ED McBAIN TRADITORI (Fiddlers, 2007) Questo libro è per mia moglie DRAGICA, qui, ora e per sempre 1 Il direttore del Nin...
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ED McBAIN TRADITORI (Fiddlers, 2007) Questo libro è per mia moglie DRAGICA, qui, ora e per sempre 1 Il direttore del Ninotchka era un malavitoso di nome Dominick La Paglia. Non esattamente un uomo d'onore, ma un delinquente legato alla mafia che aveva alle spalle una sfilza di arresti iniziata all'età di diciassette anni. Era finito dentro due volte, la prima per tentato omicidio, la seconda per spaccio di droga. Insisteva nel dire che il suo locale era pulito: non potevi comprare neppure un inalatore là dentro. «La nostra è una clientela anziana» spiegò La Paglia. «Il Ninotchka è tutto lume di candela e musica soft. Un'orchestrina di balalaiche, tre violinisti che negli intervalli passano da un tavolo all'altro e i miei vecchietti che, quando non sono in pista a ballare, se ne stanno mano nella mano. Mai avuto guai qui, chiedetelo ai vostri amici dell'Antidroga.» «Ci parli di Max Sobolov» gli disse Steve Carella. Erano le ventitré di mercoledì, sedicesimo giorno di giugno. I tre si trovavano nel vicolo dove qualcuno aveva esploso due colpi in faccia al violinista. «Cosa volete sapere?» domandò La Paglia. «Da quanto tempo lavorava qui?» «Parecchio. Forse due anni.» «Quindi lei aveva assunto un violinista cieco, giusto?» «Perché no?» «Per passare da un tavolo all'altro?» «Il locale è comunque buio, che differenza poteva fare per un cieco? Suonava benissimo il violino. Aveva perso la vista in Vietnam, sapete. Un eroe di guerra, e qualcuno lo fa fuori in un vicolo.» «Cosa ci dice degli altri musicisti che lavorano qui? Qualche screzio tra loro e Sobolov?» domandò Meyer. «No, lui era cieco» disse La Paglia. «Sono tutti molto gentili con i ciechi.»
Tranne quando gli sparano due volte in faccia, pensò Carella. «O qualcun altro del club? Baristi, cameriere, chiunque.» «Guardarobiere.» «Buttafuori. Chiunque.» «No, andava d'accordo con tutti.» «Ci dica cos'è successo questa sera» ordinò Carella. «Lei era nel locale quando gli hanno sparato?» «Ero nel locale.» «Ci descriva la sequenza degli eventi» disse Meyer ed estrasse il blocchetto degli appunti. Secondo il resoconto di La Paglia, il club chiudeva alle due di notte, tutte le notti della settimana. L'orchestrina suonava l'ultima serie di brani all'una e mezzo, i violinisti facevano il loro ultimo giro in cerca di mance alle due meno un quarto. A quel punto i baristi avevano già servito gli ultimi bicchieri e le cameriere portavano il conto ai clienti... «Conoscete quella canzone di Cole Porter?» domandò La Paglia. «Quella che dice "prima che i violinisti se ne vadano"? Uno dei testi più belli che siano mai stati scritti. Il momento della chiusura è proprio così. Però dovevano essere più o meno le dieci, le dieci e mezzo quando Max è uscito per farsi una sigaretta. Nel locale è vietato fumare, ma tanto metà dei clienti ha l'enfisema. Io ero al bar e stavo chiacchierando con una coppia di clienti abituali; non prendono mai un tavolo, si siedono sempre al bar. Era una serata fiacca, il mercoledì è sempre fiacco. Quei due stavano parlando di trasferirsi in Florida. Mi stavano raccontando di Sarasota, quando ho sentito gli spari.» «Li ha riconosciuti subito come spari?» La Paglia inarcò le sopracciglia. Andiamo, diceva la sua espressione, volete che non riconosca degli spari quando li sento? «No» rispose sarcastico. «Ho pensato che fossero ritorni di fiamma.» «A quel punto cos'ha fatto?» «Sono corso nel vicolo. Sobolov era già morto. Disteso sulla schiena, la faccia tutta insanguinata. Il bastone bianco era per terra, vicino alla mano destra.» «Ha visto qualcuno?» «Come no, l'assassino è rimasto nei paraggi perché lo identificassi.» Meyer pensò che il sarcasmo non si addiceva a un mafioso.
La famiglia Sobolov stava celebrando la shivah. Meyer sapeva di cosa si trattava, ci era già passato, ma per Carella quella era la prima veglia funebre ebraica. Semplicemente, imitò il collega. Quando vide Meyer togliersi le scarpe davanti alla porta aperta dell'appartamento, fece la stessa cosa. «Le porte vengono lasciate aperte, in modo che gli ospiti possano entrare senza distrarre i partecipanti alla veglia» spiegò Meyer. «Nessuno che bussa alla porta o suona il campanello.» Si stava lavando le mani in un piccolo catino pieno d'acqua, appoggiato su una sedia a destra della porta. Steve fece lo stesso. «Io non sono religioso» continuò Meyer. «Non so dirti perché ci dobbiamo lavare le mani prima di entrare.» Era tutto nuovissimo per Carella. C'era forse una ventina di persone nel soggiorno dei Sobolov. Cinque di loro se ne stavano seduti su delle panche basse. Meyer in seguito spiegò che quello era personale fornito dall'impresa di pompe funebri. Tutti gli specchi della casa erano stati coperti con drappi e in un angolo della stanza c'era una grossa candela accesa. Secondo l'uso ebraico, Sobolov era stato sepolto subito e i familiari avevano iniziato la shivah appena erano rientrati a casa dopo il funerale. Era venerdì mattina, diciottesimo giorno di giugno. Gli uomini della famiglia non si erano rasati. Le donne non si erano truccate. Si avvertiva un profondo senso di perdita in quell'appartamento. Carella era stato a veglie funebri irlandesi, dove c'erano donne che si lamentavano urlando, ma si rideva anche e si beveva molto. Ed era stato a veglie italiane, dove le donne gridavano e si strappavano i vestiti. Qui l'atteggiamento predominante era di silenzioso dolore. L'appartamento apparteneva al fratello minore di Max, che si chiamava Sidney, e a sua moglie Susan. Entrambi i genitori di Max erano morti, ma era presente uno zio anziano e anche parecchi cugini. Lo zio parlava con un accento marcato, russo o mitteleuropeo, difficile a dirsi. Raccontò ai detective aneddoti su Max bambino. Raccontò di quando i genitori gli avevano regalato un violino giocattolo e il piccolo aveva cominciato subito a suonare... «Avreste dovuto vederlo, un vero Yehudi Menuhin!» Sidney disse ai due poliziotti che i suoi genitori avevano mandato immediatamente Max a lezione di violino... «Con un violino vero, mica un giocattolo» precisò lo zio.
... e dopo pochi mesi Max suonava già pezzi difficili... «Il suo maestro era stupefatto!» «Aveva molto talento» aggiunse un cugino. «Un talento naturale» concordò Sidney. «Max era tanto sensibile, e di sentimenti delicati.» «La persona più gentile del mondo.» «Un bambino dolcissimo.» «Quando suonava, ti scioglieva il cuore.» «Dalla sua musica traspariva tutta la sua bontà d'animo.» «Che violinista!» concluse lo zio. Sidney spiegò ai detective che nessuno era rimasto sorpreso quando suo fratello era stato accettato alla Kleber School, o quando Kusmin lo aveva ammesso al suo corso privato. «Alexei Kusmin» precisò Sidney. «Il direttore dei corsi di violino.» «Max aveva davanti a sé una meravigliosa carriera.» «Ma poi, naturalmente...» intervenne uno dei cugini. «L'hanno richiamato sotto le armi.» «La guerra» disse lo zio, e fece schioccare la lingua. «Vietnam.» «Venticinquesima divisione di fanteria.» «Seconda brigata.» «Compagnia D.» «No, era la compagnia B.» «No, Sidney. Era la D.» «Io gli scrivevo sempre: era la B.» «Come vuoi. Comunque fosse, è tornato a casa cieco.» «Terribile» commentò Susan, e scosse la testa. «Ha cominciato in ospedale» ammise lo zio. «A far uso di droghe.» «Prima dell'ospedale» ribatté il fratello. «Ha cominciato laggiù, in Vietnam.» «Ma soprattutto in ospedale.» «I farmaci» spiegò il fratello, annuendo. «L'ospedale dei veterani.» Era la prima volta che i due detective sentivano parlare di droga. Ascoltarono. «E poi, sapete, i musicisti...» affermò un cugino. «Tra loro è normale.» «Ma soprattutto è stato per via del dolore» disse lo zio.
«Comprensibilmente» aggiunse un altro cugino. «D'altra parte tutti fumano un po' d'erba ogni tanto» osservò un terzo cugino. «Ma bisognerebbe limitarsi a un po' d'erba» specificò lo zio, scuotendo la testa con spirito solidale. «E in ogni caso» dichiarò il fratello «fino al giorno in cui è morto, Max è stato la persona più dolce e affettuosa della terra.» «Un essere umano meraviglioso.» «Un Mensch» concordò lo zio. Solo una delle due ragazze era davvero bella, ma anche l'altra era carina. Non pretendeva certo che fossero da concorso di bellezza. Se telefoni a un'agenzia di accompagnatrici, di sicuro non ti mandano due stelle del cinema. Il giorno prima la donna al telefono gli aveva chiesto: "Lo sa quanto le costerà, amico?". Aveva la voce da nera. "Il prezzo non è un problema." "Tanto perché lo sappia, sono mille dollari a ragazza per la notte. Fanno duemila, più la mancia." "Nessun problema." "La mancia di solito è il venti per cento." Lui aveva pensato che fosse un po' troppo, ma non aveva detto niente. "Il che farebbe un totale di duemilaquattrocento. Se vuole e se si sente generoso, duemilacinque." "La carta di credito va bene?" "American Express, Visa o MasterCard" aveva risposto la donna. "A che ora le vuole?" "Le sette in punto. Può mandarmi una bionda e una rossa?" "Cosa ne dice di una bella cinesina?" "No, non stasera." "O di una sensuale sorella nera?" Si era chiesto se la donna stesse pensando a se stessa. "Una bionda e una rossa. Sui venti, venticinque anni, per favore." "Le troverò qualcosa di buono." La vera bellezza era la bionda. Gli disse di chiamarsi Trish. Lui era sicuro che non fosse il suo vero nome. La rossa era quella carina. Disse di chiamarsi Reggie, diminutivo di Regina, e lui decise di crederci, perché chi
mai al mondo sceglierebbe Regina come nome falso? Trish aveva più o meno venticinque anni. Reggie gli disse di averne diciannove. Lui decise di credere anche a questo. «Allora, cosa facciamo stasera?» domandò Trish. Era lei la chiacchierona. Indossava un corto abitino nero da cocktail e sandali neri con il tacco alto. Reggie era vestita di verde per far risaltare il colore dei suoi occhi. Aveva l'espressione seria e il viso da irlandese; le sarebbero stati bene gli occhiali. Gambe più belle di quelle di Trish, seni piccoli e sodi che contrastavano con quelli grossi e ballonzolanti di Trish. Nessuna delle due ragazze indossava il reggiseno. Entrambe perlustravano ammirate la suite dell'hotel come se fosse stata il Taj Mahal. «Guarda, due camere da letto!» esclamò Trish. «Possiamo provarle tutt'e due!» Prima che facesse giorno, avevano provato entrambi i letti e anche la grande vasca Jacuzzi nel bagno rivestito di marmo. Non aveva funzionato da nessuna parte. «Perché non ci riproviamo questa sera?» suggerì Trish. «Ho altri programmi» rispose lui. «Domani sera?» «Forse.» «Be', pensaci» disse la ragazza. Diede una strizzatina scherzosa al pene floscio e poi andò a fare la doccia. Reggie stava bevendo il caffè, seduta al tavolo della sala da pranzo; indossava solo gli slip, e si intravedevano ciuffetti di peli rossi e ricci. Lentiggini sui piccoli seni nudi. Capezzoli turgidi. «Sai, potremmo farlo da soli» gli propose. Lui la guardò. «Solo tu e io. A volte funziona meglio in due soltanto.» Lui continuò a guardarla. «Certe volte due ragazze possono intimidire. Da soli potremmo fare cose che stanotte non abbiamo provato.» «Tipo cosa?» «Oh, non so. Sperimenteremo.» «Sperimenteremo, eh?» «Se vuoi. Per riprovarci, capisci?» Sollevò la tazza, bevve un sorso di caffè, posò di nuovo la tazza sul tavolo. «E non avresti bisogno di passare attraverso l'agenzia.» Si sentiva scorrere l'acqua della doccia in fondo al corridoio. «Potresti telefonarmi direttamente» riprese Reggie. «Chi se ne frega del-
la Sophisticates!» Scostò la sedia, si avvicinò alla credenza e cominciò a scrivere sul blocchetto dell'hotel sotto il telefono a parete. China sopra la credenza, a scrivere. Mutandine bianche tese sul piccolo sedere sodo. Diciannove anni. Staccò il foglietto dal blocco, si voltò verso di lui e sorrise. Un sorriso da coniglio. Lentiggini sulle guance e sul naso. Tornò accanto al tavolo, scalza. Sbatté con forza il foglietto sul tavolo, come fosse un mandato. «Chiamami» gli disse. Lui prese il foglietto e lo guardò. «Quando vuoi» aggiunse la ragazza. Seria adesso, il sorriso scomparso. «Be', non stasera» rispose lui. Quella sera doveva uccidere Alicia Hendricks. Lo preoccupava l'idea di non avere la forza di arrivare fino in fondo. Non la forza mentale, no, non quella: sapeva che stava facendo la cosa giusta, se n'era convinto nel momento stesso in cui aveva deciso che ciò andava fatto adesso, se mai andava fatto, in modo da poter almeno venire a patti con quella che aveva amaramente definito la sua "cosiddetta vita". Ma avrebbe avuto la forza fisica necessaria per arrivare fino in fondo? Per quanto dolorose, le correzioni andavano fatte. Sì. Tutte le decisioni non sue, tutte le strade percorse contro la sua volontà, tutti i viaggi in luoghi che non aveva scelto lui, tutte queste cose andavano corrette. Adesso. Loro dovevano sapere che era consapevole dei peccati commessi, doveva costringerli a rendersene conto. Perfino il cieco Sobolov, che non aveva potuto vedere chi stava per sparargli due volte in faccia, aveva capito in quell'ultimo istante che si trattava di espiazione e aveva sussurrato un nome nell'aria della notte - "Charlie?" - immediatamente prima che esplodesse il tuono e sgorgasse il sangue. Il problema era mantenersi in forze. Non permettere al dolore di distrarlo. Così sarebbe arrivato fino in fondo. Louis Hawkins stava dormendo, quando Carella e Meyer bussarono alla sua porta quel venerdì a mezzogiorno. Disse subito ai due detective che la notte prima aveva lavorato fino alle due, che era arrivato a casa solo alle tre, che aveva il diritto di dormire e non gli andava per niente che la polizia bussasse alla sua porta all'alba. Steve si scusò a nome di tutti e due, spiegò l'urgenza di stabilire la sequen-
za degli eventi prima che il caso si "raffreddasse" e poi chiese educatamente a Hawkins se poteva dedicare loro qualche minuto del suo tempo. Riluttante, l'uomo li fece entrare. Su tutte le pareti c'erano foto di un uomo con i capelli grigi e radi che suonava il violino. «Stéphane Grappelli» spiegò Hawkins. «Vi va un caffè? Che diavolo, tanto ormai sono sveglio.» Scalzo e in accappatoio davanti a un ripiano della cucina, dosò il caffè con il cucchiaio. «Il più grande violinista jazz mai esistito. È morto a Parigi sette anni fa. A ottantanove anni suonava ancora. Sapete cos'ha detto, quando ne aveva ottantacinque? Un giornalista gli aveva chiesto se stava pensando di ritirarsi e Grappelli gli ha risposto: "Ritirarmi! Per il mio orecchio non esiste parola più penosa. È la musica che mi fa andare avanti. La musica mi ha dato tutto. È la mia fonte di giovinezza". Io mi sento esattamente allo stesso modo. Ho quasi cinquant'anni e a quest'età parecchia gente comincia a pensare a un condominio in Florida. Diavolo, laggiù potrei trovarmi senza difficoltà un lavoro come quello che ho adesso al Ninotchka: musica zigana per vecchi. Ma sapete una cosa? Ho un secondo lavoro, suono nei jazz club, e con alcuni dei migliori musicisti della città. È questo che mi fa andare avanti. Mai sentito parlare di Django Reinhardt? Il grande chitarrista jazz? Avete mai sentito parlare di lui?» «Sì, ne ho sentito parlare» rispose Carella. «Grappelli suonava con lui. Riuscite a immaginarvi la loro musica? Avevano il mondo in pugno! Le cose che facevano con quel quintetto... all'Hot Club di Parigi. Non c'è niente di simile al mondo, amici, assolutamente niente. Grappelli è il mio eroe. Se sapessi suonare come lui...» Hawkins lasciò sfumare la frase. «Spero che il caffè vi piaccia forte» affermò, e piazzò la caffettiera sul fornello. «Allora, si tratta di Max, vero?» «Si tratta di Max» confermò Meyer. «Me l'ero immaginato. Sapete che cosa disse una volta Grappelli? Disse: "Quando sono felice o triste, suono meglio". Io penso che Max suonasse meglio quand'era triste. In effetti non mi pare di averlo mai visto felice.» «Triste per cosa?» domandò Carella. «La vista perduta? La giovinezza perduta? Tutte le opportunità perdute? Quando suonava quella musica zigana, ti faceva venir voglia di piangere. I clienti gli davano mance generose, credetemi.» «Quali opportunità perdute?» chiese Meyer.
«Avrebbe potuto fare un'ottima carriera come musicista classico. Prima di essere richiamato nell'esercito, studiava con Alexei Kusmin alla Kleber School of Music. Max era uno dei giovani violinisti più promettenti. Ma poi... il Vietnam.» «Ha qualche idea sul perché qualcuno lo volesse morto?» «È una cosa senza senso» disse Hawkins, scuotendo la testa. «Volete un po' di succo d'arancia?» Senza aspettare la risposta, aprì lo sportello del frigo e prese una bottiglia. «Appena spremuto» annunciò, versando il succo. «Lo compro al mercato del biologico, non è concentrato. Insomma, chi mai vorrebbe uccidere un cieco? Perché? Grappelli disse anche che suonava meglio quand'era giovane e innamorato. Io non credo che Max sia mai stato innamorato. Anzi, non credo che sia mai stato giovane. L'esercito se l'è preso per mandarlo in Vietnam e quella è stata la fine della sua giovinezza, la fine di tutto. È tornato a casa cieco. Andatelo a dire a quegli stronzi di presidenti che mandano i ragazzini a combattere le loro stupide guerre di merda.» «Perché è convinto che Max non sia mai stato innamorato?» domandò Carella. «Lei vede qualche donna nella sua vita? Mi dispiace, ma io non ne vedo. Una moglie? Una fidanzata? Ne vede una? Io vedo solo un tizio di quasi sessant'anni che vaga nel buio con un violino sotto il mento e suona una musica da spezzarti il cuore. Ecco cosa vedo io. Il caffè è pronto. Come lo volete?» Sedettero al tavolo della cucina a bere il caffè. Hawkins rimase in silenzio per un interminabile momento. Poi annunciò: «Una volta Grappelli disse: "Quando suono dimentico tutto. Mi scindo in due persone ed è quell'altra che suona". Io avevo la sensazione che per Max fosse lo stesso. Penso che, quando suonava, dimenticasse tutto ciò che lo turbava». «E cioè cosa?» chiese Meyer. «Be', non lo sapremo mai, giusto?» «Aveva mai accennato a qualcosa in particolare che lo turbasse?» «Mai. Almeno non con me. Magari con qualche altro collega. Ma dovete sapere una cosa: Max se ne stava per lo più per conto suo. Era come se la cecità lo avesse rinchiuso nel buio. Se volete la mia opinione, l'unico momento in cui si esprimeva era quando suonava. Il resto del tempo...» Hawkins scosse la testa. «Silenzio.»
Mentre scendevano in strada, Steve disse: «Il resto è silenzio». Meyer lo guardò. «Amleto» chiarì Carella. «Al college ho recitato nel ruolo di Claudio.» «Non lo sapevo.» «Già. Potevo diventare famoso.» «Ci scommetto.» Uscirono in strada e si avviarono verso l'auto parcheggiata. «E tu?» domandò Carella. «Io potevo essere come Picasso.» «Ah, sì?» «Da bambino volevo diventare un pittore» confidò Meyer, stringendosi nelle spalle. «Hai mai rimpianto di essere diventato un poliziotto?» «Rimpianto? No. Ehi, no. E tu?» «No» rispose Carella. «No.» Camminarono verso l'auto in silenzio, pensando alle strade mai prese, ai sogni mai nati. «Be', andiamo a sentire quell'altro musicista» disse Carella. «Suono al Ninotchka solo tra una scrittura nella fossa e l'altra» li informò Sy Handelman. I due detective pensarono che una "scrittura nella fossa" fosse un lavoro infimo, proprio il fondo del barile. Nella fossa. «La fossa dell'orchestra» chiarì Handelman. «Per i musical in centro, sullo Stem.» Doveva avere circa vent'anni e portava i capelli lunghi come un anacronistico hippy. I detective se lo vedevano a suonare il violino davanti a un teatro del centro, raccogliendo le offerte in un piattino sul marciapiede. Un artista di strada. Ma se lo vedevano anche in camicia bianca di seta con le maniche lunghe e le ruche a suonare il violino per gli anziani del Ninotchka. Avevano invece qualche problema a immaginarselo nell'orchestra di un musical di successo: con il loro stipendio non potevano permettersi di andare a vedere spettacoli da cento dollari a biglietto. «Mi piace il lavoro nella fossa» continuò Handelman. «Con tutte quelle belle zingare.» I due detective erano di nuovo confusi. Stava parlando del lavoro al Ninotchka? «Le ballerine di fila» spiegò Handelman. «Noi le chiamiamo zingare. Se
sei seduto nella fossa, puoi guardare su e vedere tutto fino a Manderlay.» «Dev'essere una professione molto interessante» commentò Meyer. «Puoi rimetterci la vista, se non stai attento» disse Handelman, e sorrise. Il che portò i poliziotti al motivo della loro visita. «Max Sobolov?» fece Handelman. «Un vecchio ebreo triste.» «Aveva solo cinquantanove anni» osservò Meyer. «Ci sono vecchi tristi che hanno solo quarant'anni» ribatté Handelman filosoficamente. «Le ha mai raccontato perché era così triste?» gli chiese Carella. «Io avevo la sensazione che si trattasse di senso di colpa. Noi ebrei ci sentiamo sempre e comunque in colpa, giusto?» disse Handelman, rivolto a Meyer. «Ma con Max era veramente una cosa opprimente. Voglio dire... nessuno si comporta come faceva lui, a meno che non abbia commesso qualcosa di terribile che continua a tormentarlo. Non sorrideva mai. Salutava a malapena quando arrivava al lavoro. Si metteva il costume... portiamo quelle camicie di seta rosse con le balze...» Okay, non erano bianche. «... e pantaloni neri aderenti... le vecchie signore si eccitano, sapete. E poi usciva per fare il suo numero. Cioè suonare quella sua musica zigana cupa e straziante. Cosa che, devo dire, faceva in modo superbo.» «Ci hanno riferito che aveva studiato come violinista classico.» «Non lo sapevo, ma non mi sorprende. Sapete dove?» «Alla Kleber.» «La migliore. Non mi sorprende.» «Quella cosa terribile che aveva fatto, di qualsiasi cosa si trattasse...» «Be', stavo solo tirando a indovinare.» «Le ha mai accennato niente in proposito?» «No. Non me ne ha mai parlato, non è che mi abbia mai detto: "Accidenti, mi sento così triste e in colpa perché quand'ero ragazzo ho buttato la mia fidanzatina giù dal tetto", mai niente del genere. Ma in lui c'era quel... quel senso di colpa. Senso di colpa e sofferenza. Sì, sofferenza. Come se gli dispiacesse moltissimo.» «Per cosa?» domandò Carella. «Forse per se stesso» rispose Handelman. La prima volta che Bert Kling le aveva telefonato era stato da una cabina, sotto la pioggia. Non proprio una cabina: una di quelle piccole conchiglie di plastica, con l'acqua che gli scrosciava intorno. Adesso la stava
chiamando da un telefono pubblico molto simile, mentre il calore si alzava dall'asfalto in ondate tremolanti che Bert riusciva quasi a vedere, un caldo palpabile. Non le parlava da sei giorni, ma chi teneva il conto? Erano passati dal condividere i rispettivi appartamenti al non parlarsi affatto... era un problema veramente serio. La stava chiamando in ambulatorio: sperava di non sentire la solita trafila medica, sperava che non gli rispondesse un'infermiera che gli chiedeva dove gli prudeva o dove gli faceva male. Sharyn Cooke era il vicecapo chirurgo del dipartimento di polizia. Bert Kling era un detective di terzo grado. Una grossa differenza già questa. Per non parlare del fatto che lei era nera e lui bianco. Biondo, per di più. «Ambulatorio del dottor Cooke» disse una voce femminile. Kling la stava chiamando a Diamondback, dove Sharyn esercitava privatamente. L'ambulatorio della polizia era in Rankin Plaza, al di là del fiume. Kling era conosciuto in tutti e due i posti. O almeno lo era stato. Sperava che Sharyn non avesse dato disposizioni diverse. «Salve. Sono Bert. Posso parlare con Sharyn, per favore?» «Solo un momento, prego.» Kling stava per chiedere: "Sei tu, Jenny?" - conosceva tutte le infermiere - ma la donna se n'era già andata. Bert aspettò. E aspettò. Dal marciapiede e dalla strada si alzava il calore. «Pronto?» «Sharyn?» «Sì, Bert.» «Come stai?» «Bene, grazie.» «Shar...» Silenzio. «Vorrei vederti.» Ancora silenzio. «Shar, dobbiamo parlare.» «Non ancora.» «Shar...» «Sto ancora troppo male.» Il calore aumentava. «Tu non sai quanto male mi hai fatto» disse Sharyn. Un mezzo dei pompieri passava per strada. A sirene spiegate. «Per favore, non chiamarmi per un po'» aggiunse lei.
Ci fu un clic sulla linea. «Per un po'» ripeté Kling. Pensò che forse era un buon segno. Alicia era sicura che qualcuno la stesse seguendo. L'aveva confidato al suo capo, il quale per tutta risposta le aveva dato della pazza. "Chi mai dovrebbe seguirti?" le aveva chiesto, domanda che Alicia aveva considerato un po' offensiva. Che significava? Che non era abbastanza bella perché qualcuno la seguisse? Alicia aveva cinquantasette anni ed era alta, bella, bionda, con gambe meravigliose e un bel seno, una donna che aveva suscitato numerosi fischi d'ammirazione da parte degli operai al lavoro sulle strade di quella deliziosa città, perciò cos'aveva voluto dire Jamie con quella sua osservazione? E comunque qualcuno la stava davvero seguendo, di questo era certa. E infatti, quel venerdì sera, uscendo sul marciapiede, guardò a destra e a sinistra lungo la via. La Beauty Plus aveva sede in un palazzo di ventisette piani in Twombley Street, in centro. La divisione Lustre Nails Care occupava otto uffici al diciassettesimo piano. E ogni giorno lavorativo da quegli uffici uscivano le ventidue rappresentanti che la Beauty Plus sperava avrebbero efficacemente promosso e venduto i suoi prodotti per la cura delle unghie agli oltre quattromila saloni di manicure sparsi per la città. Alicia aveva terminato di scrivere il suo rapporto quotidiano alle cinque meno un quarto, aveva detto a Jamie Dewes che sperava di non essere seguita anche quella sera (da cui la frase offensiva) e ora, pochi minuti dopo le cinque, stava uscendo dall'edificio. Il caldo di giugno la colpì come un pugno. Guardò di nuovo a destra e a sinistra. Nessun segno di quello che, chiunque fosse, era sicura la stesse seguendo. Si avviò a grandi passi verso la stazione della metropolitana all'incrocio. Il detective di primo grado Oliver Wendell Weeks aveva perso cinque chili. Almeno adesso sembrava solo un ippopotamo. Patricia Gomez riteneva che Weeks stesse facendo notevoli progressi. "È grandioso, Oll" gli aveva detto. "Cinque chili in due settimane; è davvero meraviglioso." Ollie non pensava che fosse così meraviglioso. Ollie aveva sempre fame.
Patricia era ancora in uniforme. Spiegò a Ollie di essere uscita tardi dal lavoro perché il suo sergente aveva da fare una brillante osservazione sul modo in cui la squadra aveva gestito un'operazione congiunta con l'unità Controllo Territorio. A quanto pareva, un loro informatore non era dove si supponeva dovesse trovarsi nel momento in cui aveva avuto inizio l'irruzione, stronzate del genere. Il sergente di Patricia aveva sempre qualcosa di cui lamentarsi, quel vecchio trombone. Ollie assicurò alla ragazza che gli avrebbe detto due paroline, oh, sì, e che gli avrebbe tolto il caso in questione. Patricia gli rispose di non preoccuparsi, non ne valeva la pena. Stavano camminando lungo Culver Avenue, nel territorio dell'88° Distretto, che durante la giornata lavorativa entrambi chiamavano casa. Se Patricia non fosse stata in uniforme, Weeks l'avrebbe presa per mano. «Sei nervoso per stasera?» gli domandò lei. «No» rispose Ollie. «Perché dovrei essere nervoso?» In realtà lo era. «Non devi essere nervoso» disse Patricia e gli prese la mano, uniforme o no. Durante il viaggio verso Calm's Point, Alicia continuò a studiare i passeggeri della metropolitana. L'uomo che l'aveva seguita era calvo, di questo era certa. Una calvizie tipo Patrick Stewart più che alla Bruce Willis. Un tizio alto e magro sui cinquantacinque, sessant'anni. La spaventava da morire. L'aveva adocchiato già in due diverse occasioni, solo rapidi sguardi, dato che ogni volta l'uomo era sparito appena lei si era voltata. Nel vagone della metropolitana c'era un solo calvo, di circa sessant'anni, e se ne stava seduto a leggere un quotidiano in lingua spagnola. Ollie era convinto che tutti parlassero spagnolo. La madre di Patricia si chiamava Catalina e le due sorelle Isabella ed Enriquetta. Il fratello, che suonava il pianoforte, si chiamava Alonso. La prima cosa che disse il fratello fu: «Ehi, amico, ho saputo che suoni il piano anche tu». «Be', un po'» ammise Ollie modestamente. «Ha imparato Spanish Eyes per me» raccontò Patricia, raggiante. «Ma dài!» fece una sorella. «Sul serio, più tardi ce la suonerà.» «Be'» minimizzò Ollie. «Forza» intervenne la madre di Patricia. «Assaggi qualche bacalaíto.»
Ollie fu quasi sul punto di dire che era a dieta, ma Patricia annuì dandogli l'okay. Il proprietario coreano del negozio di alimentari dietro l'angolo salutò Alicia con calore, quando la vide entrare per comprare qualcosa per cena. La informò che quel giorno aveva dei bei mirtilli freschi a tre e novantanove il cestino. Alicia comprò due etti di funghi shiitake, dodici uova, un cartone di latte scremato e due cestini di mirtilli. Fu mentre si stava preparando un'omelette che sentì aprirsi la finestra della camera da letto. «Oh, Spanish eyes...» Era la versione di Al Martino, non quella che avevano fatto anni dopo i Backstreet Boys. Ormai erano settimane che Ollie studiava quella canzone. La sua insegnante di pianoforte gli aveva assicurato che l'aveva imparata alla perfezione, ma questa era la prima volta che si esibiva in pubblico, e addirittura davanti all'intera famiglia di Patricia. Erano tutti raccolti intorno al pianoforte verticale nel soggiorno dei Gomez. Sul ripiano dello strumento c'era un Gesù incorniciato. Il quadretto innervosiva Ollie, con Gesù che lo fissava in quel modo. Ma chi lo rendeva ancora più nervoso era il padre di Patricia. Ollie aveva la sensazione di non piacergli molto. Probabilmente quel brav'uomo pensava che avesse intenzione di violare la sua figliola vergine, anche se lui riteneva che Patricia non lo fosse affatto. Patricia e sua madre conoscevano le parole della canzone a memoria. Anzi, era stata proprio la madre a insegnare la canzone a Patricia. Sembrava invece che Isabella la sentisse per la prima volta. Pareva comunque che le piacesse, dato che continuava a muoversi a tempo. Quella sera, quando si erano salutati, Ollie le aveva detto che sua sorella si chiamava Isabel e lei aveva commentato: "Ma dài!". Assomigliava un po' a Patricia, che però era più bella. Nessuno in famiglia era bello come Patricia. Anzi, nessuno in tutta la città era bello come lei. Tito Gomez, il padre, continuava a guardare accigliato Ollie. Il fratello faceva un'ottima imitazione del padre. Patricia e la madre continuavano a cantare. Isabella si muoveva a tempo con la musica. In cucina l'asopao de pollo stava cuocendo.
All'inizio Alicia pensò di sentire cose che non esistevano. Aveva acceso l'aria condizionata e chiuso tutte le finestre appena era entrata in casa, ma adesso aveva udito qualcosa, come una finestra che si apriva in camera da letto. Ce ne erano due in quella stanza, una che dava sulla scala antincendio e quella su cui era montato il condizionatore. Alicia non voleva credere che qualcuno avesse appena aperto la finestra della scala antincendio, però... «Ehi?» chiamò. Sentì l'improvviso rumore del traffico sottostante. Avrebbe potuto sentirlo, se la finestra non fosse stata...? «Ehi?» ripeté. «Salve, Alicia» rispose una voce. Una voce maschile. Alicia si immobilizzò. Aveva affettato i funghi con un grosso coltello, che subito afferrò dal ripiano. Stava arretrando verso la porta d'ingresso dell'appartamento, quando l'uomo uscì dalla camera da letto. Aveva una pistola nella mano destra. E c'era qualcosa sulla canna. Un istante prima che l'uomo parlasse, Alicia capì che era un silenziatore. «Ti ricordi di me?» chiese l'uomo. «Di Chuck?» E le sparò due volte in faccia. 2 I due detective s'incontrarono a pranzo in una tavola calda sulla Albemarle, due ore dopo che Carella aveva ricevuto la telefonata. Pensava di sapere che cosa voleva Kramer. E non si sbagliava. «Il fatto è» gli stava dicendo il collega «che su al 98° non ci capitano molti omicidi. È più una vostra specialità, se capisci cosa intendo.» Basso tasso di criminalità nel 98°, ecco cosa stava dicendo Kramer. A differenza delle statistiche sempre più preoccupanti che riguardavano il buco del culo dell'universo, ecco cosa stava dicendo Kramer. Cos'è per voialtri un omicidio in più o in meno? Era questo che stava dicendo Kramer. Carella era tentato di rispondergli: "Grazie tante, amico, ma ne abbiamo già a sufficienza". Se solo non fosse stato per la regola del Primo Uomo. Kramer non avrebbe telefonato, se i risultati della Balistica non fossero arrivati così rapidamente. Ti ritrovi con un cieco al quale hanno sparato
davanti a un nightclub mercoledì notte e poi, venerdì sera, al capo opposto della città, ti ammazzano una donna che si sta preparando un'omelette a casa sua: nessuna relazione, giusto? A meno che la Balistica non chiami subito lunedì mattina per informarti che in entrambi gli omicidi è stata usata la stessa Glock nove millimetri. È un particolare che può destare sospetti. Di sicuro aveva destato quelli di Kramer, che adesso si stava mangiando un sandwich al prosciutto e uova sforzandosi di non essere troppo insistente riguardo alla vecchia regola del Primo Uomo. Da qui il suo balletto in merito all'inesperienza del 98° in fatto di omicidi. «Allora, cosa mi dici?» domandò a Carella. «Io ti passo tutta la documentazione e l'87° può partire da lì. Dovrebbe essere una passeggiata per voi ragazzi, visto che avete già il riscontro della pistola.» Una passeggiata, pensò Carella, e si chiese quante calibro nove ci fossero in giro per la città. «Dovrò sentire il tenente» rispose. «E vedere se ritiene che ci possiamo occupare di un altro omicidio in questo momento.» «Oh, certo» disse Kramer. Poi, in tono casuale, aggiunse: «Ma naturalmente il tuo tenente conosce bene la regola del Primo Uomo». E ancora: «Che è il nostro caso. Voi vi siete presi il cieco due giorni prima che noi ci prendessimo la signora dell'omelette. Allora, cosa mi dici?». Sapeva di avere Carella in pugno grazie al Primo Uomo. Stava solo cercando di essere educato. Steve sperava che Kramer almeno gli offrisse il pranzo. «Per come la vedo io» disse Parker «siamo diventati la discarica della polizia investigativa.» Erano solo in cinque nell'ufficio del tenente ed era Parker al momento a tenere banco. Quel lunedì pomeriggio era vestito come si vestiva di solito per il lavoro: come uno straccione. Barba lunga, jeans e maglietta. E, sopra, una camicia a motivi hawaiani a maniche corte che serviva solo a nascondere l'automatica nella fondina sul fianco destro. «Non la metterei esattamente in questi termini» obiettò Carella. «Ah, no? Allora come mai ci rifilano tutti gli omicidi commessi con una Glock?» «Non tutti. Solo quelli con la stessa Glock dell'omicidio del cieco.» «Omicidio al quale abbiamo risposto noi» spiegò di nuovo il tenente Byrnes. Testa a forma di pallottola, capelli bianchi, mascella squadrata, seduto dietro la scrivania nel suo ufficio d'angolo faceva pensare a una
versione più anziana di Dick Tracy. «Il che significa che prevale la regola del Primo Uomo sulla scena.» «Come dicevo io» insistette Parker, irremovibile. «Siamo diventati la discarica del dipartimento.» «Finora quanti omicidi ci sono stati?» domandò Genero. Capelli ricci, occhi castani, era il più giovane della squadra e sembrava sempre insicuro. O forse soltanto stupido. «Solo due, contando la signora dell'omelette.» «Non sono poi così tanti» osservò Genero. «Potete darci i dettagli?» chiese, cercando di apparire professionale. «L'omicidio del cieco è quello che era toccato a noi» rispose Meyer. «Mercoledì, ore ventidue e trenta.» Calvo e robusto, con le maniche della camicia arrotolate e il colletto aperto perché l'aria condizionata non funzionava in uno dei giorni più caldi di giugno, si chinò sulla scrivania del tenente per consultare il rapporto del 98°. «Che giorno era?» «Sedici giugno.» «Cinquantanove anni. Due colpi in faccia» disse Meyer. «Esplosi da una Glock?» «Una Glock. A quanto pare, non è stato rubato nulla. Nel portafoglio della vittima c'era ancora un assegno di trecento dollari, più cento dollari e rotti in contanti, presumibilmente mance.» «E il secondo omicidio?» Carella rientrò dopo essere andato a bere al distributore dell'acqua. Si muoveva come un atleta, anche se non lo era affatto: la sua unica attività sportiva risaliva allo stick-ball che giocava da bambino a Riverhead. Prese in mano il rapporto del 98° e lo studiò di nuovo, questa volta insieme ai colleghi. In piedi l'uno accanto all'altro, concentrati sul rapporto, i detective sembravano contabili che esaminavano il libro paga settimanale di un cliente. Se non fosse stato per le fondine ascellari. E per le Glock nove millimetri nelle fondine. Esattamente uguali a quella che aveva ucciso la signora dell'omelette e il cieco. «Venerdì sera» cominciò Carella. «Calm's Point. Il 98° ci ha telefonato questa mattina, subito dopo aver ricevuto il riscontro positivo dalla Balistica.» «Certo, ormai si è sparsa la voce» disse Parker. «Scaricate tutto all'87°.»
«L'assassino è entrato dalla finestra e le ha sparato mentre si stava preparando un'omelette» spiegò Meyer. «Che tipo di omelette?» domandò Genero. Parker lo guardò. «Per curiosità.» «Chi era la vittima?» chiese Parker. «Alicia Hendricks. Cinquantasette anni.» «Il fatto è» disse Byrnes «che Steve e Meyer non possono occuparsene da soli. Qui stiamo parlando di straordinari. Due omicidi in soli...» «Come dicevo, siamo diventati un cassonetto dell'immondizia» ribadì Parker. «Come vuole che ci dividiamo il lavoro, tenente?» domandò Carella. «Pensavo che Andy e Richard potrebbero prendersi l'ultimo omicidio...» «Qual è il distretto che aveva risposto alla chiamata?» chiese Genero. «Il 98°. Il detective si chiama Kramer.» «Come quello di Seinfeld?» «Esistono anche altri Kramer a questo mondo, Richard.» «Lo so bene, Andy.» «Tu e Meyer occupatevi del violinista. E dirigete la squadra.» «Speriamo che non ce ne sia un altro» disse Parker. «Un altro violinista?» domandò Genero. «Un altro chiunque» rispose Parker. Era una vera spina nel fianco. Calm's Point era come un paese straniero. Ci misero quaranta minuti per attraversare prima la città e poi il ponte nei pressi del 98°, dov'era stato commesso il secondo delitto della Glock. Era così che li chiamavano già: i delitti della Glock. Adesso, nell'appartamento della donna assassinata, i due detective che avevano ereditato il caso si sentivano come se avessero appena attraversato l'Eufrate. Il cadavere era stato portato via da tempo, ma sul pavimento della cucina c'era ancora il profilo tracciato con il gesso. Nella padella sul fornello c'erano funghi e uova ormai freddi: la signora si stava cucinando un'omelette. Un grosso coltello sul pavimento, nel punto in cui la vittima l'aveva lasciato cadere quando il killer l'aveva uccisa. Dato che la finestra che dava sulla scala antincendio era spalancata, i detective conclusero che l'omicida fosse entrato da lì. Ciò che li inquietava era che in questo caso l'assassino - o l'assassina -
era stato invasivo. Il violinista cieco era stato ucciso per strada. Stavolta, invece, il killer si era introdotto nello spazio privato della vittima, il che significava che non si era trattato di un omicidio casuale, ma di un bersaglio preciso. Il che, di conseguenza, voleva dire che anche la prima vittima era stata scelta deliberatamente. Il killer aveva inoltre scelto le sue vittime in zone diverse della città. Il cieco nel territorio dell'87° e la signora dell'omelette nel suo appartamento di Calm's Point. Nessun furto evidente nemmeno questa volta. I gioielli della vittima erano ancora nel primo cassetto del comò, il denaro nella borsetta. Le carte di credito identificavano la donna come Alicia Hendricks. I vicini di casa informarono gli agenti che la Hendricks lavorava per una ditta di cosmetici in "città", e ciò significava riattraversare il fiume e inoltrarsi di nuovo nella giungla. Secondo una delle vicine la ditta si chiamava Beauty Blush. Ma da una tessera laminata nel portafoglio risultava che la vittima lavorava come rappresentante per la Beauty Plus, con sede al 165 di Twombley, a Isola. Una telefonata confermò che Alicia Hendricks era dipendente di quella società. Il concessionario stava dicendo che il prezzo di listino dell'auto era di settantaquattromilatrecentotrenta dollari... «Ha un motore da quattromila e due di cilindrata, otto cilindri a V, potenza duecentonovantaquattro cavalli...» Il calvo continuava a girare intorno all'auto come una specie di falco sul punto di ghermire un coniglio. «Cambio automatico a sei marce con overdrive, ABS.» Quel tizio dava l'impressione di non potersi permettere di spendere settantaquattro dollari, figuriamoci settantaquattromila... «Airbag conducente, airbag passeggero, airbag laterali...» «In che colori è disponibile?» domandò il calvo. «Ho la tabella colori proprio qui» comunicò il concessionario. «L'esterno è disponibile nelle tonalità topazio, ebano, blu notte, argento, verdemare...» L'uomo continuava a girare intorno all'auto, passando il palmo della mano sui paraurti, il cofano, le fiancate lisce... «Per l'interno può scegliere tra il cachemire, il tortora, l'avorio...» «Quando potete consegnarla?» «Dipende se decide di acquistare in contanti o di fare un leasing.» «Leasing» rispose il calvo.
«... e se riusciamo a trovare l'auto nei colori che lei...» «Trovatela» disse l'uomo. Il direttore vendite della divisione Lustre Nails Care della Beauty Plus si chiamava Jamie Dewes. Rimase sorpreso nel trovarsi due poliziotti in ufficio alle quattro di pomeriggio di quel ventunesimo giorno di giugno, perché aveva già ricevuto la visita dei detective di Calm's Point un paio di giorni prima. «Una cosa terribile» disse a Parker e Genero. «Chi mai poteva voler uccidere Alicia?» Ma un istante dopo rivelò ai detective che Alicia pensava che qualcuno la stesse seguendo. Veronica Alston, l'assistente, lo confermò. «Un tizio calvo e inquietante» aggiunse la donna. «Quand'è che Alicia ve ne ha parlato?» domandò Genero. «Mi sembra la settimana scorsa» rispose Jamie. «No, prima» precisò Veronica. «Più o meno all'inizio del mese.» «E che mese!» esclamò Dewes. «Il giugno più maledettamente caldo che io ricordi.» «Alicia aveva detto che qualcuno la seguiva?» chiese Parker. «Ci aveva raccontato di aver visto un tizio che la seguiva, sì.» «Dove? Ve l'ha detto?» «Solo che la seguiva.» «Qui? In questo quartiere? Oppure dove abitava?» «Non lo so.» «Quante volte l'aveva visto?» «Un paio.» «L'aveva mai affrontato?» «No. Be', almeno non credo.» «Aveva denunciato la cosa alla polizia?» «No. Ronnie? Alicia non aveva chiamato la polizia, vero?» «No» confermò Veronica. «Ne aveva solo parlato con voi.» «Sì.» «Voi avete mai notato un tizio calvo che gironzolava qui in giro?» chiese Parker. Sia Veronica sia Jamie scossero la testa. «Sapete se Alicia frequentava qualcuno?» domandò Parker. «Un uomo?»
