomparire la nave per la seconda volta.» Gunn restò a bocca aperta mentre Giordino gli lanciava un'occhiata come per ricordargli: «Te l'avevo detto». Ma prima che potesse chiedere spiegazioni, Pitt era uscito dalla sala da pranzo. Andò a poppa e scese nel moon pool. Girò intorno al Deep Rover e si fermò davanti al grosso rotolo di plastica che aveva ripescato sul fondo dell'oceano. Era alto quasi quanto lui ed era trattenuto dalle corde che lo legavano a una trave. Pitt lo fissò per quasi cinque minuti, poi si alzò e lo toccò con una mano. Un'intuizione che si trasformò rapidamente in certezza fece spuntare nei suoi occhi un'espressione machiavellica. Pronunciò due sole parole, così sommessamente che un tecnico, al lavoro a pochi metri da lui, non sentì. «Ci sono!» 45. Una marea d'informazioni riguardante quella che ormai veniva chiamata «la crisi del Flamborough» continuava ad affluire attraverso telescriventi e computer nel Centro del Comando Militare del Pentagono, nel Centro Operazioni al settimo piano del dipartimento di Stato e nella sala detta dei War Games nel vecchio Executive Office Building. Ognuno dei centri strategici collezionava e analizzava i dati con rapidità quasi fulminea. Poi la versione, condensata e completata da una serie di indicazioni, veniva inoltrata alla Situation Room nei sotterranei della Casa Bianca per la valutazione finale. Il presidente, in pantaloni sportivi e maglione di lana, era entrato nella sala e s'era seduto a un'estremità del lungo tavolo delle conferenze. Dopo essere stato aggiornato sulla situazione, chiedeva ai consiglieri suggerimenti per un'azione adeguata. Anche se le decisioni finali spettavano a lui solo, aveva la collaborazione dei suoi esperti, tutti veterani della gestione delle crisi, che si prodigavano alla ricerca di un consenso politico e si tenevano pronti a operare non appena avessero ottenuto la sua approvazione nonostante le opinioni contrarie. I rapporti dei servizi segreti che giungevano dall'Egitto erano quasi tutti scoraggianti. Regnava uno stato di anarchia, la situazione peggiorava d'ora in ora. La polizia e le forze armate erano consegnate nelle caserme mentre migliaia di seguaci di Akhmad Yazid inscenavano scioperi e boicottaggi in
tutto il Paese. L'unica notizia positiva era il fatto che le dimostrazioni non erano caratterizzate dalla violenza. Il segretario di Stato Douglas Oates stava esaminando un rapporto che un collaboratore gli aveva messo davanti. «Ci mancava solo questa», borbottò. Il presidente lo guardò in silenzio e attese. «I ribelli musulmani hanno appena occupato la principale stazione televisiva del Cairo.» «Yazid è comparso?» «Per ora no.» Il direttore della CIA, Brogan, lasciò uno dei monitor dei computer e si avvicinò. «Secondo le ultime informazioni è ancora rintanato nella villa nei pressi di Alessandria e attende di formare un nuovo governo in virtù dell'acclamazione popolare.» «Ormai non ci vorrà molto.» Il presidente sospirò. «Che posizione hanno assunto i ministri israeliani?» Oates rimise in ordine alcune carte mentre rispondeva. «Un atteggiamento di attesa. Non vedono Yazid come una minaccia immediata.» «Cambieranno idea quando farà a pezzi gli accordi di Camp David.» Il presidente si voltò e fissò freddamente Brogan. «Possiamo eliminarlo?» «Sì.» La risposta di Brogan fu secca, decisa. «Come?» «Nell'eventualità che la cosa finisca un giorno o l'altro per ripercuotersi sulla sua amministrazione, signor presidente, con tutto il rispetto le ricordo che sarebbe meglio se lei non lo sapesse.» Il presidente chinò la testa in segno d'assenso. «Credo che abbia ragione. Comunque, lei non potrà agire se non le darò l'ordine.» «Le raccomando di non ricorrere a un attentato», disse Oates. «Doug Oates ha ragione», intervenne Julius Schiller. «Potrebbe avere l'effetto di un boomerang. Se si risapesse, lei sarebbe considerato un bersaglio libero per tutti i capi del terrorismo mediorientale.» «Per non parlare dell'indignazione del Congresso», soggiunse Dale Nichols, che era seduto al centro del tavolo. «E la stampa la farebbe a pezzi.» Il presidente soppesò le conseguenze. Poi annuì. «D'accordo. Dato che Yazid odia il premier sovietico Antonov quanto odia me, per il momento terremo di riserva la possibilità di eliminarlo. Ma ricordatelo, signori, non ho alcuna intenzione di sopportare neppure la metà dei rospi che Khomeini ha fatto ingoiare ai miei predecessori.» Brogan fece una smorfia, ma Oates e Schiller si scambiarono un'occhiata
di sollievo. Nichols si accontentò di aspirare il fumo della pipa con aria soddisfatta. Gli attori del dramma erano uomini energici, con punti di vista precisi e spesso conflittuali. La vittoria era accettata come una cosa normale, ma la sconfitta bruciava. Il presidente sfogliò gli appunti. «Qualche novità dal Messico?» «La situazione è troppo tranquilla», rispose Brogan. «Niente dimostrazioni, niente disordini. Sembra che Topiltzin stia aspettando, proprio come il fratello.» Il presidente alzò la testa con aria sconcertata. «Ho sentito bene? Ha detto 'fratello'?» Brogan inclinò la testa in direzione di Nichols. «Dale ha avuto un'intuizione interessante. Yazid e Topiltzin sono fratelli, e non sono né egiziani né messicani.» «Avete la certezza che ci sia un legame familiare fra loro?» intervenne Schiller, sbalordito. «Avete le prove?» «I nostri agenti si sono procurati i loro codici genetici e li hanno abbinati.» «Questa è la prima che sento», mormorò il presidente. «Avreste dovuto informarmi già da tempo.» «La documentazione finale è ancora in corso di valutazione e ci verrà inviata molto presto da Langley. Mi dispiace, signor presidente: ma, a rischio di sembrare troppo cauto, non volevo rivelare una scoperta così sconvolgente prima che avessimo in mano prove concrete.» «E come diavolo vi siete procurati i codici genetici?» chiese Nichols. «Sono entrambi molto vanitosi», spiegò Brogan. «La nostra sezione falsificazioni ha inviato un Corano a Yazid e una foto a Topiltzin... una foto che lo mostrava in costume azteco. E in allegato c'erano le richieste per entrambi perché scrivessero una breve preghiera sui due oggetti e li rimandassero. Per la verità è stato abbastanza complicato scrivere le richieste nella grafia dei loro noti adoratori... seguaci influenti con molto potere finanziario e politico. Tutti e due sono caduti in trappola. La cosa più delicata è stata intercettare i plichi prima che arrivassero agli indirizzi esatti. Poi c'è stato il problema di scartare le varie impronte sui due oggetti: collaboratori, segretari e così via. Un'impronta di un pollice sul Corano corrispondeva a una serie già nota di impronte di Yazid, prese dalla polizia egiziana quando fu arrestato diversi anni fa. Poi siamo risaliti al DNA attravèrso le sostanze oleose presenti nell'impronta.
«Con Topiltzin è stato anche più difficile. Non aveva precedenti in Messico; ma il laboratorio ha abbinato il suo codice a quello del fratello in base alle impronte rilevate dalla fotografia. E finalmente una scoperta casuale nello schedario centrale dell'Interpol a Parigi ci ha permesso di far centro. Era tutto chiaro. Ci siamo imbattuti in un'organizzazione familiare, una dinastia del crimine che si è imposta dopo la seconda guerra mondiale. Un impero da un miliardo di dollari governato da padre e madre, tre fratelli e una sorella, e gestito da un esercito di zii, cugini e altri parenti diretti o acquisiti. È un'associazione impenetrabile, dove per gli investigatori internazionali è quasi impossibile infiltrarsi.» Intorno al tavolo scese un silenzio allibito, interrotto solo dal ticchettio delle telescriventi e dai mormoni sommessi dei collaboratori. Brogan girò lo sguardo da Nichols a Schiller, a Oates e al presidente. «Come si chiamano?» chiese il presidente a voce bassa. «Capesterre», rispose Brogan. «Roland e Joséphine Capesterre sono il padre e la madre. Il figlio maggiore è Robert, che noi conosciamo come Topiltzin. Il secondogenito è Paul.» «Cioè Yazid?» «Sì.» «Penso che ci interesserà moltissimo sentire tutto quello che sa», l'invitò il presidente. «Come ho già precisato», cominciò Brogan, «non conosco esattamente tutti i dati, come l'ubicazione attuale di Charles e Marie, il fratello minore e la sorella, o i nomi dei vari parenti. Finora abbiamo solo grattato la superficie. A quanto ricordo, i Capesterre sono una famiglia di criminali molto legata alla tradizione, che incominciò un'ottantina di anni fa quando il nonno emigrò dalla Francia ai Caraibi e organizzò un'attività di contrabbando: trasferiva negli Stati Uniti merci rubate e alcolici durante il proibizionismo. All'inizio aveva la base a Port of Spain, Trinidad: tuttavia, dopo essersi arricchito, acquistò un'isoletta vicina e ne fece la sua sede. Quando il vecchio morì, Roland ne prese il posto e, insieme con la moglie Joséphine, che secondo alcuni sarebbe la vera eminenza grigia, si diede anche al traffico della droga. Prima crearono sull'isola una piantagione di banane perfettamente in regola, che rendeva piuttosto bene. Poi fecero un colpo grosso dedicandosi anche a una seconda coltura. Si trattava di marijuana che veniva coltivata sotto le piante di banane perché fosse più difficile scoprirla. Crearono sull'isola anche una raffineria. Ho fatto un quadro abbastanza chiaro?»
«Sì...» disse il presidente. «È molto chiaro. Grazie, Martin.» «Avevano organizzato tutto», mormorò Schiller. «I Capesterre producevano, raffinavano ed esportavano la droga con un sistema molto efficiente.» «E provvedevano anche alla distribuzione», continuò Brogan. «Ma non negli Stati Uniti, e questo è interessante. Vendevano la droga solo in Europa e nell'Estremo Oriente.» «E sono ancora nel giro della droga?» chiese Nichols. «No.» Brogan scosse la testa. «Tramite i loro contatti, furono informati che la loro isola stava per subire un'incursione da parte delle forze di sicurezza delle Indie Occidentali. La famiglia bruciò il raccolto di marijuana, tenne la piantagione di banane e cominciò ad acquistare i pacchetti di maggioranza di aziende finanziariamente traballanti. Ebbero un grande successo: riuscirono a rimetterle in piedi e a ottenere profitti astronomici. Forse questo era dovuto al loro metodo di gestione piuttosto inconsueto.» Nichols abboccò all'amo. «E che metodo era?» Brogan sogghignò. «I Capesterre ricorrevano al ricatto, all'estorsione e all'omicidio. Ogni volta che una società concorrente li ostacolava, i massimi dirigenti incominciavano per qualche strana ragione ad avviare negoziati per la fusione con qualche attività dei Capesterre, e naturalmente ci rimettevano anche la camicia. I costruttori che davano fastidio, gli avvocati di parte avversa, i politici ostili finivano tutti per amare i Capesterre, altrimenti un bel giorno le loro mogli e i loro figli subivano qualche incidente, le loro case bruciavano o loro stessi scomparivano.» «Sarebbe come se la mafia gestisse la General Motors o la Gulf & Western», commentò in tono sardonico il presidente. «Un paragone calzante.» Brogan annuì e continuò. «Oggi la famiglia controlla un'immensa conglomerata mondiale di attività finanziarie e industriali valutate intorno ai dodici miliardi di dollari.» «Proprio miliardi, non milioni?» mormorò incredulo Oates. «Forse per l'avvenire non andrò mai più in chiesa.» Schiller scrollò le spalle. «E chi ha detto che il crimine non paga?» «Non mi sorprende che siano loro a tirare i fili in Egitto e in Messico», disse Oates. «Devono aver comprato, ricattato e terrorizzato un po' tutti i politici e i militari dei due Paesi.» «Comincio a capire il loro piano», disse il presidente. «Ma non so come sia possibile che i figli si facciano passare per egiziani o messicani. Non si può imbrogliare in questo modo milioni di persone senza che nessuno se
ne accorga.» «La madre discende dagli schiavi negri, e questo spiega perché hanno la pelle scura», disse Brogan in tono paziente. «Circa il loro passato, possiamo solo formulare ipotesi. Roland e Joséphine dovevano aver gettato le fondamenta più di quarant'anni fa. Via via che i figli nascevano, mettevano in atto un programma per dare loro una credibile nazionalità straniera. Paul senza dubbio ha imparato a parlare l'arabo prima che a camminare, mentre Robert ha imparato l'antico azteco. Più tardi hanno frequentato con ogni probabilità scuole private, uno in Egitto e l'altro in Messico, sotto falso nome.» «Un piano grandioso», mormorò Oates in tono di ammirazione. «Invece di infiltrare qualche talpa hanno agito ai massimi livelli, con l'aggiunta di immagini messianiche.» «A me sembra diabolico», disse Nichols. «Sono d'accordo con Doug», intervenne il presidente con un cenno a Oates. «È un piano grandioso, sì. Preparare i figli fin dalla nascita, servirsi della ricchezza e del potere per impadronirsi di una o più nazioni... Ci troviamo di fronte a una dimostrazione di pazienza e di tenacia enormi.» «Bisogna ammetterlo», disse Schiller. «Quei delinquenti hanno seguito il copione fino a che gli avvenimenti si sono orientati in loro favore. Adesso stanno per prendere il potere di due degli Stati più importanti del Terzo Mondo.» «Non possiamo permetterlo», fece brusco, il presidente. «Se il fratello che sta in Messico diventa capo dello Stato e mette in atto la minaccia di spedire due milioni di suoi compatrioti oltre il nostro confine, non vedo che altro potremmo fare se non mettere in campo le forze armate.» «Sconsiglio ogni azione aggressiva», disse Oates. «La storia recente dimostra che agli invasori le cose non vanno bene. L'eliminazione di Yazid e Topiltzin, comunque si chiamino, e un attacco contro il Messico non risolveranno il problema a lungo termine.» «Forse no», borbottò il presidente, «ma ci darebbe il tempo di alleggerire la situazione.» «Potrebbe esserci un'altra soluzione», s'intromise Nichols. «Servirci dei Capesterre in modo da rovinarli.» «Sono molto stanco», disse il presidente, che aveva gli occhi cerchiati. «Per favore, lasciamo perdere gli indovinelli.» Nichols guardò Brogan per chiedere il suo appoggio. «Quegli individui erano trafficanti di droga. Devono essere criminali ricercati. È esatto?»
«La risposta è sì alla prima domanda, no alla seconda», rispose Brogan. «Non sono piccoli spacciatori di quartiere. Da anni l'intera famiglia viene tenuta d'occhio. Ma non ci sono mai stati arresti o condanne. Hanno un esercito di avvocati civilisti e penalisti da far sfigurare il più grande studio legale di Washington. Hanno amici e protezioni che coinvolgono almeno dieci governi importanti. Vorrebbe catturarli e processarli? Tanto varrebbe cercare di demolire le piramidi con una piccozza da ghiaccio.» «Allora smascheriamoli agli occhi del mondo, dimostriamo che sono criminali», insistette Nichols. «È inutile», sospirò il presidente. «Ogni tentativo finirebbe per sembrare una menzogna, un trucco propagandistico.» «Forse Nichols non ha torto», disse Schiller a voce bassa. Era un uomo che preferiva ascoltare più che parlare. «Sarebbe sufficiente una base che non si possa incrinare o demolire.» Il presidente lo guardò con aria interrogativa. «Dove vuole arrivare?» «Il Lady Flamborough», rispose Schiller con aria assorta. «Se troviamo la prova incontestabile che è stato Yazid a ordinare il sequestro della nave, potremo sfondare il muro eretto dai Capesterre.» Brogan annuì. «Lo scandalo che seguirebbe contribuirebbe a strappare l'aureola mistica a Yazid e Topiltzin e la maschera alle innumerevoli attività criminali della famiglia.» «E non dimentichiamo i media. Diventeranno feroci come squali non appena affonderanno i denti nel passato sanguinario dei Capesterre.» Nichols rabbrividì per l'involontaria violenza dell'immagine che aveva adottato. «Ma tutti voi trascurate un fatto importante», disse Schiller con un lungo sospiro. «Per il momento ogni legame tra la sparizione della nave e i Capesterre è puramente indiziario.» Nichols aggrottò la fronte. «Chi altro avrebbe un movente per eliminare i presidenti Hasan e De Lorenzo e il segretario generale dell'ONU Hala Kamil?» «Nessuno!» esclamò Brogan. «Un momento», intervenne il presidente. «Julius ha ragione. I sequestratori non si comportano come i soliti terroristi del Medio Oriente. Non si sono ancora identificati. Non hanno avanzato pretese o minacce. Non si sono serviti dell'equipaggio e dei passeggeri come di ostaggi per un ricatto internazionale. Non mi vergogno di ammettere che il loro silenzio mi fa paura.»
«Questa volta abbiamo a che fare con una razza diversa», ammise Brogan. «I Capesterre giocano all'attesa nella speranza che i governi di De Lorenzo e di Hasan crollino durante la loro assenza.» «Non si è più saputo niente della nave da crociera, dopo che il figlio di George Pitt ha scoperto lo scambio?» chiese Oates, per scongiurare la possibilità di uno scontro. «Si trova a est della Terra del Fuoco», rispose Schiller. «Naviga a tutto vapore verso sud. La stiamo cercando con il satellite ed entro domani a quest'ora dovremmo averla inchiodata.» Il presidente non sembrava molto rassicurato. «Prima di allora i sequestratori potrebbero aver assassinato tutti coloro che si trovano a bordo.» «Purché non l'abbiano già fatto», disse Brogan. «Che forze abbiamo in quell'area?» «In pratica non abbiamo nulla, signor presidente», rispose Nichols. «Non abbiamo una giustificazione per mantenere una presenza tanto a sud. A parte pochi aerei da trasporto militari che forniscono materiali e provviste alle stazioni di ricerca al polo, l'unico mezzo americano relativamente vicino al Lady Flamborough è il Sounder della NUMA.» «E sul Sounder c'è Dirk Pitt?» «Sì, signor presidente.»» «E le nostre Forze Speciali?» «Venti minuti fa ho parlato al telefono con il generale Keith al Pentagono», intervenne Schiller. «Una squadra scelta completamente equipaggiata è salita sui C-140 a reazione ed è partita da un'ora. Sono accompagnati da una squadra di aerei d'assalto Osprey.» Il presidente intrecciò le dita. «Dove stabiliranno il loro posto di comando?» Brogan fece apparire su uno schermo gigante una mappa che mostrava la punta estrema del Sud America e, servendosi di un puntatore laser, indicò una località. «Se non riceveremo nuove informazioni che modifichino il nostro piano», spiegò, «atterreranno in un aeroporto nei pressi della piccola città cilena di Punta Arenas nella penisola di Brunswick e l'useranno come base per le operazioni.» «È un volo molto lungo», mormorò il presidente. «Quando arriveranno?» «Entro quindici ore.» Il presidente guardò Oates. «Doug, lascio a lei il compito di risolvere
con il governo cileno e quello argentino gli eventuali problemi di sovranità.» «Ci penserò io.» «È necessario trovare il Lady Flamborough prima che le Forze Speciali possano iniziare un tentativo di salvataggio», disse Schiller, con logica lapalissiana. «In quanto a questo, siamo nei pasticci.» Nella voce di Brogan c'era una strana rassegnazione. «La flotta di portaerei più vicina è a circa ottomila chilometri di distanza. Non è possibile organizzare una ricerca su vasta scala per mare e per aria.» Schiller fissò pensosamente il tavolo. «Un tentativo di salvataggio potrebbe richiedere molte settimane se i sequestratori nasconderanno il Lady Flamborough nelle baie deserte lungo la costa antartica. La nebbia e il cielo coperto non faciliterebbero le cose.» «La nostra unica carta è la sorveglianza per mezzo dei satelliti», disse Nichols. «Il guaio è che non abbiamo satelliti-spia che tengano d'occhio quella regione.» «È vero», confermò Schiller. «I mari dell'estremo sud non hanno un posto privilegiato nell'elenco della sorveglianza strategica. Se stessimo parlando dell'emisfero settentrionale, potremmo puntare tutta una serie di satelliti e riuscire a sentire le conversazioni a bordo della nave e a leggere un giornale che si trova sul ponte.» «Che cosa abbiamo a disposizione?» chiese il presidente. «Il Landsat», rispose Brogan. «Qualche satellite meteorologico della Difesa e un Seasat usato dalla NUMA per seguire le correnti e i ghiacci antartici. Ma il nostro strumento più utile è l'SR-90 Casper.» «Abbiamo aerei da ricognizione SR-90 nell'America Latina?» «La base più vicina è un aeroporto segretissimo nel Texas.» «Quanto ci vuole per portarne uno fin laggiù e tornare indietro?» «Un Casper può raggiungere Mach cinque, poco meno di cinquemila chilometri orari. Può arrivare fino alla punta dell'Antartide, fare una serie di foto e tornare a consegnare la pellicola entro cinque ore.» Il presidente scosse la testa. «Qualcuno può spiegarmi perché il governo degli Stati Uniti si fa sempre cogliere impreparato? Lo giuro, non c'è nessuno che combini più pasticci di noi. Costruiamo i sistemi di rilevamento più sofisticati che esistano al mondo, ma quando ne abbiamo bisogno sono tutti concentrati nel posto sbagliato al momento sbagliato.» Nessuno parlò. Nessuno si mosse. Gli uomini del presidente evitarono il
suo sguardo e fissarono imbarazzati il tavolo, le carte, le pareti. Finalmente Nichols disse, con voce bassa e sicura: «Troveremo la nave, signor presidente. E se è possibile salvare gli ostaggi, le Forze Speciali ci riusciranno». «Sì», mormorò il presidente. «Sono addestrate per missioni del genere. Per me l'unico interrogativo è se l'equipaggio e i passeggeri saranno ancora vivi, o se le Forze Speciali troveranno una nave piena di cadaveri.» 46. Il colonnello Morton Hollis non era molto lieto di aver dovuto lasciare la famiglia durante la festa per il compleanno della moglie. L'espressione che le aveva letto negli occhi lo straziava. Sapeva che gli sarebbe costato caro... alla collana di corallo rosso si sarebbe aggiunta la crociera di cinque giorni alle Bahamas che lei chiedeva da tempo con insistenza. Adesso era seduto alla scrivania di un compartimento attrezzato a ufficio a bordo del trasporto C-140 in volo sopra il Venezuela, e aspirava il fumo di un grosso Avana che aveva acquistato allo spaccio della base, dato che era stato tolto l'embargo sulle importazioni dei prodotti cubani. Hollis studiò gli ultimi bollettini meteorologici relativi alla penisola Antartica e scrutò le foto che mostravano la costa gelida e accidentata. Aveva già considerato le difficoltà una dozzina di volte da quando era decollato. Durante la loro breve storia, le nuove Forze Speciali avevano già acquisito notevoli successi, ma dovevano ancora intraprendere una operazione in grande stile come il salvataggio del Lady Flamborough. Le Forze Speciali, figlie orfane del Pentagono, non erano state poste sotto un comando unificato fino all'autunno del 1989. A quel tempo la Delta Force dell'esercito, i cui effettivi provenivano dalle unità scelte dei Ranger e dei Berretti Verdi e da un'unità segreta dell'Aeronautica militare conosciuta come Task Force 160, si era fusa con il SEAL Team Six della Marina e lo Special Operations Wing dell'Aeronautica. Queste forze unificate costituivano una formazione trasversale rispetto alle rivalità e ai limiti delle varie armi, sotto un comando unificato: contavano dodicimila uomini e un quartier generale in una base inaccessibile nel sud-est della Virginia. Gli uomini erano esperti delle tattiche della guerriglia, i lanci con il paracadute, la sopravvivenza nella giungla e le immersioni subacquee, e in particolare dell'assalto a edifici, navi e aerei per le missioni di salvataggio.
Hollis era basso (raggiungeva appena l'altezza minima richiesta per far parte delle Forze Speciali) e aveva le spalle di un'ampiezza enorme. A quarant'anni era duro e solido: era sopravvissuto a una rigorosa simulazione di guerriglia nelle paludi della Florida per tre settimane, e subito si era lanciato con il paracadute per un'altra esercitazione. I capelli bruni e cortissimi erano radi e già un po' grigi. Gli occhi erano verdazzurri, con il bianco un po' ingiallito per il troppo tempo passato al sole senza occhiali adatti. Era un uomo abile che scrutava sempre al di là della prossima collina e preparava i suoi piani di conseguenza, lasciando ben poco al caso. Lanciò un anello di fumo dal sigaro con una certa euforia. Non avrebbe potuto guidare una squadra migliore neppure se avesse scelto i vincitori di un'Olimpiade militare. Erano il meglio del meglio per i conflitti a bassa intensità. Gli ottanta uomini del suo contingente, chiamati Demon Stalkers, erano stati scelti per il salvataggio del Lady Flamborough perché avevano partecipato a una manovra invernale contro finti terroristi che tenevano in ostaggio una nave e l'equipaggio al largo delle coste della Norvegia. Quaranta erano «tiratori» mentre gli altri avevano ruoli logistici e di supporto. Il suo vice, il maggiore John Dillinger, bussò alla porta e si affacciò. «Sei occupato, Mort?» chiese con un forte accento texano. Hollis agitò una mano con noncuranza. «Il mio ufficio è anche tuo», dichiarò. «Entra e accomodati sulla mia nuova poltrona di lusso.» Dillinger, un uomo magro e teso dalla faccia contratta, ma solido come un'incudine, fissò con aria dubbiosa il seggiolino di tela fissato al pavimento e sedette. Tutti lo prendevano in giro perché portava lo stesso nome del famigerato gangster, ma in realtà era un maestro nell'arte dei piani tattici e della penetrazione di difese quasi inespugnabili. «Studi la situazione?» chiese a Hollis. «Sto esaminando le previsioni meteorologiche, le condizioni del ghiaccio e del terreno.» «Vedi qualcosa di divertente nella sfera di cristallo?» «È troppo presto.» Hollis inarcò un sopracciglio. «Che piani stanno prendendo forma in quella tua mente depravata?» «Posso spiegarti con tanto di disegni sei modi diversi per abbordare furtivamente una nave. Ho già imparato a memoria le planimetrie del Lady Flamborough, ma fino a che non sapremo se dovremo agire con i paracadute, le mute da sommozzatori oppure a piedi dalla spiaggia o dal ghiaccio, posso solo tracciare un piano molto vago.» Hollis annuì con aria solenne. «Su quella nave ci sono più di cento per-
sone innocenti, compresi due presidenti e il segretario generale dell'ONU. Dio ci aiuti se uno di loro viene a trovarsi sulla linea di fuoco.» «Non possiamo certo entrare in azione con le armi caricate a salve», commentò ironicamente Dillinger. «No, e non possiamo neppure lanciarci sparando dagli elicotteri che fanno un chiasso tremendo. Dobbiamo infiltrarci prima che i sequestratori si accorgano della nostra presenza; Il fattore sorpresa sarà decisivo.» «Allora attaccheremo di notte con i paracadute.» «Può essere un'idea», ammise Hollis. Dillinger si dimenò sulla sedia di tela. «Un atterraggio notturno è già abbastanza pericoloso, ma lanciarsi alla cieca su una nave a luci spente sarebbe un suicidio. Lo sai bene, Mort, e lo so anch'io. Su quaranta uomini, quindici non arriveranno sul bersaglio e cadranno in mare. Venti subiranno lesioni nell'impatto contro le superfici dure e sporgenti della nave. Potrò considerarmi fortunato se potrò contare su cinque uomini perfettamente in grado di combattere.» «Non possiamo escluderlo.» «Aspettiamo che arrivino altre informazioni», suggerì Dillinger. «Tutto dipende da dove si trova la nave... se è ormeggiata o in navigazione. Non appena avremo notizie definitive sulla sua posizione, preparerò un piano d'assalto e te lo presenterò perché lo approvi.» «Mi sembra giusto», disse Hollis. «E gli uomini?» «Stanno studiando. Prima che atterriamo a Punta Arenas, avranno imparato a memoria la planimetria del Lady Flamborough così bene da poter correre avanti e indietro sui ponti a occhi bendati.» «Questa volta dipende tutto da loro.» «Faranno il loro dovere. L'importante è riuscire a farli arrivare a bordo tutti d'un pezzo.» «C'è una cosa», disse Hollis con una voce carica di apprensione. «L'ultima stima fornita dalle fonti dei servizi segreti circa l'entità del gruppo dei sequestratori... l'ha appena trasmessa il Pentagono.» «Quanti sono? Cinque? Dieci? Oppure dodici?» Hollis esitò. «Se presumiamo che siano armati anche gli uomini del mercantile messicano passati a bordo della nave da crociera... è possibile che siano una quarantina.» Dillinger lo fissò, allibito. «Oh, mio Dio. Ci troveremo di fronte a un numero così grande di terroristi?» «A quanto pare.» Hollis annuì, cupo.
Dillinger scosse la testa e si passò una mano sulla fronte. Poi fissò Hollis. «Qualcuno», disse in tono disgustato, «ci lascerà le penne, prima che questa storia sia finita.» In un bunker nelle viscere di una collina nei pressi di Washington, il tenente Samuel T. Jones si precipitò in un grande ufficio. Ansimava come se avesse appena corso per duecento metri... più o meno la distanza esatta che separava la sala comunicazioni dall'ufficio per l'analisi delle fotografie. Era rosso in viso per l'emozione e reggeva con entrambe le mani una foto enorme. Jones aveva dovuto correre spesso durante le esercitazioni in previsione di qualche crisi, ma lui e gli altri trecento fra uomini e donne che lavoravano al Comando delle Forze Speciali non si erano mai impegnati con tutto il cuore prima di quel momento. Un'esercitazione non può mettere in moto la produzione dell'adrenalina come lo può la realtà. Dopo aver atteso come marmotte ibernate, erano tornati alla vita quando il Pentagono aveva dato l'allarme in seguito al sequestro della nave da crociera Lady Flamborough. Il maggior generale Frank Dodge era il comandante delle Forze Speciali. Assieme a diversi collaboratori attendeva nervosamente l'arrivo delle più recenti immagini dei satelliti che mostravano le acque a nord della Terra del Fuoco, quando Jones fece irruzione. «Eccola!» Dodge lanciò al giovane ufficiale un'occhiata di disapprovazione per quell'entusiasmo indegno di un militare. «Doveva essere qui otto minuti fa», borbottò. «È colpa mia, generale. Mi sono preso la libertà di ritoccare i perimetri esterni e di ingrandire l'area immediata della ricerca prima di passarla al computer.» L'espressione severa di Dodge si placò in un cenno di assenso. «Buona idea, tenente.» Jones sospirò e attaccò la nuova immagine del satellite a un lungo tabellone sotto una fila di piccoli riflettori. C'era già una foto precedente che mostrava l'ultima posizione conosciuta del Lady Flamborough cerchiata in rosso, la rotta precedente tracciata in verde e quella prevista in arancio. Jones si scostò mentre il generale Dodge e i suoi ufficiali si affollavano intorno alla foto e cercavano con lo sguardo il puntolino che indicava la nave da crociera.
«L'ultimo avvistamento del satellite dava la nave un centinaio di chilometri a sud di Capo Horn», disse un maggiore, e segnò la rotta della carta precedente. «A quest'ora dovrebbe essere nello stretto di Drake, ormai diretta alle isole al largo della penisola Antartica.» Dopo quasi un minuto di concentrazione, il generale Dodge si rivolse a Jones. «Ha studiato la foto, tenente?» «No, signore. Non ne ho avuto il tempo. Mi sono affrettato a portarla qui.» «È certo che sia l'ultima trasmissione?» Jones sembrava perplesso. «Sì, signore.» «Non ci sono errori?» «No», rispose Jones senza esitare. «Il Seasat della NUMA ha sondato l'area con impulsi elettronici digitali che sono stati trasmessi istantaneamente alle stazioni a terra. L'immagine che vede risale a sei minuti fa.» «Quando arriverà la prossima foto?» «Il Landsat dovrebbe passare sulla regione tra quaranta minuti.» «E il Casper?» Jones diede un'occhiata all'orologio. «Se tornerà all'ora prevista», osservò, «dovremmo vedere il filmato fra quattro ore.» «Me lo porti non appena arriverà.» «Sì, signore.» Dodge si rivolse ai suoi subordinati. «Bene, signori», disse loro, con un sospiro, «questo non piacerà affatto alla Casa Bianca.» Poi andò a un telefono. «Mi passi Alan Mercier.» Dopo venti secondi arrivò la voce del consigliere per la Sicurezza Nazionale. «Spero che abbia qualche buona notizia, Frank.» «No, purtroppo», rispose seccamente Dodge. «Sembra che la nave da crociera...» «È affondata?» l'interruppe Mercier. «Non possiamo dirlo con certezza.» «Che cosa significa?» Dodge trasse un respiro profondo. «Informa il presidente che il Lady Flamborough è scomparso di nuovo.» 47. All'inizio degli anni '90 gli apparecchi per trasmettere fotografie, scritti e
disegni in tutto il mondo a mezzo di micro-onde via satellite oppure, su distanze più ridotte, per mezzo di fibre ottiche erano diventati comuni quanto le fotocopiatrici negli uffici commerciali e governativi. Trasmessa da un laser a una ricevente, l'immagine veniva riprodotta quasi istantaneamente a colori con una straordinaria precisione di particolari. Quindi, dieci minuti dopo la telefonata del generale Dodge, il presidente e Dale Nichols erano chini sulla scrivania della Sala Ovale ed esaminavano l'immagine trasmessa dal Seasat che mostrava le acque al largo della punta estrema dell'America meridionale. «Questa volta può essere finito davvero in fondo al mare», disse Nichols, che era stanco e confuso. «Non lo credo», disse il presidente. Il suo viso era una maschera di furore represso. «I sequestratori avevano la possibilità di distruggere la nave al largo di Punta del Este e di fuggire a bordo del General Bravo. Perché affondarla proprio ora?» «Potrebbero essere fuggiti con un sottomarino.» Sembrava che il presidente non avesse sentito. «La nostra incapacità di affrontare questa crisi è spaventosa. Tutte le nostre reazioni si arenano nell'inerzia.» «Siamo stati colti impreparati», mormorò Nichols. «Succede un po' troppo spesso», replicò il presidente. Alzò la testa con un lampo negli occhi. «Mi rifiuto di considerare perduta tutta quella gente. Lo devo a George Pitt. Senza il suo appoggio, non sarei qui, nella Sala Ovale.» Fece una pausa per dare maggior risalto a ciò che stava per aggiungere. «Non correremo dietro per la seconda volta a una finta esca.» Anche Sid Green stava esaminando le immagini del satellite. Era uno specialista della sezione fotografica alle dipendenze dell'Agenzia per la Sicurezza Nazionale; e nella sede centrale di Fort Meyer aveva proiettato su uno schermo le ultime due foto pervenute. Affascinato, ignorò la più recente, quella che non mostrava la nave, e si concentrò sull'altra. Zumò con una lente computerizzata sul minuscolo blip che rappresentava il Lady Flamborough. Il contorno era confuso, troppo indistinto per rivelare qualcosa di più del profilo della nave. Sid Green si girò verso il computer alla sua sinistra e batté una serie di istruzioni. Alcuni particolari divennero più nitidi: riuscì a scorgere il fumaiolo, la forma della sovrastruttura e le sezioni nebulose dei ponti superiori.
Continuò a lavorare sulla tastiera cercando di rendere più chiara l'immagine. Insistette per circa un'ora, e alla fine si appoggiò alla spalliera, incrociò le braccia dietro la testa e si riposò gli occhi. La porta della stanza semibuia si aprì: entrò Vic Patton, il supervisore di Green, che si fermò per un momento alle sue spalle e guardò le proiezioni. «E come cercare di leggere un giornale che si trova sulla strada, stando sul tetto del World Trade Center», commentò. Green rispose senza voltarsi. «Un'immagine che riprende un'area di settanta chilometri per centotrenta non offre una grande risoluzione, anche con gli ingrandimenti.» «C'è qualche traccia della nave nell'ultima immagine?» «Neppure l'ombra.» «È un peccato che non possiamo far scendere abbastanza i nostri satelliti-spia KH.» «Un KH-15 potrebbe fornirci un'immagine utile.» «La situazione in Medio Oriente si sta surriscaldando. Non potrò farne deviare uno dall'orbita prima che sia tornata la calma.» «Allora manda un Casper.» «Ce n'è già uno in volo», disse Patton. «Prima di pranzo dovresti essere in grado di leggere il colore degli occhi dei sequestratori.» Green indicò la lente del computer. «Dai un'occhiata e dimmi se c'è qualcosa che ti sembra fuori posto.» Patton si chinò sull'oculare e scrutò il puntolino che era il Lady Flamborough. «È troppo sfuocato per scorgere qualcosa di preciso. Che cosa mi è sfuggito?» «Controlla la sezione di prua.» «Come riesci a distinguere la poppa dalla prua?» «A poppa si vede la scia», rispose Green senza perdere la pazienza. «Bene, ho capito. Il ponte dietro la prua è oscurato, come se fosse coperto.» «Hai vinto il primo premio», disse Green. «Che cosa hanno intenzione di fare?» mormorò Patton. «Lo sapremo quando arriverà il filmato del Casper.» A bordo del C-140 che in quel momento sorvolava la Bolivia regnava un'atmosfera di disappunto. La foto senza la nave da crociera era arrivata attraverso la ricevente laser dell'aereo e aveva causato nel piccolo posto di comando la stessa agitazione che aveva suscitato in alto loco a Washin-
gton. «Dove diavolo è finito?» chiese Hollis. Dillinger mormorò: «Non può essere scomparso». «E invece sì. Guarda.» «Ho guardato. Non riesco a individuarlo neppure io.» «Per la terza volta consecutiva ci troviamo bloccati da informazioni insufficienti, condizioni meteorologiche impossibili o avarie delle attrezzature. Adesso il nostro bersaglio si è messo a giocare a rimpiattino.» «Deve essere affondato», borbottò Dillinger. «Non so immaginare altre spiegazioni.» «E io non so immaginare quaranta sequestratori tutti uniti da un patto suicida.» «E allora?» «Oltre a richiedere istruzioni al comando, non so cos'altro posso fare.» «Dobbiamo rinunciare alla missione?» chiese Dillinger. «No, a meno che riceviamo l'ordine di tornare indietro.» «Quindi andiamo avanti.» Hollis annuì, depresso. «Continueremo il volo verso sud fino a nuovo ordine.» L'ultimo a saperlo fu Pitt. Stava dormendo come un sasso quando Rudi Gunn entrò nella sua cabina e lo svegliò. «Risuscita in fretta», disse Gunn. «Abbiamo un grosso problema.» Pitt spalancò gli occhi e guardò l'orologio. «Abbiamo preso la multa per eccesso di velocità entrando nel porto di Punta Arenas?» Gunn lo guardò, angosciato. Un individuo che si svegliava dal sonno di buon umore e cominciava a dire pessime battute di spirito doveva appartenere a un ramo sbagliato dell'evoluzione. «La nave non entrerà nel porto prima di un'ora.» «Bene, così potrò dormire ancora un po'.» «Sii serio!» esclamò Gunn. «È appena arrivata l'ultima foto trasmessa dal satellite. Il Lady Flamborough è sparito per la seconda volta.» «È scomparso davvero?» «Gli ingrandimenti non sono serviti a trovarlo. Ho appena parlato con l'ammiraglio Sandecker. La Casa Bianca e il Pentagono stanno sparando ordini come se fossero impazziti. È partita una squadra delle Forze Speciali; è pronta per entrare in azione, ma senza un bersaglio. Stanno mandando sul posto anche un aereo-spia perché fornisca qualche foto decente.»
«Chiedi all'ammiraglio se può combinarmi un incontro con il comandante del contingente delle Forze Speciali non appena atterrerà.» «Perché non glielo chiedi tu?» «Perché io torno a dormire», rispose Pitt con un vistoso sbadiglio. Gunn era sbigottito. «Su quella nave c'è tuo padre. Non t'importa niente?» «No, m'importa», disse Pitt con un lampo negli occhi. «Ma non vedo che cosa potrei fare per il momento.» Gunn fece un passo indietro. «C'è qualcos'altro che devo riferire all'ammiraglio?» Pitt si tirò la coperta sotto le ascelle e si girò verso la paratia. «Sì, puoi dirgli che so dov'è scomparso il Lady Flamborough. E posso immaginare dove si nasconde.» Se fosse stato un altro a pronunciare quelle parole, Gunn avrebbe pensato che fossero tutte sciocchezze. Ma trattandosi di Pitt non poteva certo essere così. «Ti dispiace darmi un'indicazione?» Pitt si girò a mezzo. «Tu sei collezionista d'opere d'arte, no, Rudi?» «La mia piccola collezione di astrattisti non può reggere la concorrenza con il Museo d'Arte Moderna di New York, ma è rispettabile.» Gunn fissò Pitt senza capire. «Ma questo che c'entra?» «Se quel che penso è esatto, può darsi che ci troviamo di fronte a un'opera d'arte.» «Sei sicuro che siamo sulla stessa lunghezza d'onda?» «Christo», disse Pitt. Si girò di nuovo verso la paratia. «Stiamo per imbatterci in una scultura alla Christo.» 48. La neve leggera s'era trasformata in un nevischio battente sopra la città più meridionale del mondo. Punta Arenas era diventata un porto importante prima della costruzione del Canale di Panama, e più tardi era morta. A poco a poco era risorta come centro dell'allevamento delle pecore, e adesso era in pieno boom in seguito alla scoperta di ricchi giacimenti petroliferi nelle vicinanze. Hollis e Dillinger erano su un molo e attendevano di salire a bordo del Sounder. La temperatura era scesa diversi gradi sotto lo zero, e il freddo umido e crudo azzannava i volti scoperti. I due si sentivano come cammel-
li nell'Artico. Grazie alla cooperazione delle autorità cilene erano passati alla clandestinità: avevano abbandonato le uniformi da combattimento per indossare quelle di funzionari dell'immigrazione. L'aereo era atterrato in un vicino aeroporto militare mentre era ancora buio. La nevicata era una fortuna, perché aveva ridotto la visibilità a poche centinaia di metri e aveva permesso che il loro arrivo passasse inosservato. Il comando militare cileno aveva offerto un'ospitalità generosa e aveva messo a disposizione un buon numero di hangar in modo che i C-140 e gli Osprey di Hollis potessero parcheggiare senza dare nell'occhio. I due uscirono dal riparo di un magazzino quando le gomene del Sounder vennero legate alle bitte e fu calata la passerella. Il vento gelido che li investiva li fece rabbrividire. Un uomo alto dal volto ossuto e dal sorriso amichevole apparve all'estremità scoperta della plancia. Indossava un giubbotto da sciatore. Si fece portavoce con le mani. «Señor Lopez?» gridò. «¡Sì!» rispose Hollis. «Chi è il suo amico?» «Mi amigo es señor Jones», rispose Hollis indicando Dillinger. «Ho sentito parlare molto meglio lo spagnolo nei ristoranti cinesi», borbottò Dillinger. «Prego, venite a bordo. Quando siete sul ponte principale, salite la scaletta sulla destra e arriverete in sala comando.» «Gracias.» I due comandanti del contingente delle Forze Speciali salirono la passerella e poi la scaletta. Hollis era divorato dalla curiosità. Un'ora prima dell'arrivo a Punta Arenas aveva ricevuto una comunicazione urgente in codice dal generale Dodge che gli ordinava di andare ad attendere in segreto il Sounder. Non c'erano spiegazioni né altre istruzioni. Sapeva soltanto, dalle informazioni ricevute in Virginia, che la nave oceanografica e il suo equipaggio avevano scoperto lo scambio tra la portacontainer messicana e il Lady Flamborough. Niente altro. Smaniava di sapere perché il Sounder era comparso all'improvviso a Punta Arenas quasi contemporaneamente all'arrivo del suo gruppo. A Hollis non piaceva essere tenuto all'oscuro, ed era notevolmente irritato. L'uomo che l'aveva chiamato era ancora all'estremità della plancia. Hollis incontrò due ipnotici occhi verdi, di un verde opalescente, che apparte-
nevano a un uomo snello con le spalle ampie e i capelli neri incipriati da cristalli di ghiaccio. L'uomo fissò i due ufficiali per cinque secondi, come se gli bastassero per valutarli. Poi estrasse la mano destra dalla tasca del giubbotto e la tese. «Colonnello Hollis, maggiore Dillinger, io sono Dirk Pitt.» «A quanto sembra, lei sa sul nostro conto molto più di quanto noi sappiamo di lei, signor Pitt.» «È una situazione cui rimedieremo in fretta», rispose allegramente Pitt. «Prego, seguitemi nella cabina del comandante. Il caffè è pronto e potremo parlare al calduccio e in privato.» I due seguirono Pitt fino all'alloggio di Stewart, dove furono presentati a Gunn, a Giordino e al comandante. Dopo aver stretto la mano a tutti, accettarono con piacere il caffè. «Prego, accomodatevi», disse Stewart. Dillinger sedette, ma Hollis scosse la testa. «Grazie, preferisco stare in piedi.» Lanciò un'occhiata interrogativa ai quattro della NUMA. «Se mi è permesso parlare francamente, vi dispiace dirmi che diavolo succede?» «Ovviamente è una cosa che riguarda il Lady Flamborough», rispose Pitt. «Che cosa c'è da discutere? I terroristi l'hanno distrutta.» «È ancora a galla», gli assicurò Pitt. «Non ho ricevuto notizie che lo confermino», disse Hollis. «L'ultima foto trasmessa dal satellite non ne mostra traccia.» «Può credermi sulla parola.» «Mi mostri le prove.» «Non scherza, eh?» «Io e i miei uomini siamo venuti qui per salvare molte vite umane», rispose bruscamente Hollis. «E nessuno, neppure i miei superiori, mi ha dimostrato che a bordo di quella nave ci sia ancora gente che possa essere salvata.» «Deve rendersi conto, colonnello», disse Pitt con voce sferzante, «che non abbiamo a che fare con i soliti terroristi dal grilletto facile. Il loro capo è molto abile e astuto. Finora è riuscito a battere le menti migliori dei servizi di sicurezza. E continua a farlo.» «Eppure qualcuno ha scoperto la mimetizzazione», fece Hollis con un complimento involontario. «Abbiamo avuto fortuna. Se il Sounder non si fosse trovato a esplorare
quella parte dell'oceano, avremmo potuto impiegarci un mese per scoprire il General Bravo. Così, abbiamo ridotto il vantaggio dei sequestratori a un giorno o due.» Il pessimismo di Hollis incominciò ad attenuarsi. Il suo interlocutore non cedeva. Si chiese se, dopotutto, sarebbe stato possibile realizzare l'operazione di salvataggio. «Dov'è la nave?» chiese. «Non lo sappiamo», disse Gunn. «Non conoscete neppure la posizione approssimativa?» «Possiamo solo formulare un'ipotesi attendibile», disse Giordino. «Su quale base?» Gunn guardò Pitt, che sorrise e accettò di rispondere. «Intuizione.» Le speranze di Hollis incominciarono a sgretolarsi. «Si serve dei tarocchi o di una sfera di cristallo?» chiese in tono sarcastico. «Per la verità preferisco le foglie di tè», replicò Pitt. Vi fu un lungo, gelido silenzio. Hollis immaginava che l'aggressività non avrebbe dato risultati. Finì di bere il caffè e rigirò la tazza. «Sta bene, signori. Mi dispiace di aver usato toni troppo forti. Non sono abituato a trattare con i civili.» Sul viso di Pitt apparve un'espressione divertita ma priva di malizia. «Se questo può farla sentire più a suo agio, io ho il grado di maggiore dell'Aeronautica.» Hollis aggrottò la fronte. «Posso chiederle che cosa ci fa a bordo di una nave della NUMA?» «Diciamo che è un incarico permanente... una lunga storia che ora non abbiamo tempo di approfondire.» Dillinger fu il primo a capire. Hollis avrebbe dovuto immaginarlo fin dal momento delle presentazioni, ma aveva la mente troppo piena di interrogativi. «Per caso è parente del senatore George Pitt?» chiese Dillinger. «Sono suo figlio.» I due ufficiali incominciarono a scorgere un filo di luce. Hollis prese una sedia e sedette. «Bene, signor Pitt, la prego di dirmi quello che sa.» Dillinger intervenne. «L'ultimo rapporto mostrava il Lady Flamborough diretto verso l'Antartide. Lei afferma che è tuttora a galla. Le prossime fotografie dovrebbero rivelarlo facilmente in mezzo ai ghiacci.» «Se sta contando sul Casper SR-90», disse Pitt, «può risparmiarsi il disturbo.»
Dillinger lanciò un'occhiata a Hollis. Si sentiva in svantaggio. Quel gruppo di tecnici dell'oceano disponeva delle stesse informazioni cui potevano fare riferimento loro stessi. «Da una distanza di centomila chilometri un SR-90 può rivelare immagini tridimensionali così nitide che permettono di contare le cuciture di un pallone da football», osservò Hollis. «Senza il minimo dubbio. Ma immagini che il pallone sia stato mimetizzato in modo da sembrare un sasso.» «Non capisco...» «Capirà quando glielo avremo fatto vedere», asserì Pitt. «L'equipaggio ha preparato una dimostrazione sul ponte.» Il ponte di poppa era stato coperto da un enorme foglio opaco di plastica bianca, fissato in modo da rimanere teso senza agitarsi nel vento incessante. Il comandante Stewart gli stava accanto in compagnia di due membri dell'equipaggio che dovevano azionare una pompa antincendio. «Durante l'esplorazione intorno al General Bravo abbiamo recuperato un grosso rotolo di questa plastica», spiegò Pitt. «Ritengo che fosse caduta accidentalmente dal Lady Flamborough quando le due navi si erano incontrate. Si trovava sul fondo marino fra i bidoni vuoti della vernice che i sequestratori hanno usato per camuffare la nave da crociera e farla somigliare alla portacontainer messicana. D'accordo, non è una prova conclusiva. Dovrete credermi sulla parola. L'ultima foto trasmessa dal satellite non mostra niente perché tutti cercavano una nave. Il Lady Flamborough non ne ha più l'aspetto. Il capo dei terroristi dev'essere un intenditore d'arte. Ha preso l'ispirazione dal discusso scultore Christo, che è famoso per le sue creazioni in plastica all'aperto: avvolge palazzi, coste, isole, monumenti con fogli di plastica. Una volta ha teso un tendaggio mostruoso nel Rifle Gap del Colorado, e ha eretto uno steccato lungo chilometri a Marin County, in California. Il capo dei dirottatoti ha fatto di meglio e ha incartato una nave da crociera. Non è una nave troppo grande. Il contorno dello scafo poteva essere modificato con aggiunte e impalcature. Con i fogli di plastica già tagliati e numerati, i cento ostaggi e i terroristi avrebbero potuto completare il lavoro in dieci ore. È ciò che stavano facendo quando il Landsat è passato sopra di loro. L'ingrandimento non era abbastanza chiaro per rivelare i particolari dell'attività. Quando è passato il Seasat, mezza giornata più tardi, non c'era più niente da identificare, nulla che facesse pensare a una nave... a qualunque nave. Sto correndo troppo?»