«So che di recente aveva rotto con quel suo agente di borsa» rispose Veronica. «Per caso sa come si chiama?» «No. Harold Qualcosa.» «Quand'è successo?» «Che hanno rotto? Verso Pasqua.» «E da allora Alicia è uscita con qualcun altro?» Jamie si strinse nelle spalle. Lo stesso fece Veronica. «Questo Harold Qualcosa... non è che è calvo, vero?» «Non so che aspetto abbia» disse Veronica, e si strinse di nuovo nelle spalle. «Qui in ufficio c'è qualcuno che potrebbe sapere il cognome?» Una delle rappresentanti lo sapeva. Harold Saperstein aveva circa cinquant'anni, giudicarono i detective. Occhiali da vista e abito da manager. Folti capelli neri e ricci. Stava per andarsene dall'ufficio, quando lo raggiunsero alle cinque di quel lunedì pomeriggio. I due poliziotti si presentarono, gli spiegarono che stavano indagando sull'omicidio di Alicia Hendricks... «Sì, mi aspettavo una vostra visita» disse l'uomo. ... e gli chiesero se poteva rispondere a qualche domanda. S'incamminarono verso un minuscolo parco vicino all'ufficio. Si sedettero su una panchina, con Saperstein nel mezzo. Alle loro spalle una cascata d'acqua scendeva da un muro in mattoni. Sembrava che rinfrescasse un po' la giornata. «Allora, ci dica come mai avevate rotto» cominciò Parker. «Lo sapete già, eh?» «Ce lo racconti comunque» lo esortò Genero. «È stato per La Passione di Cristo.» I detective pensarono che stesse parlando del sesso nella loro relazione. «Il film di Mel Gibson» chiarì Saperstein. «Avevo detto ad Alicia che il film era antisemita. Lei non era d'accordo. Io sono ebreo, abbiamo litigato.» «Perciò di chi è stata l'idea di rompere?» «Di mia madre. Io vivo con mia madre. E lei ha detto che se avevamo litigato per una stronzata di film, be'... chissà più avanti.» «Questo quando è successo?»
«Più o meno a Pasqua. Quando l'interesse per quel film era al massimo.» «E quand'è stata l'ultima volta che ha visto Alicia?» «A Passover. A casa di mia madre.» «Dopo di che non le ha più parlato?» «Sì, le ho parlato.» «Quando?» «Un paio di settimane fa. Mi ha telefonato per farmi sapere che c'era un tizio che la seguiva.» «E?» «E voleva sapere che cosa doveva fare. Io le ho consigliato di rivolgersi alla polizia.» «E Alicia l'ha fatto?» «Non ne ho idea. Quella è stata l'ultima volta che abbiamo parlato.» Saperstein rimase in silenzio per un po'. Alle loro spalle l'acqua scrosciava lungo il muro. «Io odio Mel Gibson» dichiarò Saperstein. «Parliamo di parecchio tempo fa» disse Meyer. «Quarant'anni o giù di lì.» «Più o meno l'epoca della guerra in Vietnam.» La donna con cui stavano parlando si chiamava Abigail Nelson ed era la direttrice dei corsi di musica presso la Kleber School of Music, Dance and Drama. Intorno ai quarant'anni, capelli castani scalati, era molto elegante nel tailleur blu gessato... sembrava più una direttrice di banca. Occhi azzurri e vigili dietro le lenti dei grandi occhiali. I tre erano seduti a un grande tavolo nell'ufficio della scuola. Lungo le pareti si allineavano i classificatori metallici. Il sole del tardo pomeriggio entrava obliquo dalle finestre. Dal corridoio arrivava la musica distante proveniente dalle varie sale prova. «Anni Sessanta?» domandò Abigail. «Metà anni Sessanta, probabilmente. Sappiamo che poi è partito per il Vietnam.» «Perciò stiamo parlando di prima della guerra.» «Sì.» «A quell'epoca non eravamo neppure in questo edificio. Negli anni Sessanta stavamo ancora in Silvermine Drive, non lontano dalla Decima.» «Vicino al nostro territorio» osservò Meyer. «Il nostro distretto.» «Sì» replicò Abigail, non del tutto sicura di aver capito. «Avete detto
che studiava violino?» «Sì.» «Il responsabile del corso di violino doveva essere Alexei Kusmin.» «Sì, è quello che ci hanno riferito. Il signor Sobolov era uno dei suoi studenti.» «A quei tempi Kusmin era primo violino nella filarmonica, però insegnava anche qui da noi. Il vostro uomo ha suonato il violino tutti i giorni per quattro anni. Be', non solo il violino. Doveva imparare anche il pianoforte come secondo strumento, è così ancora oggi per tutti gli studenti del dipartimento di musica. E naturalmente studiava letteratura e altre materie. Inoltre doveva suonare in una delle orchestre. Allora ce n'erano soltanto due, adesso ne abbiamo quattro. Poi doveva seguire i corsi di storia della musica e, dato che suonava uno strumento ad arco, sicuramente studiava anche musica da camera.» «Doveva essere parecchio occupato» commentò Carella. «Oh, sì. Pretendiamo che i nostri studenti si dedichino molto seriamente alla musica. Qui alla Kleber si fa musica... danza o recitazione, naturalmente... per tutto il giorno, ogni giorno della settimana. Lezioni, pratica, esibizioni in questa o quell'orchestra... è una vita così, signori. Una vita molto piena.» I due detective annuirono. Steve si stava chiedendo se davvero sarebbe mai potuto diventare un attore famoso. Meyer stava pensando che lo zio Isadore una volta gli aveva detto che disegnava molto bene. Mentre li guidava attraverso l'ufficio, Abigail spiegò che, una volta terminato il corso quadriennale alla Kleber, Max Sobolov avrebbe avuto parecchie opportunità di lavoro. «Sapete, abbiamo diverse orchestre sinfoniche importanti qui in città, più due compagnie liriche e tre balletti. In ogni orchestra ci sono dai trenta ai trentacinque violini. In genere, diciotto primi violini e quindici secondi violini. Parliamo di trentatré possibilità di impiego in una qualsiasi delle orchestre della città. E ovviamente il ragazzo avrebbe potuto proporsi a un'orchestra di Chicago, di Cleveland, o di una qualunque altra città. Un buon violinista? Un allievo di Kusmin? Avrebbe avuto davvero ottime opportunità.» Aprì il cassetto di uno dei classificatori. «Speriamo che i documenti non siano già stati trasferiti nelle scatole e
inviati in archivio. Avete detto Soboloff?» «Sobolov» la corresse Carella. «Con la "v" finale.» «Ah, sì» disse Abigail, e cominciò a frugare tra le cartelle. Quando trovò quella intestata a SOBOLOV, MAX, l'appoggiò sopra il classificatore e l'aprì. «Sì» confermò «un ottimo studente, con un futuro brillante davanti.» Tacque un attimo, leggendo. «Però non ha concluso gli studi. Ha lasciato la scuola dopo soli tre anni.» «L'esercito» spiegò Meyer. «Il Vietnam» precisò Carella. «Che peccato!» esclamò Abigail. «Si tratta di parecchio tempo fa, capite?» stava dicendo la donna nell'ufficio. Si chiamava Clara Whaitsley. Dato il cognome, all'inizio Parker aveva pensato che fosse inglese e la cosa gli era sembrata abbastanza eccitante, perché non era mai stato a letto con una ragazza inglese. Ma Clara aveva un marcato accento di Riverhead e Parker era stato a letto con un mucchio di ragazze di Riverhead. Lo stesso aveva fatto Genero. Be', qualche ragazza. Molto professionali, si limitarono ad ascoltarla. «Stiamo parlando di un'adolescente» continuò Clara. «I ragazzi iniziano il liceo quando hanno quindici anni e vanno per i sedici. In base alla nostra documentazione, Alicia Hendricks è passata alla Harding direttamente dalla Roger Mercer Junior High circa quarant'anni fa.» «Molto tempo fa» osservò saggiamente Genero. «L'iter solito è: scuola elementare Pierce, poi medie alla Mercer e liceo alla Warren G. Harding High School» disse Clara. «Secondo i nostri dati, Alicia ha lasciato la Harding a sedici anni.» «Nient'altro?» «Non sappiamo più niente di lei dopo che ha lasciato il nostro liceo.» «È andata a lavorare, sembrerebbe» intervenne Genero. «Era molto giovane per cominciare a lavorare.» «Io ho cominciato a lavorare a quattordici anni» precisò Parker. Fu tentato di aggiungere che aveva scopato per la prima volta all'età di sedici anni. «Sapete» riprese Clara «mentre controllavo l'archivio...» All'improvviso i due detective si fecero particolarmente attenti. «... mi sono capitati sottomano i dati di un altro Hendricks. Non so se fossero o no parenti, ma questo Hendricks ha studiato qui da noi più o me-
no nello stesso periodo di Alicia; ha cominciato il liceo un anno dopo di lei.» «Che cos'ha su di lui?» domandò Parker. Karl Hendricks stava scontando il decimo anno dei quindici che gli avevano affibbiato. Gli era stata negata la libertà vigilata per due volte: la prima perché aveva abusato fisicamente di una guardia carceraria, la seconda perché aveva pugnalato un detenuto con una forchetta. Non poteva avere più di cinquantatré, cinquantaquattro anni, ma alle sei e mezzo di quel lunedì pomeriggio, quando entrò ciabattando nella saletta dove Genero e Parker lo stavano aspettando, sembrava un vecchio. «Cosa volete?» domandò. «Tua sorella è stata assassinata» gli comunicò Parker. «Ah, sì?» fece Hendricks. Non pareva particolarmente interessato. «Tu quando l'hai vista per l'ultima volta?» gli chiese Genero. «Sarebbe un vero miracolo, se fossi stato io, eh?» disse Hendricks. «Rinchiuso qui in galera.» «Ci stiamo domandando chi possa essere stato» spiegò Parker. «A chi importa?» «A noi.» «A me no.» «Allora, quando l'hai vista per l'ultima volta?» «È venuta a trovarmi il giorno del mio quarantasettesimo compleanno. Mi ha portato una torta con le candeline. Ma niente lima dentro, peccato.» A volte chi sta in carcere sviluppa uno strano senso dell'umorismo. A volte è divertente, però. «Questo quando è successo, Karl?» «Nove anni fa. Avevo appena cominciato a scontare questa condanna ingiusta.» In carcere tutti stanno scontando una condanna ingiusta. Nessuno ha commesso il crimine per cui è stato condannato. Nessuno. «Nove anni fa» ripeté Genero e annuì, riflettendo. Sembrava improbabile che nove anni prima Alicia Hendricks avesse parlato di un uomo che la seguiva. Nessuno segue una persona per nove anni. Dopo così tanto tempo lo potresti definire "pedinatore indefesso". Genero glielo chiese comunque. «Ti ha parlato di qualcuno che la seguiva?»
Hendricks lo fissò senza capire. «Un tizio calvo che la seguiva?» «No» rispose Hendricks. Scosse la testa, incredulo. «È per questo che siete venuti fin qui? Perché un tizio calvo la stava seguendo?» «Siamo venuti fin qui perché tua sorella è stata assassinata» precisò Parker. «Mi sorprende che qualcuno non l'abbia uccisa prima» disse Hendricks. «Cosa?» «Per via degli amici che aveva. La compagnia che frequentava.» «Che genere di compagnia?» «Metà di loro dovrebbe essere qui dentro.» «Ah, sì?» «In effetti il suo primo marito è stato in galera, ma non qui.» «Marito? Per noi tua sorella era single.» «Sposata due volte» corresse Hendricks. «Due falliti.» «Quindi aveva ripreso il suo cognome da ragazza, giusto?» «Voi non l'avreste fatto?» «Parlaci di quei due.» «Il primo è stato al fresco a Huntsville, una prigione di stato.» «Vuoi dire in Texas?» «Sì, Texas.» «Per cosa?» «Traffico e spaccio. Ha patteggiato e se l'è cavata con due anni e un'ammenda di cinquemila dollari.» «Tu hai mai conosciuto questo bel tipo?» «No, me ne aveva parlato Alicia.» «Perciò questo dovrebbe risalire a più di nove anni fa, giusto?» «Come?» «Se l'ultima volta che Alicia è venuta a trovarti...» «Oh, sì.» «Quindi questo primo marito è storia antica, esatto?» «Esatto.» «Quando è stato in carcere? Prima o dopo aver conosciuto tua sorella?» «Prima. Era già fuori quando si sono incontrati.» «Perciò a quell'epoca viveva qui?» «Immagino di sì. Altrimenti come avrebbe fatto mia sorella a conoscerlo?» «È stato dentro solo quella volta? Quella volta in Texas?»
«Per quanto ne so, sì.» «E si chiama?» «Al Dalton «Al sta per Albert?» «Chi diavolo lo sa?» «Cosa ci dici del secondo marito? Anche lui ha la fedina sporca?» «No. Cosa ve lo fa pensare?» «Be', tu hai detto che era un fallito.» «Una cosa non ha niente a che vedere con l'altra. Io sono in prigione, per esempio, ma non sono necessariamente un fallito.» Parker annuì comprensivo. «Comunque, anche il secondo marito era un fallito, l'hai detto tu.» «In che senso fallito?» chiese Genero. «Investimenti sbagliati, roba del genere. E poi si faceva.» «Ah» fece Parker. «E Alicia?» «Ogni tanto, per divertimento.» «Ah.» «Come si chiama il secondo marito?» «Ricky Montero. Diminutivo di Ricardo.» «Uno spic?» domandò Parker. «Dominicano.» «Che tipo di investimenti sbagliati?» «Tutti quelli che vi vengono in mente.» «È ancora qui o è rientrato in patria?» «E come faccio a saperlo? Alicia ha divorziato da lui dieci, dodici anni fa. A me non era mai piaciuto. Suonava la tromba.» «È per questo che non ti piaceva?» «Io non ho niente contro chi suona la tromba. Ho solo detto che lui la suonava, nient'altro.» «Quindi erano queste le cattive compagnie che frequentava tua sorella?» chiese Genero. «I suoi due mariti. Al Dalton e Ricky Montero.» «Io non ho detto "cattive". Questo l'avete detto voi.» «Tu hai detto che metà dei suoi amici dovrebbe essere in galera.» «Ma non per questo sono cattivi.» «No, sono degli angeli.» «Io sono in galera, ma non sono cattivo.» «No, tu hai soltanto pugnalato una persona dodici anni fa e poi un'altra due anni fa, qui in prigione.»
«Ma non per questo sei cattivo» osservò Genero. «In realtà sei un angelo» aggiunse Parker. «Avete finito di rompermi le palle? Perché io non so chi ha ammazzato mia sorella e non me ne frega un cazzo di saperlo.» «Siediti» gli ordinò Parker. «Siediti» ripeté Genero. «Parlaci degli altri amici di tua sorella.» «Quelli dei vecchi tempi.» «Quelli che dovrebbero essere dentro con te.» «Mia sorella ha cominciato da giovane» disse Hendricks. «Ha cominciato cosa da giovane? A farsi?» «Ha cominciato tutto da giovane. Ritenete che tredici anni sia abbastanza presto? Che la scuola media sia abbastanza presto?» «Era la Mercer, giusto? Tu e tua sorella avete frequentato la stessa scuola, no?» «Lei era un anno avanti.» «Cos'ha fatto Alicia dopo aver lasciato il liceo?» «Si è trovata un lavoro. Mio padre era morto, mia madre...» «Che lavoro?» «Cameriera.» «Dove, lo sai?» «In un ristorante del quartiere.» «Quale quartiere?» «Laurelwood, a Riverhead.» «Era là che abitavate ai tempi?» «Proprio là.» «Ti ricordi il nome del ristorante?» «Certo. Rocco.» «E tu cos'hai fatto dopo il liceo?» «Sono andato in prigione.» I due detective si guardarono. «Ho avuto la prima condanna a sedici anni.» «Per cosa?» «Aggressione aggravata. È tutta la vita che faccio dentro e fuori. Ho cinquantasei anni e se ne ho passati venti fuori, è tanto.» «Raccontaci qualcosa di più sugli amici di tua sorella.» «Andate a chiederlo ai suoi mariti» disse Hendricks.
Kling stava ciondolando in giro. Erano quasi le otto di sera, lui era ancora in sala agenti e vagava dal distributore dell'acqua alla bacheca, lanciando occhiate in direzione della scrivania di Steve Carella, che stava rileggendo i rapporti nella speranza di dare un senso a quel maledetto caso. Kling si avvicinò alla fila di finestre aperte, abbassò lo sguardo sulla strada e sul traffico della sera, lanciò un'altra occhiata a Carella, tornò alla propria scrivania, cominciò a battere sulla tastiera, si interruppe, si alzò in piedi, si stirò e ricominciò a gironzolare nella sala. Aveva qualcosa in mente, su questo non c'era alcun dubbio. Carella alzò lo sguardo sull'orologio a parete. «Sarà meglio che vada» annunciò. «Anch'io» disse Kling, troppo in fretta, e si avvicinò immediatamente alla scrivania del collega. «Come sta andando?» domandò. «Ancora niente» rispose Steve. «Ma ci stiamo lavorando.» «Ci vuole tempo» riprese Kling. Chiacchiere banali. Certo non quello che lui aveva in mente. «È vero» ammise Carella. Rimasero entrambi in silenzio. Kling accostò una sedia e si sedette. «Posso chiederti una cosa?» domandò. Steve lo fissò dall'altra parte della scrivania. «Ho litigato seriamente con Sharyn.» Carella annuì. «Io pensavo che se la facesse con un altro. Poi però è saltato fuori che lei e quel suo collega, un medico nero molto attraente, stavano solo cercando di aiutare una terza collega, una donna che... be', è una storia lunga.» «Perché avete litigato?» «Sharyn dice che l'ho offesa.» «In che modo?» «Seguendola. Non fidandomi di lei.» Carella annuì di nuovo. «Tu sei d'accordo con Sharyn, vero?» «Io non ho mai seguito Teddy in vita mia. E non lo farò mai.» «Già» disse Kling. «Ma io pensavo che...» «Qualunque cosa tu pensassi.» «Già.» Rimasero in silenzio per un attimo. «Non vuole che la chiami.» «Allora non chiamarla.»
«Per un po', almeno.» «Te l'ha detto lei?» «Sì.» «Be', è un buon segno.» Carella stava pensando: amico, non si pedina la donna che si ama. «Io voglio che tra noi funzioni» continuò Kling. «Allora fai in modo che sia così.» «Io la amo, Steve.» «Diglielo.» Diglielo, ridiglielo e poi diglielo ancora, pensò. «Tu quando pensi che dovrei richiamarla?» «Se fossi in te?» «Sì.» «Io la chiamerei ogni minuto di ogni ora di ogni giorno finché non capisce quanto la amo.» «Io ho paura che lei...» Kling scosse la testa. «Ho paura di perderla.» «Diglielo.» Kling annuì. Stava già meditando su cosa dire la prossima volta che le avrebbe telefonato. Ollie Weeks stava ancora pensando a venerdì sera. Alla cena con Patricia e la sua famiglia. O, più precisamente, a ciò che era successo nel parcheggio dopo la cena. Era già passato qualche giorno e tutto ciò che Ollie riusciva a fare era pensare in continuazione a Patricia Gomez. Per la verità cominciava a sentirsi un po' combattuto, come si dice. Probabilmente perché Patricia gli aveva augurato la buonanotte con un bacio sulla bocca. Questo dopo che suo fratello gli aveva dato una pacca sulle spalle, dicendogli: "Amico, hai due belle mani". Si riferiva a come suonava il piano. Questo dopo che il padre gli aveva detto: "Mi piacciono gli uomini con un sano appetito". Si riferiva a quanto aveva mangiato. Ollie aveva detto a Patricia che non occorreva che l'accompagnasse giù, era molto tardi, ma lei aveva ribattuto: "Ehi, io sono un poliziotto". Era scesa in ascensore con lui, i corridoi e le porte completamente coperti di graffiti, musica salsa che usciva da tutti gli appartamenti. L'aveva accompagnato fino all'auto e l'aveva baciato prima ancora che aprisse la portiera.
Sulle labbra. Con la bocca aperta. E la lingua. Era questa la ragione per cui Ollie si sentiva combattuto, come si dice, quel lunedì sera, mentre stava per telefonare a Patricia per proporle una tranquilla cenetta a casa sua, cena che avrebbe preparato personalmente. Aveva solo in mente di scoparsi Patricia Gomez? O si trattava di qualcosa di più serio, Dio ce ne scampi? Avrebbe voluto avere qualcuno con cui poterne parlare. Avrebbe voluto conoscere meglio Steve Carella. L'unica altra persona che gli venne in mente fu Andy Parker. I due s'incontrarono per un drink alle nove di quella sera. Parker sospettava che Ollie tramasse qualcosa, ma non riuscì a immaginare cosa finché l'amico non cominciò a parlargli della meravigliosa cena spagnola della settimana prima a casa di Patricia Gomez. «Così la vedi ancora, eh?» domandò Parker. «Be', sì, ogni tanto» ammise Weeks. «È per questo che sei a dieta?» «Quale dieta?» fece Ollie. «O forse no, una cena spagnola...» «Patricia dice che va bene trasgredire ogni tanto.» «Quindi è stata un'idea sua, è così?» «No, no. Un'idea sua. Ma figurati.» «Allora di chi è stata l'idea? Se è lei che dice quando seguire la dieta e quando interromperla, di chi è stata l'idea? Del papa?» «Va bene, abbiamo parlato del fatto che dovevo perdere qualche chilo, e allora?» «A me sembra che tu abbia perso molto più di qualche chilo. Non ti ho quasi riconosciuto, quando sei entrato qui dentro.» «Sul serio?» domandò Ollie, compiaciuto. «Devi stare attento, non bisogna perdere tanto peso così in fretta.» «Sono solo cinque chili» ribatté Ollie. «È tanto. Deve avere un bell'ascendente su di te, quella ragazza.» «Ma dài, cosa vuoi dire? Ascendente... figurati. Ci vediamo ogni tanto, ecco tutto.» «Se è così...» commentò Parker, annuendo con enfasi. «Stai bevendo birra per via della dieta?» «Be', i superalcolici hanno un mucchio di calorie inutili» spiegò Ollie. «Vuoi un'altra birra?»
«Sono a posto così.» «Io prendo un altro scotch, sempre che la cosa non ti offenda.» «Perché dovrebbe offendermi?» «Chi lo sa, di questi tempi» replicò Parker. Con un gesto, chiese che gli venisse riempito di nuovo il bicchiere e poi ingollò il contenuto praticamente in un unico sorso. «La sai quella delle Cadillac?» domandò. «Com'è?» «Se un bianco guida una Cadillac bianca, allora è potere bianco. Due neri su una Cadillac nera è potere nero...» Sorrise, anticipando la conclusione. «E tre portoricani su una Cadillac marrone?» «Potere portoricano?» ipotizzò Ollie. «Furto d'auto aggravato!» fece Parker, e scoppiò a ridere. Ollie annuì e bevve un sorso di birra. «Cosa c'è?» gli chiese Parker. «Niente. Perché? Cosa c'è?» «Non era divertente?» «Non molto.» «Furto d'auto aggravato? Non era divertente?» «Potevano esserci tre tizi qualunque su quella Cadillac e, se l'avevano rubata, sarebbe stato comunque furto d'auto.» «Sì, ma quelli erano tre spic! Ed è per questo che era un furto d'auto ed è questo che rende divertente la barzelletta.» «Okay, è divertente» disse Ollie. «Ah, ah.» «Lo sai cosa c'è di sbagliato in te tutt'a un tratto?» fece Parker, puntando il dito contro Weeks attraverso il tavolo. «Non mi ero reso conto che tutt'a un tratto ci fosse qualcosa di sbagliato in me.» «Invece sì. Tutt'a un tratto stai perdendo la tua unicità.» «La mia cosa?» «La tua essenziale "ollietà".» «E cosa sarebbe la mia essenziale "ollietà"?» «La capacità di ridere dei neri, degli spic, dei maccaroni e dei giudei...» «Ho detto "ah, ah", no?» «Sì, ma non facevi sul serio. Stai perdendo la tua ris de veau.» «La mia cosa?» «La tua ris de veau. È francese e significa "gioia di vivere". Quando i francesi dicono che una persona ha ris de veau, significa che sa godersi la vita.»
«Peccato che io non sia francese.» «Ho un'altra barzelletta da raccontarti» disse Parker. «E com'è? Quattro ebrei su una Cadillac azzurra?» «No. È un cagnolino che cammina lungo i binari della ferrovia...» «Bianco, nero o portoricano?» «È un cagnolino bianco e sta camminando sui binari quando all'improvviso arriva un treno, le ruote gli passano sopra la coda e così il cagnolino perde la punta della coda. Ed è disperato per questo. Appoggia la testa sui binari e comincia a piangere disperato, senza far caso a ciò che gli succede intorno. E proprio in quel momento arriva un altro treno, che gli passa sopra e questa volta gli stacca la testa di netto. Sai qual è la morale della storia, Ollie?» «No, qual è la morale?» «Mai perdere la testa per un brandello di coda.» Sul tavolo scese il silenzio. «Hai capito?» fece Parker. Ollie pensò che forse, dopo tutto, quella di uscire con Parker non era stata una buona idea. 3 Trovarono il secondo marito di Alicia in un locale di salsa del centro che si chiamava Loco Tapas y Vargas; era in Verglas Street, ai confini del distretto commerciale. Ricky Montero suonava la tromba in una delle due famose orchestre del club. Né Parker né Genero le avevano mai sentite nominare. Il gruppo di Montero stava provando, quando i due detective entrarono nel locale alle dieci e mezzo di quel martedì mattina, ventiduesimo giorno di giugno. Montero spiegò che le due orchestre suonavano mambo, cha cha cha, rumba, son, merengue, guaracha, timba e songo. Specificò che entrambi i gruppi suonavano sia "sul due" sia "sull'uno"... «Sul due è un mambo in cui il break step...» «Il cosa?» «Il primo passo lungo, il break step, si fa sulla seconda battuta. Nessuna pausa.» «Ah-ah.» «Sull'uno, invece, il break step è sulla prima battuta...» «Ah-ah.»
«... e i ballerini fanno la pausa sulla quarta e l'ottava battuta.» Parker annuì. Lo stesso fece Genero. Nessuno dei due aveva la minima idea di cosa diavolo stesse parlando Montero. «Molti preferiscono ballare sull'uno.» «Posso capire perché» osservò Parker. «Il mambo sul due si basa sulle percussioni» continuò a spiegare Montero. «A differenza del mambo sull'uno.» «Che è basato su cosa?» «Sulla melodia.» «Giusto» concordò Genero. Parker avrebbe voluto ordinare una birra. Anche Genero. «Ci parli della sua ex moglie» attaccò Parker. «Qualcuno l'ha fatta fuori, eh?» disse Montero. «L'ho letto sui giornali. Una specie di serial killer, vero?» «Be', questo non lo sappiamo ancora.» «Al momento tutto quello che sappiamo è che la signora era sessualmente promiscua già da ragazzina.» «Be', questo proprio no.» «Lei non ha mai avuto motivo di crederlo?» «Be', diciamo che Alicia aveva un sano appetito.» «Per il sesso, giusto?» «Be', sì.» «Il che significa che era sessualmente promiscua, no?» «Questo dipende dal suo concetto di promiscuo.» «E il suo qual è, signor Montero?» «Be', ecco... sì, direi che era sessualmente promiscua.» «E riguardo alla droga? Sua moglie si drogava?» «Be'...» «Perché abbiamo saputo che anche lei...» «No, no.» «... si fa un po' di roba.» «No, non è vero. Forse molto tempo fa. Adesso no.» «Quanto tempo fa?» «Dieci anni? Quando eravamo insieme, sì, abbiamo sperimentato un po'... si potrebbe dire così.» «Sperimentato cosa? Crack?»
«No, no, il crack era di moda molto tempo prima. Alicia e io ci siamo separati dieci anni fa. Quella era di nuovo l'epoca dell'eroina. Noi due ci facevamo solo un po' di merda ogni tanto.» «Per divertirsi un po'?» «Oh, sì, niente di serio.» «Nemmeno una piccola, insignificante dipendenza?» «Assolutamente nessuna dipendenza. Niente. Come ha detto lei, era solo per divertirsi un po'.» «E chi vi aiutava a divertirvi tanto?» «Non poi così tanto. Andiamo, succedeva solo qualche volta. Era per uso "ricreativo", si potrebbe dire. Insomma, io sono un musicista.» «Alicia però non era una musicista.» «Be', eravamo sposati. Sentite, non era una gran cosa. Perciò non fatela così lunga.» «Alicia lavorava, quando eravate sposati?» «Sì.» «Cosa faceva?» «La manicure.» «Ricorda dove?» «No. Comunque è stato prima che cominciasse a vendere cosmetici.» «Ricky, perché ha divorziato da Alicia?» «Non l'ho fatto.» I detective lo guardarono senza capire. «È stata lei a volere il divorzio.» «Perché?» «Stili di vita diversi, diceva.» «Droga?» chiese Genero. «No, l'abbiamo provata tutti e due.» «Sesso?» «A me non dispiaceva.» «Allora cosa?» «Non ne ho idea. Diceva solo che i nostri stili di vita erano troppo diversi.» «A proposito di tutto quello sperimentare...» «Solo un po'.» «Solo un po' di merda ogni tanto, è così?» «Sì, è così.» «Chi vi riforniva?»
«Cazzo, si può comprare roba a ogni angolo di strada in questa città, non lo sapete? Insomma, siete poliziotti e non lo sapete?» «Nessuno in particolare? Nessuno spacciatore preferito?» «Nessuno che io ricordi.» «Lei sa se Alicia ha continuato a farsi? Dopo che vi siete separati?» «Non la vedevo da dieci anni.» «Quindi non sa se si stava ancora "divertendo"?» «Se stava ancora "sperimentando"?» «Come potrei saperlo?» «Ma se fosse stato così...» «Io non so cosa Alicia...» «... lei non sa chi avrebbe potuto fornirle la roba.» «Io non so più niente di Alicia. Ve l'ho già detto: erano dieci anni che non la vedevo.» «Non sa se, per esempio, doveva dei soldi a qualche spacciatore?» «C'è un problema di acustica qui dentro? Cos'è che non capite? Non la vedevo da dieci anni. Non so se si sparava merda nel braccio, negli occhi o su per il sedere.» «Come fa a sapere che vendeva cosmetici?» «Eh?» «Se non la vedeva da dieci anni, come fa a saperlo?» «L'avevo sentito dire.» «Da chi?» «Non ricordo chi me l'ha detto. Alicia vendeva smalti per le unghie e cazzate del genere. È questo che ho sentito dire. Faceva la rappresentante. Sentite, se avete altre domande, fatemele in fretta, okay? Devo tornare a suonare.» «Dove si trovava venerdì scorso alle venti?» «Proprio qui. Il venerdì resto chiuso qui dentro dalle otto di sera alle due di mattina.» Fissò Parker negli occhi. «Nient'altro?» domandò. Parker immaginò che significasse fuori dai piedi. I due detective dell'Antidroga erano convinti che fosse la "merda" ciò che faceva girare il mondo. Erano certi che l'11 settembre fosse solo una questione di droga. Lo stesso valeva per la guerra in Iraq. Tutto aveva a che fare con la droga. Se si voleva davvero mettere fine alla guerra al ter-
rorismo, anzi, se si voleva mettere fine a tutte le guerre, per sempre, tutto ciò che bisognava fare era vincere la guerra alla droga. La droga era il male. Gli spacciatori erano il male. Perfino quelli che si facevano erano il male. Era per questo che non provavano alcuna compassione per la sedicenne morta per overdose di Angel Dust nel vicolo accanto al Ninotchka. «Se l'è voluta» disse Brancusi. Era il più grosso dei due agenti dell'Antidroga. Meglio evitare di fare a pugni con lui per un sacchetto di polvere. «Voi sapete cos'è l'Angel Dust?» chiese il suo collega. Era alto come Brancusi, ma non aveva le spalle così larghe e il torace così grosso. Si chiamava Mickey Connors, doveva essere irlandese. Meyer e Carella percepivano un certo atteggiamento condiscendente. Tutti e due sapevano benissimo cos'era l'Angel Dust. «L'Angel Dust è fenciclidina» spiegò Connors. «PCP» precisò Brancusi. «Nota anche come cristallo, porco o tic.» «Hai dimenticato zoot» intervenne Meyer. «Stiamo perdendo tempo con questi ragazzi?» domandò Connors al collega. «No, continuate pure a illuminarci» disse Meyer. «Va' all'inferno» fece Connors. «Andiamocene, Benny.» «No, voi restate» ordinò Carella. «Qui stiamo parlando di due omicidi.» «E che effetto dovrebbe farci la parola "omicidi"?» chiese Brancusi. «Farci pisciare addosso? Sapete quanti omicidi collegati alla droga vediamo tutti i giorni?» «È per questo che siamo qui» replicò Carella. «Già, perché siete qui?» domandò Connors. «Omicidi collegati alla droga. È possibile che le nostre due vittime facessero uso di stupefacenti. E uno di loro è stato ucciso fuori dal locale dove voi avete trovato una sedicenne morta per overdose.» «Peggio per lei» commentò Connors. «Inoltre dieci anni fa il direttore del Ninotchka è stato condannato per spaccio. Così abbiamo una tossica morta e un altro cadavere, che forse si faceva o forse no, appena fuori dal locale di uno che un tempo spacciava, per cui magari potrebbe esserci una relazione, che ne dite? Perciò vogliamo sapere tutto della ragazza.» «Naomi Maines» precisò Brancusi. «Era uscita da un club più avanti, lungo la strada, in stato confusionale,
questo è certo, e forse anche in preda alle allucinazioni...» «Quindi La Paglia ci ha detto la verità.» «Chi è La Paglia?» domandò Brancusi. «Il direttore del Ninotchka. L'ex detenuto.» «Ah, sì, quello» fece Brancusi, ricordando. «Un verme.» «Ci ha raccontato che è stato un caso che la ragazza si trovasse vicino al Ninotchka. Probabilmente è arrivata a piedi dall'altro club» continuò Meyer. «Sì, corrisponde» confermò Connors. «La sorella di Naomi e un'amica ci hanno detto che la ragazza si era fatta due pasticche di polvere là dentro.» «Che sono bastate a farla fuori» aggiunse Brancusi. «Naomi avrà cominciato ad avere le convulsioni mentre camminava nel vicolo e poi è crollata a terra morta accanto al Ninotchka, vicino ai bidoni dell'immondizia.» «Ha semplicemente smesso di respirare» disse Brancusi. «Come si chiama quest'altro locale?» domandò Meyer. «Grandma's Bloomers, i mutandoni della nonna.» «Carino.» «E anche pulito. Naomi non ha comprato la roba là dentro, questo è sicuro.» C'era stato un tempo, non troppo lontano - cinque anni? dieci? - in cui lungo quel tratto di strada c'era una sfilza di rave club. Locali notturni caratterizzati da musica techno (o cosiddetta "house") pulsante e assordante, luci stroboscopiche ammiccanti, laser abbaglianti e... oh, sì... da droghe giovanili come l'ecstasy, l'efedrina, la chetamina, il GHB, il metcatinone, l'LSD, i funghi magici, la metamfetamina e... be', scegliete pure un nome a piacere. Un sindaco moralizzatore aveva chiuso tutti i locali rave della città e adesso lo scenario del divertimento era molto più blando di quanto fosse allora: nuovo sindaco, nuovo concetto di ciò che nuoce alla salute. Il fumo, per esempio. In Austin Street ormai non restavano che due club: il Ninotchka, dedicato agli appassionati geriatrici della musica per violino, e il Grandma's Bloomers, un locale di quasi tremila metri quadrati che ai tempi, quando richiamava ai suoi rave ragazzi dai tredici ai vent'anni, si chiamava The Black Pit. Il direttore del GB, come veniva familiarmente detto il posto, era un tipo di nome Alex Coombes. Il cognome si pronunciava come combs, pettini. Sulla quarantina, Coombes era il classico padre che vorresti
avere quando devi chiedere in prestito l'auto di famiglia. Gentili occhi castani. Lineamenti gradevoli. Sorriso simpatico. Una brava persona, nel complesso. Ma sei mesi prima una ragazzina di sedici anni si era fatta due dosi di Angel Dust nel suo club. «Non so nemmeno come abbia fatto a entrare» disse Coombes. «Abbiamo una politica rigorosa: non entri, se non hai più di ventun anni. Chiediamo i documenti all'ingresso e controlliamo borsette e persone. Niente droga qui dentro. Né allora, né adesso.» Adesso erano le undici e un quarto del ventidue giugno. Connors e Brancusi avevano fornito ai colleghi il numero di telefono di casa di Coombes, che aveva accettato di incontrare Meyer e Carella al club. «Era la vostra politica anche sei mesi fa?» gli chiese Meyer. «Più di ventun anni?» «È la nostra politica da sempre. Anzi, oggi l'età media della clientela è addirittura più alta. Tra i venticinque e i trentacinque anni, un bel mix variegato di etero, gay e chissà cos'altro. Due o tre mesi fa il nostro deejay suonava musica techno, reggae e hip hop, ma adesso i gusti si stanno spostando più verso i Rolling Stones, i T-Rex, gli MC5, Iggy and the Stooges, cose del genere. Serviamo alcolici, sì, per lo più quei cocktail esotici e "carini" tanto amati da questa fascia di età. Ma droghe? Nossignore. Mai. Posso assolutamente garantire che Naomi Maines non ha comprato quella polvere qui al GB. Nossignore.» «Noi riteniamo che abbia preso quelle due dosi proprio qui dentro.» «Vi sbagliate. Ve l'ho appena detto: noi non vendiamo...» «Lei ha visto la ragazza quella sera?» «Non che io sappia.» «Questo cosa significa?» «Significa che se la ragazza era qui, se in qualche modo era riuscita a entrare con un documento falso, io comunque non l'ho notata.» «È possibile che sia uscita dal club più volte quella sera?» domandò Meyer. «Può essere» rispose Coombes. «Io non posso saperlo.» «Chi è che può saperlo?» «Al. Il buttafuori sul retro. Aldo Mancino. Dovrebbe averle timbrato la mano.» «È qui adesso?» «Questo è un locale notturno» spiegò Coombes. «Verrà a lavorare alle nove di stasera. Se volete tornare a quell'ora...»
«No, vogliamo il suo indirizzo di casa» disse Carella. La padrona di casa di Aldo Mancino li informò che di solito il suo inquilino a quell'ora era al "circolo". Il circolo era il club italoamericano di Dorsey Street, in centro. Erano le tredici. Seduti ai tavolini rotondi all'aperto, Mancino e due amici si godevano ciò che restava di quella bella giornata, sorseggiando l'espresso servito dal bar subito accanto. All'interno della sede del circolo, Carella notò un televisore acceso e alcuni uomini che giocavano a biliardo. Mancino corrispondeva alla descrizione che ne aveva fatto la sua padrona di casa. Grande e grosso, sui trent'anni, capelli scuri e ricci, sopracciglia cespugliose e occhi castani, in jeans e canottiera con i muscoli in bella mostra, stava sorridendo mentre pronunciava la battuta conclusiva di una barzelletta. I due uomini seduti con lui scoppiarono a ridere, ma smisero di colpo quando videro avvicinarsi Carella e Meyer. «Signor Mancino?» Mancino alzò lo sguardo. «Detective Carella» si presentò Steve, mostrando il distintivo. «Il mio collega, detective Meyer. Se ha un attimo di tempo, vorremmo farle qualche domanda.» «Oh-oh. Cos'hai combinato, Aldo?» chiese uno degli amici. «Lo scoprirò tra poco» rispose Mancino, sorridendo. Aveva un sorriso simpatico. Nel complesso, una persona gradevole. Non sarebbe potuto essere altro che un traslocatore o un buttafuori. Sapeva di non essere nei guai: i suoi modi erano rilassati e tranquilli. «Signori?» fece Meyer. «Credo ci stia dicendo che è una conversazione privata» disse lo stesso amico di prima. «Non ci metteremo molto» assicurò Carella. I due si alzarono in piedi. Uno di loro diede a Mancino una pacca sulla spalla. «Facci sapere dove dobbiamo portarti le sigarette.» «Sì, certo.» I due amici entrarono nel locale. Carella e Meyer si accomodarono sulle sedie adesso libere. «Grandma's Bloomers» cominciò Steve. «Sei mesi fa.» «Ancora quella storia, eh?» commentò Mancino. «Ci deve scusare, ma sono emersi elementi nuovi.» «Naomi Maines, giusto? Perché, sapete, mi hanno già sfinito. Quei due
dell'Antidroga.» «Questo è un nuovo caso.» «E cos'ha a che fare con me? Posso dirvi solo quello che ho già detto agli altri due. Bobby all'ingresso controlla i documenti a tutti, anche a quelli che hanno l'età giusta. Deve avere controllato anche la Maines.» «Chi è Bobby?» «Bobby Nardello. Controlla tutti quelli che entrano. L'ingresso è libero, ma bisogna mostrare un documento di identità. Bobby controlla anche le borse e fa una rapida perquisizione. C'è una ragazza che perquisisce le donne. Si chiama Tracy.» «Ci è stato detto che lei lavora all'ingresso sul retro.» «È vero. Non vogliamo che quelli che fumano si mettano a ciondolare davanti all'entrata del club. Dentro è vietato fumare, così li facciamo uscire nel vicolo sul retro. Quando escono, io timbro la mano, e poi li controllo al rientro.» «Naomi Maines è uscita dal locale prima di morire?» «È una domanda trabocchetto o cosa?» I detective lo guardarono. «Certo che è uscita» riprese Mancino. «L'hanno trovata morta un po' più avanti lungo la strada, perciò dev'essere uscita per forza dal locale, dico bene?» «Intendiamo prima.» «Credo di sì. Non ne sono sicuro. Avete idea di quante persone vanno fuori a fumare? I più accaniti escono più o meno ogni dieci minuti, devono farsi una sigaretta a tutti i costi. E io ogni notte timbro un centinaio di mani. Forse di più.» «Pensa di aver timbrato la mano di Naomi?» «Credo di sì. Quelli dell'Antidroga mi hanno mostrato la foto della ragazza. Una bionda carina, che dimostrava più dei suoi anni. Il che significa grosse tette. Non avrei mai detto che avesse solo sedici anni. Una scollatura abissale. Niente reggiseno.» «Quindi se la ricorda.» «Mi pare di sì. Sempre se è lei. Comunque, la ragazza non ha tirato fuori immediatamente il pacchetto di sigarette, come fanno quasi tutti. Si è avviata lungo il vicolo. Be', lo fanno in molti. I fumatori, intendo. Accendono la sigaretta, fanno due passi nel vicolo, si fumano il cervello e poi rientrano.» «Ha risalito la strada verso il Ninotchka?» chiese Carella.
«Sì. Be', comunque in quella direzione.» «Sto parlando di Naomi. Si è diretta verso il Ninotchka?» «Sì. Sempre se la ragazza è quella.» «Per quanto tempo è stata via?» «Vuol dire prima di rientrare?» «Sì.» «Dieci, quindici minuti.» «E lei riusciva a vederla in quei dieci, quindici minuti?» «Non stavo guardando.» Usando il suo cellulare, Carella telefonò all'Antidroga e chiese a Brancusi come si chiamava la sorella della vittima. «E anche l'amica» aggiunse. «Non capisco di cosa stai parlando» disse Brancusi. «Naomi Maines. La sorella e l'amica. Dove possiamo trovarle?» «Perché cercate quelle due?» domandò Brancusi. «È un caso ormai vecchio.» «No, non più» ribatté Carella. Tutt'e due facevano le cassiere in un supermercato, il Garden Basket. Anche Naomi Maines aveva lavorato là. Le due ragazze erano in pausa e stavano fumando sul retro dell'edificio. Chissà se sapevano che il fumo provoca il cancro, pensò Meyer. La sorella di Naomi si chiamava Fiona Maines, l'amica Abby Goldman. Tutt'e due avevano più di ventun anni e tutt'e due sapevano che Naomi aveva infranto la legge, quando aveva esibito una patente falsa per entrare nel club. Sapevano anche che era illegale mandare la ragazza fuori in cerca di un po' di "stimolanti", come li chiamavano loro. Ma avevano pensato che Naomi, così giovane e innocente, avrebbe attirato meno l'attenzione di loro due. Sapevano che si poteva trovare la roba al Grandma's Bloomers. Avevano parlato con gente che c'era stata e quindi sapevano che nel locale si spacciava. La cosa più divertente era che all'ingresso ti chiedevano i documenti, ti ispezionavano la borsa, ti perquisivano, servizio completo, neanche fossi stato un terrorista al controllo di sicurezza di un aeroporto. Fiona si era sorpresa che non le avessero chiesto di togliersi anche le scarpe. «Ma è tutta scena, ovviamente. La polizia ha fatto irruzione un sacco di volte, quando il locale si chiamava ancora The Black Pit, perciò adesso
non vogliono più correre rischi con la legge. I piedipiatti fanno un paio di visite, vedono tutte quelle precauzioni... accidenti, è proibito perfino fumare là dentro... pensano che il posto sia pulito e non se ne preoccupano più.» «E poi magari gira anche qualche bustarella, eh?» suggerì Abby, facendo l'occhiolino a Carella. «Voi due sapete tutto delle bustarelle, vero?» «Certo» rispose Steve, facendo a sua volta l'occhiolino. «Anzi, siamo già in ritardo per andare a ritirarne una.» «Ci credo» disse Abby. «Non è vero» replicò Carella. «Quello che voglio dire» riprese Fiona «è che, una volta dentro, devi solo chiedere a un cameriere dove puoi trovare qualcosa di un po' più forte di un Maiden Aunt, che è uno di quei loro cocktail a base di gin, tutto rosa con le scorze d'arancia e le ciliegie. E il cameriere ti fa: "Chiedi ad Al". Al è Aldo, quello grande e grosso alla porta sul retro, quello che ti timbra la mano quando esci per farti una sigaretta. Tu gli dici che ti interessa un po' di polvere o qualche pillola e lui ti risponde: "Chiedi a Dom, più su, in strada".» «Dominick La Paglia» azzardò Meyer. «Indovinato» confermò Fiona. «È il direttore di quel posto per vecchi» puntualizzò Abby. «Il Ninotchka» precisò Carella. «Sì, è così che si chiama» confermò Abby, e diede un tiro alla sigaretta. «Voi due avete fatto bene i compiti. Chi potrebbe mai sospettare che lì c'è un giro di droga? Naomi risale la strada, parla con un tizio alla porta sul retro del Ninotchka, gli dice che Al le ha detto di chiedere di Dom. E così compare Dom, che la porta dentro, in una stanzetta che è un magazzino all'ingrosso di roba. E Naomi ritorna con due dosi di polvere per lei e una pastiglia di ecstasy per me e una per Abby.» «Roba buona, tra l'altro» intervenne Fiona. «Certe volte ci mettono dentro un mucchio di altra merda che può anche ucciderti. Ma l'ecstasy pura non ha mai fatto male a nessuno.» «L'Angel Dust puro ha ucciso tua sorella» le ricordò Carella. «Già, ma nessuno ha fatto niente, giusto? Aldo è in galera? Dom in prigione? Quei due locali sono stati chiusi? Noi sei mesi fa abbiamo raccontato tutto a quei due dell'Antidroga. Secondo lei hanno fatto qualcosa?» «Qualche bustarella...» disse Abby, e fece di nuovo l'occhiolino. Questa volta i due detective le credettero.