«No...» mormorò Hollis. «Ma tutto questo non ha senso.» «Forse non ama l'arte contemporanea», commentò ironicamente Giordino. «Vogliamo mostrargli come si fa?» Pitt rivolse un cenno al comandante. «Bene, ragazzi», disse Stewart ai due marinai. «Ora spruzzate tutto, leggermente.» Uno dei due aprì la valvola mentre l'altro puntava il tubo e uno spruzzo cadeva sul telo di plastica. All'inizio il vento portò via quasi tutto il pulviscolo e lo disperse in mare. L'uomo regolò il getto e poco dopo la plastica si coprì di un velo d'acqua. Non era passato un minuto prima che l'atmosfera gelida trasformasse l'acqua in ghiaccio. Hollis assistette alla trasformazione con aria pensierosa. Poi si avvicinò a Pitt e gli tese la mano. «Devo riconoscerlo, signore. Ha avuto un'idea geniale.» Dillinger stava a bocca aperta come un cliente gonzo imbrogliato in un luna park. «Un iceberg», mormorò rabbiosamente. «Quei figli di puttana hanno trasformato la nave in un iceberg.» 49. Hala si svegliò infreddolita e indolenzita. Era metà mattina, ma era ancora buio. La facciata da portacontainer e la plastica incrostata di ghiaccio che avvolgeva la nave da crociera filtravano gran parte della luce. Quel poco che penetrava nelle suite dei VIP bastava appena per rivelare le figure dei presidenti Hasan e De Lorenzo stesi sul letto. Sotto un'unica coperta troppo leggera stavano stretti uno all'altro per scaldarsi, e il loro alito formava piccole nubi sopra le teste prima di condensarsi e di ghiacciare sulle pareti. Il freddo sarebbe stato ancora tollerabile, ma l'alto tasso di umidità rendeva insopportabile la temperatura, e la situazione era aggravata dal fatto che non avevano mangiato nulla da quando avevano lasciato Punta del Este. I sequestratori non avevano fornito cibo ai passeggeri e all'equipaggio. L'insensibilità disumana di Ammar faceva sentire il suo peso via via che il freddo minava le forze e la paura dell'ignoto intorpidiva le menti. Durante la prima parte del viaggio, i prigionieri avevano avuto a disposizione soltanto l'acqua dei rubinetti delle docce e dei lavabi. Poi le tubazioni s'erano ghiacciate e il tormento della sete si aggiungeva ai morsi del-
la fame. Il Lady Flamborough era stato approvvigionato per navigare nei mari tropicali, e aveva a bordo poche coperte. Tutti coloro che s'erano imbarcati a Portorico o a Punta del Este avevano portato indumenti adatti al clima dei tropici e avevano lasciato a casa il guardaroba invernale. I prigionieri si erano coperti alla meglio, indossando diversi strati di camicie, pantaloni e calzini leggeri. Si avvolgevano gli asciugamani intorno alla testa per non disperdere il calore corporeo. E rimpiangevano soprattutto di non avere i guanti. Non c'era riscaldamento. Ammar aveva rifiutato di metterlo in funzione. Era un lusso che non poteva permettersi. Il calore all'interno avrebbe sciolto la pellicola di ghiaccio sui teli di plastica e avrebbe reso inutile l'inganno. Hala non era l'unica sveglia fra i prigionieri. Per molti era impossibile addormentarsi profondamente. Stavano distesi come se fossero immersi in una trance ipnotica: erano coscienti del luogo in cui si trovavano ma non erano in grado di compiere sforzi fisici. Ogni proposito di resistenza era sfumato rapidamente. Anziché lottare contro i dirottatori, il comandante Collins e i suoi erano ridotti a sforzarsi per restare in vita nonostante il freddo che li intorpidiva. Hala si sollevò sui gomiti quando il senatore Pitt entrò nella cabina. Era un'apparizione strana: indossava un doppiopetto grigio sopra un gessato blu. Rivolse a Hala un sorriso d'incoraggiamento, ma il suo fu uno sforzo patetico. Lo sfinimento degli ultimi cinque giorni aveva cancellato il suo aspetto giovanile: adesso sembrava più vicino alla sua vera età. «Come va?» chiese. «Darei il braccio destro per una tazza di tè bollente», rispose Hala. «Io darei anche di più.» Il presidente De Lorenzo si sollevò a sedere e posò i piedi sul pavimento. «Qualcuno ha parlato di tè bollente?» «È solo una fantasia, signor presidente», rispose il senatore. «Non avevo mai immaginato che sarei morto di fame e di freddo a bordo di una nave di lusso.» «Neppure io», confessò Hala. Il presidente Hasan si lasciò sfuggire un gemito, cambiò posizione e sollevò la testa. «Le fa male la schiena?» chiese premuroso il presidente De Lorenzo. «Ho troppo freddo per sentire i dolori», rispose Hasan con un sorriso
forzato. «Posso aiutarla ad alzarsi?» «No, grazie. Resterò a letto e cercherò di conservare le poche energie che mi restano.» Hasan guardò De Lorenzo e sorrise a denti stretti. «Vorrei che ci fossimo incontrati e fossimo diventati amici in circostanze più piacevoli.» «Gli americani dicono: 'La politica crea strane vicinanze'. Sembra che sia proprio il nostro caso.» «Quando questa storia sarà finita, dovrà essere mio ospite in Egitto.» De Lorenzo annuì. «A una condizione: lei dovrà venire a visitare il Messico.» «È un onore che accetto con piacere.» I due presidenti si strinsero la mano solennemente... Non erano più due capi di Stato circondati d'attenzioni, ma due uomini accomunati da un destino che non potevano controllare e decisi a finire con dignità. «Le macchine si sono fermate», osservò all'improvviso Hala. Il senatore Pitt annuì. «Sì, e hanno appena calato le ancore. Siamo ormeggiati, e hanno spento le macchine.» «Dobbiamo essere vicini alla terraferma.» «È impossibile capirlo. Le finestre sono oscurate.» «Purtroppo siamo come ciechi», constatò Hasan. «Se uno di voi sta di guardia alla porta, cercherò di forzare la finestra», disse Pitt. «Quando avrò rotto il vetro senza allarmare la sentinella, aprirò un foro nella tavola di truciolato. Con un po' di fortuna potremmo riuscire a vedere dove siamo.» «Starò in ascolto alla porta», propose Hala. «Il freddo è già abbastanza tremendo anche senza farne entrare di più», disse De Lorenzo in tono depresso. «All'esterno c'è la stessa temperatura di qui», ribatté il senatore. Non aveva intenzione di perder tempo in discussioni. Andò subito alla grande finestra panoramica del salotto, che era alta due metri e larga uno. All'esterno non c'era il ponte della passeggiata: le entrate delle cabine e delle suite erano rivolte verso l'interno della nave; le finestre si aprivano direttamente nello scafo. Le uniche zone scoperte pattugliate dai dirottatori erano il ponte della piscina e della lounge, più in alto, e i ponti d'osservazione a prua e a poppa. Il senatore batté le nocche sul vetro. Il suono che ottenne fu un tonfo sordo. Il vetro era piuttosto spesso: doveva esserlo, per resistere alla vio-
lenza delle onde enormi e dei venti d'uragano. «Qualcuno ha un anello con un diamante?» chiese. Hala tolse le mani dalle tasche dell'impermeabile, le alzò e mosse le dita, mostrando due anellini di opali e turchesi. «I corteggiatori musulmani non hanno l'abitudine di viziare le loro donne con doni generosi.» «Mi servirebbe un diamante di un carato.» Il presidente Hasan si sfilò dal mignolo un grosso anello. «Questo è di tre carati.» Il senatore esaminò la pietra nella luce fioca. «Dovrebbe andare bene. Grazie.» Lavorò in fretta ma con cautela, senza far rumore. Aprì un varco sufficiente per infilare un dito. Ogni tanto s'interrompeva per alitarsi sulle mani. Quando le dita cominciavano a intorpidirsi, le teneva sotto le ascelle fino a che riacquistavano agilità. Preferiva non pensare a ciò che avrebbero fatto i dirottatori se l'avessero scoperto. Gli sembrava di vedere il suo corpo crivellato di proiettili che galleggiava nella corrente. Tagliò una linea circolare intorno al foro centrale, insistendo fino a che il solco diventò più profondo. La cosa più difficile era evitare che un frammento di vetro cadesse lungo la fiancata d'acciaio e tintinnasse. Girò l'indice nel foro e tirò. Il disco di vetro cedette. Lo estrasse con cautela e lo posò sul tappeto. Niente male. Adesso l'apertura era abbastanza ampia per permettergli di sporgere la testa. La tavola di truciolato che simulava i finti container era a una distanza di mezzo braccio dalla finestra e copriva l'intera lunghezza della sovrastruttura centrale. Il senatore protese la testa oltre l'apertura, stando attento a non ferirsi le orecchie contro gli orli affilati come rasoi. Scrutò a destra e a sinistra, ma vide solo lo stretto varco tra i falsi container e la fiancata della nave. In alto scorse una striscia luminosa che era il cielo, ma che sembrava velata dalla nebbia. In basso avrebbe dovuto esserci un nastro sottile di acqua in movimento. Invece c'era un immenso telo di plastica fissato ai supporti lungo il bagnasciuga. Lo fissò sbalordito. Non riusciva a immaginarne la funzione. Il senatore si sentiva sicuro. Se non poteva vedere i dirottatori che montavano di guardia sui ponti, neppure loro potevano vederlo. Tornò nella camera da letto e frugò nella valigia. «Che cosa cerca?» chiese Hala. Il senatore Pitt mostrò un coltello dell'esercito svizzero. «Ne porto sem-
pre uno nel nécessaire da barba.» Sorrise. «Il cavatappi è molto utile per le festicciole improvvisate.» Si scaldò con cura le mani prima di riprendere il lavoro. Strinse l'impugnatura rossa, infilò il braccio attraverso l'apertura nel vetro e cominciò a usare la lama piccola come un succhiello e poi la lama grande per allargare la circonferenza. Era una procedura d'una lentezza tormentosa. Non osava spingere la lama più d'un millimetro oltre l'esterno della tavola: temeva che una sentinella si sporgesse dall'alto e notasse il minuscolo movimento metallico. Continuò a incidere meticolosamente, rimuovendo ogni strato di fibra prima di attaccare il successivo. La mano aveva perduto la sensibilità, ma non s'interruppe per scaldarla. Il pugno era irrigidito intorno all'impugnatura del coltello che sembrava diventato un'estensione del suo braccio. Alla fine il senatore riuscì a raschiar via una quantità di trucioli sufficiente per aprire un foro che gli permettesse di osservare un'area abbastanza ampia. Sporse la testa oltre il vetro e accostò la guancia alla fredda superficie della tavola. Qualcosa gli bloccava la vista. Inserì l'indice nel foro e toccò il telo di plastica. Era sconcertante scoprire che rivestiva i finti container e non soltanto la parte inferiore dello scafo. Imprecò sottovoce. Non avrebbe dovuto temere di sfondare il legno. Nessuno avrebbe visto comunque la lama del coltello sotto il rivestimento di plastica. Rinunciò alla prudenza e aprì una fenditura nel materiale opaco. Poi tornò a sbirciare. Non vide il mare aperto, e neppure la linea della costa. Vide una parete torreggiante di ghiaccio che si estendeva oltre la sua visuale limitata. La muraglia scintillante era così vicina che se avesse potuto protendere un ombrello l'avrebbe toccata. All'improvviso sentì un rombo sordo che gli ricordava quello di un terremoto. Indietreggiò di scatto, sconvolto dal significato della sua scoperta. Hala lo vide irrigidirsi. «Che cosa c'è?» gli chiese ansiosamente. «Che cos'ha visto?» Il senatore si voltò e mosse le labbra a fatica fino a che riuscì a formulare le parole. «Siamo ancorati sotto un ghiacciaio enorme», disse. «La muraglia di ghiaccio può staccarsi da un momento all'altro e schiacciare la nave come se fosse di carta.»
50. A un'altitudine di ventimila metri sopra la penisola Antartica, l'aereo con l'ala a delta sfrecciava nell'aria rarefatta alla velocità di tremiladuecento chilometri orari. Era stato progettato per volare a un'altitudine e a una velocità doppie, ma il pilota limitava l'alimentazione del motore al quaranta per cento per conservare il carburante e dare alle macchine da presa la possibilità di riprendere immagini più nitide. Diversamente dal suo antenato, il blackbird SR-71 le cui ali e la cui fusoliera di titanio naturale avevano un color indaco scuro, la tecnologia dell'invisibilità del più avanzato SR-90 aveva creato un guscio incredibilmente duro di plastica leggera colorato di bianco-grigio. Soprannominato «Casper» come il piccolo fantasma dei cartoni animati, era quasi invisibile per gli occhi umani e per il radar. Le cinque macchine da presa potevano catturare in un'ora metà della lunghezza degli Stati Uniti in un unico passaggio. L'attrezzatura fotografica provvedeva a filmare in bianco e nero, a colori, all'infrarosso, in tre dimensioni e con alcune tecniche segretissime e del tutto sconosciute ai fotografi commerciali. Il tenente colonnello James Slade aveva poco da fare. Era un volo di ricognizione lungo e noioso dalla sua base nel deserto di Mojave in California. L'unica volta in cui usava i comandi manuali durante il volo era in occasione dei rifornimenti. I motori del Casper bevevano parecchio. Era necessario rifornirlo due volte in volo per una tratta della missione. Slade esaminava gli strumenti con occhio critico. Il Casper era un aereo nuovo, e doveva ancora rivelare tutti i suoi difetti. Soddisfatto nel vedere che tutto era normale, sospirò e prese dalla tasca della tuta un videogame miniaturizzato. Premette i pulsanti sotto il piccolo schermo per sottrarre un minuscolo sommozzatore ai tentacoli di una piovra gigantesca e portarlo a raggiungere lo scrigno del tesoro. Dopo pochi minuti si stancò del gioco e guardò la gelida desolazione dell'Antartide. Laggiù, in basso, il dito curvo della penisola settentrionale e le isole vicine scintillavano sotto un cielo limpido come un diamante. Il ghiaccio, le rocce e il mare creavano un panorama magnifico che ispirava ammirazione all'occhio e soggezione all'anima. Da un'altitudine di venti chilometri poteva apparire una scena bellissima, ma Slade conosceva bene la verità. Una volta aveva trasportato le provviste a una stazione
scientifica al polo Sud e aveva imparato molto in fretta che la bellezza e l'ostilità, nel regno del freddo eterno, procedevano di pari passo. Ricordava le temperature tremende. Non aveva creduto che fosse possibile sputare e vedere la saliva che ghiacciava prima di toccare il suolo. E non aveva dimenticato i venti feroci che sferzavano il più gelido di tutti i continenti. Le raffiche a centosessanta chilometri orari erano inimmaginabili fino a che non se ne faceva l'esperienza per la prima volta. Slade non capiva perché certi uomini erano così attratti da quell'inferno. Ogni volta che rientrava alla base provava l'impulso ironico di chiamare un'agenzia di viaggi e di chiedere se era possibile prenotare in un buon albergo turistico vicino al polo. All'improvviso una voce femminile parlò attraverso uno dei tre altoparlanti dell'abitacolo. «Attenzione, prego. Sta per superare il limite estremo della rotta dove s'intersecano i settanta gradi di longitudine e i settanta di latitudine. Disinnesti il pilota automatico e inizi una virata di centottanta gradi a partire da questo momento. I dati per il ritorno sono programmati nel computer. Batta il codice appropriato. Buon viaggio fino a casa.» Slade seguì le istruzioni e compì la virata; non appena il computer ebbe inserito la rotta di ritorno, innestò di nuovo il pilota automatico e si assestò in una posizione più comoda. Come tanti altri che effettuavano missioni di ricognizione, fantasticava sul viso e sul corpo che accompagnavano la voce disincarnata. Secondo certe chiacchiere, la donna pesava centotrenta chili, aveva sessant'anni ed era dodici volte nonna. Nessun pilota sano di mente poteva prestar fede a una simile violazione del mito. Forse somigliava a Sigourney Weaver. Forse era Sigourney Weaver. Slade decise di accertarsene non appena fosse rientrato a casa. Risolto quel problema delicato, Slade ricontrollò il quadro degli strumenti e si rilassò mentre la terra imprigionata dai ghiacci svaniva dietro la coda dell'aereo. Quando fu di nuovo sopra il mare, riprese il giochetto elettronico. Non aveva motivo di continuare a guardare il mondo che scorreva sotto di lui, soprattutto perché la Terra del Fuoco era coperta da una fitta coltre di nubi nere. Aveva studiato la geografia quanto bastava per sapere che quella era una terra desolata di venti incessanti, pioggia e neve. Per Slade era quasi un sollievo non vedere il paesaggio monotono. Lasciava alla telecamera a infrarossi del Casper il compito di penetrare attra-
verso le nubi e di registrare l'estremità morta e desolata del continente. Il comandante Collins fissò la maschera di Ammar e s'impose di non distogliere lo sguardo. C'era qualcosa di malefico e d'inumano negli occhi del capo dei dirottatori. Collins percepiva in lui un agghiacciante disinteresse per la vita umana. «Esigo di sapere quando lascerà libera la mia nave», disse Collins in tono fermo. Ammar posò la tazza di tè sul piattino, si asciugò le labbra con un tovagliolo e guardò Collins con distacco. «Posso offrirle un tè?» «No, se non lo offre anche ai passeggeri e all'equipaggio», rispose Collins. Stava eretto nella bianca uniforme estiva e tremava per il freddo. «È la risposta che mi aspettavo.» Ammar capovolse la tazza vuota. «Sarà felice di sapere che io e i miei uomini prevediamo di andarcene domani sera. Se mi darà la sua parola che non ci saranno stupidi tentativi di riprendere la nave o di raggiungere la riva prima della nostra partenza, non accadrà niente di male a nessuno e lei potrà riavere il comando.» «Preferirei che facesse riscaldare la nave e desse da mangiare a tutti. Siamo disperatamente a corto di indumenti pesanti e di coperte per difenderci dal freddo. Nessuno mangia da giorni. I tubi sono gelati e l'acqua non arriva più. Ed è superfluo parlare dei problemi igienici.» «La sofferenza fa bene all'anima», disse filosoficamente Ammar. Collins lo fissò, sprezzante. «Fesserie.» Ammar scrollò le spalle. «Se lo dice lei.» «In nome di Dio, a bordo c'è gente malata o moribonda.» «Non credo che moriranno di freddo o di fame prima della mia partenza», disse bruscamente Ammar. «Dovranno sopportare qualche disagio per le prossime trenta ore, fino a quando riaccenderete i motori e riscalderete la nave.» «Potrebbe essere troppo tardi per tutti noi, se la parete del ghiacciaio si staccasse.» «A me sembra abbastanza solida.» «Non si rende conto del pericolo? Un'enorme lastra di ghiaccio potrebbe cadere da un momento all'altro. Il peso schiaccerebbe il Lady Flamborough come un palazzo di dieci piani che crolla su un'automobile. Deve spostare la nave.» «È un rischio che non posso evitare. L'incrostazione di ghiaccio sulla
plastica si scioglierebbe, rivelerebbe la nostra posizione e le telecamere a infrarossi dei satelliti potrebbero scoprire il caldo che irradiamo.» Il viso di Collins era segnato da una rabbia impotente. «Lei è sciocco o pazzo. A che cosa può servire tutto ciò? Che cosa ci guadagnerà? Ci tiene prigionieri per chiedere un riscatto o la liberazione di qualche suo compagno terrorista? Se non farà altro che andarsene lasciandoci qui, non so che scopo possa avere.» «Lei è troppo curioso, comandante, ma mi piace la sua dedizione a uno scopo. Conoscerà abbastanza presto le ragioni del sequestro della nave.» Ammar si alzò e fece un cenno alla guardia che stava dietro Collins. «Riconduci il comandante nella sua cabina.» Collins non si mosse. «Perché non fornisce tè caldo, caffè, brodo, qualcosa che possa alleviare le sofferenze dei prigionieri?» Ammar non si degnò di voltarsi mentre usciva dalla sala da pranzo. «Addio, comandante. Non ci vedremo più.» Ammar andò in sala comunicazioni. Ibn era in piedi e guardava una telescrivente che sfornava le ultime notizie d'agenzia. Lo specialista d'elettronica era seduto alla radio e ascoltava una trasmissione che un voice recorder copiava sulla carta. La radio e la telescrivente erano alimentate da un generatore portatile. Ibn si voltò quando sentì arrivare Ammar, gli fece un cenno di saluto e strappò dalla telescrivente un lungo foglio di carta. «I media internazionali continuano a dare per perso il Lady Flamborough», riferì. «Le navi per il recupero stanno arrivando solo adesso al largo dell'Uruguay per svolgere le ricerche subacquee. I miei complimenti, Suleiman: hai ingannato tutto il mondo. Saremo di ritorno al Cairo sani e salvi prima che l'Occidente scopra la verità.» «Notizie dall'Egitto?» chiese Ammar. «Per ora niente di entusiasmante. I ministri di Hasan continuano a controllare il governo. Si aggrappano tenacemente al potere. Sono stati tanto furbi da non far intervenire le forze della Sicurezza per disperdere le manifestazioni. L'unico spargimento di sangue è stato causato dai nostri fratelli fondamentalisti che per errore hanno fatto saltare un autobus pieno di pompieri algerini arrivati al Cairo per un congresso. Credevano che l'autobus facesse parte di un convoglio della polizia. I network del Cairo sostengono che il movimento di Akhmad Yazid è solo una facciata dei fanatici iraniani. Molti sostenitori esitano e finora le masse non hanno chiesto lo scioglimento del governo di Hasan.»
«È stato quell'idiota di Khaled Fawzy a far saltare l'autobus», ringhiò Ammar. «E i militari? Che posizione hanno assunto?» «Il ministro della Difesa Abu Hamid non s'impegnerà fino a che non vedrà i cadaveri del presidente Hasan e di Hala Kamil.» «Quindi Yazid non ha ancora compiuto una trionfale presa di potere.» Ibn annuì con aria grave. «C'è un'altra notizia. Yazid ha annunciato che l'equipaggio e i passeggeri della nave sono ancora vivi e che negozierà personalmente con i terroristi per ottenere che tutti vengano rilasciati. È arrivato al punto di offrire la sua vita in cambio del senatore George Pitt, per far colpo sugli americani.» Una rabbia paralizzante s'impadronì di Ammar, acuì i suoi sensi e schiuse i pensieri come tante buste entro la sua mente. Dopo qualche istante fissò Ibn. «Per Allah, quel traditore ci ha portati al macello», disse in tono incredulo. «Yazid ha venduto la missione.» Ibn annuì. «Yazid si è servito di te e ti ha tradito.» «Questo spiega perché ha continuato a rinviare l'ordine di uccidere Hasan, la Kamil e gli altri. Voleva che restassero illesi fino a che Machado e la sua feccia potessero togliere di mezzo me, te e i nostri.» «Che cosa ci guadagnano Yazid e Topiltzin tenendo in vita gli ostaggi?» chiese Ibn. «Yazid e Topiltzin reciteranno la parte dei salvatori di due presidenti, del segretario generale dell'ONU e di un importante uomo politico americano, e così conquisteranno l'ammirazione dei governi di tutto il mondo. Diventeranno automaticamente più forti mentre i loro avversari perderanno terreno. Allora potranno prendere il potere pacificamente, ampliare la loro base e accentuare le loro immagini benevole agli occhi di tutti.» Ibn chinò la testa, rassegnato. «Quindi ci hanno buttati in pasto agli avvoltoi.» Ammar annuì. «Yazid aveva deciso fin dall'inizio che dovevamo morire, per garantirsi il silenzio su questa missione e le altre che abbiamo compiuto per lui.» «E il comandante Machado e i suoi messicani? Che ne sarà di loro dopo che ci avranno eliminati?» «Topiltzin li farà sparire dopo il rientro in Messico.» «Ma prima dovranno lasciare la nave e l'isola.» «Sì», rispose pensosamente Ammar, aggirandosi nella sala comunicazioni a passi rabbiosi. «Sembra che io abbia sottovalutato l'astuzia di Ya-
zid. Pensavo che Machado non potesse far nulla perché ignorava i nostri accordi per raggiungere un aeroporto sicuro in Argentina. Ma grazie a Yazid il nostro compagno messicano ha preparato i suoi piani di fuga.» «Perché non ci ha ancora eliminati?» «Perché Yazid e Topiltzin non gli daranno l'ordine prima di essere pronti a iniziare i loro finti negoziati per la liberazione degli ostaggi.» Ammar si voltò di scatto e strinse la spalla dell'operatore radio, che si tolse subito la cuffia. «Hai ricevuto qualche messaggio insolito diretto alla nave?» L'esperto egiziano di comunicazioni lo guardò con aria incuriosita. «È strano che me lo chieda. I nostri amici latini continuano a entrare e uscire di qui e a fare la stessa domanda. Pensavo che fossero stupidi. Il 'ricevuto' di una trasmissione diretta verrebbe intercettato dai sistemi d'ascolto dei servizi segreti americano ed europeo. Individuerebbero la nostra posizione in pochi secondi.» «Quindi non hai intercettato niente di sospetto.» L'altro scosse la testa. «E in ogni caso, sarebbe sicuramente un messaggio in codice.» «Spegni tutto. Lascia credere ai messicani che sei ancora in ascolto. Se ti chiedono di un messaggio in arrivo, fai il finto tonto e ripeti che non hai sentito niente.» Ibn fissò Ammar con aria d'attesa. «Quali sono gli ordini per me, Suleiman?» «Sorveglia attentamente l'equipaggio di Machado. Confondili comportandoti amichevolmente. Apri il bar della lounge e invitali a bere. Assegna ai nostri uomini i turni di guardia peggiori, in modo che i latini possano rilassarsi. In questo modo abbasseranno la guardia.» «Dobbiamo ucciderli prima che siano loro a uccidere noi?» «No», rispose Ammar, con un lampo di soddisfazione sadica negli occhi. «È un compito che lasceremo al ghiacciaio.» 51. «Laggiù ci sarà almeno un milione di iceberg», disse Giordino. «Sarebbe più facile scoprire un cameriere lillipuziano in mezzo a una colonia di pinguini. Ci vorranno giorni e giorni.» Il colonnello Hollis era del solito umore. «Deve essercene uno che corrisponda ai contorni e alle dimensioni del Lady Flamborough. Continui a cercare.»
«Tenete presente», intervenne Gunn, «che gli iceberg antartici tendono a essere piatti. La sovrastruttura sotto il telo di plastica deve dare alla nave una sagoma con molti pinnacoli.» Dillinger stava guardando con una lente d'ingrandimento. «La definizione è straordinaria», mormorò. «E sarà anche migliore quando vedremo che cosa c'è al di là di quelle nubi.» Erano tutti intorno a un tavolo della sala comunicazioni del Sounder ed esaminavano un'enorme foto a colori trasmessa dal Casper. La pellicola era stata sviluppata e inviata attraverso la ricevente laser della nave meno di quaranta minuti dopo che l'aereo era atterrato. I particolari nettamente definiti mostravano un mare di iceberg che si erano staccati dal Larsen Ice Shelf sul lato orientale della penisola, mentre altre centinaia si distinguevano presso i ghiacciai della Terra di Graham a occidente. Pitt pensava ad altro. Sedeva in disparte e studiava una carta nautica che teneva aperta sulle ginocchia. Ogni tanto alzava la testa e ascoltava ma senza intervenire. Hollis si girò verso il comandante Stewart che stava accanto al ricevitore e portava una cuffia con microfono. «Quando possiamo aspettarci la foto a infrarossi del Casper?» Stewart alzò la mano per invitarlo a non interrompere. Si premette la cuffia sulle orecchie e ascoltò la voce che giungeva dalla sede centrale della CIA a Washington. Poi fece un cenno a Hollis. «Il laboratorio fotografico di Langley dice che cominceranno a trasmettere fra mezzo minuto.» Hollis camminava avanti e indietro come un gatto in attesa del rumore di un apriscatole. Poi si fermò e guardò incuriosito Pitt che stava misurando le distanze con un compasso. Nelle ultime ore il colonnello aveva scoperto molte cose sul conto dell'ufficiale della NUMA: non l'aveva saputo da Pitt ma dall'equipaggio della nave che parlava di lui come se fosse una specie di leggenda vivente. «Sta arrivando», annunciò Stewart. Si tolse la cuffia e attese con pazienza mentre la foto grande come un giornale usciva dalla ricevente. Non appena il foglio si staccò, lo prese e lo posò sul tavolo. Tutti cominciarono a esaminare con attenzione la costa intorno all'estremità superiore della penisola. «I tecnici del laboratorio fotografico hanno convertito la pellicola ipersensibile in un termogramma per mezzo del computer», spiegò Stewart. «Le differenze delle radiazioni infrarosse sono rivelate dai vari colori. Il
nero rappresenta le temperature più fredde. Blu, celeste, verde, giallo e rosso formano una scala crescente fino al bianco, il più caldo.» «Che colori ci aspettiamo dal Lady Flamborough?» chiese Dillinger. «Più o meno della gamma fra il giallo e il rosso.» «Io direi più vicino al blu», intervenne Pitt. Tutti si volsero a guardarlo come se avesse sternutito durante una partita a scacchi. «In questo caso non si distinguerà dal resto», protestò Hollis. «Non lo troveremo mai.» «La radiazione del calore dei motori e dei generatori mostrerà chiaramente la nave, come una palla da golf su un green», insistette Gunn. «No, se hanno spento le macchine.» «Non vorrà dire che a bordo è tutto spento?» chiese Dillinger in tono incredulo. Pitt annuì. Girò sugli altri uno sguardo distratto, più sconvolgente che se avesse gettato un secchio d'acqua sul loro entusiasmo. «Noi», disse con un sorriso, «abbiamo la tendenza a sottovalutare l'allenatore dell'altra squadra.» I cinque si guardarono, poi guardarono di nuovo Pitt in attesa di una spiegazione. Pitt posò le carte nautiche e si alzò. Si avvicinò al tavolo, prese la foto a infrarossi e la piegò in due in modo da lasciare scoperta solo l'estremità più meridionale del Cile. «Dunque», continuò, «non avete notato che ogni volta che la nave ha cambiato aspetto o rotta, è successo subito dopo il passaggio di uno dei nostri satelliti?» «Un altro esempio di pianificazione meticolosa», convenne Gunn. «Le orbite dei satelliti per la raccolta dei dati sono seguite da metà dei Paesi del mondo. Sono informazioni facilmente accessibili come le fasi della luna.» «Bene, allora il capo dei dirottatoli conosceva le orbite e sapeva quando le telecamere dei satelliti sarebbero state puntate nella sua direzione», disse Hollis. «E con questo?» «E con questo ha tenuto conto di tutte le possibilità e ha spento i motori per evitare di essere scoperto dalle fotografie a infrarossi. E soprattutto per impedire che il calore sciogliesse il sottile strato di ghiaccio sui teli di plastica.» Quattro ascoltatori su cinque accettarono come plausibile la teoria di Pitt. L'unico scettico era Gunn, il più sveglio di tutti. Si rese conto prima
degli altri della lacuna in quel ragionamento. «Dimentichi le temperature della penisola», disse. «Niente energia, niente riscaldamento. Tutti, a bordo, morirebbero congelati in poche ore. I dirottatori commetterebbero un suicidio collettivo proprio mentre uccidono i prigionieri.» «Rudi ha ragione», disse Giordino. «Non potrebbero sopravvivere senza un minimo di riscaldamento e senza indumenti protettivi.» Pitt sorrise come se avesse appena vinto alla lotteria. «Sono d'accordo con Rudi al cento per cento.» «Che razza di ragionamenti», disse Hollis in tono irritato. «Si spieghi meglio.» «Non è per niente complicato. Il Lady Flamborough non è entrato nell'Antartico.» «Non è entrato nell'Antartico», ripeté meccanicamente Hollis. «Cerchi di rendersi conto della realtà. L'ultima foto della nave trasmessa dal satellite la mostrava a metà strada fra Capo Horn e la punta della penisola. Viaggiava a tutta potenza verso sud.» «Non poteva andare in alcun altro posto», protestò Dillinger. Pitt batté l'indice sulle isole sparse intorno allo stretto di Magellano. «Volete scommettere?» Hollis si alzò e aggrottò la fronte, sconcertato. Poi comprese. La confusione svanì e un lampo gli passò negli occhi. «È tornata indietro», disse seccamente. «Rudi aveva capito tutto», disse Pitt. «I dirottatori non avevano intenzione di suicidarsi, e non volevano neppure farsi scoprire dalle foto a infrarossi. Non pensavano certo a inoltrarsi in mezzo al pack. Hanno tagliato verso nord-ovest e hanno aggirato le isole deserte sopra Capo Horn.» Gunn sembrava sollevato. «Intorno alla Terra del Fuoco le temperature sono meno tremende. Tutti, a bordo, soffriranno per la mancanza del riscaldamento, ma sopravvivranno.» «Per questo hanno usato il trucco dell'iceberg?» chiese Giordino. «Per dare l'impressione di essersi staccati da un ghiacciaio.» «E cioè?» «Gli iceberg si staccano da una parete di ghiaccio», precisò Gunn. Giordino fissò la foto a infrarossi. «Ci sono ghiacciai così a nord?» «Ce ne sono parecchi che scendono dalle montagne al mare entro un raggio di ottocento chilometri dal punto dove siamo attraccati noi, qui a Punta Arenas», rispose Pitt.
«Dove pensa che sia la nave?» chiese Hollis. Pitt prese una carta che mostrava le isole desolate a ovest della Terra del Fuoco. «Ci sono due possibilità alla portata del Lady Flamborough dopo che è stato avvistato l'ultima volta dal satellite.» Tracciò una x accanto a due nomi. «Direttamente a sud di qui, i ghiacciai scendono dal Monte Italia e dal Sarmiento.» Hollis disse: «Sono molto lontani dalle rotte battute». «Ma troppo vicini ai giacimenti di petrolio», disse Pitt. «Un aereo della compagnia petrolifera in volo a bassa quota per i rilevamenti potrebbe notare la finta incrostazione di ghiaccio. Io, se fossi al posto dei dirottatori, avrei proseguito per altri centosessanta chilometri a nord-ovest. Quindi dovrebbero essere vicino a un ghiacciaio dell'isola di Santa Ines.» Dillinger studiò sulla carta i contorni irregolari dell'isola. Diede un'occhiata alla foto a colori, ma l'estremità meridionale del Cile era nascosta dalle nubi. Scostò la carta e guardò con la lente d'ingrandimento la metà superiore dell'immagine a infrarossi che Pitt aveva piegato per ridurre la zona delle ricerche. Dopo qualche secondo alzò gli occhi, sorpreso e soddisfatto. «A meno che madre Natura faccia gli iceberg con la prua appuntita e la poppa arrotondata, credo che abbiamo trovato la nostra nave fantasma.» Hollis prese la lente ed esaminò la minuscola sagoma allungata. «Il contorno è giusto. E, come ha detto Pitt, non c'è traccia di radiazioni di calore. Sembra fredda quasi quanto il ghiaccio. Non è esattamente nera, ma di un blu molto scuro.» Gunn si sporse per vedere. «Sicuro. Il ghiaccio fluisce in un fiordo, che sbocca in una baia piena di piccole isole. Uno o due iceberg di media grandezza che si sono staccati dalla parete di ghiaccio. Niente altro. Le acque sono abbastanza libere.» S'interruppe con un'espressione curiosa negli occhi. «Mi domando perché hanno ormeggiato direttamente il Lady Flamborough sotto la parete del ghiacciaio.» Pitt socchiuse le palpebre. «Fatemi dare un'occhiata.» S'infilò fra Dillinger e Gunn, si chinò e guardò attraverso la lente. Dopo qualche istante si raddrizzò. Il suo volto era oscurato dalla collera. «Che cosa c'è?» chiese il comandante Stewart. «Vogliono far morire tutti.» Stewart guardò gli altri, sconcertato. «E com'è possibile?» «Quando un lastrone di ghiaccio si staccherà e piomberà sulla nave», intervenne Giordino in tono gelido, «la spingerà sott'acqua e la stritolerà sul
fondo. Nessuno la ritroverà mai.» Dillinger lanciò un'occhiata a Pitt. «Dopo tutte le occasioni perdute, crede che abbiano deciso di massacrare l'equipaggio e i passeggeri?» «Sì.» «Perché non l'hanno fatto finora?» «Tutti i loro trucchi miravano a guadagnare tempo. Chi ha ordinato il dirottamento aveva le sue ragioni per tenere in vita i presidenti Hasan e De Lorenzo. Non so il perché.» «Lo so io», disse Hollis. «L'ispiratore è Akhmad Yazid. Aveva intenzione di prendere il potere in Egitto poco dopo l'annuncio che il presidente Hasan e il segretario generale dell'ONU Hala Kamil erano stati sequestrati e probabilmente uccisi in mare da terroristi sconosciuti. Dopo che lui e i suoi sostenitori avessero creato una solida base di potere, intendeva dichiarare che i suoi agenti avevano trovato la nave; e poi, da benevolo uomo di Dio, contava di negoziare la liberazione degli ostaggi.» «Furbo, il bastardo», mormorò Giordino. «Nessuno gli toglierebbe la candidatura al Nobel per la pace se salvasse il presidente De Lorenzo e il senatore Pitt.» «Naturalmente, Yazid farebbe in modo che a Hasan e alla Kamil capitasse un tragico incidente al loro ritorno in Egitto.» «E ne uscirebbe comunque candido come la neve», borbottò Giordino. «Un fior di mascalzone», commentò Pitt. «Ma, secondo le ultime notizie, i militari hanno mantenuto una posizione neutrale e il governo di Hasan ha rifiutato di dimettersi.» Hollis annuì. «Sì, e il piano studiato con tanta cura da Yazid è volato dalla finestra.» «Così si è messo con le spalle al muro», disse Pitt. «Fine delle tattiche dilatorie, fine delle mascherate. Questa volta deve eliminare il Lady Flamborough o correre il rischio che i servizi segreti scoprano il suo ruolo dell'intrigo.» «È una teoria solida», ammise Hollis. «E mentre noi stiamo qui, il capo dei dirottatori gioca alla roulette russa con il ghiacciaio», disse Gunn a voce bassa. «Lui e i suoi terroristi potrebbero avere già abbandonato la nave ed essersi messi al sicuro con una barca o un elicottero, lasciando passeggeri ed equipaggio imprigionati e impotenti.» «Forse la barca ci è sfuggita», commentò malinconicamente Dillinger. Hollis la pensava diversamente. Scarabocchiò un numero su un foglietto
e lo passò a Stewart. «Comandante, la prego di inviare un messaggio su questa frequenza al mio ufficiale delle Comunicazioni. Gli dica che io e il maggiore stiamo per tornare all'aeroporto e che deve radunare gli uomini per un briefing immediato.» «Vorremmo venire anche noi», disse Pitt in tono deciso. Hollis scosse la testa. «Assolutamente no. Voi siete civili. Non siete addestrati per l'assalto. La sua richiesta è inaccettabile.» «Mio padre è su quella nave.» «Mi dispiace», disse Hollis; ma non sembrava molto addolorato. «L'attribuisca alla sfortuna.» Pitt lo fissò freddamente. «Mi basterebbe una telefonata a Washington per rovinarle la carriera.» Hollis strinse le labbra. «Si diverte a sparare minacce, signor Pitt?» Avanzò di un passo. «Non stiamo giocando a football. Entro le prossime dodici ore i ponti di quella nave si copriranno di cadaveri. Se io e i miei uomini faremo il nostro lavoro nel modo in cui siamo abituati, neppure mille telefonate alla Casa Bianca e al Congresso cambieranno la situazione.» Avanzò di un altro passo verso Pitt. «Conosco più trucchi sporchi io di quanti lei può impararne in tutta una vita. Potrei farla a pezzi a mani nude...» Nessuno vide il movimento. Un attimo prima, Pitt stava tranquillamente in piedi con le braccia lungo i fianchi; un attimo dopo, premeva una Colt automatica calibro quarantacinque contro l'inguine del colonnello Hollis. Dillinger si tese per scattare. Ma non poté far altro. Giordino gli andò alle spalle e gli bloccò le braccia con una stretta degna di una trappola d'acciaio. «Non starò ad annoiarvi con i nostri curriculum», disse Pitt con calma. «Credetemi sulla parola. Rudi, Al e io abbiamo esperienza sufficiente per cavarcela in una guerra. Prometto che non interferiremo. Immagino che guiderà le sue forze speciali contro il Lady Flamborough in un assalto combinato dall'aria e dal mare. Non vi staremo fra i piedi e vi seguiremo per via di terra.» Hollis non era spaventato, ma era allibito. Non riusciva a capire come avesse fatto Pitt a estrarre un'arma di quel calibro con rapidità fulminea. «Dirk non le chiede molto, colonnello», disse Gunn in tono conciliante. «Le consiglio di dar prova di un po' di logica e di accontentarlo.» «Non credo che sarebbe capace di uccidermi», ringhiò Hollis a Pitt.
«No, ma posso garantirle che non avrà una vita sessuale molto attiva.» «Ma voi chi siete? Fate parte della Ditta?» «La CIA?» disse Giordino. «No, non eravamo qualificati. Perciò siamo andati alla NUMA.» Hollis scosse la testa. «Non riesco a capire.» «Non è necessario», disse Pitt. «Siamo d'accordo?» Hollis rifletté per mezzo secondo, poi si tese verso Pitt e parlò con il tono di un sergente istruttore che si rivolge a una recluta. «Vi farò portare da un Osprey a meno di dieci chilometri dalla nave. Non più vicino, altrimenti salterebbe il fattore sorpresa. E da lì potrete proseguire a piedi. Se avrò un po' di fortuna, arriverete quando tutto sarà finito.» «Mi sembra giusto», disse Pitt. Hollis indietreggiò, guardò Giordino e scattò: «Le sarei grato se lasciasse libero il maggiore Dillinger». Poi si girò di nuovo verso Pitt. «Noi ce ne andiamo immediatamente. Anzi, se non verrete con il maggiore e me, resterete qui. Cinque minuti dopo che sarò salito a bordo del mio aereo, l'intera squadra decollerà.» Pitt scostò l'automatica dall'inguine di Hollis. «Veniamo con voi.» «Io starò con il maggiore», disse Giordino, e diede una pacca amichevole sulla spalla di Dillinger. «Le grandi menti funzionano sulla stessa lunghezza d'onda.» Dillinger gli lanciò un'occhiata acida. «La sua sarà sulla lunghezza d'onda delle fogne, ma la mia no.» Tutti uscirono. Pitt andò nella sua cabina e prese una sacca, poi salì in plancia a parlare con il comandante Stewart. «Quanto tempo impiegherà il Sounder per raggiungere Santa Ines?» Stewart entrò nella sala delle carte nautiche e fece un rapido calcolo. «Se andremo alla velocità massima», spiegò, «i nostri diesel dovrebbero portarci al ghiacciaio in nove o dieci ore.» «Allora proceda», ordinò Pitt. «Vi aspetteremo verso l'alba.» Stewart gli strinse la mano. «Sia prudente, chiaro?» «Cercherò di non bagnarmi i piedi.» Uno degli scienziati della nave si avvicinò. Era un negro di media statura e aveva un'espressione severa. Si chiamava Clayton Findley e parlava con una profonda voce di basso. «Non ho origliato di proposito, signori, ma giurerei di aver sentito parla-
re dell'isola di Santa Ines.» Pitt annuì. «Esatto.» «C'è una vecchia miniera di zinco presso il ghiacciaio. Fu chiusa quando il Cile interruppe la produzione sovvenzionata dal governo.» «Conosce l'isola?» chiese meravigliato Pitt. «Ero il capo geologo di una compagnia mineraria dell'Arizona convinta di poter fare rendere una miniera con l'efficienza e la riduzione dei costi. Mi mandarono con un paio d'ingegneri a effettuare un rilevamento, e passammo tre mesi in quella tana infernale. Il minerale era già quasi esaurito. Poco dopo la miniera fu chiusa e l'equipaggio abbandonato.» «Sa usare un fucile?» «Sono un discreto cacciatore.» Pitt lo prese per un braccio. «Clayton, amico mio, è il cielo che l'ha mandata.» 52. Clayton Findley era stato veramente mandato dal cielo. Mentre Hollis impartiva le istruzioni ai suoi uomini in un magazzino in disuso, Pitt, Gunn e Giordino aiutarono Findley a plasmare su un vecchio tavolo da pingpong un diorama dell'isola di Santa Ines con il fango prelevato ai bordi della pista dell'aeroporto. Quando non ricordava esattamente qualcosa, Findley si rinfrescava la memoria con la carta nautica di Pitt. Fece indurire il plastico in miniatura con una stufetta portatile e lo colorò con le bombolette di vernice spray fornite da uno degli uomini di Hollis. Grigio per il terreno roccioso, bianco per la neve e il ghiaccio. Fece addirittura un modello in scala del Lady Flamborough e lo collocò ai piedi del ghiacciaio. Finalmente arretrò d'un passo e ammirò la sua opera. «Ecco Santa Ines», annunciò. Hollis interruppe il briefing e radunò i suoi uomini intorno al tavolo. Tutti osservarono il diorama per qualche istante in un silenzio pensieroso. L'isola aveva la forma del pezzo centrale di un puzzle inventato da un ubriaco. La costa irregolare era un incubo di speroni e promontori squarciati da fiordi e baie tortuose. A est si estendeva nello stretto di Magellano e a ovest era rivolta verso il Pacifico. Era un territorio morto, inadatto persino per un cimitero, ampio sessantacinque chilometri e lungo novantacinque, dominato dal monte Wharton, che era alto 1320 metri. Non c'erano spiagge o tratti pianeggianti. I monti bassi sembravano navi
imprigionate fra gli scogli, e i pendii scoscesi digradavano tormentosamente per raggiungere il mare. L'antico ghiacciaio stava sull'isola come una sella. Era il risultato delle estati fredde e nuvolose che non riuscivano a sciogliere il ghiaccio. Le scarpate di roccia brulla fiancheggiavano quella massa gelida in un silenzio torvo mentre il ghiaccio si apriva irresistibilmente un passaggio verso l'acqua, dove cadeva a strati nello stesso modo in cui un salumiere affetta una salsiccia. Vi sono al mondo poche zone più ostili all'uomo. La catena delle isole era priva di abitati permanenti. Nel corso dei secoli, gli uomini erano venuti ed erano ripartiti lasciando nomi carichi di rancore come «Penisola del Collo Spezzato», «Isola dell'Inganno», «Baia della Sventura», «Isola della Desolazione» e «Porto della Carestia». Era un luogo spietato. L'unica flora che vi sopravviveva era formata da sempreverdi nani e stenti che si alternavano a una specie di erica cespugliosa. Findley passò una mano sul plastico. «Immaginate un paesaggio spoglio con la neve alle quote più alte, e vi farete un'idea di quel che è.» Hollis annuì. «Grazie, signor Findley. Le siamo molto grati.» «Lieto di essere utile.» «Bene, ora veniamo ai fatti. Il maggiore Dillinger comanderà i paracadutisti, io i sommozzatori.» Hollis s'interruppe per squadrare i suoi uomini. Magri, solidi e decisi, tutti vestiti di nero: combattenti selezionati, sopravvissuti a un tremendo addestramento per guadagnarsi l'onore di prestare servizio nelle Forze Speciali. Un contingente formidabile, pensò Hollis con orgoglio. Il migliore del mondo. «Ci siamo addestrati a lungo per occupare una nave con un'operazione notturna», continuò. «Ma non era mai capitato che il nemico avesse tanti vantaggi. Ci mancano le informazioni decisive, le condizioni meteorologiche sono schifose, e avremo di fronte un ghiacciaio che può crollare da un momento all'altro. Sono problemi inquietanti che sbarrano la strada al successo. Mancano poche ore all'assalto, e quindi vogliamo tutte le informazioni possibili. Se per voi c'è qualche grave lacuna nell'operazione, ditelo. Incominciamo.» «Quanti abitanti ha l'isola?» chiese subito Dillinger a Findley. «Nessuno, dopo la chiusura della miniera.» «Condizioni climatiche?» «Piogge quasi continue. È una delle regioni più umide del continente. Il
sole si vede di rado. In questa stagione le temperature sono qualche grado sotto lo zero. Il vento è un tremendo fattore di disturbo, e quasi sicuramente pioverà.» Dillinger guardò Hollis. «Non abbiamo una sola speranza di lanciarci esattamente sul bersaglio durante la notte.» Hollis era scuro in viso. «Dovremo andare con i minielicotteri e scendere con le funi.» «Avete portato gli elicotteri?» chiese Gunn con aria incredula. «Non pensavo che avessero la velocità e l'autonomia...» «... per arrivare qui tanto in fretta», concluse Hollis. «La sigla militare ha troppe lettere e troppi numeri perché sia possibile impararla a memoria. Noi li chiamiamo Carrier Pigeon. Sono piccoli e compatti, e portano un pilota in un abitacolo chiuso e due uomini allo scoperto. Hanno la cupola a infrarossi e rotori di coda con silenziatore. Si possono smontare e montare in un quarto d'ora. Uno dei nostri C-140 può trasportarne sei.» «Avrete un altro problema», sintromise Pitt. «Sentiamo.» «Il radar di navigazione del Lady Flamborough può essere regolato per avvistare gli aerei. I vostri Carrier Pigeon avranno un basso profilo, ma si vedranno sullo schermo in tempo perché i dirottatori possano prepararvi un'accoglienza spiacevole.» «Con tanti saluti all'attacco di sorpresa dall'alto», commentò Dillinger. Hollis si rivolse a Findley. «Ci sono condizioni avverse che dobbiamo conoscere per un attacco dal fiordo?» Findley accennò un sorriso. «Voi dovreste avere la vita più facile del maggiore e dei suoi uomini. Sarete avvantaggiati dal fumo del ghiaccio.» «Il fumo del ghiaccio?» «Una nebbia densa come una nube che si forma al contatto dell'aria fredda con l'acqua meno gelida vicino alla muraglia glaciale. Può essere alta dai due ai dieci metri. Se ci sarà anche la pioggia, com'è praticamente inevitabile, la squadra dei sub dovrebbe risultare coperta dal momento in cui incomincia ad avvicinarsi a quello in cui salirà sui ponti.» «Meno male che qualcuno avrà un po' di fortuna», commentò Dillinger. Hollis si soffregò il mento. «Qui non abbiamo a che fare con un'operazione da manuale. Potrebbe diventare un disastro se il lancio andasse male. Il fattore sorpresa andrebbe perduto, e senza quello i venti sub non sarebbero abbastanza forti per impegnare da soli quaranta dirottatori armati.» «Dato che sarebbe un suicidio per i vostri uomini paracadutarsi sulla na-
ve», disse Pitt, «perché non li lanciate a una certa distanza, sul ghiacciaio? Di là potrebbero raggiungere l'orlo e calarsi con le funi sino al ponte principale.» «Sarebbe una discesa facile», ammise Dillinger. «La muraglia di ghiaccio torreggia sulle sovrastrutture della nave ed è abbastanza vicina per consentirci di superare la distanza.» Hollis annuì. «Ci avevo pensato anch'io. Qualcuno prevede che ci saranno ostacoli per questa tattica?» «Il pericolo maggiore, secondo me», disse Gunn, «è lo stesso ghiacciaio. Potrebbe essere un labirinto di crepacci e di croste di neve che cedono sotto il peso di un uomo. Dovrete muovervi lentamente e con estrema prudenza per attraversarlo al buio.» «Altri commenti?» Nessuno disse nulla. Hollis lanciò un'occhiata a Dillinger. «Quanto tempo ti occorre dal momento del lancio per preparare l'attacco?» «Potrei calcolarlo meglio se conoscessi la velocità e la direzione del vento.» «Nove giorni su dieci soffia da sud-est», rispose Findley. «La velocità media è di circa dieci chilometri orari, ma può arrivare anche a cento.» Dillinger fissò con aria pensierosa le piccole montagne che si ergevano dietro il ghiacciaio. Cercò di visualizzare la scena di notte, di immaginare la violenza del vento. Calcolò mentalmente il tempo. Poi alzò la testa. «Quaranta-quarantacinque minuti dal lancio all'attacco contro la nave.» «Mi scusi se m'intrometto, maggiore», disse Pitt. «Ma sta calcolando un margine troppo stretto.» Findley annuì. «Sono d'accordo. Ho attraversato a piedi il ghiacciaio in molte occasioni. Con quelle creste di ghiaccio non ci si può muovere in fretta.» Con un movimento fluido, Dillinger estrasse un lungo coltello Bowie, angolato tra l'impugnatura e la lama, dal fodero che portava dietro la schiena e usò la punta acuminata per indicare. «Secondo me, ci converrà lanciarci sull'altro versante della montagna, a destra del ghiacciaio. In questo modo il nostro C-140 dovrebbe restare nascosto al radar della nave. Sfruttando i venti prevalenti, che spero si comporteranno come al solito, planeremo con i nostri paracadute 'invisibili' intorno alla montagna per sette chilometri, e atterreremo a meno di un chilometro dalla parete anteriore del ghiacciaio. Penso che ci vorranno diciotto minuti dal lancio al momento in cui ci raggrupperemo. Altri venti minuti per raggiungere a piedi l'or-
lo. E altri sei per preparare la discesa. Totale, quarantaquattro minuti.» «Io li raddoppierei, se fossi al suo posto», disse Giordino in tono di disapprovazione. «Non riuscirà a rispettare i tempi se uno dei suoi uomini cadrà in un crepaccio. La squadra dei sub non potrà sapere del ritardo.» Hollis lanciò a Giordino un'occhiata che di solito riservava ai dimostranti pacifisti. «Non stiamo combattendo la prima guerra mondiale. Non siamo costretti a sincronizzare gli orologi prima di uscire dalla trincea. Ogni uomo è dotato di una radio ricevente miniaturizzata all'orecchio e di un microfono all'interno del passamontagna. Anche se il maggiore Dillinger e i suoi saranno in ritardo e i miei saranno in anticipo, purché siano in comunicazione costante potremo coordinare un attacco congiunto...» «Un'altra cosa», l'interruppe Pitt. «Presumo che le vostre armi abbiano un silenziatore.» «Sì», gli assicurò Hollis. «Perché?» «Perché la raffica di un mitra senza silenziatore potrebbe far crollare la parete del ghiacciaio.» «Non posso sapere quel che faranno i dirottatori.» «Allora sarà meglio che li uccidiate in fretta», borbottò Giordino. «Non siamo stati addestrati per fare prigionieri i terroristi», disse Hollis con un sorriso gelido. «E adesso, se i nostri visitatori vogliono mettere un freno alle critiche, c'è qualche domanda?» Il capo della squadra dei sommozzatori, Richard Benning, alzò la mano. «Signore?» «Benning?» «Ci avvicineremo alla nave sott'acqua o in superficie?» Hollis strinse una biro e la batté su un'isoletta nel fiordo dietro un promontorio, invisibile dalla nave. «La nostra squadra verrà trasportata su quest'isola con i Pigeon Carrier. La distanza dal Lady Flamborough è circa tre chilometri. L'acqua è troppo fredda per una nuotata del genere, quindi resteremo all'asciutto e ci avvicineremo con i gommoni. Se il signor Findley ha ragione per quel che riguarda il fumo del ghiaccio, dovremmo riuscire ad accostarci senza essere scoperti. Se invece si sarà dissipato, ci immergeremo a duecento metri e raggiungeremo lo scafo in questo modo.» «Si geleranno le palle a parecchi se dovremo aspettare a lungo l'arrivo della squadra del maggiore Dillinger.» Tutti risero. Hollis sospirò e sfoggiò un gran sorriso. «Io non ho intenzione di gelarmele. Daremo al maggiore un buon margine di vantaggio.»
Gunn alzò la mano. «Sì, signor Gunn», disse Hollis. «Che altro le è venuto in mente? Ho dimenticato qualcosa?» «È solo una curiosità, colonnello. Come potrà sapere se i dirottatori fiuteranno l'attacco e tenderanno una trappola?» «Uno dei nostri aerei è dotato di apparecchiature avanzate per la sorveglianza elettronica. Volerà in cerchio undici chilometri al di sopra del Lady Flamborough e capterà le eventuali trasmissioni radio inviate dai sequestratori ai loro complici che si trovano fuori della zona. Strilleranno come pazzi se penseranno che un contingente delle Forze Speciali sta stringendo la rete intorno a loro. Gli addetti alle comunicazioni e i traduttori possono intercettare tutte le trasmissioni e avvertirci in tempo.» Pitt fece un gesto noncurante. «Sì, signor Pitt?» «Spero che non avrà dimenticato la squadra della NUMA.» Hollis inarcò un sopracciglio. «No, non l'ho dimenticata.» Si girò verso il geologo. «Signor Findley, dove ha detto che si trova la vecchia miniera abbandonata?» «Ho dimenticato di indicare l'ubicazione», rispose Findley. «Ma dato che le interessa...» S'interruppe per posare una bustina di fiammiferi sul fianco di una piccola montagna che sovrastava il ghiacciaio e il fiordo. «Si trova qui, a circa due chilometri e mezzo dall'orlo avanzato del ghiacciaio e della nave.» Hollis si rivolse a Pitt. «Voi andrete là. Potrete usarla come posto d'osservazione.» «Bel posto d'osservazione», borbottò Giordino. «Al buio, sotto la pioggia e il nevischio, sarà già tanto se riusciremo a vedere i lacci delle nostre scarpe.» «Un posto comodo, sicuro e tranquillo», disse Pitt in tono solenne. «Potremmo accendere il fuoco della stufa e organizzare un picnic.» «Appunto», replicò Hollis in tono soddisfatto. Girò lo sguardo sui presenti. «Bene, signori, non starò ad annoiarvi con un discorsetto incoraggiante. Facciamo il nostro lavoro e vediamo di salvare un buon numero di esseri umani.» «E vinciamo la partita per divertire gli spettatori», mormorò Giordino. «Come ha detto?» «Al dice che sarà un onore far parte di un contingente di élite», spiegò Pitt.