«Diciamo che c'è un locale che una volta era un rave club» cominciò Carella. «Diciamolo» fece Meyer. «Dove circolava un mucchio di droga.» «Indubbiamente.» «The Black Pit. E diciamo che l'ex sindaco, nel corso della sua crociata, lo fa chiudere...» «Giusto...» «... ma poi il locale riapre come Grandma's Bloomers.» «Candido come un giglio.» «Non entri, se non hai ventun anni.» «Bei cocktail colorati.» «Niente droga.» «Soprattutto niente droga. Ma diciamo che ai clienti ogni tanto viene comunque voglia di qualcosa.» «Peccato. Noi non abbiamo niente, ragazzi.» «Ah, però forse sì.» «Accidenti, forse sì» considerò Meyer. «Provate a chiedere al club un po' più avanti» continuò Carella. «Il direttore è stato dentro per spaccio.» Meyer annuì saggiamente. «Tu pensi che un giudice ci concederebbe un mandato di perquisizione?» «Forse» rispose Meyer. «Abbiamo una causa ragionevole?» «Forse.» «Vogliamo provarci?» «Non abbiamo niente da perdere» replicò Meyer. Be', accidenti, chi avrebbe mai pensato che avrebbero dovuto effettuare una perquisizione in cerca di droga in un locale per vecchietti? Ma, a ben vedere, cosa c'è di meglio che risalire il vicolo e raggiungere un bel localino pulito, dove gli anziani se ne stanno seduti mano nella mano nella penombra, i violinisti passano da un tavolo all'altro e, sul retro, un uomo che è stato condannato per spaccio ha riaperto il suo negozio di canditi? La Paglia disse che dovevano essere impazziti. Ma i due detective avevano un mandato di perquisizione. Causa ragionevole.
Una ragazza di sedici anni va al Grandma's Bloomers, un locale che controlla meticolosamente tutti quelli che entrano, poi si fa una passeggiatina fino al Ninotchka, qualcuno la vede mentre si fa due dosi di polvere e alla fine viene trovata morta fuori dal Ninotchka... non è una notevole coincidenza, vostro onore? Non è una causa ragionevole per un mandato di perquisizione, vostro onore? Richiesta accolta. E adesso cosa ci dice, signor La Paglia? «Vi dico di andare a parlare con i vostri amici dell'Antidroga. Loro sono già stati qui, sanno tutto. Parlate con loro.» «Ha intenzione di lasciarci perquisire il locale?» gli domandò Meyer. «Oppure vuole crearci problemi?» La Paglia decise di creare problemi. Era un uomo robusto, meno alto di Meyer e Carella, ma più grosso e muscoloso di tutti e due e non aveva nessuna intenzione di tornare in galera, specialmente per accuse che potevano comprendere anche la morte di una sedicenne; nessuno l'avrebbe rimandato dentro, in mezzo a tutti quegli inculatori, quei succhiacazzi e quegli amanti degli uccelli. Basta far caso al linguaggio carcerario e ti rendi subito conto che finire al fresco negli Stati Uniti non è poi molto meglio che finire al fresco in Iraq. Nessuno avrebbe rimandato Dominick La Paglia dietro le sbarre per la terza volta, nessuno al mondo! Si scagliò contro i detective come un toro in cerca di qualcuno da sventrare nell'arena. Carella e Meyer non erano abituati a quel genere di attività. I poliziotti in uniforme, che intervengono sul posto nel momento in cui avviene un reato, devono affrontare gli scontri fisici molto più spesso dei detective, che di solito arrivano sulla scena dopo che il crimine è stato commesso. Né Carella né Meyer riuscivano a ricordare l'ultima volta che si erano allenati nella palestra della polizia. E adesso avevano di fronte un tizio che pesava novantacinque chili e che era ancora in ottima forma grazie al sollevamento pesi fatto in prigione, un tizio che passava bustarelle all'Antidroga e forse anche ai poliziotti della zona e che si sentiva in diritto di pretendere un po' di protezione, invece di ritrovarsi davanti due stronzi che gli sventolano in faccia un mandato di perquisizione. Si sentiva tradito, si sentiva in pericolo e inoltre era convinto di non avere niente da perdere, se fosse riuscito a uscire di là sbarazzandosi di quelle due femminucce, così mollò un pugno in faccia a Meyer, il quale perse l'equilibrio e finì ad-
dosso a Carella, che a sua volta perse l'equilibrio proprio mentre stava per estrarre la Glock dalla fondina. La Paglia sferrò un calcio a Meyer all'inguine, facendolo cadere gemente sulle ginocchia. Stava per fare la stessa cosa a Carella, ma di colpo comparve la Glock. La Paglia ripiegò su un secondo calcio a Meyer, questa volta sotto il mento, sperando così di dissuadere l'altro poliziotto. Ma Steve teneva la pistola ben salda nella mano e mirava dritto alla testa di La Paglia; gli occhi del detective parlarono ancora prima che lo facesse la bocca: sto per ammazzarti. «Fermo!» gridò Carella. La Paglia esitò per un istante. Meyer era sdraiato a terra. La Paglia arretrò il piede per sferrargli un altro calcio alla testa, solo per disprezzo, ma cambiò idea quando sentì Carella urlare: «Adesso!». La Paglia si immobilizzò. Si era aspettato che gli avesse dato un numero falso, invece, strano ma vero, era proprio la voce della ragazza quella al telefono. «Reggie?» «Chi parla, prego?» «Charles.» «Charles?» «Ti ricordi giovedì notte? Tu e Trish?» «Oh, certo, sicuro. Salve, Charles.» Charles non pensava che Reggie si ricordasse di lui. «Mi hai dato il tuo numero di telefono, ricordi?» «Sicuro. Come va, Charles?» «Bene, grazie. E tu?» «Bene. Tu sei quello con la testa rasata, vero?» «Esatto.» «Certo che mi ricordo. Allora, cos'hai in mente, Charles?» «Mi sono comprato una macchina nuova.» «Sul serio?» «Me la consegnano domani mattina.» «Wow» fece Reggie, ma non sembrava particolarmente entusiasta. «Stavo pensando...» «Sì, Charles?» «Se domani sei libera...» «Sì?»
«Potremmo andare a fare un giro in campagna, pranzare in un posto carino, rientrare in hotel per la cena e poi passare la notte insieme. Sempre ammesso che la cosa ti interessi, Reggie.» «Certo che mi interessa.» «Bene, allora» disse Charles, sollevato. «Dove passo a prenderti?» «Tu stai ancora all'hotel?» «Sì.» «Allora perché non facciamo che vengo io da te?» «Bene. Domani mattina alle undici?» «Sarà una giornata lunga» disse Reggie. «Lo so.» «Più la notte» precisò la ragazza. «Me ne rendo conto.» «Non c'è bisogno di discutere di soldi, vero, Charles?» «No, se tu non vuoi.» «È solo che... insomma, sarà tutto il giorno e poi tutta la notte.» «Sì.» «Cinquemila vanno bene?» «Benissimo, Reggie.» «Che macchina hai comprato?» domandò la ragazza. Non era preoccupato che i soldi finissero. Sarebbero sicuramente durati finché non avesse fatto ciò che aveva ancora da fare. Il denaro dell'ipoteca sulla casa era sufficiente per farlo arrivare fino in fondo. A malapena, visto il modo in cui stava spendendo, ma era proprio questo il punto, no? Correzioni. Riparazioni. Procurarsi da solo la vita che avrebbe dovuto avere fin dall'inizio. Andarsene in giro in campagna con una rossa diciannovenne a bordo di una Jaguar decappottabile. Era sostanzialmente di questo che si trattava, no? L'espressione sul viso di Alicia quando le aveva chiesto: "Ti ricordi di me? Di Chuck?". Oh, Gesù, ne era valsa la pena solo per quell'espressione, era stato quasi sul punto di farla finita lì! Quell'impagabile espressione di consapevolezza un istante prima che lui le sparasse. Consapevolezza, e poi dolore. I proiettili che centravano il bersaglio. Un dolore più tremendo di quello che provava lui, immaginava. Sperava. E Alicia aveva saputo. Avrebbero saputo tutti, perché lui avrebbe fatto in modo che fosse così. Salve, ti ricordi di me? È da tanto che non ci vediamo, eh? L'erba cattiva
non muore mai, giusto? Be', addio, è stato bello conoscerti! E bam! Perfetto. L'indomani era giorno di scuola, perciò la festa a sorpresa per il compleanno dei gemelli si era svolta nel pomeriggio e per le otto di sera di quel martedì tutti e due erano già tornati a casa. Alle nove e mezzo, quando Carella rientrò, April stava chiacchierando con Teddy in soggiorno, le mani che si muovevano nell'aria in modo che la madre potesse leggere le parole. Rossetto. Tacchi alti. Minigonna. Già tredici anni. Steve gridò: «Salve a tutti!», si avvicinò alla moglie e alla figlia sedute sotto la lampada imitazione Tiffany, a gesti disse Ciao, tesoro, baciò Teddy, diede un bacio ad April e domandò: «Com'è andata la festa?». «Fortissima» rispose April. «Lo stavo giusto dicendo alla mamma.» «Dov'è Mark?» chiese Carella. «In camera sua» spiegò April. «Va tutto bene?» Teddy roteò discretamente gli occhi. Gli sguardi di marito e moglie si incontrarono. Comunicarono. «Vado a salutarlo» disse Steve. «A che ora si cena?» «Io e Mark abbiamo già mangiato alla festa» spiegò April. Mark e io, la corresse Teddy a segni. «Hai mangiato alla festa anche tu?» fece April, che poi ripeté la domanda a gesti, nel caso a sua madre fosse sfuggita la battuta. Teddy mimò ah, ah con le labbra. Carella stava già percorrendo il corridoio per andare in camera di suo figlio. Mark era disteso sul letto con le mani dietro la testa e fissava il soffitto. Niente musica a tutto volume. Niente televisore acceso. Fece un po' di posto a suo padre e si mise a sedere quando Carella si accomodò nello spazio libero. «Cosa c'è?» gli domandò Steve. Mark si strinse nelle spalle. «È dura essere un adolescente, vero?» considerò Carella, e passò un braccio intorno alle spalle del figlio. «Papà...» «Dimmi.» «Sai chi ho sempre pensato che fosse il mio migliore amico?» «Chi?»
«April. È la mia gemella! Insomma, abbiamo diviso la stessa pancia... scusa, è una battuta vecchia di dodici anni, adesso ne ho tredici, devo smetterla di comportarmi come uno stupido poppante!» E improvvisamente scoppiò a piangere. Seppellì la faccia nella spalla di suo padre. «Cos'è successo, Mark?» «Ha dato dei poppanti a me e ai miei amici!» «Chi?» «Lorraine Pierce. La ragazza che ha organizzato la festa. È perché molti di noi sono più bassi delle ragazze e ci sta cominciando a cambiare la voce, ma questo non è un buon motivo per prenderci in giro. Anche noi abbiamo tredici anni. E anche noi abbiamo il diritto di crescere!» «Questo cos'ha a che fare con tua sorella?» «April l'ha lasciata fare! Si è messa a ridere con tutte le sue amiche e i ragazzi più grandi. Mia sorella! La mia gemella!» «Le parlerò io.» «No, lascia perdere, per favore. Volevano solo mettersi in mostra.» Mark si asciugò gli occhi. Steve continuò a studiarlo. «Cos'altro c'è?» «Niente.» «Dimmi cos'altro c'è.» «Papà... io credo che abbia una cattiva influenza.» «Chi?» «Lorraine Pierce. La migliore amica di April.» «Perché ha dato dei poppanti a te e ai tuoi amici?» «No. Perché...» Mark scosse la testa. «Non importa. Non voglio fare la spia.» «Non c'è niente di sbagliato nelle spie. Perché questa Lorraine avrebbe una cattiva influenza?» «Tanto per cominciare, so che ruba nei negozi.» All'improvviso Carella era tutt'orecchi. «Come fai a saperlo?» «Me l'ha raccontato April.» «E lei come fa a saperlo?» «Erano insieme in un supermercato e Lorraine ha rubato uno smalto per le unghie.» «Quando è successo?» «Due, tre settimane fa.»
«Raccontami tutto» disse Carella, e si alzò per chiudere la porta. Quando Steve rientrò in soggiorno, April era già andata in camera sua, in fondo al corridoio. Teddy era ancora seduta sotto la finta Tiffany e leggeva con le mani in grembo, i capelli neri splendenti sotto la luce. Chiuse subito il libro. Mark ti ha detto qualcosa?, domandò a segni. «Un sacco di cose.» Secondo quanto gli aveva raccontato... Verso l'inizio del mese, un sabato pomeriggio, April era andata al cinema con la sua cara amica Lorraine Pierce. Tornando a casa, si erano fermate in un supermercato e, mentre stava sfogliando una copia della rivista "People", April aveva visto Lorraine che faceva scivolare nella borsetta uno smalto per le unghie. All'inizio non riusciva a credere ai suoi occhi: Lorraine che lanciava una rapida occhiata alla cassiera e poi faceva abilmente cadere lo smalto dentro la borsa... "Lorraine!" aveva sibilato April. Lorraine si era voltata. Occhi azzurri sgranati e innocenti. "Rimettilo a posto" aveva sussurrato April. "A posto che cosa?" April aveva guardato la cassiera, che stava battendo lo scontrino di una donna grassa in un abito a fiori. Si era spostata in modo da nascondere Lorraine alla vista della cassiera e aveva ribadito: "Rimettilo a posto. Subito". "Non essere ridicola" aveva detto Lorraine, ed era uscita dal negozio. Fuori, sul marciapiede, April l'aveva presa per un braccio e costretta a fermarsi. "Mio padre fa il poliziotto!" "È solo uno stupido smalto per le unghie." "Ma tu l'hai rubato!" "Compro sempre un mucchio di roba in quel posto." "E questo cosa c'entra?" "Pagherò appena mi daranno la paglietta." "Lorraine, tu hai rubato quello smalto." "Non essere così cacasotto" aveva risposto dura Lorraine. Stavano camminando a passo veloce, allontanandosi dal supermercato. April si sentiva come se avessero appena svaligiato una banca. I pedoni che passavano, il caldo di giugno denso come nebbia gialla. Lo smalto ru-
bato, il bottino, in fondo alla borsa di Lorraine. "Dammelo, lo riporto indietro" aveva detto April. "No!" "Lorraine..." "Sei mia complice" aveva dichiarato Lorraine. Teddy osservò le labbra di suo marito, le sue dita che volavano. Alla fine annuì. Avrebbero potuto finire tutt'e due in guai seri. «È quello che le ha spiegato Mark.» E April cos'ha risposto? «È meglio che tu non lo sappia.» Invece sì. «Ha ripetuto quello che le aveva detto Lorraine: "Non essere così cacasotto".» April ha detto così? «Mi dispiace, tesoro.» April? Teddy rimase immobile per un momento. Poi sollevò di nuovo le mani e dichiarò: Dovrò parlare con lei. Quando il telefono sulla scrivania squillò, il tenente Byrnes pensò che fosse sua moglie Harriet che voleva sapere come mai non era ancora tornato a casa. Invece era il detective capo. «Volevo sapere come pensi che il dipartimento debba gestire questo caso» esordì il capo. «Da adesso in poi, voglio dire. I media stanno facendo un mucchio di chiasso con la storia del cieco. Eroe di guerra e tutte quelle stronzate.» «Sta andando bene» disse Byrnes. «Anzi, abbiamo appena effettuato un arresto per droga. È per questo che sono ancora qui.» «Cosa c'entra un arresto per droga con due omicidi?» «È una lunga storia» rispose Byrnes. «Sarà meglio che sia anche buona. Perché, ti confesso, credo che in questo momento abbiate troppa carne al fuoco...» «Possiamo occuparci di tutto senza problemi» assicurò Byrnes. «Il commissario pensa che sia bene mostrare un'attenzione speciale per questo caso. Ha detto esattamente così. Un eroe di guerra assassinato. Cieco, per di più.»
«L'87° è in grado di riservare a questo caso tutta l'attenzione speciale che richiede» dichiarò Byrnes. I due uomini stavano negoziando. Se il caso gli fosse stato tolto, i giornali avrebbero dipinto quelli dell'87° come degli incompetenti, incapaci di indagare su una faccenda così grossa. Per contro, se il detective capo avesse assegnato il caso in questione a un piccolo, sgangherato distretto di una zona sperduta della città, i media sarebbero stati in agguato come falchi in attesa del primo errore. «Il commissario vuole al lavoro anche un uomo delle forze speciali» disse finalmente il capo. «In che veste?» «Consigliere e supervisore.» «E dovrebbe lavorare fianco a fianco con i miei?» «Costantemente.» «No. I miei lo terranno aggiornato, ma non hanno bisogno di una balia.» «Quello delle forze speciali deve operare con loro.» «Ho detto di no.» «Possiamo chiamarla task force congiunta, quello che vuoi. I tuoi ragazzi e l'uomo delle forze speciali.» «E, giusto per curiosità, chi sarebbe?» domandò Byrnes, all'improvviso molto irlandese e molto testardo. «Georgie Fitzsimmons» rispose il capo. «Quell'idiota?» fece Byrnes. «Non lo lascerò andare in giro con i miei.» «Pete...» «Non cercare di convincermi, Lou. Non ci sto. Chiamala come ti pare, task force congiunta, task force speciale, ma tutto quello che faremo sarà un rapporto a Fitz a fine giornata, nient'altro.» «Da quanto tempo ci conosciamo, Pete?» «Troppo.» «Fammi questo favore.» «No. Stiamo lavorando. È tutto sotto controllo. Faremo rapporto a Fitz a fine giornata. L'accordo è questo.» «Sarà meglio che i tuoi producano qualche risultato.» «Ci stiamo lavorando, Lou. Abbiamo appena fatto un dannatissimo arresto per droga!» «Presto» ammonì il capo. «Ci stiamo lavorando» ripeté Byrnes.
4 C'erano circa quattromila saloni di manicure sparsi in tutta la città. La maggior parte occupava piccoli, modesti locali con luci fluorescenti in edifici senza ascensore, altri erano più lussuosi, con lampadari a bracci, capitelli scolpiti, divani in seta damascata e addirittura finestre con vetrate istoriate. Un decimo della popolazione coreana della città lavorava in quei saloni, circa cinquantamila persone, per lo più donne. Se una era particolarmente solerte, poteva guadagnare fino a cento dollari al giorno, più le mance, facendo manicure, pedicure e, nei saloni più eleganti, trattamenti al tè verde, massaggi ai piedi o applicazioni di unghie finte. Inoltre, invece di dover stare tutto il giorno in piedi in un Dunkin' Donuts o in una fabbrica, in quei saloni una ragazza poteva lavorare standosene seduta. Di sicuro meglio che arrancare in una risaia. La proprietaria e direttrice del Lotus Blossom Nails era passata "dalle stalle alle stelle", come si suol dire, e non era affatto riluttante a raccontare la sua storia. Simile alla maitresse di un bordello in un film anni Quaranta ambientato a Shanghai, loquace e chiacchierona, Jenny Cho - era questo il suo nome americanizzato - spiegò ai due detective che aveva aperto il suo primo salone quindici anni prima con un investimento iniziale di trentamila dollari, dopo aver seguito un corso di dieci settimane e aver ottenuto un diploma di manicure. Prima di allora si tagliava le unghie, se le limava e si dava lo smalto a casa sua... «Lagazze coleane unghie molto folti» spiegò. «No bisogno saloni manicule. Facciamo da sole.» ... e adesso era proprietaria di una catena di sei saloni sparsi per la città, tutti con la parola blossom, bocciolo, nel nome. Prima di chiamarsi Jenny, il suo nome coreano era Yon, che significa "bocciolo di fiore di loto". I detective ascoltarono educatamente. Alle dieci di quel mercoledì mattina il salone era pieno di donne. Sedute su alte poltrone di pelle nera, leggevano riviste mentre tenevano i piedi a bagno in catini pieni d'acqua o si facevano smaltare le unghie oppure aspettavano che lo smalto si asciugasse. Una delle donne con i piedi a mollo sedeva con la gonna alzata fin quasi all'inguine. Parker cercava di non guardare. «Chi celcate?» domandò Jenny. «Lei conosce una donna di nome Alicia Hendricks?» le chiese Parker. «Della Beauty Plus?»
«Lustre Nails?» «Oh, celto» rispose Jenny. «Viene spessissimo a tlovale noi. Biava lagazza. Sta bene?» «È morta» disse Parker. Lo sguardo di Jenny si spostò immediatamente. Solo di pochissimo, come se la luce fosse cambiata, un movimento impercettibile. Ma loro erano due detective ed era quella la ragione per cui erano andati sul posto di persona e non si erano limitati a telefonare. Entrambi notarono quel guizzo ed entrambi si resero conto che forse erano sulla pista giusta. Jenny non era un'idiota. Si accorse che i detective se n'erano accorti. Lesse nei loro occhi la consapevolezza di ciò che avevano letto nei suoi. «Mi dispiace moltissimo» commentò, e chinò la testa. I due poliziotti le concessero un momento di dolore, autentico o meno. «Quando l'ha vista per l'ultima volta?» le domandò Parker. «Due, tle settimane fa. Ela passata pel mostlale la nuova linea. Cosa le è successo?» La sua voce sembrava sinceramente preoccupata. «Qualcuno le ha sparato.» «Pelché?» Diccelo tu, pensò Parker. «Da quanto tempo la conosceva?» chiese Genero. «Oh, folse due anni. Tle, magali.» «Lei sapeva che Alicia faceva uso di droga?» Chiaro e tondo. Certo, messa così Alicia sembrava una specie di tossica disperata, ma che diavolo: di sicuro la domanda ebbe tutta l'attenzione di Jenny Cho. La parola "droga" le balenò negli occhi castani come un lampo di calore. Sapeva che Alicia si faceva. Si divertiva. Sperimentava. Quello che era. Comunque, lo sapeva. E non voleva entrarci. L'allarme le lampeggiò negli occhi, i due detective la sentirono quasi ritrarsi fisicamente da quella parola. Droga. Ritrarsi da quella consapevolezza. Ma Jenny Cho era furba. «Sì, ma non molto» rispose. «Giusto un poco d'elba, capito?» «Ah-ah» fece Parker. «Ha idea di dove se la procurasse?» chiese Genero. «Se andate in An'lews Boul'vald, la tlovate dappeltutto. Lungo tutta la stlada, ovunque.»
«Ah-ah» fece di nuovo Parker. «Anche altle dloghe» aggiunse Jenny. «Ogni tipo di loba pesante.» «Lei pensa che Alicia facesse uso anche di droghe più pesanti?» «No» ribadì Jenny. «No, no. Lei biava lagazza. Solo un poco d'elba ogni tanto. Niente altlo.» I detective non replicarono. «Pelché? Pensate che l'hanno uccisa pel quello?» domandò la donna. «Forse» disse Parker, e si strinse nelle spalle. «Lei cosa pensa?» chiese Genero. «Io penso mi dispiace tanto che Alicia è molta» rispose Jenny. «Allora, parlami di te» esordì Reggie. La capote della Jaguar era abbassata. Stavano viaggiando lungo silenziose strade secondarie, i capelli rossi della ragazza gonfiati dal vento. Charles si era comprato un berretto di Gucci che gli era costato quattrocento dollari; di pelle marrone, morbido come il culetto di un neonato, lo portava inclinato spavaldamente sopra un occhio. Gli mancava soltanto un paio di occhialoni scuri per sembrare una specie di playboy italiano. «Cosa vuoi sapere?» domandò. Reggie indossava una T-shirt bianca e una mini verde. Si era tolta i sandali senza tacco e adesso se ne stava appoggiata allo schienale con le ginocchia piegate, le piante dei piedi premute contro il vano portaoggetti. La radio era sintonizzata su una stazione di musica leggera, a volume alto per sovrastare il rumore del vento. Era una bella giornata luminosa e Reggie era una bella ragazza luminosa. Charles si era quasi scordato che era una puttana. «Be', per esempio» iniziò Reggie «che lavoro fai?» «Sono in pensione.» «Che lavoro facevi?» «Mi occupavo di vendite.» «Questo quando?» «Ho smesso di lavorare pochissimo tempo fa.» «Perché?» «Mi ero stancato.» Reggie annuì e si scostò i capelli dagli occhi. «E da allora cosa fai?» «Mi diverto.» «Da quanto tempo?»
«Qualche mese.» «Te lo puoi permettere?» «Oh, sì.» «Be', immagino di sì» fece Reggie, che ridacchiò e spalancò le braccia per indicare l'auto. La musica che usciva dagli altoparlanti vorticava intorno a loro. «Quanti anni hai?» domandò la ragazza. «Cinquantotto.» «Accidenti, nessuna esitazione.» «Qualche problema?» «No, mi piace. Significa essere sinceri.» «O stupidi.» «Cinquantotto. Sembri più giovane. Forse è per via della testa rasata. Da quanto tempo te la radi?» «Qualche mese.» «Mi piace. Molto trendy.» «Grazie.» «Dovresti mettere un orecchino.» «Tu credi?» «All'orecchio destro. A sinistra è un segnale per i gay.» «Non lo sapevo.» «È così.» La musica roteava intorno all'auto restando sospesa nella scia alle loro spalle. «Mi sto divertendo» disse Reggie. «Ne sono felice.» «Dovrei essere io a pagare te» continuò la ragazza. Poi aggiunse subito: «Non farti venire strane idee!». Scoppiarono a ridere tutti e due. Huntsville, Texas, si trova più o meno centodieci chilometri a nord di Houston e duecentosettanta chilometri a sud di Dallas. A Huntsville ci sono otto carceri che ospitano un totale di circa quindicimila detenuti: non per niente è famosa come la "città prigione" del Texas. Questo significa che un abitante su tre o quattro è un galeotto. E questo significa anche che il dipartimento della Giustizia del Texas è il principale datore di lavoro della città: solo il due per cento della popolazione di Huntsville è disoccupato.
In base ai dati del carcere di Walker County Alvin Randolph Dalton era stato rilasciato in libertà vigilata quasi vent'anni prima e in seguito gli era stato concesso di lasciare lo stato. Dai registri dell'ufficio Libertà vigilata della città risultava che l'uomo aveva sempre mostrato un grande rispetto delle regole, e avendo saldato completamente il suo debito nei confronti della società adesso era libero di andare ovunque volesse e di fare ciò che desiderava, purché nei limiti della legge. Ma non essendo più obbligato a presentarsi a rapporto da qualcuno, la sua residenza rimase un mistero finché i detective non controllarono l'elenco telefonico e trovarono un A.R. Dalton in Inverness Boulevard, a Majesta. Una telefonata confermò che si trattava dell'uomo che cercavano. Parker lo pregò di aspettarli in casa. «Cosa volete?» chiese Dalton. La stessa domanda di Hendricks a Castleview. «Lei ci aspetti» disse Parker. Secondo il fascicolo del carcere di Walker County, Dalton aveva cinquantasette anni. Decisamente in forma, con tatuaggi da galeotto su tutti i muscoli gonfi, completamente calvo e con un orecchino all'orecchio destro, accolse i due detective in canotta e jeans neri e precisò subito che il mercoledì era il suo giorno libero. Lavorava come autista di limousine per la Intercity Transport, per lo più si trattava di viaggi da e per l'aeroporto, ma a volte anche di gite ai casinò nel Nord dello stato o sull'altra sponda del fiume. «Allora, di cosa si tratta?» chiese. «Sua moglie è stata uccisa» domandò Genero. «Io non ho una moglie.» «La sua ex moglie. Alicia Hendricks.» «Già. Lei. Peccato. Ma cos'ha a che fare con me? Non la vedevo da quasi quindici anni.» «Non aveva più contatti con lei, è così?» Dalton li guardò. «Cosa volete?» domandò di nuovo. «Routine» rispose Genero. «Stronzate» disse Dalton. «Vi ritrovate per le mani una donna assassinata con un ex marito che è stato dentro e drizzate subito le orecchie. Be', amici, io sono pulito da quasi vent'anni ormai, ho un ottimo impiego e sono un cittadino rispettabile di questa bella città. Non riconoscerei Alicia
neanche se ci inciampassi sopra, viva o morta. Siete fuori strada.» «Da quanto tempo è calvo?» chiese Parker. «Perché? È stato un calvo a farla fuori?» «Da quanto tempo?» «Ho cominciato a perdere i capelli in galera. Prima che mi arrestassero, quando abitavo a D-Town, li portavo lunghi come un hippy. E poi, tutt'a un tratto, ecco che divento un detenuto bianco con la testa calva: i neri mi hanno appiccicato subito l'etichetta del razzista e mi hanno reso la vita un inferno.» «Quando ha visto Alicia per l'ultima volta?» «Parliamo di quasi quindici anni fa, cioè di quando abbiamo divorziato. Di quando Johnny Carson chiudeva il Tonight Show. Dei tempi dell'invasione del Kuwait. Della prima guerra del Golfo. Di storia antica, amico!» «Alicia si faceva anche allora?» «E chi ha detto che si faceva?» «È per questo che lei è stato arrestato, no? Un reato di droga.» «Ho imparato la lezione.» «Alicia si faceva, sì o no?» «Niente di serio.» «Niente di serio tipo cosa?» «Un po' d'erba ogni tanto.» «E lei?» «Stessa cosa. La marijuana non ha mai fatto male a nessuno.» «Davvero?» «La marijuana è la droga più diffusa negli Stati Uniti.» «Ci spieghi meglio, professore.» «Oltre ottantatré milioni di americani di età superiore ai dodici anni hanno provato la marijuana almeno una volta.» «Compresa Alicia, giusto?» «Sai che novità.» «Era mai passata a roba più pesante?» «Non che io sappia. Comunque, non mentre eravamo sposati.» «E dopo che vi siete separati?» chiese Genero. «Lei è sicuro che non sia passata a droghe pesanti?» «È una domanda trabocchetto, Sherlock? Vi ho detto che non l'ho più vista dopo il divorzio. Perché? Pensate che sia stato uno spacciatore a farla fuori?» «Sappiamo che frequentava cattive compagnie.»
«Non quando stava con me.» «Quindi, quando stava con lei, vi limitavate a farvi una canna ogni tanto, giusto?» «Non facevamo solo quello.» «Due spensierati figli dei fiori...» «Non sminuisca troppo il nostro matrimonio» ammonì Dalton. «Sotto molti punti di vista è stato un buon matrimonio.» «E sotto quali punti di vista è stato cattivo?» «Perché avete divorziato?» Dalton esitò. «Allora?» lo sollecitò Parker. «Se la faceva con altri.» «Quelle non erano cattive compagnie, vero?» «Erano le compagnie che si era scelta. Questo non significava che dovessi accettare la cosa.» «Lei dove si trovava venerdì scorso verso le venti?» «Alibi a prova di bomba» disse Dalton. «Sentiamo.» «Guidavo un pulmino diretto a un casinò indiano nel Nord.» «Immagino che lei abbia dei testim...» «Ne ho sei. Tutti pezzi grossi. Controllate pure.» Il cameriere ebbe il buon gusto di non chiedere un documento a Reggie. Poi però rovinò tutto dicendo: «Immagino che sua figlia abbia ventun anni». «Sì» rispose Charles. Il cameriere annuì e si allontanò. «Ti ha dato fastidio?» domandò Reggie. «Un po'.» «Quando torna, ti bacio sulla bocca.» «Non è necessario.» «Ti rendi conto che in Iraq ci sono ragazzi che muoiono e che qui non potrebbero bere alcolici?» «Era così anche quando ero ragazzo io. Ne discutevamo sempre. Essere nell'esercito e non poter ordinare alcolici.» «Che guerra era?» «Vietnam.» «Hai combattuto in Vietnam?»
«Oh, sì.» «Wow!» esclamò Reggie. «Sembra un secolo fa.» «Anche a me.» «Tu sei di qui? Non intendo dire di questo stato: parlo della città» e con un movimento della testa ne indicò vagamente la direzione. «Sì.» «Io sono nata e cresciuta a Denver.» «Ho sempre desiderato andare nell'Ovest.» «Magari prima o poi possiamo andarci insieme.» «Be'... magari. Sì.» «Non ti piacerebbe?» «Ecco qua» disse il cameriere, posando i bicchieri sul tavolo. «Volete sapere subito quali sono i piatti del giorno o preferite finire i drink?» «Ci dia qualche minuto» fece Charles. «Fate pure» rispose il cameriere, e si allontanò di nuovo. «E così sei stato nell'esercito, eh?» «Già.» «Hai preso parte a qualche azione?» «Sì.» «Quando sei stato congedato?» «Nel 1970.» «Io non ero ancora nata!» «Ssh. Il cameriere ti può sentire.» «Che vada affanculo» sentenziò Reggie. «Adesso ti bacio in bocca.» E si piegò sul tavolo, gli prese il viso tra le mani e lo baciò con la bocca aperta. Dunque, tutti i saloni di Jenny Cho avevano la parola blossom nel nome. Plum Blossom - dove stavano andando adesso i detective - Peony Blossom, Pear Blossom, Cherry Blossom, Apricot Blossom, nonché la casa madre gestita da Jenny in persona, il Lotus Blossom. Sarebbe stato molto più semplice telefonare a ogni salone e chiedere di Alicia Hendricks. Ma Parker e Genero stavano ancora seguendo la pista "collegata alla droga" e volevano scoprire se il fornitore della vittima, sempre che esistesse, era uno che Alicia incontrava regolarmente nel corso delle sue visite programmate. E comunque non è possibile valutare le reazioni di una persona al telefono, ed è per questo che è stato inventato il lavoro di gambe. Ed è per questo che occorre tanto tempo per ricostruire la storia di una persona.
Nel lavoro di polizia, tutti hanno una storia. Quella di Alicia era stata una storia di droga? Riuscire a ricostruire con precisione la storia è spesso la chiave per risolvere un caso. La prima cosa che il direttore del Plum Blossom Nails disse a Parker fu: «Pedicue dieci dolla estla». Stava indicando le scarpe di Parker. I due detective avevano a malapena messo piede nel locale e quel tizio chiedeva a Parker dieci dollari extra. Il detective si guardò i piedi. «Non voglio una pedicure.» «Manicue stesso plezzo» proseguì il direttore. «Ma pedicue dieci dolla estla.» «Non voglio neppure una manicure» precisò Parker. «Perché poi dieci dollari extra per la pedicure?» Stava pensando di arrestare quel piccolo muso giallo pelato per frode in commercio o roba del genere. «Tu maschio» spiegò il direttore. «Piedi glandi.» «Però lei risparmierebbe lo smalto» obiettò Parker. «Piedi glandi» ribadì l'uomo, scuotendo la testa. «Dieci dolla estla.» «Questo è sessismo» dichiarò Genero. «Esatto» concordò Parker. «Se questo fosse il negozio di un barbiere e a una donna chiedessero dieci dollari extra per la pedicure, la signora si farebbe venire un attacco isterico. Ho ragione, signore?» domandò, rivolgendosi adesso a tutto il pubblico nella speranza di un po' di sostegno femminile. «Giusto, fratello» gridò una delle clienti, alzando il pugno chiuso. Le altre continuarono a leggere le loro riviste. «Mi viene voglia di farmi fare la pedicure giusto per dispetto» affermò Parker. «Per farne un caso simbolo.» «Celto» disse il direttore. «Pelò dieci dolla estla.» «È lei che comanda qui?» chiese Genero, e mostrò il distintivo. «Pelché, cosa successo?» «Stiamo indagando su un assassinio» rispose Parker, usando la parola "assassinio" invece di "omicidio", che probabilmente in Corea neppure capivano. Facciamo cagare sotto il muso giallo, stava pensando. Dieci dollari extra per una pedicure del cazzo! «Il nome Alicia Hendricks le dice qualcosa?» Il direttore lo guardò inespressivo. Però adesso era spaventato. C'era terrore nei suoi occhi. Be', certo, un'indagine su un assassinio...
«Lavora per la Beauty Plus» specificò Genero. «Lustre Nails» aggiunse Parker. «Veniva qui a vendere smalti colorati, indurenti per unghie, scioglicuticole, prodotti del genere. Faceva la rappresentante.» «Le dice qualcosa?» Il direttore stava scuotendo la testa. «Stiamo cercando di ricostruire la storia.» «Di scoprire chi poteva volerla morta.» «Se la ricorda?» La piccola testa calva si stava scuotendo. Occhi spalancati per la paura. Be', un assassinio... «Lei non è nei guai» gli assicurò Genero. «Stiamo facendo solo un controllo di routine.» «Alicia Hendricks» ripeté Parker. «No, niente» rispose il direttore, scuotendo di nuovo la testa. «No. Qui lavola solo lagazze coleane.» In auto, mentre puntavano verso il Pear Blossom Nails, Parker domandò: «Chi ha mai detto che lavorava là? Qualcuno gli ha detto che lavorava là?». «No, gli abbiamo detto che faceva la rappresentante.» «E chi ha detto che non era coreana?» «Cosa intendi?» «Qualcuno ha detto che Alicia Hendricks non era coreana?» «Be', no, ma il nome...» «Quelli prendono tutti nomi americani. Se chiedi alle ragazze coreane che lavorano là dentro come si chiamano, ti rispondono Mary, Terry, Kelly, Katie o quello che ti pare. Quindi perché Alicia non poteva essere coreana?» «Hendricks. Non è un cognome coreano.» «Poteva essere sposata con un americano. Una bella ragazza coreana sposata con un americano, perché no? Quello che voglio dire è: perché quel piccolo pelato giallo ha pensato che Alicia non fosse coreana? Dieci dollari extra, ti rendi conto?» «Tu sei convinto che la conoscesse, è così?» «Naturale che la conosceva! Andava continuamente in quel salone per vendere i suoi smalti, lo frequentava con regolarità, come la rappresentante della Clairol o della Revlon, e all'improvviso lui non ne ha mai sentito par-
lare! E ci dice che là dentro tutte le ragazze sono coreane, quando nessuno ha mai accennato al fatto che la Hendricks non fosse coreana!» «Pensi che stia nascondendo qualcosa?» «Sarà meglio per lui che non sia così» rispose Parker. Dato che non poteva guidare e allo stesso tempo parlare a segni, Teddy parcheggiò l'auto davanti a uno Starbucks lungo la strada e discusse con sua figlia davanti a due bicchieri di latte. Era mercoledì pomeriggio, dopo la lezione di danza classica di April, che era sudata e appiccicosa e non si aspettava un'imboscata. «Chi te l'ha detto?» domandò subito. Mark, rispose Teddy. «Io lo uccido!» No, tu non uccidi nessuno. Tuo fratello ha fatto la cosa giusta. Erano sedute quasi ginocchio contro ginocchio, madre e figlia, l'una di fronte all'altra, l'una molto somigliante all'altra. Il latte di Teddy era nel portatazza, April lo teneva nella mano destra. Perché non me l'hai detto tu? April non rispose. April? «Non potevo raccontarlo a nessuno, mamma. È questo il punto. Né a te e neppure a Mark, all'inizio. E posso solo immaginare quale sarebbe stata la reazione di papà, se avessi buttato lì casualmente che Lorraine Pierce aveva rubato uno smalto rosso Revlon numero 34 da cinque dollari al supermercato! Mister Moralità in persona? Avrebbe tirato fuori le manette!» Non avrebbe fatto niente del genere! E tu lo sai! «Be', non ne ero sicura. E poi c'è un'altra cosa... Lorraine è la mia migliore amica. A scuola sediamo nello stesso banco a tutte le lezioni, passiamo il tempo libero insieme, facciamo tutto insieme, parliamo di cose, cose segrete... siamo come sorelle, capisci? È stato più o meno come se mi avesse detto: "Lascia perdere quella stronzata, scimmia, cos'è in fin dei conti un piccolo smalto tra amiche?".» Teddy non fece commenti sul linguaggio della figlia. O sul fatto che qualcuno la chiamasse "scimmia". «Era una situazione difficile, mamma» continuò April. «Sul serio.» Voglio che tu mi prometta una cosa, pretese Teddy. «Mamma, per favore non chiedermi di non frequentare più Lorraine.» No, non lo farò. Ma se dovesse succedere ancora una cosa del genere...
«Prometto» disse April. Lo racconterai immediatamente a tuo padre o a me. «Sì, lo prometto» ripeté April. La notizia si era sparsa. Su questo non c'erano dubbi. Se la reazione al Plum Blossom era stata solo un'avvisaglia, le risposte al Pear Blossom e poi all'Apricot Blossom furono chiare indicazioni che nessuno avrebbe detto molto su Alicia Hendricks ai due detective. Non era esattamente il muro di pietra contro cui si andava sempre a sbattere nel territorio dell'87°, o anche a Washington, se era per quello: i direttori dei vari Blossom non potevano certo negare l'esistenza di una donna che passava regolarmente da loro per promuovere e vendere la linea di prodotti per unghie della Beauty Plus. Anzi, tutti quanti annuivano, si inchinavano e sorridevano in quel loro modo orientale: oh, sì, conosciamo Alicia, sì, è una lagazza molto simpatica, viene spesso qui, compiiamo molti smalti da lei, oh, è molta? Come ci dispiace. Una biava lagazza. Ma bastava un accenno alla droga... Confortati dall'arresto per droga di La Paglia del giorno prima, i detective stavano ancora sondando il collegamento con il mondo degli stupefacenti... ... e le facce diventavano immediatamente inespressive. La droga era una novità per loro. Tranne che per Jenny Cho, naturalmente, la quale aveva ammesso che Alicia si faceva "giusto un poco d'elba, capito?". Ma questo era successo a inizio giornata e adesso era adesso e la notizia si era diffusa. La linea del partito era cambiata. Uso di droghe? Alicia? No, no. Sorridendo. Inchinandosi. Con le clienti che alzavano gli occhi non appena i detective menzionavano la parola "droga". Una cosa del genere non faceva certo bene agli affari, tutte quelle belle signore eleganti con le loro gambe lisce e le gonne tirate su sulle cosce che sentivano la parola "droga", neanche si fossero trovate a un angolo di strada vicino a un parco e non in un rispettabile esercizio commerciale dove ci si poteva far fare una ceretta da bikini. Dove andremo a finire? In un vicolo cieco. Finché i detective non arrivarono al Cherry Blossom Nails.
Nel momento stesso in cui varcarono la porta d'ingresso, si resero conto che non avrebbero dovuto trovarsi lì, né vedere quello che stava succedendo, qualsiasi cosa fosse. C'era quel silenzioso ronzio elettrico che indicava che stava accadendo qualcosa di illegale. Occhi che saettavano. Persone sorprese a metà di un movimento, anche se all'apparenza sembravano solo innocenti manicure e pedicure. Esibirono contemporaneamente i distintivi e marciarono dritti verso il retro del negozio. La direttrice li rincorse agitando le braccia in aria, urlando che là dentro stavano facendo una ceretta, ma poi si voltò di colpo e si affrettò verso l'ingresso del negozio quando vide che i detective stavano per aprire una delle due porte chiuse che davano sullo stretto corridoio. Genero si lanciò all'inseguimento della donna. Parker spalancò la porta. Un ometto asiatico sedeva dietro un tavolino sul quale troneggiava quello che sembrava un mattoncino di coca da un chilo. Guarda guarda! Tornando verso la città, le disse quali erano i programmi per la serata. «Devo fare una commissione» la informò. «Possiamo cenare prima o dopo, scegli tu.» «Che genere di commissione?» «Devo vedere una persona.» «Io non ho ancora fame, e tu?» «Neppure io.» «Allora perché non ceniamo tardi?» «Bene. Puoi aspettarmi in hotel.» «A che ora esci?» «Verso le sette.» «Farò un pisolino.» «Okay» replicò Charles. «A che ora tornerai?» «Verso le otto, otto e mezzo.» «Andremo a cena fuori?» «Assolutamente sì. Per festeggiare.» «Ah, sì? E cosa?» «Noi due» rispose Charles. Jenny Cho disse che Alicia era stata soltanto un "molo".
I detective non capivano cosa intendesse. Jenny Cho stava cercando di spiegare che nessuno avrebbe ucciso Alicia per il suo ruolo marginale in quella che era, sostanzialmente, un'operazione da due soldi. «Ela solo un molo» insisteva Jenny. Finalmente i poliziotti capirono che la donna stava dicendo che Alicia era stata "solo un mulo", ma non uno di quelli che inghiottono stupefacenti confezionati in capsule di latex per contrabbandarli attraverso la dogana... non quel tipo di mulo. E neppure di quelli che s'infilano la droga confezionata allo stesso modo nella vagina o nell'ano. Alicia era stata solo un semplice fattorino, o meglio fattorina, dato che era una donna di cinquantasette anni, anche se Jenny Cho la definiva un "molo", un mulo. Jenny non intendeva rivelare ai poliziotti la fonte della coca che Alicia consegnava ai vari saloni Blossom nel corso delle sue visite regolarmente programmate. Jenny sapeva che nel ramo traffico o spaccio di droga c'erano cose peggiori dell'arresto e del carcere. Una persona troppo "chiacchierona" trovava spesso una fine prematura e improvvisa. Tuttavia, Jenny non riteneva che la morte di Alicia avesse qualcosa a che fare con la sua attività di corriere. Alicia era stata "solo lobetta". Un fattorino. Un molo. La stessa operazione di polizia era robetta. Qui non si trattava di French Connection e neppure di Pizza Connection, non si trattava di contrabbando negli Stati Uniti di miliardi di dollari in eroina o cocaina e di profitti illegali riciclati in molti modi diversi e in molti paesi diversi. Si trattava semplicemente di un'immigrata coreana, una donna che si era fatta da sé nel paese delle opportunità, una donna intraprendente che aveva trovato il sistema per guadagnare qualche dollaro extra distribuendo droga nei suoi negozi, il che, dopo tutto, per la clientela era più sicuro e comodo che doversela andare a comprare "in stlada, dappeltutto". L'arresto metteva fine alla sua storia di successo. Ma lasciava aperta la questione di chi aveva assassinato Alicia Hendricks e Max Sobolov. Le luci del campus distavano circa sei metri l'una dall'altra. Questo significava che c'era una pozza di luce sotto ogni lampione, poi un tratto di buio completo e quindi un'altra macchia di luce lungo il sentiero che, tra i vari edifici e le panchine, si snodava in direzione del marciapiede e della città di notte. Christine Langston aveva raccolto i compiti in classe che aveva assegna-
to a sorpresa durante la sua lezione delle quindici sui poeti romantici e ora stava lasciando il campus, cadenzando la propria andatura in base ai tratti bui e illuminati, facendone quasi un gioco, la cartella pesante che ondeggiava nella mano destra. Era oltre la sessantina, ma agile come una capra, come amava dire lei, e attenta a ogni sfumatura dei suoni del campus. Era metà giugno e le cicale si davano da fare alla grande, così come gli studenti - sospettava Christine - che si accoppiavano dietro ogni ciuffo d'erba. In lontananza vedeva le luci invitanti dei lampioni di Hall Avenue, dove sarebbe salita su un autobus che l'avrebbe portata al suo appartamento in centro in sedici minuti esatti. Mortimer sarebbe stato là ad aspettarla, gli aperitivi già pronti, la cena in caldo in cucina. Lei gli avrebbe raccontato la sua giornata, avrebbe ascoltato le storie atroci di lui sul mondo dell'editoria e poi avrebbero cenato, e magari dopo sarebbero andati a fare una passeggiata, camminando mano nella mano per le strade tranquille nei dintorni dell'appartamento in cui vivevano. E poi, ancora più tardi, avrebbero... «Professoressa Langston?» chiamò la voce. Christine era appena entrata nel cerchio di luce di un lampione. Socchiudendo gli occhi per vedere nel buio, domandò: «Chi è?». «Io. Chuck.» E le sparò due volte in faccia. 5 Mortimer Shea indossava un voluminoso cardigan con lo scollo a scialle. Stava fumando la pipa. Era calvo, a parte un alone di capelli intorno alle orecchie e sulla nuca. C'era un manoscritto sulla scrivania nel suo ufficio d'angolo alla Armitage Books. A Kling e a Brown quel posto ricordava molto i romanzi di Dickens, ma era anche vero che non erano mai entrati in una casa editrice prima di allora. La qualifica ufficiale di Shea era editor. Sulla scrivania c'erano anche due foto incorniciate. Una mostrava una ragazza dal viso piuttosto cavallino, l'altra una donna più anziana, ma sempre con il viso cavallino. I due detective ci misero un attimo a rendersi conto che non si trattava di madre e figlia, ma della stessa donna poco attraente in due diverse fasi della vita. «Christine» li informò Shea. «La foto a sinistra è di quand'era ancora al college. L'altra risale all'estate scorsa. Ma da tutt'e due le fotografie traspare lo stesso, vibrante amore per la vita.»