Hollis lanciò a Giordino un'occhiata tagliente. «Le Forze Speciali non concedono partecipazioni onorarie. Voi civili dovrete stare lontani.» Poi, a Dillinger: «Se qualcuno della NUMA tenterà di mettere piede sulla nave prima che io dia il permesso, sparate. È un ordine». «Sarà un piacere.» Dillinger sfoggiò un sogghigno degno di uno squalo. Giordino alzò le spalle. «Certo che qui sanno come sfogare la rabbia.» Pitt non condivideva l'umore caustico di Giordino: capiva troppo bene la posizione di Hollis. I suoi erano professionisti. Erano uomini massicci e taciturni, schierati in cerchio intorno al plastico. Nessuno di loro aveva più di venticinque anni. E mentre li guardava in faccia non poté fare a meno di chiedersi quanti sarebbero morti entro le prossime ore. 53. «Quanto manca?» chiese Machado ad Ammar sdraiandosi sul divano del comandante Collins. Dato che a bordo l'energia elettrica non funzionava, la cabina del comandante era illuminata da quattro torce elettriche appese al soffitto. Ammar alzò gli occhi con indifferenza e continuò a leggere il Corano. «Passa più tempo di me in sala comunicazioni. Dovrebbe essere lei a dirmelo.» Machado sputò. «Sono stufo di stare ad aspettare come un'anitra gravida. La mia proposta è questa: ammazziamoli tutti e andiamocene da questo inferno di ghiaccio.» Ammar squadrò il collega. Machado era una persona trascurata, coi capelli unti e le unghie sporche. Bastava fiutare l'aria a due passi di distanza per capire che faceva il bagno di rado. Ammar lo considerava pericoloso, ma a parte questo provava solo disgusto. Machado si alzò dal divano e si aggirò per la cabina prima di andare a sedere su una sedia. «Avremmo dovuto ricevere istruzioni ventiquattr'ore fa», disse. «Topiltzin non è un individuo che esita.» «Non lo è neppure Akhmad Yazid», disse Ammar senza distogliere gli occhi dal Corano. «Lui e Allah provvederanno.» «Prowederanno che cosa? Elicotteri, una nave, un sottomarino prima che veniamo scoperti? Conosce bene la risposta, caro amico egiziano, eppure se ne sta lì impassibile come la Sfinge.» Ammar girò una pagina senza alzare la testa. «Domani a quest'ora lei e i suoi uomini saranno al sicuro in Messico.»
«Può garantirmi che non saremo sacrificati tutti nell'interesse della causa?» «Yazid e Topiltzin non possono rischiare che veniamo catturati da forze internazionali», rispose Ammar. «Temono che parleremmo sotto la tortura. I loro imperi andrebbero a pezzi se uno di noi rivelasse che sono coinvolti. Mi creda, sono state date tutte le disposizioni necessarie per la nostra fuga. Deve avere pazienza.» «Quali disposizioni?» «Conoscerà questa parte del piano non appena arriveranno le istruzioni sulla sorte degli ostaggi.» La menzogna incominciava a sgretolarsi, e Machado avrebbe potuto comprendere da un momento all'altro come stavano le cose. Finché era uno degli uomini di Ammar a far funzionare le comunicazioni, non si potevano ricevere messaggi, con la radio regolata su una sequenza sbagliata. Yazid e probabilmente Topiltzin, si diceva Ammar, stavano sudando se pensavano che lui avesse ignorato il piano iniziale e avesse assassinato tutti coloro che si trovavano a bordo, invece di tenerli in vita a scopi di propaganda. «Perché non agisce di sua iniziativa? Potrebbe rinchiuderli tutti sottocoperta, affondare la nave e farla finita.» La voce di Machado era carica d'esasperazione. «Non sarebbe prudente uccidere tutto l'equipaggio britannico, il senatore americano e altri passeggeri che non sono né messicani né egiziani. A lei, capitano, può piacere l'emozione di essere il bersaglio di una caccia all'uomo su scala internazionale. Ma io preferisco continuare a vivere la mia vita fra gli agi e le comodità.» «È molto stupido lasciare testimoni.» Quell'imbecille non immaginava fino a che punto avesse ragione, pensò Ammar. Sospirò e posò il Corano. «L'unica cosa che le interessa è il presidente De Lorenzo. A. me importano il presidente Hasan e Hala Kamil. I nostri rapporti finiscono qui.» Machado si alzò di nuovo, attraversò la cabina e spalancò la porta. «Sarà meglio che riceviamo notizie molto in fretta», sibilò. «Non potrò tenere a freno i miei uomini ancora per molto. Vorrebbero mettermi a capo della missione.» Ammar sorrise amabilmente. «Mezzogiorno... se entro mezzogiorno non avremo ricevuto istruzioni dai nostri superiori, passerò le consegne a lei.» Machado spalancò gli occhi per un istante con un'espressione insospettita. «È d'accordo a lasciarmi il comando?»
«Perché no? Ho fatto ciò che dovevo. A parte l'eliminazione del presidente Hasan e della Kamil, il mio compito è terminato. Sarò felice di lasciare a lei le ultime preoccupazioni.» Machado sfoggiò un sorriso diabolico. «Mi ricorderò della promessa, egiziano. Forse allora vedrò la faccia nascosta dalla maschera.» E uscì. La porta si era appena richiusa alle spalle di Machado quando Ammar tirò fuori dal cappotto la radio miniaturizzata e premette il pulsante per la trasmissione. «Ibn?» «Sì, Suleiman Aziz?» «Dove ti trovi?» «A poppa.» «Quanti sono scesi a terra?» «Sei sono già stati trasferiti al molo della vecchia miniera. A bordo siamo rimasti in quindici, te incluso. Non possiamo muoverci in fretta: abbiamo a disposizione solo una barca a tre posti. Il gommone a otto posti ha un grosso squarcio e non è riparabile.» «Sabotaggio?» «Può essere stata solo opera degli uomini di Machado.» «Hanno causato altri guai?» «Per ora no. Il freddo li tiene lontani dai ponti esterni. Quasi tutti sono nella lounge a bere tequila. Gli altri dormono. Hai fatto bene a ordinare ai nostri di comportarsi amichevolmente con loro. Hanno allentato la disciplina in modo considerevole.» «Le cariche?» «Gli esplosivi sono stati piazzati in una frattura parallela alla parete del ghiacciaio. La detonazione la farà precipitare sulla nave.» «Fra quanto potremo completare la ritirata?» «Dobbiamo usare i remi e quindi ci sposteremo lentamente, con questa marea. Non possiamo accendere il motore per non mettere in allarme gli uomini di Machado. Credo che ci vorranno altri tre quarti d'ora per portare via tutti dalla nave.» «Dobbiamo essere al sicuro prima che spunti il giorno.» «Tutti faranno del loro meglio, Suleiman Aziz.» «Sono in grado di provvedere al trasferimento a terra senza di te?» «Sì.» «Porta con te un uomo e raggiungimi nella cabina di Hasan.» «Dobbiamo eliminarli?»
«No», rispose Ammar. «Li porteremo con noi.» Poi spense la radio e infilò il Corano in una tasca del cappotto. Era deciso a vendicarsi del tradimento di Akhmad Yazid. Era esasperante vedere rovinato il suo piano magnifico. Ammar non intendeva portare a termine l'operazione originale: sapeva che Machado era stato ingaggiato per eliminare lui e i suoi sequestratori. L'idea di perdere la somma che gli spettava lo incolleriva ancor più della pugnalata alle spalle. Quindi, pensò, avrebbe tenuto in vita Hasan e la Kamil, e anche De Lorenzo, almeno temporaneamente, come merce di scambio. Forse avrebbe potuto rifarsi cambiando le carte in tavola e gettando tutte le responsabilità su Yazid e Topiltzin. Aveva bisogno di tempo per riflettere e ideare un nuovo piano. Ma prima venivano le cose più importanti. Doveva far scendere di nascosto gli ostaggi dalla nave prima che Machado e il resto della banda scoprissero le sue intenzioni. Hala provò una stretta al cuore quando la porta si aprì e il capo dei dirottatori entrò nella suite. Lo fissò per un momento e vide solo gli occhi dietro la maschera ridicola e il mitra che teneva con una mano. Con curiosità femminile si chiese che tipo d'uomo poteva essere in circostanze diverse. L'uomo entrò e disse con voce bassa e imperiosa: «Tutti voi verrete con me». Hala tremò e abbassò lo sguardo sul pavimento. Era in collera con se stessa perché non riusciva a nascondere la paura. Il senatore Pitt non si lasciò intimidire. Si alzò di scatto, attraversò la cabina in tre passi e si fermò a pochi centimetri da Ammar. «Dove ha intenzione di portarci e a che scopo?» chiese con fermezza. «Non mi trovo di fronte a una delle stupide commissioni d'inchiesta del Senato americano», ribatté Ammar in tono gelido. «Non faccia domande.» «Abbiamo il diritto di sapere», insistette il senatore. «Non avete alcun diritto!» ribatté Ammar. Lo spinse da parte bruscamente e avanzò girando lo sguardo sulle facce pallide e allarmate dei presenti. «Ora farete una piccola gita in barca seguita da un breve viaggio in treno. I miei uomini distribuiranno le coperte per proteggervi dal freddo.» Tutti lo fissarono come se lo giudicassero pazzo, ma nessuno parlò. Con un senso di disperazione rassegnata, Hala aiutò il presidente Hasan ad alzarsi. Era stanca di vivere sotto la minaccia continua della morte. Or-
mai non le importava più di nulla. Eppure qualcosa ardeva ancora dentro di lei, una scintilla, una volontà di sfida. Era il coraggio intrepido di un soldato che va in battaglia, sa che deve morire e non ha nulla da perdere combattendo sino alla fine. Era decisa a sopravvivere. Il capitano Machado entrò in sala comunicazioni e scoprì che era deserta. In un primo momento pensò che l'operatore di Ammar fosse andato in bagno; ma quando controllò vide che era deserto anche quello. Machado fissò a lungo la radio con gli occhi arrossati dalla lunga veglia. Un'espressione sconcertata gli apparve sul viso. Salì in plancia e si avvicinò a uno dei suoi che stava sorvegliando il radar. «Dov'è l'operatore radio?» chiese. L'uomo si voltò e alzò le spalle. «Non l'ho visto, capitano. Non è in sala comunicazioni?» «No, non c'è nessuno.» «Vuole che lo chieda al capo degli arabi?» Machado scosse la testa. Non riusciva a spiegarsi la scomparsa dell'operatore egiziano. «Cerca Jorge Delgado e portalo qui. Lui s'intende di radio. È meglio che a controllare le comunicazioni siamo noi e non quegli stupidi arabi.» Mentre parlavano, i due non notarono il blip che apparve sullo schermo del radar e che segnalava un mezzo aereo di passaggio a bassa quota sul centro dell'isola. Ma anche se fossero stati in guardia, era impossibile individuare i «paracadute invisibili» che gli uomini delle Forze Speciali di Dillinger stavano aprendo per incominciare la planata in direzione del ghiacciaio. 54. Pitt era a bordo dell'Osprey. L'apparecchio, che aveva la forma di un proiettile, si alzava da terra come un elicottero ma volava come un aereo a più di seicento chilometri orari. Era sveglio: solo un morto avrebbe potuto dormire su quegli scomodi sedili di alluminio scarsamente imbottiti, con i vuoti d'aria e il fragore del motore. Solo un morto... oppure Giordino. Stava abbandonato come un pupazzo di gomma a grandezza naturale, con quel tanto d'aria necessario per dargli forma. A intervalli di pochi minuti,
come se il suo cervello fosse regolato con un timer, cambiava posizione senza socchiudere un occhio o saltare un respiro. «Come ci riesce?» chiese Findley con sincero stupore. «È una dote ereditaria», rispose Pitt. Gunn scosse la testa con aria d'ammirazione. «Io l'ho visto dormire nelle pose più assurde e contorte nei posti peggiori, e ancora non riesco a credere ai miei occhi.» Il giovane copilota si voltò a guardare. «Non è un tipo che soffre di sindrome da stress, vero?» Pitt e gli altri risero. Poi tornò il silenzio. Tutti rimpiangevano di dover abbandonare il tepore dell'aereo per avventurarsi nell'incubo di ghiaccio. Pitt si rilassava come poteva. Era piuttosto soddisfatto. Anche se non era incluso nell'assalto (era meglio lasciare quel compito ai professionisti del salvataggio degli ostaggi), era abbastanza vicino a Hollis e alle sue squadre, e aveva intenzione di seguire gli uomini di Dillinger quando si fossero calati con le corde e avessero iniziato l'attacco. Non aveva presentimenti e non gli sembrava che vi fossero presagi di morte. Non dubitava che suo padre fosse vivo. Non riusciva a spiegarselo, ma gli pareva di sentire la presenza del senatore. Tra loro c'era un forte legame affettivo, e quasi riuscivano a leggere l'uno nei pensieri dell'altro. «Fra sei minuti saremo al punto di atterraggio», annunciò il pilota con un tono allegro che fece rabbrividire Pitt. Il pilota sembrava beatamente dimentico del fatto che stava sorvolando vette acuminate e incappucciate di neve senza riuscire a scorgerle. Attraverso il parabrezza erano visibili solo il nevischio che batteva sul vetro e l'oscurità che si estendeva più oltre. «Come fa a sapere dove siamo?» chiese Pitt. Il pilota, un tipo alla Burt Reynolds, scrollò le spalle. «Lo sento con i polsi», rispose scherzando. Pitt si sporse per guardare. Il pilota non teneva le mani sui comandi; aveva le braccia incrociate e osservava un piccolo schermo che sembrava un videogame. Sul fondo del display si vedeva solo il muso dell'Osprey, mentre le immagini dei monti e delle valli scorrevano sotto la sagoma. Su un pannello multiplo, nell'angolo in alto, le distanze e le altitudini apparivano in numeri digitali rossi. «Senza il minimo intervento dell'uomo...» rifletté Pitt. «I computer stanno per sostituire un po' tutti.» «Per fortuna non hanno ancora la passione per il sesso.» Il pilota rise.
Tese una mano e regolò leggermente un pulsante. «Gli scanner radar e infrarossi leggono il terreno e il computer converte i dati in immagini tridimensionali. Innesto il pilota automatico e mentre l'apparecchio sfreccia come un running-back dei Los Angeles Raiders, penso a cose meravigliose come il bilancio del Congresso e la politica estera del dipartimento di Stato.» «Questo mi giunge nuovo», mormorò ironicamente il copilota. «Senza la nostra piccola guida elettronica», continuò il pilota, imperturbato, «saremmo ancora a terra a Punta Arenas ad aspettare che venisse giorno e che il tempo migliorasse...» Dal display uscì un trillo e il pilota s'irrigidì. «Ci stiamo avvicinando al punto dell'atterraggio. È meglio che vi prepariate a scendere.» «Che ordini ha dato il colonnello Hollis?» «Ha detto di sbarcarvi dietro la vetta della montagna, al di sopra della miniera, per nasconderci al radar della nave. Dovrete fare il resto del percorso a piedi.» Pitt si rivolse a Findley. «Qualche problema?» Findley sorrise. «Conosco quella montagna come il sedere di mia moglie. La vetta è a soli tre chilometri dall'entrata della miniera. Una comoda discesa. Potrei farla anche a occhi bendati.» «A giudicare da questo tempo schifoso», borbottò Pitt, «è proprio ciò che dovrà fare.» L'ululato del vento sostituì il rombo delle turbine dell'Osprey mentre gli uomini della NUMA uscivano in fretta dal portellone. Non parlarono: si limitarono a fare cenni di saluto ai piloti. Meno di un minuto dopo i quattro, che portavano soltanto due borse, avanzarono sotto il nevischio verso la cima della montagna. In silenzio, Findley procedeva per primo. A terra la visibilità era pessima come in volo. La torcia elettrica che teneva in mano era quasi inutile. Il nevischio sferzante rifletteva il fascio di luce e rivelava il terreno accidentato per un raggio massimo d'un paio di metri. I quattro non avevano affatto l'aria d'una squadra d'assalto. Non sembravano armati, ed erano tutti vestiti in modo diverso. Pitt aveva una tuta grigia da sciatore, Giordino l'aveva blu. Gunn era infagottato in una tuta arancione da sopravvivenza troppo grande, Findley era equipaggiato come un taglialegna canadese, con tanto di berretto di lana sulle orecchie. Avevano in comune una sola cosa: tutti portavano occhialoni da neve con le lenti
gialle. Il vento, calcolò Pitt, soffiava a una ventina di chilometri orari: era pungente ma sopportabile. Il terreno roccioso e diseguale era reso sdrucciolevole dall'umidità; i quattro scivolavano e inciampavano, e spesso perdevano l'equilibrio e cadevano. A intervalli di pochi minuti erano costretti a ripulire gli occhiali per liberarli dalle incrostazioni di nevischio. Ormai, visti di fronte, sembravano altrettanti pupazzi di neve, mentre avevano la schiena asciutta. Findley girava il raggio della torcia sul terreno per evitare i macigni e i radi cespugli. Comprese di aver raggiunto la sommità quando arrivò su un affioramento di roccia nuda e fu investito da tutta la forza del vento. «Ormai non siamo lontani», disse. «Ed è tutto in discesa.» «È un peccato che non possiamo noleggiare uno slittino», disse cupamente Giordino. Pitt scostò il guanto e guardò le lancette luminose del vecchio orologio Doxa da sub. L'assalto era fissato per le zero-cinque zero-zero. Mancavano ventotto minuti. Erano in ritardo. «Cerchiamo di sbrigarci», gridò. «Non ho intenzione di perdermi la festa!» Si mossero piuttosto velocemente per un quarto d'ora. Il declivio divenne più graduale e Findley trovò uno stretto sentiero tortuoso che conduceva alla miniera. Più a valle, i pini stenti diventarono più fitti, le pietre più piccole, e i quattro riuscirono a procedere abbastanza agevolmente. Il vento sferzante e il nevischio si attenuarono. Fra le nubi apparve qualche squarcio che rivelò le stelle. Adesso potevano vedere senza il fastidio degli occhialoni. Findley acquistò una maggiore sicurezza quando nell'oscurità si materializzò un alto mucchio di scorie. Gli girò intorno, trovò un binario a scartamento ridotto e incominciò a seguirlo. Stava per voltarsi a gridare: «Siamo arrivati!» quando all'improvviso Pitt lo afferrò per il colletto e lo costrinse a fermarsi così bruscamente da farlo slittare e cadere seduto al suolo. Pitt s'impadronì della torcia elettrica e la spense. «Che cosa diavolo...?» «Zitto!» sibilò Pitt. «Hai sentito un rumore?» chiese Gunn a voce bassa. «No, solo un odore che conosco.» «Un odore?»
«Agnello. Qualcuno sta arrostendo un cosciotto d'agnello.» Tutti alzarono la testa e fiutarono l'aria. «Hai ragione, perdio», mormorò Giordino. «È proprio l'odore dell'agnello alla griglia.» Pitt aiutò Findley a rialzarsi. «Sembra che qualcuno abbia occupato la sua miniera.» «Devono essere cretini se pensano che qui ci siano minerali da sfruttare.» «Non credo che siano venuti a estrarre lo zinco.» Giordino si spostò da una parte. «Prima che spegnessi la torcia, ho visto qualcosa che luccicava.» Spostò un piede per tastare il terreno e urtò un oggetto. Lo raccolse, si girò per voltare le spalle alla miniera e accese una minuscola lampada tascabile. «Una bottiglia di Château Margaux del 1966. Questi rudi minatori hanno gusti raffinati.» «Qui succede qualcosa di strano», osservò Findley. «Chi si è insediato nella miniera non è il tipo che si sporca le mani.» «L'agnello e il bordeaux d'annata devono venire dal Lady Flamborough», concluse Gunn. «Siamo molto lontani dal punto dove il ghiacciaio incontra il fiordo?» chiese Pitt a Findley. «Il ghiacciaio è cinquecento metri più a nord, e la parete rivolta verso il fiordo è a meno di due chilometri, più a ovest.» «Come trasportavano il minerale estratto?» Findley indicò nella direzione del fiordo. «Con la ferrovia a scartamento ridotto. Il binario va dall'ingresso della miniera al frantoio, poi prosegue fino al molo, dove il minerale veniva caricato sulle navi.» «Non aveva mai parlato di un molo.» «Nessuno me l'ha chiesto.» Findley alzò le spalle. «In realtà è un piccolo pontile. I piloni si estendono in una cala a lato del ghiacciaio.» «La distanza approssimativa dalla nave?» «Un buon giocatore di baseball ce la farebbe a lanciare una palla dal molo allo scafo.» «Avrei dovuto capirlo», mormorò rabbiosamente Pitt. «Ma mi è sfuggito, è sfuggito a tutti.» «Che cosa sta dicendo?» chiese Findley. «La squadra di supporto dei terroristi», rispose Pitt. «I sequestratori che si trovano a bordo della nave hanno bisogno di una base avanzata per fuggire. Non potevano scendere in mare senza essere scoperti e catturati a
meno che disponessero di un sottomarino, ma non potevano procurarselo senza l'approvazione di un governo legittimo. Una miniera abbandonata è un nascondiglio ideale per gli elicotteri. E possono servirsi della ferrovia a scartamento ridotto per andare e tornare dal fiordo.» «Hollis», disse Gunn. «Dobbiamo avvertirlo.» «Non possiamo», disse Giordino. «L'amico colonnello ha rifiutato di fornirci una radio.» «E allora come informiamo Hollis?» chiese Gunn. «Niente da fare.» Pitt alzò le spalle. «Però potremmo renderci utili trovando gli elicotteri, mettendoli fuori uso e bloccando i terroristi nell'accampamento della miniera per impedire che stringano in una morsa Hollis e le sue squadre.» «Potrebbero essere cinquanta», protestò Findley. «E noi siamo solo quattro.» «La loro sorveglianza non è rigorosa», commentò Gunn. «Non si aspettano che qualcuno arrivi dall'interno di un'isola deserta nel mezzo d'una bufera.» «Rudi ha ragione», disse Giordino. «Se stessero in guardia a quest'ora ci avrebbero scoperti. Io direi di sfrattare quei bastardi.» «Abbiamo dalla nostra il fattore sorpresa», continuò Pitt. «Se siamo prudenti e ci teniamo al coperto nel buio, possiamo disorientarli.» «E se vengono a cercarci», chiese Findley, «come ci difendiamo? Lanciando sassi?» «La mia vita è guidata dal motto dei boy-scout 'Sii preparato'», rispose Pitt. Pitt e Giordino s'inginocchiarono e aprirono le borse. Giordino distribuì i giubbotti antiproiettile, Pitt le armi. Porse a Findley un fucile semiautomatico. «Mi ha detto che va a caccia, Clayton. Ecco un regalo di Natale in anticipo. Un Benelli Super Novanta calibro dodici.» A Findley brillarono gli occhi. «Mi piace.» Passò le mani sul calcio con delicatezza, come se fosse la coscia di una donna. «Sì, mi piace.» Poi notò che Gunn e Giordino avevano fucili mitragliatori Heckler & Koch modificati con silenziatore. «Ehi, quella non è roba che si può comprare dal ferramenta all'angolo. Dove li avete presi?» «Sono in dotazione alle Forze Speciali», rispose Giordino con noncuranza. «Li abbiamo presi in prestito mentre Hollis e Dillinger non guardavano.»
Findley rimase ancora più sbalordito quando Pitt inserì un caricatore rotondo in un vecchio Thompson. «Vedo che le piacciono i pezzi d'antiquariato.» «I fabbricanti d'armi d'una volta sapevano il fatto loro», disse Pitt. Guardò di nuovo l'orologio. Restavano appena sei minuti prima che Hollis e Dillinger attaccassero la nave. «Non sparate prima del mio ordine. Non vogliamo far fallire l'assalto delle Forze Speciali. Già così, hanno poche speranze che la sorpresa riesca.» «E il ghiacciaio?» chiese Findley. «Quando spareremo, le onde d'urto non frattureranno la parete?» «No, non a questa distanza», lo rassicurò Gunn. «Sembrerà piuttosto il crepitio lontano di mortaretti.» «Ricordate», ordinò Pitt, «dobbiamo evitare il più a lungo possibile uno scontro a fuoco. Il nostro compito principale è trovate gli elicotteri.» «È un peccato che non abbiamo esplosivi», borbottò Giordino. «Non si può avere tutto.» Pitt lasciò a Findley qualche secondo per orientarsi. Poi il geologo annuì. Si avviarono girando intorno alle vecchie costruzioni malridotte. Procedevano nell'ombra, cercando di non far rumore. Lo scricchiolio dei passi sulla ghiaia era mascherato dalla brezza tesa che aveva cambiato direzione e adesso scendeva dall'alto della montagna. Le costruzioni intorno alla miniera erano quasi tutte di travi di legno coperte da lamiere ondulate che mostravano segni di corrosione e di ruggine. Alcune erano piccole baracche, altre erano alte dai due ai quattro piani e sembravano svanire nel buio del cielo. A parte l'odore dell'arrosto di agnello, sembrava una vecchia città fantasma del West americano. Poi Findley si fermò dietro un capannone, alzò una mano e attese che gli altri tre lo circondassero. Sbirciò un paio di volte oltre l'angolo e si rivolse a Pitt. «La mensa e la sala ricreazione sono a pochi passi sulla mia destra», bisbigliò. «Vedo la luce che filtra dalle tende.» Giordino fiutò l'aria. «Direi che la carne gli piace ben cotta.» «Ci sono sentinelle?» chiese Pitt. «L'area sembra deserta.» «Dove possono aver nascosto gli elicotteri?» «La miniera principale è un pozzo verticale che scende per sei livelli. Come rimessa, possiamo escluderla.» «E allora?»
Findley tese la mano verso l'oscurità. «Lo spazio aperto più ampio è il frantoio per il minerale. C'è anche una porta scorrevole per far passare l'equipaggiamento pesante. Se hanno piegato le pale, possono aver nascosto facilmente anche tre elicotteri.» «Allora sono là dentro», mormorò Pitt. Non c'era tempo da perdere. Gli attacchi coordinati di Hollis e Dillinger sarebbero incominciati da un momento all'altro. Stavano passando davanti alla mensa quando la porta si aprì all'improvviso e filtrò un raggio di luce che li investì al di sotto delle ginocchia e illuminò loro i piedi. I quattro rimasero immobili, con le armi pronte a sparare. Per qualche secondo una figura rimase profilata contro la luce. Varcò la soglia e buttò a terra qualche avanzo da un piatto. Poi si voltò e chiuse la porta. Dopo pochi attimi, Pitt e gli altri si acquattarono contro il muro del frantoio. Pitt si voltò e accostò la bocca all'orecchio di Findley. «Come facciamo a entrare?» «I nastri trasportatori passavano attraverso le aperture, per portare il minerale al frantoio e poi alla ferrovia. Ma c'è un inconveniente. Sono molto in alto.» «Non ci sono porte d'accesso più basse?» «La grande porta per immagazzinare l'attrezzatura», rispose sottovoce Findley. «E l'entrata principale. Se non ricordo male, c'è anche una scala che conduce a un ufficio, su un lato.» «Senza dubbio sarà chiuso a chiave», borbottò Giordino. «Senza dubbio», ripeté Pitt. «D'accordo, passiamo dalla porta principale. Nessuno, là dentro, si aspetta visite di sconosciuti. Entreremo con calma, come se fosse la cosa più normale del mondo. Niente azioni di sorpresa. Qauttro di loro che arrivano dalla mensa.» «Scommetto che la porta scricchiola», borbottò Giordino. Girarono intorno all'angolo del frantoio ed entrarono da una grande porta malandata che girò sui cardini senza far rumore. «Accidenti», bisbigliò Giordino a denti stretti. L'interno della costruzione era enorme, com'era logico aspettarsi. Una gigantesca macchina stava al centro, simile a una piovra ciclopica. Al posto dei tentacoli aveva nastri trasportatori, tubi e cavi elettrici. Il frantoio consisteva di un massiccio cilindro orizzontale contenente sfere d'acciaio di varia grandezza che frantumavano e polverizzavano il minerale. Lungo una parete c'erano le enormi vasche di flottazione dove finiva il
fanghiccio. In alto, le passerelle per la manutenzione raggiungevano le scalette d'acciaio incrociate al di sopra del macchinario. Dalle ringhiere pendevano le lampade alimentate da un generatore portatile in funzione in un angolo. Pitt aveva sbagliato le previsioni. Aveva immaginato che ci fossero due elicotteri, forse tre, per evacuare i dirottatori. Ma ce n'era uno solo, un grosso Westland Commando britannico, vecchio ma affidabile, creato per il trasporto del personale e il supporto logistico. Poteva portare anche trenta o più passeggeri. Due uomini in tenuta da combattimento stavano su una scala a ruote e scrutavano all'interno di un pannello d'accesso accanto al motore. Erano assorti nel lavoro e non si accorsero della presenza degli intrusi. Pitt avanzò lentamente e cautamente, con Findley sulla destra, Giordino a sinistra e Gunn che lo seguiva. I due che lavoravano al motore dell'elicottero non si voltarono. Solo in quel momento Pitt scorse una sentinella seduta su una cassetta rovesciata dietro una trave di sostegno, con la schiena rivolta alla porta. Pitt indicò a Giordino e Findley di girare intorno all'elicottero tenendosi nell'ombra e di cercare altri eventuali dirottatori. La sentinella aveva sentito il soffio d'aria fredda proveniente dalla porta che s'era aperta e richiusa; e accennò a voltarsi per vedere chi era entrato. Pitt si avvicinò lentamente alla sentinella che era in tenuta da combattimento nero e aveva in testa un passamontagna. Pitt, ormai a soli due metri, sorrise e alzò una mano in un vago gesto di saluto. La sentinella lo guardò, con aria perplessa, e disse qualcosa in arabo. Pitt alzò le spalle e rispose con un borbottio incomprensibile, soffocato dal rombo del generatore. Poi l'uomo fissò lo sguardo sul vecchio Thompson. I due secondi che trascorsero fra la perplessità allarmata e la reazione fisica gli costarono cari. Prima che potesse brandire l'arma e spostarsi, Pitt lo colpì alla testa con il calcio del Thompson. Afferrò la sentinella mentre si accasciava a terra e l'appoggiò di nuovo contro la trave, come se stesse dormicchiando. Si chinò per passare sotto la parte anteriore della fusoliera e si avvicinò ai due meccanici. Quando arrivò alla scala metallica, si afferrò ai gradini con tutte le sue forze e tirò all'indietro. I meccanici volarono in aria, troppo sbalorditi per gridare. La loro unica reazione fu alzare le mani nel vano tentativo di aggrapparsi a chissà cosa
prima di piombare sul duro pavimento di legno. Uno batté la testa e perse i sensi. Un altro atterrò sul fianco: si sentì un suono secco quando il braccio destro si fratturò nell'urto. Un gemito di dolore gli sfuggì dalle labbra ma fu subito troncato da un colpo del calcio del Thompson contro la tempia. «Ottima azione», disse Findley spezzando il silenzio. «Ogni mossa un capolavoro», mormorò Pitt. «Mi auguro che non ce ne siano altri.» «Non proprio. Al ne ha trovati quattro dietro l'elicottero.» Findley passò sotto l'apparecchio e rimase stupito nel vedere Giordino che, seduto comodamente su una sedia pieghevole, fissava i quattro prigionieri infilati fino al collo nei sacchi a pelo. «Tu hai sempre avuto la passione per le confezioni ben fatte», disse Pitt. Giordino non staccò gli occhi dai prigionieri. «E tu hai sempre fatto troppo rumore. Che cos'era tutto quel chiasso?» «I meccanici sono caduti dalla scaletta.» «Quanti ne abbiamo presi?» «Sette in tutto.» «Quattro devono far parte dell'equipaggio dell'elicottero.» «Un pilota e un copilota di riserva e due meccanici. Non volevano correre rischi.» Findley indicò uno dei meccanici. «Quello sta rinvenendo.» Pitt si appese il Thompson alla spalla. «Dobbiamo sistemarli in modo che per un po' non possano andare in alcun posto. A lei l'onore, Clayton. Li leghi e li imbavagli. Dovrebbe trovare qualche cinghia a bordo dell'elicottero. Al, sorvegliali. Io e Rudi andiamo a dare un'occhiata fuori.» «Assicureremo la loro completa immobilizzazione», disse Giordino, scimmiottando il linguaggio burocratico. «Sarà meglio. Altrimenti vi uccideranno.» Pitt chiamò Gunn con un cenno; insieme spogliarono parzialmente due prigionieri. Pitt prese il passamontagna e il maglione alla sentinella svenuta. Arricciò il naso nel sentire l'odore del maglione, ma lo indossò. Uscirono senza cercare di nascondersi. Camminavano a passo sicuro e deciso, tenendosi al centro della strada che si snodava fra le costruzioni. Quando arrivarono alla mensa si addentrarono nell'ombra e sbirciarono all'interno di una finestra. «Devono essere una dozzina», bisbigliò Gunn. «Tutti armati fino ai denti. Sembra che si stiano preparando ad andarsene.» «Accidenti a Hollis», mormorò Pitt. «Se almeno ci avesse dato un mez-
zo per comunicare con lui!» «Ormai è troppo tardi.» «Troppo tardi?» «Sono le cinque e dodici», rispose Gunn. «Se l'assalto fosse incominciato in orario, in questo momento le forze di Hollis e i paramedici sarebbero in volo verso la nave.» Gunn aveva ragione. Gli elicotteri delle Forze Speciali non si sentivano. «Cerchiamo il treno per il trasporto del minerale», disse Pitt. «Sarà meglio che lo mettiamo fuori uso e tronchiamo ogni comunicazione fra la miniera e la nave.» Gunn annuì. Proseguirono senza far rumore lungo l'esterno della mensa, chinandosi per passare sotto le finestre. Si fermarono all'angolo per scrutare cautamente i dintorni. Poi si lanciarono attraverso un tratto scoperto fino a che raggiunsero il binario e cominciarono a correre fra le traversine. Pitt si sentiva agghiacciare mentre seguiva Gunn. Stringeva convulsamente il Thompson, in preda a un senso di disperazione crescente. Il vento e la pioggia erano cessati e le stelle sbiadivano nel cielo orientale. Doveva essere successo qualcosa di terribile. 55. Hollis aveva l'impressione che fossero trascorse ore da quando avevano messo in acqua i gommoni. I piccoli elicotteri Carrier Pigeon avevano volato a bassa quota lungo la costa, e avevano depositato la squadra di Hollis su un'isoletta all'imboccatura del fiordo. Le imbarcazioni erano state messe in acqua con efficienza, ma la corrente di quattro nodi era molto più forte del previsto. E il silenzioso motore elettrico del primo gommone che doveva trasportare cinque uomini s'era fermato inspiegabilmente dopo i primi cinque minuti. Gli uomini delle Forze Speciali avevano perso tempo prezioso per tirar fuori i remi e incominciare a vogare in una disperata corsa contro il tempo per raggiungere il Lady Flamborough prima dello spuntar del giorno. La situazione era stata complicata dal disastro delle comunicazioni. Hollis non era riuscito a contattare Dillinger o altri della squadra a terra, e non sapeva se Dillinger aveva abbordato la nave o si era perso sul ghiacciaio. Hollis remava e imprecava contro il motore defunto, la corrente e Dillinger. La tabella di marcia calcolata con tanta minuziosità era saltata. L'at-
tacco era in forte ritardo; ma non poteva correre il rischio di rinunciare. L'unica possibilità di salvezza stava nel «fumo del ghiaccio» che Findley aveva descritto. Turbinava intorno alle piccole imbarcazioni e agli uomini e li avvolgeva in una coltre protettiva. La nebbia e il buio impedivano a Hollis di vedere davanti a sé per più di pochi metri. Si orientava e sorvegliava la sua flottiglia con un binocolo a infrarossi, teneva i compagni raggruppati entro un raggio di tre metri e forniva indicazioni con la radio ogni volta che un gommone tendeva ad allontanarsi. Puntò il binocolo sul Lady Flamborough. Il profilo elegante appariva come una grottesca scultura di ghiaccio che galleggiasse davanti alla parete di porcellana incrinata di un'antica vasca da bagno. Hollis calcolò che doveva essere distante ancora un chilometro almeno. La marea, che fino a quel momento li aveva contrastati, cominciò ad attenuarsi; ben presto la velocità aumentò di circa un nodo. Quel sollievo, per quanto gradito, giunse quasi troppo tardi. Hollis vedeva che i suoi uomini si stavano stancando a forza di remare. Erano temprati da un duro allenamento e tutti praticavano regolarmente il sollevamento pesi, quindi affondavano i remi nell'acqua senza far rumore e lottavano energicamente contro la marea; ma i loro muscoli cominciavano a irrigidirsi e ogni vogata diventava uno sforzo. La nebbia accennava a diradarsi. Hollis temeva che fra poco sarebbero diventati facili bersagli. Alzò gli occhi, e la sua sicurezza calò come la marea. Attraverso gli squarci nella nebbia si scorgeva il cielo che trascolorava dal nero a un blu sempre più chiaro. Le barche erano al centro del fiordo, e la riva più vicina che offrisse un minimo di copertura era di mezzo chilometro più distante del Lady Flamborough. «Forza, uomini!» esortò. «Siamo alla dirittura finale. Dateci dentro!» Gli uomini esausti attinsero alle energie di riserva e allungarono la vogata. Hollis ebbe la sensazione che i gommoni stessero per schizzare dall'acqua. Posò il binocolo a infrarossi e cominciò a remare furiosamente. Forse ce l'avrebbero fatta, ce l'avrebbero fatta appena appena, pensò mentre si avvicinavano rapidamente alla nave. Ma dov'era Dillinger? si chiese. Che cosa diavolo era successo sul ghiacciaio alla seconda squadra? Anche Dillinger era in difficoltà. Aveva un panorama ancora più vago
della situazione. Subito dopo essersi lanciati dal C-140, lui e i suoi uomini erano stati dispersi nel cielo dai venti forti e incostanti. Cupo in volto, si guardò intorno per vedere come se la cavava la squadra. Ognuno degli uomini aveva una minuscola lampada azzurra, ma il nevischio gli impediva di vederli. Li perse quasi nello stesso istante in cui si aprì il paracadute. Abbassò la mano e premette l'interruttore della scatoletta nera legata a una gamba. E parlò nella piccola trasmittente. «Qui il maggiore Dillinger. Ho attivato il mio radiofaro. Faremo una planata di sette chilometri, quindi cercate di restarmi vicini e di dirigervi verso la mia posizione quando sarete atterrati.» «Con questo tempo schifoso potremo considerarci fortunati se riusciremo a scendere sull'isola», borbottò qualcuno. «Mantenete il silenzio radio, esclusi i casi d'emergenza», ordinò Dillinger. Abbassò lo sguardo e non vide altro che il suo zaino appeso a un cavo di due metri. Si orientò grazie al quadrante luminoso della combinazione formata da bussola e altimetro che si protendeva dalla sua fronte come lo specchietto degli otorinolaringoiatri. Senza punti di riferimento, senza un radiofaro lanciato in anticipo sul luogo dell'atterraggio (un lusso che sarebbe stato pericoloso perché avrebbe potuto mettere in allarme i dirottatori), Dillinger era costretto a calcolare mentalmente l'angolo e la distanza della planata. Il suo timore più grande era di superare il margine del ghiacciaio e finire nel fiordo. Per maggiore sicurezza decise di atterrare prima... circa un chilometro prima. Il ghiacciaio si materializzò nell'oscurità e Dillinger si accorse che stava scendendo direttamente su un crepaccio. Un colpo di vento investì il paracadute rettangolare e lo fece oscillare. Regolò le corde per compensare e assunse la posa indispensabile per atterrare nel momento in cui lo zaino urtava contro la parete interna del crepaccio e rimbalzava oltre l'orlo. Un sottile strato di neve attuti l'impatto e Dillinger compì un atterraggio perfetto in piedi, a due metri dalla frattura nel ghiaccio. Sganciò il paracadute che si afflosciò prima che il vento lo trascinasse via. Non si preoccupò di arrotolarlo e di nasconderlo nel ghiaccio per recuperarlo più tardi. Non c'era tempo da perdere. I contribuenti avrebbero dovuto pagare il paracadute sacrificato. «Qui Dillinger. Sono a terra. Puntate sulla mia posizione.»
Estrasse da una tasca un fischietto di plastica e cominciò a soffiarvi a intervalli di dieci secondi, sempre in una direzione diversa. Per qualche minuto non vide nessuno. Poi i primi dei suoi uomini apparvero e si diressero verso di lui. S'erano dispersi nella discesa, e l'avanzata sulla superficie irregolare del ghiacciaio aveva richiesto più tempo di quanto avesse previsto Dillinger. Poco dopo anche gli altri arrivarono alla spicciolata. Uno si era fratturato una spalla, un altro aveva una caviglia incrinata. Il sergente si stringeva un polso e Dillinger sospettava che fosse rotto; ma dato che il sergente si comportava come se si trattasse di una lieve storta, il maggiore pensò che aveva troppo bisogno di lui per rinunciare alla sua collaborazione. Si rivolse ai due feriti. «Non ce la farete a procedere con noi, ma seguite le nostre tracce meglio che potete. Mascherate le torce.» Poi fece un cenno al sergente Jack Foster. «Leghiamoci in cordata e andiamo. Io andrò in testa.» Foster accennò un saluto e si mise all'opera. Per quanto la superficie accidentata del ghiaccio rendeva il percorso infido, gli uomini procedettero al trotto. Dillinger non temeva di precipitare in un crepaccio. La corda che gli cingeva la vita era assicurata a un numero di individui robusti sufficiente per sollevare un camion. Diede l'alt due volte per orientarsi; quindi la marcia fu ripresa. Superarono creste di ghiaccio acuminato e un crepaccio aperto che rischiò di bloccarli definitivamente. Sprecarono sette minuti prima che il grappino agganciasse la parete di fronte e l'uomo più leggero della squadra compisse la traversata aggrappandosi alla corda per andare a fissare saldamente l'attrezzo. Poi trascorsero altri dieci minuti prima che passassero tutti gli uomini, Dillinger era assillato da un senso d'urgenza. La squadra aveva perso due elementi e rimaneva sempre più indietro rispetto alla tabella di marcia prestabilita. Adesso rimpiangeva di non aver seguito il consiglio di Giordino e di non aver raddoppiato il tempo previsto fra il lancio e l'attacco. Si augurava che la squadra dei sommozzatori non stesse aspettando nell'acqua gelida sotto lo scafo del Lady Flamborough. Più volte cercò di comunicare con Hollis per informarlo del ritardo, ma non ebbe risposta. Le prime tracce dell'alba spuntavano dietro di lui e rivelavano la superficie del ghiacciaio, desolato e terrificante. Poi vide il baluginio delle acque del fiordo... e comprese perché era impossibile comunicare.
Ormai Hollis vedeva chiaramente la nave anche senza il binocolo a infrarossi. E se un dirottatore dalla vista acuta avesse guardato nella direzione giusta, avrebbe scorto le ombre dei gommoni profilate sull'acqua grigioscura. Hollis quasi non osava respirare mentre le distanze si riducevano. Si aggrappava a una speranza impossibile e non rinunciava ai tentativi di comunicare con Dillinger. «Squalo a Falcone, rispondete, per favore.» Stava per tentare per la centesima volta quando la voce di Dillinger gli risuonò nell'auricolare. «Qui Falcone, parla.» «Siete in ritardo!» sibilò Hollis. «E perché non hai risposto alle mie chiamate?» «Siamo appena arrivati alla vostra portata. Non eravamo in linea visuale e i nostri segnali non potevano penetrare la muraglia di ghiaccio.» «Siete in posizione?» «Negativo», rispose seccamente Dillinger. «Ci siamo imbattuti in una situazione delicata e ci vorrà un po' per rimediare.» «Quale sarebbe la situazione delicata?» «Una fila di cariche esplosive in una crepa nel ghiaccio, armate e pronte a saltare a un comando trasmesso per radio.» «Ci vorrà molto per renderle innocue?» «Potrebbe essere necessaria un'ora solo per trovarle tutte.» «Avete cinque minuti», ribatté Hollis. «Non possiamo attendere di più o saremo spacciati.» «Saremo spacciati tutti se le cariche scoppiano e la muraglia di ghiaccio precipita sulla nave.» «Conteremo sul fattore sorpresa per impedire ai terroristi di farle esplodere. Sbrigatevi. Potrebbero scoprire i miei gommoni da un momento all'altro.» «Riesco appena a scorgere le vostre ombre dall'orlo del ghiacciaio.» «La tua squadra agirà per prima», ordinò Hollis. «Senza l'oscurità totale che copra la nostra arrampicata sullo scafo, avremo un gran bisogno di un diversivo.» «Ci vediamo sul ponte scoperto per il cocktail», disse Dillinger. «Offrirò io», rispose Hollis che era ridiventato di colpo euforico. «In bocca al lupo.» Fu Ibn a vederli. Stava sul vecchio pontile per il carico del minerale assieme ad Ammar, i
quattro ostaggi e venti dirottatori egiziani. Scrutò con il binocolo le figure nerovestite sul ciglio del ghiacciaio. Rimase a guardare mentre si calavano con le corde, sfondavano il rivestimento di plastica e sparivano nell'interno della nave. Abbassò leggermente il binocolo e inquadrò gli uomini sui gommoni accostati alla nave. Li vide lanciare i grappini e poi arrampicarsi lungo le corde fino al livello del ponte principale. «Chi sono?» chiese Ammar che gli stava accanto e scrutava a sua volta con il binocolo. «Non saprei, Suleiman Aziz. Sembrano truppe speciali. Non sento rumori di battaglia; devono avere armi munite di silenziatore. Sembra un'azione molto efficiente.» «Troppo efficiente per la marmaglia che Yazid o Topiltzin potrebbe aver messo insieme in così poco tempo.» «Credo che sia un contingente delle Forze Speciali americane.» Ammar annuì nella luce che diventava più intensa. «Forse hai ragione. Ma, in nome di Allah, com'è possibile che ci abbiano trovati tanto in fretta?» «Dobbiamo andarcene prima che arrivino le loro forze di supporto.» «Hai ordinato di mandare il treno?» «Dovrebbe esser qui fra poco per portarci alla miniera.» «Che cosa c'è?» chiese il presidente De Lorenzo. «Che cosa sta succedendo?» Ammar lo scostò con un gesto. Per la prima volta una sfumatura di timore si insinuò nella sua voce. «Sembra che abbiamo abbandonato la nave al momento giusto. Allah ci sorride. Gli intrusi non si sono accorti che siamo qui.» «Fra mezz'ora l'isola brulicherà di soldati americani», disse con calma il senatore Pitt, rigirando il coltello nella piaga. «Fareste meglio ad arrendervi.» Ammar si voltò e guardò l'uomo politico con aria feroce. «Non è necessario, senatore. Non si aspetti che il Settimo Cavalleggeri accorra in vostro aiuto. Se e quando arriverà, non resterà più nessuno da salvare.» «Perché non ci avete uccisi a bordo della nave?» chiese coraggiosamente Hala. Sotto la maschera, i denti di Ammar si scoprirono in un sorriso odioso. Non la degnò di una risposta, e fece un cenno a Ibn. «Fai esplodere le cariche.»
«Come vuoi, Suleiman Aziz.» «Quali cariche?» chiese il senatore. «Di che cosa state parlando?» «Degli esplosivi che abbiamo piazzato dietro la muraglia di ghiaccio», rispose Ammar come se fosse una cosa nota a tutti. Indicò il Lady Flamborough. «Avanti, Ibn.» Impassibile, Ibn estrasse da una tasca una piccola trasmittente e la tese puntandola verso il ghiacciaio. «In nome di Dio!» esclamò il senatore Pitt. «Non lo faccia.» Ibn esitò e guardò Ammar. «Ci sono centinaia di persone sulla nave», disse il presidente Hasan con aria sconvolta. «Non avete alcun motivo per assassinarle.» «Non devo giustificare le mie azioni di fronte a nessuno di voi.» «Yazid sarà punito per questa atrocità», mormorò Hala, fremendo di rabbia. «La ringrazio per avermelo reso più facile», disse Ammar, e sorrise a Hala che lo guardò stordita, senza comprendere. «Basta con questi sentimentalismi. Avanti, Ibn. Sbrigati.» Prima che gli ostaggi potessero protestare ancora, Ibn fece scattare l'interruttore della trasmittente e premette il pulsante che attivava i detonatori. 56. L'esplosione fu un tuono bizzarramente smorzato. La massa del ghiacciaio scricchiolò e gemette, ma poi non accadde nulla. La parete rimase salda e verticale. Avrebbero dovuto verificarsi detonazioni in otto punti diversi all'interno della frattura, ma il maggiore Dillinger e i suoi uomini avevano scoperto e disinnescato tutte le cariche tranne una, prima che la ricerca venisse interrotta. Il rombo lontano risuonò mentre Pitt e Gunn si avvicinavano ai due dirottatori che stavano alimentando la vecchia locomotiva della miniera. I terroristi si interruppero, rimasero in ascolto per qualche secondo e si scambiarono poche parole in arabo. Poi risero e ripresero il lavoro. «Qualunque cosa abbia causato quel rumore», mormorò Gunn, «per loro non è stata una sorpresa. Si sono comportati come se l'aspettassero.» «Sembrava una piccola esplosione», rispose sottovoce Pitt. «Senza dubbio il ghiacciaio non si è spaccato. Altrimenti avremmo sentito tremare il suolo.»
Pitt guardò la piccola locomotiva a scartamento ridotto, agganciata a un tender e a cinque vagoni per il trasporto del minerale. Era del tipo che veniva usato nelle piantagioni, negli stabilimenti industriali e nelle miniere. Era tozza e solida, con un alto fumaiolo a tubo di stufa e i finestrini rotondi, e lanciava sbuffi di vapore. Un esperto di ferrovie avrebbe classificato la disposizione delle ruote come zero-quattro-zero, per indicare che c'erano soltanto quattro ruote motrici. «Dobbiamo dare un saluto caloroso al macchinista e al fuochista», mormorò Pitt. «Lo esige la buona educazione.» Gunn gli lanciò un'occhiata strana e scosse la testa prima di chinarsi e di correre verso la coda del convoglio. Si divisero, si avvicinarono dai due lati opposti e si nascosero sotto i vagoni. La cabina era illuminata dalla cassa a fuoco aperta. Pitt alzò la mano per indicare a Gunn di attendere. L'arabo che fungeva da macchinista era occupato a regolare le valvole e a osservare gli indicatori di pressione. L'altro spalava carbone dal tender e lo buttava nelle fiamme. A un certo momento si soffermò per asciugarsi la faccia sudata, poi sbatté lo sportello della cassa spingendolo con la pala e fece piombare la cabina nella semioscurità. Pitt tese l'indice verso Gunn, poi verso il macchinista. Gunn fece cenno di aver capito, si afferrò alle maniglie e saltò a bordo della locomotiva. Pitt lo precedette. Si avvicinò al fuochista e gli disse garbatamente: «Buongiorno». Prima che il fuochista, confuso e sbalordito, potesse rispondere, Pitt gli strappò la pala dalle mani e l'usò per colpirlo alla testa. Il macchinista stava per voltarsi quando Gunn lo centrò alla mandibola con il pesante silenziatore dell'Heckler & Koch. L'arabo stramazzò come un sacco di cemento. Mentre Gunn faceva la guardia, Pitt sistemò i due terroristi in modo che spenzolassero dai finestrini laterali della locomotiva. Poi studiò pensosamente l'intrico di tubi, leve e valvole. «Non puoi farcela», disse Gunn scuotendo la testa. «So avviare e guidare una Stanley Steamer», ribatté Pitt in tono indignato. «Che cosa?» «Un'automobile d'epoca», rispose Pitt. «Apri lo sportello della cassa a fuoco. Ho bisogno d'un po' di luce per leggere gli indicatori.» Gunn obbedì e tese le mani per scaldarle alle fiamme che guizzavano
dall'apertura. «È meglio che ti sbrighi», disse, spazientito. «Siamo illuminati come una fila di ballerine di Las Vegas.» Pitt abbassò una leva e la piccola locomotiva avanzò di qualche centimetro. «Bene, questo è il freno. Credo di aver capito qualcosa. Ora, quando passeremo davanti al frantoio, balza a terra e corri dentro.» «E il treno?» «Il Cannonball Express», rispose Pitt con un gran sorriso, «non fa fermate.» Sbloccò la leva avanti-indietro e la spinse. Poi sbloccò anche la barra della presa regolabile del vapore. La locomotiva avanzò lentamente, accompagnata dai sobbalzi fragorosi dei vagoni agganciati. Pitt spinse al massimo la barra e la fermò. Le ruote motrici fecero parecchi giri prima di addentare le rotaie arrugginite. Il treno sussultò e si mise in moto. Gli sbuffi affannosi si susseguirono più rapidamente e la piccola locomotiva acquistò velocità e passò davanti alla mensa. La porta si aprì e uno dei terroristi si affacciò e alzò la mano come per salutare, ma la riabbassò non appena vide i due corpi inerti che sporgevano dai finestrini laterali. Rientrò come se fosse stato tirato indietro da un elastico enorme e lanciò un grido d'allarme. Pitt e Gunn spararono contro le finestre e le porte della costruzione. Poi la locomotiva passò oltre e si diresse verso il frantoio. Pitt abbassò lo sguardo al suolo e calcolò che la velocità doveva essere fra i quindici e i venti chilometri. Tirò la leva del fischio e la legò con un pezzo di spago che aveva preso da un taschino del giubbotto. Il getto di vapore passò attraverso il fischio e tagliò l'aria come un rasoio. «Tieniti pronto a saltare», gridò a Gunn mentre il sibilo diventava sempre più acuto. Gunn non rispose. Guardava la distesa di ghiaia come se scorresse sotto di lui alla velocità di un jet, mille metri più sotto. «Via!» urlò Pitt. Toccarono terra correndo, e slittarono e scivolarono ma riuscirono a tenersi in piedi. Non esitarono neanche un solo istante per riprendere fiato. Corsero a fianco del convoglio, poi salirono la scala del frantoio e non si fermarono fino a quando non varcarono barcollando la soglia e non si buttarono sul pavimento. La prima cosa che Pitt vide fu Giordino che stava accanto a lui con il mitra imbracciato.