«Lei ha idea di chi potesse volerla morta?» chiese Brown. In piedi, grande, grosso, nero e accigliato, dava l'impressione di accusare Shea stesso del delitto. In realtà voleva semplicemente sapere se Christine Langston aveva dei nemici di cui Shea fosse a conoscenza. «In tutte le università ci sono gelosie e rivalità tra i vari dipartimenti» rispose l'uomo. «Ma dubito fortemente che uno dei colleghi di Christine possa avere fatto una cosa simile.» E cosa ci dici di te?, si domandò Kling. Sui settant'anni, Shea era ancora ben piazzato e aveva occhi limpidi e vivaci. Il portiere del suo palazzo aveva riferito ai detective che la signora - intendendo Christine - era andata a vivere con lui verso Natale. L'uomo aveva aggiunto che i due formavano una bella coppia. «Da quanto tempo la conosceva?» chiese Kling. «L'ho conosciuta quattro anni fa. Abbiamo pubblicato un suo libro. Mi sono occupato io dell'editing.» «Che tipo di libro?» «Un saggio su Byron.» Shea fece una pausa. «Sapete chi è?» «Sì» rispose Kling. «Rimarreste sorpresi se vi dicessi quante persone non hanno idea di chi fosse Byron. O Shakespeare, se è per questo. La settimana scorsa Christine aveva domandato ai suoi studenti se avevano mai sentito la frase: "Essere o non essere". Aveva chiesto ai ragazzi di indicare la fonte e di proseguire la citazione. Aveva otto studenti in classe. Secondo voi quali sono state le risposte?» I detective attesero. «Quattro su otto non hanno saputo identificare la fonte. Tre hanno risposto Amleto. L'ottavo ha risposto Romeo e Giulietta. Sei studenti non sono stati in grado di proseguire la citazione. Due hanno aggiunto soltanto: "Questo è il problema". Dopo la lezione, uno dei ragazzi ha detto a Christine che sarebbe stato molto più facile, se avesse proposto una citazione da un film. "Essere o non essere", ci pensate? È soltanto il più grande monologo in lingua inglese mai scritto per il palcoscenico!» Shea scosse la testa, scoraggiato. «Certe volte Christine tornava a casa e si metteva a piangere.» «Quando avete deciso di vivere insieme?» chiese Kling. «Be', quasi immediatamente. Cioè, avevamo ciascuno il proprio appartamento, ma di fatto vivevamo insieme. Christine si è trasferita da me solo verso Natale.»
«Quando l'ha vista viva per l'ultima volta, signor Shea?» domandò Brown. «Ieri mattina, quando è uscita per andare al lavoro. Abbiamo fatto colazione insieme e poi... se n'è andata.» «Lei cosa stava facendo ieri sera intorno alle venti?» chiese Kling. Per un momento Shea non rispose. Poi disse: «Questa è la scena in cui devo chiedere se sono sospettato?». «Questa non è una scena, signore» fece Kling. «Ero qui in ufficio. A lavorare proprio su questo manoscritto» spiegò Shea, picchiettando le pagine sul ripiano della scrivania. «Che è orribile, posso aggiungere.» «C'era qualcuno con lei?» «Diverse persone. Si lavora fino a tardi nell'editoria.» «Quello che intendeva dire il mio collega...» «Se qualcuno mi ha visto qui? Credo che a un certo punto sia passato da me Freddie Anders. Potete chiedergli conferma. Il suo ufficio è in fondo al corridoio.» «A che ora? A che ora è passato questo Anders?» «Penso che fossero le sei e mezzo, le sette.» «Qualcuno l'ha vista qui alle otto, signor Shea?» «Oh, santo cielo! Adesso viene la scena in cui chiedo se devo chiamare un avvocato, giusto?» «Non c'è bisogno di chiamare nessun avvocato» replicò Brown. «Sono domande che dobbiamo fare.» «Ne sono certo» rispose Shea. «Ma, tanto per chiarire la situazione, ieri sera me ne sono andato da qui non prima delle dieci. Quando sono arrivato a casa, c'era già la polizia e sono stato informato che qualcuno aveva sparato a Christine, uccidendola. Per vostra informazione, io l'amavo profondamente. In effetti, avevamo in programma di sposarci in autunno. Non avevo alcun motivo per ucciderla e non l'ho uccisa. E adesso, se non vi dispiace, gradirei che ve ne andaste.» «Grazie per il tempo che ci ha dedicato» disse Kling. Shea tornò al manoscritto sulla scrivania. «Sono sempre tutti innocenti» considerò Brown. «Nessuno ha mai fatto niente. Li pizzichi con un'accetta insanguinata in mano e loro ti dicono: "Quest'accetta non è mia, è di mio zio". Chissà come mai c'è tanta gente in galera, con tanti innocenti in giro.» «Pensi che Shea abbia mentito?» domandò Kling.
«No, penso che abbia detto la verità. Ma non aveva ragione di prendersela in quel modo. Noi dobbiamo farle, quelle maledette domande.» Il climatizzatore dell'auto non funzionava e i finestrini davanti e dietro erano completamente abbassati. Il rumore del traffico di mezzogiorno era assordante e impediva la conversazione. I due detective viaggiarono in silenzio nel caldo soffocante. «Artie» fece Kling dopo un po'. «Ho un problema.» Brown, al volante, si voltò verso di lui. Kling continuava a guardare fisso davanti a sé, attraverso il parabrezza. «Ho paura che Sharyn e io non torneremo più insieme.» Le ultime parole svanirono quasi nel rumore del traffico. Brown sembrava sempre accigliato, ma questa volta lo era davvero. Si voltò di nuovo verso Kling per un attimo, aggrottando la fronte in segno di rimprovero, o di incredulità. O forse era solo perché non era sicuro di avere sentito bene. «Pensavo che mi stesse tradendo» riprese Kling. «E così l'ho seguita.» «Amico, Sharyn non ti tradirebbe nemmeno tra un milione di anni.» «Lo so.» «E allora cos'accidenti hai in testa? Ti metti a pedinare la donna che ami?» «Lo so.» «A giocare a guardie e ladri con la donna che ami?» «Lo so.» «A che punto siete adesso? Come stanno le cose?» «Sharyn non vuole parlarmi. Dice che le ho fatto troppo male.» «Be', è vero! Se mai mi venisse in mente di seguire Caroline, lei mi farebbe finire in ospedale.» «Lo so.» Brown adesso stava scuotendo la testa. «Il grande detective... ma cos'hai al posto del cervello?» «Sharyn pensa... Artie, posso dirtelo?» «Come faccio a sapere quello che mi vuoi dire prima che tu lo dica?» All'improvviso Brown sembrava arrabbiato. Come se, tradendo la fiducia di Sharyn, Kling in qualche modo avesse tradito anche la sua. Qualcosa nella sua voce suonava come un avvertimento. Kling fu quasi sul punto di tacere. Poi fece un respiro profondo. «Sharyn pensa che non mi sono fidato di lei perché...» Brown si voltò a guardarlo. «Perché è nera» aggiunse Kling.
«È così?» domandò Brown. «È quella la ragione?» «Non credo.» «E allora perché invece lei lo crede?» «È quello che sto chiedendo a te.» «Esattamente cosa mi stai chiedendo, Bert? Mi stai chiedendo se una donna nera pensa che il suo compagno bianco, che l'ha pedinata, sia inconsciamente convinto che tutti i neri sono traditori, falsi e sleali?» «Be', no. Io...» «Io sono il tuo socio, Bert. Credi che sia un individuo falso, traditore e sleale?» «Andiamo, Artie!» «Allora cos'è che mi stai chiedendo?» «Ti sto chiedendo... non so cosa ti sto chiedendo.» «Non sono mai uscito con una donna bianca in vita mia» disse Brown. Kling annuì. «Gli unici bianchi che conosco davvero sono quelli della mia squadra. E mi fido di loro come se fossero miei fratelli.» All'interno dell'auto il calore continuava ad aumentare. Il rumore del traffico era sempre più assordante. «Tu mi stai chiedendo se funzionerà, vero? Mi stai chiedendo se tra un bianco e un nero funzionerà mai veramente? Be', io ti rispondo che non lo so. Stiamo parlando di secoli, Bert. Di troppi, maledetti secoli. Io comunque lo spero. Spero che tu trovi una soluzione. In ballo c'è di più che il tuo rapporto con Sharyn. Capisci quello che sto dicendo? C'è molto di più.» Annuì, lanciò un'altra occhiata al collega e poi riportò lo sguardo sulla strada e sul traffico, chinandosi sul volante, continuando ad annuire. Il professor Duncan Knowles indossava una cravatta a farfalla color porpora con un motivo a margheritine bianche. Dava l'impressione che potesse librarsi nell'aria da un momento all'altro. Camicia button-down color lavanda e abito di lino marrone, Knowles sedeva alla scrivania davanti alla finestra, con il sole di metà mattina che infiammava di un verde dorato il prato del campus. «Una cosa terribile» disse ai detective. «Terribile. Quello che è successo a Christine, naturalmente, ma terribile anche per il dipartimento e per la Baldwin.» Knowles era il preside del dipartimento d'Inglese della Baldwin University. Kling sperava che non stesse mettendo sullo stesso piano l'o-
micidio di Christine Langston e la reputazione dell'università. Chissà dove avrà trovato quella grande cravatta a farfalla, si chiedeva Brown. Una cravatta del genere starebbe bene anche a me. A Caroline piacerebbe una cravatta così? «Nel campus di una grande città» continuò Knowles «in un certo senso si mette in conto che capiti un disgraziato incidente come questo...» Disgraziato incidente, pensò Kling. «... ma qui alla Baldwin la sicurezza è eccellente. Non è mai successo niente del genere. Mai in tutta la nostra storia. Nessuno si è mai introdotto dall'esterno per commettere un crimine.» «Però qualcuno l'ha fatto» osservò Brown. «Ieri sera.» «Esattamente quello che intendo dire» riprese Knowles. «È terribile per la scuola. Basta dare un'occhiata qui.» Picchiò il palmo della mano aperta sui quotidiani del mattino sparsi sulla scrivania. «Christine è stata assassinata ieri sera e i giornali sono già in piena frenesia. Guardate questo titolo: "I nostri campus sono sicuri?". Un solo incidente...» Incidente, pensò Kling. «... e lo fanno sembrare un'epidemia.» «Quello che stiamo cercando di scoprire» spiegò Brown «è se c'è un collegamento tra l'omicidio di Christine e altri due casi su cui stiamo inda...» «Oh, sì, e non pensate che i giornali non stiano ricamando anche su questo. "Il killer della Glock!" Neanche fosse Jack lo Squartatore. Tre omicidi che per coincidenza...» «Noi non crediamo che si tratti di coincidenze» lo interruppe Brown. «Ci sono sicuramente migliaia di armi del genere in questa città...» «No, in tutti e tre gli omicidi è stata usata la stessa arma.» «Be', questo va al di là della mia comprensione» disse Knowles e spalancò le braccia come ali, rafforzando l'impressione che la sua enorme cravatta a farfalla fosse un'elica. Brown si stava ancora chiedendo dove l'avesse comprata. «Abbiamo i nomi delle altre vittime» comunicò Kling, estraendo il blocchetto degli appunti dalla tasca interna della giacca. «È improbabile che qualcuno di loro sia stato uno studente della professoressa...» «Perché dice così?» «Be'... per l'età, innanzi tutto.» Kling aveva aperto il blocchetto e lo stava consultando. «O forse la professoressa teneva anche corsi serali per adulti?» «No. Be', aveva un corso serale, sì. Ma si trattava di un seminario e gli
studenti erano comunque giovani. La professoressa Langston teneva tre lezioni la settimana di due ore ciascuna. Una sulla poesia moderna e due sui poeti romantici. Vale a dire Keats, Shelley, Wordsworth e Byron. Il corso era diviso in due parti.» «Per cui complessivamente la professoressa insegnava per sei ore la settimana.» «Sì, più il seminario, naturalmente. Altre due ore la settimana, otto ore in tutto.» «E questo seminario lo teneva di sera?» «Sì. Al giovedì, dalle sette alle nove. Su "Keats e l'influenza italiana". Nella sua aula o nel suo ufficio. Al seminario partecipava solo una mezza dozzina di studenti... sette o otto al massimo. Sicuramente non di più.» «Comunque era al giovedì sera, giusto?» «Sì.» «E come mai la professoressa Langston era al campus di mercoledì sera?» «Potevano esserci un sacco di ragioni. Forse stava preparando un piano di studi, o doveva correggere i compiti... o magari stava facendo delle ricerche in biblioteca. La biblioteca chiude alle nove.» «Che tipo di ricerche?» «So che stava scrivendo un saggio per il PMLA. Sull'influenza che la sorella aveva su Charles Lamb.» PMLA?, si chiese Kling. Premestruale qualcosa? «Sapete, era molto malata. Mary, la sorella. In un attacco di follia arrivò addirittura a uccidere la madre.» Brown inarcò le sopracciglia. Lo stesso fece Kling. «Oh, sì» continuò Knowles. «Lamb dovette ricoverarla in un ospedale psichiatrico privato. Be', anche lui comunque aveva i suoi problemi. Dopo una disastrosa storia d'amore, pure lui ebbe un crollo. Trascorse moltissimo tempo in un manicomio a Hoxton.» «E la professoressa Langston stava scrivendo un saggio su questo argomento?» «Sì, sperava di pubblicarlo in una delle riviste specializzate della Modem Language Association. Christine aveva intitolato il saggio "La follia di Mary Lamb". Noi ci scherzavamo molto sopra.» «Ci scherzavate?» domandò Brown. «Oh, sì.»
«Chi ci scherzava sopra?» «I colleghi di Christine al dipartimento e io. Chiamavamo il suo saggio "Mary era un po' scema".» «Quindi lei pensa che la professoressa Langston possa aver trascorso un po' di tempo in biblioteca la sera in cui è stata uccisa.» «È possibile, sì. Sicuramente si può controllare.» «Ma di solito a che ora terminavano le sue lezioni?» «Be', a parte il seminario...» «Di giovedì...» «Sì. A parte quello, insegnava di pomeriggio. Dalle tre alle cinque.» «E solo a studenti giovani.» «Sì.» «Il nome Alicia Hendricks le dice qualcosa?» «No, mi dispiace.» «È una delle vittime. Cinquantasette anni» specificò Kling. «E Max Sobolov, cinquantanove anni? Cieco?» «No. Nessuno dei due. E, come diceva lei, non potevano essere studenti di Christine qui alla Baldwin. Troppo vecchi.» «La professoressa poteva essere collegata a loro in qualche altro modo?» «Non sono sicuro di capire.» «Ecco» spiegò Brown. «È possibile che la Hendricks o Sobolov fossero parenti di uno studente? O amici? O fossero in qualsiasi altro modo collegati alla professoressa Langston?» «Come faccio a saperlo?» «Possiamo esaminare i vostri registri?» domandò Kling. «Controllare i nomi degli studenti della Langston negli ultimi anni? Per vedere se troviamo un riscontro positivo per la Hendricks o per Sobolov?» «Christine insegnava qui da dodici anni» spiegò Knowles. «Era un'insegnante di ruolo. Di certo non penserete di verificare tutti i...» «A volte i rancori sono di vecchia data» osservò Brown. «Rancori?» «Un ragazzo che la professoressa aveva bocciato, uno studente che in qualche modo aveva messo in imbarazzo... Magari questa persona ne ha parlato con un parente o un amico, creando un risentimento che...» «Capisco» intervenne Knowles. Stava riflettendo. I due detective capirono che stava riflettendo. «Allora?» lo sollecitò Kling.
«Ricordo solo un incidente di questo tipo» disse Knowles. «Ma il nome della studentessa non c'entra niente con quelli che avete elencato.» «E questo elimina solo il parente» notò Brown. «Di che incidente si è trattato?» «La Langston aveva minacciato di bocciare una ragazza, che si è infuriata ed è venuta a parlare con me. Io ho sostenuto Christine in ogni modo, ma... insomma... noi qui non bocciamo gli studenti. Semplicemente non lo facciamo.» «Ricorda chi era quella ragazza?» domandò Kling. Brown era ancora furioso con se stesso per non avere chiesto a Knowles dove aveva comprato quella bella cravatta a farfalla. «Le trovi dappertutto» gli disse Kling. «Ah, sì? E dove? Io non avevo mai visto una cravatta del genere.» «E comunque tu staresti da cani con una cravatta così» affermò Kling. «Io invece credo che starei benissimo con una cravatta così.» «Troppo grossa per un uomo grosso come te.» Stavano attraversando il campus per raggiungere l'edificio in cui una ragazza di nome Marcia Finch stava assistendo alla lezione della terza ora, "Analisi della letteratura americana delle origini". Marcia era la studentessa che la professoressa Langston aveva minacciato di bocciare il semestre precedente. «Stai dicendo che sono sovrappeso?» domandò Brown. «No. Solo grosso.» «Come Ollie Weeks?» «No, lui è obeso.» «In ogni caso solo un uomo grosso può permettersi di indossare una cravatta grossa come quella.» «Permettersi, eh?» «Io credo che con una cravatta come quella piacerei molto a Caroline.» «Allora vai su Internet e cerca cravatte a farfalla. Troverai decine di stupide cravatte come quella.» «Una bella cravatta grande come quella di Knowles» ribadì Brown annuendo, già immaginandosi con il papillon. «Che aula ha detto Knowles?» domandò Kling. Stavano aspettando nel corridoio davanti all'aula 307, quando Marcia Finch uscì con i libri stretti al petto. Il professor Knowles aveva assicurato
ai detective che non potevano "sbagliarsi... "È bionda, una ragazza molto decisa, certa della propria bellezza. Emana... ehm... una grande sicurezza di sé." ... e infatti la individuarono immediatamente. Ventuno, ventidue anni, ultimo anno alla Baldwin, in gonna blu a pieghe, felpa blu con la scritta BALDWIN U a caratteri bianchi e sandali di pelle piatti nella stessa tonalità di blu della gonna e della felpa. Rise per qualcosa che le aveva raccontato una compagna, agitò le dita della mano sinistra in segno di saluto, si voltò e si trovò davanti un tizio biondo grande e grosso e un tizio nero, ancora più grande e grosso. «Permesso?» chiese, con un tono come a dire: "Levatevi dalle palle, okay?" e stava per aggirare l'ostacolo, quando Brown domandò: «Signorina Finch?». «Sì.» Brown mostrò il distintivo. «Detective Brown» si presentò. «Il mio collega, il detective Kling. Vorremmo rivolgerle qualche domanda.» «Mio padre è avvocato» dichiarò subito la ragazza. «Non c'è bisogno di un avvocato, signorina» le disse Brown. «Troviamo un posto dove metterci a sedere e fare due chiacchiere, okay?» «Su cosa?» «Su quel piccolo diverbio che ha avuto con la professoressa Langston il semestre scorso.» «Penso che telefonerò a mio padre» replicò Marcia. «Signorina» intervenne Kling «non complichiamo la situazione, okay?» La ragazza si voltò a guardarlo. Forse fu per via degli occhi castani. Forse fu per la calma nella voce di Kling. O forse Marcia era una razzista che preferiva trattare con l'americano biondo. Quale che fosse la ragione, annuì seccamente e li guidò all'esterno. Si misero a sedere al sole su una panchina davanti alla Coswell Hall. Marcia a destra, Kling nel mezzo, Brown in fondo a sinistra, tutt'e due i detective voltati verso la ragazza. Marcia sedeva a gambe accavallate, i libri per terra accanto alla panchina, e si rivolgeva esclusivamente a Kling, raccontando la sua storia a lui soltanto. Seduto in fondo alla panchina, Brown poteva essere benissimo un soprammobile, marrone come il suo cognome. «Sembra che il problema fosse la frequenza» cominciò Marcia.
«Sembra?» le chiese Brown. La ragazza lo ignorò. «La professoressa Langston sosteneva che avevo perso troppe lezioni. Diceva che non potevo assolutamente capire la materia, se non frequentavo mai le lezioni. Lei è mai stato a una delle sue lezioni?» domandò a Kling. «Noiooose!» dichiarò, e si diede qualche colpetto sulla bocca fingendo uno sbadiglio. «Si dà il caso che la materia in questione... per la verità avevo perso solo una o due lezioni... fosse Wordsworth. La parte due era esclusivamente su Wordsworth. Io ritengo che Wordsworth sia forse il poeta più insopportabile di tutto il XIX secolo. Ha mai letto Tintern Abbey? Oppure My Heart Leaps Up? O anche Intimations of Immortality, che si suppone sia un capolavoro?» Brown non aveva letto nessuna di quelle poesie. D'altra parte Marcia si stava rivolgendo solo a Kling. «Lei conosce qualcuno di quei lavori?» insistette. «No, mi dispiace.» «Be', si fidi di me. In ogni caso io avevo letto per conto mio tutte le poesie assegnate e sapevo di conoscerle molto bene. Non vedevo la necessità di frequentare tutte le lezioni in programma...» «Quante lezioni erano in tutto?» chiese Brown. «Un semestre consiste in quattordici settimane» spiegò Marcia a Kling. «La Langston dedicava due settimane all'introduzione e all'orientamento e poi due settimane a testa a Shelley, Byron e Keats: era la parte uno. La parte due consisteva in sei settimane intere di Wordsworth, dato che la Langston gli attribuiva così tanta importanza.» «Quante di quelle sei settimane ha saltato?» domandò Brown. Marcia guardò oltre Kling. Incontrò lo sguardo di Brown. «L'ho già detto. Una o due lezioni.» «Una o due?» «Forse tre in tutto. E forse a una lezione sono arrivata in ritardo.» «Quindi ha saltato quasi metà delle lezioni?» «Sì.» «Le ha quasi dimezzate.» «Be'... sì.» «Ed è stato per questo motivo che la professoressa aveva minacciato di bocciarla?» «Io conoscevo la materia. Ve l'ho detto: avevo studiato per conto mio.»
Interruppe la conversazione con Brown e guardò Kling negli occhi. «Devo chiamare mio padre?» chiese. «No, non credo» le rispose Kling gentilmente. «Poi cos'è successo? Dopo che la professoressa ha detto che l'avrebbe bocciata.» «Sono andata a parlare con il professor Knowles.» «E?» «Knowles mi ha detto che avrebbe parlato lui con la Langston.» «E l'ha fatto?» «Sì. Io ho il massimo dei voti in tutte le materie. Non ho mai preso un voto inferiore a B in tutta la mia vita!» Si voltò leggermente, fino a sfiorare con le ginocchia quelle di Kling. «Si immagina che effetto avrebbe avuto una F sulla mia media?» domandò, spalancando gli occhi azzurri. Kling spostò il ginocchio. Marcia si sistemò la gonna, come se fosse stata molestata. «E cos'è successo dopo che Knowles ha parlato con la professoressa?» «Be', lei era irremovibile. Gli ha risposto che il regolamento imponeva di basare i voti anche sulla frequenza, la partecipazione e l'esame finale. Gli ha detto che considerava oltraggioso che le venisse chiesto di promuovere una studentessa che aveva saltato quasi metà delle sue magistrali lezioni. Anche se io avevo studiato la materia per conto mio, attenzione bene...» «Anch'io credo che fosse oltraggioso» osservò Brown. «Be', nessuno ha chiesto la sua opinione, giusto?» sbottò Marcia. «Forse farebbe bene a chiamare suo padre» suggerì Brown. Kling capì che il collega stava iniziando il gioco del Poliziotto Buono e di quello Cattivo. Non riteneva che fosse necessario. Non ancora, perlomeno. Rivolse a Brown un'occhiata significativa. Brown la colse e sembrò calmarsi. «Poi cos'è successo?» domandò Kling alla ragazza. «Mio padre è andato a parlare con la Langston.» «Il caro, vecchio paparino» commentò Brown. Kling gli rivolse un'altra occhiataccia. «Papà le ha ricordato che ero una studentessa con il massimo dei voti, che lui pagava quasi trentamila dollari all'anno perché io avessi il privilegio di frequentare questa prestigiosa università e che il suo studio legale aveva donato centomila dollari per istituire una cattedra d'Inglese qui alla Baldwin University. Penso che la Langston abbia recepito il messaggio.» «Lei è stata promossa» disse Kling.
«Mi ha dato A.» «Ed è finita così?» intervenne Brown. Marcia guardò Kling, quando rispose. «È finita così» confermò. «Sentite, io ho avuto la mia A, perché avrebbe dovuto interessarmi ancora la Langston?» I due detective erano d'accordo con lei. «Non è che per caso sei un trafficante di droga, vero?» domandò Reggie. «Cosa te lo fa pensare?» chiese Charles. «Be'... tutto questo» fece la ragazza, e allargò il braccio per comprendere nel gesto lo yacht di ventitré metri, lo champagne nei secchielli, il caviale ghiacciato, l'equipaggio in uniforme, il filet mignon che lo chef stava preparando per pranzo e... insomma... in generale... tutto quel lusso. Perché laggiù a Denver, Colorado, dove Regina Marshall era nata e cresciuta, nessuno aveva tutti quei soldi da buttare, a meno che non possedesse un paio di pozzi di petrolio o non spacciasse droga per la banda dei Crips o per quella dei Bloods. «No» replicò Charles, sorridendo. «Non sono un trafficante di droga.» Anche se poteva capire il motivo per cui la ragazza lo pensava. «Anzi, ti dirò che l'unica volta che mi sono avvicinato alla droga è stato sotto le armi» proseguì. «E si trattava di marijuana. Tutti fumavano marijuana in Vietnam.» L'imbarcazione era a vele spiegate e stava doppiando la punta di una delle piccole isole che formano l'arcipelago di Sands Spit. La luce del sole danzava sull'acqua. Seduti sotto il bimini blu, Reggie e Charles sorseggiavano champagne. Era passato da poco mezzogiorno. Erano in mare dalle dieci e mezzo. «Anch'io» disse Reggie. «Giusto un po' d'erba ogni tanto.» Charles si domandò se la ragazza non gli stesse chiedendo un po' d'erba. «Accidenti, mi dispiace. Non ho pensato di procurarmela.» «Preferisco questo» commentò Reggie, e sorrise alzando il flûte dallo stelo lungo. Indossava jeans bianchi, un top di cotone a righe e sneaker bianche. Sembrava che fosse nata a bordo di uno yacht, anche se aveva detto a Charles che non aveva mai messo piede su una barca in vita sua. Era la prima volta anche per lui. Un mucchio di prime volte con Reggie. Anche un mucchio di ultime volte, si rese conto. «Chiedo scusa, signore.» Lo steward, o comunque si chiamasse. Un tizio biondo in uniforme
bianca. Charles alzò lo sguardo su di lui. «Signore, a che ora desidera che serviamo il pranzo?» «Pensavo verso l'una. Reggie?» «Benissimo» concordò la ragazza. «Desidera vedere adesso la lista dei vini?» «Sì, grazie» rispose Charles. Reggie lo guardò con approvazione. «Sai, mi piace davvero stare con te, Charles. Sarà sempre così?» «Intendi dire andare in barca intorno alla città?» «No, intendo dire vivere in questo modo.» Alzò di nuovo il bicchiere di champagne, cui rivolse un piccolo cenno d'apprezzamento. «Godersi la vita in questo modo.» «Finché potremo» disse Charles. «Non hai paura di finire i soldi?» «No.» «Ne hai tanti, eh?» «Abbastanza da farli durare.» «Purché mi porti con te. Okay, Charles?» disse Reggie, e si piegò su di lui per baciarlo. «Purché mi porti sempre con te.» Se scavi, trovi. In qualsiasi indagine per omicidio la vittima in un certo senso viene trattata come l'assassino. Ha precedenti penali? Conti in sospeso con la giustizia? Qualcosa nel passato remoto o recente poteva far presagire quanto è successo? Fai i tuoi controlli di routine e a volte hai fortuna. Quel giovedì pomeriggio il nome di Christine Langston saltò fuori in calce a una denuncia presentata al 26° Distretto dove, a quanto pareva, la donna viveva all'epoca, vale a dire una decina d'anni prima, quando ancora non conosceva Mortimer Shea. Era stata la stessa professoressa Langston, allora cinquantatreenne, a sporgere denuncia. Ecco cos'aveva raccontato a un detective di nome Joshua Sloate. Una sera di gennaio, poco dopo le ventuno, era uscita dalla sede dell'Harleigh Junior College, dove insegnava inglese. Aveva fermato un taxi proprio davanti al portone e aveva dato all'autista il proprio indirizzo in centro, vicino al distretto finanziario. Alle ventidue in punto aveva telefonato al 911 per denunciare un tentato stupro. Questo cinque minuti dopo essersi svegliata e aver trovato il tassista a letto con lei, sopra di lei. Si era messa a strillare e l'uomo era fuggito. E adesso denunciava la tentata vio-
lenza alla polizia. Il video della telecamera di sorveglianza installata nell'atrio del suo palazzo aveva catturato un'immagine dell'aggressore che la seguiva all'interno dell'edificio alle ventuno e quarantacinque. Nel rapporto l'uomo veniva descritto come un indiano sulla trentina, alto circa un metro e settantacinque, sui settantacinque chili di peso. Non c'erano segni di scasso né sul portone del palazzo, né sulla porta dell'appartamento di Christine Langston. La denuncia era stata in seguito archiviata come "priva di fondamento". Kling e Brown volevano sapere come mai. Trovarono Balamani Kumar che usciva dagli uffici della Townline Taxi in Westlake Street. Aveva appena terminato il turno del pomeriggio. Sottile, gracile e quasi quarantenne, non incarnava per niente il significato del suo nome indiano: in lui non c'era proprio nulla del "giovane gioiello". Sembrava soltanto un immigrato stanco e sconfitto in un paese straniero, maltrattato e umiliato dalla grande città. «Signor Kumar?» gli chiese Brown. L'uomo si fermò e per un attimo sembrò confuso. «Sì?» domandò, aspettandosi guai. Sapendo che in quella città per uno straniero, uno straniero del suo colore e con i suoi trascorsi, c'erano sempre guai. Kling gli mostrò il distintivo, per niente sicuro che il gesto avrebbe avuto un effetto tranquillizzante. «Sì?» ripeté Kumar. «Solo qualche domanda, nessun problema» gli assicurò Kling. Era più che evidente che Kumar non gli credeva. «Andiamo a parlare da qualche parte, okay?» fece Brown. Andarono in un caffè a pochi isolati di distanza. Gli offrirono un cappuccino. Sedevano fuori, a uno dei tavoli rotondi di metallo, nella luce della sera che andava sfumando. Non gli dissero che Christine Langston era stata assassinata la sera prima. Non sapevano se Kumar l'avesse appreso dai giornali o dalla televisione. Volevano semplicemente informazioni sulla denuncia che la donna aveva sporto dieci anni prima. E sapere perché era stata archiviata. «Perché era falsa» disse Kumar. La sua pronuncia era netta, più precisa che cantilenante, indubbiamente di origine indiana. La sua lingua madre poteva essere l'hindi, il marathi, il
kannada, il tamil, il gujarati, il telugu, il bengalese, il gurmukhi, l'oriya o il malayalam. Ma qui, nella terra degli uomini liberi e coraggiosi, Kumar parlava semplicemente come uno straniero. «In che senso falsa?» gli domandò Brown. «Inventata» rispose Kumar. «Una bugia. Tutta una bugia.» «Ci racconti com'è andata» disse Kling. Era andata che... «Quella donna era uscita dalla scuola e si stava avvicinando al marciapiede, là dove ci sono quei grandi globi all'inizio della South Jackson, conoscete il posto? Proprio là. Una donna ben vestita sui cinquant'anni direi. Con una cartella. Mi ha dato un indirizzo in centro, vicino al distretto finanziario. «Abbiamo cominciato a chiacchierare. Mi ha detto che una volta era stata in India, molto tempo prima, da ragazza. Per un programma di scambi culturali. Per tutta l'estate. Nel Rajasthan. Io vengo dal Sud. Le ho spiegato che non conoscevo quella parte del paese, è molto grande il mio paese. Be', è un continente. E lei mi ha detto che era stata un'esperienza eccitante. Mi ha detto che l'India era un paese eccitante. Ha usato quella parola parecchie volte. Eccitante. «Prima di scendere dal taxi, mi ha chiesto se mi andava di salire da lei a bere qualcosa. Ha detto che non avrebbe chiuso a chiave il portone d'ingresso. Ha detto che mi avrebbe aspettato. Appartamento 401, ha detto. Avrebbe lasciato la porta aperta. Sarebbe stata a letto, ha detto. Ad aspettarmi. Fa' presto, mi ha detto. Ti aspetto. «In quel quartiere le strade sono deserte a quell'ora di sera. Ci sono pochissimi palazzi di appartamenti. A quell'ora è tutto chiuso. Gli uffici, i negozi, i ristoranti. Tutto chiuso. Faceva molto freddo in strada. Freddo e deserto. Ho parcheggiato il taxi, ho chiuso a chiave la portiera e ho raggiunto il suo palazzo. Il portone dell'atrio non era chiuso a chiave, proprio come aveva promesso. Sono salito al quarto piano in ascensore. La porta dell'appartamento 401 era aperta. Come aveva promesso. «L'appartamento era buio. «La sentivo respirare nel buio. «L'ho trovata a letto. Mi sono tolto i vestiti e mi sono disteso di fianco a lei. «Quando le sono salito sopra, ha cominciato a urlare. «Io sono corso via. «Ho afferrato i miei vestiti e sono corso via.
«Mi sono vestito in ascensore. «I poliziotti sono venuti a prendermi due ore dopo.» «Era consensuale» disse Kumar, raccogliendo la schiuma dalla tazza con un dito, che poi si leccò. «I detective l'hanno capito. Era stata lei a invitarmi. Non so perché poi abbia cambiato idea. Insomma, era una donna di una certa età! Chi mai vorrebbe violentare una così?» Saresti sorpreso di saperlo, pensò Kling. E si chiese se fosse stata quella la ragione per cui la denuncia era stata archiviata come "priva di fondamento". Perché chi mai vorrebbe violentare una donna di una certa età, giusto? Una sulla cinquantina? Era stato più facile credere che la Langston avesse effettivamente invitato il tassista a casa sua e poi avesse cambiato idea, per di più telefonando alla polizia. Ma era andata così? Oppure Kumar aveva davvero tentato di violentarla? Si era trattato di una donna sul viale del tramonto che si era tirata su la sottana per sparare le ultime cartucce, oppure di un giovane che voleva assaggiare un vino straniero, per quanto invecchiato? Christine Langston voleva ritrovare la giovinezza perduta e rivivere i giorni eccitanti trascorsi in India da studentessa? O Balamani Kumar era deciso a cogliere qualunque opportunità gli si presentasse in una terra inospitale? Cinquant'anni? Sessanta? E qual era il problema? Un letto caldo in una fredda sera di gennaio. Kumar viveva in un appartamento con altri cinque immigrati, tre dei quali dormivano sul pavimento. Chi poteva dirlo? Chi avrebbe mai potuto dire se la professoressa lo aveva invitato nel suo letto... o se su quel letto era stata quasi violata? E, per la verità, a chi importava ormai? La signora era morta e l'esile, giovane indiano guidava ancora un taxi. Di una cosa i due detective erano sicuri. Qui non c'era alcun tipo di risentimento. Nessun rancore nascosto. Nessun vecchio conto da regolare. Balamani Kumar non era l'uomo che la sera prima aveva piantato due proiettili nove millimetri in testa a Christine Langston. Né in testa a nessun altro, se era per quello. I due sacerdoti che stavano bevendo vino nella canonica della chiesa di
St Ignatius ricordavano ancora i tempi in cui celebravano messa in latino. Padre Joseph aveva settantasei anni ed era già in pensione. Padre Michael ne avrebbe compiuti settantacinque in luglio. Aveva comunicato al vescovo che aveva intenzione di ritirarsi, ma ci stava ripensando. Il codice canonico fissava l'età del pensionamento a settantacinque anni, però padre Michael si sentiva ancora giovane ed energico; riteneva di essere in grado di guidare i suoi parrocchiani celebrando la messa, ascoltando le confessioni, battezzando, somministrando i sacramenti, facendo quanto era necessario per il progresso della Chiesa. «Tu comunque come ti trovi?» domandò a padre Joseph. «Be', il centro è molto bello» rispose l'altro prete. «Quello che voglio sapere è: cosa fai tutto il giorno?» «Ecco, non è come esercitare attivamente il ministero, questo è certo.» «È proprio quello che intendevo» disse padre Michael. «Però hai tempo per la contemplazione e la preghiera...» «Io contemplo e prego già adesso.» «... senza gli obblighi e le esigenze del ministero sacerdotale. E io mi trovo molto bene, Michael, sul serio. Il piano di pensionamento per i sacerdoti provvede alle mie necessità di base, l'assistenza sociale mi garantisce le cure mediche e un'entrata extra...» «Non è questo che mi preoccupa.» «Ti preoccupa non essere più attivo.» «Sì. Il pensionamento, maledizione!» «Sai, potresti sempre prendere in considerazione l'idea di affidare ad altri parte delle tue responsabilità. Per esempio, accettando un incarico come parroco anziano per un certo periodo...» «Sai che bello.» «Oppure potresti accettare semplicemente la strada che il buon Dio ha scelto per te» concluse padre Joseph, facendosi il segno della croce. Finì il suo bicchiere di vino e si alzò in piedi. «Michael, è stato bellissimo passare un po' di tempo con te, ma devo rientrare prima che mi chiudano fuori e chiamino la polizia.» I due uomini si strinsero la mano. «Ti ricordi quando eravamo insieme a Nostra Signora della Grazia?» domandò padre Michael, guidando l'amico fuori dalla canonica, nel giardino cinto dal muro. Le rose erano in piena fioritura e i gigli diffondevano il loro profumo inebriante nella dolce serata di giugno. I due si strinsero di nuovo la mano al cancello, poi padre Joseph si avviò verso il più vicino in-
crocio, dove sarebbe salito sull'autobus che l'avrebbe riportato alla casa di riposo. Padre Michael inspirò a fondo l'aria della sera e chiuse a chiave il cancello. Mentre tornava verso la canonica, gli sembrò di sentire un rumore alle sue spalle. Voltandosi, domandò: «Sì?». «Sono io, padre» disse una voce dall'ombra. «Carlie. Ricorda?» 6 Quando Charles rientrò in hotel alle undici e mezzo di quel giovedì sera, Reggie era nella vasca da bagno e cantava. «Tutto bene?» domandò la ragazza. «Sì, benissimo. Hai una bella voce.» «Grazie. Sono quelle del mio numero da cabaret.» Charles sembrò perplesso. «Le canzoni» spiegò Reggie. «Quelle di quando sono venuta qui all'Est, due anni fa. Diciassette anni e piena di sogni. Cioè, quasi diciotto, a settembre ne compio venti. Potevo scegliere tra tre città: Los Angeles, Las Vegas o qui. Pensavo che me la sarei cavata meglio qui. Ma questa è una città parecchio dura, credimi. Anche solo varcare la porta di un agente teatrale è un'impresa straordinaria. Facevo un piccolo numero a Sands Spit; sei mai stato laggiù in gennaio o in febbraio? Io canto di violinisti che se ne vanno, ma tutto ciò che ho è un piano verticale alle spalle e, quando arriva il momento di pagare il conto, ci sono solo due o tre persone nel locale. «Per farla breve, in uno di quei locali c'era una cabarettista, una bella ragazza bionda sulla trentina; faceva un monologo in cui praticamente sbranava il suo ex marito. Una sera abbiamo cominciato a chiacchierare e lei mi ha raccontato che riusciva ad arrivare a fine mese facendo, come secondo lavoro, l'accompagnatrice per un'agenzia, anche se certe volte si chiedeva quale fosse il secondo lavoro e quale il primo: la cabarettista o la ragazza che indossava biancheria intima trasparente e andava ovunque la mandassero. «E questo mi fa venire in mente che ormai è più di una settimana che non chiamo l'agenzia, si staranno chiedendo cosa diavolo mi è successo. Ho detto che avevo le mie cose, ma non possono durare in eterno, no? Spero solo che non mandino uno di quei loro gorilla a cercarmi. Me l'ha rac-
contato Annie che hanno questi gorilla, anche se io non ho mai avuto il piacere di vederli, per fortuna. Annie è la cabarettista che mi ha messo in contatto con la Sophisticates, che è l'agenzia a cui ti eri rivolto, ricordi? «Comunque, Annie dice sempre che nella vita tutto ha un effetto collaterale. Tu fai una cosa, prendi una strada che ti porta da qualche parte e questo ha i suoi effetti collaterali. Se fossi andata a Los Angeles e avessi avuto la fortuna di ottenere una buona scrittura in un locale sullo Strip, se un regista o un agente mi avessero notata, adesso potrei essere una stella del cinema, giusto? Potrei avere una casa a Palm Desert. A te piacerebbe andare a Palm Desert? A me moltissimo. Sai, io mi considero una cantante che se la fa con gli uomini come secondo lavoro, in modo da poter cantare. Ma forse è vero il contrario, forse sono solo una puttana con una bella voce e il canto è solo un effetto collaterale del fare la puttana.» «Tu non sei una puttana, Reg» intervenne Charles. «Mi piace: Reg. L'unico che mi chiamava Reg era mio fratello, che da piccolo non riusciva a pronunciare Regina. Nome che odio, tra parentesi. A te piace Charles? È così formale. Ti sei sempre fatto chiamare Charles?» «Be', ho avuto nomi diversi in momenti diversi della vita.» «Come ti chiamavano nell'esercito?» «Charlie. Anche se era così che chiamavamo il nemico: Charlie. I vietcong. Per noi erano tutti Charlie.» «E in altri momenti? Prima di andare sotto le armi?» «Chuck.» «Mi piace. Vieni ad asciugarmi la schiena, Chuck» disse Reggie, uscendo dalla vasca. «Chuck è stato il mio nome alle medie e al liceo» continuò Charles, che prese un asciugamano e cominciò ad asciugarle la schiena. «Avrei dovuto tenermelo anche nell'esercito, vero? Per distinguermi dal nemico.» «E perché non l'hai fatto?» «Non lo so. Al corso d'addestramento hanno cominciato a chiamarmi Charlie e io l'ho accettato. Si accettano un mucchio di cose nella vita.» «Effetti collaterali» precisò Reggie. «Sì. Credo di sì.» «Come ti chiamavano da bambino?» «Carlie.» «Ma dài» fece Reggie. «Non ci credo.» «È stata mia madre ad appiopparmelo.» «È ancora viva?»
«Sì.» Charles esitò un momento e poi aggiunse: «Ci ha lasciati quando avevo otto anni». Un'altra esitazione. «Non ne so più niente.» «Lasciati?» «Mio padre, la famiglia. Ci ha abbandonati. In seguito si è sposata con il tizio con cui era scappata, non so neppure come si chiama, mio padre non ne parlava mai. Io ero solo un bambino, mio fratello e io eravamo piccoli quando lei se n'è andata. Mi chiamavano ancora Carlie, allora. Hanno cominciato a chiamarmi Chuck solo alle medie.» «Sei rimasto in contatto con tuo fratello?» «No, è morto di cancro dodici anni fa. Buffo come vanno le cose, vero? Io sono stato in guerra e ne sono uscito vivo. Ma il cancro si è preso mio fratello a soli quarantotto anni.» «Effetti collaterali» ribadì Reggie, annuendo. «Qualcuno ti ha mai chiamato Chaz?» «Chaz? No.» «Posso chiamarti Chaz?» «Certo.» «A cominciare da adesso, okay? Questo è il tuo nuovo nome, Chaz.» «Okay.» «Ti piace?» «Sì, credo di sì.» «Cos'abbiamo in programma per domani, Chaz?» «Pensavo di lasciar decidere a te.» «Usciamo di nuovo con la Jag. Mi sono proprio divertita l'altro giorno.» «Potremmo puntare verso nord.» «Sì. E magari fermarci in un piccolo bed and breakfast...» «Be', no, non posso. Non domani sera.» Reggie fece il muso lungo, delusa. «Devo vedere una persona domani sera. Ma sarà l'ultima volta, lo prometto. Dopo sarò libero.» «Ho pensato che forse non ti piace come canto» disse Reggie. «Adoro come canti.» «Vuoi che canti ancora per te?» «Mi piacerebbe moltissimo che cantassi per me.» E così a mezzanotte Reggie si mise a sedere sul letto, il lenzuolo abbassato in vita, i piccoli seni punteggiati di lentiggini, e cantò per lui di viaggi da Natchez a Saint Joe, di chiari di luna e musica, di uno strano ragazzo
incantato e che manca un quarto alle tre e non c'è più nessuno, a parte te e me. E quando finì di cantare, si rannicchiò di nuovo tra le braccia di Charles e disse: «Ti amo, Chaz». E lui rispose: «Ti amo anch'io, Reg». «Bene, bene, bene» affermò il detective Oliver Wendell Weeks. «Un altro prete ammazzato.» Come se venisse ammazzato un prete al giorno. In realtà l'ultimo che Ollie riusciva a ricordare era quello di sette anni prima, nell'87°: un giovane sacerdote ucciso mentre stava recitando i vespri. Questo invece era un prete vecchio. «Anzi, antico» disse il detective Monoghan. «Novantasei anni come minimo» ribadì il detective Monroe. I due detective della Omicidi osservavano il corpo ai loro piedi come se fosse stato una mummia in uno dei musei cittadini e non un cadavere ancora caldo sulla pavimentazione in pietra del giardino della chiesa. La suora che l'aveva trovato stava ancora tremando. Lei stessa non era certo una giovincella. Più o meno sui cinquant'anni, pensava Ollie. La donna aveva raccontato agli agenti che aveva risposto alla chiamata del Signore vent'anni prima, il che significava che doveva essere stata intorno alla trentina quando era entrata in convento. I due detective della Omicidi stavano immaginando come dovesse essere senza abiti addosso. Ollie stava pensando alla stessa cosa. «Due in piena faccia» disse Monroe. «Il modus operandi ti ricorda qualcosa?» chiese Monoghan. «Dieci a uno che l'arma è una Glock.» Ollie non sapeva di cosa stessero parlando. «I delitti della Glock» spiegò Monroe. «Gli omicidi degli anziani» aggiunse Monoghan. «Sono su tutti i giornali.» «Anche in televisione.» «A quanti siamo adesso? Al numero tre?» «Quattro» precisò Monoghan. «Sempre se si tratta della stessa Glock.» «Ditelo anche a me, okay?» fece Ollie. Odiava i piedipiatti della Omicidi. Odiava gli stupidi regolamenti della città che rendevano obbligatoria la loro presenza sulla scena di qualsiasi omicidio o suicidio. Il loro ruolo era, virgolette, di consulenza e supervi-
sione, chiuse virgolette. Il che significava che se ne stavano a ciondolare con le mani in mano, esigendo copia di tutta la documentazione. Inoltre, sia Monoghan sia Monroe non avrebbero fatto male a mettersi a dieta. Lo stesso valeva per i due agenti in uniforme che avevano risposto alla chiamata. Per non parlare della suora. Quando sei innamorato, ti pare che tutto il mondo dovrebbe cercare di perdere un po' di peso. Non che Ollie fosse innamorato... «C'è un tizio che se ne va in giro per la città ad ammazzare vecchi» spiegò Monoghan. «Con una Glock nove millimetri» precisò Monroe. «Allora dovrebbe essere un caso facile» commentò Ollie, e si voltò verso il primo agente ciccione. «Come si chiama la suora?» gli domandò. «Suor Margaret.» «Com'è che ha trovato il prete?» «Era uscita per vedere se il cancello del giardino era chiuso a chiave.» «La suora vive qui o è solo in visita?» «Ha una stanza sull'altro lato della chiesa.» Ollie annuì. «Pensi che il vecchio prete se la facesse?» chiese Monroe al suo collega. «Tu te la faresti?» rilanciò Monoghan. «Lui si farebbe qualsiasi cosa respiri» disse Ollie. «Come no» rispose Monroe, ma il pensiero di fare sesso con una suora stimolava un certo... primitivo istinto pagano. Anche Monoghan lo trovava vagamente eccitante. E pure Weeks, se era per quello. La suora se ne stava lì in piedi tremante e recitava sottovoce il rosario, povera anima. Ollie le si avvicinò. «Suor Margaret» esordì «desidero farle le mie più sentite condoglianze.» In realtà non gliene fregava un accidente. Un prete in più o in meno in questa valle di lacrime, specie un prete che doveva avere almeno cento anni. «Però dovrei rivolgerle qualche domanda, se se la sente.» La suora annuì, continuando a mormorare il rosario. «Che ora era quando ha trovato la vittima... a proposito, come si chiamava?» «Padre Michael Hopwell» rispose la suora. «Mi hanno riferito che lei era uscita in giardino per chiudere il cancello...» «Per controllare se era chiuso.»