«Ti ho visto cacciar via da parecchi posti malfamati», commentò Giordino, «ma è la prima volta che ti ho visto buttar fuori da un treno.» «Non è una gran perdita», replicò Pitt mentre si rialzava. «Non aveva la carrozza ristorante.» «Abbiamo sentito sparare. Voi o loro?» «Noi.» «Sta arrivando qualcuno?» «Uno sciame di calabroni infuriati», rispose Pitt. «Non abbiamo molto tempo per prepararci all'assedio.» «Dovranno stare attenti alla mira, o potrebbe andarci di mezzo il loro elicottero.» «È un vantaggio che sfrutteremo al massimo.» Findley aveva finito di legare insieme la sentinella e i due meccanici. Si alzò. «Dove volete che li metta?» «Lì sul pavimento sono al sicuro», disse Pitt. Girò lo sguardo sullo spazio vastissimo occupato al centro del frantoio. «Al, tu e Findley prendete tutto quello che riuscite a spostare e trasformare il frantoio in una fortezza. Io e Rudi li tratterremo il più a lungo possibile.» «Una fortezza all'interno di una fortezza», commentò Findley. «Ci vorrebbero venti uomini per difendere una costruzione così grande», spiegò Pitt. «Per i terroristi, l'unica speranza di catturare intatto l'elicottero consiste nel far saltare la porta grande e irrompere in massa. Ne stenderemo più che potremo dalle finestre e poi ci ritireremo al frantoio per l'ultima difesa.» «Mi sento come Davy Crockett ad Alamo», borbottò Giordino. Con l'aiuto di Findley incominciò a fortificare l'enorme frantoio mentre Pitt e Gunn si piazzavano alle finestre ai due angoli opposti della costruzione. Il sole cominciava a lanciare i suoi raggi oltre i pendii dall'altra parte della montagna. L'oscurità era quasi sparita. Pitt era assalito dall'ansia. Avrebbero potuto impedire la fuga agli arabi che già stavano circondando la costruzione; ma se i terroristi a bordo della nave fossero sfuggiti alle squadre delle Forze Speciali e avessero raggiunto la miniera, lui e i suoi tre compagni sarebbero stati sopraffatti. Guardò dalla finestra la piccola locomotiva che scendeva lungo le rotaie nell'ultima corsa, a una velocità che aumentava a ogni giro delle ruote motrici. Le scintille eruttavano dal fumaiolo in un lungo pennacchio di fumo che si allungava un po' sghembo, sospinto dal vento. I vagoni sferragliavano e sobbalzavano sullo stretto binario. Mentre il convoglio si allontanava,
il fischio stridulo divenne il lamento lugubre di un'anima perduta nell'inferno. 57. Lo shock e la delusione erano evidenti negli occhi di Ammar quando si rese conto che la parete di ghiaccio non sarebbe caduta. Si girò di scatto verso Ibn. «Che cos'è successo?» chiese con voce incollerita. «Doveva esserci una catena di esplosioni.» Ibn sembrava impietrito. «Mi conosci bene, Suleiman Aziz. Io non sbaglio. Le cariche dovevano esplodere. La squadra di commando che abbiamo visto scendere dal ghiacciaio alla nave deve averle disinnescate quasi tutte.» Ammar fissò il cielo per un momento, alzò le mani e le lasciò ricadere. «Allah disegna strani percorsi nelle nostre vite», osservò filosoficamente. Poi un sorriso gli spuntò sulle labbra. «Il ghiacciaio può ancora cadere. Quando saremo in volo con il nostro elicottero, lo sorvoleremo e lanceremo bombe a mano nel crepaccio.» Anche Ibn sorrise. «Allah non ci ha abbandonati», disse. «Non dimenticare che qui sulla terraferma siamo al sicuro, mentre ai messicani tocca battersi con gli americani.» «Sì, mio vecchio amico, hai ragione, dobbiamo ad Allah se ci siamo salvati in tempo.» Ammar lanciò uno sguardo sprezzante alla nave. «Presto vedremo se gli dei aztechi potranno proteggere il capitano Machado.» «Era un verme, quello...» Ibn s'interruppe e inclinò la testa, poi alzò lo sguardo verso la montagna. «Sparano, alla miniera.» Anche Ammar ascoltò, ma sentì qualcosa d'altro: il fischio lontano d'una locomotiva. Era un suono incessante, sempre più forte. Poi vide il pennacchio di fumo e rimase a guardare allibito il treno che scendeva sfrecciando dalla montagna e affrontava le curve all'impazzata per poi lanciarsi in un lungo tratto rettilineo verso il pontile. «Che cosa fanno, quegli imbecilli?» Ammar vide il treno che si avventava sui binari mentre il fischio riempiva l'aria d'un suono acutissimo. I terroristi e gli ostaggi non erano preparati allo spettacolo incredibile di quel mostro scatenato. Rimasero immobili, affascinati e increduli. «Che Allah ci aiuti!» mormorò un uomo con voce rauca. «Salvati!» gridò Ibn. Era stato il primo a riprendersi. Cominciò a urlare
perché tutti si allontanassero dal binario. Vi fu una fuga frenetica mentre i vagoni, trainati dalla piccola locomotiva impazzita con gli stantuffi che si muovevano a ritmo frenetico, piombava sul pontile. I piloni di legno e l'assito tremarono sotto quell'assalto. L'ultimo vagone fu sbalzato via dalle rotaie, ma poiché era agganciato, continuò a essere trascinato come un bimbo urlante tirato per un orecchio. Si sollevarono nuvole di scintille mentre le ruote d'acciaio sferragliavano sui binari. Poi i binari terminarono e la locomotiva decollò all'estremità del pontile. Il treno volò nell'aria per un istante, come se si muovesse al rallentatore, poi la locomotiva precipitò nel fiordo. Miracolosamente la caldaia non scoppiò quando toccò l'acqua gelida. La locomotiva sparì con un sibilo immane e una gran nube di vapore, seguiti da uno stridore ciclopico di metallo torturato quando i vagoni si ammucchiarono uno sull'altro. Ammar e Ibn corsero all'estremità del pontile e, impotenti, guardarono le bolle e il vapore che salivano dall'acqua. «C'erano i corpi di due dei nostri che penzolavano dalla cabina», disse Ammar. «Li hai visti?» «Sì, Suleiman Aziz.» «Gli spari che hai sentito poco fa!» esclamò rabbiosamente Ammar. «Devono aver attaccato i nostri alla miniera. Abbiamo ancora una speranza di metterci in salvo se andiamo ad aiutarli prima che venga danneggiato l'elicottero.» Ammar indugiò solo il tempo necessario per ordinare a uno dei suoi uomini di procedere alla retroguardia con gli ostaggi. S'incamminò lungo il binario, quasi correndo, mentre i suoi terroristi lo seguivano in fila indiana. La paura e l'incertezza ingigantivano nella mente di Ammar. Se l'elicottero fosse stato distrutto non avrebbero potuto fuggire, e su quell'isola deserta non avrebbero trovato un posto dove nascondersi. Le Forze Speciali americane li avrebbero stanati a un a uno oppure li avrebbero abbandonati a morire di freddo o di fame. Ammar era deciso a sopravvivere, se non altro per uccidere Yazid e trovare il demonio che l'aveva seguito fino a Santa Inez e aveva sventato i suoi piani. Il fragore della battaglia aumentò e riverberò sui fianchi della montagna. Ammar ansimava per lo sforzo della corsa in salita; ma strinse i denti e allungò il passo. Il capitano Machado era nella timoneria quando udì o meglio sentì nei
nervi la detonazione smorzata sul ghiacciaio. S'irrigidì per un momento e rimase in ascolto. Ma l'unico suono era il ticchettio di un grosso orologio fissato sopra le finestre della plancia. Poi impallidì. Il ghiacciaio, pensò, doveva essere sul punto di spaccarsi. Si precipitò in sala comunicazioni e trovò uno dei suoi uomini che fissava la telescrivente. L'uomo alzò gli occhi. «Mi è sembrato di sentire un'esplosione.» Il sospetto attanagliò le viscere di Machado. «Hai visto l'operatore radio o il capo degli egiziani?» «Non ho visto nessuno.» «Neppure un arabo?» «No, da almeno un'ora.» L'operatore radar tacque per un momento. «Non ne ho visto nessuno da quando ho lasciato la sala da pranzo e ho preso servizio. Dovrebbero sorvegliare i prigionieri e i ponti esterni, perché sono i compiti che si sono assunti così stupidamente.» Machado fissò la sedia vuota davanti alla radio. «Forse non sono tanto stupidi.» Andò al banco davanti al timone e guardò attraverso le feritoie aperte nel rivestimento di plastica davanti alle finestre. Ormai c'era luce a sufficienza per vedere la parte anteriore della nave. Scorse diversi squarci nella plastica. Troppo tardi vide le corde che scendevano dalla sommità del ghiacciaio e passavano nelle aperture. Troppo tardi si voltò per dare l'allarme attraverso il sistema di altoparlanti. Ma restò immobile prima di avere il tempo di emettere un suono. Sulla soglia c'era un uomo. L'uomo era vestito completamente di nero. Le mani e la parte del volto visibile attraverso il passamontagna erano annerite. Al collo portava appeso un paio di occhialoni per la visione notturna. La corazza antiproiettile era piena di tasche e moschettoni che contenevano bombe a mano di vario tipo, tre coltelli e altri temibili strumenti per uccidere. Machado socchiuse le palpebre. «Chi sei?» domandò. Ma sapeva di avere di fronte la morte. Mentre parlava, estrasse fulmineamente dalla fondina la pistola automatica da nove millimetri e sparò. Machado era abilissimo. Wyatt Earp, Doc Holiday e Bat Masterson sarebbero stati fieri di lui. Il colpo centrò l'intruso in mezzo al petto. Con un giubbotto antiproiettile di tipo più antiquato, la forza stessa del colpo avrebbe schiantato una costola o arrestato il cuore. Ma quelli indos-
sati dagli uomini delle Forze Speciali erano l'ultimo modello. Potevano fermare persino il colpo d'un 308 NATO e distribuire l'impatto in modo da causare soltanto un livido. Dillinger trasalì, avanzò d'un passo e, con lo stesso movimento, premette il grilletto dell'Heckler & Koch. Anche Machado aveva addosso un giubbotto antiproiettile, ma del modello più vecchio. La raffica di Dillinger gli crivellò il petto. Inarcò la schiena e arretrò barcollando, poi cadde contro il sedile del comandante prima di stramazzare sul pavimento. La guardia messicana alzò le braccia e gridò: «Non sparare! Sono disarmato!» La raffica di Dillinger lo colpì alla gola, troncò il grido e lo scagliò contro la chiesuola della bussola, dove restò accasciato come un pupazzo. «Non muoverti o sparo», disse Dillinger, un po' in ritardo. Il sergente Foster girò intorno al maggiore e guardò il terrorista. «È morto, signore.» «L'avevo avvertito», commentò pacato Dillinger mentre inseriva nell'arma un altro caricatore. Foster sospinse il cadavere con il piede e lo girò. Una baionetta scivolò fuori da un fodero nascosto sotto il colletto e cadde rumorosamente. «Intuizione, maggiore?» chiese Foster. «Non mi fido mai di un uomo che dice di essere disarmato...» Poi Dillinger si fermò di colpo e rimase in ascolto. Anche Foster sentì. Si scambiarono un'occhiata perplessa. «Che cosa diavolo è?» chiese Foster. «Le usavano trent'anni prima che nascessi, ma giurerei che è il fischio d'una vecchia locomotiva a vapore.» «Sembra che stia scendendo la montagna dalla vecchia miniera.» «Credevo che fosse abbandonata.» «Quelli della NUMA dovevano aspettare lassù che ci fossimo impadroniti della nave.» «E perché dovrebbero aver messo in funzione una locomotiva?» «Non lo so.» Dillinger s'interruppe e guardò lontano, assalito da una certezza più forte. «A meno che... a meno che stiano cercando di dirci qualcosa.» La detonazione sul ghiaccio sorprese Hollis e i suoi nel salone da pranzo subito dopo una convulsa sparatoria.
I sommozzatori aveva tagliato il rivestimento di plastica e avevano trovato un passaggio tra i falsi container. Avevano varcato una porta ed erano entrati in una lounge deserta, comunicante con la sala da pranzo. Si erano sparpagliati riparandosi dietro colonne e mobili. Quattro di loro avevano tenuto sotto tiro la scala e due ascensori. E avevano sorpreso i terroristi messicani di Machado. Tutti i terroristi erano a terra, tranne uno. Era ancora in piedi dov'era stato colpito, e i suoi occhi semispenti rispecchiavano odio e un vago stupore. Poi si accasciò e stramazzò sulla moquette macchiandola di cremisi. Hollis e i suoi avanzarono scavalcando e aggirando i morti. Uno scricchiolio terribile risuonò nella parete di ghiaccio e fece tremare i pochi bicchieri e le bottiglie rimasti intatti dietro il banco del bar. Gli uomini delle Forze Speciali si scambiarono occhiate d'inquietudine, ma rimasero pronti a rientrare in azione. «La squadra del maggiore Dillinger si sarà lasciata scappare una carica», mormorò Hollis. «Qui non ci sono ostaggi, signore», disse uno degli uomini. «Sono tutti terroristi.» Hollis studiò le facce dei morti. Nessuno sembrava mediorientale. Doveva essere l'equipaggio del General Bravo, pensò. Si voltò, prese da una tasca una planimetria del ponte e la studiò per qualche istante. Poi parlò alla radio. «Maggiore, un rapporto sulla situazione.» «Finora abbiamo incontrato scarsa resistenza», rispose Dillinger. «Abbiamo trovato solo quattro dirottatori. Abbiamo occupato la plancia e liberato più di cento membri dell'equipaggio che erano rinchiusi nella stiva dei bagagli. Mi dispiace di non aver scoperto tutte le cariche.» «Ottimo lavoro. Ne avete disinnescate abbastanza per impedire che il ghiacciaio si spaccasse. Ora andrò alle cabine per liberare i passeggeri. Chiedi agli uomini della sala macchine di tornare ai loro posti e di darsi da fare. Non possiamo azzardarci a restare ai piedi della parete di ghiaccio un minuto più del necessario. State in guardia. Noi abbiamo fatto fuori altri sedici terroristi, tutti latini. Sulla nave devono esserci ancora venti arabi.» «Forse sono a terra.» «E perché?» «Un paio di minuti fa abbiamo sentito il fischio di una locomotiva. Ho ordinato a uno dei miei di arrampicarsi sull'albero del radar per controllare. Ha riferito di aver visto un treno che è sceso dalla miniera come una palla
da bowling ed è schizzato via da un pontile, dov'erano affollati più di venti terroristi.» «Lascia perdere, per il momento. Prima liberiamo gli ostaggi. Penseremo al resto quando saremo sicuri che la nave è in mano nostra.» «Ricevuto.» Hollis guidò i suoi uomini su per la maestosa scalinata. Senza far rumore avanzarono nel corridoio che separava le cabine. All'improvviso si fermarono quando uno degli ascensori salì ronzando dal ponte sottostante. La porta si aprì e ne uscì un terrorista ignaro. Aprì la bocca e fu l'unico movimento che riuscì a fare prima che uno degli uomini di Hollis lo colpisse alla testa con la canna del mitra. Per quanto sembrasse incredibile, non c'erano sentinelle davanti alle cabine. Gli uomini incominciarono a sfondare le porte a calci. Quando entrarono, trovarono i consiglieri egiziani e messicani e i collaboratori dei due presidenti. Ma di Hasan e di De Lorenzo non c'era traccia. Hollis sfondò l'ultima porta in fondo, piombò all'interno e si trovò di fronte a cinque uomini in uniforme. Uno si fece avanti e lo squadrò con aria di disprezzo. «Poteva girare la maniglia», disse. «Lei dev'essere il comandante Oliver Collins.» «Sì. Sono Collins. Come se non lo sapesse.» «Scusi se ho sfondato la porta. Sono il colonnello Morton Hollis delle Forze Speciali.» «Gesù, un americano!» esclamò il primo ufficiale Finney. Collins s'illuminò e si precipitò a stringere la mano di Hollis. «Mi perdoni, colonnello. Credevo che fosse uno di loro. Siamo felicissimi di vederla.» «Quanti sono i dirottatori?» chiese Hollis. «Dopo che sono saliti a bordo i messicani del General Bravo, direi che sono una quarantina.» «Ne abbiamo trovati appena venti.» Il volto di Collins mostrava i segni di quei giorni durissimi. Era molto dimagrito, ma si teneva ancora eretto. «Avete liberato i due presidenti, il senatore Pitt e la signorina Kamil?» «Purtroppo non li abbiamo ancora trovati.» Collins si precipitò fuori. «Li hanno chiusi nella suite qui di fronte.» Hollis si scostò, sbalordito. «Ma là non c'è nessuno», disse. «Abbiamo già ispezionato questo ponte.»
Il comandante corse nella suite vuota ma vide soltanto le coperte in disordine. La compostezza l'abbandonò. Sembrava stordito. «Mio Dio, li hanno portati via.» Hollis parlò nel microfono. «Maggiore Dillinger.» Dillinger impiegò cinque secondi per rispondere. «Ti sento, colonnello. Parla pure.» «Nessun contatto con i nemici?» «No, credo che li abbiamo presi tutti.» «Mancano almeno venti terroristi e gli ostaggi VIP. Li avete visti?» «Negativo. Neppure l'ombra.» «Bene, finite di rastrellare la nave e dite all'equipaggio di portarla fuori del fiordo.» «Impossibile», rispose Dillinger. «Qualche problema?» «Quei porci hanno sistemato a dovere la sala macchine. Hanno sfasciato tutto. Ci vorrà una settimana per rimettere la nave in condizioni di navigare.» «Non possiamo muoverci?» «Mi dispiace, colonnello. Siamo qui, e qui resteremo. I motori non possono portarci in alcun posto. Hanno sfasciato anche i generatori, inclusi quelli ausiliari.» «Allora dovremo portar via equipaggio e passeggeri con le scialuppe, servendoci degli argani a mano.» «Niente da fare, colonnello. Ci troviamo di fronte a una banda di sadici. Hanno reso inservibili anche le scialuppe. Le hanno sfondate.» Il rapporto di Dillinger era sottolineato da un rombo profondo che emanava dal ghiacciaio e faceva risuonare la nave come un tamburo. Questa volta non c'erano vibrazioni, ma soltanto un rombo che crebbe fino a raggiungere un'intensità agghiacciante. Durò quasi un minuto prima di smorzarsi. Hollis e Collins erano coraggiosi, su questo non c'era dubbio: ma ognuno dei due lesse la paura negli occhi dell'altro. «Il ghiacciaio sta per spaccarsi», disse rabbiosamente Collins. «La nostra sola speranza è tagliare le catene delle ancore e pregare che la marea ci porti fuori del fiordo.» «Mi creda, la marea non comincerà a defluire se non fra otto ore», disse Hollis. «Sta parlando con uno che se ne intende.» «Non fa altro che darmi belle notizie, eh, colonnello?»
«La prospettiva non è incoraggiante, vero?» «Non è incoraggiante», ripeté Collins. «È tutto quel che ha da dire? A bordo del Lady Flamborough ci sono quasi duecento persone. È necessario evacuarle immediatamente.» «Non posso far sparire un ghiacciaio con un colpo di bacchetta magica», spiegò con calma Hollis. «Posso portare via qualcuno con i gommoni e chiamare i nostri elicotteri perché si occupino degli altri. Ma ci vorrà almeno un'ora.» La voce di Collins assunse un tono spazientito. «Allora le consiglio di procedere finché siamo ancora vivi...» S'interruppe quando Hollis alzò bruscamente una mano. Hollis socchiuse le palpebre, sbalordito, quando una voce gli giunse attraverso l'auricolare. «Colonnello Hollis, sono sulla sua frequenza? Passo.» «Lei chi diavolo è?» scattò Hollis. «Sono il comandante Frank Stewart del Sounder della NUMA, al suo servizio. Posso darle un passaggio?» «Stewart!» gridò il colonnello. «Dov'è?» «Se riuscisse a vedere attraverso le porcherie che coprono le sovrastrutture, si accorgerebbe che sto incrociando nel fiordo a mezzo chilometro della sua fiancata di sinistra.» Hollis proruppe in un gran sospiro e fece un cenno a Collins. «Sta per raggiungerci una nave. Ha qualche richiesta?» Collins lo fissò, incredulo. Poi esplose: «Buon Dio, sì! Gli dica di prenderci a rimorchio». L'equipaggio di Collins si mise febbrilmente al lavoro, tolse le catene delle ancore a poppa e a prua e si tenne pronto con le gomene da ormeggio. Con straordinaria precisione, Stewart fece passare al primo tentativo la poppa del Sounder sotto la prua del Lady Flamborough. Le due gomene, lanciate dai marinai della nave da crociera, furono fissate prontamente alle bitte del Sounder. Non era il sistema di rimorchio più perfetto del mondo; ma le due navi non dovevano spingersi lontano in acque agitate, e la soluzione temporanea fu realizzata nel giro di pochi minuti. Stewart diede l'ordine «avanti adagio» fino a quando le gomene si tesero. Quindi fece aumentare gradualmente la velocità fino ad «avanti tutta» mentre si guardava alle spalle con un occhio rivolto al ghiacciaio e uno alla
grande nave. Le due eliche del Sounder, una anteriore e una posteriore, addentavano l'acqua mentre il potente motore diesel si sforzava al massimo. Il Sounder aveva la metà del tonnellaggio del Lady Flamborough e non era specializzato per compiti di rimorchio; ma ce la metteva tutta e s'impegnava come un cavallo da tiro, mentre sbuffi neri eruttavano dal fumaiolo. All'inizio sembrò che non accadesse nulla. Poi, impercettibilmente, un po' di spuma apparve intorno alla prua. Il Sounder si muoveva e trainava la nave da crociera lontano dall'ombra del ghiacciaio. Nonostante il pericolo i passeggeri, l'equipaggio e gli uomini delle Forze Speciali strapparono via il rivestimento di plastica e si affollarono sui ponti, come se volessero incitare il Sounder a muoversi. Dieci metri, poi venti e poi cento. La distanza fra la nave e il ghiacciaio cresceva con torturante lentezza. E finalmente il Lady Flamborough si allontanò. A bordo delle due navi tutti proruppero in un'acclamazione che echeggiò nel fiordo. Più tardi, il comandante Collins l'avrebbe definita l'acclamazione che, come l'ultima goccia proverbiale, aveva fatto traboccare il vaso. Uno scricchiolio foltissimo seguì le voci e si trasformò in un rombo tonante. Ai presenti parve che l'aria diventasse elettrica. Poi l'intera faccia del ghiacciaio piombò nel fiordo come una gigantesca petroliera varata di fianco. L'acqua ribollì, spumeggiò, si alzò in un'ondata alta tre metri che dilagò nel fiordo e sollevò le due navi come turaccioli prima di disperdersi nell'oceano. Il nuovo iceberg mostruoso si assestò nel canale profondo del fiordo. Scintillava come una distesa di diamanti color arancio sotto il sole appena spuntato. Poi il rombo discese dal fianco delle montagne ed echeggiò nelle orecchie dei presenti allibiti, i quali non riuscivano a credere di essere ancora vivi. 58. All'inizio ci fu una confusione totale, grida e spari alla cieca. Gli egiziani non avevano idea dell'entità del contingente che aveva sparato contro la mensa durante il passaggio del treno. Spensero le luci e cominciarono a sparare alle ombre fino a quando non si accorsero che le ombre non reagivano. Poi sei uomini uscirono, due dall'entrata principale, quattro dal retro, e si tuffarono al riparo. Quando furono in posizione, cominciarono a sparare
per coprire i compagni che poi li seguirono. Il capo, un individuo alto con il turbante nero, dirigeva i movimenti soffiando in un fischietto. Dopo l'inizio incerto, la squadra dei terroristi si rivelò per ciò che Pitt aveva temuto. Erano ben addestrati, esperti e duri. Nei combattimenti casa per casa erano i migliori del mondo; ed erano ben guidati. Il capo dal turbante nero era efficiente e metodico. Frugarono una costruzione dopo l'altra e avanzarono verso il frantoio fino a disporsi in semicerchio intorno alla costruzione. Gli assassini scelti a uno a uno da Ammar non avrebbero mai assaltato a casaccio^ Si muovevano furtivamente e in modo razionale. Il capo gridò qualcosa in arabo. Quando non ebbe risposta, un altro terrorista gridò da un punto diverso. Pitt immaginò che volessero avvertire la sentinella e i meccanici all'interno del frantoio. Ormai erano troppo vicini perché Pitt rischiasse di mostrarsi alla finestra. Si sfilò il passamontagna e il maglione che aveva tolto a un terrorista, li buttò sul pavimento, frugò in una tasca del giubbotto da sciatore e prese uno specchietto fissato a un manico telescopico. Sollevò lo specchio sopra il davanzale e allungò il manico, girandolo come un periscopio. Trovò il bersaglio che stava cercando: era nascosto per il novanta per cento, ma era visibile quanto bastava per un colpo mortale. Pitt spostò la levetta del selettore da AUTOMATICO a SINGOLO. Poi si alzò fulmineamente, prese la mira e premette il grilletto. Il vecchio, temibile Thompson crepitò. L'uomo dal turbante nero mosse due o tre passi, stordito. Poi barcollò e stramazzò bocconi. Pitt si acquattò, abbassò l'arma e guardò di nuovo nello specchietto. I terroristi erano scomparsi. S'erano riparati dietro le costruzioni o strisciavano sotto le macchine abbandonate e arrugginite. Pitt sapeva che non avrebbero desistito. Erano ancora là, pericolosi come sempre, e attendevano ordini dal vicecomandante. In quel momento Gunn sparò una raffica attraverso la sottile porta di legno d'una baracca dall'altra parte della strada. La porta si aprì lentamente, spinta dal peso di un corpo che si accasciò e cadde. Fino a quel momento nessuno aveva risposto al fuoco. Non erano stupidi, pensò Pitt. Si erano accorti che non avevano a che fare con forze superiori, e prendevano tempo per raggrupparsi e considerare le varie possibilità. E gli arabi avevano capito che gli assalitori sconosciuti s'erano impadro-
niti del loro elicottero ed erano asserragliati nell'edificio del frantoio. Pitt corse a fianco di Gunn. «Come ti sembra la situazione dalla tua parte?» «Tranquilla. Se la prendono calma. Non vogliono rovinare il loro elicottero.» «Credo che intendano creare una diversione all'entrata principale per poi tentare d'irrompere attraverso l'ufficio laterale.» Gunn annuì. «Mi pare logico. Sarà meglio trovare ripari migliori, lontano dalle finestre. Dove vuoi che mi piazzi?» Pitt alzò lo sguardo verso le passerelle sospese. Indicò una fila di piccoli lucernari che circondavano la torre dell'argano. «Sali lassù e fai la guardia. Grida quando lanceranno l'attacco e accoglili con una sventagliata attraverso la porta principale. Poi ridiscendi. Non si faranno scrupolo di crivellare le pareti al di sopra dell'elicottero.» «Vado.» Pitt arrivò all'ufficio, si soffermò sulla soglia e si rivolse a Giordino e a Findley. «Come va?» chiese. Giordino, che stava spalando il minerale abbandonato per fare una barricata, alzò gli occhi. «La Fortezza Giordino sarà ultimata in tempo.» Findley smise di lavorare. «La F viene prima della G. Si chiama Fortezza Findley.» Pitt scosse la testa e si chiese perché mai aveva la fortuna di avere amici così incredibili. Avrebbe voluto dir loro qualcosa, esprimere la sua gratitudine perché rischiavano la vita tentando di fermare una banda di assassini mentre avrebbero potuto nascondersi fino all'arrivo di Hollis e degli altri. Ma quelli avevano compreso. Gli uomini come loro non avevano bisogno di parole di apprezzamento o d'incoraggiamento. Sarebbero rimasti e avrebbero combattuto fino alla morte. Pitt pregò Dio che nessuno di loro morisse invano. «Ne discuterete più tardi», disse, «e preparate un'accoglienza calorosa se quelli riusciranno a superarmi.» Poi entrò nell'ufficio umido e odoroso di muffa. Controllò il Thompson e lo posò. Dopo aver costruito una barriera con due scrivanie rovesciate, uno schedario metallico e una massiccia stufa di ghisa, si sdraiò sul pavimento e attese. Non dovette aspettare a lungo. Dopo un momento gli sembrò di sentire un leggero scricchiolio sulla ghiaia. Il suono si fermò, riprese, smorzato
ma inconfondibile. Pitt alzò il Thompson e lo puntellò sullo schedario. Troppo tardi, Gunn lanciò un avvertimento. Poi ne arrivò un altro. Pitt si acquattò dietro lo schedario, imprecando contro la propria sventatezza. Le due bombe a mano esplosero con un fragore assordante. L'ufficio eruttò in un turbine di mobili sfasciati, di frammenti di legno e di carta ingiallita. La parete esplose verso l'esterno e quasi tutto il soffitto crollò. Pitt era stordito dallo spostamento d'aria e dal tuono assordante. Non gli era mai accaduto di trovarsi tanto vicino a un'esplosione, e si sentiva intontito. La stufa aveva incassato quasi tutta la violenza dello scoppio, ma non era troppo deformata. I fianchi rotondi erano crivellati di fori. Lo schedario era contorto, le scrivanie mutilate, ma Pitt se l'era cavata con un taglio sottile anche se profondo alla coscia sinistra e una ferita di cinque centimetri sulla guancia. L'ufficio era sparito; aveva lasciato il posto a un mucchio di rottami fumanti. Per un momento Pitt temette di venir intrappolato dal fuoco. Ma il timore si placò. Il legno vecchio della costruzione, fradicio di pioggia, sfrigolava in diversi punti ma non si incendiava. Con uno sforzo di volontà, Pitt regolò il selettore su AUTOMATICO e puntò la canna del Thompson verso la porta sfondata. Il sangue gli scorreva sul volto e sotto il colletto. Il suo sguardo non deviò quando sopra la sua testa passarono le raffiche delle armi dei quattro uomini che si avventarono alla carica attraverso i varchi aperti nella parete esterna. Senza provare rimorso né paura, Pitt sparò a sua volta una lunga raffica che spazzò via gli attaccanti come alberi travolti da un tornado. Alzarono le braccia come danzatori impazziti e, roteando su se stessi, piombarono sul pavimento. Altri tre terroristi seguirono la prima ondata e Pitt li fermò con la stessa prontezza... tutti, eccettuato uno che reagì fulmineamente e si buttò dietro un divano di cuoio sventrato e fumante. Poi Pitt sentì come un rombo di cannone quando Findley si buttò in ginocchio dietro di lui e sparò per tre volte contro la base del divano. Frammenti di cuoio, d'imbottitura e di legno zampillarono nell'aria. Un attimo di silenzio, poi un braccio del terrorista ricadde senza vita al di là dei piedi intagliati del mobile. Giordino apparve in mezzo al fumo, afferrò Pitt per le ascelle e lo trascinò nell'area del frantoio, dietro un vecchio carrello per minerale. «Possibile che tu debba sempre combinare un disastro?» fece, con un
sorriso. Poi assunse un'espressione preoccupata. «È una cosa seria?» Pitt si asciugò il sangue dalla guancia e abbassò lo sguardo sulla macchia cremisi che si allargava sulla gamba. «Accidenti, un paio di pantaloni da sci bellissimi... Rovinati! È questo che mi manda in bestia.» Findley s'inginocchiò, tagliò la stoffa e cominciò a fasciare la ferita. «È stato fortunato a cavarsela con un paio di graffi.» «No, sono stato uno stupido a non pensare alle bombe a mano», disse rabbiosamente Pitt. «Avrei dovuto prevederlo.» «È inutile prendertela con te stesso.» Giordino alzò le spalle. «Non è questo, il nostro genere di lavoro.» Pitt alzò la testa. «È meglio che ci svegliamo in fretta se vogliamo essere ancora vivi quando arriveranno quelli delle Forze Speciali.» «I terroristi non tenteranno un altro assalto da quella direzione», disse Findley. «L'esplosione ha distrutto la scala esterna. Sarebbero bersagli facili se tentassero di arrampicarsi.» «Potrebbe essere l'occasione buona per bruciare l'elicottero e andarcene», suggerì Pitt. «Le cose vanno male.» Gunn si lasciò cadere da una scaletta. «Ne ho visti altri venti che salgono lungo il binario come se avessero il diavolo alle calcagna. Dovrebbero essere qui fra sette od otto minuti.» Giordino lo guardò insospettito. «Quanti?» «Ho smesso di contare quando sono arrivato a quindici.» «Mi sembra sempre più consigliabile filarcela», borbottò Findley. «Hollis e i suoi uomini?» chiese Pitt. Gunn scosse la testa. «Non si vedono.» S'interruppe per trarre un respiro profondo e si voltò verso Pitt. «I rinforzi dei terroristi sono seguiti da quattro ostaggi con due guardie. Li ho riconosciuti guardandoli con il binocolo. Uno è tuo padre. Lui e una donna aiutavano gli altri due uomini a camminare.» «Hala Kamil, grazie al cielo», disse Pitt con immenso sollievo. «E per fortuna il mio vecchio è vivo.» «E gli altri due?» chiese Giordino. «Con ogni probabilità sono i presidenti Hasan e De Lorenzo.» «Tanti saluti al pensionamento anticipato», borbottò Findley mentre metteva l'ultimo cerotto sulla fasciatura di Pitt. «I terroristi tengono in vita mio padre e gli altri solo per garantirsi la fuga», disse Pitt. «E non esiteranno ad assassinarli a uno a uno fino a che non gli conse-
gneremo l'elicottero», aggiunse Gunn. Pitt annuì. «Senza il minimo dubbio. Ma se ci arrendessimo, potrebbero assassinarli comunque. Hanno già cercato due volte di uccidere Hala, e senza dubbio vogliono morto anche Hasan.» «Proclamiamo una tregua e negoziamo.» Pitt guardò l'orologio. «Non negozieranno a lungo. Sanno di non avere molto tempo. Ma potremmo guadagnare qualche minuto.» «Che piano hai?» chiese Giordino. «Continuiamo a batterci finché sarà necessario.» Pitt si rivolse a Gunn. «Gli ostaggi erano circondati dai terroristi?» «No, erano più indietro di circa duecento metri rispetto al grosso del gruppo», rispose Gunn. «Ed erano sorvegliati da due uomini appena.» Guardò Pitt negli occhi e annuì. «Vuoi che faccia fuori le guardie e protegga il senatore e gli altri fino a che arriverà Hollis?» «Tu sei il più piccolo e il più svelto, Rudi. Se c'è qualcuno che può uscire da qui inosservato e aggirare le due guardie mentre noi le distraiamo, quello sei tu.» Gunn alzò le mani e le lasciò ricadere ai fianchi. «Grazie per la fiducia. Spero solo di farcela.» «Ce la farai.» «Resterete in tre soli a difendere la fortezza.» «Dovremo arrangiarci.» Pitt si alzò faticosamente in piedi e si avvicinò agli indumenti dei terroristi che aveva buttato sul pavimento. Li consegnò a Giordino. «Metti questi. Ti scambieranno per uno di loro.» Gunn non si mosse. Esitava a lasciare gli amici. Giordino gli posò una mano sulla spalla e lo spinse verso un passaggio usato per la manutenzione che scendeva sotto il pavimento e girava intorno al frantoio gigantesco. «Puoi uscire da qui», disse con un sorriso. «Aspetta che l'atmosfera si scaldi prima di muoverti.» Gunn si trovò nel corridoio prima di poter protestare. Lanciò un'ultima occhiata a Pitt, l'incredibile e indistruttibile Dirk Pitt, e quello lo salutò con un cenno baldanzoso. Guardò Giordino, solido e affidabile, che mascherava la preoccupazione con un'espressione spensierata. In quanto a Findley, questi gli rivolse un sorriso smagliante e alzò entrambi i pollici. Lo addolorava lasciarli perché non sapeva se li avrebbe rivisti vivi. «Fatevi trovare qui al mio ritorno», disse. «Capito?» Poi s'infilò sotto il pavimento e sparì.
59. Hollis camminava avanti e indietro accanto alla minuscola piazzuola d'atterraggio che i marinai del Lady Flamborough avevano preparato in tutta fretta sopra la piscina. Un elicottero Carrier Pigeon si posò e un gruppo di uomini rimase in attesa a bordo. Hollis si fermò quando sentì altri spari che provenivano dalla direzione della miniera. Il suo volto era una maschera di preoccupazione. «Carica e parti», gridò a Dillinger. «Lassù c'è qualcuno che sta combattendo per noi.» «La miniera doveva essere il punto scelto dai sequestratori per la fuga», disse il comandante Collins che era al fianco di Hollis. «E per colpa mia Dirk Pitt e i suoi amici sono finiti nelle loro fauci», esclamò Hollis. «C'è la possibilità di arrivare in tempo per salvare loro e gli ostaggi?» chiese Collins. Hollis scosse la testa, disperato. «Nessuna possibilità.» Rudi Gunn ringraziò il cielo per quell'acquazzone improvviso che lo nascondeva mentre si allontanava strisciando dal frantoio sotto una fila di carrelli vuoti. Quando fu abbastanza lontano dalle costruzioni, scese per qualche centinaio di metri lungo il fianco della montagna, quindi tornò indietro. Trovò il binario a scartamento ridotto e cominciò a camminare sulle traversine senza far rumore. Non poteva vedere a una grande distanza; ma pochi minuti dopo aver lasciato il frantoio si fermò di colpo quando distinse alcune figure vaghe un poco più avanti, sotto la pioggia. Quattro erano sedute, due in piedi. Gunn si trovò di fronte a un dilemma. Immaginava che gli ostaggi si fossero seduti per riposare mentre le guardie restavano in piedi. Ma non poteva sparare e accertare più tardi se la sua supposizione era esatta. Doveva contare sugli indumenti da terrorista per potersi avvicinare abbastanza per distinguere gli amici dai nemici. C'era un unico inconveniente, ed era un grosso inconveniente. Conosceva solo due o tre parole d'arabo. Respirò profondamente e si avvicinò. Disse: «Salaam» e ripeté la parola ancora due volte con voce calma e controllata.
I due in piedi gli apparvero più nitidi quando si accostò. Vide che imbracciavano i mitra e li puntavano verso di lui. Uno rispose con una frase che Gunn non riuscì a interpretare. Si augurò che gli avesse domandato: «Chi va là?» «Muhammad», borbottò, affidandosi al nome del profeta mentre teneva l'Heckler & Koch contro il petto con la canna puntata a lato. I battiti del cuore di Gunn si calmarono considerevolmente quando i due terroristi abbassarono le armi e ripresero a fare la guardia. Continuò ad avanzare fino a quando arrivò al loro fianco, in modo da non colpire gli ostaggi. Poi, senza staccare gli occhi dai quattro che stavano seduti con aria desolata a terra fra i binari e senza guardare gli arabi, premette il grilletto. Ammar e i suoi erano sull'orlo dello sfinimento totale quando arrivarono nei pressi della miniera. L'acquazzone aveva infradiciato e appesantito i loro indumenti. Superarono un lungo mucchio di scorie ed entrarono in una baracca che un tempo aveva contenuto i pezzi di ricambio per l'attrezzatura mineraria. Ammar si lasciò cadere su una panca e chinò il mento sul petto. Respirava affannosamente. Alzò gli occhi quando Ibn entrò in compagnia di un altro uomo. «Questo è Mustafa Osman», disse Ibn. «Dice che un commando ha ucciso il capo del loro gruppo e si è barricato nel frantoio con il nostro elicottero.» Ammar fece una smorfia di collera. «Come avete potuto permettere che succedesse una cosa simile?» Gli occhi neri di Osman avevano un'espressione di panico. «Siamo stati... colti alla sprovvista», balbettò. «Devono essere scesi dalla montagna. Hanno sopraffatto le sentinelle, si sono impadroniti del treno e hanno sparato contro il nostro alloggio. Quando siamo andati al contrattacco ci hanno sparato dal frantoio.» «Che perdite abbiamo subito?» chiese freddamente Ammar. «Siamo rimasti in sette.» L'incubo era ancora più brutto di quanto Ammar avesse immaginato. «E loro quanti sono?» «Venti, forse trenta.» «Sette uomini ne tengono impegnati trenta», ringhiò Ammar in tono sarcastico. «Voglio sapere quanti sono. E questa volta voglio la verità, o Ibn ti
taglierà la gola.» Osman evitò di guardare Ammar negli occhi. Era gelato dalla paura. «È impossibile saperlo con certezza», mormorò. «Forse quattro, forse di più.» «Quattro uomini hanno fatto tutto questo?» chiese sbalordito Ammar. Fremeva, ma il suo senso di disciplina era troppo radicato per essere vinto dalla collera. «E l'elicottero? È danneggiato?» Osman parve rianimarsi un po'. «No, siamo stati attenti a non sparare contro la parte della costruzione in cui si trova. Sarei pronto a giurare sull'onore di mio padre che non è stato colpito.» «Soltanto Allah sa se i commando l'hanno sabotato», disse Ibn. «Tutti noi vedremo Allah molto presto se non lo recupereremo in condizioni di volare», commentò Ammar. «L'unico modo per sopraffare gli avversari consiste nel penetrare da tutte le parti e schiacciarli con la nostra superiorità numerica.» «Forse potremo servirci degli ostaggi per trattare e trovare un modo di andarcene», disse Ibn. Ammar annuì. «È una possibilità. Gli americani sono molto deboli di fronte alle minacce di morte. Andrò a parlamentare con il nostro nemico sconosciuto mentre tu piazzerai in posizione gli uomini per l'assalto.» «Sii prudente, Suleiman Aziz.» «Tieniti pronto ad attaccare quando mi toglierò la maschera.» Ibn accennò un inchino e cominciò subito a impartire ordini. Ammar strappò da una finestra una tendina lacera. Un tempo la stoffa era bianca; adesso era diventata d'un giallo sporco. Ma poteva andare, pensò. La legò a una vecchia scopa e uscì dalla baracca. Procedette lungo una fila di dormitori per minatori, tenendosi fuori di vista del frantoio sino a quando ebbe attraversato la strada. Poi tese la tendina oltre l'angolo e l'agitò verso l'alto e verso il basso. Nessuno sparò alla bandiera della tregua, ma non accadde altro. Ammar provò a gridare in inglese. «Vogliamo parlamentare!» Dopo qualche istante una voce urlò: «No hablo inglés». Per un momento Ammar rimase sconcertato. La polizia cilena? Doveva essere molto più efficiente di quanto avesse immaginato. Sapeva parlare correntemente l'inglese e cavarsela con il francese, ma conosceva pochissimo lo spagnolo. Esitare non sarebbe servito a nulla. Doveva scoprire che cosa si frapponeva fra lui e la possibilità di mettersi in salvo. Alzò la bandiera, sollevò l'altra mano e uscì sulla strada di fronte al fran-
toio. Sapeva che paz significava «pace». Gridò questa parola molte volte. Finalmente un uomo aprì la porta principale e avanzò zoppicando sulla strada. Si fermò a pochi passi da lui. Lo sconosciuto era alto e aveva due intensi occhi verdi che ignoravano la dozzina di armi puntate contro di lui dalle finestre e dalle porte. Fissava Ammar. I capelli neri erano lunghi e ondulati, la pelle abbronzata dal sole, le sopracciglia piuttosto folte, le labbra decise atteggiate a un leggero sogghigno... e tutto contribuiva a conferire alla faccia mascolina anche se non bella un'espressione ingannevole di spiritoso distacco appena venato di fredda durezza. L'uomo aveva un taglio sanguinante a una guancia e una ferita alla coscia avvolta da una fasciatura. Forse la tuta da sciatore nascondeva un fisico snello, ma Ammar non era in grado di fare una valutazione precisa. Una mano era nuda mentre l'altra, inguantata, spuntava sotto una manica del giubbotto. Ad Ammar bastarono tre secondi per rendersi conto di avere di fronte un uomo pericoloso. Si frugò nella mente alla ricerca delle poche parole spagnole che conosceva. «Possiamo parlare?» Sì, come inizio andava bene. «¿Podemos hablar?» gridò. Un accenno di sogghigno si allargò in un sorriso disinvolto. «¿Porque no?» «¿Hacer capitular usted?» chiese Ammar. «Perché non la piantiamo con queste fesserie?» disse Pitt in inglese. «Lei parla spagnolo peggio di me. E la risposta alla domanda è: no, non ci arrenderemo.» Ammar era un professionista e si riprese immediatamente. Tuttavia era disorientato dal fatto che l'avversario indossasse una costosa tenuta sportiva anziché un'uniforme da combattimento. La prima possibilità che gli passò nella mente fu che si trattasse di un agente della CIA. «Posso chiedere come si chiama?» «Dirk Pitt.» «Io sono Suleiman Aziz Ammar.» «Non m'interessa», ribatté freddamente Pitt. «Come preferisce, signor Pitt», disse Ammar con calma. Poi inarcò un sopracciglio. «Per caso è parente del senatore George Pitt?» «Non frequento gli ambienti politici.» «Ma lo conosce. Vedo che gli somiglia. Forse è il figlio?»
«Possiamo continuare la discussione? Ho dovuto interrompere una colazione innaffiata da champagne per uscire sotto la pioggia.» Ammar rise. Quell'uomo era incredibile. «Lei ha qualcosa di mio. Vorrei che mi venisse restituito in ottime condizioni.» «Ovviamente sta parlando di un elicottero privo di contrassegni.» «Ovviamente.» «Chi trova qualcosa se la tiene. Se lo vuole, amico, venga a prenderlo.» Ammar contrasse e decontrasse i pugni. Le cose non stavano andando come aveva sperato. Continuò con voce suadente. «Moriranno alcuni dei miei uomini, lei morirà, e suo padre morirà sicuramente se non mi consegnerà l'elicottero.» Pitt non batté ciglio. «Ha dimenticato di aggiungere Hala Kamil e i presidenti De Lorenzo e Hasan. E non trascuri di includere anche lei. Non c'è motivo per cui non debba finire sottoterra come gli altri.» Ammar lo fissò, sempre più infuriato. «Non riesco a credere alla sua ostinata stupidità. Che cosa ci guadagnerà, da un altro spargimento di sangue?» «Toglierò di mezzo un branco di delinquenti», disse Pitt in tono aspro. «Quando si vuol fare una guerra, la si dichiara, non si va in giro subdolamente a massacrare donne e bambini e a sequestrare ostaggi che non possono difendersi. Il terrore finisce qui. Non sono vincolato ad altre leggi che la mia. Per ognuno dei nostri che ucciderete, seppelliremo cinque dei vostri.» «Non sono venuto qui sotto la pioggia per discutere le nostre divergenze politiche!» ribatté Ammar, sforzandosi di dominarsi. «Mi dica se l'elicottero è stato danneggiato.» «Non ha neppure un graffio. E posso aggiungere che i piloti sono ancora in condizioni di volare. È contento?» «Farebbe bene a consegnare le armi e a restituirmi l'elicottero e l'equipaggio.» Pitt alzò le spalle. «Al diavolo.» Ammar era sconvolto: non era riuscito a intimidirlo. Assunse un tono gelido. «Quanti uomini ha? Quattro? Cinque? Saremo otto contro uno.» Pitt accennò con la testa ai cadaveri che giacevano intorno al frantoio. «Si accomodi. Secondo i miei calcoli, è in svantaggio di nove morti a zero.» Poi, come per un ripensamento, soggiunse: «Prima che lo dimentichi... le do la mia parola che non saboterò l'elicottero. Sarà suo e in condizioni perfette, se riuscirà a prenderlo. Ma provi a fare qualcosa a uno degli o-
staggi, e lo farò saltare in aria. Questo è l'unico accordo che sono disposto a concludere». «È la sua ultima parola?» «Sì, per il momento.» Un pensiero si cristallizzò nella mente di Ammar. Una rivelazione improvvisa lo colpì. «È stato lei!» gracchiò. «È stato lei a condurre qui le Forze Speciali americane!» «Quasi tutto il merito è della fortuna», rispose modestamente Pitt. «Ma dopo che ho trovato il relitto del General Bravo e un rotolo di plastica dimenticato, tutto è diventato chiaro.» Ammar tacque per un momento, sbalordito, poi si riprese e disse: «Non rende giustizia alle sue capacità di deduzione, signor Pitt. Riconosco che il coyote ha stanato la volpe». «La volpe?» ribatté Pitt. «Non si sopravvaluti. Forse intendeva dire il verme.» Ammar socchiuse le palpebre. «L'ucciderò personalmente, Pitt, e mi darà un grande piacere farla a pezzi. Che cosa ne dice?» Non c'era un'espressione di furore negli occhi di Pitt, né odio sul suo volto. Ricambiò lo sguardo di Ammar con il disgusto pensieroso che si può mostrare quando si osserva un cobra dietro un vetro in un'esposizione di serpenti. «La saluto», disse. Voltò le spalle ad Ammar e s'incamminò con disinvoltura verso la porta del frantoio. Furioso, Ammar gettò a terra la bandiera bianca e si avviò nella direzione opposta. Mentre si muoveva, estrasse dalla tasca interna una semiautomatica americana Ruger P.85 da nove millimetri. All'improvviso si voltò, si strappò la maschera e assunse la posa classica con la Ruger impugnata a due mani. Nell'attimo in cui inquadrò nel mirino il centro della schiena di Pitt, premette sei volte il grilletto in una successione fulminea. Vide i proiettili penetrare nel giubbotto di Pitt in un gruppo di fori irregolari, vide la violenza dell'impatto mandare l'odiato nemico a urtare contro il muro del frantoio. Ammar attese che Pitt cadesse. Sapeva con assoluta certezza che il suo antagonista sarebbe morto prima di toccare il suolo. 60.
A poco a poco Ammar si rese conto che Pitt non si comportava come avrebbe dovuto. Non cadde a terra morto. Si voltò e Ammar lo vide sorridere come il diavolo. Si rese conto di essere stato battuto in astuzia. Pitt si aspettava un attacco proditorio alle spalle e si era protetto la schiena con un giubbotto antiproiettile sotto la tenuta da sciatore. E con un senso di orrore si accorse che la mano inguantata pendente dalla manica era finta. Un trucco da prestigiatore. La mano vera si era materializzata e impugnava una grossa Colt 45 automatica che sporgeva dal giubbotto semisbottonato. Ammar prese di nuovo la mira con la Ruger, ma Pitt sparò per primo. Il primo colpo prese Ammar alla spalla destra e lo fece girare di fianco. Il secondo gli trapassò il mento e la mandibola. Il terzo gli fracassò un polso mente alzava la mano verso la faccia. Il quarto attraversò il viso da parte a parte. Ammar rotolò sulla ghiaia e rimase steso sul dorso, ignaro della sparatoria che esplodeva intorno a lui. Non sapeva che Pitt era rientrato illeso nella costruzione del frantoio prima che gli arabi aprissero il fuoco. Si accorse vagamente che Ibn lo stava trascinando al sicuro dietro un serbatoio d'acqua in acciaio mentre una raffica sparata dal frantoio colpiva il suolo intorno a loro. Tese la mano brancolando e strinse la spalla di Ibn, poi l'attirò vicino. «Non riesco a vederti», sibilò. Ibn prese un grosso tampone chirurgico da un astuccio che portava alla cintura e lo premette sugli occhi straziati di Ammar. «Allah e io vedremo per te», disse Ibn. Ammar tossì e sputò il sangue che gli era disceso dal mento alla gola. «Voglio che quel satana di Pitt e gli ostaggi siano fatti a pezzi.» «Abbiamo incominciato l'attacco. Gli restano pochi secondi da vivere.» «Se muoio... uccidi Yazid.» «Non morirai.» Ammar fu scosso da un altro accesso di tosse prima di riuscire a parlare di nuovo. «Non importa... adesso gli americani distruggeranno l'elicottero. Devi trovare un modo per abbandonare l'isola. Lasciami... lasciami qui. È la mia ultima richiesta.» In silenzio, senza rispondere, Ibn sollevò Ammar e si avviò per allontanarsi dal teatro della battaglia.
Quando parlò, la sua voce era rauca ma sommessa. «Coraggio, Suleiman Aaiz», disse. «Ritorneremo insieme ad Alessandria.» Pitt ebbe appena il tempo di balzare oltre la porta, sfilarsi i due giubbotti antiproiettile che portava sulla schiena, rimetterne uno sul petto e rendere il secondo a Giordino prima che altre raffiche trapassassero le sottili pareti di legno. «Adesso è rovinato anche il giubbotto da sciatore», borbottò Pitt, mentre si acquattava sul pavimento. «Saresti morto se ti avesse sparato al petto», disse Giordino che si stava rimettendo il giubbotto. «Come sapevi che l'avrebbe fatto quando gli avessi voltato le spalle?» «Aveva l'alito cattivo e gli occhietti maligni.» Findley incominciò a passare da una finestra all'altra e a lanciare bombe a mano dopo aver strappato freneticamente gli spilli di sicurezza. «Eccoli!» gridò. Giordino si rotolò sull'assito e cominciò a sparare ininterrottamente stando al riparo d'una carriola piena di minerale. Pitt riprese il Thompson giusto in tempo per fermare due terroristi che erano riusciti chissà come ad arrampicarsi nel piccolo ufficio devastato. Gli uomini di Ammar caricarono la costruzione da ogni lato, sparando come pazzi. Era impossibile arrestare quella marea selvaggia. Sciamavano dovunque. Il crepitio degli AK-47 degli arabi e le raffiche più sonore del Thompson di Pitt erano intervallati dal rombo del fucile di Findley. Giordino ripiegò sino al frantoio e coprì Pitt e Findley sino a che arrivarono al riparo della fortezza improvvisata. I terroristi erano sorpresi perché non trovavano nemici che si acquattavano tremando o alzavano le mani in segno di resa. Avevano previsto che, una volta penetrati nella costruzione, avrebbero sopraffatto gli avversari grazie alla superiorità numerica, e invece si trovavano esposti a un fuoco sostenuto e venivano falciati come bestie. Pitt, Giordino e Findley decimarono la prima ondata. Ma gli arabi erano dotati di un coraggio fanatico, e imparavano in fretta. Gli spari e le esplosioni delle bombe a mano echeggiarono nel locale vastissimo prima di un nuovo assalto. Era il finimondo. I morti si ammucchiavano a terra e gli arabi si barricavano dietro i corpi dei compagni caduti. Era una scena spaventosa... i fucili che sparavano, le bombe che scoppiavano, e le grida e le imprecazioni in
due lingue appartenenti a due culture diverse quanto il giorno e la notte. La costruzione tremava. I proiettili e le schegge flagellavano i lati del grande frantoio meccanico come le scintille sprizzate da un secchio di acciaio fuso. L'aria era satura dell'odore pungente della polvere da sparo. In una dozzina di punti si alzarono fiamme che venivano ignorate da tutti. Giordino lanciò una bomba che tranciò il rotore di coda dell'elicottero. Ma sebbene avessero ormai perduto l'ultima speranza di fuggire, gli arabi combattevano con maggiore impegno. Il vecchio Thompson emise un fragore assordante e si arrestò. Pitt estrasse il caricatore rotondo da cinquanta colpi e ne inserì un altro... l'ultimo. Era animato da una volontà fredda e calcolatrice che non aveva mai conosciuto. Lui, Giordino e Findley non avevano intenzione di gettare la spugna. Ormai avevano superato il punto di non ritorno e non avevano paura di morire. Resistevano accanitamente e si battevano per sopravvivere. Per tre volte i terroristi arabi furono costretti ad arretrare e per tre volte si lanciarono alla carica nonostante il fuoco tremendo. Sebbene fossero ormai molto meno numerosi, tornarono a raggrupparsi e tentarono un ultimo assalto suicida, stringendo un cerchio sempre più serrato intorno agli avversali. Gli arabi non riuscivano a comprendere la decisione degli americani, l'impegno con cui si battevano, il loro atteggiamento di sfida. Gli americani volevano sopravvivere, mentre i musulmani cercavano una morte benedetta dal martirio. Pitt aveva gli occhi che bruciavano per il fumo e le lacrime gli scorrevano sulle guance. Il frantoio vibrava. I proiettili rimbalzavano sulle fiancate d'acciaio come calabroni inferociti. Quattro lacerarono una manica di Pitt e gli scalfirono la pelle. Gli arabi si avventarono contro il frantoio e si arrampicarono sulla barricata. La sparatoria si trasformò in un a corpo a corpo quando i due gruppi si scontrarono. Findley cadde quando due pallottole lo colpirono al fianco; ma rimase in ginocchio e mulinò il fucile scarico come se fosse una mazza da baseball. Giordino, che sanguinava da cinque ferite, scagliava pezzi di minerale con la mano destra, mentre il braccio sinistro era immobilizzato da un colpo alla spalla. Pitt esaurì il caricatore del Thompson e scagliò l'arma contro la faccia di un arabo che era apparso all'improvviso di fronte a lui, poi estrasse dalla
cintura la Colt automatica e cominciò a sparare a tutte le facce che spuntavano fra il fumo. Sentì una trafittura alla base del collo e comprese d'essere stato colpito. Scaricò anche la Colt ma continuò a battersi, usando la pesante pistola come se fosse una clava. Incominciava a sentire il sapore amaro della sconfitta. La realtà non esisteva più. Aveva la sensazione di lottare contro un incubo. Una bomba a mano scoppiò, un'esplosione così vicina da assordarlo. Un corpo gli piombò addosso, gli fece perdere l'equilibrio e lo fece cadere riverso. Batté la testa contro un tubo d'acciaio e una sfera di fuoco gli balenò nel cervello. Poi, come un'ondata che investe la riva, l'incubo lo assalì e lo sommerse. 61. Gli uomini delle Forze Speciali atterrarono e si raggrupparono dietro i monticelli di scorie che li nascondevano. Si sparpagliarono in formazione di battaglia e attesero l'ordine di avanzare. I tiratori scelti si piazzarono in posizione intorno alla miniera e incominciarono a sorvegliare ogni possibile movimento. Hollis, con Dillinger al fianco, salì strisciando sul monticello e sbirciò: gli parve di trovarsi in un cimitero. La miniera abbandonata era uno strano teatro per una battaglia, ma la pioggia gelida e il fianco brullo della montagna formavano uno sfondo appropriato per un massacro. Il cielo grigioscuro conferiva alle costruzioni cadenti l'aspetto di un luogo che non apparteneva al mondo reale. Gli spari erano cessati. Due edifici erano in fiamme e il fumo saliva ondeggiando verso le nubi basse. Hollis contò almeno sette cadaveri sparsi sulla strada accanto al frantoio. «Non vorrei esagerare», disse Hollis, «ma tutto questo non mi piace.» «Non c'è segno di vita», confermò Dillinger, che scrutava la scena con il binocolo. Hollis studiò con attenzione gli edifici per altri cinque secondi, poi parlò nella trasmittente. «Bene, muoviamoci con prudenza e avanziamo...» «Un momento, colonnello», l'interruppe una voce. «Che cosa c'è?» scattò Hollis. «Qui il sergente Baker, signore, sul fianco destro. C'è un gruppo di cinque persone che si avvicina lungo il binario.»
«Sono armati?» «No, signore. Camminano a mani alzate.» «Molto bene. Li circondi con i suoi uomini. Attento alle trappole. Io e il maggiore Dillinger stiamo per raggiungervi.» Hollis e Dillinger girarono intorno al monticello di scorie, raggiunsero il binario e si avviarono al piccolo trotto verso il fiordo. Dopo una settantina di metri, alcune figure umane presero forma sotto la pioggia scrosciante. Il sergente Baker si fece avanti per riferire. «Abbiamo gli ostaggi e un terrorista, colonnello.» «Avete salvato gli ostaggi?» esclamò Hollis. «Tutti e quattro?» «Sì, signore», rispose Baker. «Sono esausti, ma illesi.» «Ottimo lavoro, sergente», disse Hollis, e gli strinse la mano di slancio. I due ufficiali avevano imparato a memoria le facce dei due presidenti e del segretario generale dell'ONU durante il volo dalla Virginia, e conoscevano l'aspetto del senatore Pitt grazie ai telegiornali. Li raggiunsero e con immenso sollievo riconobbero i quattro VIP. E al sollievo si aggiunse lo stupore quando videro che il presunto terrorista prigioniero non era altri che Rudi Gunn. Il senatore Pitt strinse la mano di Hollis mentre Gunn faceva le presentazioni. «È una gioia vederla, colonnello», disse il senatore con un gran sorriso. «Ci scusiamo per il ritardo», borbottò Hollis, che ancora non aveva compreso perfettamente la situazione. Hala lo abbracciò e altrettanto fecero Hasan e De Lorenzo. Poi abbracciarono Dillinger, che diventò rosso come un pomodoro. «Le dispiacerebbe spiegarmi quel che sta succedendo?» chiese Hollis a Gunn. Gunn, evidentemente, trovava una grande soddisfazione nel rigirare il coltello nella piaga. «Ci ha fatti atterrare in un punto critico, colonnello. Abbiamo trovato nella miniera una ventina di terroristi più un elicottero ben nascosto che contavano di usare per lasciare l'isola. Lei non aveva ritenuto opportuno includerci nella sua rete di comunicazioni, quindi Pitt ha cercato di avvertirla lanciando il treno dalla montagna al fiordo.» Dillinger annuì. «L'elicottero spiega perché i terroristi arabi avevano abbandonato la nave lasciando che i messicani si arrangiassero.» «E il treno era il mezzo di cui si servivano per raggiungere la miniera», terminò Gunn. Hollis chiese: «Gli altri dove sono?»
«L'ultima volta che li ho visti prima che Pitt mi mandasse a liberare suo padre e gli altri tre, erano assediati nel frantoio.» «E voi quattro avete fatto fuori quasi quaranta terroristi?» chiese Dillinger in tono incredulo. «Pitt e gli altri due hanno impedito che gli arabi scappassero e hanno provveduto a creare un diversivo perché io potessi salvare gli ostaggi.» «Avevano una probabilità su dieci», osservò Hollis. «Quando li ho lasciati se la stavano cavando benissimo», riprese Gunn con aria solenne. Hollis e Dillinger si scambiarono un'occhiata. «Sarà meglio che andiamo a vedere», disse il colonnello. Il senatore Pitt si avvicinò. «Colonnello, Rudi mi ha detto che mio figlio è su alla miniera. Vorrei venire con voi.» «Mi dispiace, senatore. Non posso permetterlo prima di aver ripulito l'area.» Gunn passò il braccio intorno alle spalle del senatore. «Ci penso io. E non si preoccupi per Dirk. Quello ci seppellirà tutti.» «Grazie, Rudi. Le sono molto grato.» Hollis sembrava assai meno sicuro. «Temo che li abbiano uccisi tutti», confidò sottovoce a Dillinger. Dillinger annuì. «Non è possibile che siano sopravvissuti combattendo contro tutti quei terroristi.» Hollis fece un segnale e i suoi uomini cominciarono a muoversi come fantasmi in mezzo alle costruzioni. Quando si avvicinarono al frantoio, videro che i morti erano parecchi. Contarono tredici corpi che giacevano sulla strada e tutto intorno. La costruzione dov'era installato il frantoio era crivellata da centinaia di fori di proiettili e dagli squarci delle bombe a mano. Non era rimasto intatto un solo vetro. Tutte le porte erano a pezzi. Hollis e cinque uomini entrarono cautamente attraverso le brecce mentre Dillinger e i suoi si avvicinavano al varco sventrato che era stato l'ingresso principale. Dovunque si notavano princìpi d'incendio, che però non s'erano ancora uniti per formare un'unica, enorme conflagrazione. C'erano due dozzine di corpi sul pavimento; alcuni erano ammucchiati contro la parte anteriore del frantoio. L'elicottero era rimasto miracolosamente intero: soltanto la sezione di coda era danneggiata. In mezzo a quella carneficina c'erano tre uomini ancora vivi... così anneriti dal fumo, così insanguinati e malridotti che Hollis non riusciva a crede-
re ai suoi occhi. Uno era steso sul pavimento con la testa appoggiata sulle ginocchia di un altro che aveva il braccio infilato in una specie di benda incrostata di sangue. Il terzo era in piedi e barcollava. Perdeva sangue dalle ferite a una gamba, alla base del collo, alla sommità della testa e alla guancia. Hollis lo riconobbe solo quando arrivò a pochi metri da lui. Era sbalordito. Non capiva come fosse possibile che quei tre rottami umani avessero resistito e vinto nonostante le spaventose condizioni d'inferiorità. Gli uomini delle Forze Speciali si raggrupparono intorno a loro in silenziosa ammirazione. Il sorriso di Rudi Gunn arrivava da un orecchio all'altro. Hollis e Dillinger erano ammutoliti. Poi Pitt si erse faticosamente in tutta la sua statura e disse: «Era ora che vi faceste vedere. Non avevamo più niente da fare». PARTE QUARTA IL CIRCO ROMANO DI SAM
62. 27 ottobre 1991 Washington, D.C. Dale Nichols e Martin Brogan erano in attesa sui gradini della Casa Bianca mentre il presidente scendeva dall'elicottero e attraversava il prato a passo svelto. «Avete qualche notizia per me?» chiese il presidente mentre stringeva la mano ai due. Nichols non riusciva a nascondere l'emozione. «Abbiamo appena ricevuto un rapporto del generale Dodge. Le sue Forze Speciali hanno recuperato il Lady Flamborough nel Cile meridionale. Il senatore Pitt, Hala Kamil e i presidenti De Lorenzo e Hasan sono stati liberati e sono in buone condizioni.» Il presidente era stanchissimo dopo una serie di conferenze con il primo ministro canadese a Ottawa, ma s'illuminò. «Dio sia ringraziato. È davvero una magnifica notizia. Ci sono morti o feriti?» «Due uomini delle Forze Speciali sono stati feriti leggermente, ma tre della NUMA sono ridotti piuttosto male», riferì Brogan. «C'erano anche quelli della NUMA?» «Era stato Dirk Pitt a ritrovare la nave da crociera. Lui e altri tre hanno impedito ai dirottatori di fuggire portandosi via gli ostaggi.» «E così ha contribuito a salvare il padre.» «Sì, gran parte del merito è suo.» Il presidente si fregò le mani, soddisfatto. «È quasi mezzogiorno, signori. Perché non festeggiamo stappando una bottiglia di vino a pranzo, mentre mi fate un rapporto completo?» Il segretario di Stato Douglas Oates, il consigliere presidenziale per la Sicurezza Nazionale Alan Mercier e Julius Schiller parteciparono al pranzo. Dopo il dessert, Mercier distribuì le copie del rapporto inviato dal generale Dodge. Il presidente lesse mentre giocherellava con la forchetta. Poi alzò gli occhi con un'espressione di sorpresa e di trionfo. «Topiltzin!» «C'è dentro fino alle orecchie», disse Brogan. «È stato lui a fornire l'equipaggio di terroristi messicani e la nave da scambiare con il Lady Flam-
borough.» «Quindi ha effettivamente cospirato con il fratello nel sequestro della nave», disse il presidente. Nichols annuì. «I fatti lo confermano, ma non sarà facile provarlo.» «Si ha qualche idea circa l'identità della mente che ha organizzato l'operazione?» «Abbiamo qualche dato», rispose Brogan. «Questo è un dossier sul suo conto.» Porse al presidente un altro fascicolo. «Si è camuffato e ha assunto l'aspetto del comandante della nave durante la cattura, poi ha messo una maschera. Più tardi Dirk Pitt s'è incontrato a faccia a faccia con lui durante una tregua prima dello scontro. Ha detto di chiamarsi Suleiman Aziz Ammar.» «Mi sembra strano che Ammar si sia lasciato sfuggire il suo nome», mormorò Schiller. «Dev'essere falso.» Brogan scosse la testa. «No, è il nome vero. Abbiamo un grosso dossier sul suo conto, e ce l'ha anche l'Interpol. Ammar doveva aver pensato che Pitt fosse praticamente già morto e che quindi non aveva niente da perdere identificandosi.» Il presidente socchiuse le palpebre. «Secondo questi dati è sospettato di essere coinvolto direttamente o indirettamente in più di cinquanta omicidi di importanti personaggi politici. È possibile?» «Suleiman Aziz Ammar è considerato il top della sua professione.» «Un terrorista irriducibile.» «Un sicario», intervenne Brogan. «È specializzato in assassinii politici. Un tipo a sangue freddo. Abilissimo nel mascherarsi e nel fare piani particolareggiati. Come dice la canzone, 'nessuno sa farlo meglio di lui'. Metà dei suoi delitti erano così ben organizzati da essere considerati incidenti. È musulmano, ma ha accettato incarichi anche dai francesi e dai tedeschi, persino dagli israeliani. Si fa pagare molto salato. Ha ammassato un patrimonio considerevole grazie alla sua attività nella zona del Mediterraneo.» «Lo hanno catturato?» «No, signore», ammise Brogan. «Non era fra i morti o fra i feriti.» «È fuggito?» chiese brusco il presidente. «Se è ancora vivo, non può essere andato lontano», gli assicurò Brogan. «Pitt lo ha colpito con tre proiettili almeno. È stata lanciata una vasta caccia all'uomo. Non può fuggire dall'isola. Dovrebbero trovarlo entro poche ore.» «Sarebbe un grosso successo per i servizi segreti se fosse possibile con-
vincerlo a parlare», disse Nichols. «Il generale Dodge ha già avvertito il colonnello Morton Hollis di prendere ogni precauzione per catturare vivo Ammar. Ma il colonnello è convinto che, se verrà messo con le spalle al muro, Ammar si ucciderà.» Nichols alzò le spalle, rassegnato. «È probabile che Hollis abbia ragione.» «Non ci sono altri superstiti fra i dirottatori?» chiese il presidente a Brogan. «Otto che possiamo interrogare. Ma sembra che fossero soltanto mercenari assoldati da Ammar, e non seguaci fanatici di Yazid.» «Abbiamo bisogno delle loro confessioni per provare che Ammar lavorava per Yazid e Topiltzin», disse il presidente senza molto ottimismo. Schiller la pensava diversamente. «Consideri gli aspetti positivi, signore. La nave e gli ostaggi sono stati recuperati senza danni. Il presidente Hasan sa benissimo che Yazid lo voleva morto e aveva organizzato il dirottamento. Adesso provvederà lui a sistemarlo.» Il presidente lo guardò, poi girò lo sguardo su tutti gli altri. «Anche voi siete dello stesso parere, signori?» «Julius conosce piuttosto bene Hasan», disse Mercier. «È un tipo che può diventare molto cattivo quando gli fanno brutti scherzi del genere.» Doug Oates annuì. «A meno di imprevisti, credo che la proiezione di Julius sia esatta. Hasan non può correre il rischio di scatenare una rivoluzione facendo arrestare e processare Yazid per alto tradimento, ma sicuramente si toglierà i guanti e farà di tutto, omicidio escluso, per demolire la credibilità di Yazid.» «Ci sarà una reazione contro Yazid», dichiarò Brogan. «I fondamentalisti islamici moderati egiziani non amano il terrorismo. Volteranno le spalle a Yazid, e intanto il Parlamento darà tutto il suo appoggio al presidente Hasan. E, secondo me, i militari usciranno dalla loro torre d'avorio e si proclameranno fedeli a Hasan.» Il presidente bevve un ultimo sorso di vino e posò il bicchiere. «Devo confessare che la prospettiva mi piace.» «La crisi in Egitto non è finita», l'avvertì il segretario Oates. «Può darsi che Yazid venga estromesso dalla scena per un po', ma in assenza del presidente Hasan la Fratellanza Musulmana dei fondamentalisti fanatici si è alleata con i partiti liberale e laburista. Insieme stanno cercando di minare il potere di Hasan per trascinare l'Egitto sotto la legge islamica, troncare i legami con gli Stati Uniti e rinnegare gli accordi di pace con Israele.»
Il presidente guardò Schiller. «È d'accordo con le previsioni catastrofiche di Doug, Julius?» Schiller annuì, cupo in viso. «Sì.» «Martin?» L'espressione solenne di Brogan era molto eloquente. «L'inevitabile è soltanto rimandato. Il governo di Hasan cadrà. L'appoggio dei militari può esserci oggi e non esserci più domani. I miei esperti, a Langley, prevedono un colpo di Stato quasi incruento entro un periodo dai diciotto ai ventiquattro mesi.» «Io consiglio di assumere una posizione di attesa, signor presidente», si intromise Oates. «E di studiare la possibilità di trattare con un altro governo musulmano.» «Lei propone un atteggiamento isolazionista», disse il presidente. «Forse è ora che ci decidiamo a farlo», suggerì Schiller. «Tutto ciò che hanno tentato i suoi predecessori negli ultimi vent'anni non è servito a niente.» «Anche i russi perderanno», soggiunse Nichols. «E la nostra grossa consolazione consisterà nell'evitare che Paul Capesterre, alias Akhmad Yazid, causi un altro disastro tipo Iran. Avrebbe potuto distruggere tutti i nostri interessi in Medio Oriente.» «Non sono d'accordo con queste previsioni», disse Brogan. «Ma nel tempo che ci resta abbiamo ancora la possibilità di ingraziarci il prossimo padrone dell'Egitto.» Il presidente aggrottò la fronte. «A chi sta pensando?» «Al ministro egiziano della Difesa, Abu Hamid.» «Crede che s'impadronirà del potere?» «Sì, quando i tempi saranno maturi», spiegò con pazienza Brogan. «Ha dalla sua i militari e si è astutamente assicurato l'appoggio dei fondamentalisti moderati. Secondo me, Abu Hamid è destinato a spuntarla.» «Potrebbe capitarci di peggio», mormorò Oates con un sorriso forzato. «Non ha rifiutato di accettare favori e di attingere ai miliardi di dollari che abbiamo prodigato all'Egitto. Abu Hamid non è il tipo che guarda in bocca un caval donato. Oh, sicuro, farà il debito chiasso, condannerà Israele e maledirà gli Stati Uniti a uso e consumo dei fanatici religiosi, ma sotto l'apparente retorica terrà aperta una linea di comunicazione.» «E non ci danneggerà certo il fatto che sia in ottimi rapporti con Hala Kamil», commentò Nichols. Il presidente tacque. Fissò il bicchiere come se fosse una sfera di cristal-
lo. Poi lo prese. «Alla continuazione dei rapporti amichevoli con l'Egitto.» «Evviva», dissero all'unisono Mercier e Brogan. «All'Egitto», mormorò Oates. «E al Messico», soggiunse Schiller. Il presidente diede un'occhiata all'orologio e si alzò, subito imitato dai suoi consiglieri. «Mi dispiace lasciarvi, ma ho un incontro con una delegazione del Tesoro. Fate le mie congratulazioni a tutti coloro che hanno partecipato alla liberazione degli ostaggi.» Si rivolse a Oates. «Voglio incontrarmi con lei e con il senatore Pitt non appena tornerà.» «Per discutere quello di cui ha parlato con il presidente Hasan durante la loro brutta avventura?» «M'interessa di più sentire ciò che ha saputo dal presidente De Lorenzo sulla crisi a sud dei nostri confini. L'Egitto ha un'importanza secondaria rispetto al Messico. Possiamo presumere che Akhmad Yazid sia squalificato per il resto del campionato: ma Topiltzin è un pericolo molto grave. Concentratevi su di lui, signori. E Dio ci aiuti se non riusciremo a frenare la rivolta messicana.» 63. Pitt emerse lentamente dalla tenebra di un sonno profondo e tornò alla superficie luminosa della coscienza, ma si accorse di essere tormentato da dolori insistenti. Cercò di risprofondare nel vuoto accogliente. Ma aprì gli occhi. Ormai era troppo tardi. La prima cosa che vide fu una faccia rossa e sorridente. «Bene, è tornato fra i vivi», disse il primo ufficiale Finney. «Vado a informare il comandante.» Mentre Finney usciva, Pitt girò gli occhi senza muovere la testa e scorse un ometto calvo seduto accanto al letto. Ricordava che era il medico di bordo, ma il nome gli sfuggiva. «Mi scusi, dottore, ma non rammento il suo...» «Henry Webster.» Il dottore sorrise calorosamente. «E se vuol sapere dov'è, si trova nella suite più bella del Lady Flamborough, attualmente rimorchiato dal Sounder che lo sta portando a Punta Arenas.» «Per quanto tempo sono rimasto fuori combattimento?» «Mentre faceva rapporto al colonnello Hollis le ho curato le ferite. Poi le ho dato un forte sedativo. Ha dormito per circa dodici ore.»
«Allora non è strano che abbia una fame da lupo.» «Dirò allo chef di mandarle una delle sue specialità.» «Come stanno Giordino è Findley?» «È ammirevole che chieda delle condizioni dei suoi amici prima delle sue. Giordino è un tipo molto solido. Gli ho estratto quattro proiettili, ma non l'avevano colpito in punti pericolosi. Dovrebbe essere in grado di partecipare al veglione di Capodanno. Le ferite di Findley erano più gravi. Un paio di proiettili gli sono penetrati nel fianco destro e si sono fermati in un polmone e in un rene. Ho fatto tutto quello che potevo, poi lui e Giordino sono stati portati in elicottero a Punta Arenas e quindi trasferiti a Washington subito dopo che le ho dato il sedativo. Findley verrà operato da specialisti al Walter Reed Medical Center. Se non ci saranno complicazioni, dovrebbe riprendersi benissimo. A proposito, il suo amico Rudi Gunn ha pensato che quei due avessero più bisogno di lui, quindi li ha accompagnati.» Pitt non ebbe il tempo di rispondere. Il medico gli mise in bocca un termometro digitale, poi lo tolse, lo osservò e annuì. «In quanto a lei, signor Pitt, guarirà perfettamente. Come va?» «Non credo di essere in condizioni di partecipare a una gara di triathlon, ma, a parte la testa che martella e il bruciore al collo, non va male.» «È stato fortunato. Nessuno dei proiettili ha colpito un osso, un organo vitale o un'arteria. Le ho ricucito la gamba e il collo o, più esattamente, il muscolo trapezio. E anche la guancia. Un piccolo intervento di chirurgia plastica dovrebbe far sparire la cicatrice, a meno che, naturalmente, lei pensi che le donne la troveranno affascinante. La botta in testa ha causato una leggera commozione cerebrale. Le radiografie non hanno rivelato fratture. La mia prognosi è che fra tre mesi lei potrà fare la traversata della Manica a nuoto e suonare il violino.» Pitt rise e subito si tese perché i dolori l'assalirono da ogni parte. Webster lo guardò, un po' preoccupato. «Mi scusi, ho la tendenza a scherzare un po' troppo.» Pitt si rilassò e i dolori si attenuarono. Apprezzava l'umorismo degli inglesi: era di gran classe. Sorrise e fissò Webster con evidente rispetto. Sapeva che attribuiva scarsa importanza alla propria opera per pura modestia. «Se ridere mi fa male», disse Pitt, «non vedo l'ora di ricevere la sua parcella.» Questa volta fu Webster a ridere. «Sia prudente. Non voglio che rovini le mie superbe cuciture.»
Pitt si sollevò cautamente a sedere e tese la mano. «La ringrazio per quanto ha fatto per noi tre.» Webster si alzò e strinse la mano che gli veniva offerta. «È stato un onore curarla, signor Pitt. Ora la lascio. È l'uomo del giorno, e ci sono diversi visitatori illustri che attendono qui fuori.» «Arrivederci, dottore, e grazie ancora.» Webster strizzò l'occhio, andò alla porta, l'aprì e fece cenno di entrare. Il senatore Pitt era seguito da Hala Kamil, il colonnello Hollis e il comandante Collins. Gli uomini strinsero la mano a Pitt, ma Hala si chinò e gli diede un bacio. «Spero che il servizio della nave le sembri soddisfacente», disse il comandante Collins. «Nessuno ha mai passato la convalescenza in un ospedale più elegante», rispose Pitt. «Mi dispiace solo di non potermi crogiolare in questo lusso per un altro mese.» «Purtroppo la sua presenza è richiesta al nord entro domani», disse Hollis. «Oh, no», gemette Pitt. «Oh, sì», disse il senatore mostrando l'orologio. «Il Sounder ci rimorchierà nel porto di Punta Arenas fra un'ora e mezzo. Un aereo da trasporto dell'Aeronautica ci aspetta per condurre te, me e la signorina Kamil a Washington.» Pitt fece un gesto rassegnato. «Addio alla crociera di lusso.» Poi vennero le domande premurose sulle sue condizioni. Dopo qualche minuto, Hollis affrontò il problema che l'interessava. «Riconoscerebbe Ammar se lo rivedesse?» chiese. «Potrei identificarlo facilmente in un confronto all'americana. Non l'avete trovato? Eppure ho dato una descrizione particolareggiata della statura, del peso e dell'aspetto prima che il dottor Webster mi addormentasse.» Hollis gli porse un mucchietto di fotografie. «Queste le ha fatte il fotografo di bordo. Sono i dirottatori... quelli morti e quelli prigionieri. Fra loro c'è Suleiman Aziz Ammar?» Pitt esaminò con attenzione le foto e studiò i primi piani dei morti. Durante la battaglia gli erano sembrati senza volto, lo ricordava. Si chiese con curiosità morbosa quali erano stati uccisi da lui. Finalmente alzò la testa e la scosse. «Non è fra i vivi né fra i morti.» «È sicuro?» chiese Hollis. «Le ferite e le contrazioni della morte posso-
no alterare i lineamenti.» «Ero vicinissimo a lui, in condizioni che non dimenticherò mai. Mi creda, colonnello, le assicuro che qui non c'è.» Hollis prese dalla busta una foto più grande e la porse a Pitt senza dir nulla. Dopo qualche secondo, Pitt gli lanciò un'occhiata interrogativa. «Che cosa vuole che dica?» «È Suleiman Aziz Ammar?» Pitt restituì la foto. «Lo sa benissimo, altrimenti non avrebbe esibito magicamente una sua foto fatta in altri tempi e in un altro posto.» «Credo che il colonnello Hollis ti abbia nascosto qualcosa», disse il senatore. «Ammar non è stato trovato né vivo né morto.» «Allora i suoi uomini devono aver nascosto il cadavere», affermò Pitt in tono deciso. «Non l'ho mancato. Si è preso un colpo alla spalla e due in faccia. Ho visto uno dei suoi che lo trascinava al riparo, dopo che era caduto. Non è possibile che stia andando in giro con le sue gambe.» «Può darsi che il corpo sia stato sepolto», ammise Hollis. «Le ricerche condotte a terra e dall'aria non hanno trovato tracce di lui sull'isola.» «Quindi la volpe non è stata catturata», mormorò Pitt fra di sé. Il senatore lo guardò. «Che cosa?» «È qualcosa, che Ammar ha detto a proposito di un coyote e di una volpe quando ci siamo incontrati», rispose pensosamente Pitt. Poi si guardò intorno. «Scommetto che è sfuggito alla rete. Chi è disposto ad accettare la scommessa?» Hollis gli lanciò un'occhiataccia. «Si auguri che sia più morto d'un barracuda nel deserto perché altrimenti il nome di Dirk Pitt figurerà al primo posto nella sua lista nera.» Hala si accostò alla testata del letto di Pitt. Indossava una vestaglia di seta dorata con un fregio di geroglifici modernizzati. Gli posò la mano sulla spalla con molta delicatezza. «Dirk è debole», disse. «Ha bisogno di un buon pasto e di un po' di riposo fino al momento dello sbarco. Propongo di lasciarlo solo per un'ora.» Hollis rimise le foto nella busta e si alzò. «Bene, allora la saluto. Un elicottero mi aspetta per riportarmi a Santa Inez. Continueremo a cercare Ammar.» «Mi saluti il maggiore Dillinger.» «Senz'altro.» Per un momento, Hollis sembrò a disagio. Poi si avvicinò e gli strinse la mano. «Devo chiedere scusa a lei e ai suoi amici. Vi avevo
sottovalutati. Se vorrà passare dalla NUMA alle Forze Speciali, sarò il primo a firmare la raccomandazione.» «Non sarei molto adatto.» Pitt sorrise. «Ho l'allergia agli ordini.» «Sì, l'ha dimostrato», disse Hollis. Il senatore venne a stringere a sua volta la mano del figlio. «Ci vediamo sul ponte.» «Anch'io la saluterò allora», disse il comandante Collins. Hala non disse nulla. Fece uscire gli uomini dalla stanza, poi chiuse la porta e girò la chiave. Tornò verso il letto. Le pieghe della vestaglia l'avvolgevano in un modo tale da dare a Pitt l'impressione che sotto fosse nuda. Hala lo provò slacciando la cintura e facendo scivolare la vestaglia dalle spalle. Pitt sentì il fruscio della seta sulla pelle morbida. Hala sembrava una statua di bronzo, con i seni protesi, le mani contro le cosce, un piede leggermente davanti all'altro. Poi scostò le coperte. «Ho un debito con te», disse con voce un po' rauca. Pitt si vide riflesso negli specchi dell'armadio. Portava addosso soltanto la garza candida. La testa e mezza faccia erano avvolte nelle bende, come un lato del collo e la gamba ferita. Non si faceva la barba da una settimana e gli occhi erano iniettati di sangue. Aveva l'aria di un rottame umano che qualunque donna degna di questo nome avrebbe rifiutato. «Come don Giovanni faccio schifo», mormorò. «Per me sei bellissimo», mormorò dolcemente Hala mentre si sdraiava accanto a lui e gli passava le dita fra il pelo del petto. «Dobbiamo affrettarci. Ci resta meno di un'ora.» Pitt esalò un lungo sospiro. Il dottor Webster gliene avrebbe dette di tutti i colori, se si fosse sforzato troppo e avesse lacerato qualche punto. Era una resa vergognosa. Perché, si chiese, gli uomini tramano più intrighi di un servizio segreto per sedurre le donne, e quelle si eccitano nelle circostanze più assurde quando meno te lo aspetti? Era convinto più che mai che James Bond, in realtà, non doveva passarsela troppo bene. Quando Ammar si svegliò, vide soltanto la tenebra. Gli sembrava che un carbone rovente gli bruciasse nella spalla. Cercò di portarsi le mani alla faccia, ma quel semplice gesto trasformò una mano in un'esplosione di dolore. Poi ricordò i proiettili che l'avevano colpito al polso e alla spalla. Alzò la mano illesa per toccarsi gli occhi, ma le dita incontrarono solo un pezzo di tela che gli avvolgeva la testa e copriva il volto dalla fronte al
mento. Sapeva di aver perduto la vista. Non poteva accettare di vivere nella cecità, pensò. Cercò a tentoni un'arma, qualcosa per uccidersi. Toccò soltanto una superficie di roccia piatta e bagnata. Fu assalito dalla disperazione e non riuscì a reprimere la paura dell'impotenza. Si alzò in piedi barcollando, inciampò e cadde. Poi due mani l'afferrarono per le spalle. «Non muoverti e non fiatare, Suleiman Aziz», sussurrò la voce di Ibn. «Gli americani ci stanno cercando.» Ammar gli strinse le mani. Cercò di parlare, ma non riusciva più a pronunciare parole coerenti. Soltanto suoni animaleschi e gutturali uscivano dalle bende insanguinate che gli sostenevano la mandibola fratturata. «Siamo in una piccola camera, nelle gallerie della miniera.» Ibn gli parlò all'orecchio. «Sono arrivati molto vicini, ma ho avuto il tempo d'innalzare un muro che nasconde il nostro rifugio.» Ammar annuì e cercò disperatamente di farsi capire. Ibn sembrava capace di penetrare nella tenebra e di leggere i suoi pensieri. «Vuoi morire, Suleiman Aziz? No, non morirai. Ce ne andremo insieme, ma non un minuto prima che lo decida Allah.» Ammar si accasciò, disperato. Non s'era mai sentito così disorientato, così privo di controllo. La sofferenza era insopportabile, e il pensiero di vivere il resto dei suoi giorni, cieco e mutilato, in un carcere di massima sicurezza lo devastava. L'istinto di autoconservazione l'aveva abbandonato. Non sopportava l'idea di dover dipendere da qualcun altro nell'esistenza quotidiana... neppure da Ibn. «Riposa, fratello mio», disse gentilmente Ibn. «Avrai bisogno di tutte le tue forze quando verrà il momento di fuggire dall'isola.» Ammar si girò sul fianco. Le sue spalle toccarono il pavimento irregolare della galleria. Era bagnato, e l'acqua penetrava attraverso gli indumenti. Ma soffriva troppo per notare quel fastidio. Era sempre più depresso. La sensazione del fallimento s'era trasformata in orrore. Vedeva Akhmad Yazid che gli stava accanto e sogghignava. Poi a poco a poco un sipario si formò e si aprì nel profondo della sua mente. Apparve un barlume fioco, un chiarore che ingrandì ed esplose in un lampo accecante. E in quel momento intravide il futuro. Sarebbe sopravvissuto grazie al desiderio di vendetta. Ripeté mentalmente la parola fino a quando riaffiorò l'autodisciplina di un tempo.
La prima decisione che affrontò fu: chi doveva morire per mano sua? Yazid o Pitt? Non poteva agire da solo. Non era più in grado, fisicamente, di assassinarli entrambi. Ma già stava prendendo forma un piano. Avrebbe dovuto fidarsi di Ibn per compiere la sua vendetta. La decisione di Ammar fu tormentata ma, alla fine, capì che non aveva altra scelta. Ibn avrebbe attirato il coyote, mentre l'ultimo atto di Ammar sarebbe stato uccidere la vipera. 64. Pitt si rifiutò di compiere il volo di ritorno su una barella. Era seduto su una comoda poltrona, con la gamba appoggiata sulla sedia di fronte; guardava dal finestrino le guglie innevate delle Ande. Lontano, sulla destra, vedeva le distese verdi che indicavano l'inizio degli altipiani del Brasile. Dopo due ore una foschia grigia annunciò la città di Caracas; poi vide l'orizzonte dove il turchese del Mar dei Caraibi incontrava il cielo color cobalto. Da dodicimila metri di altitudine, l'acqua sferzata dal vento sembrava un foglio di carta crespata. Il jet dell'Aeronautica militare era piccolo, tanto che Pitt non poteva stare in piedi, ma molto lussuoso. Dava l'impressione di trovarsi all'interno del prezioso giocattolo di un ragazzino molto ricco. Suo padre non aveva voglia di parlare. Passò quasi tutto il tempo prendendo appunti per la relazione che avrebbe fatto al presidente. Quel poco di conversazione che ci fu tra loro fu unilaterale. Quando Pitt chiese come mai s'era trovato a bordo del Lady Flamborough a Punta del Este, il senatore rispose senza degnarsi di alzare la testa. «Una missione presidenziale», disse laconicamente per prevenire altre domande. Anche Hala Kamil stava sulle sue ed era in piena attività. Usava continuamente il telefono e impartiva istruzioni ai suoi collaboratori al Palazzo di Vetro di New York. L'unico modo in cui riconosceva la presenza di Pitt era un breve sorriso quando i loro sguardi s'incontravano. Come dimenticano in fretta, rifletté pigramente Pitt. Cominciò a pensare alla ricerca dei tesori della Biblioteca di Alessandria. Ebbe l'impulso di sottrarre il telefono a Hala per chiedere notizie a Yaeger, ma poi affogò la curiosità in un martini che gli aveva portato lo steward. Decise di aspettare fino a quando Lily e Yaeger avessero potuto
riferirgli di persona le ultime novità. Su quale fiume aveva navigato Venator prima di seppellire quegli oggetti inestimabili? Poteva essere uno qualunque tra i mille che si gettano nell'Atlantico fra il San Lorenzo in Canada al Rio de la Piata in Argentina. No, non proprio. Secondo la teoria di Yaeger la Serapis aveva caricato acqua dolce ed effettuato riparazioni in quello che doveva diventare il New Jersey. Il fiume sconosciuto doveva essere a sud. Molto più a sud di quelli che sboccano nella baia di Chesapeake. Era possibile che Venator avesse condotto la sua flotta nel Golfo del Messico e avesse risalito il Mississippi? Il corso attuale doveva esser molto diverso da quello di milleseicento anni prima. Forse aveva risalito l'Orinoco che era navigabile per oltre trecento chilometri. O forse s'era trattato del Rio delle Amazzoni? Pensò all'ironia della situazione. Se il viaggio in America di Junius Venator fosse stato provato incontrovertibilmente dalla scoperta dei tesori della biblioteca, sarebbe stato necessario riscrivere i libri di storia. I poveri Leif Eriksson e Cristoforo Colombo sarebbero stati relegati nelle note a piè pagina. Pitt era ancora perduto nelle sue fantasticherie quando fu interrotto dallo steward che lo invitò ad allacciare la cintura di sicurezza. Era l'imbrunire e l'aereo stava scendendo verso la base di Andrews. La distesa scintillante di Washington passò sotto di loro, e poco dopo Pitt discese zoppicando la scaletta appoggiandosi a un bastone ricavato da un tubo d'alluminio piegato, offerto in pegno di riconoscenza dall'equipaggio del Lady Flamborough. Posò i piedi sul cemento quasi nello stesso punto in cui l'aveva fatto all'arrivo dalla Groenlandia. Hala scese dopo di lui e lo salutò. Sarebbe proseguita per New York. «Sei diventato un ricordo prezioso, Dirk Pitt.» «Ma non siamo mai andati a cena insieme come avevamo deciso.» «La prossima volta che verrai al Cairo, offrirò io.» Il senatore, che aveva sentito quell'ultima frase, li raggiunse. «Al Cairo, signorina Kamil. Non a New York?» Hala gli rivolse un sorriso degno della bella Nefertiti. «Darò le dimissioni da segretario generale e tornerò in patria. In Egitto la democrazia sta morendo. Potrò fare di più per tenerla in vita se opererò in mezzo alla mia gente.» «E Yazid?» «Il presidente Hasan ha giurato che lo farà mettere agli arresti domicilia-
ri.» Un'ombra passò sul viso del senatore. «Sia prudente. Yazid è ancora pericoloso.» «Se non sarà Yazid, ci sarà sempre un altro pazzo in attesa fra le quinte.» Gli occhi scuri nascondevano la paura. Lo abbracciò affettuosamente. «Dica al suo presidente che l'Egitto non diventerà una nazione di fanatici.» «Lo riferirò.» Hala si rivolse a Pitt. Stava per innamorarsi di lui, ma lottava contro quel sentimento con tutta la sua forza di volontà. Si sentì mancare le ginocchia quando gli prese le mani e lo guardò. Per un istante si vide allacciata a lui, e scacciò fulmineamente quel pensiero. Con Dirk Pitt aveva trovato una breve gratificazione negata da molto tempo, ma sapeva che non avrebbe mai potuto dividere il suo amore per un uomo con l'amore per l'Egitto. La sua vita apparteneva a coloro che non conoscevano altro che la miseria. Lo baciò teneramente. «Non mi dimenticare.» Prima che Pitt potesse rispondere, Hala si voltò e risalì in fretta a bordo. Pitt rimase a guardare per un lungo istante il vano del portello. Il senatore gli lesse nel pensiero e l'interruppe. «Hanno mandato un'ambulanza per portarti all'ospedale.» «All'ospedale?» chiese Pitt mentre guardava il portello che si chiudeva. I motori del jet fischiarono quando il pilota aumentò i giri e si diresse verso la pista principale. Pitt si strappò le bende dalla testa e dal viso e le buttò all'aria. Il soffio che usciva dagli ugelli del jet li sollevò e li lanciò turbinando nell'aria come serpi volanti. Si decise a rispondere solo dopo che l'aereo fu decollato. «Non ho alcuna intenzione di andare all'ospedale.» «Non ti sembra di esagerare un po'?» chiese il senatore con premura paterna, sebbene sapesse che era inutile fare prediche a un figlio dalla mentalità così indipendente. «E tu come vai alla Casa Bianca?» chiese Pitt. Il senatore indicò un elicottero che attendeva a un centinaio di metri. «Il presidente mi ha mandato un mezzo di trasporto.» «Ti dispiace scaricarmi alla NUMA?» Il padre lo guadò con aria subdola. «Spero che parlerai in senso figurato.»
Pitt sogghignò. «Non mi permetti mai di dimenticare da quale ramo della famiglia ho ereditato il mio umorismo così sadico.» Il senatore gli passò un braccio intorno alle spalle. «Vieni, matto. Ti aiuto a salire sull'elicottero.» La tensione gli serrava lo stomaco mentre, nell'ascensore, Pitt guardava i numeri dei piani salire verso quello del complesso computer della NUMA. Lily era ad attenderlo nell'atrio quando le porte si aprirono e lui uscì zoppicando. Il sorriso di Lily si raggelò quando vide la faccia esausta, la lunga cicatrice sulla guancia, il gonfiore causato dalla fasciatura sotto il collo alto del maglione prestatogli dal padre, la gamba claudicante e il bastone. Poi il sorriso rispuntò, coraggiosamente. «Bentornato, marinaio.» Gli andò incontro e gli buttò le braccia al collo. Pitt trasalì e soffocò un gemito. Lily si scostò. «Oh, scusami!» Pitt la trattenne. «Non è niente.» Poi le premette le labbra contro le labbra. Aveva la barba ispida e un odore di gin... ed era deliziosamente mascolino. «Gli uomini che tornano a casa soltanto una volta la settimana hanno i loro meriti», disse Lily. «E anche le donne che aspettano», ribatté Pitt. Si guardò intorno. «Che cosa avete scoperto tu e Hiram dopo la mia partenza?» «È meglio che te lo dica lui», rispose Lily. Lo prese per mano e si avviò. Yaeger uscì a passo di carica dal suo ufficio. Senza una parola di saluto o di commiserazione per le ferite di Pitt, venne subito al dunque. «L'abbiamo trovato!» annunciò in tono solenne. «Il fiume?» chiese ansiosamente Pitt. «Non solo. Credo di poter localizzare la caverna sotto un'area di tre chilometri per tre.» «Dov'è?» «Nel Texas. Una cittadina di confine che si chiama Roma.» Yaeger aveva l'aria soddisfatta e orgogliosa di un tirannosauro che ha appena finito di divorare un brontosauro. «Deve il nome ai sette colli, come la capitale italiana. Sono collinette insignificanti, lo riconosco. Ma si hanno segnalazioni di manufatti romani ritrovati nella zona. Gli archeologi accreditati, ovviamente, non li hanno mai presi sul serio, ma che ne sanno?
«Allora il fiume è...» «Il Rio Bravo, come lo chiamano in spagnolo.» Yaeger annuì. «Più noto su questa sponda come il Rio Grande.» «Il Rio Grande.» Pitt ripeté le parole, assaporando ogni sillaba. Era difficile accettare la verità dopo dozzine di intuizioni sbagliate e ipotesi finite nel nulla. «È un vero peccato», soggiunse Yaeger con aria irritata. Pitt lo guardò, sorpreso. «Perché?» Yaeger scosse la testa. «Perché i texani diventeranno ancor più insopportabili, quando sapranno su che cosa hanno dormito negli ultimi sedici secoli.» 65. L'indomani a mezzogiorno, dopo essere atterrati alla stazione aeronavale di Corpus Christi, Pitt e Lily, assieme all'ammiraglio Sandecker, furono accompagnati da un marinaio di prima classe al centro ricerche oceaniche della NUMA, situato sulla baia. Sandecker ordinò all'autista di fermarsi accanto a un elicottero posato sul cemento a fianco di un lungo molo. Non c'erano nubi, il sole brillava nel cielo. La temperatura era mite ma l'umidità era elevata. Incominciarono a sudare non appena scesero dalla macchina. Il capo geologo della NUMA, Herb Garza, fece un cenno amichevole e si avvicinò. Era basso, grassoccio, scuro di carnagione, con la faccia un po' butterata e i capelli neri molto lucidi. Portava un berretto dei California Angels e una maglietta arancione fluorescente così sgargiante che Pitt continuò a vederla anche dopo aver chiuso gli occhi. «Dottor Garza», disse Sandecker, «lieto di rivederla.» «Vi stavo aspettando», disse Garza. «Possiamo partire appena sarete a bordo.» Si voltò e presentò il pilota, Joe Mifflin, che portava grossi occhiali da sole e sembrava dotato della stessa vivacità dello stipite d'una porta. Pitt e Garza avevano collaborato a un progetto lungo un tratto di costa del Sud Africa, nel deserto occidentale. «È passato tanto tempo, no, Herb?» disse Pitt. «Tre o quattro anni?» «E chi li conta?» Garza sorrise e gli strinse la mano. «È un piacere essere di nuovo in squadra con te.» «Ti presento la dottoressa Lily Sharp.» Garza s'inchinò. «Lei è un'oceanografa?» chiese. Lily scosse la testa. «No. Mi occupo di archeologia terrestre.»
Garza si voltò a guardare Sandecker con un'espressione curiosa. «Non è una ricerca marina, ammiraglio?» «No. Mi dispiace che non sia stato informato, Herb. Purtroppo dovremo tener segreto ancora per un po' il vero scopo del nostro lavoro.» Garza alzò le spalle. «È lei, quello che comanda.» «A me basta conoscere la direzione», disse Mifflin. «Verso sud», rispose Pitt. «Verso sud fino al Rio Grande.» Seguirono la costa lungo l'Intercoastal Waterway, sorvolando gli alberghi e i condomini di South Padre Island. Poi Mifflin fece scendere l'elicottero verde con la scritta NUMA sotto uno strato di nuvolette che sembravano di popcorn e virò verso ovest, più a sud di Port Isabel, dove le acque del Rio Grande si gettavano nel Golfo del Messico. Il territorio che scorreva sotto di loro era uno strano miscuglio di paludi e di deserto, piatto come un parcheggio e con i cactus che crescevano in mezzo all'erba alta. Poco dopo apparve Brownsville. Il fiume si stringeva e passava sotto il ponte che collegava il Texas alla messicana Matamoros. «Potete dirmi dove dobbiamo effettuare la ricognizione?» chiese Garza. «Lei è cresciuto nella valle del Rio Grande, non è vero?» chiese Sandecker senza rispondere alla domanda. «Sono nato e cresciuto più a monte, a Laredo. Ho studiato al Texas Southernmost College di Brownsville. L'abbiamo appena sorvolata.» «Allora conoscerà bene la situazione geologica nei dintorni di Roma.» «Ho effettuato diversi rilevamenti nella zona, sì.» Questa volta intervenne Pitt. «In confronto a oggi, quale era il corso del fiume qualche secolo dopo Cristo?» «Non era molto diverso», rispose Garza. «Oh, certo, è cambiato durante le grandi alluvioni, ma in sostanza non più di qualche chilometro. Molto spesso, con il passare dei secoli, è tornato al vecchio alveo. Il cambiamento principale sta nel fatto che a quel tempo il Rio Grande doveva essere considerevolmente più alto. Fino a poco prima della guerra con il Messico aveva un'ampiezza fra i duecento e i quattrocento metri. Il canale principale era molto più profondo.» «Quando fu visto per la prima volta da un europeo?» «Alonzo de Pineda penetrò nella foce del fiume nel 1519.» «A quel tempo somigliava al Mississippi?» Garza rifletté per un momento. «No, il Rio Grande era più simile al Nilo.»
«Al Nilo?» «Ecco, ha le sorgenti nelle Montagne Rocciose del Colorado. Durante la primavera, quando si scioglievano le nevi dell'inverno, l'acqua arrivava in enormi quantità ai livelli più bassi. Gli antichi indiani, come gli egiziani, scavavano canali in modo che l'acqua alta raggiungesse le colture. Ecco perché il fiume che vedete adesso è soltanto l'ombra di quello d'un tempo. Quando si stabilirono qui i coloni spagnoli e messicani, seguiti dagli americani del Texas, furono costruite nuove opere d'irrigazione. Dopo la guerra di Secessione, le ferrovie portarono altri agricoltori e allevatori che prelevarono altra acqua. Nel 1894 le barene e le secche misero fine alla navigazione fluviale. Se non ci fosse stata l'irrigazione, il Rio Grande avrebbe potuto essere il Mississippi del Texas.» «C'erano battelli a vapore sul Rio Grande?» chiese Lily. «Per un breve periodo ci fu un traffico intenso, mentre i commerci fiorivano su entrambe le rive. C'erano flotte di battelli a ruota che fecero regolarmente la spola fra Brownsville e Laredo per più di trent'anni. Da quando è stata costruita la diga, la Falcon Dam, però, sul tratto inferiore del fiume non si vedono altro che fuoribordo e gommoni.» «Una nave a vela avrebbe potuto risalire fino a Roma?» domandò Pitt. «Sì, e senza difficoltà. Il fiume era abbastanza ampio per bordeggiare. Una nave a vela non doveva far altro che aspettare una brezza favorevole dal mare. Nel 1850, una nave arrivò fino a Santa Fe.» Rimasero in silenzio per qualche minuto mentre Mifflin seguiva le tortuosità del fiume. Poi apparvero alcune colline basse e ondulate. Sulla sponda messicana i paesetti fondati tre secoli prima stavano accovacciati in un isolamento polveroso. C'erano alcune case di pietra e di adobe e con i tetti di tegole rosse, mentre le periferie erano costellate di casupole primitive con i tetti di paglia. La zona agricola della valle, ricca di agrumeti, di orti e di aloe vera, lasciò il posto alle pianure aride dove crescevano i mesquitos e i cardi bianchi. Pitt si aspettava di vedere un fiume color fango, ma ebbe la piacevole sorpresa di scoprire che il Rio Grande era d'un verde intenso. «Ci stiamo avvicinando a Roma», annunciò Garza. «Il paese gemello oltre il fiume si chiama Miguel Alemán. Non è una gran cosa. A parte qualche negozio per turisti è soprattutto un posto di confine sulla strada per Monterrey.» Mifflin riprese quota e sorvolò il ponte internazionale, poi ridiscese verso il fiume. Sulla riva messicana uomini e donne lavavano le macchine, ri-
paravano le reti da pesca e nuotavano. Qualche maiale sguazzava fra i sedimenti. Sulla sponda americana un'altura di arenaria gialla saliva dal greto verso la parte centrale di Roma. Le costruzioni sembravano molto vecchie e alcune erano trascurate, ma avevano l'aria di essere piuttosto solide. In una o due erano in corso lavori di riattamento. «Gli edifici sono molto strani», disse Lily. «Dietro i loro muri deve esserci parecchia storia.» «Roma era un porto fiorente durante il periodo della navigazione commerciale e militare», spiegò Garza. «I mercanti arricchiti chiamavano gli architetti perché progettassero case e magazzini piuttosto interessanti, che hanno resistito molto bene.» «C'è qualche edificio più famoso degli altri?» chiese Lily. «Famoso?» Garza rise. «Io sceglierei una residenza costruita intorno alla metà dell'Ottocento che venne usata come la Cantina di Rosita quando girarono a Roma il film Viva Zapata! con Marlon Brando.» Sandecker fece segno a Mifflin di volare in cerchio sopra le colline, poi si rivolse a Garza. «Roma viene chiamata così perché è circondata da sette colli?» «Nessuno lo sa con certezza», rispose Garza. «Non è molto facile distinguere nettamente i sette colli. Alcuni hanno vette visibili, ma quasi tutti si fondono uno nell'altro.» «E da un punto di vista geologico?» chiese Pitt mentre continuava a guardare in basso. «Per la maggior parte sono detriti cretacei. Un tempo l'intera area era sommersa dal mare. C'è una notevole quantità di conchiglie fossili: ne hanno trovate certune con un diametro di mezzo metro. Vicino c'è un deposito di ghiaia che può dare un'idea dei vari periodi geologici. Vi terrò una breve lezione se dite a Joe di farci scendere.» «Per ora no», disse Pitt. «Ci sono caverne naturali da queste parti?» «Nessuna che sia visibile in superficie, ma questo non significa che non esistano. È impossibile sapere quante caverne formate dall'antico mare siano nascoste sotto lo strato superiore. Basta scavare quanto basta nel posto giusto per avere buone probabilità di trovare un grande deposito di calcare. Le vecchie leggende indiane parlano di spiriti che vivono sottoterra.» «Che tipo di spiriti?» Garza scrollò le spalle. «Gli spiriti degli antichi», spiegò, «che morirono combattendo contro gli dei malvagi.»