«Ed era così?» «Non lo so. Ho visto padre Michael e sono tornata dentro subito.» «Perciò, se adesso il cancello è aperto, sarà stato aperto anche prima» osservò Ollie. «O viceversa» disse suor Margaret, annuendo. Se c'era una cosa che Ollie non sopportava, erano le suore saccenti. «Così è rientrata...» la incalzò. «Sì, e ho telefonato immediatamente alla polizia.» «Sapeva già che era morto, vero?» «Sapevo che era ferito. Tutto quel sangue...» La suora scosse la testa. «Ha visto qualcuno, quando è uscita in giardino?» «No. In realtà ero appena uscita, quando l'ho visto disteso a terra. Ho fatto dietrofront e sono corsa di nuovo in canonica.» «Prima di uscire aveva sentito degli spari?» «No.» «Quando ha visto padre Michael vivo per l'ultima volta?» «Quando è arrivato padre Joseph. L'ho accompagnato dentro.» «Accompagnato chi?» «Padre Joseph.» «Accompagnato dove?» «In canonica.» «E padre Joseph sarebbe?» «Un vecchio amico di padre Michael. Adesso è in pensione. Viene qui spesso.» «A che ora è arrivato questa sera?» «Verso le otto.» «E quando se n'è andato?» «Poco dopo le dieci.» «Lei l'ha visto andarsene?» «No, ma li ho sentiti scambiarsi la buonanotte.» «Però non ha sentito nessuno sparo?» domandò Ollie, sorpreso. «No. Ero andata nella cappella per recitare la compieta prima di andare a dormire.» «Compieta?» «È l'ultima preghiera della giornata.» «E non ha sentito nessuno sparo?» «Le pareti della cappella sono molto spesse.»
«Mi parli di questo padre Joseph.» «Padre Joseph e padre Michael erano insieme a Nostra Signora della Grazia a Riverhead.» «Andavano d'accordo?» «Oh, sì. Naturalmente. Erano vecchi amici.» «Dov'è adesso questo padre Joseph?» «Vive nella casa di riposo di Stanley Street.» Ollie guardò l'orologio. Era mezzanotte e dieci. Si chiese a che ora andassero a letto i preti. Anzi, i preti in pensione. E chi pagava la pensione dei preti? Chi aveva sparato a padre Michael? «Chi è che sta lavorando sugli altri omicidi della Glock?» domandò a Monroe. «L'87°.» «Bene, bene, bene» disse Ollie. Nel bel mezzo della notte si svegliò urlando. Reggie balzò a sedere e gridò: «Chaz! Cosa c'è?». «Un incubo.» Ma era piegato in due e si premeva le mani sull'addome. Si distese di nuovo accanto alla ragazza, tremando. Era gelato. Reggie lo strinse a sé. Dopo un po' Charles andò in bagno. La ragazza sentì scorrere l'acqua nel lavandino. Rimase chiuso là dentro cinque minuti, prima di tornare a letto. «Raccontami il sogno» gli disse Reggie. Chaz esitò, riflettendo. Poi rispose: «Ero in Vietnam». Si premeva ancora le mani sulla pancia. I brividi però sembravano cessati. «C'è una donna con un bambino piccolo seduta sul cassone di una jeep. Noi dobbiamo portarla da un interprete che deve interrogarla. Be', in effetti è una ragazza, non ha più di diciannove anni. Il sergente crede che sia una spia dei vietcong, non so come mai abbia quell'idea. «È il sergente che guida la jeep. Gli piace guidare. Io gli siedo accanto, il fucile in grembo. La ragazza è seduta sul cassone e tiene il bambino con un braccio, lo tiene stretto. L'altro braccio è teso, rigido e la mano stringe quella specie di barra sul cassone, in modo da non cadere con il bambino. La strada è piena di gobbe e radici, quelle strade fangose che hanno laggiù, tra le risaie...»
Ricominciò a tremare. «Il resto non me lo ricordo.» Più tardi, quando si alzò per andare a fare pipì, Reggie vide che Chaz dormiva sodo. Ripensò all'incubo. Si lavò le mani e aprì l'anta dell'armadietto dei medicinali sopra il lavandino. C'erano cinque flaconi di antidolorifici acquistabili solo con ricetta medica. Forse Chaz non aveva avuto veramente un incubo. Era stato senza dubbio bello condurre a termine due operazioni antidroga nel corso delle indagini su un paio di omicidi. Ma quei colpi di fortuna non li avevano aiutati a scoprire l'assassino del violinista cieco, della rappresentante di cosmetici e della professoressa universitaria. E si erano giocati l'amicizia di Connors e Brancusi, i due dell'Antidroga che adesso dovevano vedersela con gli Affari interni perché uno stronzo di direttore di nightclub giurava di averli pagati in cambio di protezione. Le cose che dice un ex galeotto disperato pur di evitare un'altra condanna! E adesso, a peggiorare la situazione, la sera prima un prete era stato assassinato nell'88°. E indovina a chi era toccato il caso? «Dunque, di norma dovrebbe andare così» spiegò Ollie Weeks quel venerdì mattina al gruppo di detective dell'87°. «Se uno si trova per le mani un cadavere e poi scopre che è stato ucciso con la stessa pistola usata in tre precedenti omicidi sui quali un'altra squadra sta già indagando... con scarso successo, potrei aggiungere... dal sedici di questo mese...» Era il venticinquesimo giorno di giugno. L'orologio sulla parete della sala agenti indicava le nove e dieci. «Di norma, il detective si appellerebbe alla regola del Primo Uomo e poi scaricherebbe di corsa tutta la documentazione alla squadra che ha risposto alla prima chiamata, in questo caso la vostra, quella del famoso 87°.» Weeks fece una pausa per dare il tempo di apprezzare il suo sagace sarcasmo. «Ma si dà il caso che ora come ora il mio piatto sia vuoto, sia in senso letterale sia allegorico...» Non si aspettava che qualcuno dei colleghi capisse o gradisse termini tanto ricercati, ma il fatto era che al momento c'era penuria di delitti nel suo distretto e inoltre lui era a dieta, da cui il piatto vuoto...
«... e così ho deciso di unire le mie forze alle vostre, per così dire, e di farmi carico delle indagini sull'omicidio del prete, che si chiamava padre Michael Hopwell, nel caso vi interessasse. E anche di darvi tutto l'aiuto possibile nelle indagini sui "delitti dei babbioni" a cui state lavorando.» I detective dell'87° non sapevano se fosse una fortuna o una sfortuna. «Grazie» concluse Ollie. «Vi prego, restate pure seduti, niente applausi.» Ed eseguì un piccolo, ma complicato inchino con una mano all'altezza della vita, che era ancora parecchio larga, piatto vuoto o no. Nonostante la definizione di Weeks, i giornali sparsi sulla scrivania di Carella parlavano ancora della serie di omicidi come dei "delitti della Glock". Adesso che sulla scena era comparso Ollie, da qui all'eternità sarebbero stati ricordati come i "delitti dei babbioni"? Carella sperava di no. Però guardiamo i fatti. Quattro omicidi fino a quel momento, tutti commessi con la stessa pistola automatica. Due vittime prossime ai sessant'anni. Una poco più vecchia. E adesso un'altra sulla settantina. Non si trattava di ragazzini. Era tutta gente di una certa età. Considerata la durata della vita media di... quanto? Settanta, settantacinque, massimo ottant'anni? La mezza età è a un certo punto tra i trentacinque e i quarant'anni. Sì, ragazzi, ammettiamolo. Superi la china a trent'anni e a trentacinque sei già di mezza età, pensa un po'. A cinquant'anni ti stai avvicinando rapidamente alla vecchiaia. A sessanta sei vecchio. A settanta, decrepito. Ottanta, e hai un piede nella fossa. Nessuna delle vittime andava all'asilo, con il cestino della merenda in una mano e la scatola dei pastelli nell'altra. A dire la verità, l'età delle vittime rendeva il caso quasi noioso. Un po' come vedere Woody Allen che bacia una bella ragazza bionda in uno dei suoi film. Se una persona è destinata comunque a morire entro breve, che senso ha prendersi il disturbo di ammazzarla? Be', non si poteva dire che i due sessantenni avessero già un piede nella fossa. Anzi, Alicia Hendricks era una donna maledettamente attraente, in ottima salute e, non dimentichiamolo, sessualmente attiva fin da ragazza. E, pur essendo cieco, per il resto il violinista era in splendida forma e di sicuro non aveva nessuna intenzione di morire. Tuttavia, a parte quei due, gli altri non sembravano candidati verosimili all'eliminazione fisica. Perché non lasciare che la natura facesse il suo corso?, pensava la maggior parte degli abitanti della città, voltando la pagina del quotidiano per passare a notizie più elettrizzanti, come le torture e le uccisioni dei prigionieri di guerra iracheni. Ovviamente i giornali stavano facendo del proprio meglio per rendere
gli omicidi il più intriganti possibile. La prima cosa che fecero fu insinuare che i delitti della Glock fossero seriali, citando vari profili dell'FBI comuni alla maggior parte di crimini simili. Era irrilevante che fino all'omicidio del prete ci fossero state solo tre vittime... (Un serial killer è tale se uccide più di cinque volte.) Era irrilevante che i quattro omicidi fossero stati commessi nello spazio relativamente breve di otto giorni... (Un serial killer di solito agisce in un arco di tempo più lungo, a volte addirittura di mesi o anni, con un cosiddetto "periodo di raffreddamento" tra un delitto e l'altro.) Era irrilevante che le vittime costituissero un assortimento eterogeneo: un musicista cieco, una rappresentante di cosmetici nonché spacciatrice, una professoressa universitaria e, adesso, un sacerdote. (Abitualmente le vittime di un serial killer sono dello stesso tipo: prostitute, autostoppisti, impiegati delle poste... qualunque cosa, ma in ogni caso sempre inquadrabili in una determinata categoria.) Era irrilevante che a tutte le vittime avessero sparato in faccia con una pistola automatica da distanza ravvicinata. (La maggior parte degli omicidi seriali è commessa per strangolamento, soffocamento o accoltellamento.) Un quotidiano teorizzava che il serial killer in questione stesse cercando di cancellare le facce delle vittime, un'ipotesi su cui concordava un profiler del dipartimento di polizia. Tutti i giornali sostenevano che la motivazione primaria di un serial killer è di carattere sessuale, che ci sia stata o no attività sessuale prima o dopo l'omicidio. Erano inoltre tutti d'accordo sul fatto che gran parte dei serial killer sono maschi bianchi di età compresa tra i venti e i trent'anni, descrizione che si adattava a metà degli agenti di borsa del centro. I detective che avevano studiato quelle statistiche avevano individuato solo due elementi che potevano forse qualificare il loro uomo come serial killer: l'età e la razza delle vittime. Erano tutte in là con gli anni ed erano tutte bianche. Fu a Fat Ollie Weeks che venne l'idea che forse tre dei delitti potessero essere solo cortine fumogene. «Forse ce l'aveva soltanto con uno di loro» azzardò Ollie. «Diciamo con il prete di ieri sera, per esempio. Magari ha commesso gli altri omicidi solo per depistarci. E non c'è nessuna relazione tra loro.»
«Alcuna relazione» lo corresse Hal Willis, anche se doveva ammettere che forse Ollie aveva ragione. Consapevole che Eileen Burke lo stava osservando in attesa che dicesse qualcos'altro, si limitò a chiedere: «Ed eventualmente, quale?». «Con chi ce l'aveva davvero, intendi dire?» «Se ammazzi quattro persone, significa che ce l'hai davvero con ognuna di loro» disse Parker. «Io sono d'accordo» intervenne Byrnes, sorprendendo Parker. «Normalmente le cortine fumogene non durano tanto. Il rischio che gli piombiamo addosso è troppo alto.» «Io di rischi per l'assassino non ne vedo ancora» osservò Eileen. «Non abbiamo scoperto alcuna relazione tra le vittime, perciò forse Ollie ha ragione.» «Nel qual caso, con chi ce l'aveva davvero il killer?» insistette Willis. «Chi era la vera vittima?» «Per quello che mi riguarda» rispose Byrnes «sono tutte vere vittime e l'assassino ce l'aveva con ognuna di loro. Lavorate su tutti e quattro i casi» consigliò. O ammonì. «E portatemi qualcosa!» Parker raggiunse Ollie mentre stava uscendo dalla sala agenti e gli chiese come stavano andando le cose con la sua ragazza latina. «Oppure stai pensando di sposarla?» domandò. «È così, Ollie?» «Be', no. Cioè, l'argomento non è mai saltato fuori. Ci siamo visti solo qualche volta. Cosa intendi con sposarla?» «Esattamente quello che ho detto. Ma se non ci sono fiori d'arancio all'orizzonte, quand'è che pensi di fare la mossa?» «Non capisco. Che mossa?» «Oh-oh, lui non sa che mossa intendo» disse Parker. «Intendo abbassarle le mutandine, caro mio, ecco cosa intendo. Quando pensi di provarci?» «Non ho fatto nessun programma» rispose Ollie. «Allora comincia subito. Quando la rivedrai?» «Sabato sera.» «Domani sera?» «No, sabato prossimo.» «No» disse Parker. «Come no? La vedrò il tre luglio, sabato prossimo.» «Sbagliato» dichiarò Parker. «Sabato sera è sbagliato. Che sia il tre o qualunque altro giorno di luglio. Capirà quello che hai in mente, lei...»
«Io non ho in mente niente.» «Lei penserà lo stesso che hai in mente qualcosa. Sabato sera? Ma certo che hai in mente qualcosa! Lei sarà in stato di massima allerta e dichiarerà un "blocco mutande".» «Un cosa?» «Le ragazze latine conoscono un sacco di modi per tagliare l'uccello a un uomo per poi venderlo a un cuchi frito. Si chiama "blocco mutande". Se lei sospetta anche per un solo attimo che tu hai in mente...» «Ma io non ho in...» «... metterà in atto un "blocco mutande" come non hai mai visto in vita tua. Ti dico io cosa devi fare» proseguì Parker. «Se vuoi farti quella ragazza, prima devi creare un'ambulance.» «Una che?» domandò Ollie. «Un'ambulance. In francese vuol dire qualcosa tipo atmosfera.» «Io ho sempre pensato che ambulance...» «Sì, lo so, ma i francesi sono strani. Per loro ambulance significa luci, suoni, atmosfera, tutto l'ambiente. Ambulance, è così che dicono. E loro sono bravi in queste cose, i francesi. Sabato sera è escluso. Qualunque sabato sera. E cosa pensavi di fare sabato sera?» «Le ho detto di venire da me verso le sette. E che le avrei preparato la cena.» «Oh, Signore! Massima allerta! Blocco mutande, blocco mutande!» esclamò Parker, alzando le mani allarmato. «Vuoi un consiglio?» «Be'...» «Telefonale, dille che hai cambiato idea e proponile un pranzo. Dille di venire da te domenica per pranzo. Alle undici di domenica mattina.» «Ma domenica è il Quattro Luglio.» «Perfetto, è una bella festa americana, alle ragazze latine piace pensare di essere americane. Dille che le farai i pancake. I pancake sono molto americani, molto innocenti. Dille di vestirsi sportiva. In jeans, se vuole. La maggior parte delle latine non indossa gli slip sotto i jeans, così sei già a metà strada.» «Be', non sono sicuro di volerla fregare in quel modo.» «Come fregare? Tu stai solo creando un'ambulance, ecco tutto. Un bel pranzo domenicale, il Quattro Luglio; chi potrebbe mai sospettare che il piccolo Willie se ne sta in agguato tra i cespugli?» «Il mio Willie non è così piccolo.» «È solo un modo di dire. Nessuno sta sottovalutando il tuo pacco.»
«Giusto perché tu lo sappia.» «Telefonale. Invitala a pranzo.» «Tu credi?» «Sto parlando al muro?» fece Parker. «Telefonale!» Il dottor Angelo Babbio era il direttore del servizio assistenza ai non vedenti presso il Centro medico veterani. Spiegò ai detective che, prima della guerra in Iraq, uno studio del CMV aveva stimato che il numero dei veterani ciechi sarebbe aumentato del trentasette per cento, da 108.122 nel 1995 a 147.864 nel 2010. «Questo prima che cominciassimo a ricevere i dati dall'Iraq.» «La vostra documentazione arriva alla guerra in Vietnam?» domandò Carella. «Arriva fino alla Prima guerra mondiale» rispose Babbio. «Come mai vi interessano i non vedenti?» «Stiamo indagando sull'omicidio di un veterano cieco.» «E pensate che sia stato curato qui?» «Secondo suo fratello, sì.» «Quando dovrebbe essere successo?» «Fine anni Sessanta, inizio Settanta.» «Parecchio tempo fa» commentò Babbio. Guidò i detective lungo corridoi dove si allineavano uomini silenziosi in sedie a rotelle. Anziani con la bombola dell'ossigeno. Giovani soldati tornati da poco dal deserto. Un colonnello cieco che indossava ancora orgogliosamente l'uniforme sedeva immobile sulla sua sedia, la testa fasciata. Stava davanti a una finestra, oltre la quale c'era un prato verde e un cielo azzurro che non poteva vedere. I dati di Max Sobolov erano già su microfilm. Il violinista aveva effettivamente seguito un programma di riabilitazione in quella struttura. Non avevano potuto fare niente per gli occhi, che aveva perso in seguito a un colpo di mortaio. Ma avevano potuto insegnargli cose come schemi spaziali, costanti ambientali, caratteristiche di pareti e pavimenti e come utilizzare l'ecolocazione. Gli avevano insegnato a svolgere compiti complessi, a seguire percorsi complicati, a localizzare obiettivi difficili. Gli avevano insegnato a servirsi del lungo bastone bianco. Gli avevano insegnato l'indipendenza. «L'abbiamo dimesso dopo cinque anni» disse Babbio. «Secondo quanto è scritto qui...» picchiettò il dito sul fascicolo «... è stato un paziente diffi-
cile.» «In che senso?» domandò Meyer. «Amareggiato, non collaborativo. Parecchi ragazzi rientrano in patria così. Partono tutti spavaldi e poi, all'improvviso, si ritrovano di nuovo a casa; sono ancora giovani, ma hanno perso un braccio, una gamba o mezza faccia, oppure sono paralizzati o ciechi, com'è successo a Sobolov, e questo li costringe a confrontarsi con una prospettiva completamente diversa. Sobolov fisicamente soffriva molto. Abbiamo dovuto somministrargli dosi massicce di antidolorifici.» «Era diventato tossicodipendente?» domandò Carella. «Be'... chi può dirlo? Gli abbiamo dato un mucchio di morfina, mettiamola così.» «Era un tossico, quando se n'è andato di qua?» insistette Carella. «Nella sua cartella clinica non c'è niente che indichi che fosse dipendente dalla morfina quando se n'è andato» rispose Bobbio. I due detective non sembravano convinti. «Sentite» riprese Bobbio. «Siamo stati fortunati a poterlo reinserire nella società. La maggior parte di loro non torna più a essere ciò che era stato una volta.» Carella si chiese di quante altre guerre ci sarebbe stato ancora bisogno. Cercarono di immaginare come doveva essere stato quel quartiere di Riverhead una quarantina di anni prima. Le fermate della sopraelevata della linea Dover Plains Avenue erano le stesse: Cannon Hill Road e poi tutte le stazioni, contrassegnate dal numero della rispettiva strada e distanti circa nove isolati l'una dall'altra. Il capolinea segnalava una distesa di lotti deserti e poi l'inizio del primo, piccolo paesino, ben distinto dalla città vera e propria. Adesso in quei terreni un tempo vuoti si ammassavano palazzi di appartamenti e negozi e la città si fondeva impercettibilmente con i sobborghi. Sotto i binari della sopraelevata non c'erano più quelli del tram e il traffico era molto più intenso. Lungo Dover Plains Avenue si allineavano le bodegas al posto delle drogherie italiane o delle tavole calde ebraiche. Quella che una volta era una gelateria adesso era un cuchi frito. Forse la pizzeria e il bowling c'erano anche tanto tempo prima, ma la lingua che si sentiva parlare ora era lo spagnolo. I tempi erano cambiati ed era cambiato anche il quartiere in cui molti anni prima erano vissuti Alicia Hendricks e suo fratello Karl. Ma, ben an-
corati al terreno come i paletti agli angoli di una tenda da campeggio, c'erano ancora la chiesa di Nostra Signora della Grazia, la scuola media Roger Mercer e il liceo Warren G. Harding. Sia Alicia sia il fratello avevano frequentato entrambe quelle scuole. Dalla Harding Karl era passato direttamente alla prigione. Alicia aveva cominciato a lavorare in un ristorante che si chiamava Rocco. I detective non si aspettavano che il ristorante esistesse ancora. E invece eccolo, piazzato all'incrocio tra Laurelwood e Trent, con il tendone bianco e verde che si allungava sul marciapiede, i tavoli all'aperto anche se era un po' troppo presto per la stagione, i camerieri con i lunghi grembiuli bianchi che correvano indaffarati dentro e fuori il locale. La scritta sopra il tendone era ROCCO. «Che mi venga un colpo» disse Parker. L'attuale proprietario si chiamava Geoffrey Lucantonio. Suo padre, ormai defunto, era il Rocco per cui Alicia aveva lavorato tanti anni prima. Geoffrey aveva diciassette anni quando Alicia aveva iniziato a lavorare lì. Se la ricordava benissimo. «Certo. Me la scopavo» raccontò, discreto. «È anche vero che lo facevano tutti.» A quanto pareva, Alicia era stata preceduta dalla sua reputazione fin dai tempi delle medie. Già ben sviluppata all'età di dodici anni, si era guadagnata un proprio seguito quale "aspirapolvere" della settima classe, soprannome derivante dalla sua abilità nell'offrire un eccellente sesso orale, moda che all'epoca andava diffondendosi tra le ragazzine pubescenti come sistema per evitare penetrazioni vaginali e conseguenti gravidanze indesiderate. Arrivata alla nona classe, Alicia si era resa finalmente conto del fatto che i lavoretti di bocca erano una forma di sfruttamento maschilista ed era quindi passata a un'attività sessuale che potesse soddisfare anche lei. Non passò molto tempo prima che il suo numero di telefono venisse scarabocchiato sulle pareti delle cabine telefoniche o dei bagni degli uomini, unitamente al consiglio: "Per una cavalcata selvaggia, chiama Alicia". «Sapete, c'erano i venerdì danzanti alla chiesa di Nostra Signora della Grazia» disse Geoffrey. «E i ragazzi facevano la fila intorno all'isolato per ballare con lei. Solo per starle vicino, capite? Per via di quelle tette, capite?» Parker capiva benissimo. «E a me è caduta proprio dritta tra le braccia» continuò Geoffrey, roteando gli occhi. «Insomma, come la volpe nel pollaio.»
Genero pensò che Geoffrey aveva interpretato il proverbio al contrario. Parker era un po' invidioso. Una bella sedicenne disinibita che viene a lavorare nel ristorante di tuo padre? Suo padre non aveva mai avuto nemmeno un chiosco di hot dog! «Ricorda per quanto tempo Alicia ha lavorato qui?» domandò. «Certo che me lo ricordo! Due anni. Se n'è andata a diciotto. Ha fatto un corso e si è presa il diploma di manicure. Mai più vista né sentita.» Geoffrey esitò. «I migliori due anni della mia vita» concluse, e sospirò con rimpianto. Parker fu quasi sul punto di sospirare con lui. Quel venerdì pomeriggio, mentre mangiavano gelato e sorseggiavano un espresso denso e nero nel déhors del Rimbaud, un caffè di una cittadina nel Nord dello stato, tutt'a un tratto Reggie disse: «Chaz, da adesso in poi non devi più pagare niente». Lui la guardò dall'altra parte del tavolo. E all'improvviso gli occhi gli si riempirono di lacrime. Reggie rimase così sorpresa che per poco non cominciò a piangere anche lei. «Chaz?» disse. «Chaz?» E allungò la mano sul tavolino per stringere quella di lui. «Cosa c'è, tesoro? Per favore, cosa c'è?» Lui scosse la testa. Le lacrime gli rigarono le guance. Prese un fazzoletto e si asciugò gli occhi. «Vorrei averti conosciuta prima» le confidò. «Prima saresti stato un pedofilo» osservò Reggie sorridendo e continuando a stringergli la mano. Charles cominciò a ridere tra le lacrime. «Hai deciso così perché tra noi non funziona?» domandò. «Cosa vuoi dire?» gli chiese Reggie. «Tra noi funziona benissimo.» «Parlavo del... sesso.» «Oh, andrà benissimo anche quello» disse la ragazza in tono allegro. «Non ti preoccupare. Abbiamo solo bisogno di fare un po' più di pratica.» Charles annuì e non disse niente. «Ci siamo appena conosciuti» continuò Reggie, ribadendo il punto. «Dobbiamo insistere, ecco tutto. Imparare a conoscerci. Abbiamo un mucchio di tempo.» Charles continuò a tacere.
«Il sesso non è niente, io sono disposta ad aspettare anche per sempre. E vuoi sapere perché? Perché tu sei diverso da tutti quelli che ho conosciuto. Certi uomini a un certo punto cominciano a lamentarsi della moglie. Lo so che tu non sei sposato, sto solo cercando di spiegarti una cosa. Fanno così perché all'improvviso si sentono in colpa di essere a letto con una puttana. E perciò danno la colpa alla moglie. La moglie fa questo, la moglie non fa quello, è sempre colpa della moglie. Ad altri invece piace spiegarti quanto sono intelligenti, o virili. Nel cuore della notte. Questo perché stanno pagando per scopare ma vogliono che tu capisca che la loro è una scelta e non sono costretti a farlo; sono davvero persone molto speciali e vogliono che tu lo sappia. E alcuni, se non mostri di apprezzare quanto sono meravigliosi, cominciano a picchiarti. E sono talmente meravigliosi che potrebbero romperti i denti, o spezzarti un braccio, o tutt'a un tratto tirare fuori una pistola o un coltello. Sono quelli da cui, se li incontri, farai meglio a scappare in fretta. Correre via in mutande, correre via a culo nudo, correre via prima che la situazione diventi davvero pericolosa. Tu pesi cinquanta chili e il gorilla a letto con te ne pesa centodieci. Non arriveranno i marine a salvarti. Non sono mai stata con uno come te, Chaz» disse Reggie. Tese di nuovo le mani sul tavolino e strinse quelle di Charles tra le sue. «Mai. Tu non cerchi di fare colpo, non ti dai arie, non mi dici di avere un quoziente d'intelligenza di trecentododici, o bicipiti che misurano cinquanta centimetri. Tu sei semplicemente... così pieno di vita. Così... dolce... e... gentile e... e... «Mi tratti sempre come una signora. Sempre. Be'... è perché sono una puttana, vero? Lo so. Tratta sempre una signora come una puttana e una puttana come una signora, giusto?» «Tu non sei una puttana, Reggie.» «Se continui a dirmelo, finirò per crederci.» «Credici.» «Chaz» cominciò la ragazza. Si interruppe, lo guardò e poi chiese: «Ti fidi di me?». «Completamente.» «Allora dimmi cos'è successo ieri sera.» «Non capisco di cosa parli. Ieri sera quando?» «Dove sei stato, per esempio? Cos'hai fatto?» «Avevo degli affari da sistemare. Te l'ho detto.» «Di sera tardi? Sei rientrato in hotel solo alle...» «Sì, Reggie. Di sera tardi.»
«Per favore, non arrabbiarti con me. Sto soltanto cercando...» «Non sono arrabbiato.» «Hai avuto veramente un incubo, Chaz?» «Sì.» «Perché, dal modo in cui ti tenevi lo stomaco...» «È stato un incubo, Reg.» «... sembrava che soffrissi.» «Era un incubo doloroso.» «Hai un mucchio di antidolorifici in bagno.» Sul tavolo scese il silenzio. «Chaz? Per cosa sono quelle pillole?» «Certe volte mi viene mal di testa. Per via del Vietnam.» «Mal di testa nella pancia?» «Lascia perdere, Reg.» «Non arrabbiarti, per favore, non arrabbiarti.» «Non sono arrabbiato.» «E dove vai questa sera, Chaz? Di che affari ti devi occupare questa sera? Che affari ci impediscono di fermarci in un bed and breakfast quassù?» «È una vecchia storia.» «Mi hai detto che questa sera sarà la fine di...» «Sarà così.» «La fine di cosa, Chaz?» «Di quella vecchia storia.» «Quale vecchia storia? Senti, se io non sono una puttana, allora fidati di me, okay? Lascia che ti aiuti in qualsiasi cosa tu...» «Va tutto bene, Reggie. Non c'è niente che tu possa fare per aiutarmi, credimi.» Le strinse le mani. «Credimi.» La ragazza lo fissò negli occhi. «Credimi» ripeté Chaz. Reggie avrebbe voluto poterlo fare. Avrebbe voluto non provare quella sensazione, la sensazione che molto presto sarebbe successo qualcosa di terribile. «Christine e io eravamo appena uscite dal college» disse Susan Hardigan. «Tutt'e due eravamo molto giovani, molto arroganti e, temo, non molto attraenti.» Era seduta su una sedia a rotelle nel sole sbiadito del tramonto, sbiadita lei stessa, sui sessantacinque anni secondo i detective, gracile con indosso
la vestaglia blu e le pantofole di lana blu della casa di riposo, i capelli grigi raccolti in uno chignon ordinato sulla nuca. I due poliziotti sospettavano che non fosse mai stata una bella donna e di certo il tempo non era stato clemente con lei. Aveva una mente vivace, filtrata però dalla voce tremula. Se ne stava seduta tutta rugosa e rattrappita, quasi volesse tenere a distanza la morte stessa. Avevano trovato il suo nome in un mucchietto di lettere sulla scrivania di Christine Langston. La lettera più recente era datata ventiquattro aprile, quasi nove settimane prima. Avevano telefonato per chiedere se potevano andare a parlarle e un amministratore della casa di riposo Fairview aveva risposto che andava benissimo, purché la visita fosse breve. Il viaggio in auto fino a Sands Spit aveva richiesto poco più di due ore. Adesso, alle sette di sera, sedevano in un ampio bovindo mentre il crepuscolo scendeva velocemente. «E siete rimaste amiche per tutti questi anni?» domandò Kling. Sembrava sorpreso. Era ancora abbastanza giovane da credere che i rapporti di amicizia nascessero e finissero in periodi ben definiti della vita di una persona: infanzia, liceo, college, età adulta. Non riusciva a immaginare un'amicizia che durasse fino alla vecchiaia, forse addirittura fino alla morte. Ma ecco qui Susan Hardigan, che aveva conosciuto Christine Langston quando tutt'e due erano giovani insegnanti alla Warren G. Harding High School di Riverhead. «Sì, per tutti questi anni» confermò la donna. «Ecco, non è che ci vediamo spessissimo, specie dopo che ho cominciato ad avere problemi alle gambe. Ma ci scriviamo regolarmente e ci sentiamo per telefono, sì. Siamo ancora ottime amiche.» Ai due detective venne in mente, quasi contemporaneamente, che la Hardigan non sapeva della morte di Christine Langston. Brown lanciò un'occhiata a Kling e lo vide voltarsi verso di lui nel medesimo istante. Chi dei due doveva dirglielo? A un tratto desiderarono non aver fatto tanta strada per arrivare fin lì. «Signora Hardigan» cominciò Brown. «C'è una cosa che lei dovrebbe sapere.» La sua voce, i suoi occhi trasmisero il messaggio prima ancora che le parole gli uscissero di bocca. «Le è successo qualcosa?» chiese subito Susan. «È per questo che siete qui?» «Signora» le rispose Brown «Christine è stata uccisa.»
«L'avevo sognato» disse la donna. «L'altra notte. Ho sognato che qualcuno la pugnalava.» Brown le raccontò cos'era successo realmente. Le spiegò che stavano parlando con tutte le persone in qualche modo collegate a Christine, anche con i suoi studenti, per individuare un punto di partenza per le indagini. Susan ascoltò attenta. Brown non sapeva come affrontare la questione della sessualità di Christine Langston. Davanti aveva un'anziana signora su una sedia a rotelle, una zitella che gli ricordava zia Hattie del North Carolina, anche se la Hardigan era bianca. Come faceva a chiederle se sapeva che anni prima la sua cara amica aveva telefonato alla polizia per denunciare un falso stupro? «Lei è al corrente di un certo fatto che Christine parecchio tempo fa aveva segnalato alla polizia?» chiese Kling, affrontando cautamente l'argomento. «Quale fatto?» domandò Susan. «Aveva sollecitato i favori di un tassista» borbottò Kling. «Un tassista aveva sollecitato i suoi favori?» «No» rispose Bert, e si schiarì la gola. «Era stata la signorina Langston a cercare i suoi favori.» «Sciocchezze» scattò Susan. «Che tipo di favori?» Kling si schiarì di nuovo la gola. «Favori sessuali» precisò. Brown avrebbe voluto sprofondare. «State parlando del famoso scherzo di Christine?» domandò la donna. «È a quello che vi state riferendo?» «Di che scherzo si tratta, signora?» «Alla Harding? Con quel ragazzo che aveva bisogno di una A?» «Ci racconti» la esortò Brown. «Però non era un tassista. Era uno studente.» Pregustando chiaramente il racconto, quasi sfregandosi le mani per l'eccitazione, Susan si sistemò meglio sulla sua sedia a rotelle, si piegò in avanti come per condividere un meraviglioso segreto, abbassò la voce e cominciò: «Quel ragazzo aveva disperatamente bisogno di una A nel corso di Christine. "Elementi base di composizione", o quello che era. Parliamo del liceo, il ragazzo era all'ultimo anno. Comunque, aveva bisogno di una A da Christine per alzare la sua media da C a B. Aveva presentato domanda di ammissione a un college, una piccola, insignificante università del Vermont, e per l'ammissione era necessaria la media di B».
Susan sorrise. Aveva dei brutti denti, notò Brown. All'improvviso la dorma non assomigliava più a zia Hattie. «Be'... devo ammettere che è proprio divertente. Per scherzare, Christine ha detto al ragazzo...» La vecchia strizzò l'occhio ai detective. «Non so se siete abbastanza grandi per ascoltare questa storia.» «Ci metta alla prova» propose Brown. «Christine gli ha detto che se fosse andato a letto con lei, gli avrebbe dato una A. Scherzando, naturalmente.» «Naturalmente» confermò Brown. «Ma lui ci ha creduto!» «E chi non ci avrebbe creduto?» fece Brown. «Ma ci pensate? Christine scherza e lui pensa che gli stia facendo davvero delle avance.» «Quindi Christine gli ha spiegato che stava solo scherzando, giusto?» «Be', no» rispose Susan, ridacchiando. «Lui aveva diciotto anni, lei ventitré; è stato consensuale. Non c'era niente di sbagliato.» «Assolutamente niente» confermò Kling. «Si ricorda come si chiamava il ragazzo?» «Christine non me l'ha mai rivelato. Mi ha raccontato la storia una sera a cena.» «Lei sta dicendo che la sua amica è andata a letto con quel ragazzo» riassunse Brown. «Non è una storia deliziosa?» fece Susan, battendo le mani. Si piegò ancora di più in avanti, con aria da cospiratrice. La sua voce si abbassò a un sussurro: «Ma non è finita lì». Nessuno dei due detective osava chiedere com'era finita. «Christine gli ha dato comunque C!» esclamò Susan, trionfante. Per un istante i due detective non replicarono. «Il ragazzo è stato poi accettato in quel college del Vermont?» chiese finalmente Brown. «No! È stato richiamato sotto le armi!» Brown annuì. «Che suprema ironia!» fece Susan. «Sai una cosa?» disse Brown mentre tornavano in città. «C'è gente che è brutta da giovane e continua a essere brutta da vecchia. Non cambia niente: se uno è brutto è brutto.» Erano intrappolati in un ingorgo inspiegabile, visto che non era l'ora di
punta. Brown era al volante. I finestrini dell'auto erano abbassati. Un ronzio incessante sembrava aleggiare su tutto. «E ti dirò un'altra cosa» riprese Brown. «Se ti trovi davanti una vecchia perfida, dieci a uno che è stata una ragazza perfida. E probabilmente una bambina perfida. Non cambia mai niente. Chi è perfido è perfido. Susan Hardigan si è divertita a raccontarci quella storiaccia. Dovevano essere due grandi stronze, lei e la sua cara amica Christine. Tutt'e due brutte, tutt'e due perfide.» «Già» fece Kling. Viaggiarono in silenzio per un po', riflettendo sui grandi misteri della vita. «Hai tempo per bere qualcosa?» chiese Kling. «No, Caroline mi sta aspettando» rispose Brown. Quando quella sera rientrò a casa, Carella spiegò che aveva fatto tardi perché c'era stato un altro omicidio e il tenente li aveva sguinzagliati di nuovo in giro per tutta la città. «Nell'88° questa volta, un vecchio sacerdote, la stessa Glock» raccontò a Teddy. «E il caso è toccato a Ollie Weeks, pensa che fortuna per noi.» Con questo quanti omicidi fanno?, domandò Teddy a segni. «Quattro.» È un pazzo che spara alia gente a caso? La parola "pazzo" era difficile da esprimere a segni. All'inizio Carella la lesse come "nazi". «Oh, pazzo» disse, dopo che Teddy glielo ebbe ripetuto tre volte. «Forse.» Però non credeva che fosse così. La prima cosa che Kling pensò fu: è una puttana. Era scivolata a sedere sullo sgabello accanto al suo, una puttana. Oppure era lui che era prevenuto? O forse aveva bevuto troppo? Oppure, semplicemente, Sharyn gli mancava tanto? Quando sei innamorato, tutto il mondo è nero. Parole di Sharyn. La ragazza gli sorrise. Una ragazza molto nera, con denti molto bianchi. Gonna cortissima, che metteva in mostra le gambe. Gambe nere lisce, nude e lucide. Bert fu quasi sul punto di metterle una mano sul ginocchio. Un riflesso condizionato. Ormai stava con Sharyn da troppo tempo. Una volta che assaggi il nero, non puoi più tornare indietro. Parole di Sharyn anche queste.
«Un martini sporco» ordinò la ragazza al barista. «Che cos'è?» le domandò Kling. «Un martini sporco?» La ragazza si voltò verso di lui. «Non lo sai?» chiese e poi, rivolta al barista: «Louis, non sa cos'è un martini sporco». «Spiegaglielo tu, Sadie» disse il barista. «Sadie Harris» si presentò la ragazza, e tese la mano. Kling gliela strinse. «Bert Kling.» «Lieta di conoscerti, Bert. Allora, il martini sporco si fa...» cominciò, ma poi si rivolse di nuovo al barista: «Louis, correggimi se sbaglio». «Sei tu che mi hai insegnato a farlo» replicò Louis, sorridendo. «Si mettono due dosi di gin» spiegò Sadie «e si aggiungono tre cucchiaini di succo d'oliva. Niente vermut. Solo il succo d'oliva. Poi o si shakera il tutto o lo si mescola...» «Io lo preferisco mescolato» intervenne Louis, che stava già preparando il drink. «... con ghiaccio» aggiunse Sadie. «Si versa in un bicchiere alto e si aggiunge un'oliva. A me piacciono le olive piccanti, come Louis sa bene. Grazie, Louis» disse la ragazza, prendendo in mano il bicchiere a stelo. «Vuoi fare un assaggino, Bert?» domandò. «Un sorsetto?» «Perché no?» La ragazza gli avvicinò il bicchiere alle labbra. Bert bevve un sorso. «Buono.» «Delizioso» replicò Sadie e si portò il bicchiere alle labbra. Labbra carnose, disegnate dal rossetto. Capelli neri pettinati in microtreccine. Orecchini pendenti. Gambe accavallate, gonna cortissima, un piede che faceva dondolare un sandalo calzato solo a metà. Camicetta di seta scollata, con tre bottoni aperti. Niente reggiseno. Un capezzolo appena visibile. Ma non del tutto. «Tu che lavoro fai, Bert?» «Sono un poliziotto.» «Oh, Signore» fece Sadie. «E tu?» «Sarebbe buffo se fossi una puttana, vero?» disse la ragazza, facendo l'occhiolino a Louis. «Che lavoro fai?» insistette Kling. «La bibliotecaria.» «Ci scommetto.»
«Anch'io scommetto che sei un poliziotto.» «Vinceresti.» «Che cosa sei, dell'Antidroga?» «No.» «Controllo del territorio?» «No.» «Buoncostume?» «No.» «Perché, se tu fossi della Buoncostume e io fossi una puttana, dovrei stare molto attenta, capisci cosa intendo?» «Sì, immagino che dovresti stare molto attenta.» «Meno male che sono solo una bibliotecaria.» «Ah-ah.» «E meno male che tu sei solo un semplice, vecchio poliziotto.» «Un semplice, vecchio detective di terzo grado.» «Quale distretto?» «87°.» «Louis, tu credi che sia davvero un poliziotto?» «Se uno sostiene di essere un piedipiatti, non ho motivo di dubitare della sua parola.» «Fammi vedere il distintivo» disse Sadie. Kling estrasse il portafoglio e lo aprì, mostrando il distintivo appuntato alla pelle. «Accidenti» fece Sadie. «Te l'avevo detto» rispose Kling. Chiuse il portafoglio e se lo rimise in tasca. «Vuoi vedere la mia tessera di bibliotecaria?» «No, ti credo.» «Secondo te, quante probabilità ci sono che un piedipiatti bianco e biondo incontri una stupenda bibliotecaria nera in un bar ai confini dell'universo?» «Pochissime, direi.» «Però sei d'accordo, eh?» Kling la guardò, perplesso. «Sul fatto che sono stupenda» spiegò Sadie. «Devo ammettere che ci ho pensato.» «Perciò, se non sono una puttana, perché me ne sto seduta qui a esibirti la mia merce? Che razza di bibliotecaria si comporterebbe come una donna
di facili costumi?» «Una donna di facili costumi, eh?» ripeté Kling, sorridendo. «Esattamente. Che dondola il piede e mette in mostra le tette sul ripiano del bar. Santo cielo, al mio papà verrebbe un colpo.» «Ci scommetto.» «Louis, fammi un altro di questi bicchierini.» Il barista le versò un altro drink. Sadie sollevò il bicchiere a stelo. «Ti va un altro assaggino, Bert? Presumo che tu sia fuori servizio, visto che è venerdì sera e te ne stai seduto qui a bere. Un altro piccolo sorso, Bert? Un altro dolce assaggio?» Gli avvicinò di nuovo il bicchiere alle labbra e lo inclinò leggermente. Kling bevve un sorso. «Delizioso, vero?» fece Sadie, e inarcò un sopracciglio come una stella del cinema. «Ma tornando al discorso di prima, Bert, se io fossi una puttana, dovrei dirti quanto voglio, capisci cosa intendo? E anche in quel caso, perché tu possa arrestarmi, io dovrei essere nuda e avere già accettato dei contanti, la cifra che chiedono quelle ragazze: cento dollari per un lavoretto di bocca, duecento per la posizione del missionario, cinquecento per tutta la notte, o quello che è. D'altra parte tu sei fuori servizio, no? La mia domanda è: quand'è che un piedipiatti fuori servizio non è più un piedipiatti? E gli piacerebbe fare l'amore con una stupenda bibliotecaria nera?» Kling la guardò. Dietro il bancone, Louis si era allontanato di tre discreti metri. «Un assaggino, Bert?» chiese Sadie. «Io credo...» Sadie gli prese la mano e se la mise sulla coscia. Dondolando il piede. Sopracciglia inarcate. Di colpo, Bert si alzò in piedi e andò al telefono. Sharyn rispose al terzo squillo. «Non riattaccare» le disse Kling. «Per favore.» «Ero sotto la doccia. Sono bagnata fradicia.» «Vai a prendere un asciugamano. Ti richiamo.» «Ce l'ho, l'asciugamano.» «Sharyn, io ti amo da morire.» Silenzio.
«Sharyn, lascia che venga da te. Ti prego.» «No» rispose Sharyn, e riattaccò. Sadie era ancora seduta al bar. Quando Bert le si sedette di nuovo accanto, lei lo ignorò. Bevve un lungo sorso del suo martini vuotando il bicchiere, che poi posò delicatamente sul ripiano del bar. Quindi si voltò verso Kling, toccando con le ginocchia quelle di lui. «La mammina ti ha dato il permesso?» domandò. La vecchia signora aveva portato fuori la sua cagnolina alle undici e mezzo, una cosa non particolarmente saggia da fare in quella zona della città, ma lei lo faceva tutte le sere e sempre a quell'ora. Tutti nel quartiere la conoscevano, bianchi e neri, e fino a quel momento non aveva mai avuto problemi. Quando sentì la voce dietro di lei, fu sorpresa, ma non spaventata. «Helen?» La donna si voltò. La cagnolina non ringhiò neppure, limitandosi a guardare nel buio come la sua padrona. «Ti conosco?» domandò l'anziana. «Dovresti» rispose l'uomo. «Sono Carlie» aggiunse, e le sparò due volte in faccia. La cagnolina si voltò per correre via e l'uomo sparò anche a lei. 7 All'inizio pensò che la ragazza a letto con lui fosse Sharyn. Aprì gli occhi e la prima cosa che il cervello registrò fu il nero. Poi si rese conto che l'odore era diverso, la pettinatura era diversa, la faccia era diversa, quella ragazza non era Sharyn Cooke. Oh, Gesù, pensò, e si sentì immediatamente in colpa. Quasi si vergognava a guardarla. Ma continuò a guardarla. Capelli neri a treccine minuscole. Labbra carnose, senza rossetto adesso. Profondamente addormentata, il respiro leggero. Faceva pensare a un angelo lucente. Gli orecchini sul comodino di fianco a lei. Gli abiti sopra una sedia, all'altro lato della stanza. La sveglia indicava le sei e un quarto. Doveva essere in sala agenti alle sette e quarantacinque.
Era una puttana? La sera prima al bar... non si era parlato di soldi? Non ricordava neppure che bar era. Continuò a guardarla. Era molto bella. Non poteva essere una puttana, vero? Si chiamava... Sally? Sophie? Qualsiasi fosse il suo nome, qualsiasi fosse il suo mestiere, non avrebbe dovuto essere a letto con lui quella mattina. C'era qualcuno nel letto di Sharyn quella mattina? Come se il materasso si fosse improvvisamente incendiato, saltò giù di colpo e attraversò la stanza di corsa per andare in bagno. Chiuse la porta a chiave. Si guardò nello specchio. Forse non hai fatto niente, a parte dormire con lei, si disse. Se credi a questa cretinata, avrei un bellissimo grattacielo da venderti. Continuò a guardarsi nello specchio. Poi entrò nel box doccia, aprì l'acqua bollente e continuò a ripetersi: cos'ho fatto, cos'ho fatto, cos'ho fatto? Quando rientrò nella stanza con un asciugamano in vita, la ragazza era seduta sul letto. «Ciao» gli disse, scendendo immediatamente. «Devo fare pipì» annunciò, e gli passò accanto per andare in bagno in un lampo di gambe lunghe, sedere piccolo e sodo, bel seno piccolo. Si chiuse la porta alle spalle. Kling la sentì fare pipì. Non voleva quell'intimità. Quell'intimità era riservata a Sharyn. Ma Sharyn non era lì, lì c'era un'altra donna, e non ricordava neppure il suo nome. Indossò boxer, pantaloni e camicia. Doveva offrirle il caffè? E, comunque, lei chi era? L'aveva pagata per la notte? Sperava di no, sperava che non fosse una puttana. Si avvicinò al comò, afferrò il portafoglio pensando di contare i soldi, e vedere se per caso gli mancava un centinaio di dollari. La porta del bagno si aprì. La ragazza rimase immobile, nuda con le mani sui fianchi. «Manca qualcosa?» domandò. Un sorriso sul viso. «Ne sei ancora convinto, vero?» Kling non disse niente.
«Quanto mi sono divertita con te ieri sera. Al bar.» Kling continuava a tacere. «Credi ancora che sia una puttana, vero? Santo cielo, ma quanto avevi bevuto, Bert?» «Parecchio. Mi dispiace. Scusami se...» «Ti ricordi come mi chiamo?» «No, mi dispiace.» «Sadie. Sadie Harris.» Bert annuì. «Bibliotecaria.» Bert annuì di nuovo. «Sul serio, faccio la bibliotecaria. Questa notte non ti è costata un centesimo. Conta i soldi, fai pure.» «Be'...» borbottò Kling, e appoggiò di nuovo il portafoglio sul comò. «A proposito, che cosa ti ricordi di questa notte?» Kling allargò le mani in un gesto impotente. «Be', a me è piaciuto» disse lei. «Hai una vestaglia da darmi? Oppure pensi di sbattermi fuori senza colazione?» Kling andò verso l'armadio a muro, prese un accappatoio dalla gruccia, tornò dalla ragazza e l'aiutò a infilarselo. Il senso di colpa di poco prima si stava trasformando in qualcos'altro. Stava cominciando a sentirsi un verme nei confronti di quella ragazza. Se davvero era una bibliotecaria, allora... «Dove lavori?» le domandò. «In quale biblioteca?» «Non mi credi ancora, eh?» fece Sadie, avvicinandosi ai pensili sopra il lavello. Ne aprì uno e trovò un barattolo di caffè macinato. «Succursale della biblioteca pubblica di Chapel Road, vicino al vecchio teatro Orpheum. A proposito, devo essere al lavoro alle nove. E prima devo passare da casa per prendere la divisa.» «Io devo essere al lavoro alle sette e quarantacinque.» «Allora abbiamo tempo» considerò Sadie, alzando un sopracciglio. «Per la colazione» aggiunse. Questa volta era completamente sobrio. Questa volta era sveglissimo. Quando lei si lasciò scivolare l'accappatoio dalle spalle, spalancò le braccia e la strinse a sé. E quando lei alzò il viso verso il suo, la baciò sulla bocca. E poi la sollevò da terra e la portò a letto.
«Credi ancora che sia una puttana, vero?» gli domandò, dopo. Era distesa accanto a lui, rannicchiata tra le sue braccia. Una mano sul petto di Kling. Lunghe dita sottili. Unghie smaltate di rosso brillante. «No, non credo che tu sia una puttana.» «Allora perché ieri sera mi sono comportata così in quel bar?» «Perché?» le chiese Kling. «Perché mi piaceva quello che vedevo. E le bibliotecarie non escono molto spesso.» «Sembrava che conoscessi abbastanza bene il barista.» «Louis. Sì, lo conosco. Io abito proprio dietro l'angolo.» «Fai spesso quel gioco? Fingere di essere una puttana?» «Dipende da cosa leggo durante la settimana. Certe volte faccio finta di essere una ricca ragazza ebrea dei sobborghi.» «Sei davvero una bibliotecaria?» «Amico, quante volte te lo devo dire? Vuoi che ti spieghi la classificazione decimale Dewey?» «È un altro gioco?» «Il sistema Dewey...?» «No, la cantilena da ragazza nera.» «Io so parlare bianco, nero, tutto quello che vuoi, tesoro» affermò Sadie, diventando improvvisamente ebrea. Poi, per qualche ragione, sollevò una mano per toccargli la bocca. La mano si fermò lì, le lunghe dita che seguivano il profilo delle labbra. «Hai una bella bocca. Credo di essere innamorata di te» disse. «Oh, pshaw!» esclamò. «Ho preso quest'espressione da un romanzo inglese di spie. Un tizio di nome Sykes non fa che ripeterlo al suo assistente: "Oh, pshaw, Shaw", che è appunto il nome dell'assistente. Chiedi a Louis. Due mesi fa sono entrata nel suo locale parlando con accento britannico e fingendomi una spia. Ma credo davvero di essermi innamorata di te.» Si mise a sedere, si piegò sopra Kling e lo baciò sulla bocca. Si staccò da lui e lo fissò negli occhi. «Come mi chiamo?» gli domandò. «Sadie» rispose Bert. «Ho un dottorato della Radmore University» disse Sadie. «E ho trent'anni. Tu quanti ne hai?» «Trentatré.» «Be', troppo giusto, giusto?» «Slang nero?» chiese Kling. «Trash bianco» replicò Sadie. «Sono la tua prima ragazza nera?»
«No.» «Tu sei il mio primo bianco.» «Ti sono piaciuto?» «Oh, mio caro ragazzo!» fece Sadie, e lo baciò di nuovo. Tutti e due guardarono la sveglia sul comodino. «Non ne ho ancora abbastanza di te» annunciò la ragazza. «Sadie...» «Non dirmi che sei sposato o fidanzato o anche solo che stai pensando di avere una relazione con un'altra. Perché adesso tu farai l'amore con me e poi discuteremo del nostro futuro insieme, mi hai capito, ragazzo bianco?» «Sadie...» «Adesso taci e basta.» Kling tacque. «Cominciamo a essere oberati di lavoro» comunicò Byrnes. «Ve l'avevo detto» fece Parker. «La discarica della polizia investigativa.» «Dove questa volta?» chiese Hawes. «Nel 38°. A Majesta. Una vecchia e il suo cane.» «Quanti anni?» domandò Carella. «Ottanta.» «Sta salendo con l'età» osservò Meyer. «Bersagli più facili.» «Stessa Glock?» chiese Brown. «Identica. Per maggior sicurezza ha sparato anche al cane.» «Ha ammazzato anche lui?» «Lei.» «Parlavo del cane.» «Appunto, una femmina.» «Come lo sai?» «Dal rapporto del 38°. Ci hanno mandato tutta la documentazione appena hanno avuto la conferma dalla Balistica.» «Naturalmente» commentò Parker con aria saputa. «Che tipo di cane era?» chiese Genero. «Abbiamo già parlato del cane, Richard.» «Be', sono curioso.» «Un golden» disse Byrnes. «È un bel cane, il golden.»
«Certa gente si arrabbia molto, quando viene ucciso un cane» osservò Hawes. Era seduto accanto alle finestre e i suoi capelli rossi lambiti dal sole sembravano in fiamme. «Puoi uccidere tutti i gatti del mondo e non interessa a nessuno. Ma uccidere un cane? Correranno a manifestare davanti al municipio.» «Per i golden?» domandò Genero. «O per tutti i cani?» «Il punto è che siamo pieni» ripeté Byrnes. «Ormai siamo a cinque omicidi...» «Più il cane, non dimentichiamolo» intervenne Genero. «Fanculo il cane» disse Parker. «Eileen, Hal: su cosa state lavorando?» «Le rapine nei negozi di liquori sulla Culver.» «Potete prendervi la signora del cane?» «E come facciamo?» rispose Willis. «Stiamo sorvegliando quattro negozi contemporaneamente.» «La signora del cane la prendiamo io e Andy» propose Genero. «Abbiamo già quella dei cosmetici» gli ricordò Parker. «Mi piacciono i cani» spiegò Genero. «Come sta andando con la professoressa?» chiese Byrnes. «Non stiamo andando da nessuna parte» rispose Brown. «E Kling dov'è?» domandò Byrnes. Brown si strinse nelle spalle. Tutti alzarono gli occhi sull'orologio a parete. «Allora, cosa facciamo?» chiese Byrnes. «Cotton? Ti va di lavorare sull'ultimo omicidio?» «Certo» confermò Hawes. «Chi ha preso la chiamata al 38° Distretto?» «Un certo Anderson. Abbiamo tutta la sua documentazione.» «Gli darò un colpo di telefono.» «Chiedigli come si chiamava il cane» disse Genero. Secondo quanto affermavano i vicini di casa di Helen Reilly, il cane si chiamava Pavarotti. Una femmina. Va' a sapere perché. A quanto pareva, al momento dell'omicidio Helen era single, però in precedenza era stata sposata due volte. Tutto questo si seppe da diverse fonti nel suo palazzo, ma soprattutto dalla sua amica più intima, una donna che abitava sul lato opposto della strada, al 324 di South Waverly. Hawes arrivò da lei solo verso le tre di quel sabato pomeriggio. Si chiamava Paula Wellington e secondo Hawes aveva circa cinquant'a-
nni, una trentina in meno della signora del cane. Una bella donna con folti capelli bianchi, che portava sciolti. Occhi azzurri. La prima cosa che disse a Hawes fu che fino a tre mesi prima pesava novanta chili. Adesso sembrava invece in gran forma. «Helen e io facevamo lunghe passeggiate insieme. Eravamo amiche da molto tempo.» «Da quanto esattamente?» le chiese Cotton. «Helen si era trasferita in questo quartiere circa tre anni fa. Era una persona adorabile.» «Sa dove abitava prima?» «A Calm's Point. Era vedova da poco, quando è arrivata qui.» «Ah, sì?» «Sì. Suo marito era rimasto ucciso in una sparatoria di strada.» «Ah, sì?» fece di nuovo Hawes. «Guerra tra bande. Stava rientrando a casa e, proprio mentre scendeva in strada dalla stazione della sopraelevata, è passata una macchina con dei ragazzi a bordo che hanno sparato a qualcuno di un'altra banda. Martin è stato così sfortunato da trovarsi nel posto sbagliato nel momento sbagliato.» «Sa come si chiamava di cognome?» «È stata una sparatoria tra bande» ribadì Paula. «Vorrei controllare comunque.» «Martin Reilly. Be', Reilly. Era il marito di Helen.» «Naturalmente» disse Hawes, ma prese comunque nota del nome. «Ed era anche un matrimonio felice. A differenza del primo.» «Lei sa a quando risaliva il primo matrimonio?» «Almeno a cinquant'anni fa. Il primo matrimonio di Helen. Due figli. Dopo dodici anni di sofferenze, alla fine se n'era andata.» «Andata?» «Sì: addio, è stato un piacere conoscerti.» «Hanno divorziato?» «Oh, sono sicura di sì. Be', Helen poi si è risposata, no?» «Giusto. Lei sa come si chiamava il primo marito?» «No, mi dispiace. Luke Qualcosa.» «L'ha conosciuto?» «No.» «Il primo marito ha mai cercato di mettersi in contatto con Helen?» «Non credo. No. Sono sicura che me l'avrebbe detto. Per lei quel divorzio è stato una liberazione.»
«E i figli? Sa come si chiamavano?» «Mi dispiace, no.» «Erano maschi o femmine?» «Non lo so proprio.» «Bene. La ringrazio, signora Wellington, di avermi dedicato un po' del suo tempo.» «Non gradirebbe una tazza di tè? È quasi ora.» Hawes esitò un momento. Poi disse: «Devo tornare al lavoro. Magari un'altra volta». Paula annuì. A Fat Ollie Weeks non piaceva la religione in generale e non gli piacevano i preti in particolare, ma non era un argomento di cui amava discutere. Non poteva sostenere di trovare particolarmente sgradevole padre Joseph Santoro, a parte il fatto che pareva vicino all'ottantina e Ollie non provava grande simpatia nemmeno per i vecchi. Come mai un uomo di quell'età non avesse ancora capito che indossare una lunga veste nera e una collana d'oro con la croce poteva essere considerato in un certo senso effeminato, era qualcosa che andava ben oltre la comprensione di Weeks. Il quale tuttavia non si trovava là per discutere delle preferenze sessuali o del peculiare abbigliamento dei sacerdoti cattolici. Si trovava là per sapere cos'aveva visto o sentito padre Joseph Santoro la sera in cui qualcuno aveva sparato due volte in faccia a padre Michael Hopwell, essendo padre Santoro l'ultima persona, a parte il killer, che aveva visto vivo il prete ora defunto. Alle diciotto di quel sabato la casa di riposo stava già servendo la cena ai circa cinquanta ospiti, tra preti e suore in pensione. Weeks sapeva che quei religiosi avevano fatto voto di castità e povertà, cosa che presumeva comprendesse anche non mangiare troppo o andarsene in giro a scopare di notte. Da qui l'aspetto macilento e affamato di molte delle persone sedute ai lunghi tavoli di legno nella sala da pranzo. Ollie si aspettava una cena schifosa e rimase sorpreso nel constatare che il cibo era abbondante e davvero delizioso. Seduto di fronte a padre Joseph, lieto che Patricia Gomez non fosse lì a sgridarlo per quello strappo alla dieta, Ollie si avventò sul roast-beef, un po' troppo cotto per i suoi gusti, i fagiolini al vapore cucinati alla perfezione e le patate arrosto, croccanti all'esterno e morbide e bianche all'interno. Solo dopo parecchi minuti si ricordò del motivo per cui si trovava là.
«Allora, mi dica di cos'avete parlato quella sera, lei e padre Michael.» «Per lo più del suo imminente pensionamento» rispose padre Joseph. Il sacerdote mangiava come un uccellino. Doveva stare attento alla sua figura femminea, rifletté Ollie. Quel vecchio finocchio. «E cosa pensava padre Michael del pensionamento?» chiese Ollie. «Non ne era troppo felice.» «Le ha parlato di qualcos'altro che lo turbava? Liti con i parrocchiani? Scontri con la gerarchia ecclesiastica? Qualcosa che potesse far presagire il suo omicidio?» Bella parola, pensò Ollie. Presagire. Dubitava che padre Joseph avesse mai sentito una parola del genere in vita sua. Ah, la maledizione di essere un uomo di cultura! «Padre Michael era molto amato da tutti» dichiarò padre Joseph. «Da quanto lo conosceva?» «Fin dai tempi del nostro primo incarico insieme.» «A St Ignatius?» «No. A Nostra Signora della Grazia. A Riverhead.» «Questo quando?» «Cinquanta e passa anni fa.» «E tutti lo amavano da morire anche allora?» Padre Joseph lo guardò. «Sta facendo del sarcasmo, per caso?» domandò. «Assolutamente no. Ho solo ripetuto quello che ha detto lei.» «Io non ho mai detto che lo amavano da morire.» «Lei ha detto che era molto amato da tutti.» «Sì, ma non ho detto "da morire".» «Non era così?» «Naturalmente c'erano dei disaccordi. In qualsiasi ministero ci sono dei disaccordi.» «Tipo cosa? Molly vuole abortire e padre Michael le dice: "No, questo è contro le leggi della chiesa?".» «Certe volte. Sì. L'aborto può essere un problema, perfino tra i fedeli.» «E il sesso prima del matrimonio?» «Sì, anche questo può essere un problema.» «O sposarsi con qualcuno di un'altra fede?» «Tutti i problemi che possono sorgere tra un sacerdote e i suoi fedeli, sì. È per questo che noi siamo qui, detective Weeks: per offrire guida e consiglio.»
«Lei crede che durante il ministero padre Michael possa aver avuto uno di questi problemi?» «Sono sicuro di sì.» «Padre Michael ha mai accennato a minacce...» «No, nessuna.» «... riguardanti qualche problema sorto...» «No.» «... in un momento qualsiasi durante il suo lungo...» «No, niente. Era preoccupato per il pensionamento. Pensava che non avrebbe avuto più niente da fare, una volta in pensione.» «Niente più problemi da risolvere, giusto?» Padre Joseph non disse niente. «A che ora ha lasciato padre Michael l'altra sera?» chiese Weeks. «Dovevano essere circa le dieci.» «Per andare dove?» «Alla fermata all'incrocio tra la Powell e la Moore. È lì che prendo l'autobus L-16. È una linea veloce, mi riporta qui in mezz'ora.» «Ha sentito qualcosa mentre aspettava l'autobus? Qualche sparo? Voci alterate? Roba del genere?» «No, niente.» «Quindi lei è arrivato qui intorno alle dieci e mezzo, esatto?» «Non ho guardato l'orologio.» «Lei ha detto che il viaggio dura mezz'ora...» «Sì, ma...» «O forse non è venuto direttamente qui, padre Joseph?» «Sono venuto direttamente qui.» «Per cui dev'essere arrivato verso le dieci e mezzo, le undici meno un quarto, non crede?» «Più verso le undici.» «Quando ha saputo della morte di padre Michael?» «Quella sera stessa, sul tardi. Suor Margaret mi ha telefonato per informarmi.» «Lei è sicuro che non sia stata suor Margaret a sparargli, vero?» «Naturalmente no!» «Chi pensa che possa avergli sparato, padre?» «Non ne ho idea.» «Nessun parrocchiano in grave disaccordo con la guida e il consiglio di padre Michael...?»
«Non sono al corrente di tali...» «A St Ignatius...» «No.» «O anche prima? A Nostra Signora della Grazia?» «Non mi viene in mente nessuno del genere» rispose padre Joseph. «Dov'è Nostra Signora della Grazia, comunque?» domandò Ollie. «Forse mi conviene farci un salto per vedere se c'è qualcuno con una memoria migliore della sua. Lo mangia quel dolce, padre? Sa, è un peccato sprecare il cibo.» Secondo Paula Wellington, la sua buona amica Helen Reilly era rimasta vedova da poco, quando tre anni prima si era trasferita da Calm's Point. Il marito era stato la vittima innocente di una sparatoria di strada. Calm's Point costituiva l'area più estesa della città. Secondo la mappa della polizia c'era una trentina di distretti in quella zona. Per l'esattezza trentaquattro, stabilì Hawes dopo averli contati. In base alla sua modesta opinione, a Calm's Point avvenivano almeno altrettante sparatorie di strada ogni singolo giorno della settimana. Be', forse era un po' esagerato. Ma risalire a una sparatoria di più di tre anni prima... e dovendo controllare trentaquattro distretti... Hawes pensò che forse avrebbe potuto cercare il nome MARTIN REILLY al computer, tornare indietro fino a circa cinque anni prima, fare una ricerca per OMICIDIO e probabilmente avrebbe avuto fortuna. Ma non sarebbe stato più facile e più veloce parlare di nuovo con la signora Paula Wellington? Certo che sarebbe stato più facile. Così, alle quattro di quel sabato pomeriggio, le telefonò per chiederle se poteva passare da lei: era saltato fuori qualcosa, e forse lei poteva aiutarlo. Paula Wellington rispose che di lì a poco sarebbe stata l'ora del tè, perciò Hawes poteva andarci subito. Ricordava l'indirizzo? Hawes ricordava l'indirizzo. South Waverly Street era un concentrato di varia umanità, quando Cotton Hawes ci arrivò alle cinque meno un quarto. Bambini in costume da bagno che correvano tra gli spruzzi degli idranti aperti; erano passati cinque giorni dall'inizio ufficiale dell'estate. Uomini in canottiera che giocavano a scacchi o a dama sopra cassette per le arance capovolte. Decine di donne in abiti di cotone che lavoravano a maglia sedute sugli scalini di casa come altrettante Mesdames Defarges. Furgoncini bianchi dei gelati che
battevano lenti le strade come predatori. Ragazzine non ancora adolescenti che sfoggiavano lunghe gambe sotto le minigonne e piccoli seni precoci nei top imprudentemente scollati. Giovani che portavano a spasso tutti impettiti il loro carico di testosterone. Cotton Hawes passò accanto alle tre donne sedute sugli scalini d'ingresso della casa di Paula. Le tre lo studiarono con un'occhiata, conclusero che era un poliziotto e tornarono ai loro pettegolezzi. Arrivato al terzo piano, bussò alla porta dell'appartamento 31. «Solo un secondo» disse Paula, e dopo un istante gli aprì. Hawes si chiese cosa diavolo stesse facendo lì. Paula indossava un paio di pantaloni di cotone verde acido e una canotta bianca, niente scarpe. I capelli bianchi erano raccolti in una coda di cavallo fermata da un nastro dello stesso colore dei pantaloni. Niente trucco, a parte il rossetto. «È in anticipo. Prego, entri.» «Mi scusi, se le piombo in casa in questo modo.» «Ehi, mi aveva avvertito» replicò la donna, guidandolo in soggiorno. La stanza era arredata in stile nordico, tutto legni chiari e tessuti ruvidi. Un grande specchio sulla parete dietro il divano la faceva sembrare grande il doppio. «Vuole davvero il tè?» domandò Paula. «O preferisce un drink?» «Sono ancora in servizio.» «Allora tè» decise Paula, che passò in cucina dove c'era già una teiera sul fornello. Il detective osservò la donna versare due tazze. Sentiva i rumori estivi della strada all'esterno. Paula posò le tazze e un vassoio di biscotti davanti a Hawes, seduto sul divano. Nel sole del tardo pomeriggio sorseggiarono tè e sgranocchiarono dolci. «Quello che volevo sapere...» cominciò Cotton, appoggiando la tazza. «Ecco, quando ci siamo parlati, lei ha accennato a una sparatoria...» «Sì.» «Ha detto che il marito di Helen Reilly è stato ucciso mentre scendeva da una stazione della metropolitana...» «Sì, la stazione della sopraelevata tra la Cooper e la Duane.» «Cooper e Duane. Dovrebbe trattarsi del 97° Distretto.» «Se lo dice lei» fece Paula, e sorrise. «Il tè va bene?» «Delizioso» rispose Hawes, riprendendo in mano la tazza. «Lei al telefono mi ha anticipato che era saltato fuori qualcosa...» «Sì. Ecco... in effetti volevo sapere in quale distretto era avvenuto l'incidente. La sparatoria. Insomma, l'omicidio.»
«Ah.» «Sì.» «Quindi immagino che fosse più facile chiederlo a me, piuttosto che controllare al computer o roba del genere.» «Be', in quel caso non avrei avuto il tè e i biscotti.» «Immagino di no. È per questo che è venuto fin qui, detective Hawes? Per il tè e i biscotti?» «No, sono venuto per chiederle se le andrebbe di cenare con me stasera.» «Capisco.» «Le andrebbe?» «Sì» rispose Paula. Dutch Schneider era il detective del 97° che tre anni prima si era occupato della sparatoria. Il suo distretto, e ovviamente la sala agenti, si trovavano all'ombra della struttura sopraelevata grazie alla quale i treni della metropolitana che emergevano dalla città vera e propria raggiungevano Calm's Point. A intervalli di pochi minuti un treno sferragliava non lontano dalle finestre aperte, ricordando ai due detective il ruggito e il rombo costante della città e costringendo Schneider a interrompere il suo racconto e ad alzare gli occhi al cielo. «All'inizio abbiamo pensato che il bersaglio fosse proprio Reilly» disse a Hawes. «Un tizio scende la scala dalla piattaforma dei treni, tutt'a un tratto gli sfreccia davanti una macchina, bang e il tizio è un cadavere sul marciapiede. Abbiamo pensato che l'assassino fosse qualcuno che conosceva le sue abitudini, che sapeva che Reilly quel giorno era andato in città in treno e sapeva a che ora sarebbe tornato, così l'aveva aspettato per fargli un'imboscata. Anzi, per un po' abbiamo sospettato della moglie. Abbiamo pensato che potesse aver pagato qualcuno per far fuori il marito appena sceso dal treno...» «E invece cos'è saltato fuori?» chiese Hawes. «Che lo amava da morire. Per lei era il secondo matrimonio, il primo era stato un disastro. Quella donna non avrebbe potuto essere più felice con Reilly, non aveva nessuna ragione al mondo per volerlo morto. Abbiamo scartato subito quella pista.» «Quando avete deciso che si trattava di una sparatoria tra bande?» «Dopo un bel po'. Insomma, non si trattava di un branco di teppisti di strada seduti in bella mostra sugli scalini di casa e di gente di una banda
rivale che passa in macchina e apre il fuoco. I colpi erano diretti esclusivamente agli scalini della piattaforma. E Reilly è stato l'unica vittima. Così per parecchio tempo ci siamo concentrati sui soliti sospetti.» «Vale a dire?» «Gente con cui Reilly aveva lavorato... sai, era un vecchio di settantotto anni, era in pensione. Gli amici con cui giocava a poker. Nessuno aveva un motivo per ucciderlo. Ma poi, tutt'a un tratto...» Poi, tutt'a un tratto, un treno passò rombando sui binari davanti alle finestre della sala agenti. Schneider alzò gli occhi al cielo e tamburellò con impazienza sul ripiano della scrivania. All'improvviso Hawes si sentì grato per la relativa pace e tranquillità del suo territorio. «Dov'ero rimasto?» domandò Schneider. «Poi tutt'a un tratto...» gli ricordò Hawes. «Sì, dal nulla sbuca una ragazzina ispanica che si presenta da noi e ci dice che qualcuno ha intenzione di uccidere il suo ragazzo. Sembra West Side Story, solo che qui parliamo di due gang portoricane, non di una gang bianca e di una ispanica. Comunque, pensa alla storia di Giulietta e Romeo, mi segui? Il fidanzato della ragazza fa parte dei Royal e il fratello invece degli Hearts. Il fratello le dice di rompere con quel tipo, lei rifiuta e di conseguenza adesso il fratello vuole ucciderle il fidanzato. A ogni modo, chi se ne frega? Perché dovremmo preoccuparci di questa merda tra delinquenti? Risolvetevela tra voi, okay? Un Royal in meno sulla Terra, sai che dispiacere. Però...» Schneider si interruppe e lanciò un'occhiata verso le finestre, come aspettandosi un'altra interruzione da parte del trasporto rapido cittadino. «Però» riprese, visto che non c'era pericolo «subito dopo la ragazza ci dice che sei mesi prima gli Hearts avevano cercato di farle fuori il fidanzato mentre tornava a casa dalla città...» «E questo si collegava con l'omicidio di Reilly, giusto?» «Stessa data, come poi è risultato. Dodici febbraio, sangue dappertutto sulla neve. Il ragazzo era sullo stesso treno di Reilly e stava scendendo, quando Reilly è stato colpito. Il ragazzo si era messo a correre come un disperato perché sapeva che era lui che gli Hearts volevano.» «Caso chiuso.» «Vorrei che fosse così» dichiarò Schneider. «C'erano trentasei persone in quella gang e tutte con un alibi di ferro. Gli siamo stati addosso per un'eternità, ma non siamo riusciti a far crollare nessuno. Chiunque abbia ucciso Reilly, è ancora là fuori.»
«Magari molto incazzato?» «Cosa intendi dire?» «Perché gli siete stati addosso.» «È successo tre anni fa. A quest'ora sono morti, o sono in galera.» «Tu pensi che uno di loro possa essersela presa con la vedova di Reilly? Per puro spregio?» «Tutto può essere con queste bande di stronzi. Ma perché avrebbero dovuto prendersi il disturbo di ammazzare una vecchia? Al giorno d'oggi le gang sono tutte occupatissime con il traffico di droga. Non hanno tempo per sistemare piccoli torti.» Di nuovo la droga. Già due operazioni antidroga durante le indagini. «Chi è che si occupa delle bande qui da voi?» domandò Hawes. «Vorrei fare due chiacchiere con qualcuno di quei ragazzini.» Ragazzini non lo erano di certo. Loquaci, nemmeno. «Perché dovrei parlare con te?» chiese Everado Rodriguez. «Ho fatto qualcosa di male nel tuo distretto? Ho fatto qualcosa di male in questa città? Cos'ho fatto di male? Ti dispiace dirmelo, visto che sei venuto fin qui per cercarmi?» «Voglio sapere se il nome Martin Reilly ti dice qualcosa» rispose Hawes. «Oh, Gesù, ancora quella merda?» fece Everado. «Tre anni fa i piedipiatti del 97° ci sono stati addosso per un bel pezzo per quella storia. E adesso ci risiamo?» Erano le sette di sabato sera e si trovavano nel seminterrato che gli Hearts definivano eufemisticamente la loro "clubhouse". Everado era il cosiddetto presidente del cosiddetto club. Aveva forse vent'anni e indossava jeans, una T-shirt bianca e una bandana azzurra. Hawes pensò che l'azzurro fosse il colore della banda. Nell'87° Distretto avevano poco a che fare con le gang e Hawes non sapeva bene come comportarsi con quell'idiota. «Riguardo a quella storia tu sei pulito, vero?» «E riguardo a quale storia non sono pulito?» ribatté Everado ridacchiando e voltandosi in cerca d'applausi verso uno dei tre tirapiedi sparsi nella stanza a braccia conserte. Tutti ridacchiarono. Hawes ebbe l'impulso di mollare a tutti una sberla sulla bocca. «C'è una vecchia signora a cui ieri sera hanno sparato due volte in faccia» disse. «Si chiamava Helen Reilly.»
«E allora?» domandò Everado. «Martin Reilly era suo marito.» «E allora?» «Allora il 97° ci è andato giù pesante con te, quando Reilly è rimasto ucciso in quella sparatoria...» «È acqua passata, amico. Siamo tutti adulti adesso.» «Cosa vuoi dire?» «Voglio dire che adesso mia sorella è sposata, ha già due bambini. Perché dovrebbe fregarmene ancora della sua cotta per uno dei Royals?» «Forse perché è stata tua sorella ad andare alla polizia.» «Adesso si è fatta più furba.» «Però ce l'hai ancora con lei, vero?» «Nossignore. Perché dovrei essere ancora arrabbiato? Adesso è tutto a posto, amico. Perché vieni qui a crearci problemi?» «Conosci una certa Alicia Hendricks?» «No.» «Max Sobolov?» «No.» «Christine Langston?» «Chi è tutta questa gente?» «Non è che venivano qui a comprare droga, vero?» «Oh, parliamo di droga adesso? Noi non abbiamo niente a che fare con la droga, assolutamente no, proprio per niente.» «Controllerò con l'Antidroga.» «Controlla pure. Sono i nostri migliori amici, quelli dell'Antidroga» disse Everado e sorrise di nuovo ai suoi tirapiedi. I tre risposero al sorriso. «Sei venuto nel posto sbagliato, mister.» Hawes pensò che forse era vero. Per l'uscita del sabato sera indossava un abito nero semplice, sandali neri con il tacco alto, i capelli bianchi sciolti e vaporosi. L'unico gioiello, all'anulare della mano destra, era un anello d'oro con una pietra rossa in tinta con il rossetto. Hawes si domandò se fosse mai stata sposata. Una bella donna di cinquanta e rotti anni, che non si è mai sposata? Cinquanta e quanti rotti, si domandò anche. «Allora, come mai quella ciocca bianca?» gli chiese Paula. Stava bevendo un Bombay martini con ghiaccio. Hawes bourbon e soda. Paula si riferiva alla ciocca bianca nei capelli rossi, appena sopra la tempia
sinistra. «Indagavo su un furto con scasso e stavo parlando con la vittima» rispose Cotton, riassumendo. Quella domanda gli era già stata rivolta almeno un centinaio di volte. «Il portiere del palazzo si è precipitato dentro con un coltello, mi ha scambiato per il ladro e mi ha colpito alla testa. In seguito i capelli mi sono ricresciuti bianchi.» «Ti annoia raccontarlo, vero?» «Un po'. Quanti anni hai, Paula?» «Wow! Dritto al punto! Cinquantuno. Perché? Tu quanti ne hai?» «Trentaquattro.» «Potrei essere tua madre. Une femme d'un certaine âge, giusto?» «Be', è una cosa di cui dovremmo parlare, immagino.» «Sai, ci ho pensato. Per circa trenta secondi.» «Anch'io.» «È già abbastanza difficile far funzionare un rapporto, senza bisogno di aggiungerci il problema dell'età.» «Esattamente quello che penso io.» «Sono appena uscita da una relazione che non ha funzionato...» «Anch'io.» «Per cui c'è anche questo particolare.» «Abbiamo approfittato l'uno della debolezza dell'altra.» «Giusto.» «Perciò cosa ci facciamo qui?» «Immagino che sia perché desideriamo essere qui.» «Io so che per me è così.» «Anche per me. Quanti anni aveva quella donna? Quella con cui hai appena chiuso?» «Ventotto, ventinove? Non gliel'ho mai chiesto.» «Ah. Però a me l'hai chiesto.» «Solo perché sei così bella.» «Salvataggio in corner.» «E quanti anni aveva il tuo lui?» «Cinquantacinque.» «Più adatto, vero?» «Credo di sì. Ma in un certo senso tu non mi sembri inadatto.» «Neppure tu.» «Allora cosa ci facciamo qui, Cotton?» «Mangiamo» rispose Hawes. «Io sto morendo di fame, tu no?»
Così Paula ordinò peperoni arrosto con alici e mozzarella come antipasto e poi piccata di vitello, mentre Hawes prese bruschetta e linguine alla puttanesca. Chiese a Paula se voleva del vino bianco, ma lei preferiva il rosso, quindi si fecero portare una bottiglia del miglior merlot del ristorante. Mentre il cameriere stappava la bottiglia e versava il vino, Paula commentò: «Sai, bere vino rosso ha effetti veramente benefici. Gli altri alcolici indeboliscono il sistema immunitario e rendono l'organismo più vulnerabile. Ma pare che il vino rosso prevenga le malattie cardiache e il cancro». Il cameriere annuì in completo accordo e si allontanò. Hawes alzò il bicchiere. «A cosa brindiamo?» domandò. «Non lo so» rispose Paula, guardando nel calice. «Dipende da quanti anni ha il vino, non credi?» Cotton afferrò la battuta, sorrise, guardò nel proprio bicchiere, rifletté un momento, quindi alzò di nuovo gli occhi su Paula. «L'età non può farla appassire, né l'abitudine consumare la sua arte infinita di mutare» e toccò il bicchiere di Paula con il proprio. «Bellissimo. Però facciamo un patto, okay?» «Okay.» «Non parliamo mai più della nostra differenza d'età.» «Mai è un tempo lunghissimo.» «Lo spero» fece Paula. Un altro brindisi e vuotarono i bicchieri in un sorso. «Mmh» esclamò Paula. «Delizioso» disse Hawes. «Come mai mi hai citato Shakespeare?» «Poco tempo fa ci è capitato un caso in cui l'indiziato aveva la passione per le citazioni shakespeariane.» «L'indiziato» ripeté Paula, annuendo. «Immagino che dovrò abituarmi anche al gergo poliziesco.» «Immagino di sì.» Mentre mangiavano il dessert, Paula disse che era sposata da sei anni, quando suo marito era stato richiamato dalla Guardia nazionale per prestare servizio nella Prima guerra del Golfo. Era caduto in azione un mese dopo il suo arrivo in Arabia Saudita. A quell'epoca lei lavorava come arredatrice, poi era passata a una rivista tipo "Case e Giardini", quindi nel reparto arredamento di un grande magazzino e adesso era impiegata in una piccola
galleria d'arte in centro, a Isola. Cotton le confessò di non essere mai stato sposato. Che durante la sua personale guerra era stato in marina. E che, quasi sempre, il lavoro di polizia gli piaceva molto. Promise che non l'avrebbe annoiata parlandole dei casi su cui stava lavorando, anche se al momento... E tutti e due scoppiarono a ridere, quando cominciò a raccontare delle quattro vittime degli omicidi su cui stavano indagando. Quando la risata si esaurì, Paula disse: «Cotton?». «Sì?» «Io sono abbastanza vecchia da essere stata a Woodstock.» «Ma non avevamo promesso...» «Sto parlando di un'altra cosa. A quei tempi me ne andavo in giro piena di penne e perline e senza reggiseno. E sono stata con un mucchio di ragazzi. Erano gli anni Sessanta. Era così che si faceva. Ci si diceva ciao e si saltava a letto.» Hawes ascoltava. «Oggi non sono più così impetuosa.» «Okay.» «Sto dicendo che non finiremo a letto insieme stasera.» «Okay.» Paula bevve un sorso di caffè. Lo stesso fece Hawes. «Sei arrabbiato?» «Deluso.» «Anch'io» concordò Paula. 8 Lunedì mattina, quando gli agenti in uniforme radunati al pianoterra uscirono per raggiungere le rispettive auto o postazioni, per prima cosa il capitano John Marshall Frick telefonò a Byrnes nel suo ufficio d'angolo per dargli una strigliata. «Ho appena ricevuto una telefonata dal commissario. Non è contento. Non è per niente contento.» Byrnes pensava che Frick avrebbe dovuto essere in pensione già da molto tempo. Sospettava che il capitano non facesse altro che starsene seduto davanti al suo computer tutto il giorno come un cretino, a mandare e-mail con barzellette ad altri capitani cretini nei distretti di tutta la città. Non che
Frick fosse veramente vecchio. Quanti anni poteva avere dopo tutto? Sessanta, sessantacinque? Però era davvero un vecchio cretino. «Assolutamente scontento» disse Frick, ribadendo il concetto con altre parole. «Vuole risultati immediati per i delitti della Glock. Immediati. È convinto che stiamo perdendo tempo. Vuole che la piantiamo di perdere tempo.» «Perdere tempo?» ripeté Byrnes. «La mia squadra lavora ventiquattro ore al giorno, sette giorni la settimana, tutti i miei uomini fanno gli straordinari e lui questo lo chiama "perdere tempo"? I moventi di questi omicidi risalgono probabilmente a secoli fa e tu mi dici che stiamo perdendo tempo?» «Io ti riporto quello che il commissario ha detto a me. Vuole che la smettiamo di perdere tempo e che gli portiamo dei risultati. Risultati immediati. Ci ha lasciato fin troppo tranquilli finora, ecco cos'ha detto. Sa di essere in debito con noi per quell'operazione antiterrorismo, ma non possiamo vivere per sempre sugli allori, ecco cos'ha detto. Abbiamo già cinque vittime e Dio solo sa se quel pazzo ha finito o no, e il commissario vuole risultati immediati! I giornali e le televisioni stanno facendo un putiferio!» «John, sei tu quello che sta facendo un putiferio» rispose Byrnes, calmo. «Non mi piace essere strapazzato dal commissario.» «E a me non piace essere strapazzato da te» sbottò Byrnes. «Allora smettila di perdere tempo e portami dei risultati!» Alle nove e un quarto di quel lunedì mattina Hawes parlò con il giovane sacerdote che il giorno prima si era occupato del funerale e della sepoltura di Helen Reilly. Si chiamava padre Kevin Ryan. «Dopo la terribile tragedia di tre anni fa» raccontò il prete, facendosi il segno della croce «non aveva più parenti in vita.» «Si riferisce a quella sparatoria tra bande?» domandò Hawes. «Be', di quella che è sembrata una sparatoria tra bande. In cose del genere è difficile sapere la verità, non crede? E il colpevole non è mai stato arrestato, giusto? La sorella di Martin esclude assolutamente la teoria delle bande. Sa, lei e Helen non andavano d'accordo.» «Ah, no?» «Così almeno mi hanno detto alcuni parrocchiani. In ogni caso la sorella di Martin non è venuta al funerale di Helen, per cui immagino che un fondo di verità ci sia.»
«Perché non andavano d'accordo?» «Non ne ho idea.» «Come si chiama la sorella?» «Lucy Hamilton.» «Per caso sa dove abita?» La sorella minore di Martin Reilly aveva settantaquattro anni... Tutte le persone coinvolte in quel caso avevano già un piede nella fossa... ... ed era tuttora convinta che la sua defunta e non compianta cognata avesse avuto qualcosa a che fare con l'omicidio di Martin. «Non ho creduto nemmeno per un momento a quella loro grande storia d'amore» dichiarò, stringendosi le mani sul seno in un gesto di finta estasi romantica. «Tristano e Isotta, Eloisa e Abelardo, stronzate. Helen voleva liberarsi di un matrimonio infelice e il mio povero fratello è stato la sua vittima sfortunata.» Hawes sapeva quando era il caso di restare zitto. Lucy Hamilton si stava appena scaldando. Anche lei vedova, non provava la minima solidarietà nei confronti della vedova del fratello. La descrisse come una cameriera di bar, senza istruzione e priva di buone maniere... «... ha deliberatamente sedotto Martin, abbandonando marito e figli appena ha intravisto pascoli più verdi. Non mi è piaciuta la prima volta che Martin l'ha portata a casa e non mi è mai piaciuta neppure dopo.» «Mi parli dei figli» disse Hawes. «Come?» «Lei ha detto che Helen aveva abbandonato...» «Oh. Be', è quello che ho dedotto. Non l'avrebbe fatto anche lei?» «Come fa a sapere che c'erano dei figli?» «Mio fratello me ne ha accennato una sera. Una donna sposata con figli. Mentre mi ripeteva per la millesima volta quanto Helen lo amasse, Martin mi ha detto che lei lo adorava al punto da essere disposta a lasciare il marito e i due figli per lui.» «Maschi o femmine?» «Martin ha detto solo "figli". Io non gliel'ho chiesto, non me ne fregava un accidente. Quando mio fratello ha conosciuto Helen, lei aveva ventotto anni, era sposata, aveva due figli e andava a letto con ogni uomo che le capitava a tiro. E Martin ce l'ha portata in casa. E poi va a finire che gli sparano mentre scende dalla stazione della metropolitana.»