Istintivamente, Lily strinse il braccio di Pitt. «È stato scoperto qualche manufatto nei pressi di Roma?» chiese, in tono ansioso. «Qualche punta di freccia e di lancia in selce, coltelli di pietra e pietrebarche.» «Che cosa sono le pietre-barche?» chiese Pitt. «Pietre scavate a forma di scafo», rispose Lily, emozionatissima. «La loro origine e il loro scopo sono oscuri. Si pensa che venissero usate come amuleti per scacciare il male, soprattutto se un indiano temeva uno stregone o il potere d'uno sciamano. Allora legava alla pietra-barca un'effigie dello stregone e la gettava in un lago o in un fiume. In questo modo distruggeva il maleficio per sempre.» Pitt rivolse un'altra domanda a Garza. «Sono stati trovati oggetti che appaiono anacronistici?» «Sì, qualcuno. Ma vengono considerati falsi.» Lily ostentò la sua espressione più indifferente. «Che tipo di oggetti?» «Spade, croci, pezzi di armature, aste di lance... quasi tutto di ferro. Ricordo anche il caso di una vecchia ancora di pietra che era sepolta sull'altura in riva al fiume.» «Probabilmente era di provenienza spagnola», azzardò guardingo Sandecker. Garza scosse la testa. «No, non spagnola: romana», rispose quindi. «Gli esperti del museo statale, com'è comprensibile, erano molto scettici. Hanno liquidato tutto quanto come falsi del secolo scorso.» La mano di Lily strinse più forte il braccio di Pitt. «Potrei dargli un'occhiata?» chiese ansiosamente. «O sono andati perduti e sono stati dimenticati nella cantina di qualche università statale?» Garza indicò la strada che si estendeva a nord di Roma. «Per la precisione, i manufatti sono proprio là. Sono stati conservati e collezionati dall'uomo che li aveva trovati quasi tutti. Un buon vecchio texano che si chiama Sam Trinity, soprannominato Sam il Matto. Ha frugato nella zona per cinquant'anni e ha sempre giurato che qui si era accampato un esercito romano. Si guadagna da vivere gestendo un piccolo distributore di benzina con annesso emporio. E ha un capannone che ha battezzato grandiosamente 'museo di antichità'.» Pitt sorrise. «Può farci scendere lì vicino?» chiese a Mifflin. «Penso che dovremmo fare due chiacchiere con Sam.»
66. Il cartellone dietro lo svincolo dell'autostrada era lungo nove metri. Era sostenuto da pali di mesquite sbiancati dal sole e rovinati dalle intemperie, inclinati all'indietro come ubriachi. Le vistose lettere rosse sullo sbiadito sfondo argenteo proclamavano: IL CIRCO ROMANO DI SAM Le pompe dei distributori erano nuove e lucide e offrivano carburante per quarantotto cent al litro. L'emporio di adobe era nello stile delle abitazioni degli indiani sulle mesas dell'Arizona, con i pali del tetto che spuntavano dai muri. L'interno era pulito e gli scaffali erano carichi di oggetti curiosi, generi alimentari e bibite analcoliche. Sembrava la copia perfetta di altre mille piccole oasi situate lungo le autostrade degli Stati Uniti. Ma Sam non s'intonava all'arredamento. Non portava un berretto da baseball con la pubblicità dei trattori Caterpillar, o stivali sciupati da cowboy, un cappellaccio di paglia o un paio di Levi's stinti. Indossava una polo verde, pantaloni gialli e un lussuoso paio di scarpe da golf di lucertola confezionate su misura. I capelli bianchi e ben tagliati erano nascosti parzialmente da un berretto sportivo a quadretti. Sam Trinity restò sulla soglia dell'emporio fino a quando la polvere sollevata dalle pale dell'elicottero si disperse nella brezza, poi si mosse, stringendo un ferro da golf numero due e andò a fermarsi a circa sei metri dal portello. Garza saltò a terra per primo e gli andò incontro. «Salve, scavatore.» La faccia scura e incartapecorita di Sam Trinity si schiuse in un gran sorriso texano. «Herb, vecchio elegantone, sono felice di vederti.» Rialzò gli occhiali da sole scoprendo gli occhi azzurri, socchiusi nella luce fulgida, poi li riabbassò come un sipario. Era altissimo, magro come una pertica, con le braccia sottili e le spalle strette; la voce tuttavia era energica e risonante. Garza fece le presentazioni, ma Sam non diede segno di aver assimilato i nomi. Si accontentò di salutare con un cenno e disse: «Lieto di conoscervi. Benvenuti al Circo Romàno di Sam». Poi notò la faccia, il bastone e la zoppia di Pitt. «È caduto dalla motocicletta?»
Pitt rise. «No, ho partecipato a una rissa in un saloon.» «Mi sembra un tipo simpatico.» Sandecker si piazzò a gambe larghe e indicò il ferro due. «Dove si gioca a golf, da queste parti?» «In fondo alla strada, in Rio Grande City», rispose Trinity. «Ci sono diversi campi fra qui e Brownsville. Sono appena tornato da una partita con un paio di vecchi commilitoni.» «Vorremmo curiosare nel tuo museo», disse Garza. «Prego. Sarà un onore. Non capita tutti i giorni che qualcuno arrivi con l'elicottero per esaminare i miei reperti. Volete qualcosa da bere? Una bibita analcolica, una birra? E ho in frigo una caraffa di margarita.» «Un margarita sarebbe l'ideale», disse Lily che si stava asciugando il collo con un fazzoletto. «Fai visitare il museo ai nostri ospiti, Herb. La porta è aperta. Vi raggiungo fra un minuto.» Un camion con rimorchio si fermò per far benzina, e Trinity rimase a chiacchierare per un momento con l'autista prima di entrare nell'alloggio accanto all'emporio. «Un tipo cordiale», borbottò Sandecker. «Sam è capace di essere più cordiale di una massaia texana», disse Garza. «Ma se lo si prende con le brutte diventa più duro di una bistecca da novanta cent.» Garza guidò i visitatori in una costruzione di adobe dietro l'emporio. L'interno non era più grande di un garage a due posti, ma era pieno di vetrine e di figure di cera vestite da legionari romani. La stanza era pulitissima e sulle vetrine non c'era un filo di polvere. Gli oggetti esposti erano privi di ruggine e tirati a lucido. Lily aveva portato una borsa. La posò su una vetrinetta, l'aprì ed estrasse un grosso volume con tante illustrazioni e fotografie da sembrare un catalogo. Incominciò a confrontare i manufatti con quelli mostrati nel libro. «Promette bene», disse dopo pochi minuti. «Le spade e le punte di lancia corrispondono alle armi usate dai romani nel quarto secolo.» «Non si scaldi troppo», disse Garza. «Probabilmente è stato Sam a fabbricare questi oggetti e a invecchiarli con gli acidi e l'esposizione al sole.» «Non li ha fabbricati lui», disse seccamente Sandecker. Garza lo guardò con aria scettica e incuriosita. «Come può affermare una cosa simile, ammiraglio? Non ci sono notizie di contatti precolombiani nel Golfo.»
«Adesso ci sono.» «Questa è nuova.» «Avvenne nell'anno 391 dopo Cristo», spiegò Pitt. «Una flotta risalì il Rio Grande fino all'ubicazione dell'odierna Roma. Da qualche parte, in una delle colline dietro la città, i mercenari romani, i loro schiavi e alcuni eruditi egizi seppellirono una ricca collezione di manufatti provenienti dalla Biblioteca di Alessandria...» «Lo sapevo!» gridò Sam Trinity dalla soglia. Era così emozionato che per poco non lasciò cadere il vassoio con i bicchieri e la caraffa. «Perdio, lo sapevo! I romani hanno calcato veramente il suolo del Texas.» «Aveva ragione lei, Sam», disse Sandecker. «E aveva torto chi ne dubitava.» «Per tanti anni non mi ha creduto nessuno», mormorò Sam. «Persino dopo aver letto l'iscrizione sulla pietra, mi hanno accusato di averla incisa io.» «Quale pietra?» chiese Pitt. «Quella lì nell'angolo. L'ho fatta tradurre alla Texas A & M, ma mi hanno detto soltanto: 'Bel lavoro, Sam, il tuo latino non è niente male.' Mi hanno preso in giro per anni... Dicevano che avevo inventato una balla di prim'ordine.» «C'è una copia dell'iscrizione tradotta?» chiese Lily. «Eccola lì, appesa al muro. L'ho fatta battere a macchina e mettere in cornice. Ho tagliato la parte dove avevano scritto il loro giudizio.» Lily lesse a voce alta mentre gli altri le si affollavano intorno. Questa lapide indica la strada che porta al luogo dove ho ordinato di seppellire le opere provenienti dalla grande Sede delle Muse. Sono sfuggito allo sterminio della nostra flotta compiuto dai barbari e mi sono spinto a sud, dove sono stato accettato da un popolo primitivo delle piramidi come saggio e profeta. Ho insegnato loro ciò che so delle stelle e delle scienze, ma hanno messo in pratica ben poco di quanto gli ho rivelato. Preferiscono adorare divinità pagane ed esaudire le richieste di sacrifici umani dei loro sacerdoti ignoranti. Sono trascorsi sette anni dal mio arrivo.
Il mio ritorno qui è segnato dal dolore alla vista delle ossa dei miei vecchi compagni. Ho provveduto a farli seppellire. La mia nave è pronta e presto salperò alla volta di Roma. Se Teodosio vive ancora sarò giustiziato ma accetto con gioia il rischio pur di vedere per l'ultima volta la mia famiglia. Se dovessi perire, coloro che leggeranno questo sappiano che l'ingresso alla camera è nascosto sotto la collina. Avviatevi verso nord e guardate direttamente a sud verso l'altura sul fiume. Junius Venator Idi di agosto 114 «Il 114 corrisponde al 398 dopo Cristo: Venator usa il calendario di Diocleziano», ricordò Lily. «Quindi Venator sopravvisse al massacro e morì sette anni più tardi mentre era in viaggio per tornare a Roma», disse Pitt. «O forse arrivò a destinazione e fu giustiziato ma non disse nulla», soggiunse Sandecker. «No. Teodosio era morto nel 395», lo corresse Lily. «E pensare che il messaggio è rimasto qui per tanto tempo ed è stato considerato un falso!» Trinity inarcò le sopracciglia. «Conoscete quel Venator?» «Gli stiamo dando la caccia», ammise Pitt. «Ha cercato la camera di cui parla l'iscrizione?» chiese Sandecker. Trinity annuì. «Ho scavato in tutte le colline, ma ho trovato soltanto quel che vede qui.» «A che profondità ha scavato?» «Ho usato una scavatrice circa dieci anni fa. Ho aperto una fossa profonda sei metri, ma ho trovato solo il sandalo che sta in quella vetrina.» «Può mostrarci il posto dove ha scoperto la lapide e gli altri manufatti?» chiese Pitt. Il vecchio texano fissò Garza. «Che cosa ne dici, Herb?» «Credimi sulla parola, Sam: puoi fidarti di loro. Non sono ladri di antichità.» Trinity annuì energicamente. «D'accordo, facciamo una corsa. Possiamo andare con la mia jeep.» Trinity salì con la jeep Wagoneer per una strada sterrata che passava in
mezzo a diverse case moderne e si fermò davanti a una recinzione di filo spinato, Smontò, sganciò un tratto della recinzione e l'aprì. Poi si rimise al volante e continuò lungo una pista invasa dalle erbacce e riconoscibile a stento. Quando arrivò sulla cresta di un lungo pendio, si fermò e spense il motore. «Bene, eccoci qui. Gongora Hill. Molto tempo fa qualcuno mi ha detto che Gongora era un poeta spagnolo del Seicento. Non so proprio perché abbiano dato il suo nome a questo mucchio di terra.» Pitt indicò una bassa collina quattrocento metri più a nord. «E quella come si chiama?» «Non mi risulta che abbia un nome», rispose Trinity. «Dove ha scoperto la lapide?» chiese Lily. «Poco più avanti. Ora vedrete.» Trinity riaccese il motore e guidò la jeep lentamente giù per il pendio, evitando i mesquitos e i cespugli bassi. Dopo un paio di minuti si fermò accanto al letto di un corso d'acqua. Scese dalla macchina, arrivò sul bordo e guardò giù. «Ho trovato proprio qui l'angolo che spuntava dalla terra.» «Questo torrentello asciutto si snoda fra Gongora Hill e l'altra collina più lontana», osservò Pitt. Trinity annuì. «Sicuro, ma non è possibile che la pietra fosse arrivata qui dal pendio ai piedi di Gongora, a meno che l'avessero trainata.» «Questa non è una pianura alluvionale», ammise Sandecker. «L'erosione e le forti piogge in un periodo di tempo molto lungo avrebbero potuto spostarla di cinquanta metri dalla sommità di Gongora, ma non a mezzo chilometro da un'altra vetta.» «E gli altri reperti?» chiese Lily. «Dov'erano?» Trinity indicò la direzione del fiume. «Erano sparsi un po' più in basso e continuavano fin quasi al centro del paese.» «Ha fatto un rilevamento? Ha segnato ogni punto in cui li ha trovati?» «Mi dispiace, signorina. Non sono archeologo io, e non ci ho pensato.» Negli occhi di Lily passò un lampo di delusione. Ma non disse nulla. «Immagino che avrà usato un metal detector», disse Pitt. «Sì, e l'ho fatto io», rispose Trinity in tono d'orgoglio. «Abbastanza sensibile per individuare un soldino a mezzo metro di profondità.» «Di chi sono questi terreni?» «Sono quasi cinquecento ettari e sono sempre stati di proprietà della mia famiglia da quando il Texas era una repubblica indipendente.»
«Questo ci risparmierà una quantità di problemi legali», disse Sandecker, sospirando di sollievo. Pitt diede un'occhiata all'orologio. Il sole cominciava a scendere dietro le colline. Cercò di immaginare la battaglia fra gli indiani e i romani e la flotta delle antiche navi. Gli sembrava di sentire le grida, le urla di dolore, il cozzo delle armi. Aveva l'impressione d'essere stato presente a quella giornata fatidica di tanti secoli prima. Ritornò al presente mentre Lily continuava a rivolgere domande a Trinity. «È strano che non abbia trovato ossa sul campo di battaglia.» «I primi marinai spagnoli che naufragarono sulla costa texana del Golfo e riuscirono ad arrivare vivi a Veracruz e a Città di Messico parlarono di indiani che praticavano il cannibalismo», rispose Garza. Lily fece una smorfia di profondo disgusto. «Non può essere certo che i morti venissero divorati.» «Forse un piccolo numero», suggerì Garza. «E i resti che non furono portati via dai cani della tribù o dagli animali selvatici vennero sepolti più tardi da Venator. Quelli che non furono trovati diventarono polvere.» «Herb ha ragione», disse Pitt. «Le ossa rimaste in superficie devono essersi disintegrate con il passare del tempo.» Lily alzò gli occhi con un'espressione quasi mistica verso la cresta di Gongora Hill. «Non riesco a credere che ci troviamo a pochi metri da quei tesori.» Per qualche istante scese su di loro un silenzio gelido. Poi Pitt espresse finalmente i pensieri di tutti. «Molti uomini coraggiosi morirono sedici secoli fa per salvare la conoscenza dei loro tempi», disse a voce bassa con lo sguardo perduto nel passato. «Credo che sia ora di dissotterrarla.» 67. L'indomani mattina l'ammiraglio Sandecker fu fatto entrare attraverso i cancelli dalle guardie del servizio segreto. Proseguì lungo un viale tortuoso fino al rifugio privato del presidente sul lago degli Ozarks nel Missouri. Fermò la macchina presa a nolo e tolse la borsa dal portabagagli. L'aria era fredda e pungente, piacevole dopo le temperature afose lungo il Rio Grande. Il presidente, che indossava una giacca di shearling, scese i gradini del portico per andargli incontro. «Ammiraglio, grazie per essere venuto.»
«Preferisco essere qui anziché a Washington.» «Com'è andato il viaggio?» «Ho dormito quasi sempre.» «Mi scusi se l'ho costretta a correre da me.» «Mi rendo conto dell'urgenza.» Il presidente gli posò la mano sulla spalla e lo guidò verso la porta del cottage. «Venga a fare colazione. Dale Nichols, Julius Schiller e il senatore Pitt sono già all'attacco delle uova e del prosciutto affumicato.» «Vedo che ha riunito il trust dei cervelli», disse Sandecker con un sorriso d'intesa. «Abbiamo passato metà della notte a discutere l'importanza politica delle sue scoperte.» «Non sono in grado di dirle molto più di quello che c'era nel rapporto inviato per corriere.» «Ma ha trascurato di includere un diagramma degli scavi che si propone di effettuare.» «Ci sarei arrivato», disse Sandecker senza scomporsi. Il presidente non si lasciò smontare. «Potrà mostrarlo a tutti durante la colazione.» Tacquero per qualche istante mentre il presidente lo guidava all'interno della casa di tronchi. Attraversarono un comodo soggiorno non molto intonato a un casino di caccia. Il fuoco scoppiettava nel grande camino di pietra. Entrarono in sala da pranzo dove Schiller e Nichols, vestiti da pescatori, si alzarono per stringere la mano al nuovo venuto. Il senatore Pitt, che era in tuta, si accontentò d'un cenno di saluto. Il senatore e l'ammiraglio erano vecchi amici: Dick li aveva fatti incontrare. Sandecker ebbe la sensazione che l'espressione seria di Pitt volesse fargli capire qualcosa. C'era un altro uomo che il presidente non aveva nominato: Harold Wismer, un amico e consigliere che godeva di un'influenza enorme e operava al di fuori dei canali burocratici della Casa Bianca. Sandecker si chiese come mai era lì. Il presidente scostò una sedia. «Sieda, ammiraglio. Come preferisce le uova?» Sandecker scosse la testa. «Per me, un po' di frutta e un bicchiere di latte scremato.» Uno steward in giacca bianca prese l'ordinazione di Sandecker e sparì in cucina.
«È così che si mantiene in forma?» commentò Schiller. «Anche grazie a tutta la ginnastica che faccio.» «Desideriamo congratularci tutti con lei e con i suoi per la magnifica scoperta», esordì Wismer senza esitazioni. Portava un paio di occhiali con le lenti rosa e la barba ingarbugliata gli nascondeva quasi le labbra. Era calvo come un pallone da basket e gli occhi castani erano un po' sporgenti. «Quando prevede di cominciare gli scavi?» «Domani», rispose Sandecker. Aveva il sospetto che stessero per tagliargli l'erba sotto i piedi. Prese dalla borsa l'ingrandimento di una mappa geologica che mostrava la topografia dei dintorni di Roma. Poi mostrò un disegno della collina che indicava i punti in programma per gli scavi. Li posò sul tavolo. «Intendiamo aprire due tunnel esplorativi nella collina maggiore, ottanta metri al di sotto della vetta.» «La collina indicata come Gongora Hill?» «Sì. Le gallerie entreranno da due parti opposte del pendio rivolto verso il fiume, e proseguiranno l'una verso l'altra ma a due livelli diversi. Una delle due dovrebbe raggiungere la grotta di cui Junius Venator parla nella lapide trovata da Sam Trinity, oppure, con un po' di fortuna, uno dei pozzi d'accesso originali.» «È assolutamente sicuro che il nascondiglio dei tesori della Biblioteca di Alessandria si trovi qui?» disse Wismer. «Non ha alcun dubbio?» «Nessuno», ribatté irritato Sandecker. «La mappa trovata a bordo della nave romana in Groenlandia ha portato ai manufatti scoperti a Roma da Trinity. Tutto corrisponde.» «Ma non è possibile che...?» «No, gli oggetti romani sono autentici.» Sandecker interruppe bruscamente Wismer. «Non è un falso, non è un tentativo di frode o uno scherzo assurdo. Sappiamo che il tesoro è là. Si tratta solo di scoprirne la consistenza.» «Non vogliamo insinuare che i tesori della biblioteca non esistano», osservò un po' troppo precipitosamente Schiller. «Ma deve capire, ammiraglio, le ripercussioni internazionali di una simile scoperta potrebbero essere imprevedibili e soprattutto incontrollabili.» Sandecker fissò Schiller senza batter ciglio. «Non capisco come la rivelazione del sapere del mondo antico possa causare un simile sconquasso. Inoltre, non è un po' tardi? Il mondo sa già dell'esistenza del tesoro. Hala Kamil aveva annunciato le nostre ricerche nel discorso all'ONU.» «Ci sono certi risvolti di cui forse non è informato», intervenne il presi-
dente. «Hasan potrebbe sostenere che tutto il tesoro appartiene all'Egitto. La Grecia esigerà la restituzione della bara d'oro di Alessandro. E chi può dire quali pretese avanzerà l'Italia?» «Forse ho sbagliato rotta, signori», disse Sandecker. «Mi risulta che avessimo promesso di spartire la scoperta con il presidente Hasan per puntellare il suo governo.» «È vero», ammise Schiller. «Ma è stato prima che lei individuasse la posizione vicino al Rio Grande. Adesso abbiamo tirato in gioco anche il Messico. Quel fanatico di Topiltzin potrebbe attaccarsi al fatto che un tempo la località apparteneva alla sua nazione.» «È prevedibile», ammise Sandecker. «A parte il fatto che il possesso riguarda i nove decimi di legge. Da un punto di vista legale, il tesoro appartiene al proprietario del terreno in cui è sepolto.» «Al signor Trinity verrà offerta una somma consistente per la sua terra e i suoi diritti sulle reliquie», disse Nichols. «E posso aggiungere che il pagamento sarà esentasse.» Sandecker lo guardò con aria scettica. «Il tesoro potrebbe valere centinaia di milioni di dollari. Il governo è disposto ad arrivare a queste cifre?» «No, naturalmente.» «E se Trinity non accettasse la proposta?» «Ci sono altri metodi per concludere un affare», disse Wismer in tono di fredda determinazione. «Da quando il governo si occupa d'arte?» «Le opere d'arte, le sculture e la salma di Alessandro il Grande hanno solo un interesse storico», ribatté Wismer. «L'importante è la conoscenza contenuta in quei rotoli.» «Tutto dipende dai punti di vista», commentò filosoficamente Sandecker. «Le informazioni contenute nei documenti scientifici, soprattutto i dati geologici, potrebbero avere un'influenza enorme sulle nostre future trattative con il Medio Oriente», continuò Wismer. «E c'è da considerare l'aspetto religioso.» «E quale sarebbe? La traduzione greca del testo originale ebraico dell'Antico Testamento fu fatta nella biblioteca. E questa traduzione è la base di tutte le edizioni della Bibbia.» «Ma il Nuovo Testamento no», ribatté Wismer. «Sotto quella collina texana potrebbero essere nascosti fatti storici che contestino la fondazione del cristianesimo. Fatti che sarebbe meglio non scoprire.»
Sandecker lo squadrò con freddezza, poi si rivolse al presidente. «Io sento puzza di cospirazione. Vorrei conoscere la ragione per cui sono stato chiamato qui.» «Nulla di sinistro, ammiraglio, glielo assicuro. Ma tutti siamo d'accordo su una cosa: è diventata un'operazione molto complicata che deve essere condotta secondo criteri assai rigorosi.» Sandecker si rese conto che la trappola era scattata. Fin dall'inizio aveva intuito ciò che sarebbe accaduto. «Quindi», disse, guardando il senatore Pitt, «dopo che la NUMA e soprattutto suo figlio hanno fatto il più del lavoro, stiamo per essere messi da parte.» «Deve ammetterlo, ammiraglio», obiettò Wismer in tono ufficiale. «Questo non è un compito per un organo governativo la cui responsabilità burocratica riguarda il fondo del mare.» Sandecker alzò le spalle. «Noi abbiamo portato il progetto fino a questo punto. Non vedo perché non possiamo arrivare sino in fondo.» «Mi rincresce, ammiraglio», disse con fermezza il presidente, «ma le tolgo il progetto per affidarlo al Pentagono.» Sandecker lo guardò, sbalordito. «I militari!» esclamò. «Di chi è stata questa idea pazzesca?» Il presidente assunse un'espressione imbarazzata. Poi lanciò un'occhiata a Wismer. «Non ha alcuna importanza. Sono stato io a decidere.» «Non credo che abbia capito, Jim», disse il senatore a voce bassa. «Quello che avete trovato trascende l'archeologia. La conoscenza sepolta sotto quella collina potrebbe cambiare per decenni la nostra politica estera nei confronti del Medio Oriente.» «Una buona ragione perché trattiamo la cosa come un'operazione segreta», aggiunse Wismer. «Dobbiamo tenere nascosta la scoperta fino a che tutti i documenti saranno stati esaminati, tutti i dati analizzati.» «Potrebbero essere necessari vent'anni o magari cento, secondo il numero e le condizioni dei rotoli rimasti sepolti per sedici secoli», protestò Sandecker. «Se sarà necessario...» Il presidente alzò le spalle. Lo steward portò la frutta e il bicchiere di latte, ma l'ammiraglio aveva perso l'appetito. «In altre parole avete bisogno di tempo per far calcolare il valore del ritrovamento», disse con aria acida. «E poi mercanteggiare accordi politici per le antiche carte che mostrano l'ubicazione di giacimenti perduti di minerali e di petrolio intorno al Mediterraneo. Se Alessandro non è diventato
polvere, le sue ossa verranno concesse al governo greco in cambio del rinnovo delle concessioni per le nostre basi navali. E tutto questo avverrà prima che gli americani scoprano che avete svenduto tutto.» «Non possiamo permetterci di dare l'annuncio all'opinione pubblica», spiegò con pazienza Schiller. «Almeno fino a che saremo pronti a muoverci. Non si rende conto degli enormi vantaggi per la politica estera che ha procurato al governo. Non possiamo gettarli via in nome della curiosità della gente per i reperti storici.» «Non sono un ingenuo, signori», disse Sandecker. «Ma confesso di essere un patriota sentimentale, convinto che il popolo meriterebbe d'esser trattato meglio dal suo governo. I tesori della Biblioteca di Alessandria non appartengono a pochi politicanti che intendono barattarli. Appartengono a tutta l'America per diritto di possesso.» Sandecker non attese una risposta. Bevve un sorso di latte, poi prese un giornale dalla borsa e lo buttò con noncuranza sul tavolo. «Dato che siete tutti presi dalla prospettiva generale, ai vostri collaboratori è sfuggita una piccola notizia della Reuter che è stata trasmessa a quasi tutti i giornali del mondo. Ecco un quotidiano di St. Louis che ho preso all'agenzia dove ho noleggiato la macchina. L'ho segnata, è a pagina tre.» Wismer prese il giornale e lo aprì alla pagina indicata dall'ammiraglio. Lesse ad alta voce il titolo, poi il testo. I ROMANI SBARCARONO NEL TEXAS? Secondo fonti autorevoli di Washington, la ricerca di un immenso nascondiglio sotterraneo di antiche reliquie provenienti dalla celebre Biblioteca di Alessandria d'Egitto si è conclusa poche centinaia di metri a nord del Rio Grande a Roma, nel Texas. I manufatti trovati nel corso degli anni da un certo Samuel Trinity sono stati riconosciuti autentici dagli archeologi. La ricerca era iniziata con la scoperta di una nave mercantile romana del quarto secolo dopo Cristo fra i ghiacci della Groenlandia... Wismer s'interruppe e divenne paonazzo per la rabbia. «Una soffiata! Una maledetta soffiata!» «Ma... ma chi può essere stato?» chiese inorridito Nichols. «Fonti autorevoli di Washington», ripeté Sandecker. «E questo può alludere solo alla Casa Bianca.» Guardò il presidente, poi Nichols. «Probabilmente un collaboratore che uno dei vostri supervisori ha rifiutato di pro-
muovere o ha licenziato.» Schiller si rivolse al presidente con aria cupa. «Sul posto saranno già piombati in mille. Le suggerisco di mandare i militari a presidiare l'area.» «Julius ha ragione, signor presidente», disse Nichols. «I cacciatori di tesori demoliranno quelle colline, se non li fermeremo in tempo.» Il presidente annuì. «D'accordo Dale. Si metta in contatto con il generale Metcalf dei capi di stato maggiore.» Nichols si alzò ed entrò nello studio dove erano di turno i tecnici del Servizio Segreto e gli addetti alle comunicazioni della Casa Bianca. «Consiglio di imporre il segreto sull'intera operazione», disse Wismer. «E dovremo diffondere la notizia che la scoperta è un falso.» «Non è una buona idea, signor presidente», intervenne Schiller. «I suoi predecessori hanno imparato a loro spese che non conviene mentire al popolo americano. I media fiuterebbero l'insabbiamento e la farebbero a pezzi.» «Sono d'accordo con Julius», disse Sandecker. «Faccia chiudere l'area, ma proceda con gli scavi. Non nasconda nulla e tenga informato il pubblico. Mi creda, signor presidente, per la sua amministrazione sarà meglio presentare i tesori della biblioteca via via che vengono recuperati.» Il presidente si rivolse a Wismer. «Mi dispiace, Harold. Forse è meglio così.» «Speriamo», disse Wismer, con gli occhi abbassati sull'articolo. «Preferisco non pensare a ciò che potrebbe succedere se quel pazzo di Topiltzin decidesse di farne una questione.» 68. Sam Trinity guardò Pitt intento a collegare una coppia di cavi elettrici che uscivano da due cassette metalliche sistemate sulla sponda ribaltata della jeep. Una aveva un piccolo monitor, l'altra una fenditura da cui usciva un rotolo di carta, come una lingua piatta. «È uno strano coso», commentò Trinity. «Come si chiama?» «Il nome ufficiale è sistema a profilo elettromagnetico per le esplorazioni sotto la superficie», rispose Pitt mentre inseriva gli spinotti in uno strano aggeggio a due gobbe con quattro ruote e un manubrio. «In pratica è un radar che sonda il terreno, il Georadar Uno, prodotto dalla Oyo Corporation.» «Non sapevo che il radar potesse funzionare attraverso la terra e la roc-
cia.» «Può fornire un buon profilo fino a dieci metri, e può arrivare fino a venti in condizioni ideali.» «Come funziona?» «La sonda portatile si muove sul terreno e la trasmittente invia nel suolo un impulso elettromagnetico. I segnali riflessi vengono captati da una ricevente e poi inoltrati al processore, a colori e al registratore grafico che stanno sulla jeep. Tutto qui, più o meno.» «Davvero non vuole che rimorchi io la trasmittente?» «No, è meglio spingerla a mano.» «Che cosa stiamo cercando?» «Una cavità.» «Cioè una caverna?» Pitt alzò le spalle e sorrise. «È la stessa cosa.» Trinity guardò in direzione della vetta di Gongora Hill, lontana quattrocento metri. «Perché stiamo guardando la schiena della collina sbagliata?» «Voglio fare qualche prova, prima di affrontare il sito più probabile», rispose vagamente Pitt. «E c'è la possibilità che Venator avesse sepolto altri manufatti in un posto diverso.» S'interruppe e fece un cenno a Lily. «Noi siamo pronti», gridò. Lily agitò un braccio e si avvicinò con una cartelletta e un foglio di carta per grafici. «Ecco la griglia per la ricerca», disse, indicando con la matita i segni tracciati sul foglio. «I paletti del confine sono a posto. Passerò dietro la jeep e controllerò gli strumenti. A intervalli di venti metri pianterò una bandierina, così potremo seguire percorsi in linea retta.» Pitt si rivolse a Trinity. «Pronto, Sam?» Trinity si mise al volante e accese il motore. «Mi dia il via.» Pitt mise in funzione l'unità e la regolò. Poi afferrò il manubrio della sonda e si mosse. «Via!» Trinity mise in moto la jeep e avanzò lentamente. Pitt lo seguì spingendo l'unità ricetrasmittente cinque metri più indietro. Uno strato di nubi offuscava il sole e lo faceva apparire come un fioco globo giallo. Per fortuna era una giornata dalla temperatura accettabile. Si spostarono avanti e indietro, evitando cespugli e alberi. Poi venne il pomeriggio e la monotonia della ricerca fece sembrare il tempo interminabile. Dimenticarono l'ora di pranzo e si fermarono solo quando Lily diede l'alt per studiare i dati registrati e prendere appunti.
«C'è qualcosa?» chiese Pitt che si era seduto sulla jeep per riprendere fiato. «Siamo sull'orlo di qualcosa che sembra interessante», rispose la donna. «Ma forse non è niente. Ne saprò di più dopo i prossimi due percorsi.» Trinity prese dalla ghiacciaia alcune bottiglie di birra messicana e le passò agli altri. Durante quella pausa, Pitt notò un numero crescente di macchine ferme ai piedi di Gongora Hill. La gente si sparpagliava sui pendii: e tutti erano armati di metal detector. Anche Sam se ne accorse. «Sono serviti a molto i miei cartelli 'Divieto d'accesso'», borbottò. «È come se avessi promesso da bere gratis a tutti.» «Da dove arrivano?» chiese Lily. «Come hanno saputo tanto presto del nostro progetto?» Trinity sbirciò al di sopra degli occhiali da sole. «In maggioranza sono del posto. Qualcuno deve aver chiacchierato. Prima di domani piomberanno qui da tutti gli stati dell'Unione.» Il telefono della jeep squillò, e Trinity rispose. Poi passò il ricevitore a Pitt. «Per lei. È l'ammiraglio Sandecker.» Pitt prese l'apparecchio. «Sì, ammiraglio?» «Ci hanno pugnalati alla schiena. Siamo stati esclusi dagli scavi», gli comunicò Sandecker. «I consiglieri del presidente l'hanno convinto ad affidare l'operazione al Pentagono.» «C'era da aspettarselo, ma avrei preferito il Servizio Parchi: è più attrezzato per gli scavi archeologici.» «La Casa Bianca vuole fare irruzione nel deposito e portar via al più presto possibile i rotoli per studiarli. Hanno una gran paura di uno scontro a muso duro con i Paesi che potrebbero pretendere la loro fetta.» Pitt batté il pugno sul tettuccio della jeep. «Maledizione! Non possono scendere là sotto e caricare tutto sui camion come se fosse merce di seconda mano. I rotoli andranno in polvere se non saranno maneggiati con le dovute precauzioni.» «Il presidente si addossa la responsabilità del rischio.» «Il passato non ha la precedenza sulla politica, vero?» «Non è l'unico guaio», continuò Sandecker. «Qualcuno, all'interno della Casa Bianca, ha spifferato tutto a un'agenzia d'informazione straniera. La notizia si sta diffondendo come un'epidemia.» «C'è già una gran folla che converge sul posto.» «Non perdono tempo.»
«Come intende regolarsi il governo per il fatto che il terreno appartiene a Sam?» «Diciamo che Sam riceverà un'offerta che non potrà rifiutare», rispose Sandecker in tono indignato. «Il presidente e i suoi cari amici contano di sfruttare politicamente le informazioni contenute nei rotoli della biblioteca.» «E mio padre è incluso?» «Sì, purtroppo.» «Chi si occuperà dei lavori, esattamente?» «Una compagnia di genieri dell'Esercito, inviata da Fort Hood. Arriveranno con i camion e il relativo equipaggiamento. Un contingente della Sicurezza dovrebbe piombarvi addosso con gli elicotteri da un momento all'altro per isolare il perimetro.» Pitt rifletté un momento. «Potrebbe servirsi della sua influenza per ottenere che restiamo sul posto?» «Mi indichi un pretesto valido.» «A parte Hiram Yaeger, io e Lily ne sappiamo sulla ricerca più di tutti quelli che verranno a scavare. Racconti che siamo indispensabili per i consulenti. E citi le credenziali accademiche di Lily. Diciamo che stiamo svolgendo una ricognizione archeologica per quanto riguarda i manufatti reperibili in superficie. Dica quello che vuole, ammiraglio, ma convinca la Casa Bianca ad autorizzarci a rimanere.» «Vedrò quel che posso fare», disse Sandecker che si andava affezionando all'idea anche se non capiva a che cosa mirasse Pitt. «L'unico ostacolo dovrebbe essere Harold Wismer. Se il senatore ci appoggia, credo che ce la faremo.» «Mi faccia sapere se mio padre punta i piedi. Gli parlerò io.» «Ci sentiamo.» Pitt restituì il telefono a Trinity e si rivolse a Lily. «Ci hanno tolto il caso», annunciò. «Sarà l'Esercito a occuparsi degli scavi. Porteranno via i reperti non appena potranno buttarli a bordo dei camion.» Lily sgranò gli occhi, inorridita. «I rotoli andranno distrutti!» esclamò. «Dopo milleseicento anni in una grotta i manoscritti di papiro e di pergamena vanno trattati con molta delicatezza. Basterebbe un brusco cambiamento di temperatura o un contatto leggerissimo per disintegrarli.» «Ho detto la stessa cosa all'ammiraglio. Mi hai sentito», rispose Pitt. Trinity aveva un'aria sfinita. «Be'», borbottò. «Vogliamo smettere per oggi?»
Pitt guardò i paletti che segnavano il limite estremo della griglia di ricerca. «Non ancora», disse. «Finiamo il nostro lavoro. Lo spettacolo non è ancora terminato.» 69. La lussuosa Mercedes si fermò sul molo dello yacht club nel porto di Alessandria. L'autista aprì la portiera e Robert Capesterre scese. Con l'abito di lino bianco confezionato su misura, la camicia azzurro-polvere e la cravatta in tinta, non somigliava più a Topiltzin. Fu accompagnato giù per una scala di pietra fino alla lancia che l'attendeva. Si assestò sui cuscini mentre l'imbarcazione attraversava il porto e ne varcava l'imboccatura dove un tempo sorgeva una delle sette meraviglie del mondo antico, il famoso Faro che prendeva il nome dall'isoletta omonima e che era alto ben 135 metri. Sulle sue rovine restavano soltanto poche pietre che erano servite per costruire una fortezza araba. La lancia puntò verso un grande yacht ormeggiato al largo di un'ampia spiaggia. Capesterre l'aveva visitato in altre occasioni. Sapeva che era lungo quarantacinque metri, era stato costruito in un cantiere olandese e aveva linee agili e slanciate. Aveva un'autonomia transoceanica e una velocità di crociera di trenta nodi. Il pilota azionò la manetta e fece muovere la lancia a ritroso per accostarla alla scaletta. Sul ponte, Capesterre fu accolto da un uomo che indossava una camicia di seta, un paio di calzoncini e i sandali. Si abbracciarono. «Benvenuto, fratello», disse Paul Capesterre. «Non ci vedevamo da molto tempo.» «Hai un ottimo aspetto, Paul. Direi che tu e Akhmad Yazid siete aumentati di quattro chili.» «Sei.» «Mi fa uno strano effetto vederti senza uniforme», disse Robert. Paul alzò le spalle. «Mi sono stancato dell'abbigliamento arabo di Yazid e di quello stupido turbante.» Si scostò e sorrise. «Ma senti chi parla! Non mi pare che tu sia vestito in costume azteco.» «Topiltzin è in vacanza, per il momento.» Robert s'interruppe e indicò il ponte. «Vedo che hai preso in prestito la barca dello zio Théodore.» «Non sa più che cosa farsene da quando la famiglia ha abbandonato il traffico di droga.» Paul Capesterre condusse il fratello nella sala da pranzo.
«Vieni, è pronto. Dal momento che hai preso gusto allo champagne ho tirato fuori una bottiglia della migliore riserva dello zio.» Robert prese il bicchiere offerto dal fratello. «Credevo che il presidente Hasan ti avesse messo agli arresti domiciliari.» «L'unica ragione per cui avevo comprato la villa è una galleria segreta lunga un centinaio di metri che sbocca nell'officina di un meccanico.» «E anche l'officina è tua.» «Naturalmente.» Robert alzò il bicchiere. «Al grande piano di mamma e papà!» Paul annuì. «Anche se per il momento la tua situazione in Messico appare più promettente della mia in Egitto.» «Il fiasco del Lady Flamborough non è colpa tua. La famiglia aveva approvato il piano. Nessuno poteva prevedere che gli americani sarebbero stati tanto furbi.» «Quell'idiota di Suleiman Aziz Ammar», sibilò Paul, «ha rovinato l'operazione.» «Si hanno notizie dei superstiti?» «Gli agenti della famiglia riferiscono che quasi tutti sono morti, inclusi Ammar e il tuo capitano Machado. Alcuni sono stati fatti prigionieri ma non sanno niente del nostro coinvolgimento.» «Allora possiamo ritenerci fortunati. Ora che Machado e Ammar sono morti, nessun servizio segreto del mondo può toccarci. Loro erano i soli legami.» «Il presidente Hasan non ha faticato a sommare due più due, altrimenti io non sarei agli arresti domiciliari.» «Sì», ammise Robert. «Ma non può agire contro di te senza prove concrete. Se lo tentasse, i tuoi seguaci insorgerebbero e impedirebbero la celebrazione del processo. La famiglia suggerisce che tu rimanga nell'ombra e che nel contempo consolidi la tua base di potere. Almeno per un anno, per vedere da che parte tirerà il vento.» «Per ora il vento, soffia in favore di Hasan, di Hala Kamil e di Abu Hamid», commentò rabbiosamente Paul. «Abbi pazienza. Molto presto il tuo movimento fondamentalista islamico ti porterà al Parlamento egiziano.» Paul fissò il fratello con un'espressione astuta negli occhi. «La scoperta dei tesori della Biblioteca di Alessandria potrebbe accelerare le cose.» «Hai letto le ultime notizie d'agenzia?» chiese Robert. «Sì. Gli americani dicono di aver trovato il nascondiglio nel Texas.»
«Il possesso della antiche carte geologiche potrebbe esserti molto utile. Se indicano ricchi giacimenti minerali e petroliferi, potrai vantarti di aver fatto fiorire l'economia dell'Egitto.» «Ho preso in considerazione questa possibilità», disse Paul. «Se ho capito bene le intenzioni della Casa Bianca, il presidente userà i manufatti e i rotoli come merce di scambio. Mentre Hasan mercanteggerà e implorerà per ottenere una modesta fetta dell'eredità dell'Egitto, io potrò presentarmi al popolo e denunciare l'oltraggio contro i nostri avi.» Paul esitò mentre i suoi pensieri divagavano. Poi socchiuse gli occhi. «Credo che riuscirò a sfruttare la legge islamica e le parole del Corano per lanciare un grido di battaglia che annienterà il governo di Hasan.» Robert rise. «Cerca di non sghignazzare troppo quando lo dirai. Furono i cristiani a bruciare gran parte dei volumi nel 391 dopo Cristo, ma furono i musulmani a distruggere completamente la biblioteca nel 646.» Un cameriere cominciò a servire salmone affumicato scozzese e caviale iraniano. Per qualche minuto i due fratelli mangiarono in silenzio. Poi Paul disse: «Ti rendi conto, spero, che il compito di impadronirti del tesoro ricade sulle tue spalle». Robert lo fissò al di sopra del bicchiere di champagne. «Stai parlando a me o a Topiltzin?» Paul rise. «A Topiltzin.» Robert posò il bicchiere e levò lentamente le mani come se implorasse il soffitto. I suoi occhi assunsero un'espressione ipnotica quando cominciò a parlare in toni incalzanti. «Insorgeremo a decine di migliaia, a centinaia di migliaia. Attraverseremo il fiume e prenderemo ciò che fu sepolto sotto la nostra terra, la terra che ci è stata rubata dagli americani. Molti saranno sacrificati, ma gli dei ci ordinano di prendere ciò che appartiene di diritto al Messico.» Poi riabbassò le mani e ghignò. «Naturalmente, c'è bisogno di qualche ritocco.» «Ho l'impressione che abbia preso a prestito il mio copione», esclamò Paul applaudendo. «Che differenza fa, purché resti in famiglia?» Robert infilzò sulla forchetta l'ultima fettina di salmone. «È delizioso. Non mi stancherei mai di mangiarlo.» Poi bevve lo champagne. «Se riuscirò a impadronirmi del tesoro e a tenermelo, che cosa succederà?» «Io voglio solo le antiche mappe. Tutto il resto che si potrà esportare di nascosto andrà alla famiglia che lo terrà o lo venderà ai ricchi collezionisti sul mercato nero. D'accordo?»
Robert rifletté un momento e annuì. «D'accordo.» Il cameriere portò un vassoio con i bicchieri, una bottiglia di cognac e una scatola di sigari. Paul ne accese uno e poi guardò il fratello attraverso il fumo con aria interrogativa. «Come conti di impadronirti dei tesori della biblioteca?» «Avevo deciso di lanciare una massiccia invasione disarmata negli Stati americani di confine dopo aver preso il potere. Questa mi pare una buona occasione per un collaudo.» Robert fissò il bicchiere e fece roteare il cognac. «Dopo che avrò messo in moto gli ingranaggi della mia organizzazione, gli straccioni delle città e i contadini delle campagne verranno radunati e trasportati a nord fino a Roma nel Texas. Sono in grado di schierare in quattro giorni sulla nostra sponda del Rio Grande trecento o quattrocentomila persone.» «E la resistenza degli americani?» «I militari, le guardie di confine e la polizia del Texas non potranno fermare l'ondata. Conto di mandare per primi le donne e i bambini attraverso il ponte sul fiume. Gli americani sono sentimentali. Avranno anche ucciso gli abitanti di qualche villaggio del Vietnam, ma non massacreranno i civili inermi sulla loro porta di casa. E punterò sul fatto che la Casa Bianca ha una gran paura di uno spiacevole incidente internazionale. Il presidente non oserà dare l'ordine di sparare. La resistenza passiva sarà sopraffatta da una marea umana che travolgerà Roma e occuperà la caverna contenente i tesori della biblioteca.» «E sarà Topiltzin a guidarli?» «Li guiderò io.» «Per quanto credi di poter tenere la caverna?» chiese Paul. «Il tempo necessario perché gli esperti valutino e asportino tutti i rotoli che si riferiscono ai giacimenti minerari perduti.» «Forse ci vorranno settimane. Non ne avrai il tempo. Gli americani manderanno rinforzi e respingeranno in Messico i tuoi nel giro di pochi giorni.» «No, se minaccerò di bruciare i rotoli e di distruggere le opere d'arte.» Robert si asciugò le labbra con il tovagliolo. «A quest'ora il mio jet sarà stato rifornito di carburante. È meglio che torni in Messico per avviare l'operazione.» Negli occhi di Paul si accese una luce di rispetto per le capacità inventive del fratello. «Quando si troverà con le spalle al muro, il governo americano non potrà far altro che trattare. L'idea mi piace.»
«Sarà l'orda più numerosa che abbia mai invaso gli Stati Uniti dai tempi della guerra d'indipendenza», disse Robert. «E questo mi piace ancora di più.» 70. Incominciarono ad arrivare a migliaia il primo giorno, a decine di migliaia l'indomani. Da tutto il Messico settentrionale una massa ispirata dagli incitamenti deliranti di Topiltzin s'era messa in viaggio con le automobili, gli autobus e i camion sovraccarichi, o addirittura a piedi per raggiungere la cittadina polverosa di Miguel Alemán, sulla sponda opposta a Roma. Le strade asfaltate che venivano da Monterrey, Tampico e Città di Messico erano intasate da un torrente ininterrotto di veicoli. Il presidente De Lorenzo tentò di fermare la valanga umana che avanzava verso il confine. Ordinò alle forze armate del suo paese di bloccare le strade. Ma era come se i militari tentassero di fermare un'alluvione. Alla periferia di Guadalupe una squadra di soldati che stava per essere travolta sparò contro la folla e uccise cinquantaquattro persone, quasi tutti donne e bambini. Senza volerlo, De Lorenzo aveva fatto il gioco di Topiltzin. Era la reazione in cui sperava Robert Capesterre. A Città di Messico scoppiarono disordini, e De Lorenzo si rese conto che doveva fare marcia indietro per non affrontare disordini crescenti e una possibile rivoluzione. Inviò alla Casa Bianca un messaggio che esprimeva il suo sincero rammarico per l'impossibilità di arginare quell'orda; poi richiamò i soldati, molti dei quali disertarono e si associarono alla crociata. La folla, che ormai nulla poteva più frenare, sciamò verso il Rio Grande. I pianificatori professionisti al soldo della famiglia Capesterre e i seguaci di Topiltzin eressero una tendopoli di cinque chilometri quadrati, montarono le cucine da campo e cominciarono a distribuire il cibo. Gli impianti igienici arrivarono con i camion e furono messi in funzione. Non venne trascurato nulla. Molti dei miserabili che avevano invaso l'area non avevano mai mangiato così bene. Le nubi di polvere e il fumo dei motori diesel turbinavano nell'aria. Sulla riva messicana del Rio Grande apparvero striscioni dipinti a mano. «Gli Stati Uniti hanno rubato la nostra terra», «Rivogliamo la terra dei nostri avi», «Le antichità appartengono al Messico». Tutti cantavano gli stessi slogan in inglese, spagnolo e nahuatl. Topiltzin si aggirava tra le masse
dei fanatici e li spronava a una follia collettiva che si era vista raramente al mondo al di fuori dell'Iran. Le squadre della televisione avevano il loro da fare a registrare quelle manifestazioni pittoresche. Le telecamere, con i cavi che le collegavano a due dozzine di unità mobili, erano schierate sopra l'altura di Roma e inquadravano la sponda opposta del fiume. I corrispondenti ignari che si aggiravano tra la folla non sapevano che le famiglie dei contadini da loro intervistate erano state meticolosamente infiltrate e indottrinate. In molti casi quegli individui dall'aria di poveri diavoli erano attori che parlavano benissimo l'inglese, ma rispondevano alle domande con frasi smozzicate e accenti tremendi. I loro appelli lacrimosi che invocavano il diritto di insediarsi per sempre in California, Arizona, Nuovo Messico e Texas suscitarono un'ondata di commozione imbecille in tutta la nazione quando i servizi furono trasmessi nei telegiornali della sera e nei talk-show della mattina. Gli unici che non si lasciavano impressionare erano gli uomini della guardia confinaria degli Stati Uniti. Fino a quel momento, la minaccia di un'invasione massiccia era stata soltanto un incubo. Ma ora stavano per assistere all'avverarsi delle loro peggiori paure. Gli uomini della guardia di confine avevano raramente motivo di usare le armi. Trattavano umanamente gli immigrati clandestini prima di rimpatriarli. Non vedevano con entusiasmo i contingenti dell'esercito che coprivano la riva statunitense del fiume come formiche mimetizzate. Vedevano soltanto la prospettiva di disastri e di massacri nella lunga linea delle armi automatiche e nei venti carri armati con i cannoni puntati verso il Messico. I soldati erano giovani ed efficienti. Ma erano addestrati a combattere contro nemici che reagivano. Si sentivano a disagio al pensiero di affrontare un'ondata di civili inermi. Il comandante, il generale di brigata Curtis Chandler, aveva barricato il ponte con i carri armati e i mezzi corazzati, ma Topiltzin aveva previsto quell'evenienza. La riva del fiume era stipata d'una quantità di barche, zattere e pneumatici rastrellati entro un raggio di trecento chilometri. I ponti di corda venivano preparati per essere portati sull'altra riva dalla prima ondata. L'ufficiale della guardia di confine che era alle dirette dipendenze del generale Chandler prevedeva un assalto iniziale di ventimila persone prima che la flottiglia ritornasse a caricare una nuova ondata. Era impossibile immaginare quanti avrebbero attraversato il fiume a nuoto. Una sua agente
era riuscita a penetrare nella roulotte che serviva da mensa agli aiutanti di Topiltzin e aveva riferito che la bufera si sarebbe scatenata a tarda sera, dopo che il messia azteco avesse debitamente aizzato i suoi seguaci fanatici. Ma l'agente non era riuscita a scoprire per quale sera era prevista l'azione. Chandler aveva prestato servizio in Vietnam per tre turni, e sapeva per esperienza personale che cosa significava uccidere giovani donne fanatiche e ragazzini che colpivano senza preavviso uscendo dalla giungla. Diede ai suoi l'ordine di sparare sopra la testa degli invasori quando avesse cominciato ad attraversare il fiume. E se quell'avvertimento non fosse stato sufficiente... Chandler era un soldato che faceva il suo dovere senza discutere. Se gli avessero dato l'ordine, avrebbe usato i suoi uomini per respingere l'invasione, anche a costo di un bagno di sangue. Pitt era sulla terrazza dell'emporio di Sam Trinity e guardava con il telescopio che il texano adoperava per studiare le stelle. Il sole era sceso dietro le colline a occidente e la luce del giorno stava per svanire, ma al di là del Rio Grande stava per incominciare lo spettacolo meticolosamente preparato. Si accesero batterie di riflettori multicolori; alcuni sciabolarono il cielo, altri illuminarono una torre eretta al centro della tendopoli. Pitt inquadrò una figura che stava sulla piattaforma in cima alla torre e che indossava una lunga tunica bianca e un'acconciatura coloratissima. Dal movimento delle braccia sollevate non era difficile dedurre che l'individuo era impegnato in un discorso veemente. «Chi può essere quel tipo in costume da ballo in maschera che sta aizzando gli indigeni?» Sandecker, che assieme a Lily esaminava le registrazioni dei rilevamenti del sottosuolo, alzò la testa alla domanda di Pitt. «Con ogni probabilità è quel buffone del falso Topiltzin», borbottò. «Sta suggestionando la folla con l'abilità di un evangelista.» «Qualcosa fa pensare che stanotte tenteranno la traversata?» chiese Lily. Pitt si staccò dal telescopio e scosse la testa. «Stanno lavorando sulla loro flotta, ma non credo che verranno ancora per quarantotto ore. Topiltzin non tenterà l'offensiva se prima non avrà la certezza di fare notizia in tutto il mondo.» «Topiltzin è un nome falso», spiegò Sandecker. «Quello vero è Robert Capesterre.»
«Si è trovato un'attività redditizia.» Sandecker alzò il pollice e l'indice e li accostò. «Gli manca solo tanto così per diventare padrone del Messico.» «E se quell'adunata oceanica sull'altra riva del fiume può servire come indicazione, vuoi mettere le grinfie anche sul sud-ovest americano.» Lily si alzò e si stirò. «Quest'attesa mi fa impazzire. Noi facciamo il lavoro e i genieri si prendono tutta la gloria. È molto scortese da parte loro impedirci di seguire gli scavi e di entrare nella proprietà di Sam.» Pitt e Sandecker sorrisero alla parola scelta da Lily. «Io avrei usato un termine un po' più forte di 'scortese'», commentò l'ammiraglio. Lily mordicchiò nervosamente una penna. «Perché il senatore non si fa vivo? Avremmo dovuto avere sue notizie.» «Non saprei», rispose Sandecker. «Dopo che gli ho spiegato le idee di Dirk, mi ha risposto soltanto che avrebbe combinato qualcosa.» «Vorrei tanto sapere come va», mormorò Lily. Trinity comparve sulla scala e si passò le mani sul grembiule. «Qualcuno vuole un piatto del famoso chili alla Trinity?» Lily gli rivolse un'occhiata dubbiosa. «È molto piccante?» «Cara signorina, posso farlo delicato come una toffoletta o forte come l'acido per batterie. Come preferisce.» «Vada per la toffoletta», decise Lily senza esitare. Prima che Pitt e Sandecker potessero esprimere le loro preferenze, Sam Trinity si voltò a guardare nella semioscurità una fila di fari che si avvicinava lungo la strada. «Dev'essere un altro convoglio dell'esercito», annunciò. «Di qui non passano macchine né camion da quando il generale ha bloccato le strade e dirottato tutto il traffico verso nord.» Poco dopo contarono cinque camion preceduti da un hummer, il veicolo che aveva sostituito la longeva jeep. L'ultimo camion trainava un rimorchio con un caricò coperto da un telone. Il convoglio non lasciò la strada per dirigersi verso l'accampamento dei genieri su Gongora Hill e non si addentrò in Roma. Si infilò nel viale che portava al Circo Romano di Sarti e si fermò fra le pompe e l'emporio. I passeggeri scesero dall'hummer e si guardarono intorno. Pitt riconobbe immediatamente tre facce che gli erano familiari. Due degli uomini erano in uniforme, il terzo indossava jeans e maglione. Pitt scavalcò la ringhiera e si calò fino a poca distanza dal suolo. Poi lasciò la presa e atterrò di fronte ai tre. La fitta di dolore causata dalla gamba ferita gli strappò un gemito. I tre erano sorpresi dalla sua apparizione quanto Pitt lo
era della loro. «Da dove piovi?» chiese Al Giordino con un gran sorriso. Era pallido nella luce dei riflettori e portava il braccio al collo, ma aveva la solita aria stizzosa. «Stavo per farvi la stessa domanda.» Il colonnello Hollis si fece avanti. «Non immaginavo che ci saremmo rivisti tanto presto.» «Neppure io», soggiunse il maggiore Dillinger. Pitt provò un profondo senso di sollievo mentre stringeva loro la mano. «Se dicessi che sono contento di vedervi sarebbe poco. Come mai siete qui?» «Suo padre ha fatto pressione sui capi di stato maggiore», spiegò Hollis. «Avevo appena finito il mio rapporto sulla missione Lady Flamborough quando è arrivato l'ordine di radunare le squadre e di precipitarci qui con mezzi di trasporto terrestri, passando per le strade di campagna secondarie. Il tutto coperto dal massimo segreto. Mi è stato detto che il comandante sul campo non verrà informato della nostra missione se non quando mi presenterò a lui.» «Il generale Chandler», disse Pitt. «Sì, Chandler l'Inflessibile. Ho prestato servizio ai suoi ordini nella NATO otto anni fa. È ancora convinto che le guerre si vincano con i soli mezzi corazzati, quindi gli è toccato il compito di fare la parte di Orazio Coclite alla difesa del ponte.» «E voi che ordini avete?» chiese Pitt. «Collaborare con lei e la dottoressa Sharp nel progetto che avete in corso. L'ammiraglio Sandecker terrà i collegamenti diretti con il senatore e il Pentagono. È più o meno tutto quello che so.» «Nessuno ha parlato della Casa Bianca?» «Non è stato messo niente sulla carta.» Hollis si voltò quando Lily e l'ammiraglio, che erano scesi dalla scala interna, uscirono dalla porta. Mentre Lily abbracciava Giordino e Dillinger si presentava a Sandecker, Hollis prese in disparte Pitt. «Che cosa diavolo sta succedendo qui?» mormorò. «Che cos'è, un circo?» Pitt sorrise maliziosamente. «C'è andato molto vicino.» «E che c'entrano le mie Forze Speciali?» «Quando comincerà la mischia generale», disse Pitt, che era ridiventato di colpo serissimo, «il vostro compito sarà far saltare in aria l'emporio.»
71. La scavatrice che le Forze Speciali avevano portato dalla Virginia era enorme. I cingoli massicci issarono la sua mole gigantesca su per il pendio fino a un punto contrassegnato da una delle bandierine di Lily. Dopo dieci minuti di spiegazioni e un po' di pratica, Pitt imparò a memoria le funzioni della leva e incominciò ad azionare da solo il colosso. Alzò la pala larga due metri e mezzo, poi la riabbassò come un artiglio ciclopico, e colpì il terreno con un clangore fragoroso. Meno di un'ora dopo aveva scavato una trincea profonda sei metri e lunga venti sul pendio posteriore della collina. I lavori erano arrivati a questo punto quando una Blazer Chevrolet a quattro ruote motrici arrivò come un fulmine, seguita da un trasporto carico di soldati armati fino ai denti. Le ruote non avevano ancora smesso di girare nel momento in cui balzò a terra un capitano tutto impettito che aveva l'aria dell'uomo votato alla disciplina militare e alle procedure operative. «Questa è una zona vietata», esclamò bruscamente. «Vi avevo avvertiti due giorni fa di non tornare più. Dovete portar via la vostra attrezzatura e andarvene subito.» Pitt scese dalla scavatrice con aria indifferente e fissò il fondo della trincea come se l'ufficiale non esistesse. Il capitano diventò rosso in faccia e ordinò: «Sergente O'Hara, prepari gli uomini per scortare questi civili fuori dell'area». Pitt si voltò e sorrise amabilmente. «Mi rincresce, ma noi non ci muoviamo.» Il capitano ricambiò il sorriso con un sorriso sferzante. «Avete tre minuti per andarvene e portar via la scavatrice.» «Vuol vedere i documenti che ci autorizzano a stare qui?» «Non m'interessano, se non sono firmati dal generale Chandler.» «Sono stati firmati da un'autorità superiore al suo generale.» «Avete tre minuti», intimò il capitano. «Poi vi farò allontanare con la forza.» Lily, Giordino e l'ammiraglio, che erano seduti a bordo della jeep Wagoneer prestata da Trinity, si avvicinarono per assistere alla scena. Lily, che indossava soltanto un corpino prendisole e un paio di calzoncini attillatissimi, passò ancheggiando davanti alla fila dei soldati. Le donne che non hanno mai battuto il marciapiede non sanno cammina-
re con quell'andatura seducente che sembra un fenomeno naturale, anzi tendono a esagerare in modo un po' comico. Lily non faceva eccezione alla regola, ma ai soldati la cosa non interessava per niente: la divoravano con gli occhi. Pitt incominciava a irritarsi. Detestava gli imbecilli presuntuosi. «Lei ha solo dodici uomini, capitano, dodici genieri che hanno avuto meno di cento ore di addestramento ai combattimenti. Io ho quaranta uomini dalla mia parte, e due di loro scelti a caso sarebbero in grado di sterminare i suoi in trenta secondi e a mani nude. Non le sto chiedendo di ritirarsi. Glielo ordino.» Il capitano girò su se stesso con noncuranza; ma a parte Pitt vide soltanto Lily che ancheggiava davanti ai genieri, l'ammiraglio Sandecker che fumava distrattamente un grosso sigaro, e un uomo che non conosceva e che aveva un braccio al collo. I due stavano appoggiati alla jeep con aria insonnolita. Lanciò un'occhiata a Pitt, ma Pitt sembrava impassibile. Alzò una mano. «Sergente, butti fuori tutti costoro.» Prima che i genieri avessero il tempo di muovere due passi, il colonnello Hollis apparve come per magia. L'uniforme mimetica e le mani e la faccia tinte con il cerone si confondevano alla perfezione con la vegetazione circostante. A meno di cinque metri di distanza, era quasi invisibile contro lo sfondo dei cespugli. «Abbiamo qualche problema?» chiese Hollis al capitano con lo stesso fare benevolo di un serpente a sonagli che adocchia un topo. Il capitano restò a bocca aperta e i suoi uomini si bloccarono. Poi si avvicinò di qualche passo e scrutò Hollis più attentamente: notò che non portava i gradi. «Lei chi è?» latrò. «A che unità appartiene?» «Colonnello Morton Hollis, Forze Speciali.» «Capitano Louis Cranston, signore, 486° Battaglione del Genio.» I due si scambiarono un saluto militare. Hollis indicò la fila dei genieri che imbracciavano le armi automatiche. «Può ordinare 'riposo' ai suoi.» Cranston non sapeva come comportarsi di fronte a un colonnello sconosciuto che si era materializzato dal nulla. «Posso chiederle, colonnello, che cosa ci fa qui un ufficiale delle Forze Speciali?» «Ho il compito di assicurarmi che questi signori possano svolgere una ricerca archeologica senza essere disturbati.» «Devo rammentarle, signore, che i civili non sono ammessi in una zona
militare vietata.» «E se le dicessi che sono autorizzati a stare qui?» «Mi dispiace, colonnello. Sono agli ordini del generale Chandler, che è stato molto esplicito. Chi non fa parte del battaglione, e questo include anche lei, signore, non può entrare...» «Ha intenzione di buttar fuori anche me?» «Se non mi presenta un ordine firmato dal generale Chandler», disse Cranston in tono nervoso, «obbedirò alle istruzioni ricevute.» «Questa posizione inflessibile non le farà guadagnare una medaglia, capitano. È meglio che ci ripensi.» Cranston si rendeva conto che l'altro stava giocando con lui, e l'idea non gli piaceva. «La prego di non causare guai, colonnello.» «Porti via i suoi uomini e torni alla base, e non si azzardi a voltarsi indietro.» Pitt si godeva la scena: ma a quel punto si voltò con riluttanza e si calò di nuovo nella trincea. Incominciò a rovistare nella terra. Giordino e Sandecker si avvicinarono per guardare. Cranston esitò. Il suo antagonista aveva un grado superiore al suo, ma gli ordini erano chiari. Decise di non cedere. Se ci fosse stata un'inchiesta, il generale Chandler l'avrebbe appoggiato. Ma prima che potesse ordinare ai suoi di sgombrare l'area, Hollis estrasse un fischietto dalla tasca e lanciò due sibili. Come fantasmi che escono dalle tombe in un film dell'orrore, quaranta figure più simili a cespugli che a uomini si materializzarono all'improvviso e si piazzarono in cerchio intorno a Cranston e ai suoi genieri. Negli occhi di Hollis passò un lampo velenoso. «Pum! Siete morti.» «Ci hai chiamati, capo?» disse un cespuglio che aveva la voce del maggiore Dillinger. Cranston perse tutta la baldanza. «Devo... devo riferire... al generale Chandler», balbettò. «Lo faccia», disse freddamente Hollis. «E gli comunichi che ho ricevuto i miei ordini dal generale Clayton Metcalf dei capi di stato maggiore: potrà accertarlo rivolgendosi al Pentagono. Queste persone e la mia squadra non sono venute per interferire con i vostri scavi su Gongora Hill o per disturbare l'attività del generale lungo il fiume. Il nostro compito consiste nel recuperare e mettere al sicuro i manufatti romani che si trovano in superficie prima che vadano perduti o rubati. Sono stato chiaro, capitano?» «Capisco, signore», rispose Cranston, mentre girava irrequieto lo sguar-
do sugli uomini che lo circondavano, sulle facce che apparivano spaventose sotto il trucco mimetico. «Eccone un'altra!» gridò Pitt dalla trincea. Sandecker accennò a tutti di avvicinarsi. «Ha trovato qualcosa.» La controversia fu dimenticata per un momento; genieri e uomini delle Forze Speciali si affollarono per guardare. Pitt era carponi e rimuoveva il terriccio da un lungo oggetto metallico. Lo liberò in pochi minuti e lo passò a Lily con la massima cura. Lily aveva dimenticato gli atteggiamenti provocanti di poco prima ed esaminava con attenzione l'antica reliquia. «È una spada del quarto secolo con chiare caratteristiche romane», annunciò. «Quasi intatta e con poche tracce di corrosione.» «Posso?» disse Hollis. Lily porse la spada, e Hollis strinse l'impugnatura e alzò la lama sopra la testa. «Pensate», mormorò in tono reverente. «L'ultimo uomo che l'ha impugnata era un legionario romano.» Poi la mostrò a Cranston. «Le piacerebbe combattere una battaglia con questa anziché con un'arma da fuoco automatica?» «Io preferirei un proiettile», mormorò pensosamente Cranston, «piuttosto che essere fatto a pezzi.» Appena i genieri tornarono al loro accampamento, Pitt si rivolse a Hollis. «I miei complimenti per la mimetizzazione. Avevo individuato solo tre uomini di tutta la squadra.» «Era stranissimo», disse Lily. «Sapevamo che eravate intorno a noi ma non riuscivamo a vedervi.» Hollis era sinceramente imbarazzato. «Siamo più abituati a mimetizzarci nella giungla o nella foresta. Questa è stata un'utile esercitazione per il terreno semi-arido.» «Ottimo lavoro», si complimentò Sandecker, stringendogli la mano. «Speriamo che il generale Chandler beva quello che gli riferirà il bravo capitano», disse Giordino. «Ammesso che si prenda il disturbo di ascoltarlo», interloquì Pitt. «Il problema più urgente del generale è impedire che mezzo milione di stranieri varchi il confine e rubi le opere d'arte e i testi della biblioteca. Non ha tempo da perdere con noi.» «E la spada romana?» chiese Hollis mostrandola.
«Tornerà nella collezione del museo di Sam.» Hollis fissò Pitt. «Non l'ha trovata nella trincea?» «No.» «Cos'è, la eccita scavare buche?» Pitt si comportò come se non l'avesse sentito. Raggiunse la cima della collina e guardò la sponda messicana. La tendopoli era raddoppiata di estensione rispetto al giorno prima. Domani notte, pensò. Topiltzin avrebbe scatenato la tempesta l'indomani notte. Si voltò verso sinistra e osservò Gongora Hill, che era un po' più alta della collina su cui si trovava. I genieri stavano scavando esattamente dove Lily aveva piazzato i paletti quattro giorni prima. Stavano effettuando due scavi separati. Uno era un comune tunnel, con tanto di puntelli. L'altro era una miniera a cielo aperto, un cratere nel fianco della collina. I lavori procedevano lentamente perché il generale Chandler aveva destinato gran parte dei genieri a contribuire alla difesa del confine. Pitt si voltò e ridiscese. Si avvicinò a Hollis. «Chi è il suo miglior esperto di esplosivi?» «Il maggiore Dillinger è un vero asso.» «Ho bisogno di duecento chili di nitroglicerina gel C-6.» Hollis lo fissò sbalordito. «Duecento chili di C-6? Ne bastano dieci per distruggere una corazzata. Si rende conto di quello che chiede? Il nitrogel è pericoloso, può esplodere per effetto di una scossa.» «Mi serve anche una batteria di riflettori», continuò Pitt. «Possiamo prenderli a prestito da un gruppo rock. Riflettori, luci stroboscopiche e un impianto audio da spaccare i timpani.» Poi si rivolse a Lily. «Lascio a te il compito di trovare un falegname che fabbrichi una cassa.» «In nome di Dio, a che cosa ti serve tutta quella roba?» chiese Lily sgranando gli occhi per la curiosità. «È meglio non saperlo», gemette Giordino. «Lo spiegherò più tardi», disse Pitt. «Mi sembra una pazzia», insisté Lily che non riusciva capire. Aveva ragione solo a metà, pensò Pitt. Il suo piano era due volte più pazzesco di quanto Lily potesse immaginare. Ma preferiva tenere tutti all'oscuro. Pensava che non fosse il momento più adatto per dire agli altri che intendeva fare il suo numero sul palcoscenico. 72.
La Volvo verde con le insegne da taxi si fermò davanti al vialetto della villa di Yazid nei pressi di Alessandria. I militari egiziani che montavano la guardia per ordine personale del presidente Hasan si tesero quando videro che il taxi restava fermo davanti al cancello senza che scendesse qualcuno. Ammar era sul sedile posteriore, con gli occhi e la mandibola avvolti nelle bende. Indossava una tunica di seta blu e un piccolo turbante rosso. Le uniche cure mediche che aveva ricevuto dopo la fuga da Santa Ines erano avvenute durante una visita di due ore presso un chirurgo di Buenos Aires prima di noleggiare un jet privato che l'aveva portato oltre l'oceano e l'aveva fatto scendere nel piccolo aeroporto alla periferia della città. Le occhiaie vuote non lo facevano più soffrire: gli analgesici eliminavano il dolore. Ma era ancora una tortura parlare con la mandibola fracassata. E sebbene provasse una strana sensazione di serenità, la sua mente era implacabile ed efficiente come sempre. «Siamo arrivati», disse Ibn che stava al volante. Ammar visualizzò con il pensiero la villa di Yazid in tutti i particolari, come se la vedesse veramente. «Lo so», disse. «Non dovresti farlo, Suleiman Aziz.» «Non spero e non temo più nulla.» Ammar parlava lentamente, lottando a ogni sillaba con la sofferenza. «È il volere di Allah.» Ibn scese, aprì la portiera posteriore e aiutò Ammar a scendere, lo condusse lungo il viale e lo fece girare verso il cancello e le guardie. «Il cancello è cinque metri più avanti», disse con voce scossa dall'emozione. Poi abbracciò Ammar. «Addio, Suleiman Aziz. Mi mancherai.» «Fai quanto hai promesso, mio fedele amico, e c'incontreremo nel giardino di Allah.» Ibn si voltò e tornò in fretta alla macchina. Ammar restò immobile fino a che sentì il rombo del motore perdersi in lontananza. Poi si avvicinò al cancello. «Fermo lì, cieco», ordinò una guardia. «Sono venuto a far visita a mio nipote Akhmad Yazid», disse Ammar. La guardia fece cenno a un collega che entrò in un ufficietto e uscì con una cartelletta che conteneva una ventina di nomi. «Dice d'essere uno zio. Come si chiama?» Ammar apprezzava l'idea di recitare per l'ultima volta un'impostura. Aveva ottenuto che un colonnello del ministero della Difesa gli pagasse un debito di riconoscenza fornendogli l'elenco di coloro che erano autorizzati
a entrare nella villa di Yazid, e aveva scelto uno che non era possibile contattare immediatamente. «Mustafa Mahfouz.» «Il nome c'è. Vediamo i documenti.» La guardia studiò la carta d'identità falsa e cercò invano di confrontare la foto con la faccia coperta dalle bende. «Che cosa le è successo?» «L'autobomba esplosa nel bazaar di El Mansura. Sono stato colpito dai frammenti.» «Peccato», disse freddamente la guardia. «Ma dovrebbe prendersela con suo nipote. Sono stati i suoi seguaci a farla esplodere.» Poi fece un cenno a un compagno. «Se supera il metal detector, accompagnalo alla casa.» Ammar alzò le braccia come se si aspettasse che lo perquisissero. «Non è necessario, Mahfouz. Se ha addosso un'arma, la macchina lo scoprirà.» Il metal detector non rilevò nulla e non suonò. La porta d'ingresso. Ammar fremette mentre la guardia del servizio di sicurezza egiziano lo conduceva alla porta d'ingresso. Questa volta non era costretto a passare furtivamente da un'entrata laterale. Gli sarebbe piaciuto poter vedere la faccia di Yazid quando si fossero incontrati. Venne guidato in quello che, a giudicare dei passi sul pavimento, doveva essere un grande atrio. La guardia lo condusse a una panchina di pietra e lo fece sedere. «Aspetti qui.» Ammar sentì che la guardia parlava a bassa voce con qualcuno prima di andarsene. Rimase seduto per qualche minuto. Poi sentì un suono di passi che si avvicinavano, seguiti da una voce sprezzante. «È Mustafa Mahfouz?» Ammar riconobbe subito la voce. «Sì», rispose con noncuranza. «Ci conosciamo?» «Non ci siamo mai incontrati. Sono Khaled Fawzy, capo del consiglio rivoluzionario di Akhmad.» «Ho sentito parlare bene di lei.» Che idiota arrogante, pensò Ammar. Non può riconoscermi con queste bende e questa voce. «È un vero onore conoscerla.» «Venga», disse Fawzy, e lo prese per il braccio. «L'accompagno da Akhmad. Pensava che fosse ancora in missione per lui a Damasco. Non credo sappia che è stato ferito.»
«È il risultato di un tentativo di assassinio compiuto tre giorni fa», mentì Ammar. «Sono uscito dall'ospedale questa mattina e sono venuto subito qui per riferire ad Akhmad.» «Akhmad sarà felice di questa prova di lealtà. Ma lo rattristerà sapere che è stato ferito. Purtroppo la visita avviene in un momento poco opportuno.» «Non posso incontrarmi con lui?» «Sta pregando», rispose Fawzy. Nonostante la sofferenza, Ammar avrebbe voluto ridere. Si accorse che nella stanza c'era un'altra presenza. «È indispensabile che mi riceva.» «Può parlare liberamente, Mustafa Mahfouz.» Il nome fu pronunciato con sarcasmo. «Riferirò il suo messaggio.» «Dica ad Akhmad che riguarda il suo alleato.» «Chi?» chiese Fawzy. «Quale alleato?» «Topiltzin.» Il nome parve aleggiare nella stanza per un tempo interminabile. Il silenzio divenne intenso, poi fu spezzato da un'altra voce. «Avresti dovuto restare a morire sull'isola, Suleiman», disse Akhmad Yazid in tono minaccioso. Ammar non perse la calma. Aveva puntato tutta la sua genialità e tutta la forza che gli restava su quel momento. Non intendeva attendere la morte: voleva andarle incontro e abbracciarla. Non poteva accettare una vita di cecità... La vendetta doveva essere la sua liberazione. «Non potevo morire senza presentarmi a te per l'ultima volta.» «Risparmia le chiacchiere e togli quelle stupide bende. Stai perdendo lo stile. Questa rozza imitazione di Mahfouz è una commedia di quart'ordine per un uomo tanto abile.» Ammar non rispose. Sciolse le bende, lentamente, e le lasciò cadere sul pavimento. Yazid soffocò un'esclamazione quando vide la faccia sfigurata. Fawzy era di gran lunga più sadico: assisteva alla scena con la gioia perversa di chi si compiace alla vista di un rottame umano. «Il pagamento per i miei servigi», gracchiò Ammar. «Come mai sei ancora vivo?» chiese Yazid con voce scossa. «Il fedele Ibn mi ha nascosto per due giorni alle Forze Speciali americane mentre fabbricava una zattera. Dopo essere andati alla deriva sulla corrente e aver remato per dieci ore, per grazia di Allah siamo stati presi a bordo da un peschereccio cileno che ci ha portati a terra nei pressi di un
piccolo aeroporto, a Puerto Williams. Abbiamo rubato un aereo e siamo arrivati a Buenos Aires, dove ho noleggiato un jet per tornare in Egitto.» «Per te non è facile morire», mormorò Yazid. «Ti rendi conto che hai firmato la tua condanna a morte venendo qui?» commentò soddisfatto Fawzy. «Non mi aspettavo nulla di diverso.» «Suleiman Aziz Ammar», disse Yazid con una sfumatura di tristezza. «Il più grande sicario del suo tempo, temuto e rispettato dalla CIA e dal KGB, ideatore degli attentati più riusciti che mai siano stati compiuti. E pensare che eri destinato a finire come un miserabile mendicante.» «Che cosa stai dicendo, Akhmad?» chiese Fawzy in tono sorpreso. «Quest'uomo è già morto.» Il disgusto di Yazid si stava già mutando in soddisfazione. «I nostri esperti finanziari faranno in modo che le sue ricchezze e i suoi investimenti vengano trasferiti a mio nome. Poi lo lasceremo andare per la strada e lo faremo sorvegliare ventiquattr'ore su ventiquattro per essere certi che rimanga nei bassifondi. Passerà il resto dei suoi giorni mendicando per sopravvivere. È molto peggio di una morte rapida.» «Tu mi farai uccidere quando avrai sentito ciò che sono venuto a dirti», lo interruppe Ammar senza perdere la calma. «Ti ascolto», disse Yazid. «Ho dettato un rapporto completo di trenta pagine sull'affare del Lady Flamborough. C'è tutto: nomi, colloqui, date e ore; tutto, incluse le mie osservazioni sulla parte avuta dai messicani nell'operazione e sui legami fra te e Topiltzin. In questo preciso momento, le copie del rapporto vengono lette dai servizi segreti e dai media di sei Paesi. Comunque ti comporterai con me, Akhmad, sappi che sei finito...» S'interruppe bruscamente quando la testa gli esplose per il dolore. Fawzy, livido, l'aveva colpito con un pugno. L'impatto non aveva tutto il peso di un colpo studiato. L'azione esplosiva e irriflessiva di Fawzy era dettata dalla perdita totale dell'autocontrollo. Il colpo aveva colto di striscio la mandibola fracassata di Ammar. Un uomo in buone condizioni fisiche l'avrebbe sostenuto senza danno, ma Ammar barcollò sull'orlo dell'incoscienza. I delicati tessuti cicatriziali intorno agli occhi e alla mandibola si lacerarono. Arretrò barcollando e cercò di parare alla cieca con le mani e le braccia i pugni rabbiosi di Fawzy. Si sforzò di liberare la mente dal dolore mentre il sangue gli colava sul volto pallidissimo. «Basta!» gridò Yazid a Fawzy. «Non vedi che sta cercando la morte?
Forse mente, nella speranza che lo uccidiamo subito.» Ammar ritrovò un certo autocontrollo: localizzò la posizione di Yazid dal suono della voce e dal respiro affannoso. Tese la mano sinistra e avanzò di poco fino a che toccò il braccio destro di Yazid. Lo strinse e, con un movimento fulmineo, si portò la mano libera dietro il collo. Il coltello al carbonio era fissato a destra della colonna vertebrale con un cerotto bianco. Era uno strumento molto apprezzato dagli agenti clandestini, ideato apposta per superare senza problemi i metal detector. Ammar liberò la sottile lama triangolare lunga diciotto centimetri, sollevò il gomito come un pistone e piantò il coltello nel petto di Yazid, sotto la cassa toracica. L'affondo furioso sollevò da terra il falso rivoluzionario musulmano. Gli occhi di Paul Capesterre si spalancarono per lo shock e il terrore. L'unico suono che gli uscì dalla gola fu un gorgoglio rauco. «Addio, verme», sibilò Ammar fra le labbra sanguinanti. Poi estrasse il coltello e lo vibrò in un ampio arco verso il punto dove intuiva la presenza di Fawzy. Non era un'arma studiata per i fendenti: ma la sua mano incontrò la faccia di Fawzy, e sentì la lama lacerare la guancia. Ammar sapeva che Fawzy era destro e portava sempre una pistola, una vecchia Luger nove millimetri, in una fondina appesa sotto l'ascella sinistra. Si avventò su Fawzy e cercò di abbrancarlo mentre alzava di nuovo la lama del coltello. Ma era cieco e calcolò male i tempi. Fawzy aveva estratto la Luger. Puntò la canna contro lo stomaco di Ammar e sparò due colpi mentre il coltello gli affondava nel cuore. Lasciò la pistola e si strinse le mani sul petto. Barcollò per qualche passo e guardò con una strana espressione interrogativa il coltello che gli spuntava sotto lo sterno. Infine roteò gli occhi e stramazzò sul pavimento a un metro di distanza dal punto dov'era caduto Capesterre. Ammar si accasciò lentamente riverso sul pavimento di ceramica. Non soffriva più. Anche senza gli occhi, aveva le visioni. Sentiva la vita che defluiva da lui come un ruscello. Il suo destino era stato deciso da qualcuno che aveva incontrato solo per pochi minuti. Rivide l'immagine dell'uomo dagli occhi verdi e dal sogghigno deciso. Un'ondata di odio lo assalì e si placò. Dirk Pitt... Il nome era impresso nella profondità sempre più buia della sua mente. Poi provò una soddisfazione euforica. Il suo ultimo pensiero fu che Ibn
avrebbe sistemato Pitt. E allora il conto sarebbe stato saldato... 73. Seduto su una poltrona di pelle, il presidente guardava quattro monitor televisivi. Tre erano sintonizzati sui network più importanti, e il quarto riceveva direttamente le trasmissioni da un camion delle comunicazioni militari che si trovava nel piccolo centro di Roma. Aveva l'aria stanca, ma nei suoi occhi c'era una luce intensa, mentre giravano senza sosta da un monitor all'altro. Il viso aveva un'espressione concentrata. «Non riesco a credere che tanta gente possa stare in un'area così ristretta», disse in tono meravigliato. «Hanno quasi esaurito i viveri», disse Schiller, che leggeva un rapporto della CIA appena pervenuto. «L'acqua da bere scarseggia e gli impianti igienici sono un disastro.» «Stanotte o mai più», sospirò Nichols. Il presidente chiese: «Quanti saranno?» «Un conteggio effettuato dal computer in base a una fotografia aerea indica che sono all'incirca quattrocentotrentacinquemila», rispose Schiller. «E passeranno da un corridoio largo meno di un chilometro», commentò Nichols. «Maledetto bastardo!» esclamò rabbioso il presidente. «Non si rende conto che moriranno a migliaia calpestati o affogati? O non gliene importa niente?» «E in maggioranza sono donne e bambini», soggiunse Nichols. «I Capesterre non sono certo famosi per il loro spirito umanitario», borbottò Schiller. «Non è ancora troppo tardi per eliminarlo», disse il direttore della CIA, Martin Brogan. «Uccidere Topiltzin sarebbe un gesto paragonabile a quello che sarebbe stato assassinare Hitler nel 1930.» «Purché il sicario potesse avvicinarsi abbastanza», commentò Nichols. «Poi finirebbe massacrato dalla folla.» «Io pensavo a un fucile molto potente, a quattrocento metri di distanza.» Schiller scosse la testa. «Non sarebbe una soluzione pratica. Un tiro preciso potrebbe partire solo da un'altura sulla nostra sponda del fiume. I messicani capirebbero subito chi è il responsabile. E allora le cose si metterebbero veramente male. Invece di una folla disarmata, le truppe del generale Chandler si troverebbero di fronte a un'orda inferocita che assalterebbe Ro-
ma con tutte le armi possibili, fucili, coltelli, pietre e bottiglie. E allora scoppierebbe una guerra vera e propria.» «Sono d'accordo», disse Nichols. «Il generale Chandler non potrebbe far altro che aprire il fuoco per salvare i suoi uomini e i cittadini americani della zona.» Il presidente batté il pugno sul bracciolo della poltrona. «Non possiamo far niente per evitare un massacro?» «Comunque consideriamo la situazione», disse Nichols, «per noi butta male.» «Forse dovremmo mandare al diavolo tutto e consegnare il tesoro della Biblioteca di Alessandria al presidente De Lorenzo. Qualunque cosa, pur di salvarla dalle luride mani di Topiltzin.» «Sarebbe inutile», disse Brogan. «Topiltzin si serve del tesoro solo come di una scusa per lo scontro. Le nostre fonti riferiscono che sta preparando altre invasioni da Baja California alla California meridionale, e attraverso il confine a Nogales in Arizona.» «Se potessi mettere fine a questa pazzia», mormorò il presidente. Uno dei quattro telefoni trillò. Rispose Nichols. «È il generale Chandler, signor presidente. Parla su una frequenza antintercettazioni.» Il presidente esalò un respiro profondo. «Guardare in faccia l'uomo al quale potrei essere costretto a dare l'ordine di uccidere diecimila persone è il meno che posso fare.» Il monitor restò vuoto per un momento, poi mostrò la testa e le spalle di un uomo sulla cinquantina: una faccia scavata, capelli argentei. Lo stress del comando era rivelato dalle grinze intorno agli occhi azzurri. «Buongiorno, generale», disse il presidente. «Purtroppo io posso vederla e lei non può vedere me, ma qui non c'è una telecamera.» «Capisco, signor presidente.» «Com'è la situazione?» «È appena incominciato un acquazzone, e dovrebbe essere una fortuna per quei poveracci. Potranno rifare scorta d'acqua è la polvere ricadrà a terra. Già adesso il lezzo delle loro latrine incomincia a diminuire.» «Ci sono state provocazioni?» «I soliti slogan e i soliti striscioni, ma finora nessun gesto violento.» «A quanto lei può osservare, qualcuno si è scoraggiato e ha cominciato a tornare a casa?» «No, signore», rispose Chandler. «Se mai, sono ancora più fanatici. Credono che il loro messia azteco abbia chiamato la pioggia, e lui fa il possi-
bile per convincerli che è proprio così. Gruppi di preti cattolici hanno provato ad aggirarsi in mezzo a quei pazzi per predicare e implorarli di tornare alla loro fede e alle loro case. Ma i gorilla di Topiltzin li hanno buttati fuori.» «Martin Brogan pensa che si muoveranno stanotte.» «I miei informatori lo confermano.» Il generale esitò prima di fare la domanda decisiva. «C'è qualche cambiamento negli ordini, signor presidente? Devo fermarli a ogni costo?» «Fino a che non le darò un ordine diverso, generale.» «Devo farle notare, signore, che mi ha messo in una posizione difficile. Non posso garantire che i miei uomini spareranno contro le donne e soprattutto contro i bambini, se gli verrà ordinato di farlo.» «Capisco la sua situazione. Ma se non resisteremo a Roma, milioni di messicani poveri l'interpreteranno come un invito a invadere gli Stati Uniti.» «Non contesto questo fatto, signor presidente. Ma se usiamo i nostri armamenti moderni contro mezzo milione di individui ammassati a spalla a spalla, ci accuseranno di aver commesso un crimine contro l'umanità.» Le parole di Chandler evocarono alla mente del presidente il ricordo della ferocia nazista e del processo di Norimberga. Tuttavia rimase incrollabile. «Per quanto mi dispiaccia, generale», disse in tono solenne, «le conseguenze dell'inazione sono inaccettabili. I miei esperti per la Sicurezza Nazionale prevedono che il Paese sarà travolto da un'ondata isterica dettata dall'istinto di conservazione, e questo porterà alla formazione di eserciti di volontari per ricacciare l'orda degli immigranti clandestini. Nessun americano di origine messicana sarà più al sicuro. Il numero dei morti da una parte e dall'altra potrebbe raggiungere proporzioni astronomiche. I legislatori insorgeranno e chiederanno che il Congresso dichiari guerra al Messico. Preferisco non pensare a quello che potrebbe succedere poi.» Tutti i presenti si rendevano conto dei pensieri e dei sentimenti contrastanti che assalivano il generale. Quando riprese a parlare lo fece con voce bassa e controllata. «Chiedo rispettosamente di restare in contatto con lei fino al momento dell'invasione.» «Certo, generale», concesse il presidente. «Fra poco io e i miei consiglieri per la Sicurezza Nazionale ci riuniremo nella Situation Room.» «Grazie, signor presidente.» All'immagine del generale Chandler si sostituì il primo piano di una pic-
cola chiatta che veniva spinta in acqua su rulli da un centinaio di uomini. «Bene», disse Schiller scuotendo la testa. «Abbiamo fatto tutto il possibile per frenare la bomba, ma non abbiamo potuto impedire che l'esplosione diventasse irreversibile. Ora non possiamo far altro che aspettare la fine.» 74. Si mossero un'ora dopo l'imbrunire. Uomini, donne e bambini, alcuni dei quali erano appena in grado di camminare, reggevano tutti candele accese. Le nubi basse rimaste in cielo dopo l'acquazzone erano colorate d'arancio da quell'oceano di fiammelle guizzanti. Si mossero come un'ondata gigantesca mentre le voci si alzavano lentamente in un canto antico. Il mormorio divenne un suono sempre più forte che dilagò al di là del fiume e fece vibrare i vetri delle finestre di Roma. I profughi delle campagne e i poveri delle città che avevano abbandonato i tuguri d'argilla, le baracche di lamiera ondulata e i ripari di cartone nei villaggi miserabili o nelle periferie sporche avanzarono all'unisono, galvanizzati dalla promessa di Topiltzin che aveva fatto balenare la resurrezione dell'impero azteco sulle terre degli Stati Uniti. Erano disperati all'ultimo gradino della miseria, pronti ad afferrarsi a qualunque speranza di una vita migliore. Avanzavano lentamente, un passo alla volta, verso le imbarcazioni. Scendevano per le strade che la pioggia aveva riempito di fango e di pozzanghere. I bambini frignavano per la paura mentre le madri li conducevano sulle zattere che ondeggiavano e parevano sul punto di capovolgersi. Centinaia di persone furono spinte nel fiume dalla calca. Grida di spavento si levavano da una moltitudine di giovani vittime che sprofondavano nell'acqua: molti annegarono o furono trascinati lontano dalla corrente prima che fosse possibile salvarli... un compito quasi impossibile dato che la maggior parte degli uomini era schierata alla retroguardia. Lentamente, in modo confuso e disorganizzato, centinaia di barche e di zattere cominciarono a muoversi verso l'altra riva. I riflettori dell'esercito americano e quelli della televisione illuminavano il brulichio. I soldati, inquieti e come ipnotizzati, guardavano la tragica muraglia umana che veniva verso di loro. Il generale Chandler era sul tetto della stazione di polizia di Roma, al
centro dell'altura. Aveva la faccia cinerea e una luce di disperazione negli occhi. Quella scena superava le sue peggiori paure. Il generale parlò nel minuscolo microfono agganciato al colletto. «Vede, signor presidente? Vede questa pazzia?» Il presidente fissava il grande monitor nella Situation Room. «Sì, generale, le immagini arrivano chiaramente.» Era seduto in fondo al tavolo e fiancheggiato dai consiglieri più fidati, da alcuni membri del governo e due dei quattro capi di stato maggiore. Tutti seguivano lo spettacolo incredibile trasmesso con suono stereofonico e a colori vivaci. Le imbarcazioni più veloci avevano toccato terra e i passeggeri scendevano in fretta. Solo quando la prima ondata terminò di traghettare e la flotta tornò indietro a prendere altri passeggeri, l'orda serrò le file e avanzò. I pochi uomini che avevano compiuto la traversata camminavano avanti e indietro lungo la riva, armati di megafono, e ordinavano alle donne di muoversi. Queste reggevano le candele e stringevano a sé i figli, cantilenavano in lingua azteca e intanto incominciavano a salire i pendii da ogni lato dell'altura come un esercito di formiche che si divide intorno a un sasso per poi ricongiungersi dall'altra parte. Le telecamere mostravano le facce atterrite dei bambini e quelle fanatiche delle madri di fronte alle armi spiegate. Topiltzin aveva promesso che il suo potere divino li avrebbe protetti, e tutti gli avevano creduto stupidamente. «Mio Dio!» esclamò Doug Oates. «La prima ondata è formata da donne e bambini.» Nessuno fece commenti. Nella Situation Room tutti guardarono con timore crescente un'altra orda di donne che cominciavano a guidare i figli attraverso il ponte, incontro ai carri armati e alle autoblindo che bloccavano il passaggio. «Generale», disse il presidente, «può far sparare una salva sopra le loro teste?» «Sì, signore», rispose Chandler. «Ho ordinato ai miei di caricare a salve. Il rischio di colpire qualche innocente fuori della cittadina è troppo grande per usare proiettili veri.» «È una decisione saggia», commentò il generale Metcalf. «Curtis sa quello che fa.»
Il generale Chandler si rivolse a uno dei suoi aiutanti. «Trasmetta l'ordine di sparare a salve.» Il maggiore latrò nella radiotrasmittente: «Sparate a salve!» Un rombo tonante e un'immensa vampata di fiamma nella notte. Lo spostamento d'aria fu come un colpo di vento e spense molte delle candele portate dalla folla. Il fragore assordante dei cannoni dei carri armati e il crepitio delle armi più piccole riverberarono nella valle. Dieci secondi. Trascorsero dieci secondi fra l'ordine di sparare e quello di cessare il fuoco, mentre il rombo echeggiava fra le colline basse dietro Roma. Un silenzio paralizzante, sottolineato dall'odore pungente della cordite, scese sulla moltitudine stordita. Poi le urla delle donne si levarono, seguite dagli strilli dei bambini atterriti. Molti si buttarono a terra, altri rimasero in piedi, paralizzati dallo shock. Sull'altra sponda ci furono grida immani quando gli uomini, che non avevano potuto attraversare con le mogli e i figli, temettero che fossero morti o feriti. Scoppiò il pandemonio e per qualche tempo sembrò che l'invasione si fosse arrestata. Poi si accesero i riflettori sulla sponda messicana, e inquadrarono una figura ritta su una piattaforma portata sulle spalle da un gruppo di uomini vestiti di bianco. Topiltzin teneva le braccia allargate come se imitasse Cristo, e gridava attraverso gli altoparlanti, ordinando alle donne finite a terra di alzarsi e di avanzare. A poco a poco le donne si calmarono e si accorsero che non c'erano stati morti né feriti. Si levò un'acclamazione assordante, quando i fanatici si convinsero che i poteri di Topiltzin li avessero protetti. «Quello se ne sta approfittando», disse malinconicamente Julius Schiller. Il presidente scosse la testa. «È successo tante volte nella storia della nostra nazione. I nostri tentativi umanitari si ritorcono contro di noi.» «Compiango Chandler», disse Nichols. Il generale Metcalf annuì. «Sì, adesso tutto ricade sulle sue spalle.» Era venuto il momento della decisione. Non era più possibile procrastinare. Il presidente, al sicuro nei sotterranei della Casa Bianca, rimase chiuso in uno strano silenzio. Aveva passato astutamente la bomba a orologeria ai militari, in modo che il generale Chandler diventasse il capro espiatorio.
Adesso era fra l'incudine e il martello. Non poteva permettere che un esercito straniero varcasse indisturbato il confine, ma non poteva rischiare il crollo della sua amministrazione ordinando a Chandler di uccidere donne e bambini. Nessun presidente si era mai trovato in una simile posizione d'impotenza. Le donne e i bambini erano arrivati a pochi metri dalle truppe trincerate sulla riva. Quelli che stavano alla testa della colonna che attraversava il ponte internazionale erano già abbastanza vicini per vedere incombere su di loro i cannoni dei carri armati. Il generale Curtis Chandler aveva all'attivo una lunga e onorevole carriera militare, ma adesso non vedeva nulla davanti a sé, se non il rimorso. La moglie era morta un anno prima al termine di una lunga malattia, e non avevano avuto figli. Era un generale con una sola stella e nel poco tempo che mancava al pensionamento non avrebbe avuto il tempo di ottenere una promozione. Adesso stava sull'altura e guardava centinaia di migliaia di immigranti clandestini che invadevano la sua patria e si domandava perché la sua vita doveva culminare in modo così crudele in quel momento e in quel luogo. Il suo aiutante aveva un'espressione quasi convulsa. «Signore, l'ordine di sparare.» Chandler guardò i bambini aggrappati alle mani delle madri, gli occhi scuri illuminati dalle candele. «Gli ordini, generale?» insistette l'aiutante. Chandler mormorò qualcosa, ma l'aiutante non sentì a causa del chiasso. «Mi scusi, generale, ha detto: 'Sparate'?» Chandler si voltò. «Lasciateli passare.» «Signore?» «Questi sono i miei ordini, maggiore. Non voglio morire con il rimorso di aver ucciso tanti bambini. E non dica neppure: 'Non sparate', nel caso che qualche stupido comandante di plotone fraintenda l'ordine.» Il maggiore annuì e parlò nel microfono. «A tutti i comandanti. Il generale Chandler ordina: non fate mosse ostili e lasciate passare gli immigranti attraverso le nostre linee. Ripeto, lasciateli passare.» Con immenso sollievo, i soldati americani abbassarono le armi e rimasero immobili per qualche minuto. Poi si rilassarono, cominciarono a scherzare con le donne, si inginocchiarono per giocare con i bambini e farli
smettere di piangere. «Mi perdoni, signor presidente», disse Chandler, rivolgendosi all'obiettivo di una telecamera. «Mi rincresce di finire la mia carriera militare rifiutando un ordine del mio comandante in capo, ma penso che date le circostanze...» «Non si preoccupi», rispose il presidente. «Ha fatto un ottimo lavoro.» Si rivolse al generale Metcalf. «Non m'interessa la posizione di Chandler nell'elenco di anzianità. Voglio che gli venga assegnata un'altra stella.» «Sarò lieto di provvedere, signore.» «Ha fatto bene, signor presidente», disse Schiller. Aveva capito che il silenzio del presidente era stato un bluff. «È chiaro che conosceva bene il suo uomo.» Negli occhi del presidente c'era il riflesso di un sorriso. «Ho prestato servizio con Curtis Chandler quando eravamo tutti e due tenenti d'artiglieria in Corea. Avrebbe sparato su una folla inferocita e incontrollabile, ma non su donne e bambini.» Anche il generale Metcalf aveva capito. «Comunque, ha corso un rischio terribile.» Il presidente annuì. «Adesso dovrò rispondere al popolo americano per non essermi opposto all'invasione della loro patria da parte di quegli immigranti clandestini.» «Sì, ma la sua moderazione sarà un'ottima merce di scambio nei futuri negoziati con il presidente De Lorenzo e gli altri governanti centroamericani», lo consolò Oates. «Nel frattempo», intervenne Mercier, «i nostri militari e le forze di polizia cattureranno con discrezione i seguaci di Topiltzin e li rispediranno oltre il confine prima che intervengano squadre di volontari armati.» «Voglio che l'operazione sia condotta nel modo più umano possibile», disse il presidente. «Non abbiamo dimenticato una cosa, signor presidente?» chiese Metcalf. «Che cosa, generale?» «La Biblioteca di Alessandria. Ormai niente può impedire a Topiltzin di rubare tutto.» Il presidente guardò il senatore Pitt, che era seduto in fondo al tavolo e non aveva aperto bocca. «Ecco, George, l'Esercito è stato tolto di mezzo, e resta soltanto lei. Vuole illustrare il suo piano di ripiego?»
Il senatore abbassò lo sguardo sul tavolo. Non voleva che gli altri vedessero l'espressione di disagio nei suoi occhi. «È un tentativo disperato ideato da mio figlio Dirk. Non saprei come descriverlo altrimenti. Se tutto andrà per il meglio, Robert Capesterre, alias Topiltzin, non potrà mettere le mani sul tesoro della conoscenza degli antichi. Ma se andrà male, come qualcuno sta già ipotizzando, i Capesterre diventeranno padroni del Messico e il tesoro andrà perduto per sempre.» 75. Per un colpo di fortuna la manifestazione di fanatismo religioso e il pazzesco tentativo da parte di Topiltzin per impadronirsi del potere non causarono un bagno di sangue. Non vi furono malintesi fatali. L'unica vera tragedia fu quella delle giovani vittime affogate durante la prima traversata. La folla scatenata passò fra le unità dell'Esercito e dilagò nelle vie di Roma verso Gongora Hill. Tutti avevano smesso di cantare e adesso urlavano slogan in lingua azteca che tutti gli americani e molti osservatori messicani non riuscivano a comprendere. Topiltzin guidava il pellegrinaggio trionfale che saliva la collina. Aveva pianificato con molta cura il suo ruolo di liberatore. Il furto dei tesori dell'antico Egitto gli avrebbe dato l'influenza necessaria e la ricchezza per finanziare l'azione destinata a spodestare il partito del presidente De Lorenzo senza l'incomodo di elezioni regolari. Ancora quattrocento metri, e il Messico sarebbe caduto nelle mani della famiglia Capesterre. Non gli era arrivata la notizia della morte del fratello. I suoi collaboratori avevano abbandonato il pullman delle comunicazioni nei momenti di maggior tensione, e non avevano ricevuto il messaggio urgente. Marciavano dietro Topiltzin, spinti dalla curiosità di vedere il tesoro. Topiltzin stava ritto, avvolto in una veste bianca, con un mantello di pelli di giaguaro sulle spalle, e stringeva un'asta con l'emblema dell'aquila e del serpente. Una foresta di riflettori portatili illuminava la piattaforma e lo circonfondeva di un alone multicolore. Quella luce lo infastidiva; diede il segnale di girare sul pendio i fasci di alcuni riflettori. A parte alcuni macchinali pesanti, il luogo degli scavi sembrava deserto. Non si vedeva nessuno dei genieri presso il cratere e il tunnel. Topiltzin si allarmò. Tese le mani perché la folla si fermasse. L'ordine fu ripetuto attraverso gli altoparlanti, e finalmente l'orda si arrestò. Tutte le facce si volsero verso Topiltzin in attesa di un nuovo comando.