«Per lei i due fatti sono collegati, è così?» «Per lei no?» «Lei ritiene che Helen abbia avuto qualcosa a che vedere con l'omicidio di suo fratello?» «È quello che ho detto ai detective.» «Cos'ha detto ai detective, signora Hamilton?» «Che probabilmente Helen aveva ricominciato a darsi da fare in giro. Ho detto che mio fratello ormai era diventato un ostacolo per lei, esattamente come il primo marito.» «Dopo quasi cinquant'anni di matrimonio? Una donna di ottant'anni? Che si dà da fare in giro?» «Il lupo perde il pelo ma non il vizio, detective Hawes.» «Perché ne è così certa?» «Me lo sentivo.» «Lei sentiva che quello che loro due definivano un grande amore in realtà era...» «Una finzione» concluse Lucy, e annuì. «Capisco» chiosò Hawes. «Che è poi la ragione per cui Helen deve aver convinto il suo ultimo amico a sparare a mio fratello mentre tornava a casa.» «E questo suo "ultimo" amico... ha idea di chi potesse essere?» «Non si racconta in giro una cosa del genere.» «Però noi sappiamo che Helen viveva sola, quando è stata assassinata.» «A volte le apparenze ingannano.» «Lei pensa che vivesse con qualcuno, è così?» «Il suo amico» rispose Lucy, e annuì di nuovo. Hawes pensò che stava perdendo tempo. Puoi cambiare numero di telefono con la stessa frequenza con cui ti cambi la biancheria intima. Puoi cambiare indirizzo di casa ogni quindici anni, o anche più di frequente, se ti capita di salire o scendere la scala sociale. Ogni volta che acquisti un'auto nuova, puoi cambiare la targa. E puoi cambiare i numeri delle carte di credito quando ti pare. Ma, se vivi negli Stati Uniti d'America, c'è un insieme di numeri che ti resta appiccicata addosso per tutta la vita. Nove numeri su una semplice tessera azzurra. Nove numeri suddivisi in tre gruppi. Questi numeri ti vengono assegnati in occasione del tuo primo impiego e
resteranno con te per sempre. Sono i numeri della previdenza sociale. Una telefonata all'ufficio della previdenza sociale fu sufficiente a ricostruire il passato di Helen Reilly dai tempi in cui era Helen Purcell e ancora più indietro, quando si chiamava Helen Rogers e, a diciassette anni, era stata assunta per la prima volta. Hawes sapeva che il nome di battesimo del primo marito era Luke, glielo aveva detto Paula Wellington. Nella remota ipotesi che un uomo di nome Luke Purcell fosse ancora vivo... In quel caso sarebbe stato intorno agli ottant'anni... ... Cotton controllò tutti e cinque gli elenchi telefonici della città. Trovò centinaia di Purcell, ma nessun Luke. Dopo una telefonata all'anagrafe ricevette un certificato di morte intestato a un certo Luke Randolph Purcell, deceduto per cancro ai polmoni sette anni prima, all'età di settantasei anni. Parecchie telefonate dopo, Hawes rintracciò un certificato di matrimonio datato 1942 e rilasciato a Luke Randolph Purcell e Helen Rogers, nonché un successivo certificato di divorzio della coppia. Ma se prima di prendere strade diverse Luke e Helen Purcell avevano avuto figli - maschi o femmine - tali figli restavano ancora assolutamente anonimi in una città di gente assolutamente anonima. Hawes telefonò all'ufficio statistiche demografiche e chiese a un impiegato di nome Paul Endicott di controllare se c'era qualcosa sui figli di Luke e Helen Purcell. «Lei sa quanti Purcell ci sono nei nostri schedari?» chiese Endicott. Cotton confessò di non saperlo. «Migliaia» rispose Endicott. «Purcell è un cognome molto comune. Perché non viene qua lei, detective, e si controlla le migliaia di Purcell schedati? E si cerca una Helen o un Luke per scoprire come si chiamavano i loro figli del cazzo?» «Speravo che mi potesse dare una mano» disse Hawes. «Stiamo indagando su un omicidio.» Entro le undici di quel lunedì mattina Cotton aveva già esaurito quattro dei cinque elenchi telefonici e stava lavorando sul quinto, procedendo lentamente, digitando numeri di telefono, identificandosi e poi formulando testardamente la stessa domanda a ogni singolo Purcell che gli rispondeva: «Lei è parente di Luke o Helen Purcell?». In alcune occasioni si sentiva come un piazzista telefonico: la gente gli sbatteva il ricevitore in faccia, anche dopo che si era qualificato come detective. Altre volte si sentiva terribilmente obsoleto. In un'epoca di comu-
nicazioni in tempo reale doveva pur esserci un modo più semplice e più veloce per individuare la progenie di Helen e Luke, sempre che in effetti quei figli esistessero, e al momento su questo aveva solo la parola della cognata di Helen. Guardò l'orologio a parete. Sospirò. Fece scorrere l'indice lungo la pagina fino al successivo Purcell sull'elenco telefonico di Riverhead. Jennifer Purcell. Digitò il numero. Ascoltò il telefono squillare. «Pronto?» Una voce di donna. «Pronto, sono il detective Hawes dell'87° Distretto. Vorrei parlare con Jennifer Purcell...» «Sì, sono io Jennifer» rispose la donna. Una voce giovane, intorno ai trent'anni, chiaramente perplessa. «Di cosa si tratta?» «Signora, sto cercando di mettermi in contatto con i figli di Luke e Helen Purcell. Mi chiedevo se...» «Sono i miei nonni» disse subito Jennifer. «Lei sta indagando sull'omicidio di Helen? L'ho saputo dalla televisione...» «Sì, è così» comunicò Hawes sollevato, piegandosi ancora di più sul ricevitore. «Signorina Purcell, vorrei parlare con lei, se è possibile. Avrebbe un momento questa mattina per...?» «No, mi dispiace, stavo proprio uscendo per andare al lavoro. Possiamo fare questa sera? Sarò a casa verso le cinque.» «Ecco... non potrebbe dedicarmi qualche minuto al telefono?» «No, mi dispiace proprio, ma devo andare. Sono già in ritardo.» «Allora posso raggiungerla sul posto di lavoro? Si tratta veramente di...» «No, è un ristorante, mi dispiace. Non può venire a casa in serata?» «Sì, certo» rispose Hawes. «Allora venga verso le cinque, cinque e mezzo. Dovrei esserci per quell'ora.» «I suoi nonni avevano due figli, vero? Può dirmi se...?» «Mi scusi, ma adesso devo proprio andare. Parleremo stasera.» «Aspetti!» gridò quasi Hawes. «Cosa c'è?» «Lei dove abita?» «Al 1247 di Forbes Road, appartamento 6B.» «Ci vediamo alle cinque» disse Hawes. «Cinque e mezzo» precisò Jennifer. «Devo scappare, mi scusi.» La ragazza riattaccò.
«Maledizione!» esclamò Hawes a voce alta. Il cognome di Jennifer era Purcell, di conseguenza Hawes pensò che fosse single, oppure divorziata e usasse il suo nome da ragazza. Comunque fosse, questo significava che uno dei due figli abbandonati da Helen era il padre della ragazza, non la madre. Hawes avrebbe voluto chiedere a Jennifer se l'altro figlio era maschio o femmina. Avrebbe voluto chiederle se aveva conosciuto la nonna che aveva abbandonato Luke e i due figli per fuggire con il suo amante. Un mucchio di domande. Hawes non vedeva l'ora di fargliele. Alzò di nuovo lo sguardo sull'orologio a parete. Le cinque e mezzo del pomeriggio sembravano lontanissime. Quei posti religiosi sacri e solenni innervosivano parecchio Ollie. Prima che quel prete si facesse uccidere, l'ultima volta che Weeks era entrato in una chiesa era stato quando sua sorella Isabel era stata piantata in asso davanti all'altare da un truffatore ebreo buono a nulla contro il quale lui l'aveva messa in guardia fin dall'inizio, ma chi ascolta più il fratello maggiore al giorno d'oggi? Ollie si chiese se, in quel preciso istante, il fratello minore di Patricia, Alonso, non stesse mettendo in guardia la sorella contro di lui. Non era da escludere. E questa era un'altra ragione per cui Ollie si sentiva a disagio là dentro, nella chiesa di Nostra Signora della Grazia: il fatto che, nei recessi più bui della sua mente primordiale, stesse attivamente pianificando di sedurre la sorella maggiore di Alonso, Patricia Gomez, una collega poliziotto, nientemeno. Il prossimo sabato sera, nientemeno. Tutte quelle maledette candele. L'odore dell'incenso. La luce del sole che filtrava dalle vetrate colorate. E tutto ciò a cui Ollie Weeks riusciva a pensare era togliere le mutandine a Patricia. C'erano tre o quattro fanatici religiosi che pregavano seduti nei banchi. Un tizio sulla cinquantina stava lucidando il grosso candelabro di ottone dietro la balaustra dell'altare. Maestoso come un vescovo, Ollie avanzò lungo la navata centrale e si avvicinò all'uomo. «Chi è che comanda qui dentro?» domandò, esattamente come avrebbe fatto sulla scena di un delitto. L'uomo alzò lo sguardo, lo straccio per lucidare stretto nella mano destra. Ollie gli mostrò il distintivo di detective.
«C'è un capoprete o roba del genere qui dentro?» L'uomo sembrava confuso. Era uno scricciolo con le spalle strette e le braccia sottili, gli occhi azzurri che saettavano dal distintivo nella mano di Ollie alla sua faccia, e poi di nuovo al distintivo. Weeks pensò che non ci fosse del tutto con la testa. «Sta cercando padre Nealy?» chiese l'omino. «Certo» rispose Weeks. «Dove lo trovo?» Padre James Nealy stava preparando la predica per la domenica seguente, quando Weeks entrò in canonica alle undici e mezzo di quel lunedì mattina. Il detective capì immediatamente che il sacerdote non gli sarebbe stato di alcun aiuto: era sui trent'anni e non poteva assolutamente essersi trovato a Nostra Signora della Grazia all'epoca di padre Michael. Ollie gli rivolse comunque le sue domande. «Lei ha mai conosciuto personalmente padre Michael?» «Non l'ho mai incontrato» rispose padre Nealy. «Ma parlavano tutti bene di lui.» «Non ha mai sentito nessuno dire che avrebbe voluto vedere il vecchio morto, giusto?» Padre Nealy sorrise. Indossava un paio di pantaloni neri con una camicia nera simile a una corta tunica. Collarino bianco. Scarpe nere lucidissime. Ollie pensò che fosse una specie di finocchio. «No, non ho mai sentito nessuno dire che voleva vedere padre Michael morto.» «Tutti gli volevano bene, eh?» «Questo non lo so. Ma dai nostri parrocchiani non venivano altro che lodi.» «Quindi alcuni lo ricordano ancora.» «Oh, sì. È stato una guida molto amata.» «Appunto. Tutti gli volevano bene.» «Sta facendo dell'ironia?» domandò padre Nealy. Non sorrideva più. «No, sto solo indagando sull'omicidio di una persona alla quale tutti volevano bene.» «Capisco cosa intende» disse padre Nealy. «Evidentemente c'era qualcuno che non gli voleva poi così tanto bene.» «Ah, sì» confermò Ollie. «Lei però non sa se all'epoca in cui era ancora prete qui c'erano state delle tensioni.» «Come le ho già detto, non ne ho mai sentito parlare.»
«Comunque, perché padre Michael poi se n'è andato a St Ignatius?» «I sacerdoti vengono spesso spostati da una parrocchia all'altra. La diocesi ci manda ovunque ci sia bisogno di noi per svolgere il lavoro del Signore.» «Naturalmente» replicò Ollie, pensando: il lavoro del Signore, che stronzate. «Be', la ringrazio per il tempo che mi ha dedicato, padre. Se dovesse venirle in mente qualcuno che aveva brutte idee, mi dia un colpo di telefono, okay? Nel frattempo, che Dio la benedica e la mantenga in salute.» Strinse la mano al sacerdote e se ne andò. Percorse il corridoio che portava in sacrestia, lungo il quale si allineavano finestre con i vetri a piombo da cui si riversava la luce del sole, e quindi rientrò nella chiesa vera e propria. Trovò gli stessi fanatici sparsi nei banchi a borbottare le loro preghiere e lo stesso tizio che lucidava l'ottone dietro la balaustra. L'uomo notò Weeks nel momento stesso in cui varcò la porta ed entrò in chiesa, quasi avesse aspettato il suo ritorno. «Detective?» lo chiamò. Ollie si voltò e gli si avvicinò. «Lei sta indagando?» sussurrò l'uomo. Occhi sbarrati e spaventati. «Perché? Tu cosa sai?» chiese Weeks. «Jerry!» Una voce di donna. Ollie si voltò e vide una donna con i capelli rossi che stavano diventando di un brutto grigio avvicinarsi a grandi passi lungo la corsia laterale; sembrava una strega che aveva perso la sua scopa. «Lasci in pace mio fratello!» gridò la donna, spaventando i devoti in preghiera. Afferrò Jerry per una mano e lo trascinò via dall'altare. Ma era con Oliver Wendell Weeks che aveva a che fare. Fratello e sorella uscirono dalla chiesa, ma Ollie era subito dietro di loro. Secondo Brown, Kling stava cominciando ad assomigliare a uno di quei tormentati detective privati o poliziotti solitari di cui gli capitava di leggere nei tascabili da sette dollari, un tempo gialli popolari a poco prezzo e, ancora prima, romanzacci gialli a prezzo ancora più basso. Bianchi che se ne andavano in giro angosciandosi e strappandosi i capelli, per qualsiasi cosa tranne che per quello che si supponeva fosse il loro lavoro. E si supponeva che al momento il lavoro di Kling e Brown consistesse nello scoprire chi aveva piantato due proiettili in faccia alla professoressa Christine Lan-
gston, e anche in qualche altra faccia. E invece Kling stava raccontando a Brown che venerdì notte era stato a letto con una ragazza di nome Sadie Harris - un'altra ragazza nera, per giunta - che non aveva ancora richiamato, comunque non aveva richiamato neppure Sharyn, e adesso stava chiedendo consiglio a Brown su ciò che doveva fare, perché pensava di essersi già innamorato di questa Sadie Harris, che faceva la bibliotecaria a Riverhead. A dire il vero, a Brown non fregava assolutamente niente se Kling telefonava a Sadie o a Sharyn, se andava a letto con una delle due, con tutt'e due, o anche con Britney Spears nella vetrina di Harrods a Londra. I guai di Kling con le donne, nere per giunta, erano poco rilevanti rispetto al vero problema del momento, che si dava il caso fosse l'omicidio. Gli omicidi. Plurale. Già cinque, e forse non era ancora finita. Di gran lunga più rilevante e di immediato interesse era la Warren G. Harding High School, il liceo dove tantissimi anni prima un'insegnante ventitreenne di nome Christine Langston aveva assegnato una C a uno studente diciottenne che aveva disperatamente bisogno di una A per non finire nell'esercito. Ciò che i due detective volevano sapere era il nome di quel ragazzo. Ma la storia risaliva a moltissimo tempo prima. A quarant'anni prima. Lo studente ormai doveva essere vicino ai sessant'anni. Tutto quel maledetto caso risaliva alla notte dei tempi. Quello che Brown e Kling scoprirono alla Harding a mezzogiorno di lunedì fu che nessuno degli insegnanti attuali - nessuno - lavorava là all'epoca in cui Christine prometteva delle A e poi dava delle C. E lo stesso valeva per gli impiegati dell'amministrazione. Perciò... O Kling e Brown si rassegnavano ad ammettere di trovarsi ormai in un vicolo cieco per quanto riguardava l'omicidio della professoressa... Oppure potevano tentare qualche altra strada - e Dio solo sapeva quale per rintracciare tutti gli insegnanti e ogni singolo componente della classe dei diplomandi nell'anno in cui Christine, nel pieno della giovinezza, era soltanto una ventitreenne che stava imparando a barattare voti in cambio di sesso, un sesso a quanto pareva piuttosto insoddisfacente. Un lavoretto da niente, pensarono i due detective. Ripartirono in direzione del distretto per discuterne con il tenente, neppure lui molto di buonumore al momento.
Ciò che entra, deve uscire. Ciò che sale, deve scendere. Sono cose che impari in anni di devoto lavoro di polizia. Jerry e sua sorella, la strega dai capelli rosso-grigi, erano entrati all'831 di Barber Street alle dodici e sette minuti. Adesso era l'una meno dieci e nessuno dei due era più uscito. Ollie era certo di tre cose. Uno: Jerry non aveva tutte le rotelle a posto. Era il tipo d'uomo che la polizia della città classificava come PED, Persona Emotivamente Disturbata. Due: Jerry aveva pensato che per qualche ragione ci fossero indagini in corso sulla chiesa. Tre: la sorella non voleva che Jerry parlasse con i poliziotti. Il che rendeva ancora più complicato parlare con Jerry. Ollie pensò che avrebbe potuto bussare a qualche porta, fare qualche domanda e individuare l'appartamento in cui abitavano Jerry e la sorella. Ma in quel caso avrebbe dovuto interrogarlo alla presenza della donna e preferiva non doverlo fare: aveva ancora paura della strega cattiva del Mago di Oz, e pensare che aveva visto il film solo in televisione. Perciò aspettò di fronte al palazzo, sul lato opposto della strada: quello che entra deve uscire, quello che sale deve scendere. Nel frattempo, tutto ciò che poteva fare era riflettere su Patricia Gomez. Doveva davvero spostare l'appuntamento dal sabato sera alla domenica mattina? Andy Parker gli aveva detto che una cenetta intima a casa, di sabato sera, avrebbe fatto scattare l'allarme "blocco mutande". Per cui forse avrebbe fatto bene a telefonare a Patricia per proporle un pranzo domenicale, se davvero aveva intenzione di farsela, cosa che pensava fosse vera, altrimenti perché aveva pensieri così impuri su quella ragazza? E perché, in quel preciso momento, sentiva un'improvvisa erezione dentro le mutande? Oh, be'... Inoltre lo infastidiva il fatto che Andy Parker pensasse che stava perdendo la sua essenziale "ollietà", cosa che certamente non desiderava: si piaceva troppo. D'altra parte sembrava piacere molto anche a Patricia. Specie adesso che aveva perso cinque chili. Perciò, se ci si pensava bene, cosa ci sarebbe stato di così sbagliato in due esseri umani consenzienti, non omosessuali, che si ritrovavano per un piacevole, divertente sabato sera e... oops. Eccoli.
Stavano uscendo insieme dal palazzo, Jerry e la sorella dai capelli rossogrigi che le svolazzavano intorno alla testa come un alone di pipistrelli. Parker e Genero cominciavano a sentirsi a casa nel vecchio quartiere di Alicia Hendricks. Quel lunedì andarono addirittura a pranzo da Rocco, dove mangiarono le vongole Posillipo e fecero un'altra chiacchierata con Geoffrey Lucantonio, che era molto ansioso di continuare a parlare delle sue audaci imprese con l'allora quindicenne Alicia. Ai due poliziotti però servivano altre, più pertinenti informazioni. Si trovavano di nuovo lì, nel quartiere Laurelwood di Riverhead, per cercare di rintracciare gli ex compagni di liceo di Alicia, attività che il commissario avrebbe forse potuto giudicare una "perdita di tempo". Tuttavia la Warren G. Harding High School era stata l'ultima istituzione scolastica che Alicia aveva frequentato prima di lanciarsi nel grande mondo del lavoro come cameriera, manicure, rappresentante e infine spacciatrice di droga. Geoffrey disse ai poliziotti che non erano molti gli ex studenti della Mercer che abitavano nel vecchio quartiere. Anche se le pietre miliari erano ancora tutte lì... La chiesa di Nostra Signora della Grazia... La Roger Mercer Junior High... La Warren G. Harding High School... ... ormai la zona era soprattutto spagnola e i precedenti abitanti di origine ebraica, italiana o irlandese erano fuggiti in cerca di pascoli più verdi molto tempo prima. Tra i vecchi residenti che tenevano duro c'era una donna i cui genitori avevano comprato casa «quando il quartiere era ancora decente» disse Geoffrey, senza rendersi conto che stava offendendo la gente che ci abitava adesso. La donna in questione aveva ereditato la casa alla morte dei genitori ed era riluttante a cederla. «Si chiama Phoebe Jennings» spiegò Geoffrey. «Viene spesso qui con il marito. Non ricordo come si chiamava da nubile. Abita nella casa di mattoni a due piani dietro St Mary.» Phoebe Jennings aveva ancora una vaga somiglianza con l'insignificante diciottenne della foto nell'annuario scolastico della Harding. Ricordava molto bene Alicia Hendricks... «Be', chi potrebbe dimenticarla?» disse, alzando gli occhi al cielo. Erano seduti sotto un ombrellone a righe nel cortile sul retro, l'annuario aperto in grembo alla donna. Poco lontano, le campane di St Mary...
Bel titolo, pensò Genero. ... suonarono l'ora. Era l'una di pomeriggio. Ed ecco i ricordi di Phoebe... «Il mio nome da nubile era Phoebe Mears» raccontò ai detective. «È il cognome che c'è qui...» E intanto picchiettava il dito sulla foto della ragazza con gli occhiali che sorrideva incerta. Phoebe Jennings portava ancora gli occhiali, ma non sorrideva ricordando i giorni del liceo. «Alicia era la ragazza più popolare della scuola. Bellissima, faceva impazzire i ragazzi. Tutti volevano starle vicino. Tutti noi. Emanava una specie di... di luce, capite? Adesso mi rendo conto che era una sorta di ipersessualità... be', eravamo tutti talmente giovani, giovanissimi.» «Lei la conosceva bene, signora Jennings?» domandò Parker. «Oh, per niente! Mi dispiace, vi ho dato questa impressione? Io non ero certo della stessa categoria di Alicia e delle sue "poche elette"... Insomma, guardate la mia foto. Io ero il tipo che i ragazzi di oggi definirebbero "sfigata". Quelle "in" non volevano avere niente a che fare con me. Era una cerchia ristretta di ragazze, cinque o sei, che ronzavano intorno ad Alicia come all'ape regina. Nella speranza che un po' del suo fascino rimanesse appiccicato anche a loro. Be', lo speravo anch'io, lo ammetto. Avrei dato qualsiasi cosa per essere come Alicia Hendricks. E tuttavia...» Guardò di nuovo la propria foto nell'annuario. «Voi siete qui perché Alicia è morta di morte violenta. Io sono felicemente sposata da quasi trent'anni. Anche le mie due figlie sono sposate, e tutt'e due hanno frequentato il college. Mio marito è un uomo onesto, fedele e lavoratore. Abitiamo a un isolato dalla chiesa, dove andiamo a messa tutte le domeniche. Perciò ha importanza il fatto che quarant'anni fa facessi tappezzeria al ballo del venerdì sera a Nostra Signora della Grazia? Ha importanza che allora i ragazzi facessero la fila per poter ballare con Alicia, o anche solo con una delle sue amiche? Dove sono quelle ragazze adesso? Sono felici come me?» «Signora Jennings, lei sa dove sono adesso quelle ragazze?» chiese Genero. Tenendolo ben stretto per la mano, la rossa-grigia guidava il fratello lungo la strada. Ollie Weeks si teneva a rispettosa distanza, invisibile alle loro spalle. E adesso la donna stava facendo entrare Jerry in una piccola
caffetteria. I due fratelli stavano per godersi un buon pranzo, cosa che in quel momento anche Ollie avrebbe gradito? Mentre lo stomaco brontolava il proprio accordo, Weeks prese posizione sul lato opposto della strada e rimase sorpreso quando i due uscirono dal locale circa dieci minuti dopo, con un sacchetto di carta marrone in mano. Ollie guardò. La sorella diede un bacio sulla guancia a Jerry. Gli sussurrò anche un consiglio fraterno e Jerry annuì. Altro bacio e la donna si allontanò a grandi passi, lasciando il fratello solo sul marciapiede. Ollie aspettò. Un attimo dopo Jerry era già in movimento, il sacchetto di carta marrone stretto nella mano destra. Stava tornando a casa? In quel caso Ollie l'avrebbe seguito fino all'appartamento questa volta. Nessuna sorella, nessun problema. Ma Jerry passò davanti al suo palazzo e proseguì verso sud, attraversò la strada sotto la struttura della sopraelevata in Dover Plains Avenue, percorse la via successiva, Holman Avenue, poi quella che costeggiava il parco e infine prese un sentiero che entrava nel parco. Adesso Weeks era a circa cinque metri da Jerry e andava rapidamente riducendo la distanza. Nell'istante in cui Jerry trovò una panchina e si mise a sedere, Ollie gli fu addosso. Prima ancora che l'uomo potesse infilare la mano nel sacchetto marrone, Weeks gli sedeva già accanto. «Salve, Jerry.» Jerry si voltò. Gli occhi azzurri si spalancarono per la paura. «Io non ho fatto niente» disse subito. «Lo so che non hai fatto niente» lo tranquillizzò Ollie. «Cos'hai lì dentro, un sandwich?» Per un attimo Jerry sembrò perplesso, poi capì che il detective stava parlando del sacchetto che aveva in grembo. «Sì» rispose. «E anche una Coca-Cola.» «Che tipo di sandwich?» «Prosciutto e formaggio con burro e mostarda.» «Ti va di fare a metà con me?» domandò Ollie. «Poi ne vado a comprare degli altri.» «Certo» approvò Jerry, che sorrise e infilò la mano nel sacchetto. Scartò il sandwich; era già tagliato a metà, il che facilitava le cose. Insieme, seduti sulla panchina, il detective e l'uomo cominciarono a mangiare. Jerry aprì la lattina di Coca e la offrì a Ollie, che bevve un lungo sorso e la restituì. «Allora, cos'è che non hai fatto?» chiese.
«Io non ho fatto niente con il padre» replicò Jerry, facendo segno di no con la testa. «Vuoi dire padre Nealy?» «No. Padre Michael.» Ollie annuì, dando un morso alla sua metà del sandwich. «Così tu conoscevi padre Michael, eh?» «Sì. Quando ero piccolo.» Quarantacinque, cinquant'anni prima, pensò Weeks. Il quadro temporale corrispondeva all'epoca in cui padre Michael era sacerdote a Nostra Signora della Grazia. «Tu stai indagando, vero?» domandò Jerry. «Indagando su cosa, Jerry?» «Su quello che ci ha fatto.» «Cos'è che vi ha fatto?» «Lo sai.» «No, io non lo so. Dimmelo tu.» «A tutti e due.» «Ah-ah. Cosa vi ha fatto, Jerry? Va tutto bene, puoi dirmelo. Lui adesso è morto.» Gli occhi azzurri di Jerry si spalancarono. «Non può più farti del male» aggiunse Ollie. «Voleva che io e quell'altro bambino...» Gli occhi azzurri si gonfiarono di lacrime. Jerry nascose il viso tra le mani. Scosse la testa dietro le mani. Singhiozzò dietro le mani. «Tu e un altro bambino?» «Non insieme.» «Separatamente?» Jerry annuì dietro le mani. Borbottò un sì dietro le mani. Ollie rimase immobile e in silenzio per qualche minuto. Poi chiese: «Come si chiamava l'altro bambino?». «Si chiamava Carlie?» domandò Jerry. Sui cinquantacinque anni, Geraldine Davies era ancora una donna attraente e i detective non faticavano a immaginarla nella cerchia ristretta delle amiche di Alicia ai tempi felici della Roger Mercer Junior High prima e della Harding poi. In pantaloni sportivi color lavanda, maglietta di cotone dello stesso colore e sandali bassi, Geraldine Davies li accolse nel suo appartamento di Majesta, offrì tè ghiacciato e poi li accompagnò in terrazza,
diciassette piani sopra la strada. Seduti all'aperto, con vista sul ponte di Majesta, sorseggiarono il tè godendosi la brezza fresca del primo pomeriggio. «Mi è molto dispiaciuto aver perso di vista Alicia» disse Geraldine. «A quei tempi era una parte davvero importante della mia vita. Be', della vita di tutte noi. Di noi che avevamo la fortuna di esserle amiche. Era una persona molto speciale. Terribile, quello che le è successo. Uccisa in quel modo. Però ho saputo che dietro c'è una storia di droga, è vero? Mi sembra di aver sentito alla televisione che vendeva droga o roba del genere, una specie di connection coreana. È vero? Se è così, è stato un peccato. Era una persona veramente speciale.» Allora perché qualcuno l'ha voluta morta?, si chiese Parker. Genero fece la domanda a voce alta. «Le viene in mente qualcuno di quei tempi che potesse avere un motivo per uccidere Alicia adesso? Qualcuno che le portava rancore, per esempio?» «Un rancore coltivato per un bel po'» osservò Geraldine, inarcando le sopracciglia. «Ci sono tanti pazzi, là fuori» considerò Parker. «Comunque sia...» Perfino da quella distanza si sentiva il frastuono dei camion che attraversavano il ponte sul fiume per raggiungere Isola. «Ecco, immagino che non si possa mai dire...» cominciò Geraldine, riflettendo. «Sì?» la sollecitò Parker. «Ma c'era un ragazzo in particolare...» «Sì?» «... che aveva una cotta terribile per lei. Com'è che si chiamava?» I detective attesero. «Mi ricordo una sera... a Nostra Signora della Grazia... sapete, il venerdì organizzavano serate danzanti in chiesa, erano molto popolari, richiamavano un mucchio di gente. E c'era un ragazzo che seguiva sempre Alicia come un cucciolo smarrito, sbavandole dietro... be', lei era davvero bellissima, non posso certo biasimarlo, ma com'è che si chiamava? «Comunque uno di quei venerdì sera... si ballava in quell'enorme sala ricreazione della chiesa, o almeno a me sembrava enorme, avevo solo tredici anni. Noi ci sedevamo sulle sedie di legno allineate contro la parete e aspettavamo che i ragazzi venissero a invitarci a ballare. Vi dirò, nessuna
della cerchia di Alicia doveva aspettare a lungo. Non voglio sembrare presuntuosa, ma noi eravamo le ragazze più popolari della scuola, prima alla Mercer e poi alla Harding. I ragazzi ci ronzavano intorno come api sul miele. So che è una cosa terribile da dire, ma è vero. «Quel venerdì sera... insomma, c'era un ragazzo che tutti sostenevano avesse certe "tendenze", capite cosa intendo dire? Ecco, per esempio aveva un'andatura molto "leggera", capite?» All'improvviso Geraldine Davies era di nuovo un'adolescente. E un'adolescente non molto simpatica, conclusero i detective. Sorridendo, ricordando, raccontò come quel ragazzino con certe "tendenze" avesse attraversato tutta quella sala enorme e si fosse fermato davanti ad Alicia, che stava ridendo per qualcosa che una di loro aveva appena detto... «Alicia indossava un abito giallo con le balze, corto per mettere in mostra le gambe, aveva delle gambe stupende, be', Alicia era una ragazza stupenda... «... e lui le ha chiesto di ballare... ma com'è che si chiamava? Non capisco perché non mi funzioni la memoria in questi giorni! Lui le tende la mano e le chiede: "Ti andrebbe di ballare?". Una vera checca. Alicia lo guarda. C'era un disco di Ray Charles che suonava, adesso mi ricordo. Alicia lo guarda dritto negli occhi e gli dice: "Sparisci, frocio". Cosa che lui si meritava. Insomma, lo dicevano tutti che era frocio. «Lui si volta e se ne va. Ma avreste dovuto vedere l'espressione della sua faccia! Se gli occhi potessero uccidere...» Geraldine scosse la testa. «Ha attraversato di nuovo tutta la sala, è uscito dalla porta e, per quello che ne so, anche dalla chiesa. Non ha più seguito Alicia, potete scommetterci. Mai più. Chissà che fine ha fatto. Una tale checca. Non riesco neppure a ricordare come si chiamava.» «Signora Jennings» le disse Parker «faccia uno sforzo.» «Chuck Qualcosa?» azzardò Geraldine. 9 Il dipartimento Veterani fornì l'elenco dei reduci della città che avevano prestato servizio in Vietnam nella compagnia D (o nella compagnia B, a seconda del parente a cui si voleva credere) della 2a Brigata della 25a Divisione di fanteria durante l'operazione Ala Moana. Ma ottenere informazio-
ni da uno qualunque di loro non fu affatto facile come Meyer e Carella avevano invece sperato. Alcuni erano riluttanti a parlare della peggiore esperienza della loro vita. Tutti dovevano ricordare fatti avvenuti quasi quarant'anni prima. Avvolti nella nebbia della guerra, i colloqui assunsero una dimensione quasi surreale... «... la giungla nella provincia di Nau Nghia è fitta e impenetrabile, non sai mai chi c'è dietro un albero, non sai mai in quale sentiero Charlie abbia piazzato le sue trappole esplosive...» «... Max Sobolov, sì, era il nostro sergente. Ed era la compagnia D, non B, dovete aver capito male...» «Eravamo solo cinquanta chilometri a nordovest di Saigon, ma sembrava di essere nel cuore dell'Africa...» «... qualcosa a che vedere con una donna vietnamita, Sobolov e quel ragazzino della sua squadra. La stavano riportando indietro per l'interrogatorio...» «... la roba era nascosta nel villaggio, in quelle loro capanne. Sepolta dentro le capanne. Mine anticarro, riso, zucchero, pesce marinato, tutto pronto per Charlie quando fosse passato di là...» Mark stava guardando la televisione nella sua stanza, quando Teddy gli piombò addosso alle quattro di quel lunedì pomeriggio. April sarebbe rimasta a dormire a casa di un'amica, perciò poteva discutere in tutta sicurezza con suo figlio. Andò a spegnere il televisore, si piazzò davanti allo schermo di fronte a Mark e cominciò a esprimersi a segni, come se avesse preparato da tempo il discorso, le parole che rotolavano dalle mani come un torrente. Tuo padre e io abbiamo parlato. Devi dirci cosa sta succedendo. «Niente, mamma.» Allora perché ieri, tornando dall'allenamento, sei scoppiato a piangere? «È solo che April e io non siamo più così vicini, ecco tutto. Sul serio, mamma, non è niente.» Allora perché non l'hai detto a papà? «April e io dobbiamo risolvere questa cosa da soli» spiegò Mark, stringendosi nelle spalle. «Sai come sono fatti i ragazzi, no?» aggiunse, e accennò un debole sorriso. Teddy lo fissava negli occhi. C'è qualcosa che non ci vuoi dire. Che cosa, Mark?
«Niente.» L'amica di April ha rubato qualcos'altro? «No. Non lo so. April non mi ha raccontato niente a proposito di...» Perché, se quella ragazza è una ladra... «Non si tratta di quello, mamma.» Allora di cosa diavolo si tratta, Mark?, chiese Teddy, gli occhi fiammeggianti, le dita che volavano. Dimmelo immediatamente! Mark esitò. M-a-r-k. Le dita di Teddy sottolinearono il nome, trasformandolo in un avvertimento. «Hanno fumato erba.» Chi? Occhi e dita che scattavano rabbiosi. «Lorraine e i ragazzi più grandi.» Dove? «Martedì scorso, alla festa. Anche qualcuna delle ragazze.» E April?, chiese subito Teddy. «Non lo so. Erano tutti nella camera di Lorraine. La porta era chiusa a chiave.» April era là dentro con loro? Mark esitò di nuovo. Era là dentro? «Sì.» Sei sicuro di questa cosa, Mark? «Mamma, so riconoscere quell'odore.» Teddy annuì. Grazie, figliolo. «Ho messo di nuovo April nei guai?» No, l'hai appena tirata fuori dai guai, rispose Teddy. Abbracciò suo figlio e lo baciò sulla testa. Poi andò immediatamente in camera da letto, aprì il laptop e inviò un'email a suo marito. «Patricia?» «Ehi, salve, Oll!» «Come va?» «Benissimo. Sono appena arrivata a casa. Che novità ci sono?» «Ho riflettuto un po'. Sai, qui la situazione è frenetica con quei delitti
della Glock...» «Oh, immagino.» «Perciò ho pensato... dimmi se per te va bene... ecco, può darsi che non abbia tempo di andare a fare la spesa per la cena che avevo in mente di prepararti sabato...» «Oh, ma certo, Oll. Vuoi che facciamo un'altra sera?» «Be', non proprio. Pensavo che se tu potessi venire da me domenica per pranzo... invece di sabato a cena... sarebbe molto più semplice. Potrei preparare dei pancake...» «Buoni, io adoro i pancake. Ma domenica è il Quattro Luglio, vero?» «Sì» confermò Ollie, rendendosi conto improvvisamente che stava facendo la mossa sbagliata. «Sì, è così. Per te è un problema?» «No, no. Anzi, potremo stare insieme tutto il giorno e poi alla sera andare a vedere i fuochi d'artificio.» «È proprio quello che avevo pensato. Facciamo una cosa informale. Jeans... una cosa così.» «Per me va bene» rispose Patricia. «Una bella, tranquilla domenica di relax.» «E dopo i fuochi d'artificio» le ricordò Ollie. «I pancake però saranno senza grassi, vero?» «Certo, senza grassi.» «Splendido. Ottima idea, Oll. Che ora avevi in mente?» «Andrebbe bene alle undici?» «Perfetto. Ci vediamo alle undici.» «Bene. Bene, Patricia. Molto informale, eh? In jeans.» «Jeans, capito. Ci vediamo.» «Ci vediamo, Patricia» disse Ollie, e riattaccò. Il cuore gli batteva forte. Si sentiva come se avesse appena pianificato una rapina in un negozio di dolciumi. Le storie dei veterani continuavano... «... non era la mia squadra, quella era un'altra squadra della compagnia D. Voi sapete come funziona, vero? Oppure no? Una compagnia è formata da un minimo di due a un massimo di quattro plotoni e un plotone è formato da squadre, da due a quattro. In ogni squadra ci sono solo nove, dieci soldati, capito? Il ragazzo che ha sparato a quella donna era di un'altra squadra...»
«... abbiamo dato fuoco a sette bunker e a due tunnel nell'area immediatamente dietro di noi. Abbiamo sequestrato dodici bombe da mortaio da 81 millimetri e 11.200 proiettili per armi corte, più di una tonnellata di riso e una radio di fabbricazione russa...» «... una manovra d'accerchiamento, come per il rastrellamento di un villaggio; ne facevamo di continuo. Attacco alle prime luci del giorno per cogliere Charlie di sorpresa. Ma loro sapevano che stavamo arrivando e si erano piazzati lungo la pista con fucili e mitragliatrici e noi ci siamo finiti dritti in mezzo...» «... Sobolov si è beccato un colpo di mortaio che avrebbe dovuto ucciderlo. Invece l'ha soltanto accecato.» Fu solo poco dopo le cinque di quel lunedì pomeriggio che Meyer e Carella trovarono il tenente che era stato al comando dei quasi duecento uomini della compagnia D durante l'offensiva Ala Moana del dicembre 1966, trentotto anni prima. Si chiamava Danny Freund. Adesso aveva sessantun anni, i capelli grigi, un'evidente zoppia... «Il mio souvenir di guerra» spiegò ai detective. ... e si stava godendo un giorno di ferie dal suo studio legale badando ai due nipotini nel parco. Sulle altalene, i bimbi cercavano di raggiungere il cielo, mentre Freund ricordava un tempo che avrebbe preferito dimenticare. «Non so cosa sapete di Sobolov» disse «ma pochi di noi hanno pianto quando hanno saputo dell'omicidio, questo ve lo posso assicurare. Era il classico sergente di ferro stereotipato, credetemi. Un gran figlio di puttana.» «Alcuni uomini della sua compagnia hanno accennato a un incidente con una donna vietnamita» intervenne Meyer. «Di cosa si è trattato?» «Si è trattato di una corte marziale che non c'è mai stata. Max aveva denunciato quel ragazzo...» «Quale ragazzo?» «Uno della sua squadra, che praticamente ha fatto saltare in aria una ragazza vietnamita. Sobolov poi l'ha denunciato, facendo scattare l'applicazione dell'articolo 32. Si tratta dell'equivalente militare del gran giurì civile. Gli ufficiali incaricati si riuniscono per determinare se è stato effettivamente commesso un reato e se è ragionevole presumere che l'accusato abbia commesso tale reato. Il ragazzo sosteneva che gli era stato ordinato di sparare alla donna. Diceva che era stato Sobolov a ordinarglielo. I giudici
non sono andati oltre, non hanno fatto il passo successivo. Invece hanno...» «Il passo successivo?» «Non l'hanno deferito alla corte marziale.» «Quindi hanno deliberato a favore del ragazzo, è così?» chiese Carella. «Be', immagino dipenda dai punti di vista. Una condanna in corte marziale avrebbe comportato un congedo punitivo: un CD o un CCC. I giudici invece hanno deciso...» Freund notò le espressioni confuse sulle facce dei poliziotti. «Congedo con disonore» spiegò. «Congedo per cattiva condotta. In entrambi i casi ci sarebbe stata una perdita notevole di benefici. Il ragazzo però ha avuto un CIMO: congedo non onorevole. Anche il CNO comportava una perdita di benefici, e il più importante era il GI Bill, con cui avrebbe potuto pagarsi il college.» Freund scosse la testa, lanciò un'occhiata ai suoi nipotini volanti, gridò: «Ragazzi! È ora di andare!» e si alzò in piedi. «Sobolov invece l'ha fatta franca. Be', magari non del tutto. È tornato cieco dalla guerra. Ma, se era stato davvero lui a dare l'ordine che ha ucciso quella ragazza vietnamita, si è meritato tutto quello che gli è capitato. Anche prima di Ala Moana non faceva che fumare erba giorno e notte. Non era in grado di fare niente senza la sua dose quotidiana. Un prepotente, uno stronzo e uno strafatto, ecco cos'era il sergente Max Sobolov. Quando quel colpo di mortaio gli ha spappolato gli occhi, tutto il plotone ha applaudito. E avremmo applaudito anche più forte, se fosse rimasto ucciso.» «Quel soldato denunciato da Sobolov...» disse Meyer. «Ricorda come si chiamava?» «Charlie Qualcosa. Come il nemico.» «Charlie e poi?» «Fatemi pensare un momento» rispose Freund. Si avviò verso le altalene, affiancato dai detective. «Oh, certo» disse. «Si chiamava...» Jennifer Purcell abitava in una palazzina di Riverhead, in un quartiere un tempo italiano. Ora prevalentemente portoricana, la zona stava diventando di moda tra i giovani perché vicina alla città. Forbes Avenue era a venti minuti scarsi di metropolitana dal cuore di Isola. Alle diciassette e trenta di quel lunedì, Jennifer fece entrare Cotton Hawes nel suo appartamento e si scusò immediatamente per il disordine. «Il lunedì faccio il turno di giorno» spiegò. «A pranzo c'è sempre moltissima gente Non ho avuto tempo di riordinare.» Disse inoltre che faceva la came-
riera in un ristorante del centro che si chiamava Paulie e si scusò di nuovo per non essersi trattenuta a parlare la mattina, ma era già in ritardo per il lavoro, quando lui le aveva telefonato. Come Hawes aveva dedotto dalla voce al telefono, Jennifer Purcell aveva circa trent'anni. Jeans e felpa di cotone, capelli castani raccolti a coda di cavallo, niente trucco, nemmeno il rossetto. Insignificante. Un tantino sovrappeso. Si sedettero a bere caffè al tavolo della cucina. «Lei pensa che troverete chi l'ha uccisa?» domandò la ragazza. «Ci stiamo lavorando» rispose Cotton. «I giornali dicono che è stato un serial killer. Che lei è stata solo un'altra vittima casuale.» «Be', i giornali...» sospirò Hawes. «Sto seguendo il caso. Non perché era mia nonna. In effetti non l'ho mai conosciuta. Sa, ha preso armi e bagagli e se n'è andata. E non ha mai più contattato i suoi figli. È strano, non le pare? Una donna che abbandona i figli in quel modo? Dieci e otto anni. E non li ha mai più cercati. Mai più parlato con loro. A me sembra molto strano. Mio padre la odiava.» «Suo padre era il figlio maggiore? O il minore?» «Il maggiore. Aveva dieci anni, quando lei se n'è andata.» «È ancora vivo?» «No, è morto di cancro dodici anni fa, a quarantotto anni. Molto giovane. Sa, è di famiglia. Anche mio nonno è morto di cancro. Luke. Lui però era molto più vecchio. Se n'è andato solo sette anni fa. Aveva settantasei anni. Io do la colpa di tutto a lei.» «Cioè a...?» «Mia nonna Helen. Abbandonarli in quel modo. Sa, il cancro è direttamente collegato allo stress. Il nonno era giovane, quando Helen se n'è andata, aveva trentatré anni, molto giovane. I ragazzi avevano solo dieci e otto anni. Il nonno li ha cresciuti da solo, un padre single, e non si è più risposato. I figli gli erano molto affezionati... be', era comprensibile: erano senza madre. Poi... be'... mio padre è morto così giovane e dopo non ho più visto spesso lo zio. È come... svanito nel nulla.» «Sua madre è ancora viva?» «Oh, sì. Si è risposata e adesso vive in Florida. Risposata con un ebreo.» Jennifer esitò un momento e abbassò lo sguardo sulle mani raccolte in grembo. «Non ho quasi più nessuno. Io sono figlia unica. L'ultima volta che ho visto lo zio è stato al funerale del nonno, sette anni fa. Sembrava così... non so... distante. Non si è mai sposato, si è comprato una piccola
casa a Sands Spit. Allora lavorava in un negozio di scarpe, vendeva scarpe. Ha sempre fatto il commesso, anche subito dopo aver lasciato l'esercito. È stato in Vietnam, sa? Dopo la guerra vendeva dischi in un negozio di musica. Mi regalava continuamente dischi. A me era simpaticissimo. Io credo che Helen abbia fatto un gran male a tutti. Penso che nessuno di loro si sia più ripreso. Insomma, il cancro ne ha uccisi due. È lo stress. Helen Reilly. Non sapevo neppure il suo nome finché non ho letto dell'omicidio sul giornale. Cioè, ho capito che era mia nonna solo quando ho letto che prima si chiamava Helen Purcell. È stato allora che è scattata la molla. E... le dirò... sono contenta. Sono contenta che qualcuno l'abbia uccisa.» Ci fu silenzio nella piccola cucina. «So che le sembrerà terribile, che Dio mi perdoni. Ma è così che mi sento.» «Ne ha parlato con suo zio?» «Di cosa?» «Della morte di sua madre. Della morte di Helen Reilly.» «No. Gliel'ho detto: l'ultima volta che l'ho visto...» «Sì, ma pensavo che magari gli avesse parlato dopo. Quando ha saputo dell'omicidio.» «No.» «Lei sa dove potrei trovare suo zio?» «No, mi dispiace. Credo che abiti ancora a Sands Spit, ma non ho l'indirizzo, mi dispiace.» «Mi sa dire come si chiama?» domandò Hawes. «Come si chiama mio zio? Be', certo che lo so...» «So che il cognome è Purcell» l'interruppe Cotton. «Ma qual è il nome di battesimo?» «Charles» rispose Jennifer. «Zio Charles.» Carella aveva appena finito di leggere l'e-mail di Teddy, quando squillò il telefono sulla scrivania. Stupefatto e scioccato, rimase a fissare lo schermo del computer per un attimo, prima di tendere la mano verso il ricevitore. «87°. Carella.» «Steve?» Un lieve accento. «Chi parla, prego?» «Il tuo patrigno» rispose la voce. «Luigi.»
«È successo qualcosa?» chiese subito Carella. «No, cosa dovrebbe essere successo? È un brutto momento? Che ore sono lì da te?» «Quasi le sei.» «Qui è quasi mezzanotte» disse Luigi. «Tua madre sta già dormendo.» Carella aspettò. Era successo qualcosa? Perché quella telefonata da Milano? Dove era quasi mezzanotte. «Sta bene?» domandò. «La mamma.» «Sì, benissimo. Oggi ci siamo trovati fuori a pranzo e poi lei è andata a fare spese. È tornata a casa esausta. Abbiamo cenato ed è andata dritta a letto.» Esitò un attimo. «Ho pensato di chiamare per sentire come va. Non ti sto disturbando, vero?» «No, no. Disturbando? No. Che genere di spese?» «Cose che ci servivano per l'appartamento. Non mobili, io li fabbrico i mobili, abbiamo mobili fin sopra le orecchie. Ma asciugamani, lenzuola, pentole, padelle, roba simile. Sai, abbiamo comprato questo nuovo appartamento...» Abbiamo comprato, notò Carella. Noi. Non io ho comprato. Lo considerò un buon segno. Una società. Come la sua con Teddy. «... in via Ariosto, vicino al parco. Otto stanze, un mucchio di spazio per quando verrete con i gemelli, eh? E questo weekend andremo a Como per cercare qualcosa in affitto per l'estate, sempre che non sia già troppo tardi. Il lago è a circa un'ora di macchina da qui, così potrò andarci nei fine settimana e per tutto il mese di agosto, quando faccio le ferie. Ad agosto potreste venire con i ragazzi, no? Cercherò di trovare un posto abbastanza grande per tutti, qualcosa di carino sul lago. A proposito, Steve, come stanno i gemelli?» Carella esitò. «Stanno bene» rispose. «Be', sai com'è: adesso sono adolescenti. Hanno compiuto gli anni la settimana scorsa.» «Avete ricevuto quello che vi abbiamo mandato tua madre e io?» «No, non ancora.» «Santo cielo, ma com'è possibile? Abbiamo spedito i regali per corriere! Dirò alla mia segretaria di controllare. Non sono ancora arrivati? Ma che idioti!» «Appena arrivano ti telefono, non preoccuparti» disse Steve. Ci fu un breve silenzio sulla linea. «Cosa intendevi prima con "Sai com'è, sono adolescenti"?» chiese Luigi.