All'improvviso un grido straziante e acutissimo salì dalla vetta della collina, e crebbe fino a quando la gente fu costretta a tapparsi le orecchie con le mani. Poi un mare di luci stroboscopiche lampeggiò sulla distesa di facce. Il bagliore di un'aurora boreale danzò nel cielo notturno. Tutti restarono immobili a guardare il fenomeno, affascinati. La luce raggiunse un'intensità indescrivibile mentre l'urlo sferzava l'aria tutto intorno, con il timbro bizzarro della colonna sonora di un film di fantascienza. Le luci e i suoni inquietanti continuarono in crescendo. Poi le luci stroboscopiche si spensero e il silenzio scese all'improvviso. Per un intero minuto il suono continuò a echeggiare nelle orecchie di tutti e le luci lampeggiarono negli occhi. Poi una fonte luminosa invisibile rischiarò lentamente la figura solitaria di un uomo che stava in cima alla collina. L'effetto era sensazionale. I raggi scintillavano sugli oggetti metallici che la rivestivano. Quando l'uomo divenne pienamente visibile, tutti videro che indossava la tenuta da combattimento di un antico legionario romano. Aveva una tunica color rosso scuro e una corazza di ferro lucido. L'elmo e gli schinieri brillavano. Al fianco pendeva un gladio fissato a una tracolla di cuoio. Un braccio reggeva uno scudo ovale, l'altra mano stringeva un pilo. Topiltzin lo guardò, incuriosito. Uno scherzo, una buffonata, una frode? Che cosa stavano tramando gli americani? L'orda immensa dei suoi seguaci taceva, intimorita, e guardava il romano come se fosse un fantasma. Poi si volse verso Topiltzin in attesa che il suo messia facesse la prima mossa. Un bluff suggerito dalla disperazione, decise finalmente Capesterre. Gli americani stavano giocando l'ultima carta nella speranza di impedire ai suoi seguaci poverissimi e superstiziosi di avvicinarsi al tesoro. «Può essere un trucco per rapirla e tenerla in ostaggio», disse uno dei suoi consiglieri. Gli occhi di Topiltzin avevano un'espressione sprezzante. «Un trucco sì. Ma non per sequestrarmi. Gli americani sanno che la folla si inferocirebbe se venissi minacciato. È un trucco trasparente. A parte l'incaricato di cui ho rimandato la pelle a Washington, ho respinto tutte le proposte di Stato. Questa commedia è solo un goffo tentativo per arrivare a un negoziato. M'interesserebbe sapere che offerta hanno da mettere sul tavolo.» Senza aggiungere altro e senza ascoltare gli avvertimenti dei consiglieri,
ordinò di abbassare a terra la piattaforma, e scese. I riflettori rimasero puntati su di lui mentre saliva il pendio in arrogante solitudine. I piedi non spuntavano sotto l'orlo della veste, e lui sembrava muoversi aleggiando nell'aria. Procedette a passo misurato, accarezzando la Colt Python .357 che portava alla cintura sotto la veste, per assicurarsi che non ci fosse la sicura. E continuò a tenere l'altra mano sulla bomba fumogena, nell'eventualità che si rendesse necessario usarla per una rapida fuga. Si avvicinò fino a quando poté vedere chiaramente che l'uomo in costume da legionario romano era soltanto un manichino dal sorriso insipido e dagli occhi dipinti che guardavano nel vuoto. Le mani e la faccia di gesso erano scoloriti e graffiati. Un'espressione incuriosita spuntò sul viso di Topiltzin mentre studiava il manichino. Ma era diffidente. Sudava, e la veste bianca sembrava afflosciata. Poi un uomo in stivali, jeans e maglione dolcevita bianco apparve nella luce dei riflettori uscendo da un gruppo di mesquitos. Aveva due occhi verdi e freddi come i ghiacci dell'Artico. Si fermò a fianco del manichino. Topiltzin si sentiva in vantaggio. Non perse tempo. Parlò per primo, in inglese. «Che cosa sperava di ottenere con il manichino e le luci?» «La sua attenzione.» «Complimenti. C'è riuscito. Adesso riferisca il messaggio del suo governo.» Lo sconosciuto lo fissò per un lungo istante. «Nessuno le ha mai detto che il suo costume sembra un lenzuolo il giorno dopo una festa in toga improvvisata da una confraternita studentesca?» Topiltzin si oscurò. «Il suo presidente sperava di insultarmi mandandomi un buffone?» «A questo punto immagino di dover rispondere: 'Ci vuole un buffone per riconoscerne un altro'.» «Ha un minuto per dire quel che ha da dire...» Topiltzin s'interruppe e fece un ampio gesto con la mano. «Poi ordinerò ai miei di riprendere la marcia.» Pitt si voltò verso l'altro versante della collina e girò lo sguardo su chilometri e chilometri di campagna buia. «La marcia... per andar dove?» Topiltzin lo ignorò. «Può incominciare con il suo nome, il titolo e la funzione nella burocrazia americana.» «Il mio nome è Dirk Pitt. Il mio titolo è signor Pitt. La mia funzione è
quella di contribuente, e lei può andare direttamente all'inferno.» Gli occhi di Topiltzin lanciarono un lampo minaccioso. «Molti uomini sono morti di una morte orribile per aver mancato di rispetto a chi parla in nome degli dei.» Pitt sorrise con la noncuranza del diavolo che si sente minacciare da un predicatore televisivo. «Se dobbiamo discutere, la pianti con questa retorica. Ha ingannato i poveri messicani con trucchi da palcoscenico e gli ha promesso un benessere che non potrà mai dargli. È un impostore dalla testa ai piedi. Quindi non si permetta di parlarmi così. Io non sono uno dei suoi fanatici e non mi lascio impressionare da un delinquente come Robert Capesterre.» Capesterre aprì la bocca e la richiuse di scatto. Indietreggiò di un passo con un'espressione sorpresa. Non riusciva a credere alle proprie orecchie. Trascorsero alcuni secondi mentre fissava Pitt. Finalmente parlò a voce bassa e rauca. «Che cosa sa?» «Quanto basta», rispose Pitt con disinvoltura. «A Washington tutti parlano della famiglia Capesterre e dei suoi traffici loschi. Sono saltati i tappi di moltissime bottiglie di champagne, alla Casa Bianca, quando è arrivata la notizia che il suo caro fratello, quello che si spacciava per un profeta musulmano, è stato ucciso dal terrorista che aveva assoldato per sequestrare il Lady Flamborough e assassinare i passeggeri.» «Mio fratello...» Capesterre non riuscì a pronunciare la parola «morto». «Non le credo.» «Non lo sapeva?» chiese Pitt, un po' sorpreso. «Ho parlato con lui meno di ventiquattr'ore fa», disse Topiltzin. «Paul... Akhmad Yazid è vivo e illeso.» «Un cadavere ambulante non è una delle sue imitazioni più riuscite.» «Che cosa spera di guadagnare il suo governo con queste menzogne?» Pitt lo fissò con freddezza. «Mi fa piacere che abbia introdotto l'argomento. La nostra idea è salvare i tesori della Biblioteca di Alessandria, e non potremo riuscirci se lei sguinzaglierà i suoi fan nella caverna. Ruberanno tutto quello che pensano di poter vendere o barattare, e distruggeranno quello di cui non capiscono il valore, soprattutto i preziosissimi volumi.» «Non entreranno», disse Capesterre in tono deciso. «Crede di poterlo impedire?» «I miei seguaci fanno ciò che gli ordino.» «I volumi e le opere d'arte devono essere catalogati ed esaminati da ar-
cheologi e storici qualificati», disse Pitt. «Se vuol ottenere qualche concessione da Washington, deve garantire che la biblioteca sarà trattata come un progetto scientifico.» Per un momento Capesterre scrutò Pitt. Poi si erse in tutta la sua statura. Era dieci centimetri più basso del suo antagonista, e si dondolava come un cobra sul punto di attaccare. Parlò con voce profonda, atona e minacciosa. «Non sono tenuto a fornire garanzie, signor Pitt. Non ci saranno trattative per le concessioni. I vostri militari non sono stati capaci di respingere i miei al fiume. Ora io sono in vantaggio. I tesori egiziani sono miei. E saranno miei anche tutti gli Stati del sud-ovest.» Nei suoi occhi brillò un lampo di follia. «Mio fratello Paul dominerà l'Egitto. Un giorno il nostro fratello minore governerà il Brasile. Perciò io sono qui. E perciò lei è qui come difensore solitario di una superpotenza mondiale in un ultimo, patetico tentativo di negoziare. Ma al suo governo non resta più niente da negoziare. E se qualcuno tenterà di impedire che il tesoro venga portato in Messico, ordinerò che venga distrutto e bruciato.» «Devo riconoscere una cosa, Capesterre», borbottò disgustato Pitt. «Lei pensa alla grande. È un peccato che sia ancora in libertà; starebbe bene a fare il quarto Napoleone in una partita a poker in manicomio.» Gli occhi di Capesterre tradirono l'irritazione. «Addio, signor Pitt. La mia pazienza ha un limite. Sarà un piacere sacrificarla agli dei e mandare la sua pelle alla Casa Bianca.» «Mi dispiace molto di non avere tatuaggi decorativi.» Capesterre era esasperato dall'indifferenza di Pitt. Nessuno gli aveva mai parlato in quel tono sprezzante. Si voltò e alzò una mano verso la folla. «Non crede che dovrebbe inventariare la sua nuova ricchezza prima di consegnarla a quella marmaglia?» chiese Pitt. «Pensi a come la giudicherà il mondo se permetterà ai suoi schiavetti di distruggere la bara d'oro di Alessandro il Grande.» Capesterre riabbassò la mano e avvampò. «Che cosa sta dicendo? La bara di Alessandro esiste veramente?» «Sì, e anche la sua mummia.» Pitt indicò il tunnel. «Vuol fare una visita prima di spalancare il deposito al suo pubblico adorante?» Capesterre annuì. Continuò a voltare le spalle alla folla, e tenne nascosta la Colt sotto il drappeggio di una manica. Con l'altra mano stringeva la bomba fumogena. «Alla prima mossa fatta da lei o da qualcuno nascosto nel tunnel, le spezzo in due la spina dorsale.» «Perché dovrei cercare di farle del male?» chiese Pitt in tono d'ironica
innocenza. «Dove sono i genieri che lavoravano agli scavi?» «Tutti quelli che erano in grado di usare un fucile sono stati mandati alla linea difensiva lungo il fiume.» Capesterre sembrava convinto. «Sollevi il maglione e abbassi i pantaloni sotto gli stivali.» «Di fronte a tutta questa gente?» chiese Pitt con un sorriso. «Voglio vedere se è armato o ha addosso un microfono nascosto.» Pitt sollevò il maglione e abbassò i blue jeans. Non c'era traccia di trasmittenti o di armi nascoste. «Soddisfatto?» Topiltzin annuì. Indicò l'ingresso del pozzo con la pistola. «Mi preceda.» «Le dispiace se porto dentro il manichino? Le sue armi sono veramente antiche.» «Può lasciarle appena oltre l'entrata.» Poi Capesterre si voltò e fece un cenno ai suoi collaboratori per indicare che non c'erano pericoli. Pitt si rassettò, prese le armi del manichino ed entrò nel pozzo. La volta era abbastanza bassa perché Pitt fosse costretto a chinarsi per passare sotto le travi di sostegno. Posò la lancia e la spada, ma tenne lo scudo e lo mise sopra la testa per proteggersi dai frammenti di roccia che potevano cadere. Topiltzin non protestò. Sapeva che lo scudo era inutile quanto un foglio di carta contro una pistola .357 magnum. Il pozzo scendeva ripido per dodici metri, poi diventava pianeggiante. Era illuminato da una fila di lampade appese alle travi. I genieri avevano spianato in modo quasi perfetto le pareti e il pavimento, e non era difficile procedere. L'unico disagio era causato dall'aria soffocante e dalla polvere che si sollevava vorticosamente sotto i loro passi. «Riceve il suono e le immagini, signor presidente?» chiese il generale Chandler. «Sì, generale», rispose il presidente. «Le voci arrivano chiare; ma sono usciti dalla portata della telecamera quando sono entrati nel tunnel.» «Li inquadreremo di nuovo nella camera della bara, dove abbiamo un'altra telecamera nascosta.» «Dov'è il microfono di Pitt?» chiese Martin Brogan. «Il microfono e la trasmittente sono inseriti nella saldatura anteriore del vecchio scudo.» «È armato?»
«Pensiamo di no.» Tutti i presenti nella Situation Room tacquero e guardarono un secondo monitor che mostrava la camera scavata nelle viscere di Gongora Hill. La telecamera inquadrava un feretro d'oro al centro del vano. Ma non tutti gli occhi erano rivolti al secondo monitor. Qualcuno non li aveva staccati dal primo. «Quello chi è?» chiese Nichols. Brogan socchiuse le palpebre. «Sarebbe a dire?» Nichols indicò il monitor della telecamera che continuava a inquadrare l'ingresso sotterraneo della collina. «Un'ombra è passata davanti all'obiettivo ed è entrata nel tunnel.» «Io non ho visto niente», disse il generale Metcalf. «Neppure io», confermò il presidente. Si tese verso il microfono che stava sul tavolo davanti a lui. «Generale Chandler?» «Sì, signor presidente?» rispose il generale. «Dale Nichols giura di aver visto qualcuno entrare nel tunnel dopo Pitt e Topiltzin.» «Anche uno dei miei aiutanti ha avuto l'impressione di vedere qualcuno.» «Allora non ho le allucinazioni», sospirò Nichols. «Ha idea di chi potrebbe essere?» «Chiunque sia», disse Chandler con un'espressione allarmata, «non è uno dei nostri.» 76. «Ho notato che zoppica», disse Capesterre. «Un ricordino del piano pazzesco di suo fratello per assassinare il presidente Hasan e Hala Kamil.» Capesterre lanciò a Pitt un'occhiata interrogativa, ma non insistette. Era troppo impegnato a sorvegliare ogni sua mossa per timore di qualche intrigo. Un po' più avanti il tunnel si allargò in una galleria circolare. Pitt rallentò e si fermò davanti a un feretro sostenuto da quattro gambe scolpite che ricordavano i draghi cinesi. Sotto le lampade l'oro riluceva. Contro una parete c'era un mucchio di armi tipiche dei legionari romani. «Alessandro il Grande», annunciò Pitt. «Le opere d'arte e i rotoli sono immagazzinati in una camera adiacente.»
Capesterre si avvicinò, tese la mano esitando e non toccò il coperchio della bara, poi la ritrasse di scatto e si voltò verso Pitt. La sua faccia era una maschera di rabbia. «Un trucco!» La voce echeggiò nelle gallerie. «Non è un feretro antico di duemila anni! La vernice non è ancora asciutta.» «I greci erano molto progrediti...» «Silenzio!» Capesterre lasciò ricadere la manica e scoprì la pistola. «Non faccia il furbo, signor Pitt. Dov'è il tesoro?» «Mi lasci un momento», implorò Pitt. «Non siamo ancora arrivati al deposito principale.» Incominciò a scostarsi dalla bara fingendosi impaurito. Indietreggiò fino a quando toccò con le spalle la parete contro la quale erano accatastate le armi. Lanciò un'occhiata al feretro come se si aspettasse che l'occupante ne uscisse. Capesterre notò quello sguardo furtivo e sorrise. Puntò la pistola contro il feretro, premette il grilletto e quattro fori si aprirono su un lato. I proiettili uscirono dal lato opposto in grandi squarci slabbrati. I colpi echeggiarono assordanti all'interno della camera, come se la pistola avesse sparato sotto una campana gigantesca. Capesterre afferrò il coperchio del feretro. «Il suo rincalzo, signor Pitt?» ringhiò. «È stato molto ingenuo.» «Non c'erano altri posti dove nasconderlo», rispose Pitt in tono di rammarico. Gli occhi verdi non mostravano traccia di paura, la voce era controllata. Capesterre sollevò il coperchio e guardò all'interno. Impallidì e tremò d'orrore prima di richiudere il feretro con un tonfo. Un gemito sordo gli uscì dalle labbra e si trasformò in un «no» prolungato. Pitt si girò leggermente, in modo che lo scudo coprisse il movimento della sua destra. Si scostò dalla parete fino a trovarsi di fronte al fianco sinistro di Capesterre. Guardò con inquietudine le lancette dell'orologio. Il tempo stava per scadere. Capesterre si accostò di nuovo alla bara e rialzò il coperchio. Questa volta lo lasciò ricadere in modo che restasse aperto e guardò all'interno con uno sforzo di volontà. «Paul... è proprio Paul», balbettò inorridito. «A quanto mi risulta», disse Pitt, «il presidente Hasan non intendeva permettere che i seguaci di Akhmad Yazid lo seppellissero in un santuario come un martire. Quindi il cadavere è stato spedito qui per via aerea, in modo che possiate riposare insieme in eterno.»
C'era un'inconfondibile espressione di angoscia sul volto di Capesterre mentre fissava il fratello. Poi fece una smorfia e chiese rabbiosamente: «Che parte ha avuto in tutto questo?» «Ho diretto la squadra che ha seguito le tracce che hanno portato alla scoperta della biblioteca. Era un impegno importante. Poi i terroristi al soldo di suo fratello hanno tentato di assassinare me e i miei amici ma sono riusciti soltanto a rovinare la mia preziosa automobile d'epoca. È stato un grave errore. Poi lei e suo fratello hanno preso in ostaggio mio padre a bordo del Lady Flamborough. Sa bene di che cosa sto parlando. E quello è stato un errore ancora più grave. Ho deciso di saldare il conto. Lei morirà, Capesterre. Fra un minuto sarà freddo come suo fratello. Ed è ancora poco, per gli uomini ai quali ha strappato il cuore, e per i bambini annegati per colpa della sua pazzesca sete di potere.» Capesterre si tese. L'angoscia sparì dai suoi occhi. «Ma prima sarò io a ucciderti!» esclamò rabbiosamente; si voltò di scatto e si chinò. Pitt era preparato. La spada che aveva preso dal mucchio accanto alla parte era già levata in alto. La calò in un fendente fulmineo. Capesterre strinse freneticamente la Colt. Ancora pochi centimetri e la canna avrebbe puntato contro la testa di Pitt. La lama lucente sibilò nell'aria sotto il brillio delle lampade. La pistola e la mano di Capesterre che stringeva il calcio con l'indice contratto sul grilletto parvero staccarsi dal braccio e volare verso il soffitto. Rotearono nell'aria e caddero insieme sul pavimento di calcare. Capesterre spalancò la bocca e un urlo acutissimo echeggiò nello scavo. Poi cadde in ginocchio e fissò l'arto reciso, incapace di credere che non facesse più parte di lui, dimentico del fiotto di sangue che sgorgava dal moncherino. Rimase inginocchiato, barcollando, in preda allo shock. Alzò lentamente gli occhi verso Pitt. «Perché questo?» bisbigliò. «Perché non un proiettile?» «È un pagamento per un uomo che si chiamava Guy Rivas.» «Conoscevi Rivas?» Pitt scosse la testa. «I suoi amici mi hanno detto come l'avevi mutilato, e che la sua famiglia, al cimitero, sapeva che stavano seppellendo soltanto la sua pelle.» «I suoi amici?» «Mio padre e un uomo che vive alla Casa Bianca», disse freddamente Pitt. Guardò di nuovo l'orologio, poi Robert Capesterre. Non c'era pietà nei
suoi occhi. «Mi dispiace di non poter restare a ripulire, ma devo scappare.» Si girò e si avviò verso la galleria d'uscita. Ma fece appena due passi prima di fermarsi di colpo. Un uomo basso dalla faccia olivastra che indossava un'uniforme da combattimento stava sulla soglia. Stringeva un fucile a canne mozze e lo puntava contro lo stomaco di Pitt. «Non abbia fretta, signor Pitt», disse con un forte accento arabo. «Nessuno andrà da nessuna parte.» 77. Sebbene si fossero accorti che qualcuno era entrato nella galleria, l'apparizione improvvisa dello sconosciuto colse di sorpresa tutti coloro che si trovavano nella Situation Room. La minaccia della catastrofe incominciò a incombere mentre assistevano impotenti alla scena che si svolgeva nelle viscere di Gongora Hill. «Generale Chandler», disse in tono secco il presidente, «che cosa diavolo succede? Chi è l'intruso?» «Anche noi lo stiamo guardando attraverso il monitor, signor presidente, ma pensiamo che sia uno degli uomini di Topiltzin. Deve essere entrato da nord, dove il nostro sbarramento di sicurezza è meno serrato.» «Ha un'uniforme», disse Brogan. «Potrebbe essere uno dei suoi uomini?» «No, a meno che i nostri magazzini distribuiscano tenute da combattimento dell'esercito israeliano.» «Mandi qualcuno laggiù per aiutare Pitt», ordinò il generale Metcalf. «Signore, se mando una squadra vicino allo scavo, quella gente penserà che abbiamo intenzione di catturare o di uccidere Topiltzin. E si inferocirà.» «Ha ragione», disse Schiller. «Quell'orda si sta innervosendo.» «L'intruso gli è passato sotto il naso», insistette Metcalf. «Perché non possono fare altrettanto i suoi uomini?» «Sarebbe stato possibile dieci minuti fa, ma ora no», rispose Chandler. «I seguaci di Topiltzin hanno montato altri riflettori. Il pendio è inondato di luce. Neppure un topo potrebbe entrare senza essere visto.» «Gli scavi sono rivolti a sud, verso la gente», spiegò il senatore Pitt. «Non ci sono uscite sull'altro versante della collina.» «Già così abbiamo avuto fortuna», continuò Chandler. «Gli spari nella
galleria sono sembrati tuoni lontani, e nessuno ha capito da dove venissero.» Il presidente fissò il senatore Pitt. «George, se quell'orda comincerà ad avanzare, dovremo terminare l'operazione prima che suo figlio possa mettersi in salvo.» Il senatore si passò una mano sugli occhi e annuì. Poi guardò il monitor. «Dirk ce la farà», disse con calma sicurezza. Nichols si alzò di scatto e indicò il monitor. «La folla!» esclamò in tono disperato. «Si sta muovendo!» Mentre gli altri discutevano le sue probabilità di sopravvivenza a duemilacinquecento chilometri di distanza, la principale preoccupazione di Pitt era il fucile a canne mozze. Era certo che fosse nelle mani di un uomo che aveva ucciso molte volte. La faccia che gli stava davanti aveva un'espressione annoiata. Un altro, pensò Pitt. Se entro pochi secondi non fosse finito con le budella spiaccicate contro una parete, sarebbe stato schiacciato da tonnellate di terra. Nessuna delle due prospettive era piacevole. «Ti dispiace dirmi chi sei?» chiese. «Sono Ibn Telmuk, servitore e intimo amico di Suleiman Aziz Ammar.» Già, pensò Pitt. Ricordò il terrorista che aveva incontrato davanti al frantoio. «Voi siete individui disposti a tutto pur di vendicarvi, no?» «Il suo ultimo desiderio è stato che io ti uccidessi.» Pitt abbassò lentamente il braccio destro e la spada puntò verso il pavimento. Si immedesimò nella parte del coraggioso che accetta la sconfitta e si rilassò, incurvando le spalle e piegando leggermente le ginocchia. «Eri a Santa Inez?» «Sì. Suleiman Aziz e io siamo tornati insieme in Egitto.» Pitt aggrottò le sopracciglia. Non aveva creduto possibile che Ammar fosse sopravvissuto alla sparatoria. E il tempo stava per scadere! Ibn avrebbe dovuto sparargli senza una parola, ma Pitt sapeva che l'arabo stava giocando con lui. La raffica sarebbe arrivata a metà di una frase. Era inutile indugiare. Pitt fissò Ibn, misurò la distanza fra loro e calcolò la direzione in cui si sarebbe lanciato. Si parò davanti lo scudo con un gesto distratto. Capesterre avvolse un lembo della veste intorno al moncherino sanguinante e gemette per il dolore. Poi tese davanti a Ibn l'arto fasciato. «Uccidilo!» gridò. «Guarda che cosa mi ha fatto! Sparagli!» «E tu chi sei?» chiese Ibn in tono gelido senza staccare gli occhi da Pitt.
«Io sono Topiltzin.» «Il suo vero nome è Robert Capesterre», disse Pitt. «Non è altro che un impostore.» Capesterre si trascinò verso Ibn e si fermò ai suoi piedi. «Non dargli ascolto», implorò. «Quello è un delinquente comune.» Per la prima volta Ibn sorrise. «Non è vero. Ho studiato il dossier del signor Pitt. Non è comune per niente.» Così va un po' meglio, pensò Pitt. Ibn era distratto da Topiltzin. Si spostò di pochi centimetri per volta, cercando di piazzarsi in modo che Capesterre si trovasse fra lui e l'arabo. «Dov'è Ammar?» chiese bruscamente Pitt. «È morto», rispose Ibn. Il sogghigno lasciò il posto a una smorfia di collera. «È morto dopo aver ucciso quel porco di Akhmad Yazid.» L'annuncio sembrò folgorare Capesterre. Automaticamente girò lo sguardo verso la bara che conteneva il corpo del fratello. «Dunque era l'uomo che mio fratello aveva assoldato per dirottare la nave», disse con voce rauca. Pitt represse l'impulso di commentare: «Te l'avevo detto» e si spostò di un altro centimetro. Ibn aveva l'aria di non capire. «Akhmad Yazid era tuo fratello?» «Sicuro», disse Pitt. «Riconosceresti Yazid se lo vedessi?» «È naturale. La sua faccia è famosa come quella dell'ayatollah Khomeini o di Yassir Arafat.» Pitt pensava affannosamente ai possibili cambiamenti del suo piano disperato, approfittando del pochissimo tempo rimasto. Tutto dipendeva dal modo in cui avrebbe potuto leggere nella mente di Ibn e prevedere la sua reazione quando avesse visto Yazid. «Allora dai un'occhiata in quel feretro.» «Non pensare di muoverti, Pitt», disse Ibn. Continuò a fissarlo, diffidente, mentre si spostava verso la bara. Quando toccò con il fianco destro la maniglia si fermò, lanciò un'occhiata all'interno, poi tornò a guardare la sua preda. Pitt non s'era mosso d'un centimetro. Tutto dipendeva da un fattore imponderabile. Pitt contava sulla classica reazione ritardata, nella speranza che la prima occhiata frettolosa di Ibn all'interno del feretro fosse seguita da un'altra più lunga. E fu appunto ciò che avvenne.
Nel pullman del comando delle Forze Speciali, parcheggiato mezzo chilometro a ovest dello scavo, Hollis, l'ammiraglio Sandecker, Lily e Giordino guardavano un monitor televisivo che mostrava il dramma in atto nelle viscere di Gongora Hill. Lily stava immobile, pallidissima, mentre Sandecker e Giordino erano inquieti come due tigri che vedono un piatto di carne fresca appena al di fuori della loro gabbia. Hollis camminava avanti e indietro e stringeva nervosamente in una mano un teledetonatore ad altissima frequenza, mentre con l'altra teneva un telefono. In quel momento stava urlando con un aiutante del generale Chandler. «Un corno! Non farò detonare l'esplosivo fino a che la folla non avrà superato il perimetro del pericolo.» «Ormai si sono avvicinati troppo», ribatté l'aiutante. «Ancora trenta secondi!» esclamò Hollis. «Non prima!» «Il generale Chandler vuole che quella collina venga fatta saltare immediatamente!» disse il colonnello che era l'aiutante del generale. «È stato il presidente in persona a ordinarlo.» «Lei è solo una voce al telefono, colonnello», ribatté Hollis. «Voglio l'ordine diretto del presidente.» «Vuol finire davanti a una corte marziale, colonnello?» «Non sarebbe la prima volta.» Sandecker scosse la testa, preoccupato. «Ormai Dirk non può più farcela.» «Non potete fare qualcosa?» implorò Lily. «Parlategli. Vi sentirà attraverso l'altoparlante collegato alla telecamera.» «Non possiamo correre il rischio di distrarlo», rispose Hollis. «Se spezziamo la sua concentrazione, l'arabo lo ucciderà.» «Ecco!» borbottò Giordino, infuriato. Spalancò il portello del pullman, balzò a terra e corse verso la jeep di Sam Trinity. Prima che gli uomini di Hollis potessero fermarlo, il veicolo stava già correndo fra i cespugli in direzione di Gongora Hill. Con uno scatto fulmineo, Pitt si lanciò come un serpente a sonagli e spinse lo scudo addosso a Ibn. La spada lampeggiò nell'aria e colpì di nuovo. Il braccio si avventò con tutta la forza dei muscoli. Pitt sentì e udì il filo della lama battere contro il metallo prima di colpire qualcosa di molle.
Qualcosa gli esplose in faccia. Sussultò quando la violenza dello scoppio colpì la parte centrale dello scudo e si ripercosse contro il soffitto di roccia. Il rivestimento di plastica blindata che era stato fissato al legno laminato dal maggiore Dillinger proprio quel pomeriggio si ammaccò ma non venne sfondato. La spada finì di descrivere l'arco e iniziò un tremendo fendente di rovescio. Ibn era agile e svelto, ma lo shock che gli aveva causato la vista di Yazid gli costò un secondo prezioso. Intravide l'attacco di Pitt con la coda dell'occhio e riuscì a sparare alla meno peggio prima che la spada toccasse il calcio dell'arma e gli affondasse nella mano, tranciando il pollice e le altre dita appena al di sopra delle nocche. Ibn proruppe in un gemito agghiacciante. Il fucile a canne mozze piombò rumorosamente sul pavimento di calcare vicinissimo alla Colt Python ancora stretta nella mano recisa di Capesterre. Ma Ibn si riprese quanto bastava per sottrarsi al nuovo colpo di Pitt. Poi, con un guizzo violento, si scagliò contro di lui. Pitt era pronto all'assalto, tuttavia, mentre si spostava a lato, la gamba destra gli mancò. In un lampo si rese conto che uno o due proiettili non erano finiti contro lo scudo e l'avevano colpito alla gamba ferita sull'isola di Santa Inez. Prima che potesse reagire e schizzare lontano, Ibn piombò su di lui come una pantera. Gli occhi neri avevano una luce satanica, i denti erano snudati. Pitt si lasciò sfuggire l'impugnatura della spada quando Ibn lo urtò. L'altro braccio era bloccato dalle cinghie dello scudo. Poi, lentamente, la mano illesa di Ibn si strinse intorno alla sua gola. «Uccidilo!» urlò Robert Capesterre come un pazzo. «Uccidilo!» Pitt si sollevò in un movimento a cavatappi, sollevò il pugno dal pavimento e colpì il pomo d'Adamo di Ibn. Con la cartilagine della laringe schiacciata, quasi tutti gli uomini sarebbero morti, o almeno avrebbero perduto i sensi. Ma Ibn si portò la mano alla gola, proruppe in un gorgoglio terribile e indietreggiò barcollando. Entrambi si rialzarono in piedi come due ubriachi. Pitt saltellava su una gamba sola, Ibn boccheggiava e teneva abbandonata la mano destra storpiata. Si fronteggiarono come due tori feriti mentre riprendevano fiato per un nuovo assalto, e si squadrarono diffidenti per vedere chi avrebbe fatto la prima mossa. Ma la prima mossa fu compiuta da qualcun altro. Capesterre si buttò sulla Colt e cercò freneticamente di staccare dall'impugnatura le dita paraliz-
zate. La mano morta cadde a terra. Poi, stranamente, il movimento di Capesterre provocò una reazione in Ibn e Pitt, che si guardarono intorno alla ricerca delle armi più vicine. Pitt fu battuto sul tempo. Il fucile era più vicino a Ibn, e anche la spada romana. Non era il caso di essere schizzinoso, pensò. Sferrò un calcio disperato con la gamba ferita e centrò la cassa toracica di Capesterre, ma il gesto gli costò un dolore terribile. Scagliò lo scudo come un frisbee contro l'arabo; lo centrò allo stomaco e lo lasciò senza fiato. Un grido lamentoso eruppe dalle labbra di Capesterre. Lasciò la Colt, e Pitt l'afferrò al volo. Fu una presa quasi perfetta... La mano scivolò intorno al calcio sanguinante, l'indice attraverso la guardia del grilletto. Ibn, piegato in due dal colpo ricevuto, stava ancora alzando goffamente con la sinistra il fucile a canne mozze quando Pitt sparò. Pitt strinse l'arma più saldamente. L'arabo barcollò, urtò contro la parete della camera, poi cadde bocconi sul pavimento e batté la testa con un tonfo. Pitt rimase in piedi, a denti stretti. Solo in quell'istante sentì la voce convulsa che giungeva attraverso l'altoparlante della telecamera. «Se ne vada!» stava urlando Hollis. «In nome di Dio, scappi!» Per un attimo, Pitt rimase disorientato. Troppo impegnato a battersi con Ibn, aveva dimenticato quale passaggio conduceva all'uscita più agevole e quale invece alla più difficile che si trovava all'interno del cratere. Lanciò un'ultima occhiata fuggevole a Robert Capesterre. La faccia era cinerea per il sangue perduto, ma non per la paura. Gli occhi di Topiltzin traboccavano d'odio. «Goditi il viaggio all'inferno», disse Pitt. La risposta di Capesterre fu la bomba fumogena. Era riuscito, chissà come, a strappare la sicura. Il fuoco eruttò istantaneamente e riempì l'interno della camera con una densa nube color arancio. «Che cos'è successo?» chiese il presidente, mentre guardava la strana nebbia colorata che nascondeva la scena all'obiettivo della telecamera. «Capesterre doveva avere con sé una bomba fumogena», spiegò Chandler. «Perché le cariche non sono ancora esplose?» «Un attimo, signor presidente.» Chandler si voltò e parlò irosamente con un aiutante che non si vedeva. Poi tornò a girarsi. «Il colonnello Hollis delle Forze Speciali esige un suo ordine diretto, signore.»
«È lui che deve fare detonare gli esplosivi?» chiese Metcalf. «Sì, generale.» «Può inserirlo sulla nostra rete di comunicazioni?» «Un momento.» Bastarono quattro secondi, poi la faccia di Hollis apparve su uno dei monitor della Situation Room. «So che non può vedermi, colonnello», disse il presidente. «Ma riconosce la mia voce?» «Sì, signore», rispose Hollis a labbra strette. «Come suo comandante in capo, le ordino di far saltare quella collina e di farlo immediatamente.» «La folla sta sciamando su per il pendio», disse Nichols, sull'orlo del panico. Tutti si tesero a guardare il monitor che mostrava la collina. La massa enorme saliva lentamente verso la vetta e cantilenava il nome di Topiltzin. «Se aspetta ancora, morirà molta gente», disse Metcalf. «In nome del cielo, faccia saltare tutto.» Hollis tenne il pollice sull'interruttore e parlò nella trasmittente. «Detonazione!» Ma non premette l'interruttore. Era un classico trucco dei militari. «Mai rifiutare un ordine, per non essere processati per insubordinazione... Bisogna rispondere di sì e non metterlo in atto.» L'inefficienza era una delle accuse più difficili da provare di fronte a una corte marziale. Hollis era deciso a dare a Pitt ogni secondo che poteva ancora assicurargli. Pitt trattenne il respiro come se nuotasse sott'acqua, chiuse li occhi per proteggerli dal fumo pungente e ordinò alle gambe di muoversi, di correre, di strisciare, qualunque cosa che potesse portarlo lontano da quella camera degli orrori. Entrò in un corridoio senza sapere se conduceva al pozzo o al cratere. Continuò a tenere gli occhi chiusi e a procedere a tentoni lungo la parete, zoppicando sulla gamba ferita. Era acceso da una smania ardente di vivere. Non poteva credere che sarebbe morto ora, dopo essere sopravvissuto agli ultimi minuti. Alla fine aprì gli occhi. Bruciavano come se fossero stati punti dalle api; ma poteva vedere. Aveva superato il fumo più denso. Ormai era solo un vapore color arancio.
Il pozzo scavato nel calcare incominciò a salire. Pitt avvertì un leggero aumento della temperatura e una brezza. Poi uscì incespicando nella notte. C'erano le stelle, quasi offuscate dalle luci fulgide che brillavano sulla collina. Ma non era al sicuro. C'era un problema. Aveva la sensazione sconvolgente di essere uscito dal tunnel del cratere. La parete scoscesa saliva ancora per quattro metri. Era così vicina e così terribilmente lontana... Cominciò a inerpicarsi sul declivio. La gamba ferita, del tutto inservibile, era un peso morto che doveva trascinarsi dietro. Poteva puntellarsi solo con l'altro piede. Hollis taceva. Il colonnello non aveva più niente da dire. Pitt sapeva che l'esplosione pianificata con tanta minuziosità l'avrebbe ucciso. Lo sfinimento l'assaliva a ondate, ma continuava ad arrampicarsi ostinatamente. Poi una figura apparve sul ciglio del cratere, una grossa mano si protese, lo afferrò per il maglione e lo issò sul terreno pianeggiante. Con una facilità incredibile, Giordino gettò Pitt a bordo della jeep, balzò al volante e schiacciò l'acceleratore. Avevano percorso appena cinquanta metri quando Hollis premette il pulsante. Il segnale ad altissima frequenza fece esplodere i duecento chili di nitroglicerina gel C-6 nelle viscere della collina con un boato spaventoso. Per un attimo sembrò che un'eruzione vulcanica stesse prorompendo dalla profondità della terra. La massa dei seguaci di Topiltzin venne scagliata a terra. Poi le loro bocche si spalancarono per l'orrore mentre la violenza dello spostamento d'aria svuotava i polmoni. La cima di Gongora Hill si sollevò nell'aria per una decina di metri, rimase sospesa nella notte come se fosse sostenuta da una mano gigantesca, quindi si sgretolò e ricadde, lasciando un immenso pennacchio turbinante di polvere come lapide commemorativa. 78. 5 novembre 1991 Roma, Texas Cinque giorni più tardi, pochi minuti dopo mezzanotte, l'elicottero del presidente si posò in un piccolo aeroporto a pochi chilometri da Roma. A bordo c'erano anche il senatore Pitt e Julius Schiller. Non appena le pale
dei rotori si fermarono, l'ammiraglio Sandecker andò ad accoglierli. «Lieto di vederla, ammiraglio», disse il presidente. «Mi congratulo per l'ottimo lavoro anche se, in tutta sincerità, devo ammetterlo, non pensavo che la NUMA potesse farcela.» «Grazie, signor presidente», rispose Sandecker con la solita aria baldanzosa. «Le siamo tutti grati perché ha avuto abbastanza fiducia nel nostro piano pazzesco per autorizzarci a procedere.» «Una magnifica impresa, davvero.» Il presidente si voltò a guardare il senatore Pitt. «Comunque, deve ringraziare il senatore per il mio appoggio. È stato molto persuasivo.» Dopo che Sandecker e Schiller ebbero scambiato qualche parola, tutti salirono una scaletta ed entrarono all'interno di un colossale camion a dieci ruote. Due agenti del servizio segreto, in tuta da operai, salirono nella cabina con il guidatore. Altri quattro presero posto su un vecchio furgoncino Dodge. L'esterno del camion aveva la vernice sbiadita e scrostata, ma l'interno, che aveva una superficie di quattro metri e mezzo per due e mezzo, era una saletta con un bar-cucinino e sei poltroncine. La parte superiore era rialzata e coperta da uno strato di ghiaia per completare la mimetizzazione. La botola fu chiusa; i passeggeri sedettero sulle poltroncine imbullonate al pavimento e agganciarono le cinture. «Mi scuso per il mezzo di trasporto un po' inconsueto», disse Sandecker. «Ma non possiamo permetterci di scoprirci, con tutti quegli elicotteri che vanno e vengono.» «È la prima volta che viaggio dentro un camion per il trasporto della ghiaia», commentò scherzando il presidente. «Le sospensioni non reggono il confronto con quelle della berlina ufficiale della Casa Bianca.» «Abbiamo trasformato sei camion di questo tipo», spiegò l'ammiraglio. «Un'ottima idea», rise il senatore, battendo il pugno sulla parete metallica. «Li vendono già blindati.» Il sorriso si spense sulle labbra del presidente. «Il segreto è ben protetto?» Sandecker annuì. «Non ho visto nulla che possa far pensare al contrario.» «Questa volta non ci saranno soffiate dalla Casa Bianca», garantì Schiller, che aveva captato l'insinuazione velata dell'ammiraglio. «Manterremo il massimo riserbo.»
Il presidente rimase in silenzio per un momento. «Siamo stati molto fortunati», disse alla fine. «L'orda dei seguaci di Topiltzin avrebbe potuto scatenarsi in una follia vendicativa quando si è capito che era morto.» «Tuttavia, passato il primo momento di shock», disse Sandecker, «si sono aggirati intorno alla collina e hanno guardato il cratere aperto dall'esplosione come se fosse un fenomeno sovrannaturale. I disordini sono stati limitati al minimo perché in maggioranza la folla comprendeva donne e bambini e soprattutto perché i componenti dello stato maggiore di Topiltzin hanno preferito filarsela senza dare nell'occhio e riparare in Messico. E così la gente ormai senza un capo, stanca e affamata, ha finito per riattraversare il confine alla spicciolata per far ritorno alle città e ai villaggi.» «Secondo i dati dell'ufficio immigrazione», spiegò Schiller, «diverse migliaia di immigranti clandestini si sono diretti al nord, ma un terzo è già stato rastrellato.» Il presidente sospirò. «Ormai il peggio è passato. Se il Congresso approverà il nostro piano di aiuti per l'America Latina, questo permetterà ai nostri vicini del sud di rimettersi in piedi da un punto di vista finanziario.» «E la famiglia Capesterre?» chiese Sandecker. «Come ci si regolerà con loro?» «Il dipartimento di Giustizia sta dando la caccia a tutte le proprietà e a tutti i capitali che hanno nel nostro Paese.» Il viso del presidente era impassibile, ma negli occhi brillava un riflesso d'acciaio. «Sia detto fra noi, signori: il colonnello Hollis delle Forze Speciali sta progettando un'esercitazione su un'isola dei Caraibi il cui nome non sarà rivelato. Se in quell'occasione qualcuno dei Capesterre si troverà nella zona... be', sarà un vero peccato.» Il senatore Pitt sorrise sarcasticamente. «Ora che Yazid e Topiltzin non ci sono più, per un po' le nostre relazioni con l'estero sembreranno molto tranquille.» Schiller scosse la testa. «Ci siamo limitati a tappare due falle nella diga. Il peggio deve ancora venire.» «Non gridi al lupo, Julius», disse il presidente, che era ritornato di buon umore. «Per il momento l'Egitto è stabile. E adesso che il presidente Hasan sta per dimettersi per ragioni di salute e lascerà il posto al ministro della Difesa Abu Hamid, i fondamentalisti si vedranno costretti a ridurre le pretese di imporre un governo islamico.» «E il fatto che Hala Kamil abbia acconsentito a sposare Hamid non guasterà certo la situazione», commentò il senatore Pitt.
La conversazione s'interruppe quando il camion si fermò. La botola fu aperta dall'esterno, e venne sistemata la scaletta. «Dopo di lei, signor presidente», invitò Sandecker. Scesero a terra e si guardarono intorno. L'area era circondata da una normale recinzione di rete metallica e rischiarata fiocamente da lampioni. Un grande cartello accanto all'ingresso diceva: SAM TRINITY - SABBIA E GHIAIA. Lo spiazzo era deserto, a parte un paio di montacarichi per la ghiaia, una grossa scavatrice e vari camion con o senza rimorchio. Le unità del servizio di guardia e l'attrezzatura per la sorveglianza elettronica erano virtualmente invisibili agli occhi di chi avesse fatto il giro dello spiazzo. «Potrei vedere il signor Trinity?» chiese il presidente. Sandecker scosse la testa. «No, mi dispiace. Sam è un brav'uomo e un vero patriota. Ha ceduto volontariamente al governo tutti i diritti sul tesoro, ed è partito per fare il giro dei cento campi di golf più famosi del mondo.» «Spero che abbia ricevuto un compenso adeguato.» «Un milione di dollari esentasse», rispose Sandecker. «E c'è mancato poco che dovessimo usare la forza per costringerlo ad accettarlo.» Poi l'ammiraglio si voltò e indicò uno scavo profondo a qualche centinaio di metri di distanza. «È quel che resta di Gongora Hill. Adesso è una cava di ghiaia. Ci abbiamo addirittura guadagnato, con questa attività.» Il presidente si oscurò mentre guardava l'enorme cratere aperto dove un tempo stava la vetta della collina. «Per caso, i corpi di Topiltzin e Yazid sono stati dissepolti?» Sandecker annuì. «Due giorni fa. Abbiamo fatto passare i resti attraverso il frantoio. Credo che adesso tutti e due facciano parte d'un fondo stradale.» Il presidente annuì. «La fine che meritavano.» «Dov'è la galleria?» chiese Schiller guardandosi intorno. «Là.» Sandecker indicò una roulotte sciupata che era stata adattata a ufficio. Un cartello sopra un finestrino portava la scritta «Spedizioni». I quattro agenti del servizio segreto che erano arrivati con il furgoncino erano scesi e stavano pattugliando l'area, mentre gli altri due, usciti dalla cabina del camion, entravano nell'ufficio per controllare. Dopo che il presidente e i suoi accompagnatori ebbero varcato la doppia porta del piccolo ufficio a bordo della roulotte, Sandecker li invitò a portarsi al centro del locale e ad aggrapparsi a una ringhiera che sporgeva dal
pavimento. Poi fece un segnale a una telecamera nell'angolo del soffitto. Il pavimento incominciò ad abbassarsi e a sprofondare nel suolo. «Molto ingegnoso», commentò Schiller. «Sì, davvero», mormorò il presidente. «Ora capisco perché nessuno ha scoperto il segreto.» L'ascensore scese attraverso lo strato di calcare e si fermò con un sobbalzo trenta metri al di sotto della superficie. Uscirono in un'ampia galleria illuminata da tubi fluorescenti. Fin dove arrivava lo sguardo, il passaggio era fiancheggiato da sculture. Una donna li stava aspettando. «Signor presidente», disse Sandecker, «posso presentarle la dottoressa Lily Sharp, direttrice del programma di catalogazione?» «Dottoressa Sharp, siamo tutti in debito con lei.» Lily arrossì. «Per la verità sono solo una rotella dell'ingranaggio», rispose modestamente. Dopo essere stata presentata a Schiller, Lily incominciò a fare da guida fra i tesori della Biblioteca di Alessandria. «Abbiamo studiato e catalogato quattrocentoventisette statue diverse», spiegò. «Rappresentano la migliore produzione dall'inizio dell'età del bronzo intorno al tremila avanti Cristo fino all'epoca bizantina, all'inizio del quarto secolo. A parte le poche macchie causate dalle infiltraziom d'acqua attraverso il calcare, che possono essere eliminate facilmente, le statue in marmo e in bronzo sono in uno stato di conservazione eccezionale.» Il presidente avanzò in silenzio nella lunga galleria, soffermandosi spesso per ammirare le magnifiche opere, alcune delle quali avevano cinquemila anni. Si sentiva sopraffatto dal loro numero. Ogni epoca, ogni dinastia e ogni impero erano rappresentati con la produzione migliore dei loro artisti. «È proprio vero: quella che vedo e che tocco è la collezione del museo di Alessandria», disse in tono reverente. «Dopo l'esplosione, non riuscivo a credere che non fosse stata distrutta.» «Le vibrazioni del terreno hanno sollevato la polvere e fatto cadere qualche frammento di calcare», disse Lily. «Ma gli oggetti sono rimasti indenni. Queste statue sono esattamente come le vide per l'ultima volta Junius Venator nel 391 dopo Cristo.» Dopo aver mostrato per quasi due ore gli incredibili tesori, Lily si fermò davanti all'ultimo prima di entrare nella galleria principale. «Il feretro d'oro di Alessandro il Grande», annunciò abbassando la voce.
Il presidente aveva la sensazione di essere sul punto d'incontrare Dio. Si avvicinò esitando al luogo dell'ultimo riposo di uno dei sovrani più grandi che il mondo avesse conosciuto e scrutò attraverso le lastre di cristallo. I macedoni avevano sepolto il loro re con l'armatura cerimoniale. La corazza e l'elmo erano d'oro puro. La seta persiana del manto era semidistrutta dopo ventiquattro secoli: erano rimaste soltanto le ossa del grande protagonista delle leggende romantiche. «Cleopatra, Giulio Cesare, Marco Antonio... tutti hanno contemplato i suoi resti», spiegò Lily. Ognuno dei visitatori si avvicinò a turno, quasi incapace di concepire ciò che stava davanti ai suoi occhi. Poi Lily li condusse nella galleria grande. C'era al lavoro una trentina di persone. Molti esaminavano il contenuto delle casse di legno ammucchiate al centro. I dipinti, macchiati e sciupati ma restaurabili, i delicati oggetti d'avorio, marmo, oro, argento e bronzo venivano catalogati e riposti in altre casse per essere trasferiti in un complesso nel Maryland, dove sarebbero stati restaurati e conservati. Quasi tutti gli archeologi, i filologi e gli esperti dei metodi di conservazione maneggiavano con prudenza i cilindri di bronzo che contenevano migliaia di libri antichi, traducevano le etichette di rame e annotavano le descrizioni del contenuto. Anche i cilindri e i rotoli venivano accuratamente imballati per essere spediti nel Maryland. «Ecco.» Lily indicò la camera con un gesto orgoglioso. «Finora abbiamo trovato le opere complete di Omero, quasi tutti i testi perduti dei grandi filosofi greci, i primi scritti ebraici, e manoscritti e dati storici che danno una visione nuova del cristianesimo. Ci sono mappe che illustrano tombe di re antichi, finora sconosciute, l'ubicazione di centri commerciali perduti, inclusi Tarshish e Sheba, e carte geologiche di miniere e giacimenti petroliferi dimenticati da secoli. Molte enormi lacune nella cronologia degli eventi dell'antichità potranno essere colmate. La storia dei fenici, degli etruschi e di civiltà di cui si sa pochissimo è contenuta qui, esposta in tutti i particolari. I dipinti, se si potrà restaurarli, ci daranno una vera immagine degli immortali del mondo antico.» Per un momento il presidente non seppe che dire. Era stordito e non riusciva ad assimilare l'immensità di quel sorprendente patrimonio. Le opere d'arte non avevano prezzo, la conoscenza aveva un valore incalcolabile. Finalmente chiese: «Quanto tempo ci vorrà prima che abbiate terminato il vostro lavoro qui?» «Prima trasferiremo i volumi, quindi le opere d'arte», rispose Lily. «Le
ultime a partire saranno le statue. Lavorando ventiquattr'ore su ventiquattro, contiamo di svuotare il corridoio e la galleria principale entro Capodanno e di trasferire al sicuro l'intera collezione nel Maryland per quella data.» «Quasi sessanta giorni», disse Sandecker. «E la conservazione e la traduzione dei rotoli?» Lily alzò le spalle. «La conservazione è una faccenda lunga. Tutto dipende dagli stanziamenti, ma ci vorranno fra i venti e i cinquant'anni per tradurre tutto e acquisire una comprensione completa di ciò che abbiamo trovato.» «Non si preoccupi per i fondi», promise il presidente. «Il progetto avrà la precedenza assoluta. Glielo garantisco.» «Non potremo continuare a lungo a far credere alla comunità internazionale che questi tesori magnifici siano andati distrutti», osservò Schiller. «Dovremo dare un annuncio... e presto.» «Verissimo», disse il senatore Pitt. «I nostri e i governi stranieri non hanno ancora smesso di far chiasso dopo l'esplosione.» «Non lo dica a me», borbottò il presidente. «Secondo i sondaggi, la mia popolarità è scesa di quindici punti, il Congresso non mi dà tregua e tutti i governi del mondo vorrebbero la mia pelle.» «Vi prego di scusarmi, signori», disse Lily, «ma, se potete attendere per altri dieci giorni, credo che io e gli altri che lavorano al progetto potremo realizzare un filmato straordinario sui pezzi più importanti dell'inventario.» Il senatore Pitt guardò il presidente. «Credo che la dottoressa Sharp ci abbia appena messo in mano una bomba. Una rivelazione sensazionale da parte della Casa Bianca, accompagnata da un documentario... Mi pare un'idea grandiosa.» Il presidente prese la mano di Lily e le diede un colpetto affettuoso. «Grazie, dottoressa Sharp. Mi ha reso la vita un po' più facile.» «Ha già pensato al modo di suddividere il tesoro?» chiese Sandecker senza preoccuparsi di nascondere l'irritazione. Il presidente sorrise. «Se riuscirò a convincere il Congresso a stanziare i fondi, e di questo sono sicuro, una copia della Biblioteca di Alessandria verrà costruita lungo il Mall di Washington. Useremo tutti i pezzi che Junius Venator portò dall'Egitto, più vari manufatti delle antiche Americhe. Se altri paesi vorranno ammirare la loro eredità, saremo lieti di prestarli. Ma rimarranno proprietà del popolo americano.» «Grazie, signor presidente!» esclamò Lily, e gli buttò le braccia al collo
in uno slancio d'entusiasmo. L'ammiraglio Sandecker gli strinse la mano. «Grazie, signor presidente. Credo che abbia reso felici tutti.» Schiller si chinò a bisbigliare all'orecchio di Lily. «Faccia tradurre per primi i dati geologici. Potremo conservare le opere d'arte ma la conoscenza contenuta nei libri dovrà essere messa a disposizione del mondo.» Lily annuì in silenzio. Poi, quando ritornò la calma, condusse i visitatori in un angolo della galleria dove Pitt e Giordino erano seduti a un tavolo pieghevole con un traduttore che esaminava la targhetta d'un cilindro con la lente d'ingrandimento. Il presidente li riconobbe e si affrettò a raggiungerli. «Lieto di vederla vivo e vegeto, Dick», disse con un sorriso. «A nome di una nazione riconoscente, desidero ringraziarla per questo dono straordinario.» Pitt si alzò, appoggiandosi al bastone. «Sono contento che sia finita bene. Se non fosse per il mio amico Al e per il colonnello Hollis, sarei ancora sotto Gongora Hill.» «Le dispiace chiarire il mistero?» chiese Schiller. «Come poteva sapere che i tesori della biblioteca erano sotto la collina più bassa, e non sotto Gongora?» «Devo ammettere», disse il presidente, «che ci ha fatto prendere una paura tremenda. Tutti abbiamo pensato: 'E se avesse fatto saltare la collina sbagliata?'» «Chiedo scusa per essere stato un po' vago», rispose Pitt. «Purtroppo non c'era tempo per dare una lunga spiegazione e tranquillizzare tutti.» S'interruppe per rivolgere un sorriso al padre. «Per fortuna vi siete fidati di me. In realtà non ci sono mai stati dubbi. La descrizione di Junius Venator incisa sulla lapide trovata da Sam Trinity diceva: 'Avviatevi verso nord e guardate direttamente a sud verso l'altura sul fiume'. Quando mi sono piazzato a nord di Gongora Hill e ho guardato direttamente a sud, ho visto che l'altura di Roma si trovava quasi mezzo chilometro sulla mia destra, verso ovest. Allora mi sono spostato a ovest e un po' a nord, fino alla prima collina che corrispondeva alla descrizione di Venator.» «E come si chiama?» chiese il senatore. «Questa collina?» Pitt alzò una mano in un gesto vago. «A quanto mi risulta, non ha nome.» «Ora ce l'ha», disse il presidente. «Non appena la dottoressa Sharp mi autorizzerà ad annunciare la scoperta del più grande tesoro della storia del-
l'umanità, diremo che è stata trovata a No Name Hill.» La nebbia dell'alba si alzava dal fiume e la luce di un nuovo sole spuntava sulla valle del Rio Grande quando la comitiva presidenziale ripartì per Washington, molto impressionata da ciò che aveva visto. Pitt e Lily sedettero sulla vetta di No Name Hill, aspirarono l'odore umido del mattino e guardarono le luci di Roma che si spegnevano. Sembrava un quadro di Grant Wood. Lily sorrise guardando Pitt negli occhi. Adesso non erano più duri e gelidi, ma teneri e pensosi. Il sole gli illuminava il volto, ma lui non lo vedeva. Sentiva soltanto il tepore. Lily sapeva che la sua mente stava frugando nel passato. Aveva compreso che nessuna donna avrebbe mai potuto possedere completamente quell'uomo. Il suo amore era una sfida sconosciuta oltre l'orizzonte, un mistero che lo chiamava con voce di sirena. Era un uomo che una donna poteva desiderare per una relazione appassionata ma che non avrebbe mai sposato. Sapeva che il loro rapporto era fuggevole, e intendeva approfittare di ogni momento che le restava fino a quando, un giorno, si fosse svegliata e avesse scoperto che Dirk Pitt era partito in cerca di un enigma che lo attendeva al di là della prossima collina. Gli appoggiò la testa sulla spalla. «Che cosa diceva la targhetta?» «Quale targhetta?» «Quella sul cilindro che sembrava interessare tanto a te e ad Al.» «Era un'allusione tentatrice ad altri manufatti», disse Pitt a voce bassa continuando a guardare lontano. «Dove?» «In fondo al mare. Il rotolo porta la dicitura: 'Naufragi documentati di navi con carichi preziosi'.» Lily lo guardò in faccia. «Una mappa che può guidare a tesori sommersi.» «C'è sempre un tesoro, in qualche posto», disse Pitt con voce quasi distaccata. «E hai intenzione di trovarlo?» Pitt si voltò e sorrise. «Cercare non fa mai male. Purtroppo, raramente lo zio Sam me ne lascia il tempo. Devo ancora battere le giungle brasiliane per trovare la città di El Dorado.» Lily gli lanciò un'occhiata, poi si riadagiò e guardò le stelle che svanivano nel cielo. «Chissà dove sono sepolti.»
Pitt dimenticò per un attimo la visione dei tesori sommersi e la guardò. «Chi?» «Gli antichi mercenari che aiutarono Venator a salvare la collezione della biblioteca.» Pitt scosse la testa. «È difficile intuire quel che pensava Junius Venator. Potrebbe aver sepolto i suoi commilitoni bizantini in qualunque punto, tra qui e il fiume...» Lily gli posò una mano sulla testa e l'attirò vicino. Le loro labbra s'incontrarono e rimasero unite a lungo. Un falco volò in cerchio sopra di loro nel cielo color arancio, ma non vide nulla di appetitoso e si diresse verso sud, sul Messico. Lily aprì gli occhi e si scostò con un sorriso. «Credi che gli dispiacerebbe?» Pitt la fisso, incuriosito. «Che cosa dovrebbe dispiacergli?» «Se facessimo l'amore sulle loro tombe. Può darsi che siano sepolti qui, sotto di noi.» Pitt la girò e la guardò negli occhi. Poi incurvò le labbra in un sorriso malizioso. «Non credo che gli dispiacerebbe. A me non dispiacerebbe affatto.» FINE