«C'è qualcosa che non va?» «Be', insomma.» «Dimmi.» Le stesse identiche parole che Carella usava quando interrogava un sospetto. Dimmi. «Hai figli anche tu, lo sai.» «Io ho figli che hanno già figli adolescenti!» precisò Luigi. «Cosa c'è, Steve?» E allora, proprio come un indiziato fa un respiro profondo prima di confessare che ha ucciso la moglie e il canarino con un'accetta, Carella fece un respiro profondo e ammise: «April ha fumato marijuana». «Oh, Madonna!» esclamò Luigi. «Quando è successo?» «L'ho saputo un minuto fa. Tu hai mai avuto problemi del genere? Quando i tuoi figli erano piccoli?» Pensava ancora che April fosse "piccola". Rossetto. Tacchi alti. Piccola. Ma tredicenne. E fumava marijuana. «Sì. Ecco, non erba, anche se ce n'è parecchia anche qui» rispose Luigi. «Ma a quattordici anni Annamaria aveva cominciato a frequentare un brutto giro. È così che si dice? Un brutto giro?» «Sì, un brutto giro.» «Alcol, rave party, tutto. Quattordici anni! La mia bambina!» «Sì» confermò Carella. «Proprio così, Luigi.» «Devi parlare immediatamente con April. Devi farle capire che non sarà tollerato nella nostra famiglia.» «Tu hai fatto così?» «Nel momento stesso in cui ho saputo cosa stava succedendo. Non l'abbiamo fatta uscire di casa per un mese. Finché non si è allontanata da quella brutta gente. Le ho detto che avrei chiamato la polizia! Ma tu sei la polizia, giusto, Steve? Parlale. Diglielo: non sarà tollerato! La nostra famiglia non può essere disonorata in questo modo. Luisa ne morirebbe. Devo dirglielo? Vuoi che glielo dica, Steve? Figliolo, posso dirlo alla mamma?» Figliolo, si ripeté Carella. Posso dirlo alla mamma? «Non ancora, Luigi» rispose. «Ti chiamo io dopo che avrò parlato con April. È meglio così.» «Sì, è meglio così. Aspetterò la tua telefonata. Salutami Teddy con tanto affetto. E fammi sapere come vanno le cose. Per favore.» «Lo prometto.» «Allora ci sentiamo presto» concluse Luigi, e riattaccò.
«Grazie...» cominciò Carella, ma la comunicazione era già chiusa e sentì solo il suono della linea libera. Era stato sul punto di dire: grazie, papà. Be', la prossima volta, pensò. Provò le parole in silenzio. Grazie, papà. Poi, a voce alta nel telefono muto, disse: «Grazie, papà» e riattaccò piano il ricevitore. Alle sei e un quarto di quella sera, visto che la limousine non era ancora arrivata, Charles Purcell rientrò nell'atrio dell'hotel e chiese al portiere di chiamargli la società di autonoleggio. L'uomo con cui parlò gli comunicò che l'auto era rimasta imbottigliata nel traffico vicino al ponte di Calm's Point. «E adesso dov'è?» «Sta scendendo dal Drive, signore.» Charles guardò l'orologio. «Allora annulli tutto» ordinò. «Prenderò un taxi.» «Mi dispiace molto, signore, noi...» «Non c'è problema, sarà per un'altra volta» l'interruppe Charles, e riattaccò. Uscì dall'hotel e chiese al portiere di fermargli un taxi. Una volta a bordo, diede al tassista l'indirizzo di Reggie sulla North Hastings e gli disse che avrebbe avuto una mancia di venti dollari se fosse arrivato a destinazione prima delle sei e mezzo. Guardò di nuovo l'orologio. Il tassista si staccò dal marciapiede con uno stridio di gomme. Charles aveva prenotato il tavolo al ristorante per le diciotto e trenta, ma per colpa di quel maledetto noleggio di limousine sarebbero arrivati con un quarto d'ora di ritardo. Però forse potevano ancora farcela, vista l'abilità con cui il tassista zigzagava in mezzo al traffico. Incredibile cosa poteva fare la promessa di un po' di denaro. Charles si stava abituando a quello stile di vita. Peccato che non potesse durare per sempre. D'altra parte niente dura per sempre. Reggie stava già aspettando sugli scalini del suo palazzo, quando il taxi accostò al marciapiede. Charles chiese all'autista di non fermare il tassametro, scese dall'auto e si stava avviando verso la ragazza con un sorriso stampato sulla faccia quando di colpo accadde, come in un lampo. In un istante si ritrovò di nuovo in Vietnam, dove all'improvviso tutto ti esplodeva intorno e inizialmente non ti rendevi neanche conto che stava davvero
succedendo a te, che quell'attacco era diretto contro di te. L'uomo che sembrò materializzarsi dal nulla era alto più di un metro e ottanta, con spalle ampie e il torace massiccio. Un gorilla di una tonnellata in jeans, T-shirt nera e scarpe da corsa nere che puntava a grandi passi su Reggie la quale, in piedi sui gradini del palazzo, gli dava la schiena perché stava guardando lui che si avvicinava dalla direzione opposta. Appena lo riconobbe, accennò un sorriso e cominciò a scendere gli scalini. Fu esattamente in quel momento che l'uomo in nero le afferrò il polso destro e la trascinò giù, sul marciapiede. Scioccato e incredulo, Charles lo vide dare uno schiaffo a Reggie, con tanta violenza che la ragazza sarebbe caduta all'indietro se lui non l'avesse tenuta stretta per il polso. «Hai perso la strada?» chiese l'uomo con voce dolce, e le diede un altro schiaffone. «Tu!» gridò Charles, puntando il dito contro lo sconosciuto. Un istante dopo correva verso l'uomo, che stava trascinando Reggie lungo il marciapiede. La ragazza indossava un lucente miniabito color argento e scarpe argentate con il tacco alto. Cercò di puntellarsi con i piedi, di opporre resistenza, ma l'uomo la teneva saldamente per il polso e, quando lei tentò di liberare la mano, le diede un altro schiaffo. E un altro ancora. Charles gli si scagliò addosso. «Che vuoi?» fece l'uomo, e si liberò di Charles come un cane che si scrolla l'acqua di dosso. Charles si lanciò di nuovo contro di lui. L'uomo lo colpì in pieno viso, violentemente. Dal naso cominciò a sgorgare sangue. «Figlio di puttana!» gridò Reggie, che si tolse una scarpa d'argento e tentò di colpire il gorilla in testa con il tacco. L'uomo in nero schivò il colpo e stava sollevando il braccio per schiaffeggiare un'altra volta la ragazza, quando all'improvviso vide la pistola nella mano di Charles. «Ehi, calma» lo ammonì, ma Charles stava già facendo fuoco. Reggie urlò. Charles continuò a sparare finché non esaurì i colpi. Il taxi si staccò ruggendo dal marciapiede. «Oh, Gesù» mormorò Reggie. Charles le afferrò una mano. Insieme, corsero via nella sera. I brillanti perditempo dell'87° stavano facendo notte. Per la precisione, era mezzanotte e due minuti di martedì, ventinovesimo giorno di giugno, e tutti morivano dalla voglia di raccontarsi com'erano stati in gamba nello
scovare il nome del tizio che sospettavano avesse fatto fuori cinque persone con la stessa Glock nove millimetri. Sì, tutti loro, individualmente e separatamente, avevano trovato il nome, ta-ta! O meglio, varianti di quello che di sicuro era lo stesso nome: che si trattasse di Carlie, di Chuck o di Charlie, il nome di battesimo era indubbiamente Charles e il cognome, altrettanto indubbiamente, Purcell. Ma, cosa ancora più importante - ed era Hawes che se ne attribuiva il merito, dato che era stata Jennifer Purcell a dirgli che forse lo zio Charles viveva ancora a Sands Spit - sull'elenco telefonico avevano trovato un Charles Purcell che viveva in una cittadina chiamata Oatesville nella contea di Russell, a meno di un'ora dalla città. L'elenco interno delle forze dell'ordine fornì il numero dello sceriffo della contea e fu Cotton Hawes a telefonare. Parlò con un vicesceriffo di nome Lyall Farr, al quale richiese di arrestare e trasferire Charles Purcell, sospettato di omicidio e residente al 410 di Graham Lane. Farr rispose che poteva senz'altro effettuare l'arresto, giusto per cortesia, ma il trasferimento in città era fuori questione, dato che al momento l'ufficio dello sceriffo di Russell era sotto organico. Hawes si accordò per un arresto con fermo. Venti minuti dopo Farr richiamò per informare che la casa era chiusa e buia: cosa doveva fare? Cotton gli disse di fare irruzione: là dentro viveva un sospetto omicida. Farr dichiarò che lo sceriffo di Russell non aveva alcuna intenzione di fare irruzione senza un mandato. E comunque all'inizio del mese un vicino di casa aveva visto Purcell andarsene con una valigia in mano. Purcell gli aveva confidato che aveva intenzione di passare un po' di tempo in città. «Da allora la casa è vuota» continuò Farr. «Dove in città?» gli domandò Hawes. «Non capisco.» «Passare un po' di tempo dove in città?» «Purcell non l'ha detto. Ho l'impressione che i vostri buoi siano già scappati.» O così sembrò fino a mezzanotte e cinquantanove minuti, quando arrivò la telefonata di un certo detective David Bannerman dell'86° Distretto, a circa tre chilometri di distanza dal vecchio 87°. Bannerman spiegò che all'inizio era sembrata una semplice lite domestica. La signora prende un po' d'aria sui gradini di casa, il marito o il fidanzato la raggiunge, si mette a urlare e comincia a prenderla a schiaffi. Una lite di famiglia, pura e semplice, un intervento di normale routine per gli
agenti di pattuglia in zona. Ma poi, tutt'a un tratto, era diventato qualcos'altro. Un tizio scende da un taxi, estrae una rivoltella, raggiunge il bruto che schiaffeggia la donna e gli scarica la pistola addosso. Diciassette proiettili, che riducono l'uomo sul marciapiede a un gruviera. Perciò adesso la scena comincia ad assumere tutte le caratteristiche di un regolamento di conti, giusto? Se scarichi la pistola addosso a qualcuno, significa che vuoi essere sicuro che sia morto, giusto? Inoltre salta fuori che il bruto ha precedenti che risalgono a quand'era ancora minorenne; deve per forza trattarsi di un regolamento tra bande, no? «Una testimone ci ha dato la descrizione dell'uomo che ha sparato» aggiunse Bannerman. «Magro, alto circa un metro e ottanta, in abito blu scuro e cravatta. Calvo. Completamente calvo. La testimone dice che sembrava molto pallido. Quasi orientale. O ascetico, per usare le sue parole precise. Pallido e ascetico. Come un religioso. Hai presente il Dalai Lama? La testimone ha fatto riferimento al Dalai Lama, tu sai che faccia ha? Neppure io. Comunque un tipo così. Un religioso.» «Bel religioso» commentò Carella. Si stava chiedendo perché mai Bannerman gli stesse raccontando questa lunga, lunga storia. «Così abbiamo pensato che qualche delinquente avesse cercato questo Benjamin Bugliosi... è così che si chiama la vittima... e lo avesse fatto fuori. Ma questo prima della telefonata della Balistica di dieci minuti fa...» Oh-oh, pensò Carella. «... che ci ha informato che l'arma utilizzata per ammazzare Bugliosi è lo stesso modello usato nei cinque omicidi su cui voi ragazzi state già indagando. Quindi, amico mio, prevale la regola del Primo Uomo e così adesso vi ritrovate con sei vittime. Mazel tov, buona fortuna.» «Grazie» disse Carella. L'orologio a parete della sala agenti indicava l'una e ventisette minuti. Come risultava dal computer, la fedina penale di Benjamin "Bug" Bugliosi indicava che l'uomo aveva commesso il suo primo reato, un'aggressione semplice, all'età di sedici anni. Un giudice gentile e comprensivo aveva sospeso la sentenza. Il più recente scontro di Bugliosi con la legge - il dodicesimo, per inciso - risaliva a sei anni prima: un'altra aggressione, questa volta aggravata. A quanto pareva, Bug all'epoca era impiegato come buttafuori in un "club" privato chiamato Sophisticates, un bordello camuf-
fato, e neanche tanto bene, e un turbolento cliente ubriaco aveva cercato di inserire la canna di una pistola nella vagina di una delle verginelle del locale. Bugliosi aveva spinto il cliente giù per le scale, gli aveva ripetutamente sbattuto la testa contro la parete dell'ingresso, l'aveva buttato fuori, sul marciapiede, e l'aveva preso a calci, riducendogli la testa a una specie di poltiglia sanguinolenta. Sotto la pioggia, per di più. Nessuna meraviglia che poi fosse finito al fresco nel carcere di Castleview, nel Nord dello stato. Dalla fedina penale risultava inoltre che Bugliosi aveva ottenuto la libertà vigilata nel novembre scorso, che a quanto pareva stava lavorando e che si presentava regolarmente a rapporto come programmato all'ufficio per la libertà vigilata. A quell'ora l'ufficio era chiuso e non avrebbe riaperto prima delle nove di mattina. Nel profilo dei serial killer elaborato dall'FBI si sosteneva che con il passare del tempo gli omicidi diventavano sempre più cruenti... (Diciassette proiettili, questa volta.) Se Purcell era effettivamente un serial killer... (Adesso le vittime erano sei.) «Andiamo a controllare se Bugliosi era tornato a lavorare per la Sophisticates» disse Carella. Era passato molto tempo dall'ultima volta in cui Carella o Meyer erano entrati in un bordello alle due di notte. La Sophisticates occupava un'intera palazzina di quattro piani in una tranquilla strada laterale. Cadeva una pioggia leggera, quando i due detective si annunciarono al citofono inserito nello stipite della porta, dando a tutti coloro che si trovavano all'interno del locale la possibilità di infilarsi i pantaloni o gli slip: non si trovavano lì per un'irruzione della Buoncostume. In effetti tutto aveva un'aria molto decorosa, addirittura quasi domestica, quando, dopo un'attesa di dieci minuti, Carella e Meyer furono ammessi nell'atrio e quindi nella sala d'aspetto al piano superiore, dove signorine bianche, nere, latine e asiatiche ciondolavano in negligé e biancheria di pizzo. Tuttavia non si vedeva nessuno copulare o fare altre porcherie. Una delle ragazze era veramente bella. Era bionda, alta, sui venticinque anni, in vestaglia di seta nera aperta sopra il reggiseno e gli slip ridottissimi, e accolse i due visitatori con un gran sorriso di benvenuto, anche se sicuramente sapeva che erano poliziotti. Carella si chiese cosa diavolo ci facesse una ragazza del genere in un bordello. Anche se quel posto non face-
va pensare a un bordello, con le sue pareti a specchio brunito e i divanetti di velluto. Assomigliava di più all'atrio di un hotel. L'unico maschio che si vedeva in giro era un nero grande e grosso che si presentò come Roger e disse di essere il direttore di notte della Sophisticates; forse i signori gradivano una tazza di caffè? «Benjamin Bugliosi» disse Meyer. «Benny Bug» aggiunse Carella. Roger li guardò inespressivo. «Bugliosi lavora qui?» «Non durante il mio turno.» «Allora nel turno di chi?» «Non credo di conoscerlo» rispose Roger. «Lei sa dove poteva essere Bugliosi ieri sera verso le sei e mezzo?» «Io attacco a lavorare a mezzanotte» replicò Roger. «Stiamo cercando chi l'ha ucciso.» «Oddio» fece Roger. «Un bianco alto, calvo come me» precisò Meyer. «Non conosco neppure lui» fece Roger. «Io li conosco tutti e due» disse la bionda carina. «Sta' zitta, puttana» le ordinò Roger. «Loro l'avevano mandato...» «Ti ho detto di stare zitta!» ribadì Roger, e fece per avvicinarsi alla ragazza. «Fermo» intimò Meyer, piantando il palmo della mano sul petto dell'uomo. Roger strinse i pugni e lanciò un'occhiata carica d'odio al poliziotto, ma si immobilizzo di colpo. «Lei come si chiama, signorina?» domandò Carella. «Trish» rispose la ragazza. Raccontò che due settimane prima, più o meno... «Quassù si perde la cognizione del tempo. È stato due settimane fa? Più o meno, comunque. Io e un'altra ragazza che lavora qui, Regina, è proprio il suo vero nome, siamo andate da quel tizio calvo di cui parlavate con Roger. Sembrava un monaco, qualcosa del genere, niente capelli, niente sopracciglia, niente ciglia, niente di niente. Nemmeno un pelo, strano. Siamo state con lui tutta la notte, era un giovedì. È stato il diciannove? Il diciannove era due settimane fa? Ma che giorno è oggi?» «Il ventinove» rispose Carella.
«Di già?» «Da tutto il giorno» confermò lui. Erano seduti nell'ufficio di Roger, con la porta chiusa. La ragazza continuava a lanciare occhiate verso la porta, terrorizzata che si aprisse e comparisse Roger a dirle di stare zitta, puttana. «Quindi è meno di due settimane» considerò Trish, stringendosi nelle spalle. La vestaglia di seta le scivolò da una spalla. La ragazza la rimise a posto con un gesto pigro. «Comunque sia, dopo quella notte Regina non si è più fatta vedere al lavoro. Ha telefonato per dire che le erano appena venute le sue cose, dopo di che niente, silenzio. La Sophisticates non gradisce molto la libera professione, capite cosa intendo? Insomma, li ho sentiti dire a Bug di andarla a cercare e di darle una lezione. Io ho provato a chiamare Regina per avvertirla, ma lei non ha risposto e non aveva neppure inserito la segreteria, il che è strano per una prostituta. Il telefono è vitale per una prostituta. Così ho pensato che doveva avere concluso qualche accordo privato con il Pelato, il quale tra parentesi spendeva e spandeva come se i soldi gli scottassero in mano. Bug ha fatto molto male a Regina?» «Non lo sappiamo» rispose Meyer. «Spero proprio di no» disse Trish, e si strinse ancora nelle spalle. La vestaglia scivolò di nuovo, ma questa volta la ragazza non si prese la briga di rimetterla a posto. «Sarà meglio che io non torni più qui, eh?» considerò, e si voltò a guardare la porta chiusa. «Questo lavoro esterno del diciannove...» riprese Carella. «Più o meno in quella data, sì.» «Lei ricorda come si chiamava quell'uomo?» «Charles.» «Charles e poi?» «Non l'ha detto. Non lo dicono mai.» «Dove eravate?» «All'Albemarle Hotel. In centro, sulla Holman.» Trish guardò di nuovo la porta. Seduta con la vestaglia aperta, il seno in mostra nel reggiseno nero, le mani raccolte in grembo, all'improvviso sembrò smarrita come una bambina di quattro anni che ha perso il lecca lecca. «Posso uscire con voi ragazzi, quando ve ne andate?» domandò. «In tutta la mia vita nessuno aveva mai fatto niente del genere per me»
disse Reggie. Era rannicchiata tra le braccia di Charles nel grande letto della camera principale della suite al quattordicesimo piano dell'Albemarle Hotel, lo stesso grande letto in cui dormivano insieme da quello che ormai sembrava tantissimo tempo. Erano tutti e due nudi. Erano quasi le tre di notte. Avevano fatto l'amore appena erano arrivati in hotel e dopo avevano cominciato a parlare. «Il mio eroe» dichiarò Reggie. «Bell'eroe» fece Charles. Ma era compiaciuto. «Avrebbe potuto uccidermi.» «Ho pensato che stesse per farlo.» «Il grande tiratore» disse Reggie, e sorrise. «Ti amo così tanto, Chaz.» «Ti amo anch'io, Reg.» «Hai ucciso un uomo per me!» «Non urlare» l'ammonì Charles scherzosamente. «Avevi già ucciso prima? So che sei stato in Vietnam...» «A partire dal sedici giugno, ho ucciso altre cinque persone» confessò Charles. «Ma dài!» «Hai presente i delitti della Glock? Hai letto sui giornali? Be', sono io.» «Mi farai venire un attacco di cuore!» «No, no, per favore...» «Parli sul serio?» «Te lo giuro.» «Ma dài» ripeté Reggie. «Davvero. Contando il tizio di ieri sera, ho già ucciso sei persone in questa città.» «E io che pensavo di essere speciale» fece Reggie. Lo baciò sulla bocca. «E perché avresti ammazzato tutte quella gente, Chaz?» «Il tizio di ieri l'ho ucciso perché voleva farti del male.» «Allora forse sono speciale» disse Reggie e lo baciò di nuovo, con più passione questa volta. «E gli altri?» «Perché avevano fatto del male a me.» «Allora mi converrà non farti mai del male.» «So che non me ne faresti mai.» «Mai» confermò Reggie. Guardò Charles in faccia, negli occhi, gli studiò la bocca e gli sfiorò la guancia. «Be', allora sarà meglio che ce ne andiamo di qua, giusto? Perché adesso sei un desperado ricercato, no?»
«Non c'è più molto tempo.» «Ma andiamo, c'è un mucchio di tempo! Ti piacerebbe andare in Messico?» chiese la ragazza. «Bello il Messico.» Reggie annuì, appoggiata alla spalla di Charles. Rimase zitta per un po'. Charles la strinse a sé. «Allora forse potremmo andare in Messico» suggerì Reggie. «Dove vuoi tu.» «Non ti dà fastidio che io sia una puttana?» «Tu non sei una puttana.» Reggie annuì di nuovo. «Forse non lo sono.» Dal salotto arrivarono rumori confusi. Tutti e due scattarono a sedere sul letto, esattamente nel momento in cui sei detective in giubbotto di kevlar irrompevano nella stanza con le pistole spianate. Alle loro spalle c'era un tizio che indossava una giacca con le code e dei pantaloni a righe; aveva un passe-partout in mano e sembrava molto spaventato. Charles allungò subito la mano verso la Glock sul comodino. «Non toccarla, Pelato!» gridò Meyer il calvo. Da che pulpito veniva la predica! 10 Era come ai vecchi tempi. I bei vecchi tempi, ricordate? Quando c'erano sconosciuti che uccidevano altri sconosciuti senza una ragione al mondo. Negli ultimi anni gli omicidi in città erano scesi a meno di due al giorno. Era un successo. L'anno precedente, alla stessa data, erano state assassinate trecentosette persone; a partire dal gennaio dell'anno in corso, le vittime erano solo duecentosettantatré. Ma questo dato non includeva le undici persone, compreso Benjamin Bugliosi, che erano state uccise la sera prima, in quello che le prime edizioni dei giornali stavano già definendo il "lunedì di sangue". Dopo le diciotto e trenta della sera precedente, quando Bugliosi era stato ammazzato davanti al 753 di North Hastings, c'erano stati sei omicidi a Calm's Point, uno a Majesta e tre nel quartiere Laurelwood di Riverhead. Una delle vittime di Riverhead era stata pugnalata al petto mentre cercava
di impedire che le rubassero la catena con croce in oro bianco che portava al collo. Alla vittima di Majesta avevano sparato nello stomaco; l'assassino diciassettenne era corso dentro una stazione della metropolitana e poi, inseguito dalla polizia, si era nascosto in un vicolo di Dunready Street, dove si era sparato in testa. A parte quello del caso Bugliosi, non erano stati effettuati arresti. Ma l'ufficio del procuratore distrettuale era comunque in stato di massima allerta e a un'eventuale chiamata da parte dell'87° Distretto avrebbe potuto rispondere uno qualunque dei sei viceprocuratori. Fu solo per caso che toccò a Nellie Brand dover trottare fino all'87° alle quattro di quel martedì mattina. «Il punto è» le stava dicendo Carella «che pare non gliene freghi assolutamente niente. Del fatto che lo abbiamo preso, intendo.» «Ha ammesso di averli uccisi tutti e sei?» chiese Nellie. Era di turno da mezzanotte, ma sembrava fresca e molto sveglia nel tailleur di lino beige e camicetta verde acido. Capelli biondi cortissimi. Niente trucco, solo il rossetto. «Tutti e sei» confermò Steve. «Però dice che l'ultimo è stato per legittima difesa. Per difendere la sua fidanzata.» «La sua fidanzata, eh? Di lei cosa mi racconti?» domandò Nellie. «Non ci interessa un arresto per violazione del 230» rispose Carella. «La lasciamo andare.» «Allora, quando andiamo a parlare con lui?» «Appena arriva il tecnico video.» Erano le quattro e dieci minuti. L'interrogatorio iniziò alle quattro e trentadue. A quel punto il tecnico aveva sistemato la sua attrezzatura ed era pronto a registrare il procedimento. Quell'uomo aveva già filmato centinaia di interrogatori, la maggior parte dei quali l'aveva annoiato a morte. Ogni tanto capitava qualcosa di interessante, tipo un tizio che non vedeva l'ora di raccontare quanto si fosse divertito a pugnalare una donna quindici volte al seno sinistro e poi a berne il sangue dal capezzolo, cosa che, a dire la verità, anche il tecnico aveva trovato in un certo senso eccitante. Ma quasi sempre i moventi degli omicidi erano banali e il tecnico riuscì a stento a soffocare gli sbadigli mentre Charles Purcell prestava giuramento, ascoltava mentre gli venivano letti per l'ennesima volta i suoi diritti e quindi di-
chiarava nome e indirizzo per gli atti. Purcell indicò come propria residenza il 410 di Graham Lane a Oatesville. Fu allora che entrò in scena Nellie. D: Signor Purcell, mi è stato riferito che lei ha rifiutato l'assistenza di un legale, è così? R: Non ho bisogno di un avvocato. D: Lei si rende conto, vero...? R: Non ho bisogno di un avvocato. D: Per favore, vuole confermare per gli atti che è stato informato del suo diritto alla presenza di un legale, che ha rinunciato a tale diritto e che adesso è disposto a rispondere alle mie domande senza la presenza di un avvocato? R: Sì. Tutto quanto. Andiamo avanti. D: Signor Purcell, dove si trovava ieri sera alle diciotto e trenta? R: Ero passato a prendere la mia fidanzata. Dovevamo... D: Con "la mia fidanzata"... R: Regina Marshall. Abita al 753 di North Hastings. Dovevamo andare a cena insieme. Reggie era passata da casa per cambiarsi. Mi stava aspettando davanti al suo palazzo, quando è stata aggredita dall'uomo al quale ho sparato per legittima difesa. D: Benjamin Bugliosi? R: Ho saputo in seguito il suo nome, sì. Non avevo idea di chi fosse, quando gli ho sparato. Sapevo solo che stava facendo del male a Reggie. D: Il nome Michael Hopwell le dice qualcosa? R: Sì, è il prete che ho ucciso. D: Christine Langston? R: Sì, ho ucciso anche lei. D: Alicia Hendricks? R: Sì. D: Max Sobolov? R: Sì, l'ho ucciso io. D: Helen Reilly? Ha ucciso anche lei? R: Li ho uccisi tutti. D: Perché ha ucciso quelle persone? R: Mi avevano rovinato la vita. D: Mi scusi: le avevano...? R: Mi avevano fottuto la vita.
Erano le quattro e trentanove minuti, quando cominciò a raccontare. Il sole stava spuntando. Una luce dorata si riversò in sala agenti attraverso le finestre a sbarre, ma non raggiunse la saletta degli interrogatori priva di finestre dove Charles Purcell stava spiegando perché aveva ammazzato le cinque persone che riteneva gli avessero rovinato la vita. Il racconto si concluse alle cinque e trentadue, quando l'uomo confessò di aver ucciso Max Sobolov perché era stato il suo sergente in Vietnam e il responsabile di quel congedo non onorevole. «Non sono potuto andare al college per causa sua» disse Purcell. Nella saletta si fece silenzio, a parte il ronzio quasi impercettibile della videocamera. Nellie spostò lo sguardo sui detective. «Qualcuno vuole chiedere qualcosa?» domandò. «Puoi ripeterci tutto un'altra volta?» fece Ollie. «In ordine, questa volta.» Charles Purcell descrisse ciascun omicidio un'altra volta, in ordine cronologico nel presente e nel passato. Aveva otto anni e si chiamava Carlie, quando sua madre aveva abbandonato la famiglia... Io avevo la mia chiave, così sono entrato in casa. Mio padre era al lavoro e mio fratello all'allenamento di basket, ma mia madre avrebbe dovuto esserci. L'appartamento era così silenzioso. C'era il sole che entrava dalle finestre. L'orologio ticchettava. Sono andato in cucina per prendere un bicchiere di latte e qualche biscotto. Mia madre ci faceva sempre trovare la merenda pronta per quando tornavamo da scuola. C'era un biglietto sullo sportello del frigorifero. Scritto a mano. Cari Andrew e Carlie... Non riuscivo a pronunciare "Charlie", avevo solo otto anni. Cari Andrew e Carlie, perdonatemi, ma devo andarmene senza di voi. Lui non vuole i figli di vostro padre. Un giorno capirete. Mamma Io ho pensato: chi è che non vuole i figli di mio padre? Chi è che non vuole me e Andy?
Ho pensato: capirete cosa? In frigo non c'era latte, e non c'erano neppure i biscotti. «Hai ucciso tua madre» disse Parker. «Ha smesso di essere mia madre quando avevo otto anni.» Aveva dieci anni e si chiamava ancora Carlie, quando il prete l'aveva molestato... Non è successo dietro una porta chiusa o roba simile, niente nicchie nascoste in un chiostro segreto, niente angoli bui con archi rampanti e finestre da cui entra una luce frammentata, nessuna solenne, silenziosa seduzione pomeridiana. È successo in pieno giorno. Sul sedile anteriore di una Chrysler decappottabile. La capote abbassata. Sole dappertutto. Gli insetti che ronzavano nei campi ai due lati della stradina sterrata di campagna. Io avevo dieci anni. "Non è bello, Carlie? Una gita in campagna? Non è piacevole?" "Guarda, Carlie." "No, qui, Carlie." "Guarda qui." "Vedi, Carlie?" "No, non avere paura." "Toccalo, Carlie." Gli insetti che ronzavano. "Sì, Carlie. Bravo il mio ragazzo." La sua mano sulla mia testa. Che mi spingeva. Che mi guidava. «Non sarebbe successo, se avessi avuto ancora una madre» disse Purcell ai detective. Aveva quattordici anni e si chiamava Chuck, quando una bella tredicenne si era rifiutata di ballare con lui... La chiesa era un grande edificio in stucco giallo all'incrocio tra Laurelwood e non ricordo più quale strada. Dominava l'incrocio. Sembrava in stile moresco, non so perché l'avessero fatta così, c'era una grande croce in cima a una delle torrette. La sala ricreazione era molto grande. In fondo c'era il palcoscenico,
con il giradischi sopra un tavolino da gioco pieghevole. Un giovane sacerdote sceglieva i dischi da suonare. C'erano due grossi altoparlanti ai lati del palcoscenico. Quando c'era una conferenza o qualcosa del genere, tutte le sedie di legno erano disposte in file. Ma per il ballo del venerdì le sedie venivano addossate alle pareti, in modo che, quando non ballavi, potevi sederti. Comunque, erano soprattutto le ragazze che se ne stavano sedute, aspettando che i ragazzi andassero a invitarle. I ragazzi invece restavano in piedi in piccoli gruppetti, cercando di farsi coraggio e andare a invitare le ragazze. Ricordo ancora il disco che stava suonando quella sera. Sono passati quarantaquattro anni, ma me lo ricordo ancora. Era I Can't Stop Loving You di Ray Charles, un grande successo di quei tempi. Era una canzone che parlava di un tale che non riusciva a smettere di pensare alla ragazza con cui aveva passato tante ore felici. Aveva il cuore spezzato. Ma non poteva smettere di sognarla. Le ragazze non hanno idea di quanto possa sembrare lunga e spaventosa una sala, quando la devi attraversare tutta per andare a chiedere a una di loro di ballare. Alicia sedeva con due sue amiche proprio in fondo, indossava un vestito giallo con delle specie di balze, teneva le gambe accavallate, dondolando un piede. Aveva gambe splendide e io la amavo da morire. La sala era così lunga, Ray Charles cantava delle sue ore solitarie, Alicia con i suoi capelli biondi lunghi e i suoi tredici anni, Ray Charles che cantava dei sogni di ieri, Alicia che rideva, io mi sono fermato davanti a lei e lei ha smesso di ridere. Le ho teso la mano. "Ti andrebbe di ballare?" le ho chiesto. I can't stop wanting you, cantava Ray Charles. Alicia mi ha guardato. "Sparisci, frocio" mi ha detto. «Vediamo se ho capito bene, okay?» fece Carella. «Hai ucciso Alicia Hendricks perché non ha voluto ballare con te...» «Sì.» «... quando avevi quattordici anni?» «Mi aveva dato del finocchio!» Era ancora Chuck e aveva diciotto anni, quando un'insegnante del liceo si era rifiutata di dargli quella A che lo avrebbe tenuto alla larga dall'esercito... "Ma lei aveva promesso..." "Promesse, promesse."
"Signorina Langston, lei non capisce che..." "Oh, sì, io capisco benissimo." Fuori, sul campo da gioco, la squadra di football stava provando gli schemi. Sentivo il coach strillare. Il suono del fischietto. Avevo compiuto diciotto anni in settembre. Se non fossi riuscito a entrare in un college... "Se lei mi dà una C, la mia media si abbasserà..." "Allora chiedi una A a un altro insegnante." "La prego, signorina Langston, il college non mi accetterà!" "Presenta domanda a un altro college." "Lei mi aveva promesso una A. Lei aveva detto che se io..." "Oh, per favore, non essere ridicolo, Chuck. Stavo scherzando e tu lo sai." "Signorina Langston, per favore. Christine, per fa..." "Non osare chiamarmi Christine!" Le parole della professoressa che crepitano nell'aria come il freddo novembrino. Gli occhi azzurro chiaro della donna che scintillano nel grigiore deprimente del pomeriggio. "Mi manderanno in Vietnam." "Peccato." Nell'esercito si chiamava Charlie... «Chiamavamo Charlie anche il nemico» disse Purcell. «Era così che chiamavamo i vietcong: Charlie. E quello allora era anche il mio nome. Mentre ero in Vietnam...» La ragazza non poteva avere più di diciannove anni. Non so perché il sergente pensava che fosse una spia. Era una giornata piena di luce. Ricordo il sole che splendeva. Avevo vent'anni e sedevo a bordo di una jeep scoperta che avanzava lungo una strada dissestata, con un fucile automatico in grembo e una ragazza con un bimbo piccolo in braccio che si teneva aggrappata alla barra del cassone con tutte le sue forze. Sapete... ti insegnano a uccidere. È questo il punto. Ti addestrano a uccidere. Ma anche così... Il sergente le ha ordinato di alzare le mani. Non era una cosa logica. Il sergente sorrideva. Le ha ordinato di alzare le mani sopra la testa. La jeep sobbalzava, la ragazza stringeva il bimbo con un braccio e si teneva ag-
grappata alla barra con l'altro, come faceva ad alzare le mani? "Mani in alto!" ha strillato il sergente. La ragazza non capiva una parola d'inglese. E forse non aveva neppure sentito, con il vento e il rumore degli aerei che mitragliavano il villaggio, forse non l'aveva neppure sentito. "Mani in alto!" ha urlato ancora il sergente. Ridendo. Si è voltato verso di me. "Falla saltare in aria" mi ha ordinato. Ti insegnano a uccidere, sapete. "Falla saltare da quel cassone del cazzo!" ha strillato il sergente. Alle sei e un quarto decisero che avevano tutto ciò che serviva per il gran giurì. Ma Andy Parker non era ancora soddisfatto. «Perché hai aspettato tutto questo tempo?» domandò. «Non capisco.» «Perché hai aspettato fino a ora per far fuori quella gente?» «Il tempo si stava esaurendo.» «Non ti seguo.» «Non potevo permettere che la facessero franca dopo quello che mi avevano fatto. Dovevo prenderli prima che fosse troppo tardi.» «Vuoi dire prima che morissero per cause naturali?» chiese Parker, riferendosi all'età avanzata delle vittime, e sorridendo nel formulare la domanda. «No» rispose Purcell. «Prima che il cancro uccidesse me. Cancro al pancreas. Ecco cos'avevo. La chemioterapia era a base di Gemzar e Taxotere. È stato il Taxotere che mi ha fatto perdere i capelli. Dovrebbe succedere nell'ottanta per cento dei casi, ma mi avevano detto che i capelli sarebbero ricresciuti entro sei mesi. Finita la chemioterapia. Al giorno d'oggi il Taxotere è un farmaco sintetico, ma originariamente si ricavava dalle foglie del tasso. Ricorda molto il Medioevo, vero? I medici che usavano le sanguisughe... Be', con il cancro in realtà tirano a indovinare. In ogni caso la ricetta, il cocktail, comunque vogliate chiamarlo, il mix di veleni sembrava stesse funzionando, il tumore pareva regredire. Ma poi...» Purcell esitò. La videocamera lo riprendeva in primo piano. «Ma poi in maggio, era metà maggio, abbiamo avuto i risultati dell'ultima TAC e... si era diffuso dappertutto. Il cancro. Dappertutto. Stomaco,
fegato, linfonodi, polmoni. .. dappertutto. Il dottore mi ha detto che avevo potenzialmente due mesi di vita. È stata quella la parola che ha usato. Potenzialmente. «Così ho deciso di vivere alla grande, in quei due mesi. Ho ipotecato la casa e mi hanno dato duecentomila dollari; che si prendano pure la casa, chi se ne frega, tanto sarò morto. Di recente ho acquistato una macchina in leasing. Sarò morto prima di iniziare a pagarla, e chi se ne frega? Sto recuperando quello che non ho mai avuto in vita mia. Mai realizzato. Quello che avrei potuto realizzare se solo... se solo non mi avessero incasinato. Così ho deciso di fargliela pagare per quello che mi avevano fatto. Quelli che mi hanno rovinato la vita. Tutti loro. Mi capite? Li ho uccisi perché mi hanno rovinato la vita!» «Anche lei gliel'ha rovinata» osservò Nellie. «Bene, se lo meritavano.» «Certo, benissimo» disse Nellie, annuendo. «Ma non sarà più così felice, quando le inietteranno il Valium in vena.» «Non succederà mai» ribatté Purcell. «Morirò prima. Secondo i miei calcoli, non mi resta più di una settimana. Perciò chi se ne frega?» «Può darsi che freghi alla sua fidanzata» gli fece notare Nellie. Fu l'unica volta che sul viso di Charles Purcell comparve un'emozione. Erano le sei e quarantatré, quando il tecnico video ripose la sua attrezzatura e comunicò a Nellie e ai detective che se ne andava. Charles Purcell era già in viaggio verso il carcere maschile in centro, in attesa dell'accusa formale non appena il tribunale avesse aperto. Il tecnico, a cui non competeva l'aspetto burocratico del caso - dopo tutto doveva solo registrare un video, giusto? - poteva benissimo raccogliere le sue cose e andarsene a casa. Se era per quello, anche gli altri. 11 Quando aprì la porta, alle sette e mezzo di quel martedì mattina, Paula Wellington era ancora in pigiama, con i capelli bianchi sciolti e la faccia struccata. Era chiaramente una donna di cinquantun anni. Era bellissima. Sbadigliò e guardò nel corridoio, sbattendo le palpebre. «Un po' presto, no?» domandò. «Sono stato in piedi tutta la notte» disse Hawes. «Entra.»
Paula chiuse la porta e girò la chiave. «Sono esausto» la informò Cotton. «Ho pensato che magari potevo dormire sul tuo divano.» «Così è questo che hai pensato. Capisco.» «Ti va bene? Il fatto che dorma qui?» «Io sto ancora dormendo» precisò Paula. «Comunque vieni.» Lo prese per mano. «Poi vedremo.» Se stava parlando della fragilità dei rapporti sentimentali, Hawes sapeva tutto: ci era già passato. Se Paula gli stava suggerendo che la vita stessa è, nella migliore delle ipotesi, qualcosa di molto labile, Hawes sapeva anche questo: era un poliziotto. «Poi vedremo» concordò. «Ma che cosa sono, una specie di criminale?» domandò April. Rispondi alla domanda, le disse Teddy a segni. «Papà? Devo chiamare un avvocato?» Ottima mossa, pensò Steve. Mostra il tuo sorriso innocente e gli occhioni spalancati al vecchio paparino: ha sempre funzionato, dovrebbe funzionare anche adesso. Mr e Mrs America al tavolo della colazione con i loro amatissimi gemelli tredicenni, americani DOC... solo che uno di loro aveva fumato erba il giorno del suo tredicesimo compleanno. «Rispondi a tua madre» disse Carella. «Non ricordo più la domanda» obiettò April, e sorrise a Mark in cerca di approvazione. Mark continuò a infilarsi cucchiaiate di Cheerios in bocca. Hai fumato erba alla festa di Lorraine?, domandò Teddy. «Papaaà! Devo veramente rispondere a una domanda del genere?» Carella ci era già passato. Fin troppe volte. Durante troppi interrogatori di troppi criminali, nel corso di troppe notti nella stessa squallida sala agenti. Ma quello era il tavolo di casa sua, in una splendida mattina di sole di fine giugno, ed era sua figlia quella che stava facendo la furba. Steve conosceva già la risposta. Ci era già passato. «Tutti fumano un po' d'erba ogni tanto» osservò April. Risposta sbagliata. «April» disse Steve. «Rispondi alla domanda di tua madre.» La ragazzina emise un lungo, esasperato sospiro con gli occhi rivolti al cielo. «Sì» ammise. «Ho fatto qualche tiro...»
Tiro, pensò Carella. «... a una canna, va bene?» Canna, pensò Carella. «È una cosa così grave?» chiese April. Sì, rispose Teddy. «Be', mi dispiace, ma...» È una cosa grave. «Solo se voi...» In questa famiglia è una cosa grave. «Sei in punizione» annunciò Carella. «Ma dài, papà! Tutti i ragazzi del mondo...» «Non i miei ragazzi» l'interruppe Steve. Parlerò con la madre di Lorraine, disse Teddy. «Mi metterai in imbarazzo da morire!» Bene. Imbarazzati pure. «Comunque, la mamma di Lorraine non capirà un accidente di quello che dici. Non conosce il linguaggio dei segni. Lascia perdere, mamma, okay? Non trasformare questa storia in un caso federale!» Carella non aveva mai picchiato i figli in vita sua e non mollò un ceffone ad April neppure adesso, anche se era molto tentato. Invece, con calma, replicò: «Qui non siamo in una sala agenti, bada a come parli. Sei in punizione fino a nuovo ordine». «Ma ormai è il Quattro Luglio! Ci sarà una grande festa da...» «La perderai.» «E cosa dovrei dire a Lorraine? Santo cielo!» «La mamma e io parleremo con sua madre...» «No, non lo farete!» «... e le spiegheremo cos'è successo.» «Promettimi che non lo farete!» «Le parleremo, April.» «Vi butterà fuori di casa a calci.» «Se è intelligente, no» disse Carella. «Non crederà mai che...» «Glielo spiegheremo chiaramente.» April lanciò il tovagliolo sul tavolo. «Okay, fai pure la spia!» gridò. «Mettimi in punizione per sempre, non m'importa! Se pensi che questo m'impedirà di...» Stammi bene a sentire!, intervenne Teddy, alzandosi in piedi di scatto e
puntando l'indice contro sua figlia. Il discorso è chiuso, hai capito? Tu non toccherai mai più quella merda! Era la prima volta che April vedeva un simile fuoco negli occhi di sua madre, la prima volta che in sua presenza usava la parola "merda". Per un momento sperò che suo padre cambiasse idea, che alla fine la salvasse, sperò che almeno il suo gemello dicesse una parola in sua difesa. Invece no, intorno a quel tavolo la condanna era unanime e inflessibile. Nessuno l'avrebbe difesa. All'improvviso si vergognò di se stessa. Tuttavia non chiese scusa. «Immagino che sarà una lunga estate» sospirò. Si alzò in piedi, voltò la schiena a tutti e andò in camera sua. Una volta, da piccoli, se uno dei gemelli veniva sgridato, l'altro scoppiava regolarmente in lacrime. Mark non si mise a piangere. «Stai bene?» gli chiese Carella. «Mi sento uno spione.» «No» gli disse Steve. «Perché, sai, in un certo senso April ha ragione: tutti i ragazzi fumano erba.» «Tu no» ribatté Carella. Mark lo guardò. Poi annuì e tornò ai suoi Cheerios. Steve sperò che suo figlio avesse capito. Kling non aveva ancora telefonato a nessuna delle due. Alle dieci e mezzo di quel martedì mattina, dopo due ore di sonno, si preparò una tazza di caffè, camminò avanti e indietro per l'appartamento per circa quindici minuti e giunse alla conclusione che non sapeva ancora che cosa fare. Ma visto come andarono le cose, non ebbe bisogno di fare un bel niente. Le due donne della sua vita avevano già preso le rispettive decisioni. Fu Sadie Harris la prima a telefonare. «Ciao, Bert.» «Sadie?» fece Kling. «Ciao. Stavo proprio pensando di chiamarti.» «In realtà sono contenta che tu non l'abbia fatto. Avevi ragione, Bert.» «Avevo ragione?» «Io non faccio la bibliotecaria.»
«Ah, no?» «Sono una prostituta, Bert. Avevi ragione.» «Se mi stai prendendo in giro...» «No, no, te lo giuro. Ti ho mentito su tutto tranne che sul mio nome. Ti sei fatto un giro gratis perché sei così carino, ringrazia il cielo. Ma, date le circostanze... io nera, tu bianco... io prostituta, tu poliziotto... io Jane, tu Tarzan... non credo che dovremmo rivederci.» «Be', io non ne sono così sicuro...» «Io sì. Troppo rischioso dal punto di vista emotivo e da ogni altro punto di vista. Perciò... passa una bella settimana, stai attento sul lavoro e non rimorchiare più ragazze sconosciute nei bar. A proposito, io non ho malattie per cui ti debba preoccupare. Addio, Bert» disse Sadie, e riattaccò. Sharyn telefonò cinque minuti dopo. «Spero di non averti svegliato» esordì. «No, ero già alzato. Anzi, stavo proprio per...» «Ho riflettuto molto» disse Sharyn senza preamboli. «So che tu pensi che si sia trattato di un semplice malinteso, ma io credo che la cosa vada ben oltre. Credo che vada all'essenza stessa del nostro rapporto. Tu mi hai pedinata perché non ti fidavi di me.» «Mi ero sbagliato, lo ammetto. Mi dispiace per quello che...» «Non è questione di sbagli, Bert. Lo sappiamo tutti e due che ti eri sbagliato. È che tu, semplicemente, non ti sei fidato di me. E non ti sei fidato di me perché sono nera.» «No.» «Sì. È quello che penso ed è una cosa che non posso tollerare. Non hai avuto fiducia in me perché sono nera. È questo che non funziona. E forse è questo che non funziona in America, ma a me non interessa un accidente di cosa non funziona in America. A me interessa solo il modo in cui la cosa mi tocca personalmente. E so di non poterlo sopportare, Bert.» Ci fu silenzio in linea. «Ti ricordi cosa ci siamo detti dopo la prima volta che abbiamo fatto l'amore?» domandò Sharyn. «Sì, mi ricordo.» «Io ti ho detto: "Proviamoci sinceramente...".» «E io ho risposto: "Sì, proviamoci sinceramente".» «Bert.» La voce le si spezzò. «Tu non l'hai fatto» considerò Sharyn, e riattaccò.
12 Alle undici e cinque minuti di domenica mattina, Quattro Luglio, Patricia Gomez suonò il campanello dell'appartamento di Ollie Weeks. Indossava un paio di jeans, una camicetta di cotone bianco, sneaker rosse e sembrava una specie di scolaretta patriottica. Ollie aprì la porta. In tutta sincerità, non sapeva se quello che aveva dipinto in faccia era un ghigno predatorio o semplicemente un allegro sorriso di benvenuto. «Ciao, Patricia» disse. «Entra pure.» FINE